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Il Foglio 10
febbraio 2013 Il broker d’Europa. L’epopea dell’homme d’influence Monnet.
“Vogliamo creare un superstato senza che la gente se ne accorga”
La storia politico-tecnocratica del prototipo di Monti
Dall’intuizione di Monnet nacquero la Ceca (Comunità europea per il
carbone e per l’acciaio), la Ced (Comunità europea
di difesa), il
Mercato comune, il Mercato unico, l’euro e il trattato di Schengen.
Ovvero dalla Seconda guerra mondiale la politica ufficiale delle democrazie
vincitrici. Ovunque c’è inciso il nome di Jean Monnet. Secondo François Duchêne, che fu assistente del celebre funzionario
francese, “sarebbe naïf indicare un solo leader che ha forgiato la nuova
Europa, ma Jean Monnet è certamente quello che più
ci si avvicina”. Per questo Monnet oggi riposa tra
gli immortali del Pantheon francese. Alla deposizione delle sue ceneri nel
monumento dove sono custodite anche quelle di Voltaire, Rousseau, Victor Hugo
ed Emile Zola, erano presenti capi di stato, capi di governo e ministri degli
Esteri. Insomma tutta l’Europa dei dodici. Fu un rito di messianesimo
laico in occasione del centesimo anniversario della nascita del primo
presidente della Ceca che per trent’anni, fino alla sua morte nel 1979, aveva
consacrato la sua attività alla costruzione dell’Europa. Il barone Robert Rothschild
disse
che “Monnet non è né un politico né un pubblico
ufficiale, ma una categoria a parte”. Alcuni lo hanno chiamato il “vate
dell’Unione europea”, altri semplicemente “Mr. Europe”, altri ancora il
“santo laico” che ha forgiato le fondamenta politiche e ideologiche del nuovo
Vecchio continente. Monnet non fece mai parte di
governi eletti, ma come scrive Duchêne, “veniva
giudicato in possesso di un potere occulto, cospiratorio, misterioso, quello
del tecnocrate”. “Monnet
faceva parte di una élite intellettuale che fu la reazione post bellica
contro il nazismo”, ci spiega Roger Scruton, il
filosofo conservatore inglese che ha dedicato molte pagine alla figura di Monnet. “Questa élite ha lavorato in segreto ed era
formata da intellettuali come Alexandre Kojève, il
vero ispiratore della prima generazione di tecnocrati e civil
servant. E’ un fenomeno che nasce dalla Rivoluzione
francese, dall’idea cioè che il governo debba restare nelle mani di una
élite. Monnet era machiavellico, desiderava cioè
influenzare il processo decisionale e il suo diabolico progetto ha avuto un
successo immenso. Il collaboratore di Monnet era
Walter Hallstein, un tecnocrate tedesco per il
quale la giurisdizione internazionale era l’erede naturale delle leggi dello
stato-nazione. Questa élite ha fondato l’Europa sulla non-appartenenza.
Secondo loro la sovranità nazionale sarebbe scomparsa e un blando democratico
capitalismo si sarebbe diffuso come un fungo”. Hans Magnus Enzensberger, in un pamphlet appena pubblicato da Einaudi
col titolo “Il mostro buono di Bruxelles ovvero l’Europa sotto tutela”,
scrive che il metodo Monnet “non attribuiva alcun
valore alla garbata invenzione della sovranità popolare”. Illuminanti sono al
riguardo le parole di Monnet pronunciate nel 1952: “Le nazioni europee
dovrebbero essere guidate verso un superstato senza che le loro popolazioni
si accorgano di quanto sta accadendo. Tale obiettivo potrà essere raggiunto
attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e una
finalità meramente economica”. A udirle Charles de Gaulle disse che Monnet voleva creare delle “mostruosità sovranazionali”. Monnet teneva sulla scrivania i
libri di Max Weber in cui lo stato moderno è
descritto come un “opificio di servizi”, ovvero credeva nella
nascita di una “amministrazione comune” capace di creare una “unità dal
basso”, cioè ascendente, anziché una costituzione comune. Poi l’unità
politica sarebbe arrivata naturaliter. La vita di Monnet fu tutta tesa a questo fine, perché, diceva, “la
riflessione non può essere separata dall’azione”, così che i fatti salienti
della sua vita rappresentano una traccia del suo pensiero. Monnet riteneva che l’Europa dovesse imporsi “per gli
appelli all’opinione pubblica e grazie alle abitudini che finirebbero col
prevalere”. Gli esperti hanno definito il metodo Monnet
come “gradualismo”, contro cui l’italiano europeista Altiero Spinelli
