HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Virgilio
ENEIDE
Trad. di Annibal Caro
INDICE
Quell'io che già tra selve e tra
pastori
di
Titiro sonai l'umil sampogna,
e
che, de' boschi uscendo. a mano a mano
fei
pingui e cólti i campi, e pieni i vóti
d'ogn'ingordo
colono, opra che forse
agli
agricoli è grata; ora di Marte
L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che
pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia
e di Lavinio errando venne;
e
quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e
di terra e di mar perigli incorse,
come
il traea l'insuperabil forza
del
cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e
con che dura e sanguinosa guerra
fondò
la sua cittade, e gli suoi dèi
ripose
in Lazio: onde cotanto crebbe
il
nome de' Latini, il regno d'Alba,
e
le mura e l'imperio alto di Roma.
Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
tu
le mi detta. Qual dolor, qual onta
fece
la dea ch'è pur donna e regina
de
gli altri dèi, sí nequitosa ed empia
contra
un sí pio? Qual suo nume l'espose
per
tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono
ancor là su l'ire e gli sdegni?
Grande, antica, possente e bellicosa
colonia
de' Fenici era Cartago,
posta
da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a
la foce del Tebro: a Giunon cara
sí,
che le fûr men care ed Argo e Samo.
Qui
pose l'armi sue, qui pose il carro,
qui
di porre avea già disegno e cura
(se
tale era il suo fato) il maggior seggio,
e
lo scettro anco universal del mondo.
Ma già contezza avea ch'era di Troia
per
uscire una gente, onde vedrebbe
le
sue torri superbe a terra sparse,
e
de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto
avanzar d'orgoglio e di potenza,
che
ancor de l'universo imperio avrebbe:
tal
de le Parche la volubil rota
girar
saldo decreto. Ella, che téma
avea
di ciò, non posto anco in oblio
come,
a difesa de' suoi cari Argivi,
fosse
a Troia acerbissima guerriera,
ripetendone
i semi e le cagioni,
se
ne sentia nel cor profondamente
or
di Pari il giudicio, or l'arroganza
d'Antígone,
il concúbito d'Elettra,
lo
scorno d'Ebe, alfin di Ganimede
e
la rapina e i non dovuti onori.
Da tante, oltre al timor, faville accesa,
quei
pochi afflitti e miseri Troiani
ch'avanzaro
agl'incendi, a le ruine,
al
mare, ai Greci, al dispietato Achille,
tenea
lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti
da' vènti e dal destino,
per
tutti i mari andâr raminghi e sparsi:
di
sí gravoso affar, di sí gran mole
fu
dar principio a la romana gente.
Eran di poco, e del cospetto a pena
de
la Sicilia navigando usciti,
e
già, preso de l'alto, a piene vele
se
ne gian baldanzosi, e con le prore
e
co' remi facean l'onde spumose,
quando,
punta Giunon d'amara doglia:
«Dunque,
- disse - ch'io ceda? e che di Troia
venga
a signoreggiar Italia un re,
ch'io
nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi
sieno: osò pur Pallade, e poteo
ardere
e soffocar già degli Argivi
tanti
navili, e tanti corpi ancidere
per
lieve colpa e folle amor d'un solo,
Aiace
d'Oïlèo. Contra costui
ella
stessa vibrò di Giove il tèlo
giú
dalle nubi; ella commosse i vènti
e
turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:
e
quando ei già dal fulminato petto
sangue
e fiamme anelava, a tale un turbo
in
preda il diè, che per acuti scogli
miserabil
ne fe' rapina e scempio.
Tanto
può Palla? Ed io, io de gli dèi
regina,
io sposa del gran Giove e suora,
son
di quest'una gente omai tant'anni
nimica
in vano? E chi piú de' mortali
sarà
che mi sacrifichi, e m'adori?»
Ciò fra suo cor la dea fremendo
ancora,
giunse
in Eòlia, di procelle e d'àustri
e
de le furie lor patria feconda.
Eolo
è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le
sonore tempeste e i tempestosi
vènti,
sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino
impetuosi e ribellanti
tal
fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che
ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed
ei lor sopra, realmente adorno
di
corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira
e gl'impeti lor mitiga e molce.
Se
ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati
da lor, confusi e sparsi
con
essi andrian per lo gran vano a volo;
ma
la possa maggior del padre eterno
provvide
a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi
e di caverne; e moli e monti
lor
sopra impose; ed a re tale il freno
ne
diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli
con
certa legge o rattenere o spingere.
A
cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor
umíle e supplichevol disse:
«Eölo,
poi che 'l gran padre del cielo
a
tanto ministerio ti prepose
di
correggere i vènti e turbar l'onde,
gente
inimica a me, mal grado mio,
naviga
il mar Tirreno; e giunta a vista
è
già d'Italia, al cui reame aspira;
e
d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco
v'adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli,
spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,
aggiragli,
confondigli, sommergigli,
o
dispergigli almeno. Appo me sono
sette
e sette leggiadre ninfe e belle;
e
di tutte piú bella e piú leggiadra
è
Deiopèa. Costei vogl'io, per merto
di
ciò, che sia tua sposa; e che tu seco
di
nodo indissolubile congiunto,
viva
lieto mai sempre, e ne divenga
padre
di bella e di te degna prole».
Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi
che tu scopra i tuoi desiri,
ed
a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu
mi dài questo scettro e questo regno;
se
re può dirsi un che comandi a' vènti.
Io,
tua mercé, su co' celesti a mensa
nel
ciel m'assido; e co' mortali in terra
son
di nembi possente e di tempeste».
Cosí dicendo, al cavernoso monte
con
lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde
repente a stuolo i vènti usciro.
Avean
già co' lor turbini ripieni
di
polve e di tumulto i colli e i campi,
quando
quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s'avventaron
nel mare, e fin da l'imo
lo
turbâr sí, che ne fêr valli e monti;
monti,
ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti
l'un dopo l'altro, a mille a mille
volgendo,
se ne gian caduchi e mobili
con
suono e con ruina i liti a frangere.
Il
grido, lo stridore, il cigolare
de'
legni, de le sarte e de le genti,
i
nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano,
la
buia notte, ond'era il mar coverto,
i
tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto
ciò che s'udia, ciò che vedevasi
rappresentava
orror, perigli e morte.
Smarrissi
Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi,
che tremante al ciel si volse
con
le man giunte, e sospirando disse:
«O mille volte fortunati e mille
color
che sotto Troia e nel cospetto
de'
padri e de la patria ebbero in sorte
di
morir combattendo! O di Tidèo
fortissimo
figliuol, ch'io non potessi
cader
per le tue mani, e lasciar ivi
questa
vita affannosa, ove lasciolla
vinto
per man del bellicoso Achille,
Ettor
famoso e Sarpedonte altero?
E
se d'acqua perire era il mio fato,
perché
non dove Xanto o Simoenta
volgon
tant'armi e tanti corpi nobili?»
Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone
una
buffa a rincontro, che stridendo
squarciò
la vela, e 'l mar spinse a le stelle,
Fiaccârsi
i remi; e là 've era la prua,
girossi
il fianco; e d'acqua un monte intanto
venne
come dal cielo a cader giú.
Pendono
or questi or quelli a l'onde in cima;
or
a questi or a quei s'apre la terra
fra
due liquidi monti, ove l'arena,
non
men ch'ai liti, si raggira e ferve.
Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
-
Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da
l'altezza de l'onde allor celato,
che
sorgea primo in alto mare altissimo -
e
tre ne fûr dal pelago a le Sirti,
(miserabile
aspetto) ne le secche
tratte
da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una,
che 'l carco avea del fido Oronte
con
le genti di Licia, avanti agli occhi
di
lui perí. Venne da Bora un'onda,
anzi
un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che
'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e
lei girò sí che 'l suo giro stesso
le
si fe' sotto e vortice e vorago,
da
cui rapita, vacillante e china,
quasi
stanco palèo, tre volte volta,
calossi
gorgogliando, e s'affondò.
Già per l'ondoso mar disperse e rare
le
navi e i naviganti si vedevano;
già
per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme,
tavole, arnesi a nuoto andavano;
già
quel ch'era piú valido e piú forte
legno
d'Ilïonèo, già quel d'Acate
e
quel d'Abante e quel del vecchio Alete,
ed
alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidïali
aveano i fianchi aperti;
quando,
a tanto rumor, da l'antro uscito
il
gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi
i piú riposti fondi:
«Oh
- disse irato - ond'è questa importuna
tempesta?»
E grazïoso il capo fuori
trasse
de l'onde; e rimirando intorno,
per
lo mar tutto dissipati e laceri
vide
i legni d'Enea; vide lo strazio
de'
suoi ch'a la tempesta, a la ruina
e
del mare e del cielo erano esposti.
E
ben conobbe in ciò, come suo frate,
che
ne fôra cagion l'ira e la froda
de
l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,
e
'n tal guisa acremente li rampogna:
«Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza
perversa? Voi, voi, senza me,
nel
regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e
far nel mare un sí gran moto osate?
Io
vi farò... Ma di mestiero è prima
abbonazzar
quest'onde. Altra fiata
in
altra guisa il fio mi pagherete
del
fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti
malvagi; e da mia parte dite
al
vostro re che questo regno e questo
tridente
è mio, e che a me solo è dato.
Per
lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case
degne di voi; quella è sua reggia;
quivi
solo si vanti; e per regnare,
de
la prigion de' suoi vènti non esca».
Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la
tempesta cessò, s'acquetò 'l mare,
si
dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe
e Triton, l'una con l'onde,
l'altro
col dorso, le tre navi indietro
ritirâr
da lo scoglio in cui percossero.
Le
tre che ne l'arena eran sepolte,
egli
stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò
col tridente ed a sé trassele.
Poscia
sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo
lievemente, ovunque apparve,
agguagliò
'l mare, e lo ripose in calma.
Come addivien sovente in un gran popolo,
allor
che per discordia si tumultua,
e
imperversando va la plebe ignobile,
quando
l'aste e le faci e i sassi volano
e
l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se
grave personaggio e di gran merito
esce
lor contro, rispettosi e timidi,
fatto
silenzio, attentamente ascoltano,
ed
al detto di lui tutti s'acquetano;
cosí
d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu
'l mar disgombro, allor che umíle e placido
a
ciel aperto il gran rettor del pelago
co'
suoi lievi destrier volando scórselo.
Stanchi
i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro
il corso, e 'n Libia si trovarono.
È di là lungo a la riviera un
seno,
anzi
un porto; ché porto un'isoletta
lo
fa, che in su la bocca al mare opponsi.
Questa
si sporge co' suoi fianchi in guisa
ch'ogni
vento, ogni flutto, d'ogni lato
che
vi percuota, ritrovando intoppo,
o
si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci
e quindi alti scogli e rupi altissime,
sotto
cui stagna spazïoso un golfo
securo
e queto: e v'ha d'alberi sopra
tale
una scena, che la luce e 'l sole
vi
raggia, e non penètra: un'ombra opaca,
anzi
un orror di selve annose e folte.
D'incontro
è di gran massi e di pendenti
scogli
un antro muscoso, in cui dolci acque
fan
dolce suono; e v'ha sedili e sponde
di
vivo sasso: albergo veramente
di
ninfe, ove a fermar le stanche navi
né
d'àncora v'è d'uopo, né di sarte.
Qui
sol con sette, che raccolse a pena
di
tanti legni, Enea ricoverossi.
Qui
stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor
paurosi, i liti a pena attinsero,
che
a terra avidamente si gittarono.
Acate
fece in pria selce e focíle
scintillar
foco, e dièlli esca e fomento.
Altri
poscia d'intorno ad altri fuochi
(come
quei che di vitto avean disagio,
e
le biade trovâr corrotte e molli)
si
diêr con vari studi e vari ordigni
a
rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso,
quanto
si discopria con l'occhio intorno,
stava
mirando s'alcun legno fosse
per
alcun luogo apparso, o quel d'Antèo,
o
quel di Capi, o pur quel di Caíco
che
in poppa avea la piú sublime insegna.
Nïun
ne vide: ma ben vide errando
gir
per la spiaggia tre gran cervi, e dietro
d'altri
minori innumerabil torma,
che
in sembianza d'armenti empian le valli.
Fermossi:
e pronto a cotal uso avendo
l'arco
e 'l turcasso (ché quest'armi appresso
gli
portava mai sempre il fido Acate),
diè
lor di piglio: e saettando prima
i
primi tre, che piú vide altamente
erger
le teste e inalberar le corna,
contra
'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco,
ovunque
gli scorgea, folgorò tutto.
Ne
cacciò, ne ferí, strage ne fece
a
suo diletto; né si vide prima
sazio
che, come sette eran le navi,
sette
non ne vedesse a terra stesi.
In
questa guisa ritornando al porto,
gli
spartí parimente a' suoi compagni;
e
con essi del vin, che 'l buon Aceste
a
l'uscir di Sicilia in don gli diede,
molt'urne
dispensò per ricrearli;
poscia
a conforto lor cosí lor disse:
«Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi
n'avete infiniti omai sofferti
vie
piú gravi di questi. E questi fine,
(quando
che sia) la dio mercede, avranno.
Voi
la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di
tutti i mari omai, voi de' Ciclopi
varcaste
i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete
l'ardir, sgombrate i petti
di
téma e di tristizia. E' verrà tempo
un
dí che tante e cosí rie venture,
non
ch'altro, vi saran dolce ricordo.
Per
vari casi e per acerbi e duri
perigli
è d'uopo far d'Italia acquisto.
Ivi
riposo, ivi letizia piena
vi
promettono i fati, e nuova Troia
e
nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite,
mantenetevi, serbatevi
a
questo, che dal ciel si serba a voi,
sí
glorioso e sí felice stato».
Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso
d'alti
e gravi pensier, tenea velato
con
la fronte serena il cuor doglioso.
Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
già
rivolti a la preda, altri le tèrgora
le
svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre
è tiepida ancor, mentre che palpita,
lunghi
schidioni e gran caldaie apprestano,
e
l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.
Poscia
d'un prato e seggio e mensa fattisi,
taciti
prima sopra l'erba agiandosi,
d'opima
carne e di vin vecchio empiendosi,
quanto
puon lietamente si ricreano.
Poiché fûr sazi, a ragionar si
diêro,
con
voce or di timore or di cordoglio,
de'
perduti compagni, in dubbio ancora
se
fosser vivi, e se pur giunti al fine
piú
de' richiami lor nulla curassero.
Enea
vie piú di tutti e di pietate
e
di dolor compunto, il caso acerbo
or
d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e Gía
ne'
sospir richiamava e 'l buon Cloanto.
Erano al fine omai; quando il gran Giove
da
l'alta spera sua mirando in giuso
la
terra e 'l mar di questo basso globo,
mentre
di lito in lito, e d'uno in altro
scerne
i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi,
e ne la Libia il guardo affisse.
Venere,
allor ch'a le terrene cose
lo
vide intento, dolcemente afflitta
il
volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli
si fece davanti, e cosí disse:
« Padre, che de' mortali e de' celesti
siedi
eterno monarca, e folgorando
empi
di téma e di spavento il mondo,
e
quale ha contra te fallo sí grave
commesso
Enea mio figlio, o i suoi Troiani,
che,
dopo tanti affanni e tante stragi,
c'han
di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,
non
trovin pace, né pietà, né loco
pur
che gli accetti? In cotal guisa omai
del
mondo son, non che d'Italia, esclusi.
Io
mi credea, signor (quel che promesso
n'era
da te), che tornasse anco un giorno,
quando
che fosse, il generoso germe
di
Dardano a produr quei glorïosi
eroi,
quei duci invitti, quei Romani
de
l'universo domatori e donni:
e
tu ne 'l promettesti. Or come, padre,
il
ciel cangia destino, e tu consiglio?
Questa
sola credenza era cagione
di
consolarmi in parte de l'eccidio
de
la mia Troia, ch'io soffrissi in pace
tante
ruine sue, fato con fato
ricompensando.
Or la fortuna stessa
e
vie piú fera la persegue e dura.
E
quanto durerà, signore, ancora?
Tal
non fu già d'Antènore l'esilio;
ch'ei
non piú tosto de l'achive schiere
per
mezzo uscio, che con felice corso
penetrò
d'Adria il seno; entrò securo
nel
regno de' Liburni; andò fin sopra
al
fonte di Timavo; e là 've il fiume
fremendo
il monte intuona, e là 've aprendo
fa
nove bocche un mare, e, mar già fatto,
inonda
i campi e rumoreggia e frange,
Padoa
fondò, pose de' Teucri il seggio,
e
diè lor nome e le lor armi affisse.
Ivi
ridotto il suo regno, e composto
quïetamente,
or lo si gode in pace.
E
noi, noi del tuo sangue, e che da te
avemo
anco del cielo arra e possesso,
ad
una sola indegnamente in ira,
perdute,
ohimè! le proprie navi, fuori
siamo
d'Italia e di speranza ancora
di
non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio
che
si deve a pietade? E questo è il regno
che
da te, padre mio, ne si promette?»
Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con
che 'l ciel rasserena e le tempeste,
rimirolla,
basciolla, e cosí disse:
«Non temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno
i fati de' tuoi. S'adempieranno
le
mie promesse; sorgeran le torri
de
la novella Troia; vedrai le mura
di
Lavinio; porrai qui fra le stelle
il
magnanimo Enea. Ché né 'l destino
in
ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.
Ma
per trarti d'affanni, io te 'l dirò
piú
chiaramente; e scoprirotti intanto
de'
fati i piú reconditi secreti.
Figlia,
il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà;
farà gran guerra, vincerà:
domerà
fere genti: imporrà leggi:
darà
costumi, e fonderà città:
e
di già, vinti i Rutuli, tre verni
e
tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio
giovinetto, or detto Iulo,
ed
Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,
succederagli;
e trenta giri interi
del
maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo
in Alba: Alba la lunga
sarà
la reggia sua possente e chiara.
Qui
regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre
un dopo l'altro un corso d'anni
tre
volte cento; finch'Ilia regina
d'un
parto produrrà gemella prole.
Indi
capo ne fia Romolo invitto.
Questi,
in vece di manto, adorno il tergo
de
la sua marzïal nudrice lupa,
di
Marte fonderà la gran cittade:
e
dal nome di lui Roma diralla.
A
Roma non pongo io termine o fine:
ché
fia del mondo imperatrice eterna.
E
l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e
'l ciel per téma intorbida e scompiglia,
con
piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà
che la romana gente
in
arme e 'n toga a l'universo imperi.
E
cosí stabilisco: e cosí tempo
ancor
sarà ch'Argo, Micene e Ftia
e
i Greci tutti tributari e servi
de
la casa di Assàraco saranno.
Di
questa gente, e de la Iulia stirpe,
che
da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare
nascerà, di cui l'impero
e
la gloria fia tal, che per confine
l'uno
avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.
Questi,
già vinto il tutto, poi che onusto
de
le spoglie sarà de l'Orïente,
anch'egli
avrà da te qui seggio eterno,
e
là giú fra' mortali incensi e vóti.
L'aspro
secolo allor, l'armi deposte,
si
farà mite. Allor la santa Vesta
e
la candida Fede e 'l buon Quirino
col
frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor
con salde e ben ferrate sbarre
de
la guerra saran le porte chiuse:
e
dentro in fra la ruggine sepolto
con
cento nodi incatenato e stretto
gran
tempo si starà l'empio Furore;
e
rabbioso fremendo orribilmente,
con
fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà
l'armi e le catene indarno».
