PRIVILEGIA
NE IRROGANTO Documento
inserito il: 7-1-2013 |
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FARE
per Fermare il Declino
(www.fermareildeclino.it)
Perché
gli imprenditori non investono?
da Noise from Amerika Ma è vero che gli imprenditori in Italia non
vogliono investire nell'innovazione? e perchè?
Vogliono fare del male a se stessi o al paese? I rapporti fra innovazione e imprese pubbliche, i
benefici dei meccanismi di contribuzione alle imprese, contratti di lavoro e
meritocrazia visti nell'ottica di chi vuole innovare Questo articolo è nato come una breve risposta a
Marco Cattaneo (http://www.roars.it/online/nel-paese-dei-camerieri/)
e si basa su fatti ed esperienze concrete per spiegare quali siano i
fattori che ostacolano l'innovazione in Italia. L'autore ha lavorato per
molti anni come primo ricercatore dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
e poi come imprenditore nel settore "Hi-Tech". I fattori che frenano l'innovazione in Italia Tutti scrivono che il sistema imprenditoriale non
investe in innovazione. Ma perché gli imprenditori in Italia non investono
sull’innovazione?La CGIL ci insegna che le
imprese non investono in innovazione perchè gli
imprenditori non credono nell'innovazione. Io conosco molti di questi fattori. Io so i nomi
dei responsabili. Li conosco perché sono un imprenditore nel settore delle
tecnologie. Li conosco perché per 15 anni sono stato un ricercatore del
prestigioso Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Cominciamo: non è vero che gli imprenditori in
Italia non vogliono investire e non investono sull’innovazione. Per gli
imprenditori innovare è vitale, disperatamente vitale, per non essere
schiacciati da una sorta di legge bronzea dell’ economia che tutti gli
imprenditori vivono sulla loro pelle: se non c’è innovazione la marginalità
competitiva si riduce a poco o nulla. Tutti gli imprenditori privati tentano
di innovare finché hanno un filo di forza e di speranza. 1)
Solo gli imprenditori privati! Un imprenditore privato (che non intende dismettere l’impresa) ha interesse e allo sviluppo reale e soggettivo (attenzione: non necessariamente oggettivo) della propria azienda, per il suo futuro e per costruire il suo patrimonio è disponibile a correre un certo rischio. Quindi un imprenditore privato è interessato a rischiare per sviluppare innovazione reale, mentre un manager dell’impresa pubblica (chiamiamolo con l’ossimoro: imprenditore pubblico) deve tentare di accrescere con certezza il valore oggettivo, ma l’innovazione, se non si traduce in un fallimento, si trasforma in valore oggettivo solo in tempi medio-lunghi. In questo l’imprenditore pubblico è simile ad un imprenditore privato che intende vendere l’impresa a breve. I valori reali, ma soggettivi a cui mi riferisco
sono ad esempio: l’effettivo completamento e successo dei test preliminari di
un’applicazione complessa, la conoscenza dell’assenza di difettosità in un
apparato sperimentale, prima ancora dei test report formali. In negativo, ad
esempio, la scarsa validità di una soluzione tecnica portata in
immobilizzazione. E’ un valore reale, ma soggettivo la formazione degli
specialisti su tecnologie complesse e la capacità creativa di alcuni
collaboratori. Questi sono i valori critici di base per l'innovazione. I valori oggettivi di un’impresa sono quelli che
possono più o meno facilmente essere dimostrati e riportati in un bilancio
(al di là del principio dei costi sostenuti), in cui cioè la valutazione non
dipende in maniera preponderante da considerazioni soggettive. Una soluzione
tecnica può, ad esempio, conseguire un maggior valore oggettivo a seguito di
una certificazione. Un’idea a seguito di un brevetto. Queste procedure non
cambiano necessariamente il valore soggettivo attribuito dall’imprenditore ne
il valore come innovazione, a differenza ad esempio di un test critico
sostanziale. La differenza tra valori oggettivi (dimostrabili, ma non
necessariamente consistenti) e soggettivi (reali, ma fortemente dipendenti
dalle capacità dell’imprenditore) è cruciale per l’innovazione. Un bravo imprenditore pubblico responsabile
pertanto dovrà concentrare la sua attenzione sulla creazione di valori
oggettivi: profitti, brevetti, valorizzazione di impianti ecc. Non può
