HOME   PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA


 

Virgilio

 

 

ENEIDE

 

Trad. di Annibal Caro

 

 

INDICE

LIBRO PRIMO.. 1

LIBRO SECONDO.. 24

LIBRO TERZO.. 47

LIBRO QUARTO.. 68

LIBRO QUINTO.. 87

LIBRO SESTO.. 110

LIBRO SETTIMO.. 135

LIBRO OTTAVO.. 158

LIBRO NONO.. 178

LIBRO DECIMO.. 201

LIBRO DECIMOPRIMO.. 227

LIBRO DECIMOSECONDO.. 254

 

 


 

 

LIBRO PRIMO

 

 

  Quell'io che già tra selve e tra pastori

di Titiro sonai l'umil sampogna,

e che, de' boschi uscendo. a mano a mano

fei pingui e cólti i campi, e pieni i vóti

d'ogn'ingordo colono, opra che forse

agli agricoli è grata; ora di Marte

 

  L'armi canto e 'l valor del grand'eroe

che pria da Troia, per destino, a i liti

d'Italia e di Lavinio errando venne;

e quanto errò, quanto sofferse, in quanti

e di terra e di mar perigli incorse,

come il traea l'insuperabil forza

del cielo, e di Giunon l'ira tenace;

e con che dura e sanguinosa guerra

fondò la sua cittade, e gli suoi dèi

ripose in Lazio: onde cotanto crebbe

il nome de' Latini, il regno d'Alba,

e le mura e l'imperio alto di Roma.

  Musa, tu che di ciò sai le cagioni,

tu le mi detta. Qual dolor, qual onta

fece la dea ch'è pur donna e regina

de gli altri dèi, sí nequitosa ed empia

contra un sí pio? Qual suo nume l'espose

per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto

possono ancor là su l'ire e gli sdegni?

  Grande, antica, possente e bellicosa

colonia de' Fenici era Cartago,

posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra

a la foce del Tebro: a Giunon cara

sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.

Qui pose l'armi sue, qui pose il carro,

qui di porre avea già disegno e cura

(se tale era il suo fato) il maggior seggio,

e lo scettro anco universal del mondo.

  Ma già contezza avea ch'era di Troia

per uscire una gente, onde vedrebbe

le sue torri superbe a terra sparse,

e de la sua ruina alzarsi in tanto,

tanto avanzar d'orgoglio e di potenza,

che ancor de l'universo imperio avrebbe:

tal de le Parche la volubil rota

girar saldo decreto. Ella, che téma

avea di ciò, non posto anco in oblio

come, a difesa de' suoi cari Argivi,

fosse a Troia acerbissima guerriera,

ripetendone i semi e le cagioni,

se ne sentia nel cor profondamente

or di Pari il giudicio, or l'arroganza

d'Antígone, il concúbito d'Elettra,

lo scorno d'Ebe, alfin di Ganimede

e la rapina e i non dovuti onori.

  Da tante, oltre al timor, faville accesa,

quei pochi afflitti e miseri Troiani

ch'avanzaro agl'incendi, a le ruine,

al mare, ai Greci, al dispietato Achille,

tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo,

combattuti da' vènti e dal destino,

per tutti i mari andâr raminghi e sparsi:

di sí gravoso affar, di sí gran mole

fu dar principio a la romana gente.

  Eran di poco, e del cospetto a pena

de la Sicilia navigando usciti,

e già, preso de l'alto, a piene vele

se ne gian baldanzosi, e con le prore

e co' remi facean l'onde spumose,

quando, punta Giunon d'amara doglia:

«Dunque, - disse - ch'io ceda? e che di Troia

venga a signoreggiar Italia un re,

ch'io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!

Mi sieno: osò pur Pallade, e poteo

ardere e soffocar già degli Argivi

tanti navili, e tanti corpi ancidere

per lieve colpa e folle amor d'un solo,

Aiace d'Oïlèo. Contra costui

ella stessa vibrò di Giove il tèlo

giú dalle nubi; ella commosse i vènti

e turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:

e quando ei già dal fulminato petto

sangue e fiamme anelava, a tale un turbo

in preda il diè, che per acuti scogli

miserabil ne fe' rapina e scempio.

Tanto può Palla? Ed io, io de gli dèi

regina, io sposa del gran Giove e suora,

son di quest'una gente omai tant'anni

nimica in vano? E chi piú de' mortali

sarà che mi sacrifichi, e m'adori?»

  Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,

giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri

e de le furie lor patria feconda.

Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso

le sonore tempeste e i tempestosi

vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.

Eglino impetuosi e ribellanti

tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,

che ne trema la terra e n'urla il monte.

Ed ei lor sopra, realmente adorno

di corona e di scettro, in alto assiso,

l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.

Se ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo

lacerati da lor, confusi e sparsi

con essi andrian per lo gran vano a volo;

ma la possa maggior del padre eterno

provvide a tanto mal serragli e tenebre

d'abissi e di caverne; e moli e monti

lor sopra impose; ed a re tale il freno

ne diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli

con certa legge o rattenere o spingere.

A cui davanti l'orgogliosa Giuno

allor umíle e supplichevol disse:

«Eölo, poi che 'l gran padre del cielo

a tanto ministerio ti prepose

di correggere i vènti e turbar l'onde,

gente inimica a me, mal grado mio,

naviga il mar Tirreno; e giunta a vista

è già d'Italia, al cui reame aspira;

e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto

seco v'adduce e i suoi vinti Penati.

Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,

aggiragli, confondigli, sommergigli,

o dispergigli almeno. Appo me sono

sette e sette leggiadre ninfe e belle;

e di tutte piú bella e piú leggiadra

è Deiopèa. Costei vogl'io, per merto

di ciò, che sia tua sposa; e che tu seco

di nodo indissolubile congiunto,

viva lieto mai sempre, e ne divenga

padre di bella e di te degna prole».

  Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -

conviensi che tu scopra i tuoi desiri,

ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono

son qui per te. Tu mi fai Giove amico,

tu mi dài questo scettro e questo regno;

se re può dirsi un che comandi a' vènti.

Io, tua mercé, su co' celesti a mensa

nel ciel m'assido; e co' mortali in terra

son di nembi possente e di tempeste».

  Cosí dicendo, al cavernoso monte

con lo scettro d'un urto il fianco aperse,

onde repente a stuolo i vènti usciro.

Avean già co' lor turbini ripieni

di polve e di tumulto i colli e i campi,

quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto

s'avventaron nel mare, e fin da l'imo

lo turbâr sí, che ne fêr valli e monti;

monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi,

sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille

volgendo, se ne gian caduchi e mobili

con suono e con ruina i liti a frangere.

Il grido, lo stridore, il cigolare

de' legni, de le sarte e de le genti,

i nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano,

la buia notte, ond'era il mar coverto,

i tuoni, i lampi spaventosi e spessi,

tutto ciò che s'udia, ciò che vedevasi

rappresentava orror, perigli e morte.

Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo

sentissi, che tremante al ciel si volse

con le man giunte, e sospirando disse:

  «O mille volte fortunati e mille

color che sotto Troia e nel cospetto

de' padri e de la patria ebbero in sorte

di morir combattendo! O di Tidèo

fortissimo figliuol, ch'io non potessi

cader per le tue mani, e lasciar ivi

questa vita affannosa, ove lasciolla

vinto per man del bellicoso Achille,

Ettor famoso e Sarpedonte altero?

E se d'acqua perire era il mio fato,

perché non dove Xanto o Simoenta

volgon tant'armi e tanti corpi nobili?»

  Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone

una buffa a rincontro, che stridendo

squarciò la vela, e 'l mar spinse a le stelle,

Fiaccârsi i remi; e là 've era la prua,

girossi il fianco; e d'acqua un monte intanto

venne come dal cielo a cader giú.

Pendono or questi or quelli a l'onde in cima;

or a questi or a quei s'apre la terra

fra due liquidi monti, ove l'arena,

non men ch'ai liti, si raggira e ferve.

  Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;

- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro

da l'altezza de l'onde allor celato,

che sorgea primo in alto mare altissimo -

e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,

(miserabile aspetto) ne le secche

tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.

Una, che 'l carco avea del fido Oronte

con le genti di Licia, avanti agli occhi

di lui perí. Venne da Bora un'onda,

anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla,

che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;

e lei girò sí che 'l suo giro stesso

le si fe' sotto e vortice e vorago,

da cui rapita, vacillante e china,

quasi stanco palèo, tre volte volta,

calossi gorgogliando, e s'affondò.

  Già per l'ondoso mar disperse e rare

le navi e i naviganti si vedevano;

già per tutto di Troia, a l'onde in preda,

arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;

già quel ch'era piú valido e piú forte

legno d'Ilïonèo, già quel d'Acate

e quel d'Abante e quel del vecchio Alete,

ed alfin tutti sconquassati, a l'onde

micidïali aveano i fianchi aperti;

quando, a tanto rumor, da l'antro uscito

il gran Nettuno, e visto del suo regno

rimescolarsi i piú riposti fondi:

«Oh - disse irato - ond'è questa importuna

tempesta?» E grazïoso il capo fuori

trasse de l'onde; e rimirando intorno,

per lo mar tutto dissipati e laceri

vide i legni d'Enea; vide lo strazio

de' suoi ch'a la tempesta, a la ruina

e del mare e del cielo erano esposti.

E ben conobbe in ciò, come suo frate,

che ne fôra cagion l'ira e la froda

de l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,

e 'n tal guisa acremente li rampogna:

  «Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,

razza perversa? Voi, voi, senza me,

nel regno mio la terra e 'l ciel confondere,

e far nel mare un sí gran moto osate?

Io vi farò... Ma di mestiero è prima

abbonazzar quest'onde. Altra fiata

in altra guisa il fio mi pagherete

del fallir vostro. Via tosto di qua,

spirti malvagi; e da mia parte dite

al vostro re che questo regno e questo

tridente è mio, e che a me solo è dato.

Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,

case degne di voi; quella è sua reggia;

quivi solo si vanti; e per regnare,

de la prigion de' suoi vènti non esca».

  Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,

la tempesta cessò, s'acquetò 'l mare,

si dileguâr le nubi, apparve il sole.

Cimòtoe e Triton, l'una con l'onde,

l'altro col dorso, le tre navi indietro

ritirâr da lo scoglio in cui percossero.

Le tre che ne l'arena eran sepolte,

egli stesso, le vaste sirti aprendo,

sollevò col tridente ed a sé trassele.

Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno

scorrendo lievemente, ovunque apparve,

agguagliò 'l mare, e lo ripose in calma.

  Come addivien sovente in un gran popolo,

allor che per discordia si tumultua,

e imperversando va la plebe ignobile,

quando l'aste e le faci e i sassi volano

e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,

se grave personaggio e di gran merito

esce lor contro, rispettosi e timidi,

fatto silenzio, attentamente ascoltano,

ed al detto di lui tutti s'acquetano;

cosí d'ogni ruina e d'ogni strepito

fu 'l mar disgombro, allor che umíle e placido

a ciel aperto il gran rettor del pelago

co' suoi lievi destrier volando scórselo.

Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi

drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.

  È di là lungo a la riviera un seno,

anzi un porto; ché porto un'isoletta

lo fa, che in su la bocca al mare opponsi.

Questa si sporge co' suoi fianchi in guisa

ch'ogni vento, ogni flutto, d'ogni lato

che vi percuota, ritrovando intoppo,

o si frange, o si sparte, o si riversa.

Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime,

sotto cui stagna spazïoso un golfo

securo e queto: e v'ha d'alberi sopra

tale una scena, che la luce e 'l sole

vi raggia, e non penètra: un'ombra opaca,

anzi un orror di selve annose e folte.

D'incontro è di gran massi e di pendenti

scogli un antro muscoso, in cui dolci acque

fan dolce suono; e v'ha sedili e sponde

di vivo sasso: albergo veramente

di ninfe, ove a fermar le stanche navi

né d'àncora v'è d'uopo, né di sarte.

Qui sol con sette, che raccolse a pena

di tanti legni, Enea ricoverossi.

Qui stanchi tutti e maceri, e del mare

ancor paurosi, i liti a pena attinsero,

che a terra avidamente si gittarono.

Acate fece in pria selce e focíle

scintillar foco, e dièlli esca e fomento.

Altri poscia d'intorno ad altri fuochi

(come quei che di vitto avean disagio,

e le biade trovâr corrotte e molli)

si diêr con vari studi e vari ordigni

a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.

  Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso,

quanto si discopria con l'occhio intorno,

stava mirando s'alcun legno fosse

per alcun luogo apparso, o quel d'Antèo,

o quel di Capi, o pur quel di Caíco

che in poppa avea la piú sublime insegna.

Nïun ne vide: ma ben vide errando

gir per la spiaggia tre gran cervi, e dietro

d'altri minori innumerabil torma,

che in sembianza d'armenti empian le valli.

Fermossi: e pronto a cotal uso avendo

l'arco e 'l turcasso (ché quest'armi appresso

gli portava mai sempre il fido Acate),

diè lor di piglio: e saettando prima

i primi tre, che piú vide altamente

erger le teste e inalberar le corna,

contra 'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco,

ovunque gli scorgea, folgorò tutto.

Ne cacciò, ne ferí, strage ne fece

a suo diletto; né si vide prima

sazio che, come sette eran le navi,

sette non ne vedesse a terra stesi.

In questa guisa ritornando al porto,

gli spartí parimente a' suoi compagni;

e con essi del vin, che 'l buon Aceste

a l'uscir di Sicilia in don gli diede,

molt'urne dispensò per ricrearli;

poscia a conforto lor cosí lor disse:

  «Compagni, rimembrando i nostri affanni,

voi n'avete infiniti omai sofferti

vie piú gravi di questi. E questi fine,

(quando che sia) la dio mercede, avranno.

Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli

di tutti i mari omai, voi de' Ciclopi

varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.

Riprendete l'ardir, sgombrate i petti

di téma e di tristizia. E' verrà tempo

un dí che tante e cosí rie venture,

non ch'altro, vi saran dolce ricordo.

Per vari casi e per acerbi e duri

perigli è d'uopo far d'Italia acquisto.

Ivi riposo, ivi letizia piena

vi promettono i fati, e nuova Troia

e nuovi regni al fine. Itene intanto:

soffrite, mantenetevi, serbatevi

a questo, che dal ciel si serba a voi,

sí glorioso e sí felice stato».

  Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso

d'alti e gravi pensier, tenea velato

con la fronte serena il cuor doglioso.

  Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi

già rivolti a la preda, altri le tèrgora

le svelgon da le coste, altri sbranandola

mentre è tiepida ancor, mentre che palpita,

lunghi schidioni e gran caldaie apprestano,

e l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.

Poscia d'un prato e seggio e mensa fattisi,

taciti prima sopra l'erba agiandosi,

d'opima carne e di vin vecchio empiendosi,

quanto puon lietamente si ricreano.

  Poiché fûr sazi, a ragionar si diêro,

con voce or di timore or di cordoglio,

de' perduti compagni, in dubbio ancora

se fosser vivi, e se pur giunti al fine

piú de' richiami lor nulla curassero.