Cosí detto, spedí tosto da l'alto
di
Maia il figlio a far sí ch'a' Troiani
fosse
Cartago e il suo paese amico,
perché
del fato la regina ignara,
non
fosse lor, per ferità de' suoi
o
per sua téma, inospitale e cruda.
Vassene
il messaggier per l'aria a volo
velocemente,
e ne la Libia giunto,
quel
ch'imposto gli fu ratto eseguisce.
E
già, la dio mercé, lasciano i Peni
la
lor fierezza; e la regina in prima
s'imbeve
d'un affetto e d'una mente
verso
i Troiani affabile e benigna.
La notte intanto, del pietoso Enea
molti
furo i sospir, molti i pensieri.
Conchiuse
alfin ch'a l'apparir del giorno
spïar
dovesse, e riportarne avviso
a
suoi compagni, in qual paese il vento
gli
avesse spinti; e s'uomini o pur fere
(perché
incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosí
tra selve ombrose e cave rupi
fatti
i legni appiattar, sol con Acate,
e
con due dardi in mano in via si pose.
In mezzo de la selva una donzella,
ch'era
sua madre, sí com'era avanti
che
madre fosse incontro gli si fece.
Donzella
a l'armi, a l'abito, al sembiante
parea
di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice
leggiera
e sciolta, il dorso affaticando
di
fugace destrier, l'Ebro varcava.
Al
collo avea di cacciatrice un arco
abile
e lesto, i crini a l'aura sparsi,
nudo
il ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea
raccolto della gonna il seno.
Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani,
de le mie sorelle alcuna
vista
errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
o
che gli omeri vesta d'una pelle
di
cervier maculato, o che gridando
d'un
zannuto cignal segua la traccia?»
Cosí
Venere disse. Ed, a rincontro,
di
Venere il figliuol cosí rispose:
«Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,
vergine...
qual ti dico, e di che nome
chiamar
ti deggio? Ché terreno aspetto
non
è già 'l tuo, né di mortale il suono.
Dea
sei tu veramente, o suora a Febo,
o
figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e
chïunque tu sii, propizia e pia
vèr
noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne
sotto qual cielo, in qual contrada
siamo
or del mondo: ché raminghi andiamo;
e
qui dal vento e da fortuna spinti
nulla
o de gli abitanti o de' paesi
notizia
abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti,
di
nostra man cadrà piú d'una vittima».
Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo
celeste
onore. In Tiro usan le vergini
di
portar arco, e di calzar coturni;
e
di Tiro e d'Agènore le genti
traggon
principio, che qui seggio han posto:
ma
'l paese è di Libia, ed avvi in guerra
gente
feroce. Or n'è capo e regina
Dido
che, da l'insidie del fratello
fuggendo,
è qui venuta. A dirne il tutto
lunga
fôra novella e lungo intrico.
Ma
toccandone i capi, avea costei
Sichèo
per suo consorte, uno il piú ricco
di
terra e d'oro, che in Fenicia fosse,
da
la meschina unicamente amato,
anzi
il suo primo amore. Il padre intatta
nel
primo fior di lei seco legolla.
Ma
del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon
suo frate, un signor empio,
un
tiranno crudele e scellerato
piú
ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal,
che Sichèo da questo avaro e crudo,
per
sete d'oro, ove men guardia pose,
fu
tra gli altari ucciso; e non gli valse
che
la germana sua tanto l'amasse.
Ciò
fe' celatamente: e per celarlo
vie
piú, con finzïoni e con menzogne
deluse
un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma
nel fin, di Sichèo la stessa imago,
fuor
d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida,
macilenta e spaventevole,
le
apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli
empi altari ove cadde, il crudo ferro
che
lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte
scelleraggini le aperse.
Poscia:
"Fuggi di qua, fuggi" le disse
"tostamente,
e lontano". E per sussidio
de
la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra,
ov'era inestimabil somma
d'oro
e d'argento, di molt'anni ascoso.
Quinci
Dido commossa, ordine occulto
di
fuggir tenne, e d'adunar compagni;
ché
molti n'adunò, parte per odio,
parte
per téma di sí rio tiranno.
Le
navi che trovâr nel lito preste,
caricâr
d'oro, e fêr vela in un súbito.
Cosí
'l vento portossene la speme
de
l'avaro ladrone. E fu di donna
questo
sí degno e memorabil fatto.
Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai
sorger
la gran cittade e l'alta ròcca
de
la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa
nomossi, per l'astuta merce
che,
per fondarla, fêr di tanto sito
quanto
cerchiar di bue potesse un tergo.
Ma voi chi siete? onde venite? e dove
drizzate
il corso vostro?» A tai richieste
pensando
Enea, dal piú profondo petto
trasse
la voce sospirosa, e disse:
«O
dea, se da principio i nostri affanni
io
contar ti volessi, e tu con agio
udissi
una da me sí lunga istoria,
non
finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi
siam Troiani (se di Troia antica
il
nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e
la tempesta che per tanti mari
già
cotant'anni ne travolve e gira,
n'ha
qui, come tu vedi, al fin gittati.
Io
sono Enea, quel pio che da' nemici
scampati
ho meco i miei patrii Penati,
fino
a le stelle ormai noto per fama.
Italia
vo cercando, che per patria
Giove
m'assegna, autor del sangue mio.
Con
diece e diece ben guarnite navi
uscii
di Frigia, il mio destin seguendo
e
lo splendor de la materna stella.
Or
sette me ne son restate appena,
scommesse,
aperte e disarmate tutte.
Ed
io mendíco, ignoto e peregrino,
de
l'Asia in bando, da l'Europa escluso,
e
'n fin dal mar gittato or ne la Libia
vo
per deserti inospiti e selvaggi.
E
qual m'è piú del mondo or luogo aperto?»
Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant'amara
doglienza non soffrendo,
cosí
'l duol con la voce gl'interruppe:
«Chïunque sei, tu non sei già,
cred'io,
al
cielo in ira; poi ch'a sí grand'uopo
ti
diè ricovro a sí benigno ospizio.
Segui
pur francamente: e quinci in corte
va'
di questa magnanima regina;
ch'io
già t'annunzio le tue navi, e i tuoi
da
miglior vènti in miglior parte addotti
salvi
e securi omai, se i miei parenti
non
m'ingannâr quando gli augúri appresi.
Mira
là sovra a quel tranquillo stagno
dodici
allegri cigni, che pur dianzi
confusi
e dissipati a cielo aperto
erano
in preda al fero augel di Giove,
com'or
sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi
in lunga ed ozïosa riga
si
rivolgono a terra, e già la radono.
E
sí com'essi con gioiose ruote
trattando
l'aria, col cantar, col plauso
mostrato
han d'allegria segno e di scampo;
cosí,
placato il mare, a piene vele,
e
le tue navi e gli tuoi naviganti
o
preso han porto, o tosto a prender l'hanno:
vattene
or lieto ove 'l sentier ti mena».
Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro
e
le rose del collo e de le chiome,
come
l'aura movea, divina luce
e
divino spirâr d'ambrosia odore:
e
la veste, che dianzi era succinta,
con
tanta maestà le si distese
infino
a' piè, ch'a l'andar anco, e dea
veracemente
e Venere mostrossi.
Poscia che la conobbe, e la sua fuga
o
fermare, o seguir piú non poteo,
con
un rammarco tal dietro le tenne:
«Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,
a
che tuo figlio con mentite larve
tante
volte deludi? A che m'è tolto
di
congiunger la mia con la tua destra?
Quando
fia mai ch'io possa a viso aperto
vederti,
udirti, ragionarti, e vera
riconoscerti
madre?» Egli in tal guisa
si
querelava; e verso la cittade
se
ne giano invisibili ambidue:
ché
la dea, sospettando non tra via
fossero
distornati o trattenuti,
di
folta nebbia intorno gli coverse.
Ella
in alto levossi, e Cipri e Pafo
lieta
rivide, ov'entro al suo gran tempio
da
cento altari ha cento volte il giorno
d'incensi
e di ghirlande odori e fumi.
Ed
essi intanto in vèr le mura a vista
giunser
de la città, ch'al colle incontro
fe'
lor superba e specïosa mostra.
Maravigliasi Enea che sí gran macchina
già
sorga, ove pur dianzi non vedevasi
fors'altro
che foreste, o che tuguri.
Mira
il travaglio, mira la frequenzia
e
le porte e le vie piene di strepito.
Vede
con quanto ardor le turbe tirie
altri
a le mura, altri a la ròcca intendono
e
i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi,
che i siti ai propri alberghi insolcano;
e
quei, che del senato e de gli offici
piantan
le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge
là presso al mar che 'l porto cavano,
qua,
sotto al colle, che un teatro fondano,
per
le cui scene i gran marmi che tagliano,
e
le colonne, che tant'alto s'ergono,
le
rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
Con tal sogliono industria a primavera
le
sollecite pecchie al sole esposte
per
fiorite campagne esercitarsi,
quando
le nuove lor cresciute genti
mandano
in campo a côr manna e rugiada,
di
celeste liquor le celle empiendo;
o
quando incontro a scaricare i pesi
van
de l'altre compagne; o quando a stuolo
scacciano
i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che,
solo intente a logorar l'altrui,
de
le conserve lor si fan presepi,
allor
che l'opra ferve, allor che 'l mèle
sparge
di timo d'ogn'intorno odore.
«O fortunati voi, di cui già sorge
il
desïato seggio!», Enea dicendo,
a
parte a parte lo contempla e loda.
Arriva
intanto a la muraglia, e chiuso
ne
la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra
gente e gente va, che non è visto.
Era
nel mezzo a la cittade un bosco
di
sacro rezzo e grato, ove sospinti
da
la tempesta capitaro i Peni
primieramente;
e nel fondar trovaro
quel
che pria da Giunon fu lor predetto
di
barbaro destrier teschio fatale,
la
cui sembianza imagine e presagio
fu
poi che quella gente e quella terra
saria
per molte età ferace e fera.
Qui
fabbricava la sidonia Dido
un
gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e
i doni e la materia e l'artificio
lo
facean prezïoso e venerando.
Mura
di marmo avea; colonne e fregi
di
mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di
risonante e solido metallo.
Qui
si ristette Enea: qui vide cosa
che
téma gli scemò, speme gli accrebbe,
e
di pace affidollo e di salute;
ché
mentre, in aspettando la regina
ch'ivi
s'attende, la città vagheggia,
mentre
nel tempio l'apparato e l'opre
e
'l valor degli artefici contempla,
a
gli occhi una parete gli s'offerse,
in
cui tutta per ordine dipinta
era
di Troia la famosa guerra.
E,
conosciuti a le fattezze conte
prima
il troiano re, poscia l'argivo
e
'l fero d'ambidue nimico Achille,
fermossi,
e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira
fin dove è la notizia aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo
loco
che pien non sia de' nostri affanni?
Ecco
Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor
virtú; ché ferità non regna
là
've umana miseria si compiagne.
Or
ti conforta, ché tal fama ancora
di
pro ti fia cagione e di salvezza».
Cosí dicendo, e la già nota istoria
mirando,
or con sospiri, ed or con lutto
va
di vana pittura il cor pascendo.
E
come quei ch'a Troia il tutto vide,
i
siti rammentandosi e le zuffe,
col
sembiante riscontra il vivo e 'l vero.
Quinci
vede fuggir le greche schiere,
quindi
le frigie: a quelle Ettorre infesto,
a
queste Achille, a cui parea d'intorno
che
solo il suon del carro e solo il moto
del
cimiero avventasse orrore e morte.
Né senza lagrimar Reso conobbe
ai
destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,
fatti
di sangue in mille parti rossi:
che
sotto v'era Dïomede, anch'egli
insanguinato;
e si facea d'intorno
alta
strage di gente che nel sonno,
prima
che da lui morta, era sepolta.
Vedea
quindi i cavalli al campo addotti,
che
non potêr (fato a' Troiani avverso!)
di
Troia erba gustare, o ber del Xanto.
Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto
Troïlo,
già senz'armi e senza vita:
giovinetto
infelice, che di tanto
diseguale
ad Achille, ebbe ardimento
di
stargli a fronte. Egli in su 'l vòto carro
giacea
rovescio, e strascinato e lacero
da'
suoi cavalli, avea la destra ancora
a
le redini involta, e 'l collo e i crini
traea
per terra; e l'asta, onde trafitto
portava
il petto, con la punta in giuso
scrivea
note di sangue in su la polve.
Ecco intanto venir di Palla al tempio
in
lunga schiera ed ordinata pompa
le
donne d'Ilio a far del peplo offerta.
Battonsi
i petti, e scapigliate e scalze
paion
pregar divotamente afflitte
perdóno
e pace; ed ella irata e fera,
vòlte
le luci a terra e 'l tergo a loro,
mostra
fastidio di mirarle e sdegno.
Vede
il misero Ettòr che già tre volte
tratto
era d'Ilio a la muraglia intorno.
Vede
il padre piú misero, ch'in forza
del
dispietato e suo nimico Achille,
oro
in premio gli dà del suo cadavero;
spettacolo
crudel che gli trafigge
profondamente
e piú d'ogn'altro il core,
ove
il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso
vede
d'un tanto amico, ed un re tale,
che
solo e disarmato e supplichevole
stassi
a l'ucciditor del figlio avanti.
Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era
a
dura mischia incontro a' greci eroi.
Riconobbe
lo stuol che d'Orïente
addusse
de l'Aurora il negro figlio:
e
lui raffigurò, che di Vulcano
avea
lo sbergo e l'armatura in dosso.
Scorge d'altronde di lunati scudi
guidar
Pentesilèa l'armate schiere
de
l'Amazzoni sue: guerriera ardita,
che
succinta, e ristretta in fregio d'oro
l'adusta
mamma, ardente e furïosa
tra
mille e mille, ancor che donna e vergine,
di
qual sia cavalier non teme intoppo.
Stava da tante meraviglie ad una
sola
vista ristretto, attento e fiso
Enea
pien di vaghezza e di stupore:
quand'ecco
la regina accompagnata
da
real corte, con real contegno
entro
al tempio bellissima comparve.
Qual
su le ripe de l'Eurota suole,
o
ne' gioghi di Cinto, allor Dïana
ch'a
l'Orèadi sue la caccia indíce,
a
mille che le fan cerchio d'intorno,
divisar
vari offici, e faretrata
da
la faretra in su gir sovra l'altre
neglettamente
altera, onde a Latona
s'intenerisce
per dolcezza il core;
tale
era Dido, e tal per mezzo a' suoi
se
ne gia lieta, e dava ordine e forma
al
nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.
Giunta
al cospetto de la diva, in mezzo
de
la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta
d'armati, in maestà si pose:
e
mentre con dolcezza editti e leggi
porge
a la gente, e con egual compenso
l'opre
distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi
Enea, nel tempio stesso
vede
da gran concorso attorneggiati
entrar
Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani,
che da sé disgiunti e sparsi
avea
dianzi del mar l'aspra tempesta.
Stupor,
timor, letizia, tenerezza
e
disio d'abbracciarli e di mostrarsi
assaliro
in un tempo Acate e lui.
Ma,
dubii del successo, entro la nube
dissimulando
se ne stêro, e cheti,
per
ritrar che seguisse e che seguito
fosse
già de le navi e de' compagni,
di
cui questi eran primi e li piú scelti
di
ciascun legno. E già pieno era il tempio
di
tumulto e di vóti ch'altamente
si
sentian vènia risonare e pace.
Poiché furo entromessi, e ch'udïenza
fur
lor concessa, il saggio Ilïoneo
prese
umilmente in cotal guisa a dire:
«Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar
nuova cittade, e con giustizia
por
freno a gente indomita e superba,
noi
miseri Troiani, a tutti i vènti,
a
tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti
dopo l'onde in preda al foco
che
da' tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti
a proveder che nel tuo regno
non
si commetta un sí nefando eccesso.
Fa
cosa di te degna, abbi di noi
pietà,
che pii, che giusti, ch'innocenti
siamo,
non predatori, non corsari
de
le vostre marine o de l'altrui:
tanto
i vinti d'ardire, e gl'infelici
d'orgoglio
e di superbia, ohimè! non hanno.
Una parte d'Europa è, che da' Greci
si
disse Esperia, antica, bellicosa
e
fertil terra, dagli Enotrei cólta.
Prima
Enotria nomossi, or, come è fama,
preso
d'Italo il nome, Italia è detta.
Qui
'l nostro corso era diritto, quando
Orïon
tempestoso i vènti e 'l mare
sí repente commosse, e mar sí fero,
vènti
sí pertinaci, e nembi e turbi
cosí
rabbiosi, che sommersi in parte
e
dispersi n'ha tutti: altri a le secche,
altri
a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e
noi pochi, di tanti, ha qui condotti.
Ma qual sí cruda gente, qual sí fera
e
barbara città quest'uso approva,
che
ne sia proibita anco l'arena?
Che
guerra ne si muova, e ne si vieti
di
star ne l'orlo de la terra a pena?
Ah!
se de l'armi e de le genti umane
nulla
vi cale, a dio mirate almeno,
che
dal ciel vede e riconosce i meriti
e
i demeriti altrui. Capo e re nostro
era
pur dianzi Enea, di cui piú giusto,
piú
pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace
guerrier
non fu già mai. Se questi è vivo,
se
spira, se il destin non ce l'invidia,
quanto
ne speriam noi, tanto potresti
tu
non pentirti a provocarlo in prima
a
cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem
terre, avem armi, avemo Aceste
che
n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.
Quel
che vi domandiamo è spiaggia, è selva,
è
vitto da munir, da risarcire
i
vòti e stanchi e sconquassati legni,
per
poter lieti (ritrovando il duce
e
gli altri nostri, o se pur mai n'è dato
veder
l'Italia) ne l'Italia addurne;
ma
se nostra salute in tutto è spenta,
se
te, nostro signor, nostro buon padre,
di
Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna
non
ci riman del giovinetto Iulo,
almen
tornar ne la Sicania, ond'ora
siam
qui venuti e dove il buon Aceste
n'è
parato mai sempre ospite e rege».
Al dir d'Ilïoneo fremendo tutti
assentirono
i Teucri, e la regina
con
gli occhi bassi e con benigna voce
brevemente
rispose: «O miei Troiani,
toglietevi
dal cuore ogni timore,
ogni
sospetto. Gli accidenti atroci,
la
novità di questo regno a forza
mi fan sí rigorosa, e sí guardinga
de' miei confini. E chi di Troia il nome,
chi
de' Troiani i valorosi gesti,
e
l'incendio non sa di tanta guerra?
Non
han però sí rozzo core i Peni:
non
sí lunge da lor si gira il sole,
che
né pietà né fama unqua v'arrive.
Voi
di qui sempre, o de la grand'Esperia
e
di Saturno che cerchiate i campi,
o
che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice
tornare
ai liti, in ogni caso liberi
ve
n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta
scarsa
non vi sarò, né di sussidio:
e
se qui dimorar meco voleste,
questa
è vostra città. Tirate al lito
vostri
navili: ché da' Teucri a' Tiri
nulla
scelta farò, nullo divario.
Cosí
qui fosse il vostro re con voi!
cosí
ci capitasse! Ma cercando
io
manderò di lui fino a l'estremo
de'
miei confini la riviera tutta,
se
per sorte gittato in queste spiagge
per
selve errando o per cittadi andasse».
Rincorossi a tal dire il padre Enea
e
'l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan
già disïosi. Acate il primo
mosse
dicendo: «Omai, signor, che pensi?
