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PRIVILEGIA
NE IRROGANTO Documento inserito
il:4-6-2013 |
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NESSUNO SVILUPPO CON LA RIDUZIONE
DEL DEBITO Dott. Francesco Strocchia (strocchiafra@libero.it) Sommario: 1)
Introduzione 2) Effetti dell’introduzione dell’Euro 3) Le spinte
deflazionistiche conseguenti agli accordi di Maastricht 4) Il sovvertimento delle teorie economiche
consolidate 5) Gli effetti attribuiti all’indebitamento 6) Rientro
dall’indebitamento e sviluppo del sistema 7) Riflessioni conclusive 1)
Introduzione Negli ultimi tempi si va sottolineando da più
parti la prospettiva di un allentamento delle politiche economiche rigoriste
che da parecchi anni stanno imperversando nell’Europa dell’euro; difficile
stabilirne la reale portata e la relativa valenza, ma indubbiamente qualcosa
si sta muovendo in tal senso. Sono stati infatti concessi ad alcuni Paesi
maggiori dilazioni temporali per il riassorbimento del deficit di bilancio,
mentre si va proponendo anche di considerare maggiori casi di esclusione
dallo stesso degli investimenti, secondo una tecnica pur basilare e
consolidata, anche a livello economico-aziendale, ora detta della golden rule. Arduo, appunto, valutarne gli effetti
sull’economia reale, anche se pare si possa fare un’affermazione di fondo,
secondo la quale una sola, maggior dilazione dei termini per il c. d.
“risanamento di bilancio”, senza un mutamento netto e sostanziale delle politiche
economiche sin qui perseguite, avrebbe il solo effetto di posticipare
l’agonia dei sistemi economici europei, ormai allo stremo, afflitti da una
disoccupazione che supera i 25 milioni di individui, con pochi precedenti
nella storia, senza minimamente incidere sulle cause di fondo che l’hanno
determinata. Tale affermazione richiede tuttavia una disamina
delle relative cause, che paiono addirittura affondare le loro radici
primigenie, al di là pertanto di fenomeni di tipo casuale ed esogeno, nella
stessa concezione del fenomeno economico, riguardo alla sua essenza ed alle
sue connotazioni, così come sono andate maturando nell’evoluzione del
pensiero economico medesimo. Senza dubbio, infatti, la crisi che coinvolge i paesi
europei aderenti all’euro non può essere ricondotta ad una di tipo
congiunturale; essa è invece connaturata in senso strutturale ad un modello
di sviluppo evidentemente inadeguato; d’altra parte essa è riferibile, in
termini così tragici, alla sola Europa, mentre altri sistemi economici hanno
reagito o stanno reagendo ad una situazione nella quale la globalizzazione
dei mercati di produzione pone indubbiamente dei problemi di competitività. Non vi è
accordo, tuttavia, sulle cause che hanno prodotto una devastazione così profonda
e strutturale, mentre la relativa ricerca ed il loro acclaramento
appare essenziale per tentare di porvi rimedio. 2)
Effetti dell’introduzione dell’Euro Pur in estrema sintesi, si può affermare che l’euro
non è neppure una moneta nel senso tecnico dell’espressione. Ove lo fosse,
essa necessiterebbe di un’unione anche politica, con una banca centrale che
agisse da prestatore di ultima istanza, garantendo la necessità di assicurare
almeno un medio circolante necessario e sufficiente all’attuazione di
politiche economiche anche di sviluppo. Così non è, e pertanto, benché stampato e
circolante, esso possiede piuttosto i caratteri di una moneta soltanto virtuale,
atta ad attuare un regime di cambi fissi all’interno di un’area di libero
scambio. A fronte della creazione di tale moneta, i singoli Stati aderenti
hanno tuttavia dovuto rinunciare a tutti gli strumenti di politica economica
che hanno sempre rappresentato le tipiche modalità di intervento e di difesa
di ciascun sistema, cioè la stessa creazione di base monetaria e le relative
politiche, la regolazione del cambio, nonché l’utilizzo autonomo della
politica fiscale e di bilancio. Oltre alla cessione di sovranità conseguente,