Enea vie piú di tutti e di pietate

e di dolor compunto, il caso acerbo

or d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e Gía

ne' sospir richiamava e 'l buon Cloanto.

  Erano al fine omai; quando il gran Giove

da l'alta spera sua mirando in giuso

la terra e 'l mar di questo basso globo,

mentre di lito in lito, e d'uno in altro

scerne i popoli tutti, al cielo in cima

fermossi, e ne la Libia il guardo affisse.

Venere, allor ch'a le terrene cose

lo vide intento, dolcemente afflitta

il volto, e molle i begli occhi lucenti,

gli si fece davanti, e cosí disse:

  « Padre, che de' mortali e de' celesti

siedi eterno monarca, e folgorando

empi di téma e di spavento il mondo,

e quale ha contra te fallo sí grave

commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani,

che, dopo tanti affanni e tante stragi,

c'han di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,

non trovin pace, né pietà, né loco

pur che gli accetti? In cotal guisa omai

del mondo son, non che d'Italia, esclusi.

Io mi credea, signor (quel che promesso

n'era da te), che tornasse anco un giorno,

quando che fosse, il generoso germe

di Dardano a produr quei glorïosi

eroi, quei duci invitti, quei Romani

de l'universo domatori e donni:

e tu ne 'l promettesti. Or come, padre,

il ciel cangia destino, e tu consiglio?

Questa sola credenza era cagione

di consolarmi in parte de l'eccidio

de la mia Troia, ch'io soffrissi in pace

tante ruine sue, fato con fato

ricompensando. Or la fortuna stessa

e vie piú fera la persegue e dura.

E quanto durerà, signore, ancora?

Tal non fu già d'Antènore l'esilio;

ch'ei non piú tosto de l'achive schiere

per mezzo uscio, che con felice corso

penetrò d'Adria il seno; entrò securo

nel regno de' Liburni; andò fin sopra

al fonte di Timavo; e là 've il fiume

fremendo il monte intuona, e là 've aprendo

fa nove bocche un mare, e, mar già fatto,

inonda i campi e rumoreggia e frange,

Padoa fondò, pose de' Teucri il seggio,

e diè lor nome e le lor armi affisse.

Ivi ridotto il suo regno, e composto

quïetamente, or lo si gode in pace.

E noi, noi del tuo sangue, e che da te

avemo anco del cielo arra e possesso,

ad una sola indegnamente in ira,

perdute, ohimè! le proprie navi, fuori

siamo d'Italia e di speranza ancora

di non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio

che si deve a pietade? E questo è il regno

che da te, padre mio, ne si promette?»

  Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto

con che 'l ciel rasserena e le tempeste,

rimirolla, basciolla, e cosí disse:

  «Non temer, Citerèa, ché saldi e certi

stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno

le mie promesse; sorgeran le torri

de la novella Troia; vedrai le mura

di Lavinio; porrai qui fra le stelle

il magnanimo Enea. Ché né 'l destino

in ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.

Ma per trarti d'affanni, io te 'l dirò

piú chiaramente; e scoprirotti intanto

de' fati i piú reconditi secreti.

Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia

sarà; farà gran guerra, vincerà:

domerà fere genti: imporrà leggi:

darà costumi, e fonderà città:

e di già, vinti i Rutuli, tre verni

e tre stati regnar Lazio vedrallo.

Ascanio giovinetto, or detto Iulo,

ed Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,

succederagli; e trenta giri interi

del maggior lume, il sommo imperio avrà.

Trasferirallo in Alba: Alba la lunga

sarà la reggia sua possente e chiara.

Qui regneranno poi sotto la gente

d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni

tre volte cento; finch'Ilia regina

d'un parto produrrà gemella prole.

Indi capo ne fia Romolo invitto.

Questi, in vece di manto, adorno il tergo

de la sua marzïal nudrice lupa,

di Marte fonderà la gran cittade:

e dal nome di lui Roma diralla.

A Roma non pongo io termine o fine:

ché fia del mondo imperatrice eterna.

E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare

e 'l ciel per téma intorbida e scompiglia,

con piú sano consiglio al mio conforme,

procurerà che la romana gente

in arme e 'n toga a l'universo imperi.

E cosí stabilisco: e cosí tempo

ancor sarà ch'Argo, Micene e Ftia

e i Greci tutti tributari e servi

de la casa di Assàraco saranno.

Di questa gente, e de la Iulia stirpe,

che da quel primo Iulo il nome ha preso,

Cesare nascerà, di cui l'impero

e la gloria fia tal, che per confine

l'uno avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.

Questi, già vinto il tutto, poi che onusto

de le spoglie sarà de l'Orïente,

anch'egli avrà da te qui seggio eterno,

e là giú fra' mortali incensi e vóti.

L'aspro secolo allor, l'armi deposte,

si farà mite. Allor la santa Vesta

e la candida Fede e 'l buon Quirino

col frate Remo il mondo in cura avranno.

Allor con salde e ben ferrate sbarre

de la guerra saran le porte chiuse:

e dentro in fra la ruggine sepolto

con cento nodi incatenato e stretto

gran tempo si starà l'empio Furore;

e rabbioso fremendo orribilmente,

con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti

morderà l'armi e le catene indarno».

  Cosí detto, spedí tosto da l'alto

di Maia il figlio a far sí ch'a' Troiani

fosse Cartago e il suo paese amico,

perché del fato la regina ignara,

non fosse lor, per ferità de' suoi

o per sua téma, inospitale e cruda.

Vassene il messaggier per l'aria a volo

velocemente, e ne la Libia giunto,

quel ch'imposto gli fu ratto eseguisce.

E già, la dio mercé, lasciano i Peni

la lor fierezza; e la regina in prima

s'imbeve d'un affetto e d'una mente

verso i Troiani affabile e benigna.

  La notte intanto, del pietoso Enea

molti furo i sospir, molti i pensieri.

Conchiuse alfin ch'a l'apparir del giorno

spïar dovesse, e riportarne avviso

a suoi compagni, in qual paese il vento

gli avesse spinti; e s'uomini o pur fere

(perché incolto il vedea) quivi abitassero.

Cosí tra selve ombrose e cave rupi

fatti i legni appiattar, sol con Acate,

e con due dardi in mano in via si pose.

  In mezzo de la selva una donzella,

ch'era sua madre, sí com'era avanti

che madre fosse incontro gli si fece.

Donzella a l'armi, a l'abito, al sembiante

parea di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice

leggiera e sciolta, il dorso affaticando

di fugace destrier, l'Ebro varcava.

Al collo avea di cacciatrice un arco

abile e lesto, i crini a l'aura sparsi,

nudo il ginocchio; e con bel nodo stretto

tenea raccolto della gonna il seno.

  Ella fu prima a dire: «Avreste voi,

giovani, de le mie sorelle alcuna

vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,

o che gli omeri vesta d'una pelle

di cervier maculato, o che gridando

d'un zannuto cignal segua la traccia?»

Cosí Venere disse. Ed, a rincontro,

di Venere il figliuol cosí rispose:

  «Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,

vergine... qual ti dico, e di che nome

chiamar ti deggio? Ché terreno aspetto

non è già 'l tuo, né di mortale il suono.

Dea sei tu veramente, o suora a Febo,

o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:

e chïunque tu sii, propizia e pia

vèr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.

Dinne sotto qual cielo, in qual contrada

siamo or del mondo: ché raminghi andiamo;

e qui dal vento e da fortuna spinti

nulla o de gli abitanti o de' paesi

notizia abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti,

di nostra man cadrà piú d'una vittima».

  Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo

celeste onore. In Tiro usan le vergini

di portar arco, e di calzar coturni;

e di Tiro e d'Agènore le genti

traggon principio, che qui seggio han posto:

ma 'l paese è di Libia, ed avvi in guerra

gente feroce. Or n'è capo e regina

Dido che, da l'insidie del fratello

fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto

lunga fôra novella e lungo intrico.

Ma toccandone i capi, avea costei

Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco

di terra e d'oro, che in Fenicia fosse,

da la meschina unicamente amato,

anzi il suo primo amore. Il padre intatta

nel primo fior di lei seco legolla.

Ma del regno di Tiro avea lo scettro

Pigmalïon suo frate, un signor empio,

un tiranno crudele e scellerato

piú ch'altri mai. Venne un furor fra loro

tal, che Sichèo da questo avaro e crudo,

per sete d'oro, ove men guardia pose,

fu tra gli altari ucciso; e non gli valse

che la germana sua tanto l'amasse.

Ciò fe' celatamente: e per celarlo

vie piú, con finzïoni e con menzogne

deluse un tempo ancor l'afflitta amante.

Ma nel fin, di Sichèo la stessa imago,

fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,

pallida, macilenta e spaventevole,

le apparve in sogno, e presentolle, avanti

gli empi altari ove cadde, il crudo ferro

che lo trafisse, e del suo frate tutte

l'occulte scelleraggini le aperse.

Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse

"tostamente, e lontano". E per sussidio

de la sua fuga, le scoperse un loco

sotterra, ov'era inestimabil somma

d'oro e d'argento, di molt'anni ascoso.

Quinci Dido commossa, ordine occulto

di fuggir tenne, e d'adunar compagni;

ché molti n'adunò, parte per odio,

parte per téma di sí rio tiranno.

Le navi che trovâr nel lito preste,

caricâr d'oro, e fêr vela in un súbito.

Cosí 'l vento portossene la speme

de l'avaro ladrone. E fu di donna

questo sí degno e memorabil fatto.

  Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai

sorger la gran cittade e l'alta ròcca

de la nuova Cartago, che dal fatto

Birsa nomossi, per l'astuta merce

che, per fondarla, fêr di tanto sito

quanto cerchiar di bue potesse un tergo.

  Ma voi chi siete? onde venite? e dove

drizzate il corso vostro?» A tai richieste

pensando Enea, dal piú profondo petto

trasse la voce sospirosa, e disse:

«O dea, se da principio i nostri affanni

io contar ti volessi, e tu con agio

udissi una da me sí lunga istoria,

non finirei che fine avrebbe il giorno.

Noi siam Troiani (se di Troia antica

il nome ti pervenne unqua a gli orecchi),

e la tempesta che per tanti mari

già cotant'anni ne travolve e gira,

n'ha qui, come tu vedi, al fin gittati.

Io sono Enea, quel pio che da' nemici

scampati ho meco i miei patrii Penati,

fino a le stelle ormai noto per fama.

Italia vo cercando, che per patria

Giove m'assegna, autor del sangue mio.

Con diece e diece ben guarnite navi

uscii di Frigia, il mio destin seguendo

e lo splendor de la materna stella.

Or sette me ne son restate appena,

scommesse, aperte e disarmate tutte.

Ed io mendíco, ignoto e peregrino,

de l'Asia in bando, da l'Europa escluso,

e 'n fin dal mar gittato or ne la Libia

vo per deserti inospiti e selvaggi.

E qual m'è piú del mondo or luogo aperto?»

  Venere intenerissi; e nel suo figlio

tant'amara doglienza non soffrendo,

cosí 'l duol con la voce gl'interruppe:

  «Chïunque sei, tu non sei già, cred'io,

al cielo in ira; poi ch'a sí grand'uopo

ti diè ricovro a sí benigno ospizio.

Segui pur francamente: e quinci in corte

va' di questa magnanima regina;

ch'io già t'annunzio le tue navi, e i tuoi

da miglior vènti in miglior parte addotti

salvi e securi omai, se i miei parenti

non m'ingannâr quando gli augúri appresi.

Mira là sovra a quel tranquillo stagno

dodici allegri cigni, che pur dianzi

confusi e dissipati a cielo aperto

erano in preda al fero augel di Giove,

com'or sottratti dal suo crudo artiglio

rimessi in lunga ed ozïosa riga

si rivolgono a terra, e già la radono.

E sí com'essi con gioiose ruote

trattando l'aria, col cantar, col plauso

mostrato han d'allegria segno e di scampo;

cosí, placato il mare, a piene vele,

e le tue navi e gli tuoi naviganti

o preso han porto, o tosto a prender l'hanno:

vattene or lieto ove 'l sentier ti mena».

  Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro

e le rose del collo e de le chiome,

come l'aura movea, divina luce

e divino spirâr d'ambrosia odore:

e la veste, che dianzi era succinta,

con tanta maestà le si distese

infino a' piè, ch'a l'andar anco, e dea

veracemente e Venere mostrossi.

  Poscia che la conobbe, e la sua fuga

o fermare, o seguir piú non poteo,

con un rammarco tal dietro le tenne:

  «Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,

a che tuo figlio con mentite larve

tante volte deludi? A che m'è tolto

di congiunger la mia con la tua destra?

Quando fia mai ch'io possa a viso aperto

vederti, udirti, ragionarti, e vera

riconoscerti madre?» Egli in tal guisa

si querelava; e verso la cittade

se ne giano invisibili ambidue:

ché la dea, sospettando non tra via

fossero distornati o trattenuti,

di folta nebbia intorno gli coverse.

Ella in alto levossi, e Cipri e Pafo

lieta rivide, ov'entro al suo gran tempio

da cento altari ha cento volte il giorno

d'incensi e di ghirlande odori e fumi.

Ed essi intanto in vèr le mura a vista

giunser de la città, ch'al colle incontro

fe' lor superba e specïosa mostra.

  Maravigliasi Enea che sí gran macchina

già sorga, ove pur dianzi non vedevasi

fors'altro che foreste, o che tuguri.

Mira il travaglio, mira la frequenzia

e le porte e le vie piene di strepito.

Vede con quanto ardor le turbe tirie

altri a le mura, altri a la ròcca intendono

e i gravi legni e i gran sassi che volgono

questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;

e quei, che del senato e de gli offici

piantan le curie e i fòri e le basiliche.

Scorge là presso al mar che 'l porto cavano,

qua, sotto al colle, che un teatro fondano,

per le cui scene i gran marmi che tagliano,

e le colonne, che tant'alto s'ergono,

le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.

  Con tal sogliono industria a primavera

le sollecite pecchie al sole esposte

per fiorite campagne esercitarsi,

quando le nuove lor cresciute genti

mandano in campo a côr manna e rugiada,

di celeste liquor le celle empiendo;

o quando incontro a scaricare i pesi

van de l'altre compagne; o quando a stuolo

scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre,

che, solo intente a logorar l'altrui,

de le conserve lor si fan presepi,

allor che l'opra ferve, allor che 'l mèle

sparge di timo d'ogn'intorno odore.

  «O fortunati voi, di cui già sorge

il desïato seggio!», Enea dicendo,

a parte a parte lo contempla e loda.

Arriva intanto a la muraglia, e chiuso

ne la sua nube, maraviglia a dirlo!

tra gente e gente va, che non è visto.

Era nel mezzo a la cittade un bosco

di sacro rezzo e grato, ove sospinti

da la tempesta capitaro i Peni

primieramente; e nel fondar trovaro

quel che pria da Giunon fu lor predetto

di barbaro destrier teschio fatale,

la cui sembianza imagine e presagio

fu poi che quella gente e quella terra

saria per molte età ferace e fera.