Tutto
è sicuro, e tutti a salvamento
i
nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol
un ne manca; e questo a noi davanti
il
mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di
tua madre risponde». A pena Acate
ciò
disse, che la nugola s'aperse,
assottigliossi
e col ciel puro unissi.
Rimase
in chiaro Enea, tale ancor egli
di
chiarezza e d'aspetto e di statura,
che
come un dio mostrossi: e ben a dea
era
figliuol, che di bellezza è madre.
Ei
degli occhi spirava e de le chiome
quei
chiari, lieti e giovenili onori
ch'ella
stessa di lui madre gl'infuse.
Tale
aggiunge l'artefice vaghezza
a
l'avorio, a l'argento, al pario marmo,
se
di fin oro li circonda e fregia.
Cotal,
comparso d'improvviso a tutti,
si
fece avanti a la regina, e disse:
«Quegli che voi cercate, Enea troiano,
son
qui, dal mar ritolto. A te ricorro,
vera
regina, a te sola pietosa
de
le nostre ineffabili fatiche.
Tu
noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde
d'ogni
strazio bersaglio, d'ogni cosa
bisognosi
e mendíci, nel tuo regno
e
nel tuo albergo umanamente accogli.
A
renderti di ciò merito eguale
bastante
non son io, né fôran quanti
de
la gente di Dardano discesi
vanno
per l'universo oggi dispersi.
Ma
gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura,
se
nel mondo è giustizia, se si truova
chi
d'altamente adoperar s'appaghe)
te
ne dian guiderdone. Età felice!
Avventurosi
genitori e grandi
che
ti diedero al mondo! Infin che i fiumi
si
rivolgono al mare, infin ch'a' monti
si
giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,
i
tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi
mi
saran sempre, ovunque io sia, davanti».
Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto,
al
caro Ilïonèo la destra porse,
la
sinistra a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto,
al forte Gía: l'un dopo l'altro
tutti
gli salutò. Stupí Didone
nel
primo aspetto d'un sí nuovo caso,
e
d'un uom tale; indi riprese a dire:
«Qual forza o qual destino a tanti rischi
t'hanno
in sí strani, in sí feri paesi
esposto,
o de la dea famoso figlio?
E
sei tu quell'Enea che in su la riva
di
Simoenta il gran dardanio Anchise
di
Venere produsse? Io mi ricordo
quel
che n'intesi già da Teucro, quando,
fuor
di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi
regni cercava. Egli a Sidone
venne
in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo
mio padre allor facea l'impresa
e
'l conquisto di Cipro. Infin d'allora
io
del caso di Troia e del tuo nome
e
de l'oste de' Greci ebbi notizia.
Ed
ei ch'era sí rio nimico vostro,
celebrava
il valor di voi Troiani,
e
trar volea da Troia il suo legnaggio.
Voi
da me dunque amico e fido ospizio,
giovini,
arete. E me fortuna ancora,
a
la vostra simíle, ha similmente
per
molti affanni a questi luoghi addotta:
sí
che natura e sofferenza e pruova
de'
miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa
e sovvenevole a gli altrui».
Ciò detto, Enea cortesemente adduce
ne
la sua reggia. In ogni tempio indíce
feste
e preci solenni. Ordina appresso
che
si mandino al mar venti gran tori,
cento
gran porci, cento grassi agnelli,
con
cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni
per
vitto e per letizia è di mestiero.
Dentro
al real palagio, realmente,
de'
piú gentili e sontuosi arnesi
il
convito e le stanze orna e prepara;
cuopre
d'ostro le mura; empie le mense
d'argento
e d'oro, ove per lunga serie
son
de' padri e degli avi i fatti egregi.
Enea, cui la paterna tenerezza
quetar
non lascia, a le sue navi innanzi
ratto
spedisce Acate, che di tutto
Ascanio
avvisi, ed a sé tosto il meni;
ché
in Ascanio mai sempre intento e fiso
sta
del suo caro padre ogni pensiero.
Gli
comanda, oltre a ciò, ch'a la regina
porti
alcune a donar spoglie superbe
che
si salvâr da la ruina appena
e
dal foco di Troia: un ricco manto
ricamato
a figure, e di fin'oro
tutto
contesto: un prezïoso velo,
cui
di pallido acanto un ampio fregio
trapunto
era d'intorno: ambi ornamenti
d'Elena
argiva, e di sua madre Leda
mirabil
dono. In questo avea le bionde
sue
chiome avvolte il dí che di Micene
a
nuove nozze, e non concesse, uscio;
e
porti anco lo scettro, onde superba
Ilïone
di Prïamo sen giva
primogenita
figlia, e 'l suo monile
di
gran lucide perle; e quella stessa,
onde
'l fronte cingea, doppia corona,
di
gemme orïentali ornata e d'oro.
Tutto
ciò procurando il fido Acate
in
vèr le navi accelerava il piede.
Venere in tanto con nuov'arte e nuovi
consigli
s'argomenta a far che in vece
e
'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído
se
ne vada in Cartago; e con quei doni,
con
le dolcezze sue, con la sua face
alletti,
incenda, amor desti e furore
nel
petto a la regina, onde sospetto
piú
non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia
de
la sua gente, o di Giunon l'insidie,
che
da pensare e da vegghiar le danno
tutte
le notti. E fatto a sé venire
l'alato
dio, cosi seco ragiona:
«Figlio, mia forza e mia maggior possanza:
figlio,
che del gran padre anco non temi
l'orribil
tèlo, onde percosso giacque
chi
ne diè fin nel ciel briga e spavento,
a
te ricorro e dal tuo nume aíta
chieggio
a l'altro mio figlio Enea tuo frate.
Come
Giuno il persegua, e come l'aggia
per
tutti i mari omai spinto e travolto,
tu
'l sai che del mio duol ti sei doluto
piú
volte meco. Or la sidonia Dido
l'ave
in sua forza, e con benigni e dolci
modi
fin qui l'accoglie e lo trattiene.
Ma
là dov'è, lassa! che val, comunque
sia
caramente accolto? in casa a Giuno
da
le carezze ancor chi m'assicura?
Ch'ella
piú neghittosa o meno atroce,
in
un caso non fia di tanto affare.
E
però con astuzia e con inganno
cerco
di prevenirla, e del tuo foco
ardere
il cuor de la regina in guisa,
ch'altro
nume nol mute, e meco l'ami
d'immenso
affetto. Or come agevolmente
ciò
porre in atto e conseguir si possa,
ascolta.
Enea manda testé chiamando
il
suo regio fanciullo, amor supremo
del
caro padre, e mio sommo diletto,
perché
de' Tiri a la città sen vada
con
doni a la regina, che di Troia
a
l'incendio avanzarono ed al mare.
Questo
vinto dal sonno, o sopra l'alta
Citèra,
o dentro al sacro bosco Idalio
terrò
celato sí ch'ei non s'accorga,
ed
accorto di ciò non faccia altrui
con
alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo,
il noto fanciullesco aspetto
mentire
acconciamente, in lui ti cangia
sola
una notte, e gli suoi gesti imita.
E
quando Dido al suo real convito
riceveratti,
e, come a mensa fassi,
sarà,
bevendo e ragionando, allegra;
quando,
come farà, cortese in grembo
terratti,
abbracceratti, e dolci baci
porgeratti
sovente, a poco a poco
il
tuo foco le spira e 'l tuo veleno».
Al voler della sua diletta madre
pronto
mostrossi e baldanzoso Amore,
e
gittò l'ali; ed in un tempo l'abito
e
'l sembiante e l'andar prese di Iulo.
Ciprigna
intanto al giovinetto Ascanio
tale
un profondo e dolce sonno infuse,
e
'n guisa l'adattò, che agiatamente
in
grembo lo si tolse; e ne la cima
de
la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di
lieti fiori e d'odorata persa,
a
la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.
Cupído
co' suoi doni allegramente,
per
far quanto gli avea la madre imposto,
con
la guida si pon d'Acate in via.
Giunse
che giunta era Didone appunto
ne
la gran sala, che di fini arazzi,
di
fior, di frondi e di festoni intorno
era
tutta vestita, ornata e sparsa.
E
già sopra la sua dorata sponda
con
real maestà s'era nel mezzo
a
tutti gli altri alteramente assisa.
Appresso
Enea, poscia di mano in mano
sopra
drappi di porpora e di seta
si
stendea la troiana gioventute.
Già
con l'acqua e con Cerere a le mense
gli
aurati vasi e i nitidi canestri
e
i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano
dentro, a le vivande intorno,
intorno
a' fuochi, a dar ordine a' cibi,
cinquanta
ancelle, ed altre cento fuori
con
altrettanti di una stessa etade
tra
scudieri e pincerni; e gli atrii tutti
si
rïempiêr di Tiri, a cui le mense
di
tappeti dipinti eran distese.
A l'apparir del giovinetto Iulo
corser
tutti a mirare il manto e 'l velo
e
gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,
a
sentir quelle sue finte parole,
a
contemplar quel grazïoso aspetto,
ch'ardore
e deità raggiava intorno.
Ma
sopra tutti l'infelice Dido
non
potea né la vista, né 'l pensiero
saziar,
mirando or gli suoi doni, or lui;
e
com' piú gli rimira, e piú s'accende.
Poiché lunga fïata umile e dolce
del
non suo genitor pendé dal collo,
e
finse di figliuol verace affetto,
si
volse a la regina. Ella con gli occhi,
col
pensier tutto lo contempla e mira:
lo
palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.
Misera!
che non sa quanto gran dio
s'annidi
in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando
il precetto, a poco a poco
de
la mente Sichèo comincia a trarle,
con
vivo amore e con visibil fiamma
rompendole
del core il duro smalto,
e
'ntroducendo il suo già spento affetto.
Cessati i primi cibi, e da' ministri
già
le mense rimosse, ecco di nuovo
comparir
nuove tazze e vino e fiori,
per
lietamente incoronarsi e bere.
Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che
d'allegrezza empian le sale e gli atrii.
E
i torchi e le lumiere che pendevano
da
i palchi d'oro, poiché notte fecesi,
vinceano
'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.
Qui
fattosi Didone un vaso porgere
d'oro
grave e di gemme, ov'era solito
ne'
conviti e ne' dí solenni e celebri
ber
Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di
fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,
orò,
cosí dicendo: «Eterno Giove,
che,
Albergator nomato, hai de gli alberghi
e
de le cortesie cura e diletto,
priegoti
ch'a' Fenici ed a' Troiani
fausto
sia questo giorno, e memorando
sempre
a' posteri loro. E te, Lièo,
largitor
di letizia, e te, celeste
e
bionda Giuno, a questa prece invoco.
Voi
co' vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate
a' prieghi miei divoto assenso».
Ciò detto, riversollo, e lievemente
del
sacrato liquor la mensa asperse,
poscia
ella in prima con le prime labbia
tanto
sol ne sorbí quanto n'attinse.
Indi
con dolce oltraggio e con rampogne
a
Bizia il diè, che valorosamente
a
piena bocca infino a l'aureo fondo
vi
si tuffò col volto, e vi s'immerse.
Ciò
seguîr gli altri eroi. Comparve intanto
co'
capei lunghi e con la cetra d'oro
il
biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantò
del ciel le meraviglie e i moti
che
dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò
le vie che drittamente torte
rendon
vaga la luna e buio il sole;
come
prima si fêr gli uomini e i bruti;
com'or
si fan le piogge e i venti e i folgori:
cantò
l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,
e
perché tanto a l'Oceàno il verno
vadan
veloci i dí, tarde le notti.
Un novo plauso incominciaro i Tiri:
seguiro
i Teucri: e l'infelice Dido,
che
già fea dolce con Enea dimora,
quanto
bevesse amor non s'accorgendo,
a
lungo ragionar seco si pose
or
di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi
venisse
a Troia de l'Aurora il figlio,
or
qual fosse Diomede, or quanto Achille.
«Anzi,
se non t'è grave, - al fin gli disse -
incomincia
a contar fin da principio
e
l'insidie de' Greci e la ruina
e
l'incendio di Troia, e 'l corso intero
de
gli errori vostri: già che 'l settim'anno
e
per terra e per mar raminghi andate».
Stavan taciti, attenti e disïosi
d'udir
già tutti, quando il padre Enea
in
sé raccolto, a cosí dir da l'alta
sua
sponda incominciò: «Dogliosa istoria
e
d'amara e d'orribil rimembranza,
regina
eccelsa, a raccontar m'inviti:
come
la già possente e glorïosa
mia
patria, or di pietà degna e di pianto,
fosse
per man de' Greci arsa e distrutta.
E
qual ne vid'io far ruina e scempio:
ch'io
stesso il vidi, ed io gran parte fui
del
suo caso infelice. E chi sarebbe,
ancor
che Greco e Mirmidóne e Dòlopo,
che
a ragionar di ciò non lagrimasse?
E
già la notte inchina, e già le stelle
sonno,
dal ciel caggendo,
a
gli occhi infondono:
ma
se tanto d'udire i nostri guai,
se
brevemente di saver t'aggrada
l'ultimo
eccidio, ond'ella arse e cadeo,
benché
lutto e dolor mi rinnovelle,
e
sol de la memoria mi sgomente,
io
lo pur conterò. Sbattuti e stanchi
di
guerreggiar tant'anni, e risospinti
ancor
da' fati, i greci condottieri
a
l'insidie si diêro; e da Minerva
divinamente
instrutti, un gran cavallo
di
ben contesti e ben confitti abeti
in
sembianza d'un monte edificaro.
Poscia,
finto che ciò fosse per vóto
del
lor ritorno, di tornar sembiante
fecero
tal, che se ne sparse il grido.
Dentro
al suo cieco ventre e ne le grotte,
che
molte erano e grandi, in sí gran mole,
rinchiuser
di nascosto arme e guerrieri
a
ciò per sorte e per valore eletti.
Giace di Troia un'isola in cospetto
(Tènedo
è detta) assai famosa e ricca,
mentre
ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto
è
sol di naviganti e di navili,
infido
seno, e mal sicura spiaggia.
Qui,
poiché di Sigèo sciolse e spario,
la
greca armata si rattenne, e dietro
appiattossi
al suo lito ermo e deserto:
e
noi credemmo che veracemente
fosse
partita, e che a spiegate vele
gisse
a Micene. Onde la Teucria tutta,
già
cotant'anni lagrimosa e mesta,
volta
ne fu subitamente in gioia.
S'aprîr
le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno
le
genti tutte, disïose e liete
di
veder vòti i campi e sgombri i liti,
ch'eran
coverti pria di navi e d'armi.
"Qui s'accampava Achille, e qui de'
Dòlopi
eran
le tende, ivi solean le zuffe
farsi
de' cavalieri e là de' fanti"
dicean
parte vagando; e parte accolti
facean
mirando al gran destriero intorno
meraviglie
e discorsi: e chi per sacro,
e
chi per esecrando il vóto e 'l dono
avean
di Palla. Il primo fu Timete
a
dir ch'entro le mura, e ne la ròcca
quindi
si conducesse, o froda, o fato
che
ciò fosse de' miseri Troiani.
Ma
Capi e gli altri, il cui piú sano avviso
o
per insidïose, o per sospette,
quantunque
sacre, avea le greche offerte,
voleano
o che del mar fosse nel fondo
precipitato,
o che di fiamme ardenti
si
circondasse, o che forato e lacero
gli
fosse il petto e sviscerato il fianco.
Stava tra questi due contrari in forse
in
due parti diviso il volgo incerto;
quando
con gran caterva e con gran furia
da
la ròcca discese, e di lontano
gridò
Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o
sfortunati! agli nemici, a' Greci
date
credenza? a lor credete voi
che
sian partiti? e sarà mai che doni
siano
i lor doni, e non piú tosto inganni?
Cosí
v'è noto Ulisse? O in questo legno
sono
i Greci rinchiusi, o questa è macchina
contra
alle nostre mura, o spia per entro
ai
nostri alberghi, o scala o torre o ponte
per
di sopra assalirne. E che che sia,
certo
o vi cova o vi si ordisce inganno,
ché
de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".
Ciò detto, con gran forza una
grand'asta
avventogli,
e colpillo, ove tremante
stette
altamente infra due coste infissa:
e
'l destrier, come fosse e vivo e fiero,
fieramente
da spron punto cotale,
si
storcé, si crollò, tonogli il ventre,
e
rintonâr le sue cave caverne.
E
se 'l fato non era a Troia avverso,
se
le menti eran sane, avea quel colpo
già
commossi infiniti a lacerarlo,
e
del tutto a scovrir l'agguato argolico:
ond'oggi
e tu, grand'Ilio, e tu, diletta
Troia,
staresti. Ma si vide intanto
de'
pastor paesani una masnada
venir
gridando al re, ch'ivi era giunto,
e
trargli avanti un giovine prigione
ch'avea
dietro le mani al tergo avvinte.
Questi
era greco; e da' suoi Greci avea
di
salvare il destrier, d'aprir lor Troia
assunto
impresa; e per condurla, a tempo
ascosto,
a tempo a quei pastori offerto
s'era
per se medesmo, in sé disposto
e
fermo di due cose una a finire,
o
quest'opra, o la vita. A ciò concorso,
per
desio di vedere, il popol tutto
dal
caval si distolse, e diessi a gara
a
schernire il prigione. Or ascoltate
le
malizie de' Greci; e da quest'uno
conosceteli
tutti. Egli nel mezzo
cosí
com'era a le nemiche schiere,
turbato,
inerme e di catene avvinto,
fermossi:
e poi che rimirolle intorno,
con
voce di pietà proruppe, e disse:
"Or quale o terra, o mare, o loco
altrove
sarà,
misero me! che mi raccolga,
o
che m'affidi omai? poiché tra' Greci
non
ho dov'io ricovri, e da' Troiani
non
deggio altro aspettar che strazio e morte?"
Ne
commosse a pietà, n'acquetò l'ira
sí
doglioso rammarco: e con dolcezza
e
con promesse il confortammo a dire
chi,
di che loco e di che sangue fosse,
e
che portasse, e qual fidanza avesse
a
darnesi prigione. Egli, in tal guisa
assecurato,
al re si volse e disse:
"Signor,
segua che vuole, in tuo cospetto
io
dirò tutto; e dirò vero. E prima
d'esser
greco io non niego; ché fortuna
può
ben far che Sinon sia gramo e misero,
ma
non già mai che sia bugiardo e vano.
Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
ti
venne mai di Palamède il nome,
che
nomato e pregiato e glorïoso,
e
da Belo altamente era disceso;
se
ben con falso e scelerato indizio
di
tradigion, per detestar la guerra,
ei
fu da' Greci indegnamente occiso:
com'or,
che ne son privi, i Greci stessi
lo
piangon tutti! A questo Palamede,
a
cui per parentela era congiunto,
il
pover padre mio ne' miei prim'anni
pria
per valletto nel mestier de l'armi
poi
per compagno a questa guerra diemmi.
Infin
ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,
fioriro
anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome
e
'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.
Estinto
lui (che per invidia avvenne,
com'ognun
sa, del traditore Ulisse),
amaramente
il piansi. E 'l caso indegno
d'un
tanto amico, e la mia vita oscura
tra
me sdegnando, come soro e folle
ch'io
fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte
mel
consentisse, o se mai fossi in Argo
vincitor
ritornato, alta vendetta
ne
gli promisi, e con minacce e motti
acerbi
acerbamente il provocai.
