PRIVILEGIA
NE IRROGANTO Documento
inserito il: 15-4-2013 |
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Da http://www.linkiesta.it/ 14-4-2013 Goldman Sachs, regina fragile e oscura di Wall Street. La banca più famosa di Wall
Street si scopre sempre più precaria. E cerca l’Asia per sopravvivere Fabrizio Goria
«Sai
che cosa siamo noi?». «No, dimmelo tu». «Noi siamo gli artefici di tutto
questo, di tutto quello che vedi: noi siamo degli dei». «Ridillo». «Noi
svolgiamo il ruolo di Dio. Non dimenticarlo mai». Lloyd
Blankfein non è un banchiere normale.
La sua non è una banca normale. Lui è a capo della regina di Wall Street. Forse non sarà la banca più grande in
assoluto. Forse non sarà quella con la storia più prestigiosa. Ma qualsiasi
persona che pensa all’universo bancario mondiale non può che pensare a
Goldman Sachs. Blankfein è il capo degli “uomini
d’oro” della finanza globale e allo stesso tempo è colui che deve portali
lontano dalla fragilità di cui è vittima l’istituto bancario, che deve
traghettarli lontano dalle acque pericolose. Le stesse acque che sono diventate
la croce e la delizia di Goldman Sachs e in cui solo i più forti possono
navigare. “Tutti
per uno, uno per tutti”, scriveva Alexandre Dumas padre.
Il motto dei Quattro moschettieri si adatta alla perfezione a quello che è
Goldman Sachs. «Prima che un’istituto di credito è
una famiglia, un clan, un branco. Chiunque ci entri sa che nulla sarà mai più
come prima», dice a Linkiesta
Marc, giovane trader francese che lavora nella divisione Fixed
income di Londra. Parole che ricordano quelle dette
nel novembre 2011 da Kevin Kennedy, il direttore della divisione Risorse
umane: «Una persona che diventa uno degli uomini Goldman è una persona
diversa, dato che sa può contare su una famiglia a livello internazionale».
Ed è vero. Scelti
nelle migliori business school internazionali, gli
“uomini d’oro” forse non sono quelli più bravi del circondario.
Il primato, secondo molti osservatori dei mercati finanziari e delle loro
dinamiche, spetta ai ragazzi di Morgan Stanley. Ma c’è un primato che i
dipendenti di Goldman Sachs hanno su tutti gli altri: la capacità di fare
rete, di essere e sentirsi una famiglia. Questa è una delle principali
ragioni del successo di questa banca, che è diventata l’emblema di una crisi,
la peggiore dell’ultimo secolo. «È come se a Goldman Sachs abbiano imparato a
memoria tre film, “Wall Street”, “American Psycho” e “Boiler Room”, e li abbiano trasportati nella
pratica», ha scritto Tyler Cowen, professore di
Economia alla George Mason University. Le ragioni
sono facili da intuire. Giovani
ipervitaminizzati e affamati di soldi, bella vita e
potere sono stati utilizzati per far crescere la banca
a più non posso. Il risultato finale è un colosso dalle fondamenta precarie,
proprio come J.P. Morgan. Se la banca di Jamie Dimon
è quella più sistemicamente rilevante, quella di Gary Cohn
e Lloyd Blankfein è quella con più allure. Non
solo. Goldman Sachs è la banca più influente a livello politico. Come ha
scritto nel 2008 il Nobel per l’Economia Paul Krugman
«quella non è una banca, è l’anticamera per un posto di primo livello in
politica». Gli
esempi, del resto, si sprecano. Da Mario Draghi, numero uno della Banca centrale
europea, a Mario Monti, attuale presidente del Consiglio, passando per
innumerevoli segretari del Tesoro statunitense e capi di governo in altri
Paesi, la rete di Goldman Sachs è tanto estesa quanto radicata nella società.
Colpa, forse, della mentalità che ha sempre avuto la banca, che ha spinto
sulla ricerca dell’eccellenza fin da quando, nel secolo scorso, creò il Block trading, l’anticamera della negoziazione over-the-counter. O come quando introdusse nuovi sistemi di
scambi, nuove piattaforme, nuovi modelli econometrici, nuovi paradigmi.