l’adozione dell’Euro ha rappresentato una mediazione tra le monete forti dei paesi del Nord Europa e
quelle più deboli di quelli del Sud: la risultante è stato un accrescimento
netto di competitività dei primi a scapito dei secondi, con una conseguente
distorsione dei flussi finanziari, indirizzatisi dai secondi verso i primi,
che hanno accumulato omonime eccedenze, mentre in questi ultimi si sono
formati disavanzi strutturali e non soltanto congiunturali. Si può infatti
constatare che, non a caso, sono i Paesi dell’Europa del centro sud ad
accusare le maggiori problematiche, che si vogliono invece spiegare
esclusivamente con presunte carenze di competitività interna e di
organizzazione sul piano amministrativo. 3)
Le spinte deflazionistiche conseguenti agli
accordi di Maastricht Oltre a ciò, troppo spesso si trascura
l’influenza degli accordi di Maastricht sull’odierna situazione, mentre le
forti misure di rigore a questi riconducibili, particolarmente in tema di Patto
di stabilità, hanno determinato, con
la loro rigidità, una continua contrazione della spesa, anche degli enti
territoriali, con particolare riferimento a quella per investimenti. Il
risultato è stata una continua e lenta riduzione della correlativa domanda
globale di ciascun paese aderente, che, dapprima inavvertita e perciò
sottovalutata, ha in primo luogo determinato un blocco dello sviluppo e
successivamente un precipitare verso stadi recessivi veri e propri dei
relativi sistemi economici. Del resto
ciò avrebbe dovuto ritenersi già scontato, a causa della logica perversa
dell’effetto demoltiplicativo conseguente alla
continua riduzione della domanda interna per consumi e investimenti. Gli accordi di Maastricht, pertanto, si
inquadrano in una logica che trascura del tutto l’influenza della domanda
aggregata sull’equilibrio e sullo sviluppo dei sistemi economici, e la loro
gravità sta appunto nell’aver ignorato principi che pur avrebbero dovuto
ritenersi consolidati, alla luce delle dottrine economiche elaborate nel
corso del XX secolo, oggetto anche di sperimentazione attraverso il
superamento, grazie alle stesse, della crisi del ’29. 4)
Il sovvertimento delle teorie economiche
consolidate Pare potersi a questo punto affermare che le
cause sin qui sommariamente analizzate – il change over tra le monete nazionali e l’Euro, in assenza di adeguati
correttivi, le carenze strutturali di quest’ultimo, nonché gli effetti
deflazionistici conseguenti agli accordi di Maastricht – possano già
ritenersi necessarie e sufficienti per spiegare la stato attuale delle
economie europee; altre, più specifiche, come la crisi stessa del 2008, può
aver solo concorso ad acclarare disfunzioni già strutturalmente esistenti,
agendo con le stesse in maniera sinergica. La gravità delle decisioni adottate a Maastricht
non sta, tuttavia, soltanto nello specifico ambito di riferimento operativo,
ma va inquadrata in un mutamento profondo della stessa concezione del
funzionamento e dell’equilibrio dei sistemi economici. Lo scopo dell’avvenuta fissazione di limitazioni
al deficit di bilancio di ciascun Stato era da ricercarsi nel fatto – da
ritenersi di per sé temporaneo -
dell’inesistenza di un bilancio unico europeo, per cui ognuno di
questi dovesse regolarsi in modo che lo stesso, ancorché non redatto
effettivamente, presentasse comunque un deficit consolidato programmato. Tale
procedura, ancorché condivisibile di per sé ove applicata in termini
sostenibili, è stata tuttavia eccessivamente prolungata, ma soprattutto,
imponendo limitazioni troppo anguste alle possibilità di sviluppo, ha
significato una cosa ben più grave: l’affermazione, cioè, tradotta in misure
di politica economica, che le domande globali dei sistemi economici non fossero
da ritenersi rilevanti e che quindi si potessero, senza effetti rilevatisi
poi devastanti, procedere a continue e massicce misure di contenimento delle