Questo fu del mio mal prima radice;
e
quinci de' suoi falli e del mio duolo
consapevole
Ulisse, a spaventarmi,
a
travagliarmi, a seminar susurri
si
diè nel volgo, e procurarmi inciampi
ond'io
cadessi. E non cessò, ch'ordimmi
per
mezzo di Calcante... Ma dov'entro,
lasso!
senza profitto a fastidirvi
con
noiose novelle? A voi sol basta
di
saver ch'io son greco, già che i Greci
tutti
egualmente per nimici avete.
Or
datemi, signor, supplizio e morte
qual
a voi piace, ché piacere e gioia
n'aranno
i regi ancor d'Itaca e d'Argo".
E
qui si tacque. Allor brama ne venne,
non
che disio, di piú sapere avanti;
non
ben sapendo ancor, miseri noi!
quanta
scelleratezza e quanta astuzia
fosse
ne' Greci. Egli, a seguir costretto,
mostrossi
in prima paventoso, e poscia
di
nuovo assicurossi, e finse, e disse:
"Hanno molte fïate i Greci,
afflitti
già
da la guerra, e dal disagio astretti,
disïato
e tentato anco piú volte
di
qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.
Cosí
fatto l'avessero! Ma sempre
or
il verno, or i vènti, or le procelle
gli
han distornati. E pur dianzi che l'opra
del
caval che vedete era fornita,
di
nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,
di
tempeste, di turbini e di nembi
risonò
'l cielo, e conturbossi il mare.
Onde,
sospesi, Eurípilo mandammo
a
spïar sopra a ciò quel che da Febo
ne
s'avvertisse. Riportonne un empio
e
spaventoso oracolo; e fu questo:
-
Col sangue e con la morte d'una vergine
placaste
i vènti per condurvi in Ilio;
col
sangue e con la morte ora d'un giovine
convien
placarli per ridurvi in Grecia. -
A
cosí fiera voce sbigottissi,
impallidissi,
e tremò 'l volgo tutto,
ciascun
per sé temendo; e nessun certo
qual
di loro accennasse Apollo e 'l fato.
Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo
con
gran tumulto appresentar Calcante:
e
del volere in ciò de' santi numi
interrogollo.
Ed ei rispose in guisa
che
la sua fellonia, benché da tutti
fusse
prevista, fu però da molti
simulata
e taciuta, e da molti anco
a
me predetta: pur ei tacque ancora
per
dieci giomi; e scaltramente al niego
si
mise di voler che per suo detto
fosse
alcun destinato o spinto a morte.
Ma
poi, come da gridi astretto e vinto,
di
conserto con lui ruppe il silenzio,
sí
ch'io fui dichiarato al fin per vittima;
consentîr
tutti, perché tutti ancora
finian
con la mia morte il lor periglio.
Era già da vicino il giorno orribile,
in
che doveano al sacrificio offrirmi:
e
già 'l farro e già 'l sale e già le bende
erano
a le mie tempie intorno avvolte,
quando,
rotto (io nol niego) ogni ritegno,
da
la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti
desser
le vele (ch'eran presti a darle)
di
buia notte in un pantan m'ascosi,
ove
nel fango infra le scarde e i giunchi
stava
qual mi vedete. Ora son qui
privo
d'ogni conforto e d'ogni speme
di
mai piú riveder la patria antica,
i
dolci figli e 'l desïato padre,
che
saran, lasso me! per la mia fuga,
benché
innocenti, ancor forse in mia vece
incarcerati,
e tormentati, e morti.
Or io, signor, per quelli eterni dèi
che
scorgon di là su se 'l vero io parlo,
per
quella pura e 'ntemerata fede
(se
tra' mortali in alcun loco è tale)
ond'io
già tutto a rivelar ti vegno,
priegoti
che pietà di me ti prenda,
e
de' miei tanti e sí gravosi affanni
ch'indegnamente
io soffro". A cotal pianto
commossi,
e da noi fatti anco pietosi,
vita
e vènia gli diamo. E di sua bocca
comanda
il re che si disferri e sciolga;
poi
dolcemente in tal guisa gli parla:
"Qual
tu ti sia, de' tuoi perduti Greci
ti
dimentica omai; ché per innanzi
sarai
de' nostri. Or mi rispondi il vero
di
quel ch'io ti domando. A che fine hanno
qui
sí grande edificio i Greci eretto?
Per
consiglio di cui? Con qual avviso
l'han
fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?
Che
trama è questa?" Avea 'l re detto a pena,
quand'ei,
d'inganni e d'arte greca instrutto,
le
già disciolte mani al cielo alzando,
disse:
"Voi fochi eterni e 'nvïolabili,
voi
fasce ond'io portai le tempie avvinte,
voi
sacri altari, e voi cultri nefandi,
cui
fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico
per
testimoni invoco. A me lece ora
ch'io
mi disciolga, e mi dissacri in tutto
da
l'obbligo de' Greci. E mi lece anco
che
non gli ami, e che gli odii, e che divolghi
quel
che da lor si cela, già ch'astretto
piú
non son de la patria a legge alcuna.
Tu,
se vero io ti dico, e se gran merto
di
ciò ti rendo, e te, Troia, conservo,
conserva
a me la già promessa fede.
Nel cominciar di questa guerra i Greci
riposero
ogni speme, ogni fidanza
ne
l'aiuto di Palla; e ben riposte
fûr
sempre, infin che l'empio Dïomede,
e
l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,
il
sacro tempio suo non vïolaro:
come
fêr quando, ne la ròcca ascesi,
n'uccisero
i custodi, e n'involaro
il
Palladio fatale, osando impuri
por
le man sanguinose al sacrosanto
suo
simulacro; e macular le intatte
e
'ntemerate sue verginee bende.
Da
indi in qua d'ardir sempre e di forze
scemâr,
non che di speme; e Palla infesta
ne
fu lor sempre; e ne diè chiari segni
e
portentosi, allor ch'al campo addotta
fu
la sua statua, che, posata a pena,
torvamente
mirogli, e lampi e fiamme
vibrò
per gli occhi, e per le membra tutte
versò
salso sudore. Indi tre volte,
meraviglia
a contarlo! alto da terra
surse,
e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.
Allor
gridando indovinò Calcante
che
fuggir si dovesse, e tosto a' vènti
spiegar
le vele: ché di Troia in vano
era
l'assedio, se con altri augúri
d'Argo
non si tornava un'altra volta,
e
de la dea non si placava il nume,
ch'or,
per ciò fare, han seco in Grecia addotto.
Onde
giunti a Micene, incontinente
si
daranno a dispor l'armi e le genti
e
gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.
Poi,
ripassando il mar, con maggior forza
di
nuovo assaliranvi e d'improvviso:
cosí
Calcante interpreta, e predice.
Or questa mole, che tant'alto sorge,
qui
per consiglio di Calcante è posta
in
vece del Palladio, e per ammenda
del
nume offeso, a bello studio intesta
di
legni cosí gravi e cosí grandi,
ed
a sí smisurata altezza eretta,
a
fin che per le porte entro a le mura
quinci
addur non si possa, ove per segno
e
per memoria poi del nume antico
riverita
da voi, sacrata e cólta
sia
ricovro e tutela al popol vostro.
Ché
allor che questo dono a Palla offerto
per
vostra man sia vïolato e guasto,
ruina
estrema (la qual sopra lui
caggia
piú tosto) a voi vuol che ne venga,
ed
al gran vostro impero: ed, a rincontro,
quando
da voi sia dentro al vostro cerchio
condotto
e custodito, allor che l'Asia
congiurerà
con le sue forze tutte
a
l'esterminio d'Argo, e che tal fato
sopra
a' nostri nepoti in cielo è fisso".
Con tal arte Sinon, con tali insidie
fe'
sí che gli credemmo; e quelli stessi
cui
non potêr né 'l figlio di Tideo,
né
di Larissa il bellicoso alunno,
né
diece anni domar, né mille navi,
furon
da lagrimette e da menzogne
sforzati
e vinti. In questa a gl'infelici
un
altro sopravvenne assai maggiore
e
piú fiero accidente; onde a ciascuno
d'improvviso
spavento il cor turbossi.
Era Laocoonte a sorte eletto
sacerdote
a Nettuno; e quel dí stesso
gli
facea d'un gran toro ostia solenne:
quand'ecco
che da Tènedo (m'agghiado
a
raccontarlo) due serpenti immani
venir
si veggon parimente al lito,
ondeggiando
coi dorsi onde maggiori
de
le marine allor tranquille e quete.
Dal
mezzo in su fendean coi petti il mare,
e
s'ergean con le teste orribilmente,
cinte
di creste sanguinose ed irte.
Il
resto con gran giri e con grand'archi
traean
divincolando, e con le code
l'acque
sferzando sí che lungo tratto
si
facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti
a la riva, con fieri occhi accesi
di
vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrâr
le lingue, e gittâr fischi orribili.
Noi,
di paura sbigottiti e smorti,
chi
qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui
s'affilâr
drittamente a Laocoonte,
e
pria di due suoi pargoletti figli
le
tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen
fêro crudo e miserabil pasto.
Poscia
a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto
in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser
sí che le scagliose terga
con
due spire nel petto e due nel collo
gli
racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro
al suo capo fieramente infisse,
gli
addentarono il teschio. Egli, com'era
d'atro
sangue, di bava e di veleno
le
bende e 'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar
con le man tentava indarno,
e
d'orribili strida il ciel feriva;
qual
mugghia il toro allor che dagli altari
sorge
ferito, se del maglio appieno
non
cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I
fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati,
in vèr la ròcca insieme
strisciando
e zufolando, al sommo ascesero:
e
nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti,
a' piè di lei si raggrupparo.
Rinnovossi
di ciò nel volgo orrore
e
tremore e spavento; e mormorossi
che
degnamente avea Laocoonte
di
sua temerità pagato il fio,
e
del furor che contra al sacro legno
gli
armò l'impura e scelerata mano:
e
gridâr tutti che di Palla al tempio
si
conducesse, e con preghiere e vóti
de
la dea si facesse il nume amico.
A
ciò seguire immantinente accinti,
ruiniamo
la porta, apriam le mura,
adattiamo
al cavallo ordigni e travi,
e
ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosí
mossa e tirata agevolmente
la
macchina fatale il muro ascende,
d'armi
pregna e d'armati, a cui d'intorno
di
verginelle e di fanciulli un coro,
sacre
lodi cantando, con diletto
porgean
mano a la fune. Ella, per mezzo
tratta
de la città, mentre si scuote,
mentre
che ne l'andar cigola e freme,
sembra
che la minacci. O patria, o Ilio,
santo
de' numi albergo! inclita in arme
dardania
terra! Noi la pur vedemmo
con
tanti occhi a l'entrar, che quattro volte
fermossi,
e quattro volte anco n'udimmo
il
suon de l'armi: e pur, da furia spinti,
ciechi
e sordi che fummo, i nostri danni
ci
procurammo: ché 'l dí stesso addotto
e
posto in cima a la sacrata ròcca
fu
quel mostro infelice. Allor Cassandra
la
bocca aperse, e quale esser solea
verace
sempre e non creduta mai,
l'estremo
fine indarno ci predisse:
e
noi di sacra e di festiva fronde
velammo
i templi il dí, miseri noi,
che
de' lieti dí nostri ultimo fue.
Scende da l'Oceàn la notte intanto,
e
col suo fosco velo involve e copre
la
terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme
l'ordite
insidie. I Teucri a i loro alberghi,
a
i lor riposi addormentati e queti
giacean
securamente; e già da Tènedo
a
l'usata riviera in ordinanza
vèr
noi se ne venia l'argiva armata,
col
favor de la notte occulta e cheta;
quando
da la sua poppa il regio legno
ne
diè cenno col foco. Allor Sinone,
che
per nostra ruina era da noi
e
dal fato maligno a ciò serbato,
accostossi
al cavallo, e 'l chiuso ventre
chetamente
gli aperse, e fuor ne trasse
l'occulto
agguato. Usciro a l'aura in prima
i
primi capi baldanzosi e lieti,
tutti
per una fune a terra scesi.
E
fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse,
Atamante
e Toante e Macaóne
e
Pirro e Menelao con lo scaltrito
fabbricator
di questo inganno, Epèo.
Assalîr
la città che già ne l'ozio
e
nel sonno e nel vino era sepolta;
ancisero
le guardie; aprîr le porte;
miser
le schiere congiurate insieme;
e
diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora
che
nel primo riposo hanno i mortali
quel
ch'è dal cielo a i loro affanni infuso
opportuno
e dolcissimo ristoro:
quand'ecco
in sogno (quasi avanti gli occhi
mi
fosse veramente) Ettòr m'apparve
dolente,
lagrimoso, e quale il vidi
già
strascinato, sanguinoso e lordo
il
corpo tutto, e i piè forato e gonfio.
Lasso
me! quale e quanto era mutato
da
quell'Ettòr che ritornò vestito
de
le spoglie d'Achille, e rilucente
del
foco ond'arse il gran navile argolico!
Squallida
avea la barba, orrido il crine
e
rappreso di sangue; il petto lacero
di
quante unqua ferite al patrio muro
ebbe
d'intorno. E mi parea che 'l primo
foss'io
che lagrimando gli dicessi:
"O
splendor di Dardania, o de' Troiani
securissima
speme, e quale indugio
t'ha
fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni
tanto
da noi bramato? Ahi, dopo quanta
strage
de' tuoi, dopo quanti travagli
de
la nostra città già stanchi e domi
ti
riveggiamo! E qual fero accidente
fa
sí deforme il tuo volto sereno?
E
che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla
rispose,
come a vani miei quesiti:
ma
dal profondo petto alti sospiri
traendo:
"Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -
togliti
a queste fiamme. Ecco che dentro
sono
i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio
arde
tutto e ruina. Infino ad ora
e
per Priamo e per Troia assai s'è fatto.
Se
difendere omai piú si potesse,
fôra
per questa man difesa ancora:
ma
dovendo cader, le sue reliquie
sacre
e gli santi suoi numi Penati
a
te solo accomanda; e tu li prendi
per
compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo,
cerca
loro altre terre, ergi altre mura;
ché
dopo lungo e travaglioso esilio
l'ergerai
piú di Troia altere e grandi".
Detto
ciò, da le chiuse arche riposte
trasse,
e mi consegnò le sacre bende
e
l'effigie di Vesta e 'l foco eterno.
Spargonsi intanto per diverse parti
de
la presa città le grida e 'l pianto
e
'l tumulto de l'armi; e rinforzando
via
piú di mano in man, tanto s'avanza
che
a l'antica magion del padre Anchise
(come
che fosse assai remota, e chiusa
d'alberi
intorno) il gran rumore aggiunge.
Allor
dal sonno mi riscuoto, e salgo
subitamente
d'un terrazzo in cima,
e
porgo per udir gli orecchi attenti.
Cosí rozzo pastor, se da gran suono
è
da lunge percosso, in alto ascende,
e
mirando si sta confuso e stupido
o
foco che al soffiar d'un torbid'Austro
stridendo
arda le biade e le campagne;
o
tempestoso e rapido torrente
che
dal monte precipiti, e le selve
ne
meni e i cólti e le ricolte e i campi.
Allor
tardi credemmo; allor le insidie
ne fûr conte de' Greci. E già 'l palagio
era
di Deïfòbo arso e distrutto;
già
'l suo vicino Ucalegón ardea,
e
l'incendio di Troia in ogni lato
rilucea
di Sigèo ne la marina;
e
s'udian gridar genti e sonar tube.
Io
m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi
non
veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
raunati
i compagni, avventurarmi,
menar
le mani, e ne la ròcca addurmi;
mi
fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio
precipitoso;
e solo a mente vienmi
che
un bel morir tutta la vita onora.
Eravam mossi; quando ecco tra via
ne
si fa Panto d'improvviso avanti,
Panto
figlio d'Otrèo, che de la ròcca
era
custode, e sacerdote a Febo.
Questi,
scampato da' nemici a pena,
inverso
il lito attonito fuggendo,
i
sacri arredi e i santi simulacri
de
gli dèi vinti, e 'l suo picciol nipote
si
traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -
a
che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,
se
la ròcca è già presa?". Ei sospirando
e
piangendo rispose: " È giunto, Enea,
l'ultimo
giorno e 'l tempo inevitabile
de
la nostra ruina. Ilio fu già;
e
noi Troiani fummo: or è di Troia
ogni
gloria caduta. Il fero Giove
tutto
in Argo ha rivolto; e tutti in preda
siam
de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
ch'era
a Palla devoto, altero in mezzo
stassi
de la cittade, e d'ogni lato
arme
versa ed armati. Il buon Sinone
gode
de la sua frode, e d'ogn'intorno
scorrendo
si rimescola, e s'aggira
gran
maestro d'incendi e di ruine.
A
porte spalancate entran le schiere
senza
ritegno ed a migliaia, quante
né
d'Argo usciron mai né di Micene.
Gli
altri che prima entraro, han già le strade
assedïate:
e stan con l'armi infeste,
parate
a far di noi strage e macello.
Soli
son fino a qui sorti in difesa
i
corpi de le guardie: e questi al buio
fanno
con lievi e repentini assalti
tale
una cieca resistenza a pena".
Dal parlar di costui, dal nume avverso
spinto,
mi caccio tra le fiamme e l'armi,
ove
mi chiama il mio cieco furore,
e
de le genti il fremito e le strida
che
feriscono il cielo. E per compagni
primieramente
al lume de la luna
mi
si scopron Rifèo, Ifito il vecchio
ed
Ipane e Dimante: indi comparve
il
giovine Corèbo. Era costui
figlio
a Migdóne, insanamente acceso
de
l'amor di Cassandra; e, come fosse
già
suo consorte, pochi giorni avanti
in
soccorso del suocero e de' Frigi
s'era
a Troia condotto. Infortunato!
che
non avea la sua sposa indovina
ben
anco intesa. A questi insieme accolti,
per
accendergli piú mi volgo e dico:
"Giovini forti e valorosi, in vano
omai
fia la fortezza e 'l valor vostro;
poiché
perduti siamo e che Troia arde,
e
gli dèi tutti, a cui tutela e cura
si
reggea questo impero, in abbandono
lasciano
i nostri templi e i nostri altari.
Ma
se voi cosí fermi e cosí certi
siete
pur, com'io veggio, a seguitarmi,
ancor
che a morte io vada, in mezzo a l'armi
avventiamci,
e moriamo. Un sol rimedio
a
chi speme non have è disperarsi".
Cosí l'ardir di quegli animi accesi
furor
divenne. Usciam di lupi in guisa
che
rapaci, famelici e rabbiosi,
col
ventre vòto e con le canne asciutte
sentan
de' lupicini urlar per fame
pieno
un digiun covile. Andiam per mezzo
de'
nemici e de l'armi a morte esposti,
senza
riservo, e via dritti fendiamo
la
città tutta, a la buia ombra occulti,
che
l'altezza facea de gli edifici.
Or chi può dir la strage e la ruina
di
quella notte? E qual è pianto eguale
a
tante occisïoni, a tanto eccidio?
Troia
ruina, la superba, antica
e
glorïosa Troia, che tant'anni
portò
scettro e corona. Era, dovunque
s'andava,
di cadaveri, di sangue,
d'ogni
calamità pieno ogni loco,
le
vie, le case, i templi. E non pur soli
caddero
i Teucri, ché l'antico ardire
destossi,
e surse alcuna volta ancora
negli
lor petti. I vincitori e i vinti
giacean
confusamente, e d'ogni lato
s'udian
pianti e lamenti; e questi e quelli
eran
da la paura e da la morte
in
mille guise aggiunti. Andrògeo il primo
de'
Greci fu ch'avanti ne s'offerse,
condottier
di gran gente. Egli, avvisando
parte
sollecitar de la sua schiera:
"Affrettatevi,
- disse - a che badate?
che
'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa
e
depredata han di già Troia, e voi
testé
venite?" Avea ciò detto a pena,
che
'l segno e la risposta indarno attesa,
tra
nemici si vide; e come attonito
restando,
con la voce il piè ritrasse.