Qui fabbricava la sidonia Dido

un gran tempio a Giunone, il cui gran nume

e i doni e la materia e l'artificio

lo facean prezïoso e venerando.

Mura di marmo avea; colonne e fregi

di mischi, e gradi e travi e soglie e porte

di risonante e solido metallo.

Qui si ristette Enea: qui vide cosa

che téma gli scemò, speme gli accrebbe,

e di pace affidollo e di salute;

ché mentre, in aspettando la regina

ch'ivi s'attende, la città vagheggia,

mentre nel tempio l'apparato e l'opre

e 'l valor degli artefici contempla,

a gli occhi una parete gli s'offerse,

in cui tutta per ordine dipinta

era di Troia la famosa guerra.

E, conosciuti a le fattezze conte

prima il troiano re, poscia l'argivo

e 'l fero d'ambidue nimico Achille,

fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,

mira fin dove è la notizia aggiunta

de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo

loco che pien non sia de' nostri affanni?

Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia

ancor virtú; ché ferità non regna

là 've umana miseria si compiagne.

Or ti conforta, ché tal fama ancora

di pro ti fia cagione e di salvezza».

  Cosí dicendo, e la già nota istoria

mirando, or con sospiri, ed or con lutto

va di vana pittura il cor pascendo.

E come quei ch'a Troia il tutto vide,

i siti rammentandosi e le zuffe,

col sembiante riscontra il vivo e 'l vero.

Quinci vede fuggir le greche schiere,

quindi le frigie: a quelle Ettorre infesto,

a queste Achille, a cui parea d'intorno

che solo il suon del carro e solo il moto

del cimiero avventasse orrore e morte.

  Né senza lagrimar Reso conobbe

ai destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,

fatti di sangue in mille parti rossi:

che sotto v'era Dïomede, anch'egli

insanguinato; e si facea d'intorno

alta strage di gente che nel sonno,

prima che da lui morta, era sepolta.

Vedea quindi i cavalli al campo addotti,

che non potêr (fato a' Troiani avverso!)

di Troia erba gustare, o ber del Xanto.

  Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto

Troïlo, già senz'armi e senza vita:

giovinetto infelice, che di tanto

diseguale ad Achille, ebbe ardimento

di stargli a fronte. Egli in su 'l vòto carro

giacea rovescio, e strascinato e lacero

da' suoi cavalli, avea la destra ancora

a le redini involta, e 'l collo e i crini

traea per terra; e l'asta, onde trafitto

portava il petto, con la punta in giuso

scrivea note di sangue in su la polve.

  Ecco intanto venir di Palla al tempio

in lunga schiera ed ordinata pompa

le donne d'Ilio a far del peplo offerta.

Battonsi i petti, e scapigliate e scalze

paion pregar divotamente afflitte

perdóno e pace; ed ella irata e fera,

vòlte le luci a terra e 'l tergo a loro,

mostra fastidio di mirarle e sdegno.

Vede il misero Ettòr che già tre volte

tratto era d'Ilio a la muraglia intorno.

Vede il padre piú misero, ch'in forza

del dispietato e suo nimico Achille,

oro in premio gli dà del suo cadavero;

spettacolo crudel che gli trafigge

profondamente e piú d'ogn'altro il core,

ove il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso

vede d'un tanto amico, ed un re tale,

che solo e disarmato e supplichevole

stassi a l'ucciditor del figlio avanti.

  Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era

a dura mischia incontro a' greci eroi.

Riconobbe lo stuol che d'Orïente

addusse de l'Aurora il negro figlio:

e lui raffigurò, che di Vulcano

avea lo sbergo e l'armatura in dosso.

  Scorge d'altronde di lunati scudi

guidar Pentesilèa l'armate schiere

de l'Amazzoni sue: guerriera ardita,

che succinta, e ristretta in fregio d'oro

l'adusta mamma, ardente e furïosa

tra mille e mille, ancor che donna e vergine,

di qual sia cavalier non teme intoppo.

  Stava da tante meraviglie ad una

sola vista ristretto, attento e fiso

Enea pien di vaghezza e di stupore:

quand'ecco la regina accompagnata

da real corte, con real contegno

entro al tempio bellissima comparve.

Qual su le ripe de l'Eurota suole,

o ne' gioghi di Cinto, allor Dïana

ch'a l'Orèadi sue la caccia indíce,

a mille che le fan cerchio d'intorno,

divisar vari offici, e faretrata

da la faretra in su gir sovra l'altre

neglettamente altera, onde a Latona

s'intenerisce per dolcezza il core;

tale era Dido, e tal per mezzo a' suoi

se ne gia lieta, e dava ordine e forma

al nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.

Giunta al cospetto de la diva, in mezzo

de la maggior tribuna, in alto assisa,

cinta d'armati, in maestà si pose:

e mentre con dolcezza editti e leggi

porge a la gente, e con egual compenso

l'opre distribuisce e le fatiche;

rivolgendosi Enea, nel tempio stesso

vede da gran concorso attorneggiati

entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri

Troiani, che da sé disgiunti e sparsi

avea dianzi del mar l'aspra tempesta.

Stupor, timor, letizia, tenerezza

e disio d'abbracciarli e di mostrarsi

assaliro in un tempo Acate e lui.

Ma, dubii del successo, entro la nube

dissimulando se ne stêro, e cheti,

per ritrar che seguisse e che seguito

fosse già de le navi e de' compagni,

di cui questi eran primi e li piú scelti

di ciascun legno. E già pieno era il tempio

di tumulto e di vóti ch'altamente

si sentian vènia risonare e pace.

  Poiché furo entromessi, e ch'udïenza

fur lor concessa, il saggio Ilïoneo

prese umilmente in cotal guisa a dire:

  «Sacra regina, a cui dal cielo è dato

fondar nuova cittade, e con giustizia

por freno a gente indomita e superba,

noi miseri Troiani, a tutti i vènti,

a tutti i mari omai ludibrio e scherno,

caduti dopo l'onde in preda al foco

che da' tuoi si minaccia ai nostri legni,

preghiamti a proveder che nel tuo regno

non si commetta un sí nefando eccesso.

Fa cosa di te degna, abbi di noi

pietà, che pii, che giusti, ch'innocenti

siamo, non predatori, non corsari

de le vostre marine o de l'altrui:

tanto i vinti d'ardire, e gl'infelici

d'orgoglio e di superbia, ohimè! non hanno.

  Una parte d'Europa è, che da' Greci

si disse Esperia, antica, bellicosa

e fertil terra, dagli Enotrei cólta.

Prima Enotria nomossi, or, come è fama,

preso d'Italo il nome, Italia è detta.

Qui 'l nostro corso era diritto, quando

Orïon tempestoso i vènti e 'l mare

sí repente commosse, e mar sí fero,

vènti sí pertinaci, e nembi e turbi

cosí rabbiosi, che sommersi in parte

e dispersi n'ha tutti: altri a le secche,

altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:

e noi pochi, di tanti, ha qui condotti.

Ma qual sí cruda gente, qual sí fera

e barbara città quest'uso approva,

che ne sia proibita anco l'arena?

Che guerra ne si muova, e ne si vieti

di star ne l'orlo de la terra a pena?

Ah! se de l'armi e de le genti umane

nulla vi cale, a dio mirate almeno,

che dal ciel vede e riconosce i meriti

e i demeriti altrui. Capo e re nostro

era pur dianzi Enea, di cui piú giusto,

piú pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace

guerrier non fu già mai. Se questi è vivo,

se spira, se il destin non ce l'invidia,

quanto ne speriam noi, tanto potresti

tu non pentirti a provocarlo in prima

a cortesia. Ne la Sicilia ancora

avem terre, avem armi, avemo Aceste

che n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.

Quel che vi domandiamo è spiaggia, è selva,

è vitto da munir, da risarcire

i vòti e stanchi e sconquassati legni,

per poter lieti (ritrovando il duce

e gli altri nostri, o se pur mai n'è dato

veder l'Italia) ne l'Italia addurne;

ma se nostra salute in tutto è spenta,

se te, nostro signor, nostro buon padre,

di Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna

non ci riman del giovinetto Iulo,

almen tornar ne la Sicania, ond'ora

siam qui venuti e dove il buon Aceste

n'è parato mai sempre ospite e rege».

  Al dir d'Ilïoneo fremendo tutti

assentirono i Teucri, e la regina

con gli occhi bassi e con benigna voce

brevemente rispose: «O miei Troiani,

toglietevi dal cuore ogni timore,

ogni sospetto. Gli accidenti atroci,

la novità di questo regno a forza

mi fan sí rigorosa, e sí guardinga

de' miei confini. E chi di Troia il nome,

chi de' Troiani i valorosi gesti,

e l'incendio non sa di tanta guerra?

Non han però sí rozzo core i Peni:

non sí lunge da lor si gira il sole,

che né pietà né fama unqua v'arrive.

Voi di qui sempre, o de la grand'Esperia

e di Saturno che cerchiate i campi,

o che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice

tornare ai liti, in ogni caso liberi

ve n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta

scarsa non vi sarò, né di sussidio:

e se qui dimorar meco voleste,

questa è vostra città. Tirate al lito

vostri navili: ché da' Teucri a' Tiri

nulla scelta farò, nullo divario.

Cosí qui fosse il vostro re con voi!

cosí ci capitasse! Ma cercando

io manderò di lui fino a l'estremo

de' miei confini la riviera tutta,

se per sorte gittato in queste spiagge

per selve errando o per cittadi andasse».

  Rincorossi a tal dire il padre Enea

e 'l forte Acate; e di squarciare il velo

stavan già disïosi. Acate il primo

mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?

Tutto è sicuro, e tutti a salvamento

i nostri legni e i nostri amici avemo.

Sol un ne manca; e questo a noi davanti

il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto

di tua madre risponde». A pena Acate

ciò disse, che la nugola s'aperse,

assottigliossi e col ciel puro unissi.

Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli

di chiarezza e d'aspetto e di statura,

che come un dio mostrossi: e ben a dea

era figliuol, che di bellezza è madre.

Ei degli occhi spirava e de le chiome

quei chiari, lieti e giovenili onori

ch'ella stessa di lui madre gl'infuse.

Tale aggiunge l'artefice vaghezza

a l'avorio, a l'argento, al pario marmo,

se di fin oro li circonda e fregia.

Cotal, comparso d'improvviso a tutti,

si fece avanti a la regina, e disse:

  «Quegli che voi cercate, Enea troiano,

son qui, dal mar ritolto. A te ricorro,

vera regina, a te sola pietosa

de le nostre ineffabili fatiche.

Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde

d'ogni strazio bersaglio, d'ogni cosa

bisognosi e mendíci, nel tuo regno

e nel tuo albergo umanamente accogli.

A renderti di ciò merito eguale

bastante non son io, né fôran quanti

de la gente di Dardano discesi

vanno per l'universo oggi dispersi.

Ma gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura,

se nel mondo è giustizia, se si truova

chi d'altamente adoperar s'appaghe)

te ne dian guiderdone. Età felice!

Avventurosi genitori e grandi

che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi

si rivolgono al mare, infin ch'a' monti

si giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,

i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi

mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».

  Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto,

al caro Ilïonèo la destra porse,

la sinistra a Sergesto, e poscia al forte

Cloanto, al forte Gía: l'un dopo l'altro

tutti gli salutò. Stupí Didone

nel primo aspetto d'un sí nuovo caso,

e d'un uom tale; indi riprese a dire:

  «Qual forza o qual destino a tanti rischi

t'hanno in sí strani, in sí feri paesi

esposto, o de la dea famoso figlio?

E sei tu quell'Enea che in su la riva

di Simoenta il gran dardanio Anchise

di Venere produsse? Io mi ricordo

quel che n'intesi già da Teucro, quando,

fuor di sua patria, il suo padre fuggendo,

nuovi regni cercava. Egli a Sidone

venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.

Belo mio padre allor facea l'impresa

e 'l conquisto di Cipro. Infin d'allora

io del caso di Troia e del tuo nome

e de l'oste de' Greci ebbi notizia.

Ed ei ch'era sí rio nimico vostro,

celebrava il valor di voi Troiani,

e trar volea da Troia il suo legnaggio.

Voi da me dunque amico e fido ospizio,

giovini, arete. E me fortuna ancora,

a la vostra simíle, ha similmente

per molti affanni a questi luoghi addotta:

sí che natura e sofferenza e pruova

de' miei stessi travagli ancor me fanno

pietosa e sovvenevole a gli altrui».

  Ciò detto, Enea cortesemente adduce

ne la sua reggia. In ogni tempio indíce

feste e preci solenni. Ordina appresso

che si mandino al mar venti gran tori,

cento gran porci, cento grassi agnelli,

con cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni

per vitto e per letizia è di mestiero.

Dentro al real palagio, realmente,

de' piú gentili e sontuosi arnesi

il convito e le stanze orna e prepara;

cuopre d'ostro le mura; empie le mense

d'argento e d'oro, ove per lunga serie

son de' padri e degli avi i fatti egregi.

  Enea, cui la paterna tenerezza

quetar non lascia, a le sue navi innanzi

ratto spedisce Acate, che di tutto

Ascanio avvisi, ed a sé tosto il meni;

ché in Ascanio mai sempre intento e fiso

sta del suo caro padre ogni pensiero.

Gli comanda, oltre a ciò, ch'a la regina

porti alcune a donar spoglie superbe

che si salvâr da la ruina appena

e dal foco di Troia: un ricco manto

ricamato a figure, e di fin'oro

tutto contesto: un prezïoso velo,

cui di pallido acanto un ampio fregio

trapunto era d'intorno: ambi ornamenti

d'Elena argiva, e di sua madre Leda

mirabil dono. In questo avea le bionde

sue chiome avvolte il dí che di Micene

a nuove nozze, e non concesse, uscio;

e porti anco lo scettro, onde superba

Ilïone di Prïamo sen giva

primogenita figlia, e 'l suo monile

di gran lucide perle; e quella stessa,

onde 'l fronte cingea, doppia corona,

di gemme orïentali ornata e d'oro.

Tutto ciò procurando il fido Acate

in vèr le navi accelerava il piede.

  Venere in tanto con nuov'arte e nuovi

consigli s'argomenta a far che in vece

e 'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído

se ne vada in Cartago; e con quei doni,

con le dolcezze sue, con la sua face

alletti, incenda, amor desti e furore

nel petto a la regina, onde sospetto

piú non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia

de la sua gente, o di Giunon l'insidie,

che da pensare e da vegghiar le danno

tutte le notti. E fatto a sé venire

l'alato dio, cosi seco ragiona:

  «Figlio, mia forza e mia maggior possanza:

figlio, che del gran padre anco non temi

l'orribil tèlo, onde percosso giacque

chi ne diè fin nel ciel briga e spavento,

a te ricorro e dal tuo nume aíta

chieggio a l'altro mio figlio Enea tuo frate.