stesse. E’ questo il punto veramente cruciale, implicando
una rottura con tutto il pensiero economico
venutosi a creare praticamente nel corso del XX secolo, nel quale sono
state le teorie keynesiane a porre l’accento sulla rilevanza proprio della
domanda globale, accanto alla correlativa offerta, per l’equilibrio, inteso
in termini dinamici, del sistema economico. Domanda e offerta globali, infatti, costituiscono
i due pilastri su quali si regge ogni economia; non può pertanto ignorarsi né
l’una né l’altra, anche se la prima, in una situazione di forte progresso
tecnico e di capacità produttiva inutilizzata, tende più che mai ad assumere
una valenza fondamentale. Tale non era, del resto, la tesi sostenuta
dall’economia classica, con riferimento soprattutto alla fine del XIX secolo,
che sottolineava, invece, la capacità dell’offerta nella creazione della
propria domanda (legge di Say), rimarcando
unicamente l’importanza della prima a fini di sviluppo. Ciò può tuttavia ritenersi ammissibile con
riferimento a mercati separati, che hanno costituito la metodologia di
osservazione degli economisti classici, ma non a livello macroeconomico, per
il quale la sovrapposizione dei ruoli tra i vari soggetti operanti nel
sistema economico assegna alla domanda aggregata un ruolo preminente per lo
sviluppo, così come, in senso opposto, per la formazione di spirali
recessive. Il disconoscimento del ruolo fondamentale della
domanda all’interno del sistema economico, focalizzandosi, invece,
prevalentemente sull’offerta, è stato recepito da un folto gruppo di
economisti, che potrebbero pertanto definirsi esponenti di una “nuova
economia classica”. Il loro pensiero è accomunato da una mentalità
che intende ispirarsi appunto a quella diffusa alla fine del XIX secolo, la
quale, in assenza di una produzione industriale di massa, nonché di un
settore terziario e di un welfare
diffuso, poneva la propria focalizzazione prevalentemente sulle condizioni
dell’offerta e sui relativi regimi di mercato. Oggi non è più così: la produzione di massa, la
terziarizzazione dell’economia, nonché la stessa esigenza di un accettabile welfare, rendono ogni sistema
economico maggiormente interdipendente anche al suo interno e sempre meno
assimilabile allo stereotipo di una lunga catena di montaggio nella quale il
conseguimento di taluni risparmi di produzione rappresenta la leva per la
creazione di un maggior benessere. E’ vero invece il contrario: ogni risparmio
realizzato, in termini occupazionali o di relativi costi, quasi rifacendosi
ad una sorta di “controllo di gestione”, impone l’allocazione delle
corrispondenti risorse in altri comparti del sistema, pena la caduta della
domanda ed il concretizzarsi di tensioni deflazionistiche; coloro che
sostengono il contrario sono gli adepti di una mentalità mercantilista, che
tende sempre più a considerare il sistema economico secondo una logica di
tipo aziendalistico, nel quale sono essenziali le sole leggi dell’offerta,
puntando su una domanda esogena al sistema. La loro visione è perdente, come
lo sono già state quelle analoghe nel corso della storia, anche se,
nell’odierna fase di globalizzazione, si tende a riproporre indubbiamente
l’assimilazione di ciascun sistema economico, a fronte di quello
globalizzato, alla stregua di uno derivato, quali sono sempre state le
aziende nei confronti del proprio. Ne deriva una visione essenzialmente tecnocratica,
in spregio all’economia intesa come scambio, la quale ultima tende tuttavia,
per legge naturale, comunque a riproporsi, non appena ci si accorga che le
politiche mercantiliste medesime tendono ad annullarsi da sole, in termini di
reciprocità, ponendo nuovamente la necessità di riformulare le condizioni di
equilibrio attraverso il ripristino di un livello fisiologico della domanda
interna. Quest’ultima assume pertanto, nei sistemi
economici evoluti, un ruolo essenziale, sempre da salvaguardare, perché è
essa stessa a determinare – se si eccettuano le problematiche di lungo