Come
repente il vïator s'arretra,
se
d'improvviso fra le spine un angue
avvien
che prema, ed ei premuto e punto
d'ira
gonfio e di tosco gli s'avventi;
cosí
dal nostro subitano incontro
sovraggiunto
in un tempo e spaventato,
Andrògeo
per fuggir ratto si volse.
Ma
noi che, impauriti e sconcertati,
a
la sprovvista gli assalimmo in lochi
a
lor non consueti, in breve spazio
li
circondammo, e gli uccidemmo alfine:
tanto
nel primo assalto amica e presta
ne fu la sorte. E qui fatto Corèbo
d'un
tal successo e di coraggio altero:
"Compagni,
- disse - poi che la fortuna
con
questo sí felice agli altri incontri
ne
porge aíta, a nostro scampo usiamla.
Mutiam
gli scudi, accomodiamci gli elmi
e
l'insegne de' Greci. O biasmo o lode
che
ciò ne sia, chi co' nemici il cerca?
L'arme
ne daranno essi". E, cosí detto,
la
celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso
e
la sua scimitarra e la sua targa
per
lui si prese, armi onorate e conte,
Cosí
fece Rifèo, cosí Dimante,
e
cosí tutti: ché per sé ciascuno
di
nuove spoglie allegramente armossi.
Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii
non
eran nosco; e ne l'oscura notte
con
ogni occasïone in ogni loco
ci
azzuffammo con essi; e di lor molti
mandammo
a l'Orco, e ritirar molt'altri
ne
facemmo a le navi: e fûr di quelli
che
per viltà nel cavernoso e cieco
ventre
si racquattâr del gran cavallo.
Ma
che? Contra 'l voler de' regi eterni
indarno
osa la gente. Ecco dal tempio
trar
veggiam di Minerva, con le chiome
sparse,
e con gli occhi indarno al ciel rivolti,
la
vergine Cassandra. Io dico gli occhi,
perché
le regie sue tenere mani
eran
da' lacci indegnamente avvinte.
A sí fero spettacolo Corèbo
infurïato,
e di morir disposto,
anzi
che di soffrirlo, a quella schiera
scagliossi
in mezzo; e noi ristretti insieme
tutti
il seguimmo. Or qui fessi di noi
una
strage crudele e miserabile
e
da' nostri medesmi, che la cima
tenean
del tempio, e dardi e sassi e travi
ne
versarono addosso, imaginando
da
l'armi, da' cimieri e da l'insegne
di
ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,
tratti
dal gran rumore e da lo sdegno
de
la ritolta vergine, s'uniro
ai
nostri danni. Il bellicoso Aiace,
i
fieri Atridi, i Dòlopi e gli Argivi,
tutti
ne furon sopra in quella guisa
ch'opposti
un contra l'altro Affrico e Bora
e
Garbino e Volturno accolte in mezzo
han
le selve stridenti o 'l mare ondoso,
quando
col suo tridente in fin dal fondo
il
gran Nereo il conturba. E tornâr anco
incontro
a noi quei che da noi pur dianzi
sen
gîr rotti e dispersi; e questi in prima
scoprîr
le nostre insidie, e fêr palesi
le
cangiate armi e gli mentiti scudi,
e
'l parlar che dal greco era diverso.
Cosí
ne fu subitamente addosso
un
diluvio di gente. E qui per mano
di
Penelèo, davanti al sacro altare
de
l'armigera Dea cadde Corèbo:
cadde
Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume
di
bontà, di giustizia e d'equitate
(cosí
a Dio piacque); ed Ipane e Dimante
caddero
anch'essi; e questi, ohimè! trafitti
per
le man pur de' nostri. E tu, pietoso
Panto,
cadesti; e la tua gran pietate,
e
l'ínfola santissima d'Apollo
in
ciò nulla ti valse. O fiamme estreme,
o
ceneri de' miei! fatemi fede
voi
che nel vostro occaso io rischio alcuno
non
rifiutai né d'arme, né di foco,
né
di qual fosse incontro, né di quanti
ne
facessero i Greci: e se 'l fato era
ch'io
dovessi cader, caduto fôra:
tal
ne feci opra. Ne spiccammo al fine
da
quel mortale assalto. Ifito e Pelia
ne
venner meco: Ifito afflitto e grave
già
d'anni; e Pelia indebolito e tardo
d'un
colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.
Quinci divelti, al gran palagio andammo
da
le grida chiamati. Ivi era un fremito,
un
tumulto, un combatter cosí fiero,
come
guerra non fosse in altro loco,
e
quivi sol si combattesse, e quivi
ognun
morisse, e nessun altro altrove:
tal
v'era Marte indomito, e de' Greci
tanto
concorso. Avean la porta cinta
di
schiere e di testuggini e di travi,
e
d'ambi i lati a la parete in alto
appoggiate
le scale; onde saliti
e
spinti un dopo l'altro, con gli scudi
si
ricoprian di sopra, e con le destre
rampicando
salian di grado in grado.
A rincontro i Troiani, altri di sopra
muri
e tetti versando e torri intere,
i
travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
de
la reggia e de' regi avean per armi;
fermi
a far sí (poich'eran giunti al fine)
ch'ogni
cosa con lor finisse insieme;
ed
altri unitamente entro a la porta
stavan
coi ferri bassi, in folta schiera
a
guardia de l'entrata. E qui di novo
a
sovvenir la corte, a far difesa
per
entro, a dare a' vinti animo e forza
mi
posi in core: e 'n cotal guisa il fei.
Era
un andito occulto ed una porta
secretamente
accomodata a l'uso
de
le stanze reali, onde solea
Andromaca
infelice al suo buon tempo
gir
a' suoceri suoi soletta, e seco
per
domestica gioia al suo grand'avo
il
pargoletto Astïanatte addurre.
Quinci
entromesso, me ne salsi in cima
a
l'alto corridore, onde i meschini
facean
di sopra a le nemiche schiere
tempesta
in vano. Era dal tetto a l'aura
spiccata,
e sopra la parete a filo
un'altissima
torre, onde il paese
di
Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto
si
scopria de' nemici. A questa intorno
co'
ferri ci mettemmo e co' puntelli;
e
da radice ov'era al palco aggiunta,
e
da' suoi tavolati e da' suoi travi
recisa
in parte la tagliammo in tutto,
e
la spingemmo. Alta ruina e suono
fece
cadendo; e di piú greche squadre
fu
strage e morte e sepoltura insieme.
Gli
altri vi salîr sopra; e d'ogni parte
senz'intermissïon
d'ogni arme un nembo
volava
intanto. In su la prima entrata
stava
Pirro orgoglioso; e d'armi cinto
sí
luminose, e da' riflessi accese
di
tanti incendi, che di foco e d'ira
parean
lunge avventar raggi e scintille.
Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio,
di
tana uscito, ove la fredda bruma
lo
tenne ascoso, a l'aura si dimostra,
quando,
deposto il suo ruvido spoglio,
ringiovenito,
alteramente al sole
lubrico
si travolve, e con tre lingue
vibra
mille suoi lucidi colori.
Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga
d'Achille,
Automedonte, e lo stuol tutto
era
de' Sciri: e di già sotto entrati,
fiamme
a' tetti avventando, ogni difesa
ne
facean vana. E qui co' primi, avanti
Pirro
con una in man grave bipenne
le
sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno
de
la ferrata porta abbatte e frange,
e
per disgangherarla ogni arte adopra.
Tanto
al fin ne recide che nel mezzo
v'apre
un'ampia finestra. Appaion dentro
gli
atrii superbi, i lunghi colonnati,
e
di Priamo e degli altri antichi regi
i
reconditi alberghi. Appaion l'armi
che
davanti eran pronte a la difesa.
S'ode
piú dentro un gemito, un tumulto,
un
compianto di donne, un ululato,
e
di confusïone e di miseria
tale
un suon che feria l'aura e le stelle.
Le
misere matrone spaventate,
chi
qua, chi là per le gran sale errando,
battonsi
i petti; e con dirotti pianti
dànno
infino a le porte amplessi e baci.
Pirro
intanto non cessa, e furïoso,
in
sembianza del padre, ogni riparo,
ogni
intoppo sprezzando, entro si caccia.
Già l'arïete a fieri colpi e
spessi
aperta,
fracassata, e d'ambi i lati
da'
cardini divelta avea la porta;
quand'egli
a forza urtò, ruppe e conquise
i
primi armati; e quinci in un momento
di
Greci s'allagò la reggia tutta.
Qual
è se, rotti gli argini, spumoso
esce
e rapido un fiume, allor che gonfio
e
torbo e ruinoso i campi inonda,
seco
i sassi traendo e i boschi interi,
e
gli armenti e le stalle e ciò che avanti
gli
s'attraversa; in cotal guisa io stesso
vidi
Pirro menar ruina e strage;
e
vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;
vidi
Ecúba infelice, ed a lei cento
nuore
d'intorno; e Prïamo vid'anco
ch'estinguea
col suo sangue, ohimè! quei fochi
che
da lui stesso eran sacrati e cólti.
Cinquanta maritali appartamenti
eran
ne' suo serraglio: quale, e quanta
speranza
de' figlioli e de' nipoti!
Quanti
fregi, quant'oro, quante spoglie,
e
quant'altre ricchezze! e tutte insieme
periro
incontinente: e dove il foco
non
era, erano i Greci. Or, per contarvi
qual
di Prïamo fosse il fato estremo,
egli,
poscia che presa, arsa e disfatta
vide
la sua cittade, e i Greci in mezzo
ai
suoi piú cari e piú riposti alberghi;
ancor
che vèglio e debole e tremante,
l'armi,
che di gran tempo avea dismesse,
addur
si fece; e d'esse inutilmente
gravò
gli omeri e 'l fianco; e come a morte
devoto,
ove piú folti e piú feroci
vide
i nemici, incontr' a lor si mosse.
Era nel
mezzo del palazzo a l'aura
scoperto
un grand'altare, a cui vicino
sorgea
di molti e di molt'anni un lauro
che
co' rami a l'altar facea tribuna,
e
con l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui,
come d'atra e torbida tempesta
spaventate
colombe, a l'ara intorno
avea
le care figlie Ecuba accolte;
ove
agl'irati dèi pace ed aíta
chiedendo,
agli lor santi simulacri
stavano
con le braccia indarno appese.
Qui,
poiché la dolente apparir vide
il
vecchio re giovenilmente armato:
"O,
- disse - infelicissimo consorte,
qual
dira mente, o qual follia ti spinge
a
vestir di quest'armi? Ove t'avventi,
misero?
Tal soccorso a tal difesa
non
è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti
fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto
rimanti
qui; ché questo santo altare
salverà
tutti; o morren tutti insieme".
Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo
seggio
in
maestate il pose. Ecco davanti
a
Pirro intanto il giovine Polite,
un
de' figli del re, scampo cercando
dal
suo furore, e già da lui ferito,
per
portici e per logge armi e nemici
attraversando,
in vèr l'altar sen fugge:
e
Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza
sí
che già già con l'asta e con la mano
or
lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,
fatto
di mano in man di forza esausto
e
di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi
i parenti suoi cadde, e spirò.
Qui, perché si vedesse a morte esposto,
Prïamo
non di sé punto oblïossi,
né
la voce frenò, né frenò l'ira:
anzi
esclamando: "O scelerato, - disse -
o
temerario! Abbiati in odio il cielo,
se
nel cielo è pietate; o se i celesti
han
di ciò cura, di lassú ti caggia
la
vendetta che merta opra sí ria.
Empio,
ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto
mio
proprio fai governo e scempio tale
d'un
tal mio figlio, e di sí fera vista
le
mie luci contamini e funesti.
Cotal
meco non fu, benché nimico,
Achille,
a cui tu menti esser figliolo,
quando,
a lui ricorrendo, umanamente
m'accolse,
e riverí le mie preghiere;
gradí
la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi
rendé 'l corpo esangue: e me securo
nel
mio regno ripose". In questa, acceso,
il
debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla
sí
che senza colpir languida e stanca
ferí
lo scudo, e lo percosse a pena,
che
dal sonante acciaro incontinente
risospinta
e sbattuta a terra cadde.
A
cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero
a mio padre, e da te stesso,
le
mie colpe accusando e i miei difetti,
fa'
conto a lui come da lui traligno:
e
muori intanto". Ciò dicendo, irato
afferrollo,
e, per mezzo il molto sangue
del
suo figlio, tremante e barcolloni,
a
l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con
la sinistra il prese, e con la destra
strinse
il lucido ferro, e fieramente
nel
fianco infino agli elsi gliel'immerse.
Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Prïamo, un re sí grande, un sí superbo
dominator
di genti e di paesi,
un
de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata
e combusta; a giacer quasi
nel
lito un tronco desolato, un capo
senza
il suo busto, e senza nome un corpo.
Allor pria mi sentii dentro e d'intorno
tale
un orror, che stupido rimasi.
E,
di Prïamo pensando al caso atroce,
mi
si rappresentò l'imago avanti
del
padre mio, ch'era a lui d'anni eguale.
Mi
sovvenne l'amata mia Creúsa,
il
mio picciolo Iulo, e la mia casa
tutta
a la vïolenza, a la rapina,
ad
ogni ingiuria esposta. Allora in dietro
mi
volsi per veder che gente meco
fosse
de' miei seguaci; e nullo intorno
piú
non mi vidi: ché tra stanchi e morti
e
feriti e storpiati, altri dal ferro,
altri
da le ruine, altri dal foco,
m'avean
già tutti abbandonato. In somma
mi
trovai solo. Onde, smarrito errando,
e
d'ogn'intorno rimirando, al lume
del
grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi
di
Tindaro la figlia, che nel tempio
se
ne stava di Vesta, in un reposto
e
secreto ridotto ascosa e cheta:
Elena,
dico, origine e cagione
di
tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo
furia
comune. Onde comunemente
e
de' Greci temendo e de' Troiani
e
de l'abbandonato suo marito,
s'era
in quel loco, e 'n se stessa ristretta,
confusa,
vilipesa ed abborrita
fin
dagli stessi altari. Arsi di sdegno,
membrando
che per lei Troia cadea;
e
'l suo castigo e la vendetta insieme
de
la mia patria rivolgendo: "Adunque -
dicea
meco - impunita e trïonfante
ritornerà
la scelerata in Argo?
E
regina vedrà Sparta e Micene?
Goderà
del marito, de' parenti,
de'
figli suoi? Farà pompe e grandezze,
e
d'Ilio avrà per serve e per ministri
l'altere
donne e i gran donzelli intorno?
E
qui Priamo sarà di ferro anciso,
e
Troia incensa, e la dardania terra
di
tanto sangue tante volte aspersa?
Non
fia cosí; che se ben pregio e lode
non
s'acquista a punire o vincer donna,
io
lodato e pregiato assai terrommi,
se
si dirà ch'aggia d'un mostro tale
purgato
il mondo. Appagherommi almeno
di
sfogar l'ira mia: vendicherommi
de
la mia patria; e col fiato e col sangue
di
lei placherò l'ombre, e farò sazie
le ceneri de' miei". Ciò vaneggiando,
infurïava;
quand'ecco una luce
m'aprio
la notte, e mi scoverse avanti
l'alma
mia genitrice in un sembiante,
non
come l'altre volte in altre forme
mentito
o dubbio, ma verace e chiaro,
e
di madre e di dea, qual, credo, e quanta
su
tra gli altri Celesti in ciel si mostra.
Cotal
la vidi, e tale anco per mano
mi
prese; e con pietà le sante luci
e
le labbia rosate aperse, e disse:
"Figlio,
a che tanto affanno? a che tant'ira?
Ché
non t'acqueti omai? Questa è la cura
che
tu prendi di noi? Ché non piú tosto
rimiri
ov'abbandoni il vecchio Anchise
e
la cara Creúsa e 'l caro Iulo,
cui
sono i Greci intorno? E se non fosse
che
in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco
fôran
già tutti. Ah! figlio, non il volto
de
l'odïata Argiva, non di Pari
la
biasmata rapina, ma del cielo
e
de' celesti il voler empio atterra
la
troiana potenza. Alza su gli occhi,
ch'io
ne trarrò l'umida nube, e 'l velo
che
la vista mortal t'appanna e grava:
poscia
credi a tua madre, e senza indugio
tutto
fa' che da lei ti si comanda:
vedi
là quella mole, ove quei sassi
son
da' sassi disgiunti, e dove il fumo
con
la polve ondeggiando al ciel si volve,
come
fiero Nettuno infin da l'imo
le
mura e i fondamenti e 'l terren tutto
col
gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi
qui su la porta come Giuno
infurïata
a tutti gli altri avanti
si
sta cinta di ferro, e da le navi
le
schiere d'Argo a' nostri danni invita:
vedi
poi colà su Pallade in cima
a
l'alta rocca, entro a quel nembo armata,
con
che lucenti e spaventosi lampi
il
gran Górgone suo discopre e vibra.
Che
piú? mira nel ciel, che Giove stesso
somministra
a gli Argivi animo e forza,
e
incontro a le vostre armi a l'arme incita
gli
eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi,
poi
che indarno t'affanni. Io sarò teco
ovunque
andrai, sí che securamente
ti
porrò dentro a' tuoi paterni alberghi".
Cosí disse; e per entro a le folt'ombre
de
la notte s'ascose. Allor vid'io
gl'invisibili
aspetti, e i fieri volti
de'
numi a Troia infesti, e Troia tutta
in
un sol foco immersa, e fin dal fondo
sottosopra
rivolta. In quella guisa
che
d'alto monte in precipizio cade
un
orno antico, i cui rami pur dianzi
facean
contrasto a' vènti e scorno al sole,
quando
con molte accette al suo gran tronco
stanno
i robusti agricoltori intorno
per
atterrarlo, e gli dan colpi a gara,
da
cui vinto e dal peso, a poco a poco
crollando
e balenando, il capo inchina,
e
stride e geme e dal suo giogo al fine
e
con parte del giogo si diveglie,
o
si scoscende; e ciò che intoppa urtando,
di
suono e di ruina empie le valli.
Allor
discesi; e la materna scorta
seguendo,
da' nemici e da le fiamme
mi
rendei salvo: ché dovunque il passo
volgea,
cessava il foco, e fuggian l'armi.
Poi ch'io fui giunto a la magione antica
del
padre mio, di lui prima mi calse
e
del suo scampo, e per condurlo a' monti
m'apparecchiava,
quand'ei disse:"O figlio,
io
decrepito, io misero, che avanzi
ai
dí de la mia patria? Io posso, io deggio
sopravvivere
a Troia? E fia ch'io soffra
sí
vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni
siete
di sangue e di vigore intieri,
voi
vi salvate. A me, s'io pur dovea
restare
in vita, avrebbe il ciel serbato
questo
mio nido. Assai, figlio, e pur troppo
son
vissuto fin qui; poi ch'altra volta
vidi
Troia cadere, e non cadd'io.
Fatemi
or di pietà gli ultimi offici;
iteratemi
il vale, e per defunto
cosí
composto il mio corpo lasciate,
ch'io
troverò chi mi dia morte; e i Greci
medesmi
o per pietate, o per vaghezza
de
le mie spoglie, mi trarran di vita
e
di miseria: e se d'esequie io manco,
se
manco di sepolcro, il danno è lieve.