e non deve (usando soldi non suoi) inseguire idee fantasiose avute la notte o
portate sul suo tavolo da un neolaureato con la faccia spiritata.. Se, ignorando ciò che gli conviene e ciò che
dovrebbe fare, un imprenditore pubblico decide di scommettere su un idea,
forse combatterà una battaglia di breve respiro: il suo mandato ha una
scadenza che non coincide con l’orizzonte temporale dell’ innovazione. Spesso nell’impresa pubblica manager di medio
livello e giovani, hanno una chiara visione di spazi di innovazione, idee che
gridano “scommetti su di me!”. Situazioni di mercato, incroci tra competenze
presenti in azienda e opportunità tecnologiche talvolta indicano chiaramente
(specie in una grande impresa) una direzione altamente promettente per un
investimento rischioso in innovazione. Ho incontrato manager desiderosi di
innovare anche in Finmeccanica e in ENI. In generale anche se ho le prove, non farò nomi,
ma con un’eccezione: ho conosciuto almeno un manager pubblico di alto
livello che ha tentato la strada dell’innovazione: Antonio Rodotà, come A.D.
di Alenia Spazio, ha combattuto contro tante, tantissime forze in nome
dell’innovazione, ma una gran parte dei suoi sforzi è stata vanificata
quando ha cambiato ruolo per passare alla direzione dell’ESA. q.e.d. In conclusione di questo paragrafo vorrei
ricordare quello che mi ha insegnato un capital venture inglese: “Noi
scommettiamo su un’innovazione se l’imprenditore ci punta tutta la sua
impresa, la vita sua e della sua famiglia. Sappiamo bene noi e sa bene lui
che il 95% per cento delle volte lui ci rimette l’impresa e talvolta anche il
resto.” Ecco in generale non è questo che si chiede, si può chiedere o si
deve chiedere ad un manager pubblico! 2)
Togliete i maledetti finanziamenti! (e lasciateci
le stesse risorse) Il finanziamento pubblico all’innovazione aiuta
l’innovazione come una lussazione aiuta uno scalatore. Il contributo pubblico all’innovazione è un
disastro. La valutazione: un’innovazione
per essere significativa deve essere una sfida, è raro o rarissimo che possa
essere valutata a priori in maniera equilibrata. La valutazione
dell’opportunità di un contributo pubblico è fatta su diversi
“parametri”: rischio, business plan (a 3 anni),
livelli d’ occupazione (a 3 / 5 anni), innovatività. Con questi parametri
Google e Facebook tanto per fare un esempio non
sarebbero stati finanziati. Che innovazione era un sito di valutazione delle
ragazze dell’ università? Che occupazione può dare uno nuovo motore di
ricerca? Inoltre stiamo già ipotizzando che la valutazione
sia lucida, competente e soprattutto obiettiva! Il tempo: Il
tempo di gestione dei finanziamenti pubblici (identificazione settori,
sviluppo bando, presentazione progetti, valutazione, finanziamento) non è
confrontabile con i tempi del mercato dell’innovazione. In qualche caso un valutatore illuminato (e ne ho
incontrato almeno uno) intuisce la prospettiva del valore di un’ innovazione
al di là dei parametri. Ma anche in questo caso le risorse saranno sprecate:
nel 1995 avevamo la capacità di sviluppare al pari dei primi al mondo
un processore vettoriale per la grafica (per gli scettici ho ampia
documentazione e referenze). Lo chiamammo VSP (Visual Signal
Processor) e convincemmo alcuni brillanti e visionari valutatori dell’ ENEA
che ci sarebbe stato un mercato in futuro per queste tecnologie, avevamo
bisogno di 4 anni per lo sviluppo e di circa 2 miliardi di
investimenti. Nonostante gli sforzi eroici dell’ENEA il finanziamento
fu interamente approvato solo attorno al 1998 cioè proprio mentre NVIDIA
stava rilasciando la GeForce 256 la prima GPU (Graphic Processing Unit) al mondo. Inutile dire che un
ritardo di 4 anni la competizione era senza speranza. In altri progetti di cui sono a conoscenza, i
componenti elettronici prescelti (come innovativi) ad inizio progetto sono
obsoleti a fine progetto (un componente innovativo diventa obsolescente in 3
o 4 anni, ma un finanziamento pubblico può vedere il saldo anche 6 anni dopo
il bando iniziale). La rendicontazione:
Nei finanziamenti pubblici in ricerca una quota significativa delle risorse
erogate (non meno del 20%) viene speso per la rendicontazione (la
preparazione del materiale necessario per l’ ottenimento del finanziamento).