termine relative alla disponibilità delle fonti energetiche – la convenienza
a produrre in vista di un fisiologico scambio di beni e servizi. Come già accennato, invece, le politiche attuate
negli ultimi decenni in Europa sono sempre state improntate a tagliare la
domanda medesima, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non dovrebbe invece mai neppure pensarsi, in una
fase recessiva, ad una contrazione della spesa pubblica, specialmente
attraverso tagli unicamente lineari, togliendo ulteriore potere di acquisto
dal sistema quando questo ne avrebbe assoluto bisogno; sarebbe, invece, sempre
opportuno un ridimensionamento di quella improduttiva, ma riconvertendola,
per volumi almeno invariati, in una maggiormente produttiva, preferibilmente
per investimenti. Si raccomanda, invece, da più parti, una
contrazione della spesa pubblica medesima, coniugata ad una correlativa dell’imposizione
fiscale. E’appena il caso di
notare che a ciò corrispondono effetti depressivi netti per la domanda
aggregata: tra i due moltiplicatori, infatti, quello negativo conseguente
alla minor spesa pubblica prevale come valenza su quello positivo,
riconducibile al maggior reddito disponibile, nel caso di un bilancio statale
con prevalenza di imposte dirette (teorema del bilancio equilibrato o di Haavelmo, riferito a manovre deflazionistiche). Una minor spesa pubblica, pertanto, quantunque
coniugata a riduzioni di imposta, esercita sul sistema economico, nel caso di
prevalenza di imposizione diretta, un effetto netto deflazionistico sulla
domanda globale. 5)
Gli effetti attribuiti all’indebitamento Tra le cause alle quali sarebbe riconducibile la
situazione di crisi strutturale in cui è precipitato particolarmente il
nostro Paese viene prevalentemente annoverato l’alto livello di indebitamento
pubblico, adducendo anche, a conforto di tale assunto, le pubblicazioni di Reihart-Rogoff, secondo le quali uno Stato che abbia un
rapporto debito/pil superiore al 90 per cento
vedrebbe compromesse le proprie possibilità di crescita. Mentre tale tesi è stata di recente severamente
criticata come non veritiera, già in via deduttiva si può sostenere che il
livello del debito pubblico, di per sé, non ha in generale quella valenza
così drastica per la crescita di un sistema economico che ad esso si intende invece
riconnettere: ciò perché gli interessi sullo stesso, ove classato presso
soggetti residenti, attuano una compensazione, in termini aggregati, col
carico tributario, rappresentando soltanto una partita di giro (principio di
Ricardo); essi determinano pertanto un carico tributario effettivo diverso da
quello conseguente alle aliquote nominali d’imposta, ma, proprio per questa
loro valenza in termini soltanto differenziali, non possono costituire, di
per sé, un ostacolo diretto per lo sviluppo del sistema economico. A maggiori interessi corrisposti sul debito
pubblico corrisponde certamente un più alto livello di tassazione, ma, pur a
fronte di un effetto redistributivo del carico tributario medesimo, è soltanto
quello netto a determinare la dinamica del sistema, influenzando per pari
importo la domanda globale. E’ ben vero, tuttavia, che la maggior pressione esercitata
sui mercati finanziari tende, in tal caso, a determinare un livello
mediamente più alto dei tassi di interesse, creando un effetto di
spiazzamento (crowding out) a favore dello Stato, ma è
lecito ammettere che, in una situazione di globalizzazione dei mercati, tale
livello possa ritenersi soltanto parziale, o comunque da valutarsi unitamente
alle altre variabili economiche. Un alto livello di indebitamento pubblico può
comportare, invece, rischi di altro genere, comuni a qualsiasi debitore che debba
rinnovare i propri debiti: esso si espone indubbiamente ad un rischio di dipendenza
dai mercati, dovendo comunque accettare il livello dei tassi di interesse
correnti al momento del rinnovo dei propri debiti, così come può incorrere in