Da
l'ora in qua son io visso a la terra
disutil
peso, ed al gran Giove in ira,
che
dal vento percosso e da le fiamme
fui
dal folgore suo". Ciò memorando
stava
il misero padre a morte additto;
e
d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo,
la
casa tutta con preghiere e pianti
stringendolo
a salvarsi, a non trar seco
ogni
cosa in ruina, a non offrirsi
da
se stesso a la morte. Ei fermo e saldo
né
di proponimento, né di loco
punto
si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,
di
morir desïoso. E qual v'era altro
rimedio
o di consiglio, o di fortuna?
"Ah!
che di questa soglia io tragga il piede,
padre
mio, per lasciarti? Ah! che tu possa
creder
tanto di me? Da la tua bocca
tanto
di sceleranza e di viltate
è
d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino
che
di sí gran città nulla rimanga,
se
piace a te, se nel tuo core è fermo
che
né di te, né de gli tuoi si scemi
la
ruina di Troia; e cosí vada,
e
cosí fia: ch'io veggio a mano a mano
qui
del sangue del re tutto cosperso,
e
bramoso del nostro, apparir Pirro,
ch'i
padri occide anzi a gli altari, e i figli
anzi
agli occhi de' padri. Ah! madre mia,
per
questo fine qui salvo e difeso
m'hai
da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia
con
gli occhi miei ne la mia casa stessa
i
miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio
e
la mia donna crudelmente occisi
l'un
nel sangue de l'altro? Mano a l'arme!
Chi
mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo
a
morte ne chiama. Or mi lasciate
ch'io
torni infra i nimici, e che di nuovo
mi
razzuffi con essi: ché non tutti
abbiam
senza vendetta oggi a perire".
E già di ferro cinto, a la sinistra
m'adattavo
lo scudo, e fuori uscia,
quand'ecco
in su la soglia attraversata
Creúsa
avanti a' piè mi si distende,
e
me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo
m'appresenta,
e mi dice: "Ah! mio consorte,
dove
ne lasci? S'a
morir ne vai,
ché
non teco n'adduci? E se ne l'armi
e
nell'esperïenza hai speme alcuna,
ché
non difendi la tua casa in prima?
ove
Ascanio abbandoni? ove tuo padre?
ove
Creúsa tua, che tua s'è detta
per
alcun tempo?". E ciò gridando empiea
di
pianto e di stridor la magion tutta:
quand'ecco
innanzi a gli occhi, e fra le mani
de
gli stessi parenti, un repentino
e
mirabile a dir portento apparve;
ché
sopra il capo del fanciullo Iulo
chiaro
un lume si vide, e via piú chiara
una
fiamma che tremola e sospesa
le
sue tempie rosate e i biondi crini
sen
gia come leccando, e senza offesa
lievemente
pascendo. Orrore e téma
ne
presi in prima. Indi a quel santo foco
d'intorno,
altri con acqua, altri con altro,
ognun
facea per ammorzarlo ogn'opra.
Ma
'l padre Anchise a cotal vista allegro,
le
man, gli occhi e la voce al ciel rivolto,
orò
dicendo: "Eterno onnipotente
signor,
se umana prece unqua ti mosse,
vèr
noi rimira, e ne fia questo assai.
Ma
se di merto alcuno in tuo cospetto
è
la nostra pietà, padre benigno,
danne
anco aíta; e con felice segno
questo
annunzio ratifica e conferma".
Avea di ciò pregato il vecchio appena,
che
tonò da sinistra e dal convesso
del
ciel cadde una stella, che per mezzo
fendé
l'ombrosa notte, e lunga striscia
di
face e di splendor dietro si trasse.
Noi
la vedemmo chiaramente sopra
da'
nostri tetti ire a celarsi in Ida,
sí
che lasciò, quanto il suo corso tenne,
di
chiara luce un solco; e lunge intorno
fumò
la terra di sulfureo odore.
Allor vinto si diede il padre mio;
e
tosto a l'aura uscendo, al santo segno
de
la stella inchinossi, e con gli dèi
parlò
devotamente: "O de la patria
sacri
numi Penati, a voi mi rendo.
Voi
questa casa, voi questo nipote
mi
conservate. Questo augurio è vostro,
e
nel poter di voi Troia rimansi".
Poscia,
rivolto a noi: " Fa', figliuol mio,
ormai
- disse - di me che piú t'aggrada;
ch'al
tuo voler son pronto, e d'uscir teco
piú
non recuso". Avea già 'l foco appresa
la
città tutta, e già le fiamme e i vampi
ne
ferian da vicino, allor che 'l vecchio
cosí
dicea: "Caro mio padre, adunque, -
soggiuns'io
- com'è d'uopo, in su le spalle
a
me ti reca, e mi t'adatta al collo
acconciamente:
ch'io robusto e forte
sono
a tal peso: e sia poscia che vuole:
ch'un
sol periglio, una salute sola
fia
d'ambedue. Seguami Iulo al pari;
Creúsa
dopo: e voi, miei servi, udite
quel
ch'io diviso. È de la porta fuori
un
colle, ov'ha di Cerere un antico
e
deserto delúbro, a cui vicino
sorge
un cipresso, già molt'anni e molti
in
onor de la dea serbato e cólto.
Qui
per diverse vie tutti in un loco
vi
ridurrete; e tu con le tue mani
sosterrai,
padre mio, de' santi arredi
e
de' patrii Penati il sacro incarco,
che
a me, sí lordo e sí recente uscito
da
tanta uccisïon, toccar non lece
pria
che di vivo fiume onda mi lave".
Ciò detto, con la veste e con la pelle
d'un
villoso leon m'adeguo il tergo;
e
'l caro peso a gli omeri m'impongo.
Indi
a la destra il fanciulletto Iulo
mi
s'aggavigna e non con moto eguale
ei
segue i passi miei, Creúsa l'orme.
Andiam
per luoghi solitari e bui:
e
me, cui dianzi intrepido e sicuro
vider
de l'arme i nembi e de gli armati
le
folte schiere, or ogni suono, ogni aura
empie
di téma: sí geloso fammi
e
la soma e 'l compagno. Era vicino
a
l'uscir de la porta, e fuori in tutto,
com'io
credea, d'ogni sinistro incontro;
quand'ecco
d'improvviso udir mi sembra
un
calpestío di gente, a cui rivolto
disse
il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio,
fuggi,
ché ne son presso. Io veggio, io sento
sonar
gli scudi, e lampeggiar i ferri".
Qui
ridir non saprei come, né quale
avverso
nume a me stesso mi tolse:
ché
mentre da la fretta e dal timore
sospinto
esco di strada, e per occulte
e
non usate vie m'aggiro e celo,
restai,
misero me! senza la mia
diletta
moglie, in dubbio se dal fato
mi
si rapisse, o travïata errasse,
o
pur lassa a posar posta si fosse.
Basta
ch'unqua di poi non la rividi,
né
per vederla io mi rivolsi mai,
né
mai me ne sovvenne, infin che giunti
di
Cerere non fummo al sagro poggio.
Ivi
ridotti, ne mancò di tanti
sola
Creúsa, ohimè! con quanto scorno
e
con quanto dolor del suo consorte
e
del figlio e del suocero e di tutti!
Io
che non feci allora, e che non dissi?
Qual
degli uomini, folle! e degli dèi
non
accusai! Qual vidi in tanto eccidio,
o
ch'io provassi, o che avvenisse altrui,
caso
piú miserando e piú crudele?
Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi
lascio
in guardia a' compagni, ed io de l'armi
pur
mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,
disposto
a ritentar ogni fortuna,
a
cercar Troia tutta, a por la vita
ad
ogni repentaglio. Incominciai
in
prima da le mura e da la porta,
ond'era
uscito; e le vie stesse e l'orme
ripetei
tutte per cui dianzi io venni,
gli
occhi portando per vederla intenti.
Silenzio,
solitudine e spavento
trovai
per tutto. A casa aggiunsi in prima,
cercando
se per sorte ivi smarrita
si
ricovrasse. Era già presa e piena
di
nemici e di foco; e già da' tetti
uscian
da' vènti e da le furie spinte
rapide
fiamme e minacciose al cielo.
Torno
quinci al palagio; indi a la ròcca:
seguo
a le piazze, a' portici, a l'asilo
di
Giunon, che già fatti eran conserve
de
la preda di Troia, a cui Fenice
e
'l fiero Ulisse eran custodi eletti.
Qui
d'ogni parte le troiane spoglie
fin
de le sacristie, fin de gli altari
le
sacre mense, i prezïosi vasi
di
solid'oro, e i paramenti e i drappi
e
le delizie e le ricchezze tutte
a
gli incendi ritolte, erano addotte.
D'intorno
innumerabili prigioni
stavan
di funi e di catene avvinti,
e
matrone e donzelle e pargoletti,
che
di sordi lamenti e di muggiti
facean
ne l'aria un tuono; e men fra loro
era
la donna mia: né dove fosse,
piú
ripensar sapendo, osai dolente
gridar
per le vie tutte; e, benché in vano,
mille
volte iterai l'amato nome.
Mentre
cosí tra furïoso e mesto
per
la città m'aggiro, e senza fine
la
ricerco e la chiamo, ecco davanti
mi
si fa l'infelice simulacro
di
lei, maggior del solito. Stupii,
m'aggricciai,
m'ammutii. Prese ella a dirmi,
e
consolarmi: "O mio dolce consorte,
a
che sí folle affanno? A gli dèi piace
che
cosí segua. A te quinci non lece
di
trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io
sia teco a provar gli affanni tuoi;
ché
soffrir lunghi esigli, arar gran mari
ti
converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,
che
fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno
Tebro
con placid'onde opimi campi
di
bellicosa gente impingua e riga.
Ivi
riposo e regno e regia moglie
ti
si prepara. Or
de la tua diletta
Creúsa,
signor mio, piú non ti doglia:
ché
i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni
non
vedranno già me, dardania prole,
e
di Prïamo figlia, e nuora a Venere,
né
donna lor, né di lor donne ancella:
ché
la gran genitrice degli dèi
appo
sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro
comune amore, ama in mia vece;
e
lui conserva, e te consola. Addio".
Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto
era
impedito, ed avea molto a dirle,
me
le avventai, per ritenerla, al collo;
e
tre volte abbracciandola, altrettante,
come
vento stringessi o fumo o sogno,
me
ne tornai con le man vòte al petto.
E cosí scorsa e consumata indarno
tutta
la notte, al poggio mi ritrassi
a'
miei compagni, ove trovai con molta
mia
maraviglia d'ogni parte accolta
una
gran gente, un miserabil volgo
d'ogni
età, d'ogni sesso e d'ogni grado,
a
l'esiglio parati, e 'nsieme additti
a
seguir me, dovunque io gli adducessi,
o
per mare o per terra. Uscia già d'Ida
la
mattutina stella, e 'l dí n'apria,
quando
in dietro mi volsi, e vidi Troia
fumar
già tutta; e de la ròcca in cima,
e
di sovr'ogni porta inalberate
le
greche insegne; onde né via, né speme
rimanendomi
piú di darle aíta,
cedei;
ripresi il carco, e salsi al monte».
«Poi che fu d'Asia il glorïoso regno
e
'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,
com'al
cielo piacque, indegnamente estinto,
Ilio
abbattuto e la nettunia Troia
desolata
e combusta; i santi augúri
spïando,
a vari esigli, a varie terre
per
ricovro di noi pensando andammo:
e
ne la Frigia stessa, a piè d'Antandro,
ne'
monti d'Ida, a fabbricar ne demmo
la
nostra armata, non ben certi ancóra
ove
il ciel ne chiamasse, e quale altrove
ne
desse altro ricetto. Ivi le genti
d'intorno
accolte, al mar ne riducemmo,
e
n'imbarcammo alfine. Era de l'anno
la
stagion prima, e i primi giorni a pena,
quando,
sciolte le sarte e date a' venti
le
vele, come volle il padre Anchise,
piangendo
abbandonai le rive e i porti
e
i campi ove fu Troia, i miei compagni
meco
traendo e 'l mio figlio e i miei numi
a
l'onde in preda, e de la patria in bando.
È de la Frigia incontro un gran paese
da'
Traci arato, al fiero Marte additto,
ampio
regno e famoso, e seggio un tempo
del
feroce Licurgo. Ospiti antichi
s'eran
Traci e Troiani; e fin ch'a Troia
lieta
arrise fortuna, ebbero entrambi
comuni
alberghi. A questa terra in prima
drizzai
'l mio corso, e qui primieramente
nel
curvo lito con destino avverso
una
città fondai, che dal mio nome
Enèade
nomossi; e mentre intorno
me
ne travaglio, e i santi sacrifici
a
Venere mia madre ed agli dèi,
che
sono al cominciar propizi, indico:
mentre
che 'n su la riva un bianco toro
al
supremo Tonante offro per vittima,
udite
che m'avvenne. Era nel lito
un
picciol monticello, a cui sorgea
di
mirti in su la cima e di corniali
una
folta selvetta. In questa entrando
per
di fronde velare i sacri altari,
mentre
de' suoi piú teneri e piú verdi
arbusti
or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile
a veder, stupendo a dire,
m'apparve
un mostro: ché, divelto il primo
da
le prime radici, uscîr di sangue
luride
gocce, e ne fu 'l suolo asperso.
Ghiado
mi strinse il core; orror mi scosse
le
membra tutte; e di paura il sangue
mi
si rapprese. Io le cagioni ascose
di
ciò cercando, un altro ne divelsi;
ed
altro sangue uscinne: onde confuso
vie
piú rimasi; e nel mio cor diversi
pensier
volgendo, or de l'agresti ninfe,
or
del scitico Marte i santi numi
adorando,
porgea preghiere umíli,
che
di sí fiera e portentosa vista
mi
si togliesse, o si temprasse almeno
il
diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo
al terzo virgulto, e con piú forza
mentre
lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e
lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),
un
sospiroso e lagrimabil suono
da
l'imo poggio odo che grida e dice:
"Ahi! perché sí mi laceri e mi scempi?
Perché
di cosí pio, cosí spietato,
Enea,
vèr me ti mostri? A che molesti
un
ch'è morto e sepolto? A che contamini
col
sangue mio le consanguinee mani?
Ché
né di patria, né di gente esterno
son
io da te; né questo atro liquore
esce
da sterpi, ma da membra umane.
Ah!
fuggi, Enea, da questo empio paese:
fuggi
da questo abbominevol lito:
ché
Polidoro io sono, e qui confitto
m'ha
nembo micidiale, e ria semenza
di
ferri e d'aste che, dal corpo mio
umor
preso e radici, han fatto selva".
A cotal suon, da dubbia téma oppresso,
stupii,
mi raggricciai, muto divenni,
di
Polidoro udendo. Un de' figliuoli
era
questi del re, ch'al tracio rege
fu
con molto tesoro occultamente
accomandato
allor che da' Troiani
incominciossi
a diffidar de l'armi,
e
temer de l'assedio. Il rio tiranno,
tosto
che a Troia la fortuna vide
volger
le spalle, anch'ei si volse, e l'armi
e
la sorte seguí de' vincitori;
sí
che, de l'amicizia e de l'ospizio
e
de l'umanità rotta ogni legge,
tolse
al regio fanciul la vita e l'oro.
Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!
E
che per te non osa, e che non tenta
quest'umana
ingordigia? Or poi che 'l gelo
mi
fu da l'ossa uscito, a' primi capi
del
popol nostro ed a mio padre in prima
il
prodigio refersi, e di ciascuno
il
parer ne spiai. "Via, - disser tutti
concordemente
- abbandoniam quest'empia
e
scelerata terra; andiam lontano
da
questo infame e traditore ospizio;
rimettiamci
nel mare". Indi l'esequie
di
Polidoro a celebrar ne demmo;
e,
composto di terra un alto cumulo,
gli
altar vi consacrammo a i numi inferni,
che
di cerulee bende e di funesti
cipressi
eran coverti. Ivi le donne
d'Ilio,
com'è fra noi rito solenne,
vestite
a bruno e scapigliate e meste
ulularono
intorno; e noi di sopra
di
caldo latte e di sacrato sangue
piene
tazze spargemmo, e con supremi
richiami
amaramente al suo sepolcro
rivocammo
di lui l'anima errante.
Né
pria ne si mostrâr l'onde sicure,
e
fidi i venti, che, del porto usciti,
incontinente
ne vedemmo avanti
sparir
l'odiosa terra, e gir da noi
di
mano in man fuggendo i liti e i monti.
È nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori
ed
a Nettuno, un'isola famosa,
che
già mobile e vaga intorno a' liti
agitata
da l'onde errando andava,
ma
fatta di Latona e de' suoi figli
ricetto
un tempo, dal pietoso arciero
tra
Gïaro e Micon fu stretta in guisa,
ch'immota,
e cólta, e consacrata a lui,
ebbe
poi le tempeste e i vènti a scherno.
Qui
porto placidissimo e securo
stanchi
ne ricevette, e già smontati
veneravam
d'Apollo il santo nido;
quand'ecco
Anio suo rege, e rege insieme
e
sacerdote, che di sacre bende
e
d'onorato alloro il crine adorno,
ne
si fa 'ncontro. Era al mio padre Anchise
già
di molt'anni amico; onde ben tosto
lo
riconobbe, e con sembiante allegro
lui
primamente, indi noi tutti accolti,
n'abbracciò,
ne 'nvitò, seco n'addusse.
Quinci al delúbro, ch'ad Apollo in cima
era
d'un sasso anticamente estrutto,
tutti
salimmo; ed io devoto orai:
"Danne,
padre Timbrèo, propria magione,
e
propria terra, ove già stanchi abbiamo
posa
e ristoro, e ne da' stirpe e nido
opportuno,
durabile e securo;
danne
Troia novella; e de' Troiani
serba
queste reliquie, che avanzate
sono
a pena agli storpi, a le ruine,
al
foco, a' Greci, al dispietato Achille.
Mostrane
chi ne guidi, ove s'indrizzi
il
nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.
Coi
tuoi piú chiari e manifesti augúri,
signor,
tu ne predici e tu n'ispira".
Avea ciò detto a pena, che repente
il
limitare, il tempio, e 'l monte tutto
crollossi
intorno; scompigliârsi i lauri;
aprissi,
e dagli interni suoi ridotti
mugghiò
la formidabile cortina.
Noi
riverenti a terra ne gittammo;
e
'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,
articolossi,
e cosí dire udissi:
"Dardanidi robusti, onde l'origine
traeste
in prima, ivi ancor lieto e fertile
di
vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di
lei dunque cercate; a lei tornatevi:
ch'ivi
sovr'ogni gente, in tutti i secoli
domineranno
i glorïosi Enèadi,
e
la posterità de gli lor posteri".
Ciò disse Apollo: e del suo detto
fessi
infra
noi gran letizia e gran bisbiglio,
interrogando
e ricercando ognuno
qual
paese, qual madre, qual ricetto
ne
s'accennasse. Allora il padre Anchise
da
lunge i tempi ripetendo e i casi
dei
nostri antichi eroi: "Signori, udite -
ne
disse, - ch'io darò lume e compenso
a
le vostre speranze. È del gran Giove
Creta
quasi gran cuna in mezzo al mare
isola
chiara, e regno ampio e ferace,
che
cento gran città nodrisce e regge.