Come Giuno il persegua, e come l'aggia

per tutti i mari omai spinto e travolto,

tu 'l sai che del mio duol ti sei doluto

piú volte meco. Or la sidonia Dido

l'ave in sua forza, e con benigni e dolci

modi fin qui l'accoglie e lo trattiene.

Ma là dov'è, lassa! che val, comunque

sia caramente accolto? in casa a Giuno

da le carezze ancor chi m'assicura?

Ch'ella piú neghittosa o meno atroce,

in un caso non fia di tanto affare.

E però con astuzia e con inganno

cerco di prevenirla, e del tuo foco

ardere il cuor de la regina in guisa,

ch'altro nume nol mute, e meco l'ami

d'immenso affetto. Or come agevolmente

ciò porre in atto e conseguir si possa,

ascolta. Enea manda testé chiamando

il suo regio fanciullo, amor supremo

del caro padre, e mio sommo diletto,

perché de' Tiri a la città sen vada

con doni a la regina, che di Troia

a l'incendio avanzarono ed al mare.

Questo vinto dal sonno, o sopra l'alta

Citèra, o dentro al sacro bosco Idalio

terrò celato sí ch'ei non s'accorga,

ed accorto di ciò non faccia altrui

con alcun suo rintoppo. E tu che puoi,

fanciullo, il noto fanciullesco aspetto

mentire acconciamente, in lui ti cangia

sola una notte, e gli suoi gesti imita.

E quando Dido al suo real convito

riceveratti, e, come a mensa fassi,

sarà, bevendo e ragionando, allegra;

quando, come farà, cortese in grembo

terratti, abbracceratti, e dolci baci

porgeratti sovente, a poco a poco

il tuo foco le spira e 'l tuo veleno».

  Al voler della sua diletta madre

pronto mostrossi e baldanzoso Amore,

e gittò l'ali; ed in un tempo l'abito

e 'l sembiante e l'andar prese di Iulo.

Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio

tale un profondo e dolce sonno infuse,

e 'n guisa l'adattò, che agiatamente

in grembo lo si tolse; e ne la cima

de la selvosa Idalia, entro un cespuglio

di lieti fiori e d'odorata persa,

a la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.

Cupído co' suoi doni allegramente,

per far quanto gli avea la madre imposto,

con la guida si pon d'Acate in via.

Giunse che giunta era Didone appunto

ne la gran sala, che di fini arazzi,

di fior, di frondi e di festoni intorno

era tutta vestita, ornata e sparsa.

E già sopra la sua dorata sponda

con real maestà s'era nel mezzo

a tutti gli altri alteramente assisa.

Appresso Enea, poscia di mano in mano

sopra drappi di porpora e di seta

si stendea la troiana gioventute.

Già con l'acqua e con Cerere a le mense

gli aurati vasi e i nitidi canestri

e i bianchissimi lini eran comparsi.

Stavano dentro, a le vivande intorno,

intorno a' fuochi, a dar ordine a' cibi,

cinquanta ancelle, ed altre cento fuori

con altrettanti di una stessa etade

tra scudieri e pincerni; e gli atrii tutti

si rïempiêr di Tiri, a cui le mense

di tappeti dipinti eran distese.

  A l'apparir del giovinetto Iulo

corser tutti a mirare il manto e 'l velo

e gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,

a sentir quelle sue finte parole,

a contemplar quel grazïoso aspetto,

ch'ardore e deità raggiava intorno.

Ma sopra tutti l'infelice Dido

non potea né la vista, né 'l pensiero

saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;

e com' piú gli rimira, e piú s'accende.

  Poiché lunga fïata umile e dolce

del non suo genitor pendé dal collo,

e finse di figliuol verace affetto,

si volse a la regina. Ella con gli occhi,

col pensier tutto lo contempla e mira:

lo palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.

Misera! che non sa quanto gran dio

s'annidi in seno. Ei de la madre intanto

rimembrando il precetto, a poco a poco

de la mente Sichèo comincia a trarle,

con vivo amore e con visibil fiamma

rompendole del core il duro smalto,

e 'ntroducendo il suo già spento affetto.

  Cessati i primi cibi, e da' ministri

già le mense rimosse, ecco di nuovo

comparir nuove tazze e vino e fiori,

per lietamente incoronarsi e bere.

  Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo

che d'allegrezza empian le sale e gli atrii.

E i torchi e le lumiere che pendevano

da i palchi d'oro, poiché notte fecesi,

vinceano 'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.

Qui fattosi Didone un vaso porgere

d'oro grave e di gemme, ov'era solito

ne' conviti e ne' dí solenni e celebri

ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono,

di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,

orò, cosí dicendo: «Eterno Giove,

che, Albergator nomato, hai de gli alberghi

e de le cortesie cura e diletto,

priegoti ch'a' Fenici ed a' Troiani

fausto sia questo giorno, e memorando

sempre a' posteri loro. E te, Lièo,

largitor di letizia, e te, celeste

e bionda Giuno, a questa prece invoco.

Voi co' vostri favori, e Tiri e Peni,

prestate a' prieghi miei divoto assenso».

  Ciò detto, riversollo, e lievemente

del sacrato liquor la mensa asperse,

poscia ella in prima con le prime labbia

tanto sol ne sorbí quanto n'attinse.

Indi con dolce oltraggio e con rampogne

a Bizia il diè, che valorosamente

a piena bocca infino a l'aureo fondo

vi si tuffò col volto, e vi s'immerse.

Ciò seguîr gli altri eroi. Comparve intanto

co' capei lunghi e con la cetra d'oro

il biondo Iopa: e, qual Febo novello,

cantò del ciel le meraviglie e i moti

che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.

Cantò le vie che drittamente torte

rendon vaga la luna e buio il sole;

come prima si fêr gli uomini e i bruti;

com'or si fan le piogge e i venti e i folgori:

cantò l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,

e perché tanto a l'Oceàno il verno

vadan veloci i dí, tarde le notti.

  Un novo plauso incominciaro i Tiri:

seguiro i Teucri: e l'infelice Dido,

che già fea dolce con Enea dimora,

quanto bevesse amor non s'accorgendo,

a lungo ragionar seco si pose

or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi

venisse a Troia de l'Aurora il figlio,

or qual fosse Diomede, or quanto Achille.

«Anzi, se non t'è grave, - al fin gli disse -

incomincia a contar fin da principio

e l'insidie de' Greci e la ruina

e l'incendio di Troia, e 'l corso intero

de gli errori vostri: già che 'l settim'anno

e per terra e per mar raminghi andate».

 

 

LIBRO SECONDO

 

 

  Stavan taciti, attenti e disïosi

d'udir già tutti, quando il padre Enea

in sé raccolto, a cosí dir da l'alta

sua sponda incominciò: «Dogliosa istoria

e d'amara e d'orribil rimembranza,

regina eccelsa, a raccontar m'inviti:

come la già possente e glorïosa

mia patria, or di pietà degna e di pianto,

fosse per man de' Greci arsa e distrutta.

E qual ne vid'io far ruina e scempio:

ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui

del suo caso infelice. E chi sarebbe,

ancor che Greco e Mirmidóne e Dòlopo,

che a ragionar di ciò non lagrimasse?

E già la notte inchina, e già le stelle

sonno, dal ciel caggendo,

a gli occhi infondono:

ma se tanto d'udire i nostri guai,

se brevemente di saver t'aggrada

l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadeo,

benché lutto e dolor mi rinnovelle,

e sol de la memoria mi sgomente,

io lo pur conterò. Sbattuti e stanchi

di guerreggiar tant'anni, e risospinti

ancor da' fati, i greci condottieri

a l'insidie si diêro; e da Minerva

divinamente instrutti, un gran cavallo

di ben contesti e ben confitti abeti

in sembianza d'un monte edificaro.

Poscia, finto che ciò fosse per vóto

del lor ritorno, di tornar sembiante

fecero tal, che se ne sparse il grido.

Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte,

che molte erano e grandi, in sí gran mole,

rinchiuser di nascosto arme e guerrieri

a ciò per sorte e per valore eletti.

  Giace di Troia un'isola in cospetto

(Tènedo è detta) assai famosa e ricca,

mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto

è sol di naviganti e di navili,

infido seno, e mal sicura spiaggia.

Qui, poiché di Sigèo sciolse e spario,

la greca armata si rattenne, e dietro

appiattossi al suo lito ermo e deserto:

e noi credemmo che veracemente

fosse partita, e che a spiegate vele

gisse a Micene. Onde la Teucria tutta,

già cotant'anni lagrimosa e mesta,

volta ne fu subitamente in gioia.

S'aprîr le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno

le genti tutte, disïose e liete

di veder vòti i campi e sgombri i liti,

ch'eran coverti pria di navi e d'armi.

"Qui s'accampava Achille, e qui de' Dòlopi

eran le tende, ivi solean le zuffe

farsi de' cavalieri e là de' fanti"

dicean parte vagando; e parte accolti

facean mirando al gran destriero intorno

meraviglie e discorsi: e chi per sacro,

e chi per esecrando il vóto e 'l dono

avean di Palla. Il primo fu Timete

a dir ch'entro le mura, e ne la ròcca

quindi si conducesse, o froda, o fato

che ciò fosse de' miseri Troiani.

Ma Capi e gli altri, il cui piú sano avviso

o per insidïose, o per sospette,

quantunque sacre, avea le greche offerte,

voleano o che del mar fosse nel fondo

precipitato, o che di fiamme ardenti

si circondasse, o che forato e lacero

gli fosse il petto e sviscerato il fianco.

  Stava tra questi due contrari in forse

in due parti diviso il volgo incerto;

quando con gran caterva e con gran furia

da la ròcca discese, e di lontano

gridò Laocoonte: "O ciechi, o folli,

o sfortunati! agli nemici, a' Greci

date credenza? a lor credete voi

che sian partiti? e sarà mai che doni

siano i lor doni, e non piú tosto inganni?

Cosí v'è noto Ulisse? O in questo legno

sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina

contra alle nostre mura, o spia per entro

ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte

per di sopra assalirne. E che che sia,

certo o vi cova o vi si ordisce inganno,

ché de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".

  Ciò detto, con gran forza una grand'asta

avventogli, e colpillo, ove tremante

stette altamente infra due coste infissa:

e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero,

fieramente da spron punto cotale,

si storcé, si crollò, tonogli il ventre,

e rintonâr le sue cave caverne.

E se 'l fato non era a Troia avverso,

se le menti eran sane, avea quel colpo

già commossi infiniti a lacerarlo,

e del tutto a scovrir l'agguato argolico:

ond'oggi e tu, grand'Ilio, e tu, diletta

Troia, staresti. Ma si vide intanto

de' pastor paesani una masnada

venir gridando al re, ch'ivi era giunto,

e trargli avanti un giovine prigione

ch'avea dietro le mani al tergo avvinte.

Questi era greco; e da' suoi Greci avea

di salvare il destrier, d'aprir lor Troia

assunto impresa; e per condurla, a tempo

ascosto, a tempo a quei pastori offerto

s'era per se medesmo, in sé disposto

e fermo di due cose una a finire,

o quest'opra, o la vita. A ciò concorso,

per desio di vedere, il popol tutto

dal caval si distolse, e diessi a gara

a schernire il prigione. Or ascoltate

le malizie de' Greci; e da quest'uno

conosceteli tutti. Egli nel mezzo

cosí com'era a le nemiche schiere,

turbato, inerme e di catene avvinto,

fermossi: e poi che rimirolle intorno,

con voce di pietà proruppe, e disse:

  "Or quale o terra, o mare, o loco altrove

sarà, misero me! che mi raccolga,

o che m'affidi omai? poiché tra' Greci

non ho dov'io ricovri, e da' Troiani

non deggio altro aspettar che strazio e morte?"

Ne commosse a pietà, n'acquetò l'ira

sí doglioso rammarco: e con dolcezza

e con promesse il confortammo a dire

chi, di che loco e di che sangue fosse,

e che portasse, e qual fidanza avesse

a darnesi prigione. Egli, in tal guisa

assecurato, al re si volse e disse:

"Signor, segua che vuole, in tuo cospetto

io dirò tutto; e dirò vero. E prima

d'esser greco io non niego; ché fortuna

può ben far che Sinon sia gramo e misero,

ma non già mai che sia bugiardo e vano.

  Non so se, ragionandosi, a gli orecchi

ti venne mai di Palamède il nome,

che nomato e pregiato e glorïoso,

e da Belo altamente era disceso;

se ben con falso e scelerato indizio

di tradigion, per detestar la guerra,

ei fu da' Greci indegnamente occiso:

com'or, che ne son privi, i Greci stessi

lo piangon tutti! A questo Palamede,

a cui per parentela era congiunto,

il pover padre mio ne' miei prim'anni

pria per valletto nel mestier de l'armi

poi per compagno a questa guerra diemmi.

Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,

fioriro anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome

e 'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.

Estinto lui (che per invidia avvenne,

com'ognun sa, del traditore Ulisse),

amaramente il piansi. E 'l caso indegno

d'un tanto amico, e la mia vita oscura

tra me sdegnando, come soro e folle

ch'io fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte

mel consentisse, o se mai fossi in Argo

vincitor ritornato, alta vendetta

ne gli promisi, e con minacce e motti

acerbi acerbamente il provocai.

  Questo fu del mio mal prima radice;

e quinci de' suoi falli e del mio duolo

consapevole Ulisse, a spaventarmi,

a travagliarmi, a seminar susurri

si diè nel volgo, e procurarmi inciampi

ond'io cadessi. E non cessò, ch'ordimmi

per mezzo di Calcante... Ma dov'entro,

lasso! senza profitto a fastidirvi

con noiose novelle? A voi sol basta

di saver ch'io son greco, già che i Greci

tutti egualmente per nimici avete.

Or datemi, signor, supplizio e morte

qual a voi piace, ché piacere e gioia

n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo".

E qui si tacque. Allor brama ne venne,

non che disio, di piú sapere avanti;

non ben sapendo ancor, miseri noi!

quanta scelleratezza e quanta astuzia

fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto,

mostrossi in prima paventoso, e poscia

di nuovo assicurossi, e finse, e disse:

  "Hanno molte fïate i Greci, afflitti

già da la guerra, e dal disagio astretti,

disïato e tentato anco piú volte

di qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.

Cosí fatto l'avessero! Ma sempre

or il verno, or i vènti, or le procelle

gli han distornati. E pur dianzi che l'opra

del caval che vedete era fornita,

di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,

di tempeste, di turbini e di nembi

risonò 'l cielo, e conturbossi il mare.

Onde, sospesi, Eurípilo mandammo

a spïar sopra a ciò quel che da Febo

ne s'avvertisse. Riportonne un empio

e spaventoso oracolo; e fu questo:

- Col sangue e con la morte d'una vergine

placaste i vènti per condurvi in Ilio;

col sangue e con la morte ora d'un giovine

convien placarli per ridurvi in Grecia. -

A cosí fiera voce sbigottissi,

impallidissi, e tremò 'l volgo tutto,

ciascun per sé temendo; e nessun certo

qual di loro accennasse Apollo e 'l fato.

  Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo

con gran tumulto appresentar Calcante:

e del volere in ciò de' santi numi

interrogollo. Ed ei rispose in guisa

che la sua fellonia, benché da tutti

fusse prevista, fu però da molti

simulata e taciuta, e da molti anco

a me predetta: pur ei tacque ancora

per dieci giomi; e scaltramente al niego

si mise di voler che per suo detto

fosse alcun destinato o spinto a morte.

Ma poi, come da gridi astretto e vinto,

di conserto con lui ruppe il silenzio,

sí ch'io fui dichiarato al fin per vittima;

consentîr tutti, perché tutti ancora

finian con la mia morte il lor periglio.

  Era già da vicino il giorno orribile,

in che doveano al sacrificio offrirmi:

e già 'l farro e già 'l sale e già le bende

erano a le mie tempie intorno avvolte,

quando, rotto (io nol niego) ogni ritegno,

da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti

desser le vele (ch'eran presti a darle)

di buia notte in un pantan m'ascosi,

ove nel fango infra le scarde e i giunchi

stava qual mi vedete. Ora son qui

privo d'ogni conforto e d'ogni speme

di mai piú riveder la patria antica,

i dolci figli e 'l desïato padre,

che saran, lasso me! per la mia fuga,

benché innocenti, ancor forse in mia vece

incarcerati, e tormentati, e morti.

  Or io, signor, per quelli eterni dèi

che scorgon di là su se 'l vero io parlo,

per quella pura e 'ntemerata fede

(se tra' mortali in alcun loco è tale)

ond'io già tutto a rivelar ti vegno,

priegoti che pietà di me ti prenda,

e de' miei tanti e sí gravosi affanni

ch'indegnamente io soffro". A cotal pianto

commossi, e da noi fatti anco pietosi,

vita e vènia gli diamo. E di sua bocca

comanda il re che si disferri e sciolga;

poi dolcemente in tal guisa gli parla:

"Qual tu ti sia, de' tuoi perduti Greci

ti dimentica omai; ché per innanzi

sarai de' nostri. Or mi rispondi il vero

di quel ch'io ti domando. A che fine hanno

qui sí grande edificio i Greci eretto?

Per consiglio di cui? Con qual avviso

l'han fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?

Che trama è questa?" Avea 'l re detto a pena,

quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto,

le già disciolte mani al cielo alzando,

disse: "Voi fochi eterni e 'nvïolabili,

voi fasce ond'io portai le tempie avvinte,

voi sacri altari, e voi cultri nefandi,

cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico

per testimoni invoco. A me lece ora

ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto

da l'obbligo de' Greci. E mi lece anco

che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi

quel che da lor si cela, già ch'astretto

piú non son de la patria a legge alcuna.

Tu, se vero io ti dico, e se gran merto

di ciò ti rendo, e te, Troia, conservo,

conserva a me la già promessa fede.

  Nel cominciar di questa guerra i Greci

riposero ogni speme, ogni fidanza

ne l'aiuto di Palla; e ben riposte

fûr sempre, infin che l'empio Dïomede,

e l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,

il sacro tempio suo non vïolaro:

come fêr quando, ne la ròcca ascesi,

n'uccisero i custodi, e n'involaro

il Palladio fatale, osando impuri

por le man sanguinose al sacrosanto

suo simulacro; e macular le intatte

e 'ntemerate sue verginee bende.

Da indi in qua d'ardir sempre e di forze

scemâr, non che di speme; e Palla infesta

ne fu lor sempre; e ne diè chiari segni

e portentosi, allor ch'al campo addotta

fu la sua statua, che, posata a pena,

torvamente mirogli, e lampi e fiamme

vibrò per gli occhi, e per le membra tutte

versò salso sudore. Indi tre volte,

meraviglia a contarlo! alto da terra

surse, e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.

Allor gridando indovinò Calcante

che fuggir si dovesse, e tosto a' vènti

spiegar le vele: ché di Troia in vano

era l'assedio, se con altri augúri

d'Argo non si tornava un'altra volta,

e de la dea non si placava il nume,

ch'or, per ciò fare, han seco in Grecia addotto.

Onde giunti a Micene, incontinente

si daranno a dispor l'armi e le genti

e gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.

Poi, ripassando il mar, con maggior forza

di nuovo assaliranvi e d'improvviso:

cosí Calcante interpreta, e predice.

  Or questa mole, che tant'alto sorge,

qui per consiglio di Calcante è posta

in vece del Palladio, e per ammenda

del nume offeso, a bello studio intesta

di legni cosí gravi e cosí grandi,

ed a sí smisurata altezza eretta,

a fin che per le porte entro a le mura

quinci addur non si possa, ove per segno

e per memoria poi del nume antico

riverita da voi, sacrata e cólta

sia ricovro e tutela al popol vostro.

Ché allor che questo dono a Palla offerto

per vostra man sia vïolato e guasto,

ruina estrema (la qual sopra lui

caggia piú tosto) a voi vuol che ne venga,

ed al gran vostro impero: ed, a rincontro,

quando da voi sia dentro al vostro cerchio

condotto e custodito, allor che l'Asia

congiurerà con le sue forze tutte

a l'esterminio d'Argo, e che tal fato

sopra a' nostri nepoti in cielo è fisso".

  Con tal arte Sinon, con tali insidie

fe' sí che gli credemmo; e quelli stessi

cui non potêr né 'l figlio di Tideo,

né di Larissa il bellicoso alunno,

né diece anni domar, né mille navi,

furon da lagrimette e da menzogne

sforzati e vinti. In questa a gl'infelici

un altro sopravvenne assai maggiore

e piú fiero accidente; onde a ciascuno

d'improvviso spavento il cor turbossi.

  Era Laocoonte a sorte eletto

sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso

gli facea d'un gran toro ostia solenne:

quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado

a raccontarlo) due serpenti immani

venir si veggon parimente al lito,

ondeggiando coi dorsi onde maggiori

de le marine allor tranquille e quete.

Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,

e s'ergean con le teste orribilmente,

cinte di creste sanguinose ed irte.

Il resto con gran giri e con grand'archi

traean divincolando, e con le code

l'acque sferzando sí che lungo tratto

si facean suono e spuma e nebbia intorno.

Giunti a la riva, con fieri occhi accesi

di vivo foco e d'atro sangue aspersi,

vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili.

Noi, di paura sbigottiti e smorti,

chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui

s'affilâr drittamente a Laocoonte,

e pria di due suoi pargoletti figli

le tenerelle membra ambo avvinchiando,

sen fêro crudo e miserabil pasto.

Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme

giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto

l'avvinser sí che le scagliose terga

con due spire nel petto e due nel collo

gli racchiusero il fiato; e le bocche alte,

entro al suo capo fieramente infisse,

gli addentarono il teschio. Egli, com'era

d'atro sangue, di bava e di veleno

le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi

disgroppar con le man tentava indarno,

e d'orribili strida il ciel feriva;

qual mugghia il toro allor che dagli altari

sorge ferito, se del maglio appieno

non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.

I fieri draghi alfin dai corpi esangui

disviluppati, in vèr la ròcca insieme

strisciando e zufolando, al sommo ascesero:

e nel tempio di Palla, entro al suo scudo

rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo.

Rinnovossi di ciò nel volgo orrore

e tremore e spavento; e mormorossi

che degnamente avea Laocoonte

di sua temerità pagato il fio,

e del furor che contra al sacro legno

gli armò l'impura e scelerata mano:

e gridâr tutti che di Palla al tempio

si conducesse, e con preghiere e vóti

de la dea si facesse il nume amico.

A ciò seguire immantinente accinti,

ruiniamo la porta, apriam le mura,

adattiamo al cavallo ordigni e travi,

e ruote e curri a' piedi, e funi al collo.

Cosí mossa e tirata agevolmente

la macchina fatale il muro ascende,

d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno

di verginelle e di fanciulli un coro,

sacre lodi cantando, con diletto

porgean mano a la fune. Ella, per mezzo

tratta de la città, mentre si scuote,

mentre che ne l'andar cigola e freme,

sembra che la minacci. O patria, o Ilio,

santo de' numi albergo! inclita in arme

dardania terra! Noi la pur vedemmo

con tanti occhi a l'entrar, che quattro volte

fermossi, e quattro volte anco n'udimmo

il suon de l'armi: e pur, da furia spinti,

ciechi e sordi che fummo, i nostri danni

ci procurammo: ché 'l dí stesso addotto

e posto in cima a la sacrata ròcca

fu quel mostro infelice. Allor Cassandra

la bocca aperse, e quale esser solea

verace sempre e non creduta mai,

l'estremo fine indarno ci predisse:

e noi di sacra e di festiva fronde

velammo i templi il dí, miseri noi,

che de' lieti dí nostri ultimo fue.

  Scende da l'Oceàn la notte intanto,

e col suo fosco velo involve e copre

la terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme

l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi,

a i lor riposi addormentati e queti

giacean securamente; e già da Tènedo

a l'usata riviera in ordinanza

vèr noi se ne venia l'argiva armata,

col favor de la notte occulta e cheta;

quando da la sua poppa il regio legno

ne diè cenno col foco. Allor Sinone,

che per nostra ruina era da noi

e dal fato maligno a ciò serbato,

accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre

chetamente gli aperse, e fuor ne trasse

l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima

i primi capi baldanzosi e lieti,

tutti per una fune a terra scesi.

E fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse,

Atamante e Toante e Macaóne

e Pirro e Menelao con lo scaltrito

fabbricator di questo inganno, Epèo.

Assalîr la città che già ne l'ozio

e nel sonno e nel vino era sepolta;

ancisero le guardie; aprîr le porte;

miser le schiere congiurate insieme;

e diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora

che nel primo riposo hanno i mortali

quel ch'è dal cielo a i loro affanni infuso

opportuno e dolcissimo ristoro:

quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi

mi fosse veramente) Ettòr m'apparve

dolente, lagrimoso, e quale il vidi

già strascinato, sanguinoso e lordo

il corpo tutto, e i piè forato e gonfio.

Lasso me! quale e quanto era mutato

da quell'Ettòr che ritornò vestito

de le spoglie d'Achille, e rilucente

del foco ond'arse il gran navile argolico!

Squallida avea la barba, orrido il crine

e rappreso di sangue; il petto lacero

di quante unqua ferite al patrio muro

ebbe d'intorno. E mi parea che 'l primo

foss'io che lagrimando gli dicessi:

"O splendor di Dardania, o de' Troiani

securissima speme, e quale indugio

t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni

tanto da noi bramato? Ahi, dopo quanta

strage de' tuoi, dopo quanti travagli

de la nostra città già stanchi e domi

ti riveggiamo! E qual fero accidente

fa sí deforme il tuo volto sereno?

E che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla

rispose, come a vani miei quesiti:

ma dal profondo petto alti sospiri

traendo: "Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -

togliti a queste fiamme. Ecco che dentro

sono i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio

arde tutto e ruina. Infino ad ora

e per Priamo e per Troia assai s'è fatto.

Se difendere omai piú si potesse,

fôra per questa man difesa ancora:

ma dovendo cader, le sue reliquie

sacre e gli santi suoi numi Penati

a te solo accomanda; e tu li prendi

per compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo,

cerca loro altre terre, ergi altre mura;

ché dopo lungo e travaglioso esilio

l'ergerai piú di Troia altere e grandi".

Detto ciò, da le chiuse arche riposte

trasse, e mi consegnò le sacre bende

e l'effigie di Vesta e 'l foco eterno.

  Spargonsi intanto per diverse parti

de la presa città le grida e 'l pianto

e 'l tumulto de l'armi; e rinforzando

via piú di mano in man, tanto s'avanza

che a l'antica magion del padre Anchise

(come che fosse assai remota, e chiusa

d'alberi intorno) il gran rumore aggiunge.

Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo

subitamente d'un terrazzo in cima,

e porgo per udir gli orecchi attenti.

  Cosí rozzo pastor, se da gran suono

è da lunge percosso, in alto ascende,

e mirando si sta confuso e stupido

o foco che al soffiar d'un torbid'Austro

stridendo arda le biade e le campagne;

o tempestoso e rapido torrente

che dal monte precipiti, e le selve

ne meni e i cólti e le ricolte e i campi.

Allor tardi credemmo; allor le insidie

ne fûr conte de' Greci. E già 'l palagio

era di Deïfòbo arso e distrutto;

già 'l suo vicino Ucalegón ardea,

e l'incendio di Troia in ogni lato

rilucea di Sigèo ne la marina;

e s'udian gridar genti e sonar tube.

Io m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi

non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,

raunati i compagni, avventurarmi,

menar le mani, e ne la ròcca addurmi;

mi fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio

precipitoso; e solo a mente vienmi

che un bel morir tutta la vita onora.

  Eravam mossi; quando ecco tra via

ne si fa Panto d'improvviso avanti,

Panto figlio d'Otrèo, che de la ròcca

era custode, e sacerdote a Febo.

Questi, scampato da' nemici a pena,

inverso il lito attonito fuggendo,

i sacri arredi e i santi simulacri

de gli dèi vinti, e 'l suo picciol nipote

si traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -

a che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,

se la ròcca è già presa?". Ei sospirando

e piangendo rispose: " È giunto, Enea,

l'ultimo giorno e 'l tempo inevitabile

de la nostra ruina. Ilio fu già;

e noi Troiani fummo: or è di Troia

ogni gloria caduta. Il fero Giove

tutto in Argo ha rivolto; e tutti in preda

siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo,

ch'era a Palla devoto, altero in mezzo

stassi de la cittade, e d'ogni lato

arme versa ed armati. Il buon Sinone

gode de la sua frode, e d'ogn'intorno

scorrendo si rimescola, e s'aggira

gran maestro d'incendi e di ruine.

A porte spalancate entran le schiere

senza ritegno ed a migliaia, quante

né d'Argo usciron mai né di Micene.

Gli altri che prima entraro, han già le strade

assedïate: e stan con l'armi infeste,

parate a far di noi strage e macello.

Soli son fino a qui sorti in difesa

i corpi de le guardie: e questi al buio

fanno con lievi e repentini assalti

tale una cieca resistenza a pena".

  Dal parlar di costui, dal nume avverso

spinto, mi caccio tra le fiamme e l'armi,

ove mi chiama il mio cieco furore,

e de le genti il fremito e le strida

che feriscono il cielo. E per compagni

primieramente al lume de la luna

mi si scopron Rifèo, Ifito il vecchio

ed Ipane e Dimante: indi comparve

il giovine Corèbo. Era costui

figlio a Migdóne, insanamente acceso

de l'amor di Cassandra; e, come fosse

già suo consorte, pochi giorni avanti

in soccorso del suocero e de' Frigi

s'era a Troia condotto. Infortunato!

che non avea la sua sposa indovina

ben anco intesa. A questi insieme accolti,

per accendergli piú mi volgo e dico:

  "Giovini forti e valorosi, in vano

omai fia la fortezza e 'l valor vostro;

poiché perduti siamo e che Troia arde,

e gli dèi tutti, a cui tutela e cura

si reggea questo impero, in abbandono

lasciano i nostri templi e i nostri altari.