possibili pressioni speculative dei mercati medesimi ed anche in manovre a
danno dei propri titoli, siano esse motivate o non. Un grande debito pubblico, pertanto, determina
certamente un rischio in tal senso, tuttavia tanto minore quanto più esso è
detenuto da soggetti residenti, ma non può costituire, per quanto detto, un
ostacolo che possa seriamente ledere le possibilità di sviluppo del sistema
economico. Al contrario, invece, un paese fortemente
indebitato non può assolutamente permettersi il lusso di non crescere, perché
potrebbe ingenerare nei mercati una sensazione di rischio maggiore di altri;
perciò l’Europa, dopo avere imposto politiche contrarie alla crescita, non
dovrebbe incolpare di ciò quei Paesi che siano incorsi in situazioni di
rischio a ciò conseguenti, negando, in termini minimali, un eventuale sostegno
automatico e senza condizioni, in situazioni chiaramente speculative, alle
quotazioni dei titoli del debito pubblico degli Stati aderenti. 6)
Rientro dall’indebitamento e sviluppo del
sistema Se gli effetti di un pur cospicuo debito
pubblico, soprattutto se detenuto in gran parte da soggetti residenti, non
esplica quegli effetti così disastrosi sul sistema economico che molti
continuano a ritenere, le manovre di rientro da tale indebitamento possono,
esse sì, risultare veramente micidiali; e ciò per quanto già affermato a
proposito delle condizioni di equilibrio macroeconomico del sistema, che non
può tollerare una deflazione della domanda superiore a certi limiti di
sostenibilità, conseguente agli alti livelli di tassazione a ciò necessari. Anche qui, sono i nuovi economisti classici a
sostenere che il risanamento delle finanze pubbliche debba precedere ogni
sostenibile sviluppo. In realtà, tale risanamento, ove inteso in termini di
riduzione dell’indebitamento accumulato, si pone in assoluta dicotomia con lo
sviluppo medesimo, lasciando andare il sistema sempre più in recessione; ciò
a meno che non si innesti in un ciclo di sviluppo consolidato, nel quale si
possono invece utilizzare le maggiori risorse emergenti per una seria
politica di rientro sostenibile dall’indebitamento medesimo, perseguendo nel
contempo effetti perequativi dello stesso andamento ciclico. In tale ultimo quadro il rapporto debito/pil potrebbe effettivamente segnare una riduzione, sia per
l’accrescimento, in termini reali, del denominatore, sia per quello dovuto ad
un livello inflazionistico comunque controllato che diverrebbe sinergico
all’obiettivo posto. Del resto, al di là di manovre straordinarie per
la riduzione dell’indebitamento pubblico, spesso attuate nella storia, e che
si sperava di non rivedere più, pare non si sia mai neppure posta la
soluzione di ridurlo gradualmente, in dosi massicce, proprio per il conflitto
estremo che si viene a porre tra tale modalità e le possibilità di sviluppo
del sistema. Pone pertanto serie perplessità l’avvenuta
accettazione, da parte del nostro Paese, della condizione di ridurre, in un
ventennio, l’eccedenza rispetto al 60 per cento del Pil,
in base al fiscal compact, così
come si evidenzia il persistere, soprattutto a livello europeo, di quella
mentalità totalizzante, ispirata alla nuova economia classica, che continua,
pur a fronte della grave situazione creata, a ribadire la sostanziale irrilevanza
della domanda per l’equilibrio e lo sviluppo dei sistemi economici. La destinazione di risorse alla riduzione
dell’indebitamento crea infatti una diffusa deflazione, a causa
dell’eccessivo carico tributario che richiede, riducendo il reddito
disponibile e deprimendo in tal modo consumi e investimenti. La risultante – tenuto conto anche dell’entità
della manovra tributaria a ciò specificatamente necessaria, pari ad oltre 50
miliardi annui per un ventennio – non potrà che essere un immane processo demoltiplicativo della domanda che porterà ineluttabilmente