Ivi
sorge un'altr'Ida, onde nomata
fu
l'Ida nostra; ond'ha seme e radice
nostro
legnaggio: onde primieramente
Teucro,
padre maggior de' maggior nostri
(se
ben me ne rammento), errando venne
a
le spiagge di Reto, ov'egli elesse
di
fondare il suo regno. Ilio non era,
né
di Pergamo ancor sorgean le mura
fino
in quel tempo: e sol ne l'ime valli
abitavan
le genti. Indi a noi venne
la
gran Cibele madre; indi son l'armi
de'
Coribanti, indi la selva idea,
e
quel fido silenzio, onde celati
son
quei nostri misteri, e quei leoni
ch'al
carro de la dea son posti al giogo.
Di
là dunque veniamo, e là vuol Febo
che
si ritorni. Or via seguiamo il fato:
plachiamo
i vènti e ne la Creta andiamo,
che
non è lunge; e se n'è Giove amico,
anzi
tre dí n'approderemo ai liti".
Ciò detto, a ciascun dio, come
conviensi,
sacrificando,
due gran tori occise:
e
l'un diede a Nettuno e l'altro a Febo:
una
pecora negra a la Tempesta;
al
Sereno una bianca. Era in quei giorni
fama
che Idomeneo, cretese eroe,
da
la sua patria e da' paterni regni
era
scacciato; onde di Creta i liti
d'armi,
di duce e di seguaci suoi,
nostri
nimici, in gran parte spogliati,
stavano
a noi senza contesa esposti.
Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
trapassammo
di Nasso i pampinosi
colli,
e Bacco onorammo: i verdi liti
di
Dònisa, e d'Olëaro varcammo:
giungemmo
a Paro, e le sue bianche ripe
lasciammo
indietro: indi di mano in mano
l'altre
Cícladi tutte e 'l mar che rotto
da
tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;
e
seguendo, com'è de' naviganti
marinaresca
usanza, - in Creta! in Creta! -
lietamente
gridando, con un vento
che
ne feria senza ritegno in poppa,
quasi
a volo andavamo; onde ben tosto
de'
Cureti appressammo i liti antichi;
e
gli scoprimmo, e v'approdammo alfine.
Giunti
che fummo, avidamente diemmi
a
fabricar le desïate mura,
e
Pergamea da Pergamo le dissi.
Con
questo amato nome amore e speme
destai
di nuova patria, e studio intenso
d'alzar
le mura e di fondar gli alberghi.
Eran
le navi in su la rena addotte
per
la piú parte; era la gente intenta
a
l'arti, a la coltura, ai maritaggi,
ad
ogni affare; ed io lor ministrava
leggi
e ragioni, e facea templi e strade,
quando
fera, improvvisa pestilenza,
ne
sopravvenne; e la stagione e l'anno
e
gli uomini e gli armenti e l'aria e l'acque
e
tutto altro infettonne; onde ogni corpo
o
cadeva o languiva; e la semente
e
i frutti e l'erbe e le campagne stesse
da
la rabbia di Sirio e dal veleno
de
l'orribil contage arse e corrotte,
ci
negavano il vitto. Il padre mio
per
consiglio ne diè che un'altra volta,
rinavigando
il navigato mare,
si
tornasse in Ortigia, e che di nuovo
ricorrendo
di Febo al santo oracolo,
perdon
gli si chiedesse, aíta e scampo
da
sí maligno e velenoso influsso,
ed
alfin del cammino e de la stanza
chiaro
ne si traesse indrizzo e lume.
Era già notte, e già dal sonno
vinta
posa
e ristoro avea l'umana gente,
quando
le sacre effigi de' Penati,
quelle
che meco avea tratte dal foco
de
la mia patria, quelle stesse in sogno
vive
mi si mostrâr veraci e chiare:
tal
piena, avversa e luminosa luna
penetrava,
per entro al chiuso albergo,
di
puri vetri i lucidi spiragli;
e
com'eran visibili, appressando
la
sponda ov'io giacea, soavemente
mi
si fecero avanti, e 'n cotal guisa
mi
confortaro: "Quel che Apollo stesso,
se
tornaste in Ortigia, a voi direbbe,
qui
mandati da lui vi diciam noi:
e
noi siam quei che dopo Troia incensa
per
tanti mari a tanti affanni teco
n'uscimmo,
e te seguiamo e l'armi tue.
Noi
compagni ti siamo, e noi saremo
ch'a
la nova città, che tu procuri,
daremo
eterno imperio, e i tuoi nipoti
ergeremo
a le stelle. Alto ricetto
tu
dunque e degno de l'altezza loro
prepara
intanto; e i rischi e le fatiche
non
rifiutar di piú lontano esiglio.
Cerca
loro altro seggio; ergi altre mura
vie
piú chiare di queste: ché di Creta
né
curiam noi, né lo ti dice Apollo.
Una parte d'Europa è, che da' Greci
si
disse Esperia, antica, bellicosa
e
fertil terra. Dagli Enotri cólta,
prima
Enotria nomossi: or, com'è fama,
preso
d'Italo il nome, Italia è detta.
Questa
è la terra destinata a noi.
Quinci
Dardano in prima e Iasio usciro;
e
Dardano è l'autor del sangue nostro.
Sorgi
dunque e riporta al padre Anchise
quel
ch'or noi ti diciam, ché diciam vero:
e
tu cerca di Còrito e d'Ausonia
l'antiche
terre, ché da Giove in Creta
regnar
ti s'interdice". Io di tal vista,
e
di tai voci, ch'eran voci e corpi
de'
nostri dèi, non simulacri e sogni
(ché
ne vid'io le sacre bende e i volti
spiranti
e vivi), attonito e cosperso
di
gelato sudore, in un momento
salto
dal letto; e con le mani al cielo
e
con la voce supplicando, spargo
di
doni intemerati i santi fochi.
Riveriti
i Penati, al padre Anchise
lieto
men vado, e del portento intera-
mente
il successo e l'ordine gli espongo.
Incontinente
riconobbe il doppio
nostro
legnaggio, e i due padri e i due tronchi
de'
cui rami siam noi vette e rampolli;
e
d'erro uscito: "Ora io m'avveggio, - disse -
figlio,
che segno sei de le fortune
e
del fato di Troia; e ciò rincontro
che
Cassandra dicea: sola Cassandra
lo
previde e 'l predisse. Ella al mio sangue
augurò
questo regno; e questa Italia
e
questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma
chi mai ne l'Esperia avria creduto
che
regnassero i Teucri? E chi credea
in
quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,
cediamo
a Febo; e ciò che 'l dio del vero
ne
dà per meglio, per miglior s'elegga".
Ciò disse, e i detti suoi tosto
eseguimmo;
ed
ancor questa terra abbandonammo,
se
non se pochi. N'andavamo a vela
con
second'aura; e già d'alto mirando,
non
piú terra apparia, ma cielo ed acqua
vedevam
solamente, quando oscuro
e
denso e procelloso un nembo sopra
mi
stette al capo, onde tempesta e notte
ne
si fece repente e di piú siti
rapidi
uscendo imperversaro i vènti;
s'abbuiò
l'aria, abbaruffossi il mare,
e
gonfiaro altamente e mugghiâr l'onde.
Il
ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori
si
squarciò d'ogni parte. Il giorno notte
fessi,
e la notte abisso: e l'un da l'altro
non
discernendo, Palinuro stesso
de
la via diffidossi e de la vita.
Cosí tolti dal corso, e quinci e quindi
per
lo gran golfo dissipati e ciechi,
da
buio e da caligine coverti,
tre
soli interi senza luce errammo,
tre
notti senza stelle. Il quarto giorno
vedemmo
al fin, quasi dal mar risorta,
la
terra aprirne i monti e gittar fumo.
Caggion
le vele; e i remiganti a pruova,
di
bianche schiume il gran ceruleo golfo
segnando,
inverso i liti i legni affrettano.
Né
prima fui di sí gran rischio uscito,
che
giunto nelle Stròfadi mi vidi.
Stròfadi
grecamente nominate
son
certe isole in mezzo al grande Ionio,
da
la fera Celeno e da quell'altre
rapaci
e lorde sue compagne Arpie
fin
d'allora abitate, che per téma
lasciâr
le prime mense, e di Finèo
fu
lor chiuso l'albergo. Altro di queste
piú
sozzo mostro, altra piú dira peste
da
le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran
vergini a' volti; uccelli e cagne
a
l'altre membra: hanno di ventre un fedo
profluvio,
ond'è la piuma intrisa ed irta,
le
man d'artigli armate: il collo smunto,
la
faccia per la fame e per la rabbia
pallida
sempre e raggrinzata e magra.
Tosto che qui sospinti in porto entrammo,
ecco
sparsi veggiam per la campagna
senza
custodi andar gran torme errando
di
cornuti e villosi armenti e greggi.
Smontiamo
in terra; e per far carne, prese
l'armi,
a predare andiamo, e de la preda
gli
dèi chiamiamo e Giove stesso a parte.
Fatta la strage e già parati i cibi
e
distese le mense, eravam lungo
al
curvo lito a ricrearne assisi,
quand'ecco
che da' monti in un momento
con
dire voci e spaventoso rombo
ne
si fan sopra le bramose Arpie;
e
con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni,
col
tetro, osceno, abbominevol puzzo
ne
sgominâr le mense, ne rapiro,
ne
infettâr tutti e i cibi e i lochi e noi.
Era presso un ridotto, ove alta e cava
rupe
d'arbori chiusa e d'ombre intorno
facea
capace ed opportuno ostello.
Ivi
ne riducemmo, e ne le mense
riposti
i cibi e ne gli altari i fochi,
a
convivar tornammo; ed ecco un'altra
volta
d'un'altra parte per occulte
e
non previste vie ne si scoverse
l'orribil
torma; e con gli adunchi artigli,
co'
fieri denti e con le bocche impure
ghermîr
la preda, e ne lasciâr di novo
vòte
le mense e scompigliate e sozze.
Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra
è d'uopo
contra
sí dira gente". E tutti a l'arme
ed
a battaglia incito. Eglino, in guisa
ch'io
li disposi, i ferri ignudi e l'aste
e
gli scudi e le frombe e i corpi stessi
infra
l'erba acquattaro; il lor ritorno
stêro
aspettando. Era Miseno in alto
a
la veletta asceso; e non piú tosto
scoprir
le vide, e schiamazzare udille,
che
col canoro suo cavo oricalco
ne
diè cenno a' compagni. Uscîr d'agguato
tutti
in un tempo, e nuova zuffa e strana
tentâr
contra i marini uccelli in vano:
ché
le piume e le terga ad ogni colpo
aveano
impenetrabili e secure;
onde
securamente al ciel rivolte
se
ne fuggiro, e ne lasciâr la preda
sgraffiata,
smozzicata e lorda tutta.
Sola
Celèno a l'alta rupe in cima
disdegnosa
fermossi e, d'infortuni
trista
indovina infurïossi, e disse:
"Dunque
non basta averne, ardita razza
di
Laomedonte, depredati e scórsi
gli
armenti e i campi nostri, che ancor guerra,
guerra
ancor ne movete? E le innocenti
Arpie
scacciar del patrio regno osate?
Ma
sentite, e nel cor vi riponete
quel
ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema
ch'annunzio
a voi quel che 'l gran Giove a Febo,
e
Febo a me predice. Il vostro corso
è
per l'Italia, e ne l'Italia arete
e
porto e seggio. Ma di mura avanti
la
città che dal ciel vi si destina
non
cingerete, che d'un tale oltraggio
castigo
arete; e dira fame a tanto
vi
condurrà, che fino anco le mense
divorerete".
E, cosí detto, il volo
riprese
in vèr la selva, e dileguossi.
Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;
e
prieghi, invece d'armi, e voti oprando,
mercé
chiesero e pace, o dive o dire
che
si fosser l'alate ingorde belve:
e
'l padre Anchise in su la riva sporte
al
ciel le palme, e i gran celesti numi
umilmente
invocando, indisse i sacri
a
lor dovuti onori: "O dii possenti,
o
dii benigni, voi rendete vane
queste
minacce; voi di caso tale
ne
liberate; e voi giusti e voi buoni
siate
pietosi a noi ch'empi non siamo".
Indi ratto comanda che dal lito
si
disciolgano i legni. Entriam nel mare,
spieghiam
le vele agli austri, e via per l'onde
spumose
a tutto corso in fuga andiamo
là
've 'l vento e 'l nocchier ne guida e spinge.
E
già d'alto apparir veggiam le selve
di
Zacinto; passiam Dulichio e Same;
varchiam
Nèrito alpestro; e via fuggendo,
e
bestemmiando, trapassiam gli scogli
d'Itaca,
imperio di Laerte, e nido
del
fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
il
nimboso Leucàte, e quel che tanto
a'
naviganti è spaventoso, Apollo.
Ivi
stanchi approdammo; ivi gittate
l'àncore,
ed accostati i legni al lito,
ne
la picciola sua cittade entrammo.
Grata vie piú quanto sperata meno
ne
fu la terra; onde purgati ergemmo
altari
e vóti, ed ostie a Giove offrimmo.
E
d'Azio in su la riva festeggiando,
ignudi
ed unti, uscîr de' miei compagni
i
piú robusti, e, com'è patria usanza,
varie
palestre a lotteggiar si diêro:
gioiosi
che per tanto mare e tante
greche
terre inimiche a salvamento
fosser
tant'oltre addotti. Era de l'anno
compito
il giro, e i gelidi aquiloni
infestavano
il mare; ond'io lo scudo,
che
di forbito e concavo metallo
fu
già del grande Abante insegna e spoglia,
con
un tal motto in su le porte appesi:
A'
GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,
ED
A TE 'L SACRA, APOLLO. Indi al mar giunti
ne
rimbarcammo: e remigando a gara,
fummo
in un tempo de' Feaci a vista,
e
gli varcammo: poi rivolti a destra,
costeggiammo
l'Epiro, e di Caonia
giungemmo
al porto, ed in Butroto entrammo.
Qui
cosa udii, che meraviglia e gioia
mi
porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio
di
Prïamo re nostro, era a quel regno
di
greche terre assunto, e che di Pirro
e
del suo scettro e del suo letto erede
troiano
sposo a la troiana Andromache
s'era
congiunto. Arsi d'immenso amore
di
visitarlo, e di spïar da lui
come
ciò fosse; e de l'armata uscendo,
scesi
nel lito, e me n'andai con pochi
a
ritrovarlo. Era quel giorno a sorte
Andromache
regina in su la riva
del
nuovo Simoenta a far solenne
sepolcral
sacrificio; e, come è rito
de
la mia patria, avea, fra due grand'are
di
verdi cespi una gran tomba eretta,
monumento
di lagrime e di duolo.
ove
con tristi doni e con lugúbri
voci
del grand'Ettòr l'anima e 'l nome
chiamando,
il finto suo corpo onorava.
Poiché venir mi vide, e che di Troia
avvisò
l'armi, e me conobbe, un mostro
veder
le parve, e forsennata e stupida
fermossi
in prima; indi gelata e smorta
disvenne
e cadde; e dopo molto, a pena
risensando,
mirommi, e cosí disse:
"Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea?
Sei
corpo od ombra? Se da' morti udito
è
il mio richiamo, Ettòr perché te manda?
Perch'ei
teco non viene? E sei tu certo
nunzio
di lui?" Ciò detto, lagrimando,
empia
di strida e di lamenti i campi.
Io di pietà e di duol confuso, a pena
in
poche voci, e quelle anco interrotte,
snodai
la lingua: "Io vivo, se pur vita
è
menar giorni sí gravosi e duri:
ma
cosí spiro ancora, e veramente
son
io quel che ti sembro. O da qual grado
scaduta,
e da quanto inclito marito!
Andromache
d'Ettòr a Pirro, a Pirro
fosti
congiunta? Or qual altra piú lieta
t'incontra,
e piú di te degna fortuna?"
Abbassò
'l volto, e con sommessa voce
cosí
rispose: "O fortunata lei
sovr'ogni
donna, che regina e vergine,
ne
la sua patria a sacrificio offerta,
del
nimico fu vittima e non preda,
né
del suo vincitor serva né donna:
io
dopo Troia incensa, e dopo tanti
e
tanti arati mari, a servir nata,
de
la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto,
e
'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.
Questi
poi con Ermïone congiunto,
e
lei, che de la razza era di Leda
e
del sangue di Sparta, a me preposta,
volle
ch'Eleno ed io, servi ambidue,
n'accoppiassimo
insieme. Oreste intanto,
che
tôr l'amata sua donna si vide,
da
l'amore infiammato e da le faci
de
le furie materne, anzi agli altari
del
padre Achille, insidïosamente
tolse
la vita a lui. Per la sua morte
fu
'l suo regno diviso; e questa parte
de
la Caonia ad Eleno ricadde,
che
dal nome di Càone troiano
cosí
l'ha detta, come disse ancora
Ilio
da l'Ilio nostro questa ròcca
che
qui su vedi; e Simoenta e Pergamo
queste
picciole mura e questo rivo.
Ma
te quai vènti, o qual nostra ventura
ha
qui condotto, fuor d'ogni pensiero
di
noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro
vive?
cresce? che fa? come ha sentito
la
morte di Creúsa? E qual presagio
ne
dà ch'Enea suo padre, Ettor suo zio
si
rinnovino in lui?" Cotali Andromache
spargea
pianti e parole; ed ecco intanto
il
teucro eroe che de la terra uscendo,
con
molti intorno a rincontrar ne venne.
Tosto
che n'adocchiò, meravigliando
ne
conobbe, n'accolse, e lietamente
seco
n'addusse, de' comuni affanni
molto
con me, mentre andavamo, anch'egli
ragionando
e piangendo. Entrammo al fine
ne
la picciola Troia, e con diletto
un
arido ruscello, un cerchio angusto
sentii
con finti e rinnovati nomi
chiamar
Pergamo e Xanto; e de la Scea
porta
entrando abbracciai l'amata soglia.
Cosí
fecero i miei, meco godendo
l'amica
terra, come propria e vera
fosse
lor patria. Il re le sale e i portici
di
mense empiendo, fe' lor cibi e vini
da'
regii servi realmente esporre
con
vaselli d'argento e coppe d'oro.
Passato il primo giorno e l'altro appresso,
soffiâr
prosperi i vènti; ond'io commiato
a
l'indovino re chiedendo, seco
mi
ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,
cui
non son degli dèi le menti occulte,
che
Febo spiri e 'l tripode e gli allori
del
suo tempio dispensi, e de le stelle
e
de' volanti ogni secreto intendi,
danne
certo, ti priego, indicio e lume
de
le nostre venture. Il nostro corso,
com'ogni
augurio accenna ed ogni nume
ne
persuade, è per l'Italia; e lieto
e
fortunato ancor ne si promette
infino
a qui. Sola Celeno Arpia
novi
e tristi infortuni, e fame ed ira
degli
dèi ne minaccia. Io da te chieggio
avvertenze
e ricordi, onde sia saggio
a
tai perigli, e forte a tanti affanni".