Ma se voi cosí fermi e cosí certi

siete pur, com'io veggio, a seguitarmi,

ancor che a morte io vada, in mezzo a l'armi

avventiamci, e moriamo. Un sol rimedio

a chi speme non have è disperarsi".

  Cosí l'ardir di quegli animi accesi

furor divenne. Usciam di lupi in guisa

che rapaci, famelici e rabbiosi,

col ventre vòto e con le canne asciutte

sentan de' lupicini urlar per fame

pieno un digiun covile. Andiam per mezzo

de' nemici e de l'armi a morte esposti,

senza riservo, e via dritti fendiamo

la città tutta, a la buia ombra occulti,

che l'altezza facea de gli edifici.

  Or chi può dir la strage e la ruina

di quella notte? E qual è pianto eguale

a tante occisïoni, a tanto eccidio?

Troia ruina, la superba, antica

e glorïosa Troia, che tant'anni

portò scettro e corona. Era, dovunque

s'andava, di cadaveri, di sangue,

d'ogni calamità pieno ogni loco,

le vie, le case, i templi. E non pur soli

caddero i Teucri, ché l'antico ardire

destossi, e surse alcuna volta ancora

negli lor petti. I vincitori e i vinti

giacean confusamente, e d'ogni lato

s'udian pianti e lamenti; e questi e quelli

eran da la paura e da la morte

in mille guise aggiunti. Andrògeo il primo

de' Greci fu ch'avanti ne s'offerse,

condottier di gran gente. Egli, avvisando

parte sollecitar de la sua schiera:

"Affrettatevi, - disse - a che badate?

che 'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa

e depredata han di già Troia, e voi

testé venite?" Avea ciò detto a pena,

che 'l segno e la risposta indarno attesa,

tra nemici si vide; e come attonito

restando, con la voce il piè ritrasse.

Come repente il vïator s'arretra,

se d'improvviso fra le spine un angue

avvien che prema, ed ei premuto e punto

d'ira gonfio e di tosco gli s'avventi;

cosí dal nostro subitano incontro

sovraggiunto in un tempo e spaventato,

Andrògeo per fuggir ratto si volse.

Ma noi che, impauriti e sconcertati,

a la sprovvista gli assalimmo in lochi

a lor non consueti, in breve spazio

li circondammo, e gli uccidemmo alfine:

tanto nel primo assalto amica e presta

ne fu la sorte. E qui fatto Corèbo

d'un tal successo e di coraggio altero:

"Compagni, - disse - poi che la fortuna

con questo sí felice agli altri incontri

ne porge aíta, a nostro scampo usiamla.

Mutiam gli scudi, accomodiamci gli elmi

e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode

che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca?

L'arme ne daranno essi". E, cosí detto,

la celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso

e la sua scimitarra e la sua targa

per lui si prese, armi onorate e conte,

Cosí fece Rifèo, cosí Dimante,

e cosí tutti: ché per sé ciascuno

di nuove spoglie allegramente armossi.

  Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii

non eran nosco; e ne l'oscura notte

con ogni occasïone in ogni loco

ci azzuffammo con essi; e di lor molti

mandammo a l'Orco, e ritirar molt'altri

ne facemmo a le navi: e fûr di quelli

che per viltà nel cavernoso e cieco

ventre si racquattâr del gran cavallo.

Ma che? Contra 'l voler de' regi eterni

indarno osa la gente. Ecco dal tempio

trar veggiam di Minerva, con le chiome

sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti,

la vergine Cassandra. Io dico gli occhi,

perché le regie sue tenere mani

eran da' lacci indegnamente avvinte.

  A sí fero spettacolo Corèbo

infurïato, e di morir disposto,

anzi che di soffrirlo, a quella schiera

scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme

tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi

una strage crudele e miserabile

e da' nostri medesmi, che la cima

tenean del tempio, e dardi e sassi e travi

ne versarono addosso, imaginando

da l'armi, da' cimieri e da l'insegne

di ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,

tratti dal gran rumore e da lo sdegno

de la ritolta vergine, s'uniro

ai nostri danni. Il bellicoso Aiace,

i fieri Atridi, i Dòlopi e gli Argivi,

tutti ne furon sopra in quella guisa

ch'opposti un contra l'altro Affrico e Bora

e Garbino e Volturno accolte in mezzo

han le selve stridenti o 'l mare ondoso,

quando col suo tridente in fin dal fondo

il gran Nereo il conturba. E tornâr anco

incontro a noi quei che da noi pur dianzi

sen gîr rotti e dispersi; e questi in prima

scoprîr le nostre insidie, e fêr palesi

le cangiate armi e gli mentiti scudi,

e 'l parlar che dal greco era diverso.

Cosí ne fu subitamente addosso

un diluvio di gente. E qui per mano

di Penelèo, davanti al sacro altare

de l'armigera Dea cadde Corèbo:

cadde Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume

di bontà, di giustizia e d'equitate

(cosí a Dio piacque); ed Ipane e Dimante

caddero anch'essi; e questi, ohimè! trafitti

per le man pur de' nostri. E tu, pietoso

Panto, cadesti; e la tua gran pietate,

e l'ínfola santissima d'Apollo

in ciò nulla ti valse. O fiamme estreme,

o ceneri de' miei! fatemi fede

voi che nel vostro occaso io rischio alcuno

non rifiutai né d'arme, né di foco,

né di qual fosse incontro, né di quanti

ne facessero i Greci: e se 'l fato era

ch'io dovessi cader, caduto fôra:

tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine

da quel mortale assalto. Ifito e Pelia

ne venner meco: Ifito afflitto e grave

già d'anni; e Pelia indebolito e tardo

d'un colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.

  Quinci divelti, al gran palagio andammo

da le grida chiamati. Ivi era un fremito,

un tumulto, un combatter cosí fiero,

come guerra non fosse in altro loco,

e quivi sol si combattesse, e quivi

ognun morisse, e nessun altro altrove:

tal v'era Marte indomito, e de' Greci

tanto concorso. Avean la porta cinta

di schiere e di testuggini e di travi,

e d'ambi i lati a la parete in alto

appoggiate le scale; onde saliti

e spinti un dopo l'altro, con gli scudi

si ricoprian di sopra, e con le destre

rampicando salian di grado in grado.

  A rincontro i Troiani, altri di sopra

muri e tetti versando e torri intere,

i travi e i palchi d'oro e i fregi tutti

de la reggia e de' regi avean per armi;

fermi a far sí (poich'eran giunti al fine)

ch'ogni cosa con lor finisse insieme;

ed altri unitamente entro a la porta

stavan coi ferri bassi, in folta schiera

a guardia de l'entrata. E qui di novo

a sovvenir la corte, a far difesa

per entro, a dare a' vinti animo e forza

mi posi in core: e 'n cotal guisa il fei.

Era un andito occulto ed una porta

secretamente accomodata a l'uso

de le stanze reali, onde solea

Andromaca infelice al suo buon tempo

gir a' suoceri suoi soletta, e seco

per domestica gioia al suo grand'avo

il pargoletto Astïanatte addurre.

Quinci entromesso, me ne salsi in cima

a l'alto corridore, onde i meschini

facean di sopra a le nemiche schiere

tempesta in vano. Era dal tetto a l'aura

spiccata, e sopra la parete a filo

un'altissima torre, onde il paese

di Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto

si scopria de' nemici. A questa intorno

co' ferri ci mettemmo e co' puntelli;

e da radice ov'era al palco aggiunta,

e da' suoi tavolati e da' suoi travi

recisa in parte la tagliammo in tutto,

e la spingemmo. Alta ruina e suono

fece cadendo; e di piú greche squadre

fu strage e morte e sepoltura insieme.

Gli altri vi salîr sopra; e d'ogni parte

senz'intermissïon d'ogni arme un nembo

volava intanto. In su la prima entrata

stava Pirro orgoglioso; e d'armi cinto

sí luminose, e da' riflessi accese

di tanti incendi, che di foco e d'ira

parean lunge avventar raggi e scintille.

  Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio,

di tana uscito, ove la fredda bruma

lo tenne ascoso, a l'aura si dimostra,

quando, deposto il suo ruvido spoglio,

ringiovenito, alteramente al sole

lubrico si travolve, e con tre lingue

vibra mille suoi lucidi colori.

  Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga

d'Achille, Automedonte, e lo stuol tutto

era de' Sciri: e di già sotto entrati,

fiamme a' tetti avventando, ogni difesa

ne facean vana. E qui co' primi, avanti

Pirro con una in man grave bipenne

le sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno

de la ferrata porta abbatte e frange,

e per disgangherarla ogni arte adopra.

Tanto al fin ne recide che nel mezzo

v'apre un'ampia finestra. Appaion dentro

gli atrii superbi, i lunghi colonnati,

e di Priamo e degli altri antichi regi

i reconditi alberghi. Appaion l'armi

che davanti eran pronte a la difesa.

S'ode piú dentro un gemito, un tumulto,

un compianto di donne, un ululato,

e di confusïone e di miseria

tale un suon che feria l'aura e le stelle.

Le misere matrone spaventate,

chi qua, chi là per le gran sale errando,

battonsi i petti; e con dirotti pianti

dànno infino a le porte amplessi e baci.

Pirro intanto non cessa, e furïoso,

in sembianza del padre, ogni riparo,

ogni intoppo sprezzando, entro si caccia.

  Già l'arïete a fieri colpi e spessi

aperta, fracassata, e d'ambi i lati

da' cardini divelta avea la porta;

quand'egli a forza urtò, ruppe e conquise

i primi armati; e quinci in un momento

di Greci s'allagò la reggia tutta.

Qual è se, rotti gli argini, spumoso

esce e rapido un fiume, allor che gonfio

e torbo e ruinoso i campi inonda,

seco i sassi traendo e i boschi interi,

e gli armenti e le stalle e ciò che avanti

gli s'attraversa; in cotal guisa io stesso

vidi Pirro menar ruina e strage;

e vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;

vidi Ecúba infelice, ed a lei cento

nuore d'intorno; e Prïamo vid'anco

ch'estinguea col suo sangue, ohimè! quei fochi

che da lui stesso eran sacrati e cólti.

  Cinquanta maritali appartamenti

eran ne' suo serraglio: quale, e quanta

speranza de' figlioli e de' nipoti!

Quanti fregi, quant'oro, quante spoglie,

e quant'altre ricchezze! e tutte insieme

periro incontinente: e dove il foco

non era, erano i Greci. Or, per contarvi

qual di Prïamo fosse il fato estremo,

egli, poscia che presa, arsa e disfatta

vide la sua cittade, e i Greci in mezzo

ai suoi piú cari e piú riposti alberghi;

ancor che vèglio e debole e tremante,

l'armi, che di gran tempo avea dismesse,

addur si fece; e d'esse inutilmente

gravò gli omeri e 'l fianco; e come a morte

devoto, ove piú folti e piú feroci

vide i nemici, incontr' a lor si mosse.

  Era nel mezzo del palazzo a l'aura

scoperto un grand'altare, a cui vicino

sorgea di molti e di molt'anni un lauro

che co' rami a l'altar facea tribuna,

e con l'ombra a' Penati opaco velo.

Qui, come d'atra e torbida tempesta

spaventate colombe, a l'ara intorno

avea le care figlie Ecuba accolte;

ove agl'irati dèi pace ed aíta

chiedendo, agli lor santi simulacri

stavano con le braccia indarno appese.

Qui, poiché la dolente apparir vide

il vecchio re giovenilmente armato:

"O, - disse - infelicissimo consorte,

qual dira mente, o qual follia ti spinge

a vestir di quest'armi? Ove t'avventi,

misero? Tal soccorso a tal difesa

non è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso

ti fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto

rimanti qui; ché questo santo altare

salverà tutti; o morren tutti insieme".

  Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo seggio

in maestate il pose. Ecco davanti

a Pirro intanto il giovine Polite,

un de' figli del re, scampo cercando

dal suo furore, e già da lui ferito,

per portici e per logge armi e nemici

attraversando, in vèr l'altar sen fugge:

e Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza

sí che già già con l'asta e con la mano

or lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,

fatto di mano in man di forza esausto

e di sangue e di vita, avanti agli occhi

d'ambi i parenti suoi cadde, e spirò.

  Qui, perché si vedesse a morte esposto,

Prïamo non di sé punto oblïossi,

né la voce frenò, né frenò l'ira:

anzi esclamando: "O scelerato, - disse -

o temerario! Abbiati in odio il cielo,

se nel cielo è pietate; o se i celesti

han di ciò cura, di lassú ti caggia

la vendetta che merta opra sí ria.

Empio, ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto

mio proprio fai governo e scempio tale

d'un tal mio figlio, e di sí fera vista

le mie luci contamini e funesti.

Cotal meco non fu, benché nimico,

Achille, a cui tu menti esser figliolo,

quando, a lui ricorrendo, umanamente

m'accolse, e riverí le mie preghiere;

gradí la fede mia; d'Ettor mio figlio

mi rendé 'l corpo esangue: e me securo

nel mio regno ripose". In questa, acceso,

il debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla

sí che senza colpir languida e stanca

ferí lo scudo, e lo percosse a pena,

che dal sonante acciaro incontinente

risospinta e sbattuta a terra cadde.

A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque

messaggiero a mio padre, e da te stesso,

le mie colpe accusando e i miei difetti,

fa' conto a lui come da lui traligno:

e muori intanto". Ciò dicendo, irato

afferrollo, e, per mezzo il molto sangue

del suo figlio, tremante e barcolloni,

a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo

con la sinistra il prese, e con la destra

strinse il lucido ferro, e fieramente

nel fianco infino agli elsi gliel'immerse.

  Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse

Prïamo, un re sí grande, un sí superbo

dominator di genti e di paesi,

un de l'Asia monarca, a veder Troia

ruinata e combusta; a giacer quasi

nel lito un tronco desolato, un capo

senza il suo busto, e senza nome un corpo.

  Allor pria mi sentii dentro e d'intorno

tale un orror, che stupido rimasi.

E, di Prïamo pensando al caso atroce,

mi si rappresentò l'imago avanti

del padre mio, ch'era a lui d'anni eguale.

Mi sovvenne l'amata mia Creúsa,

il mio picciolo Iulo, e la mia casa

tutta a la vïolenza, a la rapina,

ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro

mi volsi per veder che gente meco

fosse de' miei seguaci; e nullo intorno

piú non mi vidi: ché tra stanchi e morti

e feriti e storpiati, altri dal ferro,

altri da le ruine, altri dal foco,

m'avean già tutti abbandonato. In somma

mi trovai solo. Onde, smarrito errando,

e d'ogn'intorno rimirando, al lume

del grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi

di Tindaro la figlia, che nel tempio

se ne stava di Vesta, in un reposto

e secreto ridotto ascosa e cheta:

Elena, dico, origine e cagione

di tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo

furia comune. Onde comunemente

e de' Greci temendo e de' Troiani

e de l'abbandonato suo marito,

s'era in quel loco, e 'n se stessa ristretta,

confusa, vilipesa ed abborrita

fin dagli stessi altari. Arsi di sdegno,

membrando che per lei Troia cadea;

e 'l suo castigo e la vendetta insieme

de la mia patria rivolgendo: "Adunque -

dicea meco - impunita e trïonfante

ritornerà la scelerata in Argo?