Tuttavia, tutto ha un limite. Anche i sogni. E il sogno di Blankfein, quello di fare di Goldman Sachs la più
importante banca del mondo, non sarà raggiunto. La
crisi subprime ha colpito nel cuore Goldman Sachs.
I mutui a rischio insolvenza che erano in pancia alle banche commerciali sono
stati presi, impacchettati nelle Collateralized debt obligation (Cdo) e rivenduti sui mercati internazionali come se nulla
fosse. Alto rischio, alto rendimento. Tutto bene, fino a quando il gioco è
durato. Poi tutto si è rotto. Il castello di carte su cui era basata buona
parte del business di Goldman Sachs è caduto sotto i colpi dei subprime e del Dodd–Frank Wall Street Reform and Consumer
Protection Act, la
riforma finanziaria statunitense introdotta nel 2010. «Nessuno la voleva -
dice Marc a Linkiesta
- e la lotta dei lobbisti è stata intensa, alla fine però ha vinto
Washington, anche se di poco». Infatti una delle mosse più controverse del Dodd-Frank Act, ovvero la Volcker Rule che vieta il proprietary trading (la negoziazione in conto proprio, ndr)
è stata facilmente aggirata dalla Multi-Strategy Investing (MSI) di Goldman Sachs, guidata da Daniel
Oneglia e Geoff Adamson.
Forti le critiche del Congresso, poche modifiche finali allo Special Situations Group (SSG), il cuore delle attività più
rischiose (e quindi più remunerative) della banca, all’interno del quale fa
parte il team di MSI. Risultato? Nonostante le controversie, il capo di
Goldman è ancora al suo posto. La
storia di Lloyd Blankfein è uno degli esempi del
sogno americano. Figlio di un postino e di una receptionist, il
piccolo Lloyd fa di tutto per diventare un pezzo da novanta. Studia ad
Harvard e contribuisce alla retta facendo i lavori più disparati. È di
origini umili, lo sa e non lo nasconde. Anzi, come dirà un giorno Jamie Dimon, numero uno di J.P. Morgan, Blankfein
è un miracolato. «Nessuno fa strada così velocemente senza vendere l’anima al
diavolo», dice Dimon. Invidia? Forse sì. Per
Blankfein, ma soprattutto per Goldman Sachs, le
grane sono state tante. Troppe. Si inizia con quella più grossa, ovvero
Abacus 2007-AC1. In mezzo ci finisce Fabrice “Fabulous Fab” Tourre, un giovanotto francese che se non fosse stato per
Abacus 2007-AC1 sarebbe passato alla storia per le sue avventure galanti.
Invece no. “Fabulous Fab”
era il gestore di Abacus, creato appositamente su indicazione di John Paulson, fondatore dell’omonimo hedge fund. Obiettivo? Shortare con estrema aggressività l’intero Abacus.
Peccato che poi se ne accorse la Securities and exchange
commission (Sec), l’organo di vigilanza finanziaria
statunitense. La storia finirà con un patteggiamento che sa di beffa: 550
milioni di dollari. E poi altri patteggiamenti, altre presunte frodi ai danni
dei consumatori. Infine il caso ellenico. Goldman
Sachs ha aiutato la Grecia a rendere più leggero i propri conti pubblici.