Un costo del 20% sarebbe ancora tollerabile se fossero rendicontabili le
spese necessarie per l’innovazione, molto spesso è il contrario! L’incertezza: Nei
finanziamenti pubblici c’e’ sempre una componente
di incertezza anche con progetti approvati e parzialmente finanziati. Un
errore nella rendicontazione, l’utilizzo di un fornitore non ritenuto
adeguato o anche il pagamento di un collaboratore troppo oneroso possono
comportare la revoca di un finanziamento. In un caso di cui sono a conoscenza
il fatto che i ricercatori non fossero nella sede dell’azienda durante
un’ispezione dell’autorità erogante il finanziamento è stato causa di revoca.
Poco significando che i ricercatori si trovassero sul campo a fare riprese
(per un progetto di riprese ambientali)! Questa incertezza induce tutti gli imprenditori
razionali a concentrare l’attenzione sul metodo e sulla forma, ma non sui
risultati (che non sono oggetto di verifica). 3)
Lavorate la notte, in un garage e se non
funziona: licenziati! Gira una storiella: prima di investire su una startup innovativa vai in segreto a vedere la loro sede qualche notte, se ci sono luci accese e c’è sempre gente che lavora può valere la pena. Diverse startup di successo nel mondo sono nate
in luoghi che in Italia non avrebbero giustamente l’abitabilità. In un caso
in cui sono a diretta conoscenza l’impresa ha dovuto andare in tribunale per
non essere costretta a chiudere in quanto il locale era abitabile, ma non formalmente
qualificato “uso ufficio”. Il problema principale però è nei contratti di
lavoro e nei rapporti con i lavoratori. L’innovazione richiede una
collaborazione fiduciaria straordinaria tra i partecipanti all’iniziativa
(spesso la si vede nei laboratori universitari), ma questa collaborazione è
scoraggiata dalle normative attuali. In pratica l’innovazione tecnologica di
punta non può essere costruita con un modello imprenditore +
dirigenti/impiegati/operai, regolato da contratti nazionali, ma serve una collaborazione
trasversale e la possibilità di escludere (licenziare) chi non si adegua
all’impegno comune. Le ricerche innovative coronate da successo alle
quali mi è capitato di partecipare hanno sempre visto l’impegno di un
nucleo di “ricercatori e tecnologi” che hanno lavorato senza risparmiarsi per
settimane e mesi. In questi casi c’è sempre qualcuno che si defila. In ambito
accademico è tollerato e non costituisce un grave problema, in quanto i
compensi non sono di tipo economico e quasi sempre i leader sanno riconoscere
chi ha dato di più ed hanno i mezzi per escludere dal gruppo un disfattista o
un nullafacente. In ambito industriale, in Italia, invece è
semplicemente impossibile trovare un metodo per escludere da un team una
persona selezionata e assunta per le sue potenzialità ma poi in pratica
dannosa per il team. Vorrei aggiungere che mentre l’esistenza
dell’Art.18 è un problema serissimo per lo sviluppo, la crescita e la
competitività delle imprese, esso ha poco a che fare con la capacità d’innovazione
che dipende invece dalla disponibilità di contratti flessibili e da un
rapporto fluido (leggi: contratti a progetto) con il mondo dell’accademia e
dei giovani più brillanti. D’altronde i contratti a termine non sono adatti
a questo tipo di attività per varie ragioni, ad esempio non possono essere
sospesi qualora si evidenzi che la strada intrapresa è infruttuosa, inoltre
la forma di lavoro subordinata spesso non si adatta alle personalità più
brillanti con cui ci dobbiamo confrontare (spesso in bilico con il mondo
accademico). 4)
Università mediocri, studenti molto vari,