E regina vedrà Sparta e Micene?

Goderà del marito, de' parenti,

de' figli suoi? Farà pompe e grandezze,

e d'Ilio avrà per serve e per ministri

l'altere donne e i gran donzelli intorno?

E qui Priamo sarà di ferro anciso,

e Troia incensa, e la dardania terra

di tanto sangue tante volte aspersa?

Non fia cosí; che se ben pregio e lode

non s'acquista a punire o vincer donna,

io lodato e pregiato assai terrommi,

se si dirà ch'aggia d'un mostro tale

purgato il mondo. Appagherommi almeno

di sfogar l'ira mia: vendicherommi

de la mia patria; e col fiato e col sangue

di lei placherò l'ombre, e farò sazie

le ceneri de' miei". Ciò vaneggiando,

infurïava; quand'ecco una luce

m'aprio la notte, e mi scoverse avanti

l'alma mia genitrice in un sembiante,

non come l'altre volte in altre forme

mentito o dubbio, ma verace e chiaro,

e di madre e di dea, qual, credo, e quanta

su tra gli altri Celesti in ciel si mostra.

Cotal la vidi, e tale anco per mano

mi prese; e con pietà le sante luci

e le labbia rosate aperse, e disse:

"Figlio, a che tanto affanno? a che tant'ira?

Ché non t'acqueti omai? Questa è la cura

che tu prendi di noi? Ché non piú tosto

rimiri ov'abbandoni il vecchio Anchise

e la cara Creúsa e 'l caro Iulo,

cui sono i Greci intorno? E se non fosse

che in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco

fôran già tutti. Ah! figlio, non il volto

de l'odïata Argiva, non di Pari

la biasmata rapina, ma del cielo

e de' celesti il voler empio atterra

la troiana potenza. Alza su gli occhi,

ch'io ne trarrò l'umida nube, e 'l velo

che la vista mortal t'appanna e grava:

poscia credi a tua madre, e senza indugio

tutto fa' che da lei ti si comanda:

vedi là quella mole, ove quei sassi

son da' sassi disgiunti, e dove il fumo

con la polve ondeggiando al ciel si volve,

come fiero Nettuno infin da l'imo

le mura e i fondamenti e 'l terren tutto

col gran tridente suo sveglie e conquassa.

Vedi qui su la porta come Giuno

infurïata a tutti gli altri avanti

si sta cinta di ferro, e da le navi

le schiere d'Argo a' nostri danni invita:

vedi poi colà su Pallade in cima

a l'alta rocca, entro a quel nembo armata,

con che lucenti e spaventosi lampi

il gran Górgone suo discopre e vibra.

Che piú? mira nel ciel, che Giove stesso

somministra a gli Argivi animo e forza,

e incontro a le vostre armi a l'arme incita

gli eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi,

poi che indarno t'affanni. Io sarò teco

ovunque andrai, sí che securamente

ti porrò dentro a' tuoi paterni alberghi".

  Cosí disse; e per entro a le folt'ombre

de la notte s'ascose. Allor vid'io

gl'invisibili aspetti, e i fieri volti

de' numi a Troia infesti, e Troia tutta

in un sol foco immersa, e fin dal fondo

sottosopra rivolta. In quella guisa

che d'alto monte in precipizio cade

un orno antico, i cui rami pur dianzi

facean contrasto a' vènti e scorno al sole,

quando con molte accette al suo gran tronco

stanno i robusti agricoltori intorno

per atterrarlo, e gli dan colpi a gara,

da cui vinto e dal peso, a poco a poco

crollando e balenando, il capo inchina,

e stride e geme e dal suo giogo al fine

e con parte del giogo si diveglie,

o si scoscende; e ciò che intoppa urtando,

di suono e di ruina empie le valli.

Allor discesi; e la materna scorta

seguendo, da' nemici e da le fiamme

mi rendei salvo: ché dovunque il passo

volgea, cessava il foco, e fuggian l'armi.

  Poi ch'io fui giunto a la magione antica

del padre mio, di lui prima mi calse

e del suo scampo, e per condurlo a' monti

m'apparecchiava, quand'ei disse:"O figlio,

io decrepito, io misero, che avanzi

ai dí de la mia patria? Io posso, io deggio

sopravvivere a Troia? E fia ch'io soffra

sí vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni

siete di sangue e di vigore intieri,

voi vi salvate. A me, s'io pur dovea

restare in vita, avrebbe il ciel serbato

questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo

son vissuto fin qui; poi ch'altra volta

vidi Troia cadere, e non cadd'io.

Fatemi or di pietà gli ultimi offici;

iteratemi il vale, e per defunto

cosí composto il mio corpo lasciate,

ch'io troverò chi mi dia morte; e i Greci

medesmi o per pietate, o per vaghezza

de le mie spoglie, mi trarran di vita

e di miseria: e se d'esequie io manco,

se manco di sepolcro, il danno è lieve.

Da l'ora in qua son io visso a la terra

disutil peso, ed al gran Giove in ira,

che dal vento percosso e da le fiamme

fui dal folgore suo". Ciò memorando

stava il misero padre a morte additto;

e d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo,

la casa tutta con preghiere e pianti

stringendolo a salvarsi, a non trar seco

ogni cosa in ruina, a non offrirsi

da se stesso a la morte. Ei fermo e saldo

né di proponimento, né di loco

punto si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,

di morir desïoso. E qual v'era altro

rimedio o di consiglio, o di fortuna?

"Ah! che di questa soglia io tragga il piede,

padre mio, per lasciarti? Ah! che tu possa

creder tanto di me? Da la tua bocca

tanto di sceleranza e di viltate

è d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino

che di sí gran città nulla rimanga,

se piace a te, se nel tuo core è fermo

che né di te, né de gli tuoi si scemi

la ruina di Troia; e cosí vada,

e cosí fia: ch'io veggio a mano a mano

qui del sangue del re tutto cosperso,

e bramoso del nostro, apparir Pirro,

ch'i padri occide anzi a gli altari, e i figli

anzi agli occhi de' padri. Ah! madre mia,

per questo fine qui salvo e difeso

m'hai da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia

con gli occhi miei ne la mia casa stessa

i miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio

e la mia donna crudelmente occisi

l'un nel sangue de l'altro? Mano a l'arme!

Chi mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo

a morte ne chiama. Or mi lasciate

ch'io torni infra i nimici, e che di nuovo

mi razzuffi con essi: ché non tutti

abbiam senza vendetta oggi a perire".

  E già di ferro cinto, a la sinistra

m'adattavo lo scudo, e fuori uscia,

quand'ecco in su la soglia attraversata

Creúsa avanti a' piè mi si distende,

e me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo

m'appresenta, e mi dice: "Ah! mio consorte,

dove ne lasci? S'a morir ne vai,

ché non teco n'adduci? E se ne l'armi

e nell'esperïenza hai speme alcuna,

ché non difendi la tua casa in prima?

ove Ascanio abbandoni? ove tuo padre?

ove Creúsa tua, che tua s'è detta

per alcun tempo?". E ciò gridando empiea

di pianto e di stridor la magion tutta:

quand'ecco innanzi a gli occhi, e fra le mani

de gli stessi parenti, un repentino

e mirabile a dir portento apparve;

ché sopra il capo del fanciullo Iulo

chiaro un lume si vide, e via piú chiara

una fiamma che tremola e sospesa

le sue tempie rosate e i biondi crini

sen gia come leccando, e senza offesa

lievemente pascendo. Orrore e téma

ne presi in prima. Indi a quel santo foco

d'intorno, altri con acqua, altri con altro,

ognun facea per ammorzarlo ogn'opra.

Ma 'l padre Anchise a cotal vista allegro,

le man, gli occhi e la voce al ciel rivolto,

orò dicendo: "Eterno onnipotente

signor, se umana prece unqua ti mosse,

vèr noi rimira, e ne fia questo assai.

Ma se di merto alcuno in tuo cospetto

è la nostra pietà, padre benigno,

danne anco aíta; e con felice segno

questo annunzio ratifica e conferma".

  Avea di ciò pregato il vecchio appena,

che tonò da sinistra e dal convesso

del ciel cadde una stella, che per mezzo

fendé l'ombrosa notte, e lunga striscia

di face e di splendor dietro si trasse.

Noi la vedemmo chiaramente sopra

da' nostri tetti ire a celarsi in Ida,

sí che lasciò, quanto il suo corso tenne,

di chiara luce un solco; e lunge intorno

fumò la terra di sulfureo odore.

  Allor vinto si diede il padre mio;

e tosto a l'aura uscendo, al santo segno

de la stella inchinossi, e con gli dèi

parlò devotamente: "O de la patria

sacri numi Penati, a voi mi rendo.

Voi questa casa, voi questo nipote

mi conservate. Questo augurio è vostro,

e nel poter di voi Troia rimansi".

Poscia, rivolto a noi: " Fa', figliuol mio,

ormai - disse - di me che piú t'aggrada;

ch'al tuo voler son pronto, e d'uscir teco

piú non recuso". Avea già 'l foco appresa

la città tutta, e già le fiamme e i vampi

ne ferian da vicino, allor che 'l vecchio

cosí dicea: "Caro mio padre, adunque, -

soggiuns'io - com'è d'uopo, in su le spalle

a me ti reca, e mi t'adatta al collo

acconciamente: ch'io robusto e forte

sono a tal peso: e sia poscia che vuole:

ch'un sol periglio, una salute sola

fia d'ambedue. Seguami Iulo al pari;

Creúsa dopo: e voi, miei servi, udite

quel ch'io diviso. È de la porta fuori

un colle, ov'ha di Cerere un antico

e deserto delúbro, a cui vicino

sorge un cipresso, già molt'anni e molti

in onor de la dea serbato e cólto.

Qui per diverse vie tutti in un loco

vi ridurrete; e tu con le tue mani

sosterrai, padre mio, de' santi arredi

e de' patrii Penati il sacro incarco,

che a me, sí lordo e sí recente uscito

da tanta uccisïon, toccar non lece

pria che di vivo fiume onda mi lave".

  Ciò detto, con la veste e con la pelle

d'un villoso leon m'adeguo il tergo;

e 'l caro peso a gli omeri m'impongo.

Indi a la destra il fanciulletto Iulo

mi s'aggavigna e non con moto eguale

ei segue i passi miei, Creúsa l'orme.

Andiam per luoghi solitari e bui:

e me, cui dianzi intrepido e sicuro

vider de l'arme i nembi e de gli armati

le folte schiere, or ogni suono, ogni aura

empie di téma: sí geloso fammi

e la soma e 'l compagno. Era vicino

a l'uscir de la porta, e fuori in tutto,

com'io credea, d'ogni sinistro incontro;

quand'ecco d'improvviso udir mi sembra

un calpestío di gente, a cui rivolto

disse il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio,

fuggi, ché ne son presso. Io veggio, io sento

sonar gli scudi, e lampeggiar i ferri".

Qui ridir non saprei come, né quale

avverso nume a me stesso mi tolse:

ché mentre da la fretta e dal timore

sospinto esco di strada, e per occulte

e non usate vie m'aggiro e celo,

restai, misero me! senza la mia

diletta moglie, in dubbio se dal fato

mi si rapisse, o travïata errasse,

o pur lassa a posar posta si fosse.

Basta ch'unqua di poi non la rividi,

né per vederla io mi rivolsi mai,

né mai me ne sovvenne, infin che giunti

di Cerere non fummo al sagro poggio.

Ivi ridotti, ne mancò di tanti

sola Creúsa, ohimè! con quanto scorno

e con quanto dolor del suo consorte

e del figlio e del suocero e di tutti!

Io che non feci allora, e che non dissi?

Qual degli uomini, folle! e degli dèi

non accusai! Qual vidi in tanto eccidio,

o ch'io provassi, o che avvenisse altrui,

caso piú miserando e piú crudele?

  Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi

lascio in guardia a' compagni, ed io de l'armi

pur mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,

disposto a ritentar ogni fortuna,

a cercar Troia tutta, a por la vita

ad ogni repentaglio. Incominciai

in prima da le mura e da la porta,

ond'era uscito; e le vie stesse e l'orme

ripetei tutte per cui dianzi io venni,

gli occhi portando per vederla intenti.

Silenzio, solitudine e spavento

trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima,

cercando se per sorte ivi smarrita

si ricovrasse. Era già presa e piena

di nemici e di foco; e già da' tetti

uscian da' vènti e da le furie spinte

rapide fiamme e minacciose al cielo.

Torno quinci al palagio; indi a la ròcca:

seguo a le piazze, a' portici, a l'asilo

di Giunon, che già fatti eran conserve

de la preda di Troia, a cui Fenice

e 'l fiero Ulisse eran custodi eletti.

Qui d'ogni parte le troiane spoglie

fin de le sacristie, fin de gli altari

le sacre mense, i prezïosi vasi

di solid'oro, e i paramenti e i drappi

e le delizie e le ricchezze tutte

a gli incendi ritolte, erano addotte.

D'intorno innumerabili prigioni

stavan di funi e di catene avvinti,

e matrone e donzelle e pargoletti,

che di sordi lamenti e di muggiti

facean ne l'aria un tuono; e men fra loro

era la donna mia: né dove fosse,

piú ripensar sapendo, osai dolente

gridar per le vie tutte; e, benché in vano,

mille volte iterai l'amato nome.

Mentre cosí tra furïoso e mesto

per la città m'aggiro, e senza fine

la ricerco e la chiamo, ecco davanti

mi si fa l'infelice simulacro

di lei, maggior del solito. Stupii,

m'aggricciai, m'ammutii. Prese ella a dirmi,

e consolarmi: "O mio dolce consorte,

a che sí folle affanno? A gli dèi piace

che cosí segua. A te quinci non lece

di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta

ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi;

ché soffrir lunghi esigli, arar gran mari

ti converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,

che fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno

Tebro con placid'onde opimi campi

di bellicosa gente impingua e riga.

Ivi riposo e regno e regia moglie

ti si prepara. Or de la tua diletta

Creúsa, signor mio, piú non ti doglia:

ché i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni

non vedranno già me, dardania prole,

e di Prïamo figlia, e nuora a Venere,

né donna lor, né di lor donne ancella:

ché la gran genitrice degli dèi

appo sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,

nostro comune amore, ama in mia vece;

e lui conserva, e te consola. Addio".

  Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto

era impedito, ed avea molto a dirle,

me le avventai, per ritenerla, al collo;

e tre volte abbracciandola, altrettante,

come vento stringessi o fumo o sogno,

me ne tornai con le man vòte al petto.