contrapponeva il metodo “costituente”. E proprio Spinelli disse che “Monnet ha il merito di aver costruito l’Europa e la
grande responsabilità di averla costruita male”. Uno dei libri a cui Monnet teneva di più era datato 1713, l’autore un tale Charles Irénée Castel, abate di Saint-Pierre, e portava il titolo
di “Progetto
di una pace perpetua in Europa”. Vi si profetizzava la
creazione di un “senato europeo” in cui gli stati membri avrebbero avuto pari
diritto di voto. Da buon cattolico, Monnet era
ispirato dal concetto di “unità cristiana”. Nello splendido saggio di Richard
Mayne, Monnet è chiamato
semplicemente “l’eminenza grigia”. L’Unione europea che conosciamo nacque in
Avenue Foch, a Parigi, in un loft con il pavimento
che scricchiolava e in cui si riuniva l’Action Committee
for the United States of
Europe diretta da Monnet. Ovvero i rappresentanti
dei partiti non comunisti di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e
Lussemburgo, i fondatori della futura Unione europea. “Monnet
era già leggenda”, scrive Mayne. A chi gli chiedeva
quale fosse il suo ruolo nel progetto, Monnet
rispondeva: “The catalyst”. Il catalizzatore. Per Monnet l’acciaio e il carbone non erano semplicemente
materiali grezzi, lui vi vedeva le chiavi della “pax europea” così come erano
stati all’origine di due guerre mondiali. Monnet li
avrebbe usati per ricostruire l’Europa. Il contributo di Monnet alla storia del Novecento è stato talmente
profondo che Lord Keynes ripeteva che “Monnet ha
ridotto di un anno la durata della Seconda guerra mondiale”. Dopo il primo
conflitto mondiale, Monnet ebbe un ruolo
pionieristico nella creazione della Lega delle nazioni, l’Onu in embrione di
cui fu vicesegretario generale. A Washington fu lui a coniare la frase del
presidente Franklin Delano Roosevelt “l’arsenale delle democrazie”. Il funzionario francese fu
decisivo anche nella messa a punto del piano Marshall e nel 1951 venne reclutato
dalla Nato come uno dei “tre saggi”. Willy Brandt lo chiamava “fonte di
ispirazione”, Dean Acheson “uno dei più grandi
francesi”, mentre John Fitzgerald Kennedy disse che aveva “trasformato
l’Europa con il potere di una idea”. Questa idea è la graduale perdita di
sovranità nazionale a favore di un super organismo che avrebbe garantito
libero scambio e sicurezza ai paesi membri. Ian Buruma
ha appena dedicato un bel saggio all’Europa di Monnet.
“Jean Monnet, uno dei padrini dell’unificazione
europea, era il tipico esempio di burocrate nato che diffidava dei politici.
La politica democratica è caotica e divisiva, e costellata da compromessi. E Monnet detestava tutto ciò. Era ossessionato dall’ideale
di unità. E voleva che le cose venissero fatte senza dover passare per gli
intrallazzi della politica. Monnet e gli altri
tecnocrati europei non erano esattamente contrari alla democrazia, ma spesso,
nel loro zelo di unificare le diverse nazioni d’Europa, sembravano
trascurarla. Gli eurocrati sapevano cosa fosse meglio per i cittadini
d’Europa, e sapevano cosa occorresse fare. Troppo dibattito pubblico o troppe
interferenze da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti politici
avrebbero solo rallentato le cose. E’ a questo atteggiamento che dobbiamo la
tipica parlata di Bruxelles, fatta di ‘treni inarrestabili’ e ‘decisioni
irreversibili’. Non spetta ai cittadini mettere in dubbio la saggezza dei
grandi visionari. Monnet era un tecnocrate nato con
una concezione feticistica dell’unità”. Nel 1940, con Hitler che sembrava
inarrestabile, Monnet propose a Winston Churchill
addirittura di unire Francia e Gran Bretagna. “L’ideale europeo dopo il 1945
era l’archetipo del pianificatore, una utopia tecnocratica. E per Monnet questo era l’ideale più benigno e nobile”. Anche
l’Economist ha dedicato un bel dossier alla “fine
di Monnet”, ovvero il deficit di democrazia in
Europa. “Il funzionario francese credeva nella unificazione graduale
dell’Europa attraverso progetti diretti da una casta di tecnocrati”, scrive
il settimanale inglese. Nel saggio “Jean Monnet and the ‘Democratic
Deficit’ in the European Union”, Kevin Featherstone
sostiene che Monnet ha impostato il processo di integrazione
europea su due principi: “Tecnocrazia ed elitismo”. Centrale nel progetto del
grand commis è l’idea di
una “High Authority”, una autorità superiore che è il risultato della “fede
di Monnet nel principio di sovranazionalità”.