Qui pria solennemente Eleno, occisi
i
dovuti giovenchi, in atto umíle
impetrò
dagli dèi favore e pace;
poscia,
raccolto in sé, le bende sciolse
del
sacro capo; e me, cosí com'era
a
tanto officio attonito e sospeso,
per
man prendendo, a la febèa spelonca
m'addusse
avanti, e con divina voce
intonando
proruppe: "O de la dea
pregiato
figlio (quando a gran fortuna
è
chiaro in prima che 'l tuo corso è vòlto;
tal
è del ciel, de' fati e di colui
che
gli regge, il voler, l'ordine e 'l moto),
io
di molte e gran cose che antiveggo
del
tuo peregrinaggio, acciò piú franco
navighi
i nostri mari, e 'l porto ausonio,
quando
che sia, securamente attinga,
poche
ne ti dirò, ch'a te le Parche
vietan
che piú ne sappi; ed a me Giuno,
ch'io
piú te ne riveli. In prima il porto,
e
l'Italia che cerchi, e sí vicina
ti
sembra, è da tal via, da tanti intrichi
scevra
da te, ch'anzi che tu v'aggiunga,
ti
parrà malagevole, e lontana
piú
che non credi; e ti fia d'uopo avanti
stancar
piú volte i remiganti e i remi,
e 'l mar de la Sicilia e 'l mar Tirreno,
e
i laghi inferni e l'isola di Circe
cercar
ti converrà, pria che vi fondi
securo
seggio. Io di ciò chiari segni
darotti,
e tu ne fa nota e conserva.
Quando piú stanco e travagliato a riva
sarai
d'un fiume, u' sotto un'elce accolta
sarà
candida troia, ed arà trenta
candidi
figli a le sue poppe intorno,
allor
di': - Questo è 'l segno e 'l tempo e 'l loco
da
fermar la mia sede, e questo è 'l fine
de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame
addur
ti deggia a trangugiar le mense,
comunque
avvenga, i fati a ciò daranno
opportuno
compenso; e questo Apollo
invocato
da voi presto saravvi.
Queste
terre d'Italia e questa riva
vèr
noi vòlta e vicina ai liti nostri,
è
tutta da' nimici e da' malvagi
Greci
abitata e cólta: e però lunge
fuggi
da loro. I Locri di Narizia
qui
si posaro; e qui ne' Salentini
i
suoi Cretesi Idomeneo condusse;
qui
Filottete il melibeo campione
la
piccioletta sua Petilia eresse.
Fuggili,
dico, e quando anco varcato
sarai
di là ne l'alto lito, intento
a
sciôrre i vóti, di purpureo ammanto
ti
vela il capo, acciò tra i santi fochi,
mentre
i tuoi numi adori, ostile aspetto
te
coi tuoi sacrifici non conturbi:
e
questo rito poi sia castamente
da
te servato e da' nepoti tuoi.
Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai
la Sicilia, e di Peloro
ti
si discovrirà l'angusta foce,
tienti
a sinistra, e del sinistro mare
solca
pur via quanto a di lungo intorno
gira
l'isola tutta, e da la destra
fuggi
la terra e l'onde. È fama antica
che
questi or due tra lor disgiunti lochi
erano
in prima un solo, che per forza
di
tempo, di tempeste e di ruine
(tanto
a cangiar queste terrene cose
può
de' secoli il corso), un dismembrato
fu
poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto
urtò, tanto róse, che l'esperio
dal
sicolo terreno alfin divise:
e
i campi e le città, che in su le rive
restaro,
angusto freto or bagna e sparte.
Nel
destro lato è Scilla; nel sinistro
è
l'ingorda Cariddi. Una vorago
d'un
gran baratro è questa, che tre volte
i
vasti flutti rigirando assorbe,
e
tre volte a vicenda li ributta
con
immenso bollor fino a le stelle.
Scilla
dentro a le sue buie caverne
stassene
insidïando; e con le bocche
de'
suoi mostri voraci, che distese
tien
mai sempre ed aperte, i naviganti
entro
al suo speco a sé tragge e trangugia.
Dal
mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
ha
di donna e di vergine; il restante,
d'una
pistrice immane, che simíli
a'
delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio
è con lungo indugio e lunga volta
girar
Pachino e la Trinacria tutta,
che,
non ch'altro, veder quell'antro orrendo,
serntir
quegli urli spaventosi e fieri
di
quei cerulei suoi rabbiosi cani.
Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
sembrar
ti può che sian d'Eleno i detti,
e
se scarso non m'è del vero Apollo,
sovr'a
tutto io t'accenno, ti predico,
ti
ripeto piú volte e ti rammento,
la
gran Giunone invoca: a Giunon vóti
e
preghi e doni e sacrifici offrisci
devotamente;
che, lei vinta alfine,
terrai
d'Italia il desïato lito.
Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
sarai
di Cuma, il sacro averno lago
visita,
e quelle selve e quella rupe,
ove
la vecchia vergine Sibilla
profetizza
il futuro, e 'n su le foglie
ripone
i fati: in su le foglie, dico,
scrive
ciò che prevede, e ne la grotta
distese
ed ordinate, ove sian lette,
in
disparte le lascia. Elle serbando
l'ordine
e i versi, ad uopo de' mortali
parlan
de l'avvenire, e quando, aprendo
talor
la porta, il vento le disturba,
e
van per l'antro a volo, ella non prende
piú
di ricôrle e d'accozzarle affanno;
onde
molti delusi e sconsigliati
tornan
sovente, e mal di lei s'appagano.
Tu
per soverchio che ti sembri indugio,
per
richiamo de' vènti o de' compagni,
non
lasciar di vederla, e d'impetrarne
grazia,
che di sua bocca ti risponda,
e
non con frondi. Ella daratti avviso
d'Italia,
de le guerre e de le genti
che
ti fian contra; e mostreratti il modo
di
fuggir, di soffrir, d'espugnar tutte
le
tue fortune, e di condurti in porto.
Questo
è quel che m'occorre, o che mi lice
ch'io
ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti
te
porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".
Poscia che ciò come profeta disse,
comandò
come amico ch'a le navi
gli
portassero i doni, opre e lavori
ch'avea
d'oro e d'avorio apparecchiati,
e
gran masse d'argento e gran vaselli
di
dodonèo metallo: una lorica
di
forbite azzimine; e rinterzate
maglie,
dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,
una
targa, un cimiero, una celata,
ond'era
a pompa ed a difesa armato
Nëottòlemo
altero. Il vecchio Anchise
ebbe
anch'egli i suoi doni: ebber poi tutti
cavalli
e guide; e fu di remi e d'armi
ciascun
legno provvisto; e perché 'l vento
che
secondo feria, non punto indarno
spirasse,
ordine avea di sciôr le vele
già
dato Anchise, a cui con molto onore
si
fece Eleno avanti, e cosí disse:
"O ben degno a cui fosse amica e sposo
la
gran madre d'Amore: o de' celesti
sovrana
cura, ch'a l'eccidio avanzi
già
due volte di Troia, eccoti a vista
giunto
d'Italia. A questa il corso indrizza:
ma
fa mestier di volteggiarla ancora
con
lungo giro, poiché lunge assai
è
la parte di lei che Apollo accenna.
Or
lieto te ne va, padre felice
di
sí pietoso figlio. Io, già che l'aura
sí
vi spira propizia, indarno a bada
piú
non terrovvi". Indi la mesta Andromache
fece
con tutti, e con Ascanio al fine
la
suprema partenza. Arnesi d'oro
guarniti
e ricamati, e drappi e giubbe
di
moresco lavoro, ed altri degni
di
lui vestiti e fregi, e ricca e larga
copia
di biancherie donogli, e disse:
"Prendi, figlio, da me quest'opre uscite
da
le mie mani, e per memoria tienle
del
grande e lungo amor che sempre avratti
Andromache
d'Ettorre; ultimi doni
che
ricevi da' tuoi. Tu mi sei, figlio,
quell'unico
sembiante che mi resta
d'Astïanatte
mio. Cosí la bocca,
cosí
le man, cosí gli occhi movea
quel
mio figlio infelice; e, d'anni eguale
a
te, del pari or saria teco in fiore".
Ed io da loro, anzi da me partendo,
con
le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:
"Vivete
lieti voi, cui già la sorte
vostra
è compita: noi di fato in fato,
di
mare in mar tapini andrem cercando
quel
che voi possedete. A noi l'Italia
tanto
ognor se ne va piú lunge, quanto
piú
la seguiamo; e voi già la sembianza
d'Ilio
e di Troia in pace vi godete,
regno
e fattura vostra. Ah! che de l'altra
sia
sempre e piú felice e meno esposta
a
le forze de' Greci. Io, s'unqua il Tebro
vedrò,
se fia giammai che ne' suoi campi
sorgan
le mura destinate a noi;
come
la nostra Esperia e 'l vostro Epiro
si
son vicini, e come ambe le terre
fien
vicine e cognate, ed ambe avranno
Dardano
per autore, e per fortuna
un
caso stesso; cosí d'ambedue
mi
proporrò che d'animi e d'amore
siamo
una Troia: e ciò perpetua cura
sia
de' nostri nipoti". Entrati in mare,
ne
spingemmo oltre a gli Ceràuni monti
a
Butroto vicini, onde a le spiagge
si
fa d'Italia il piú breve tragitto.
Già
dechinava il sole, e crescean l'ombre
de'
monti opachi, quando a terra vòlti
col
desire e co' remi in su la riva
pur
n'adducemmo, e procurammo a' corpi
cibo,
riposo e sonno. Ancor la notte
non
era al mezzo, che del suo stramazzo
surse
il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe
con
gli orecchi spiati il vento e 'l mare,
mirò
le stelle, contemplò l'Arturo,
l'Iadi
piovose, i gemini Trïoni,
ed
Orïone armato; e, visto il cielo
sereno
e 'l mar sicuro, in su la poppa
recossi,
e 'l segno dienne. Immantinente
movemmo
il campo, e quasi in un baleno
giunti
e posti nel mar, vela facemmo.
Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
scolorite
le stelle, allor che lunge
scoprimmo,
e non ben chiari, i monti in prima,
poscia
i liti d'Italia. - Italia! - Acate
gridò
primieramente. - Italia! Italia! -
da
ciascun legno ritornando allegri
tutti
la salutammo. Allora Anchise
con
una inghirlandata e piena tazza
in
su la poppa alteramente assiso:
"O
del pelago - disse - e de la terra,
e
de le tempeste numi possenti,
spirate
aure seconde, e vèr l'Ausonia
de'
nostri legni agevolate il corso".
Rinforzaronsi i vènti; apparve il
porto
piú
da vicino; apparve al monte in cima
di
Pallade il delúbro. Allor le vele
calammo,
e con le prore a terra demmo.
È di vèr l'Orïente un
curvo seno
in
guisa d'arco, a cui di corda in vece
sta
d'un lungo macigno un dorso avanti,
ove
spumoso il mar percuote e frange.
Ne'
suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
che
con due braccia il mar dentro accogliendo,
lo
fa porto e l'asconde; e sovra al porto
lunge
dal lito è 'l tempio. Ivi smontati,
quattro
destrier vie piú che neve bianchi,
che
pascevano il campo, al primo incontro
per
nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -
guerra
ne si minaccia; a guerra additti
sono
i cavalli; o pur sono anco al carro
talvolta
aggiunti, e van del pari a giogo:
guerra
fia dunque in prima, e pace dopo".
Quinci
devoti venerammo il nume
de
l'armigera Palla, a cui gioiosi
prima
il corso indrizzammo. In su la riva
altari
ergemmo; e noi d'intorno, come
Eleno
ci ammoní, le teste avvolte
di
frigio ammanto, a la gran Giuno argiva
preghiere
e doni e sacrifici offrimmo.
Poiché solennemente i prieghi e i vóti
furon
compiti, al mar ne radducemmo
immantinente;
e rivolgendo i corni
de
le velate antenne, il greco ospizio
e
'l sospetto paese abbandonammo.
E prima il tarentino erculeo seno
(se
la sua fama è vera) a vista avemmo;
poscia
a rincontro di Lacinia il tempio,
la
ròcca di Caulóne e 'l Scillacèo,
onde
i navili a sí gran rischio vanno;
indi
ne la Trinacria al mar discosto
d'Etna
il monte vedemmo, e lunge udimmo
il
fremito, il muggito, i tuoni orrendi
che
facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi
e
dentro a le caverne i flutti e i fuochi,
al
ciel ruttando insieme il mare e 'l monte
fiamme,
fumo, faville, arene e schiuma.
Qui disse il vecchio Anchise:
"È
forse questa
quella
Cariddi? Questi scogli certo,
e
questi sassi orrendi Eleno dianzi
ne
profetava. Via, compagni, a' remi
tutti
in un tempo, e vincitori usciamo
d'un
tal periglio". Palinuro il primo
rivolse
la sua vela e la sua proda
al
manco lato; e ciò gli altri seguendo,
con
le sarte e co' remi in un momento
ne
gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo
prima
al ciel ne sospinse; indi calando,
ne
l'abisso ne trasse. In ciò tre volte
mugghiar
sentimmo i cavernosi scogli,
e
tre volte rivolti in vèr le stelle
d'umidi
sprazzi e di salata schiuma
il
ciel vedemmo rugiadoso e molle.
Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme
ne
mancâr sí, che del vïaggio incerti
disavvedutamente
a le contrade
de'
Ciclopi approdammo. È per se stesso
a'
vènti inaccessibile e capace
di
molti legni il porto ove giugnemmo;
ma
sí d'Etna vicino, che i suoi tuoni
e
le sue spaventevoli ruine
lo
tempestano ognora. Esce talvolta
da
questo monte a l'aura un'atra nube
mista
di nero fumo e di roventi
faville,
che di cenere e di pece
fan
turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano
ad ora ad or lucide fiamme
che
van lambendo a scolorir le stelle;
e
talvolta, le sue viscere stesse
da
sé divelte, immani sassi e scogli
liquefatti
e combusti al ciel vomendo
in
fin dal fondo romoreggia e bolle.
È fama, che dal fulmine percosso
e
non estinto, sotto a questa mole
giace
il corpo d'Encèlado superbo;
e
che quando per duolo e per lassezza
ei
si travolve, o sospirando anela,
si
scuote il monte e la Trinacria tutta;
e
del ferito petto il foco uscendo
per
le caverne mormorando esala,
e
tutte intorno le campagne e 'l cielo
di
tuoni empie e di pomici e di fumo.
A questi mostri tutta notte esposti,
entro
una selva stemmo, non sapendo
le
cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso
ne
si togliea, poiché 'l paese conto
non
c'era: né stellato, né sereno
si
vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,
e
tra le nubi era la luna ascosa.
Già del giorno seguente era il
mattino,
e
'l chiaro albore avea l'umido velo
tolto
dal mondo, quando ecco dal bosco
ne
si fa 'ncontro un non mai visto altrove
di
strana e miserabile sembianza,
scarno,
smunto e distrutto: una figura
piú
di mummia che d'uomo. Avea la barba
lunga,
le chiome incolte, indosso un manto
ricucito
di spini: orrido tutto,
e
squallido e difforme, con le mani
verso
il lito distese, a lento passo
venia
mercé chiedendo. Era costui,
come
prima ne parve e poscia udimmo,
greco,
e di quei che militaro a Troia.
Onde
noi per Troiani e i nostri arnesi
e
le nostr'armi conoscendo, in prima
attonito
fermossi; e poscia quasi
rincomato
a noi venne e con preghiere
e
con pianto ne disse: "Oh! se le stelle,
se
gli dèi, se quest'aura onde spiriamo,
generosi
e magnanimi Troiani,
serbin
la vita a voi, quinci mi tolga
la
pietà vostra, e vosco m'adducete,
ove
che sia; ché mi fia questo assai;
poi
ch'io son greco, e di quei Greci ancora
che
venner (lo confesso) a i danni vostri.
Se
'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto
ch'io
ne deggia morir, morte mi date,
e
(se cosí v'aggrada) a brano a brano
mi
lanïate, e ne fate esca a' pesci;
ché
se per man d'umana gente io pèro,
perir
mi giova". E, cosí detto, a' piedi
ne
si gittò. Noi l'esortammo a dire
chi
fosse e di che patria e di che sangue,
e
qual era il suo caso. Il vecchio Anchise
la
sua destra gli porse, e con tal pegno
l'affidò
di salute; ond'ei securo
tosto
soggiunse: "Itaca è patria mia,
Achemènide
il nome. Io fui compagno
de
l'infelice Ulisse; e venni a Troia,
la
povertà del mio padre Adamasto
fuggendo
(cosí povero mai sempre
foss'io
stato con lui!); qui capitai
con
esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia
con
gli altri suoi questo crudele ospizio,
per
téma abbandonommi e per oblio
ne
l'antro del Ciclopo. È questo un antro
opaco,
immenso, che macello è sempre
d'umana
carne, onde ancor sempre intriso
è
di sanie e di sangue: ed è 'l Ciclopo
un
mostro spaventoso, un che col capo
tocca
le stelle (o Dio, leva di terra
una
tal peste!), ch'a mirarlo solo,
solo
a parlarne, orror sento ed angoscia.
Pascesi
de le viscere e del sangue
de
la misera gente; ed io l'ho visto
con
gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender
le branche e, due presi de' nostri,
rotargli
a cerco e sbattergli e schizzarne
infra
quei tufi le midolle e gli ossi.
Vist'ho
quando le membra de' meschini
tiepide,
palpitanti e vive ancora,
di
sanguinosa bava il mento asperso,
frangea
co' denti a guisa di maciulla.
Ma nol soffrí senza vendetta Ulisse;
né
di se stesso in sí mortal periglio
punto
oblïossi; ché non prima steso
lo
vide ebbro e satollo a capo chino
giacer
ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio
ruttar
pezzi di carne e sangue e vino,
che
ne restrinse; ed invocati in prima
i
santi numi, divisò le veci
sí
che parte il tenemmo in terra saldo,
parte,
con un gran palo al foco aguzzo,
sopra
gli fummo; e quel ch'unico avea
di
targa e di febèa lampade in guisa
sotto
la torva fronte occhio rinchiuso,
gli
trivellammo, vendicando alfine,
col
tôr la luce a lui, l'ombre de' nostri.
Ma voi che fate qui? ché non fuggite,
miseri
voi? Fuggite, e senza indugio
tagliate
il fune e v'allargate in mare;
che
cosí smisurati e cosí fieri,
com'è
costui che Polifemo è detto,
ne
son via piú di cento in questo lito,
tutti
Ciclopi, e tutti antropofàgi,
che
vanno il dí per questi monti errando.
Già
visto ho la cornuta e scema luna
tornar
tre volte luminosa e tonda,
da
che son qui tra selve e tra burroni
con
le fere vivendo. Entro una rupe
è
'l mio ricetto; e quindi, benché lunge
gli
miri, ad or ad or d'avergl'intorno
mi
sembra, e 'l suon n'abborro e 'l calpestio
de
la voce e de' piè. Pascomi d'erbe,
di
còccole e di more e di corniali,
e
di tali altri cibi acerbi e fieri:
vita
e vitto infelice. In questo tempo,
quanto
ho scoperto intorno, unqua non vidi
ch'altro
legno giammai qui capitasse,
salvo
ch'i vostri. A voi dunque del tutto
m'addico:
e, che che sia, parrammi assai
fuggir
questa nefanda e dira gente.
Voi,
pria che qui lasciarmi, ogni supplicio
mi
date ed ogni morte". A pena il Greco
avea
ciò detto, ed ecco in su la vetta
del
monte avverso Polifemo apparve.
Sembrato
mi sarebbe un altro monte
a
cui la gregge sua pascesse intorno,
se
non che si movea con essa insieme,
e
torreggiando, inverso la marina
per
l'usato sentier se ne calava.
Mostro
orrendo, difforme e smisurato,
che
avea come una grotta oscura in fronte
in
vece d'occhio, e per bastone un pino,
onde
i passi fermava. Avea d'intorno
la
greggia a' piedi, e la sampogna al collo,
quella
il suo amore, e questa il suo trastullo,
ond'orbo
alleggeriva il duolo in parte.
Giunto
a la riva, entrò ne l'onde a guazzo:
e
pria de l'occhio la sanguigna cispa
lavossi,