stipendi non correlati al merito. Nella nostra storia abbiamo fatto centinaia di colloqui di assunzione e possiamo fare una sintesi: l‘università italiana è in grado di produrre eccellenze, ma il prodotto standard non è mediocre: è di basso livello o pessimo. Devo precisare che la mia esperienza è limitata ai settori dell’ elettronica e dell’informatica, pertanto ci siamo confrontati con una gamma di giovani laureati in Informatica, Fisica, Ingegneria e talvolta Scienza della Comunicazione. L’eccellenza si ottiene quando uno studente
dotato ha trovato da se le motivazioni per uno studio e un lavoro di qualità,
questo deve coincidere con la fortuna di incrociare alcuni docenti di alto
livello e magari di inserirsi in un gruppo di ricerca di elite. Questi casi sono rari e ne risultano cervelli
appetibili per la nostra accademia (spesso purtroppo incapace di trattenerli)
, per le imprese italiane (che spesso li sottoutilizzano) e certamente per il
mercato estero. Più frequentemente si laureano studenti che hanno
lavorato in gruppi di serie B o C o che hanno conseguito stancamente il loro
titolo di studio. In questo scenario ne le imprese ne le università
sono in grado di premiare adeguatamente il merito. La struttura dei contratti
in pratica impedisce in Italia la stipula di contratti “di attrazione” ovvero
contratti d’ingresso con livelli salariali elevati, ma con la possibilità di
regredirli o interromperli se dopo 3 o 5 anni le aspettative di valore non
sono mantenute. Di fatto avendo di fronte un neolaureato che appare
straordinariamente brillante siamo costretti a proporre un salario d’ingresso
miserevole, (con elevata possibilità di vederlo fuggire all’ estero)
essendo impossibile per un’impresa proporre un salario elevato per poi
ridurlo (o addirittura licenziare) se dopo alcuni anni si riconosce che
magari il dipendente è si brillante ma incapace di uno sforzo continuo o
produttivo, oppure incapace di adeguarsi a uno standard o simili (casi reali
a iosa per chi fosse interessato). Conclusione. · l’innovazione è rischio e bassa probabilità di successo, ma alti profitti (in caso di successo!) e questi non sono tipicamente obiettivi di buon management pubblico · le grandi imprese pubbliche hanno giuste logiche che impediscono questo tipo di rischio · le PMI (che vogliono avere elevate probabilità di sopravvivere) hanno solo una piccola frazione di risorse da rischiare per l’innovazione · il finanziamento pubblico per l’innovazione andrebbe eliminato e le risorse liberate restituite alle imprese come minor tassazione (quale miglior incentivo per un imprenditore e per i lavoratori avere salari netti più alti in caso di successo?) · le università, spesso realizzate per motivi campanilistici, senza meccanismi punitivi, non hanno seri meccanismi per promuovere l'eccellenza e quindi producono masse di giovani meno che mediocri · le rigidità contrattuali non sono un ausilio all’innovazione tecnologica Può essere che il paese scelga di continuare a
vivere con grandi imprese pubbliche e PMI molto tassate, ma incentivate con
finanziamenti pubblici. Può essere che si voglia mantenere il valore legale
del titolo di studio e a finanziare università e facoltà di scarso valore
senza seri meccanismi di competizione. Può essere che si mantenga il divieto
di attivare contratti di collaborazione o contratti a progetto. Nessun problema: saremo un paese di pizzerie e
ristoranti sul mare. Affrettatevi però a cercare la concessione per un pezzo
di spiaggia. |
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