il sistema verso una condizione di diffusa povertà. Né si può addurre alcun presunto effetto benefico
conseguente alla riduzione del peso degli interessi, inteso quale risanamento,
per il futuro di un sistema per il quale non sarebbe neppure configurabile
alcuna possibilità di competitività e
di ripresa. Ma, al di là dell’accettazione del fiscal compact, emergono anche nella
legislazione interna taluni punti che evidenziano il persistere di tale
mentalità convenzionale, evidenziando un pari favor verso la riduzione
dell’indebitamento, piuttosto che indirizzarsi, in luogo di ciò, verso
l’investimento e la produzione. Anche nella legge 24 dicembre 2012, n. 243, di
attuazione del principio costituzionale del pareggio di bilancio – sul quale
non si esprime qui alcuna valutazione – talune disposizioni si pongono nella
stessa ottica: in particolare l’art. 9, comma Del resto, l’art. 8, comma 1, legge 12 novembre
2011, n. 183, già prevedeva che gli enti locali dovessero ridurre lo stock del debito eccedente quello pro-capite stabilito in un apposito
decreto emanando, secondo modalità fissate dallo stesso; a tutt’oggi la norma
non è operativa, in assenza di tale decreto applicativo, ma resta comunque la
constatazione di fondo di una filosofia sempre alternativa allo sviluppo,
mentre anche le disposizioni fissate nella citata legge n. 243/2012 possono
porre seri problemi, anche alla finanza locale, riducendo ulteriormente la capacità
di indurre una qualche possibilità di sviluppo. 7)
Riflessioni conclusive L’assunto qui sostenuto relativamente alle cause
dell’odierna recessione negli Stati europei aderenti all’Euro, non a caso
particolarmente grave in quelli del centro-sud, giunge ad identificarne solo
alcune, ritenendole beninteso non le uniche, ma comunque quelle con maggior
valenza di fondo. Il change over tra
le monete nazionali e l’euro, penalizzante proprio per i paesi ora maggiormente
in crisi, ne costituisce una certamente rilevante e di carattere strutturale;
accanto a questa, si pone la mancata realizzazione dell’euro come moneta vera
e propria, in grado di stimolare lo sviluppo e l’aggregazione dei sistemi
economici, piuttosto che attuare politiche praticamente solo deflazionistiche.
Ma è certamente la nuova cultura economica che porta a disconoscere ogni
importanza al secondo pilastro di ogni sistema economico – la domanda – a
rappresentare emblematicamente una filosofia regressiva verso stadi del
pensiero economico che si credevano ormai superati. Pertanto, se si è inizialmente posto in risalto
un allentamento possibile delle politiche economiche improntate al rigore,
ciò può rappresentare ben poca cosa ove non si cambi radicalmente
l’approccio, constatando come le tesi sostenute dalla nuova economia classica,
con la loro puntuale attuazione nelle politiche medesime, abbiano portato l’Europa sull’orlo di un
baratro. Si sono invece disconosciute le teorie
keynesiane, che hanno significativamente trovato spazio nel XX secolo, pur a
fronte del successo che Ciò avrebbe dovuto caso mai promuovere una
sintesi nell’evoluzione del pensiero economico, introducendo principi atti a
determinare uno sviluppo sostenibile, in termini di finanza funzionale
controllata, soprattutto attraverso misure anticicliche basate proprio sulla
regolazione della domanda, nelle quali avrebbe potuto innestarsi, nelle fasi
espansive dell’economia, una politica di controllo e di riduzione dell’indebitamento
precedentemente contratto. La rottura totale che si è invece creata ha riportato
indietro l’orizzonte del pensiero economico, focalizzandolo verso modelli
ancestrali, solo astrattamente riproponibili, pur col loro fardello di dogmi
e di limiti, già abbondantemente evidenziati nel corso della storia. Da qui l’immaginare che il fenomeno economico
consista, in ogni caso, soltanto nella ricerca del costo di produzione che
minimizzi comunque l’utilizzo delle risorse, come pur validamente sostenuto,