In altre parole, mistificarli. «Difficile biasimare la banca, e i suoi
dipendenti, per quello che è successo», dice un funzionario della Commissione
europea a Linkiesta. «Loro hanno risposto a una
domanda e hanno fatto il loro lavoro, l’input è partito dal governo ellenico
e Goldman Sachs pare gli abbia fatto l’offerta migliore», dice. Tanto è
bastato, tuttavia, per riportare la banca di Cohn e
Blankfein agli onori delle cronache. «Sono degli
squali senza scrupoli», scrisse Libération nei giorni neri di Atene. Facile
attaccare, difficile capire in che modo l’intero universo finanziario sta
mutando. Al
giorno d’oggi la spinta riformatrice non si è fermata. Da
un lato Main Street. I cittadini, i dipendenti
statali, i muratori, gli idraulici, gli insegnanti, la maggior parte della
gente comune. In altre parole, il 99% degli Usa. Dall’altro, l’1 per cento, Wall Street. Gli eccessi, gli estremi, il lusso, i jet
privati, i maxi bonus, le donne. Due mondi che solo in pochissimi casi si
possono incontrare. Due mondi che difficilmente possono convivere. Due mondi
che però si sono incrociati in diverse occasioni dal 2007 a oggi, da quando è
scoppiata la bolla del mercato immobiliare statunitense, drogato dal credito
facile di Alan Greenspan, dal 1987 al 2006 a capo
della Federal Reserve, e galvanizzato da quei
mutui, i subprime, concessi a chiunque. L’obiettivo
era quello di permettere a tutti i cittadini americani, e non solo, di poter
avere un’abitazione di proprietà. «È parte del sogno americano e noi lo
possiamo esaudire», disse nel corso del 2004 Frank E. Nothaft,
vicepresidente di Freddie Mac, una delle due
agenzie paragovernative statunitensi che curano il mercato dei mutui. La
realtà è stata però ben diversa del sogno. E il collasso, o forse
bisognerebbe dire l’implosione, dell’universo immobiliare americano ha avuto
un impatto spaventoso anche su Goldman Sachs. La
West Point della finanza a stelle e strisce creata da Marcus Goldman e Samuel
Sachs ha iniziato a soffrire. Il calo della
profittabilità dei mutui, ma soprattutto dei prodotti finanziari collegati,
ha fatto declinare il modello di business che la regina di Wall Street aveva introdotto. Trading avanzato sui Cdo, sulle Asset-backed securities, su Collateralized loan obligation, su qualsiasi
strumento fosse negoziabile. Troppi i rischi, troppa la vigilanza senza
scrupoli. Come dice a Linkiesta
un trader della divisione Credit Derivatives «il
problema non è la regolamentazione, ma la voglia di rivalsa politica che sta
dietro alle decisioni della Casa Bianca e del Congresso». In altre parole, per
dimostrare a Main Street che la sua nemesi, quella Wall Street senza pudore e senza etica che ha creato la
crisi, è corrotta e deve essere punita, i politici americani stanno facendo
di tutto. Gli effetti sono però opposti a quelli voluti. La
grande crisi ha colpito anche Goldman Sachs.
La migrazione silenziosa da New York all’Asia sta continuando, cercando di
minimizzare gli effetti del riequilibrio globale dell’economia. Il deleveraging sta proseguendo. Non è più possibile
continuare con lo stesso modello di business che si è sempre portato avanti
dagli anni Ottanta a oggi. Il trading sempre più spinto è finito. Ne è
consapevole anche Blankfein che, durante l’ultimo
World Economic Forum di Davos, ha pubblicamente
ammesso che sono stati fatti diversi errori nella gestione delle attività da
parte della banca. Allo stesso tempo ha però sottolineato come non sia
possibile convertire un gigante come Goldman Sachs (e il riferimento vale per
tutte le altre grandi banche mondiali) nell’arco di uno o due anni. Occorrono
decenni prima di un cambio radicale come quello che serve. L’economia
mondiale sta mutando, le banche idem. Il
futuro di Goldman Sachs, per stessa ammissione dei vertici,
è destinato a diventare ancora più eterogeneo. La ricerca delle opportunità
più disparate in giro per il globo, uno dei capisaldi della banca, sarà
aumentata. Sarà continuata quindi la tradizione introdotta da Jim O’Neill, capo di Goldman
Sachs Asset Management, e ideatore dell’acronimo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) nel
lontano 2001. Nuove frontiere, nuovi orizzonti. Ma anche nuovi rischi, nuovi
azzardi e nuovi squilibri. È questo ciò che attende la regina fragile di Wall Street. Blankfein è sicuro
che la fortuna non mancherà a Goldman Sachs. Ma come scrisse Publilio Siro nel primo secolo avanti Cristo, «fortuna
vitrea est; tum cum splendet, frangitur». Tradotto:
la fortuna è come il vetro, così come può splendere, così può frangersi. |
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