Featherstone definisce il metodo di Monnet come “engrenage”, ovvero
si devono coinvolgere tecnici ed esperti non eletti nel processo decisionale.
“Monnet era attratto dall’idea di una ‘Alta
autorità’ formata non da rappresentanti degli stati, ma da personalità
indipendenti scelte per la loro competenza”. Da qui, secondo Featherstone, l’attuale deficit democratico di Bruxelles:
“Monnet ha costruito un edificio europeo con una
debole rappresentanza politica”. A proprio agio nei salotti
del suo tempo, Monnet era solito vivere fuori
città. Ne fece una regola. Persino nel piccolo Lussemburgo prese una casa non
nel centro della capitale, ma a Bricherhof, in
mezzo ai boschi. E quando viveva a Parigi faceva la spola con la casa nella
foresta di Rambouillet. Senza particolari carismi
personali, Monnet diceva di aver preso tutto dalla
nonna, nota in famiglia come “Marie la Rabacheuse”,
Maria la Monotona. Il generale Chiang Kai-Shek
disse che Monnet nel cibo, nel carattere e nel modo
di fare aveva un lato “cinese”. Un mandarino dunque. Era frugale, c’è chi dice
“puritano”. “Se
fossi condannato a morte chiederei questo come mio ultimo pasto”, disse Monnet una volta indicando sardine, burro e pane
francese. Gli studiosi sostengono che gli anni trascorsi come banchiere in
Asia ed Europa abbiano avuto una influenza determinante sul suo lavoro
politico. A chi gli chiese se il suo ruolo fosse quello di “fondatore”
dell’Europa, Monnet rispose di no: “Sono un
broker”. Gli anni trascorsi alla Blair Investment Bank e all’impero del magnate svedese Krueger non solo
gli serviranno per i contatti nel Dopoguerra, ma lasceranno una impronta
indelebile nella sua forma mentis. Monnet in
politica parlava sempre della “linea del credito”. Parlare di Monnet significa parlare di Alexandre Kojève, una delle più
affascinanti figure della filosofia del Novecento. Durante la Resistenza, Kojève combatté agli ordini di Jean Monnet,
che dopo la guerra lo promosse a grand commis della Quarta Repubblica nel Secrétariat
d’état aux affaires économiques. E poi
ancora Monnet chiese a questo “homme
d’influence” di altissimo rango di fare da
segretario dell’Oece (Organizzazione europea di
cooperazione economica), lo scelse come consigliere del governo nella
creazione della Ceca, primo embrione della Cee, e come negoziatore di accordi
commerciali mondiali come il Gatt (General
Agreement on Tariffs and Trade).
Kojève fu una misteriosa personalità che credeva
nella fine della storia e nel “governo universale e omogeneo”, e che in
mancanza di Napoleone venerava Stalin, sino a dichiararsi nel ’38-’39
“staliniano di stretta osservanza”, pur essendo un russo bianco, comunista
forse per motivi di storia universale, ma lontanissimo dal partito, e
comunque portatore, a dire di Raymond Aron, di un lealismo senza macchia
verso la patria francese, liberamente scelta. La leggenda di Kojève nacque intorno ai seminari che tenne fra il 1933 e
il 1936 all’Ecole pratique
des hautes études, traducendo e commentando la “Fenomenologia dello
spirito” di Hegel a un parterre de roi che comprendeva Bataille, Caillois, Lévinas, Lacan e
Queneau. Nel 1948 il grande
intellettuale di origini russe
rifiuta una cattedra alla Sorbona, fonda l’Accordo sulle tariffe e sul
commercio assieme a Monnet e diventa un super
consigliere di Charles de Gaulle e Giscard D’Estaing. Una scelta suffragata
dal famoso commento al “Trattato sulla tirannide” di Senofonte, interpretato
da Leo Strauss, in cui Kojève difende l’ingerenza
attiva del filosofo nel governo, sotto forma di consigli politici. L’aveva
detto Kojève, “non sono un bonzo”, e poi la
burocrazia, “élite internazionale che ha sostituito l’aristocrazia”, è un
“gioco superiore alla filosofia”. Se dovessi rifare tutto,
comincerei dalla cultura. © - FOGLIO QUOTIDIANO |
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