a livello microeconomico, proprio dagli economisti classici; principio che se è comunque applicabile a
tale ambito, viene tuttavia a mutare di valenza a livello macroeconomico,
laddove l’utilizzo di tali risorse interagisce con la stessa possibilità di
collocare la produzione attuata. Immaginando l’intero sistema economico appunto
come una sorta di catena produttiva, da razionalizzare soltanto, minimizzandone
i costi, si dimentica che gli addetti rappresentano, invece, al tempo stesso,
anche i destinatari finali: ecco la scomparsa, pertanto, di uno dei due
pilastri fondamentali, appunto la capacità di spesa di questi, parte della domanda globale del sistema. Si spiegano così le politiche deflazionistiche predisposte
a Maastricht, l’irrilevanza sostanziale per le manchevolezze tecniche
dell’euro, nonché la stessa concezione vincolistica al pareggio in tema di
bilanci pubblici, anche per le spese di investimento, attuata nel nostro
Paese con modifiche addirittura costituzionali,
pur in assenza di adeguate garanzie sostitutive, delegate all’Unione europea,
per le necessarie politiche di indebitamento e di sviluppo, e che pertanto
rischia di rappresentare un’ulteriore cessione di sovranità senza sicure
contropartite. Tuttavia, la filosofia di fondo, emergente non
solo dal fiscal compact, ma diffusa
anche nella legislazione interna, che antepone, in linea generale, la
riduzione del debito in essere piuttosto che destinare le relative risorse
alla produzione ed all’investimento, assume una particolare gravità. Essa non è infatti riferita a situazioni singole,
nelle quali potrebbe ben risultare comparativamente conveniente un rimborso
anticipato di un debito contratto, ma lo fa in modo astratto, prescindendo da
ogni valutazione del caso concreto. Sottrarre risorse, in linea generale, alla produzione ed
all’investimento, credendo di poterle così alternativamente destinare, significa
infatti snaturare il fine stesso dell’attività economica nella sua essenza di
base, negando veramente, in tal modo, un futuro per le successive
generazioni. Riguardo alle disposizioni riferibili in
proposito agli enti territoriali, già accennate, la riduzione anticipata
dell’indebitamento, al di là dei piani di ammortamento predisposti,
riportandolo al di sotto di determinati parametri, determinerebbe un aumento
dell’imposizione fiscale locale, facendo affluire fondi, prima delle relative
scadenze, direttamente agli enti creditizi e finanziari mutuanti. Nel caso dello Stato, poi, i fondi affluiti con
l’imposizione fiscale centrale potrebbero essere utilizzati per consentire lo
smobilizzo dei titoli pubblici classati anche presso lo stesso sistema
creditizio, procedendo quindi al loro annullamento. Tali operazioni, tuttavia, mentre
rappresenterebbero un vantaggio immediato per quest’ultimo, risulterebbero,
al solito, particolarmente nella situazione attuale dell’economia, ma anche
per il loro ammontare certamente cospicuo, oltremodo deflazionistiche sulla
domanda globale, penalizzando, nel contempo, lo stesso sistema creditizio, sì
da non consentire ad esso di fornire, in un quadro fisiologico e con rischi
preventivabili, i fondi necessari alle imprese, proprio per la recessione
ancora più profonda che si sarebbe venuta a creare. Vasto e profondo appare pertanto il cambiamento necessario,
prima nella mentalità dell’approccio e successivamente nelle modalità
operative, onde evitare che i sistemi economici europei si avvitino ancor più
in spirali recessive senza ritorno, per il cui fronteggiamento,
in assenza di parametri economici compatibili con uno sviluppo sostenibile, a
nulla varrebbero le c. d. “riforme”, da più parti auspicate, ma che,
rischiando di non cogliere l’essenza della problematica, risulterebbero quanto
meno inutili, pur potendo anche, come spesso accade di fronte alla necessità
dell’agire urgente, risultare deleterie e oltremodo penalizzanti. Giugno 2013
Francesco Strocchia |
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