  E cosí scorsa e consumata indarno

tutta la notte, al poggio mi ritrassi

a' miei compagni, ove trovai con molta

mia maraviglia d'ogni parte accolta

una gran gente, un miserabil volgo

d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado,

a l'esiglio parati, e 'nsieme additti

a seguir me, dovunque io gli adducessi,

o per mare o per terra. Uscia già d'Ida

la mattutina stella, e 'l dí n'apria,

quando in dietro mi volsi, e vidi Troia

fumar già tutta; e de la ròcca in cima,

e di sovr'ogni porta inalberate

le greche insegne; onde né via, né speme

rimanendomi piú di darle aíta,

cedei; ripresi il carco, e salsi al monte».

 

 

LIBRO TERZO

 

 

  «Poi che fu d'Asia il glorïoso regno

e 'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,

com'al cielo piacque, indegnamente estinto,

Ilio abbattuto e la nettunia Troia

desolata e combusta; i santi augúri

spïando, a vari esigli, a varie terre

per ricovro di noi pensando andammo:

e ne la Frigia stessa, a piè d'Antandro,

ne' monti d'Ida, a fabbricar ne demmo

la nostra armata, non ben certi ancóra

ove il ciel ne chiamasse, e quale altrove

ne desse altro ricetto. Ivi le genti

d'intorno accolte, al mar ne riducemmo,

e n'imbarcammo alfine. Era de l'anno

la stagion prima, e i primi giorni a pena,

quando, sciolte le sarte e date a' venti

le vele, come volle il padre Anchise,

piangendo abbandonai le rive e i porti

e i campi ove fu Troia, i miei compagni

meco traendo e 'l mio figlio e i miei numi

a l'onde in preda, e de la patria in bando.

  È de la Frigia incontro un gran paese

da' Traci arato, al fiero Marte additto,

ampio regno e famoso, e seggio un tempo

del feroce Licurgo. Ospiti antichi

s'eran Traci e Troiani; e fin ch'a Troia

lieta arrise fortuna, ebbero entrambi

comuni alberghi. A questa terra in prima

drizzai 'l mio corso, e qui primieramente

nel curvo lito con destino avverso

una città fondai, che dal mio nome

Enèade nomossi; e mentre intorno

me ne travaglio, e i santi sacrifici

a Venere mia madre ed agli dèi,

che sono al cominciar propizi, indico:

mentre che 'n su la riva un bianco toro

al supremo Tonante offro per vittima,

udite che m'avvenne. Era nel lito

un picciol monticello, a cui sorgea

di mirti in su la cima e di corniali

una folta selvetta. In questa entrando

per di fronde velare i sacri altari,

mentre de' suoi piú teneri e piú verdi

arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;

orribile a veder, stupendo a dire,

m'apparve un mostro: ché, divelto il primo

da le prime radici, uscîr di sangue

luride gocce, e ne fu 'l suolo asperso.

Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse

le membra tutte; e di paura il sangue

mi si rapprese. Io le cagioni ascose

di ciò cercando, un altro ne divelsi;

ed altro sangue uscinne: onde confuso

vie piú rimasi; e nel mio cor diversi

pensier volgendo, or de l'agresti ninfe,

or del scitico Marte i santi numi

adorando, porgea preghiere umíli,

che di sí fiera e portentosa vista

mi si togliesse, o si temprasse almeno

il diro annunzio. Ritentando ancora,

vengo al terzo virgulto, e con piú forza

mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,

e lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),

un sospiroso e lagrimabil suono

da l'imo poggio odo che grida e dice:

  "Ahi! perché sí mi laceri e mi scempi?

Perché di cosí pio, cosí spietato,

Enea, vèr me ti mostri? A che molesti

un ch'è morto e sepolto? A che contamini

col sangue mio le consanguinee mani?

Ché né di patria, né di gente esterno

son io da te; né questo atro liquore

esce da sterpi, ma da membra umane.

Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese:

fuggi da questo abbominevol lito:

ché Polidoro io sono, e qui confitto

m'ha nembo micidiale, e ria semenza

di ferri e d'aste che, dal corpo mio

umor preso e radici, han fatto selva".

  A cotal suon, da dubbia téma oppresso,

stupii, mi raggricciai, muto divenni,

di Polidoro udendo. Un de' figliuoli

era questi del re, ch'al tracio rege

fu con molto tesoro occultamente

accomandato allor che da' Troiani

incominciossi a diffidar de l'armi,

e temer de l'assedio. Il rio tiranno,

tosto che a Troia la fortuna vide

volger le spalle, anch'ei si volse, e l'armi

e la sorte seguí de' vincitori;

sí che, de l'amicizia e de l'ospizio

e de l'umanità rotta ogni legge,

tolse al regio fanciul la vita e l'oro.

  Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!

E che per te non osa, e che non tenta

quest'umana ingordigia? Or poi che 'l gelo

mi fu da l'ossa uscito, a' primi capi

del popol nostro ed a mio padre in prima

il prodigio refersi, e di ciascuno

il parer ne spiai. "Via, - disser tutti

concordemente - abbandoniam quest'empia

e scelerata terra; andiam lontano

da questo infame e traditore ospizio;

rimettiamci nel mare". Indi l'esequie

di Polidoro a celebrar ne demmo;

e, composto di terra un alto cumulo,

gli altar vi consacrammo a i numi inferni,

che di cerulee bende e di funesti

cipressi eran coverti. Ivi le donne

d'Ilio, com'è fra noi rito solenne,

vestite a bruno e scapigliate e meste

ulularono intorno; e noi di sopra

di caldo latte e di sacrato sangue

piene tazze spargemmo, e con supremi

richiami amaramente al suo sepolcro

rivocammo di lui l'anima errante.

Né pria ne si mostrâr l'onde sicure,

e fidi i venti, che, del porto usciti,

incontinente ne vedemmo avanti

sparir l'odiosa terra, e gir da noi

di mano in man fuggendo i liti e i monti.

  È nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori

ed a Nettuno, un'isola famosa,

che già mobile e vaga intorno a' liti

agitata da l'onde errando andava,

ma fatta di Latona e de' suoi figli

ricetto un tempo, dal pietoso arciero

tra Gïaro e Micon fu stretta in guisa,

ch'immota, e cólta, e consacrata a lui,

ebbe poi le tempeste e i vènti a scherno.

Qui porto placidissimo e securo

stanchi ne ricevette, e già smontati

veneravam d'Apollo il santo nido;

quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme

e sacerdote, che di sacre bende

e d'onorato alloro il crine adorno,

ne si fa 'ncontro. Era al mio padre Anchise

già di molt'anni amico; onde ben tosto

lo riconobbe, e con sembiante allegro

lui primamente, indi noi tutti accolti,

n'abbracciò, ne 'nvitò, seco n'addusse.

  Quinci al delúbro, ch'ad Apollo in cima

era d'un sasso anticamente estrutto,

tutti salimmo; ed io devoto orai:

"Danne, padre Timbrèo, propria magione,

e propria terra, ove già stanchi abbiamo

posa e ristoro, e ne da' stirpe e nido

opportuno, durabile e securo;

danne Troia novella; e de' Troiani

serba queste reliquie, che avanzate

sono a pena agli storpi, a le ruine,

al foco, a' Greci, al dispietato Achille.

Mostrane chi ne guidi, ove s'indrizzi

il nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.

Coi tuoi piú chiari e manifesti augúri,

signor, tu ne predici e tu n'ispira".

  Avea ciò detto a pena, che repente

il limitare, il tempio, e 'l monte tutto

crollossi intorno; scompigliârsi i lauri;

aprissi, e dagli interni suoi ridotti

mugghiò la formidabile cortina.

Noi riverenti a terra ne gittammo;

e 'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,

articolossi, e cosí dire udissi:

  "Dardanidi robusti, onde l'origine

traeste in prima, ivi ancor lieto e fertile

di vostra antica madre il grembo aspettavi.

Di lei dunque cercate; a lei tornatevi:

ch'ivi sovr'ogni gente, in tutti i secoli

domineranno i glorïosi Enèadi,

e la posterità de gli lor posteri".

  Ciò disse Apollo: e del suo detto fessi

infra noi gran letizia e gran bisbiglio,

interrogando e ricercando ognuno

qual paese, qual madre, qual ricetto

ne s'accennasse. Allora il padre Anchise

da lunge i tempi ripetendo e i casi

dei nostri antichi eroi: "Signori, udite -

ne disse, - ch'io darò lume e compenso

a le vostre speranze. È del gran Giove

Creta quasi gran cuna in mezzo al mare

isola chiara, e regno ampio e ferace,

che cento gran città nodrisce e regge.

Ivi sorge un'altr'Ida, onde nomata

fu l'Ida nostra; ond'ha seme e radice

nostro legnaggio: onde primieramente

Teucro, padre maggior de' maggior nostri

(se ben me ne rammento), errando venne

a le spiagge di Reto, ov'egli elesse

di fondare il suo regno. Ilio non era,

né di Pergamo ancor sorgean le mura

fino in quel tempo: e sol ne l'ime valli

abitavan le genti. Indi a noi venne

la gran Cibele madre; indi son l'armi

de' Coribanti, indi la selva idea,

e quel fido silenzio, onde celati

son quei nostri misteri, e quei leoni

ch'al carro de la dea son posti al giogo.

Di là dunque veniamo, e là vuol Febo

che si ritorni. Or via seguiamo il fato:

plachiamo i vènti e ne la Creta andiamo,

che non è lunge; e se n'è Giove amico,

anzi tre dí n'approderemo ai liti".

  Ciò detto, a ciascun dio, come conviensi,

sacrificando, due gran tori occise:

e l'un diede a Nettuno e l'altro a Febo:

una pecora negra a la Tempesta;

al Sereno una bianca. Era in quei giorni

fama che Idomeneo, cretese eroe,

da la sua patria e da' paterni regni

era scacciato; onde di Creta i liti

d'armi, di duce e di seguaci suoi,

nostri nimici, in gran parte spogliati,

stavano a noi senza contesa esposti.

  Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;

trapassammo di Nasso i pampinosi

colli, e Bacco onorammo: i verdi liti

di Dònisa, e d'Olëaro varcammo:

giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe

lasciammo indietro: indi di mano in mano

l'altre Cícladi tutte e 'l mar che rotto

da tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;

e seguendo, com'è de' naviganti

marinaresca usanza, - in Creta! in Creta! -

lietamente gridando, con un vento

che ne feria senza ritegno in poppa,

quasi a volo andavamo; onde ben tosto

de' Cureti appressammo i liti antichi;

e gli scoprimmo, e v'approdammo alfine.

Giunti che fummo, avidamente diemmi

a fabricar le desïate mura,

e Pergamea da Pergamo le dissi.

Con questo amato nome amore e speme

destai di nuova patria, e studio intenso

d'alzar le mura e di fondar gli alberghi.

Eran le navi in su la rena addotte

per la piú parte; era la gente intenta

a l'arti, a la coltura, ai maritaggi,

ad ogni affare; ed io lor ministrava

leggi e ragioni, e facea templi e strade,

quando fera, improvvisa pestilenza,

ne sopravvenne; e la stagione e l'anno

e gli uomini e gli armenti e l'aria e l'acque

e tutto altro infettonne; onde ogni corpo

o cadeva o languiva; e la semente

e i frutti e l'erbe e le campagne stesse

da la rabbia di Sirio e dal veleno

de l'orribil contage arse e corrotte,

ci negavano il vitto. Il padre mio

per consiglio ne diè che un'altra volta,

rinavigando il navigato mare,

si tornasse in Ortigia, e che di nuovo

ricorrendo di Febo al santo oracolo,

perdon gli si chiedesse, aíta e scampo

da sí maligno e velenoso influsso,

ed alfin del cammino e de la stanza

chiaro ne si traesse indrizzo e lume.

  Era già notte, e già dal sonno vinta

posa e ristoro avea l'umana gente,

quando le sacre effigi de' Penati,

quelle che meco avea tratte dal foco

de la mia patria, quelle stesse in sogno

vive mi si mostrâr veraci e chiare:

tal piena, avversa e luminosa luna

penetrava, per entro al chiuso albergo,

di puri vetri i lucidi spiragli;

e com'eran visibili, appressando

la sponda ov'io giacea, soavemente

mi si fecero avanti, e 'n cotal guisa

mi confortaro: "Quel che Apollo stesso,

se tornaste in Ortigia, a voi direbbe,

qui mandati da lui vi diciam noi:

e noi siam quei che dopo Troia incensa

per tanti mari a tanti affanni teco

n'uscimmo, e te seguiamo e l'armi tue.

Noi compagni ti siamo, e noi saremo

ch'a la nova città, che tu procuri,

daremo eterno imperio, e i tuoi nipoti

ergeremo a le stelle. Alto ricetto

tu dunque e degno de l'altezza loro

prepara intanto; e i rischi e le fatiche

non rifiutar di piú lontano esiglio.

Cerca loro altro seggio; ergi altre mura

vie piú chiare di queste: ché di Creta

né curiam noi, né lo ti dice Apollo.

  Una parte d'Europa è, che da' Greci

si disse Esperia, antica, bellicosa

e fertil terra. Dagli Enotri cólta,

prima Enotria nomossi: or, com'è fama,

preso d'Italo il nome, Italia è detta.

Questa è la terra destinata a noi.

Quinci Dardano in prima e Iasio usciro;

e Dardano è l'autor del sangue nostro.

Sorgi dunque e riporta al padre Anchise

quel ch'or noi ti diciam, ché diciam vero:

e tu cerca di Còrito e d'Ausonia

l'antiche terre, ché da Giove in Creta

regnar ti s'interdice". Io di tal vista,

e di tai voci, ch'eran voci e corpi

de' nostri dèi, non simulacri e sogni

(ché ne vid'io le sacre bende e i volti

spiranti e vivi), attonito e cosperso

di gelato sudore, in un momento

salto dal letto; e con le mani al cielo

e con la voce supplicando, spargo

di doni intemerati i santi fochi.

Riveriti i Penati, al padre Anchise

lieto men vado, e del portento intera-

mente il successo e l'ordine gli espongo.

Incontinente riconobbe il doppio

nostro legnaggio, e i due padri e i due tronchi

de' cui rami siam noi vette e rampolli;

e d'erro uscito: "Ora io m'avveggio, - disse -

figlio, che segno sei de le fortune

e del fato di Troia; e ciò rincontro

che Cassandra dicea: sola Cassandra

lo previde e 'l predisse. Ella al mio sangue

augurò questo regno; e questa Italia

e questa Esperia avea sovente in bocca.

Ma chi mai ne l'Esperia avria creduto

che regnassero i Teucri? E chi credea

in quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,

cediamo a Febo; e ciò che 'l dio del vero

ne dà per meglio, per miglior s'elegga".

  Ciò disse, e i detti suoi tosto eseguimmo;

ed ancor questa terra abbandonammo,

se non se pochi. N'andavamo a vela

con second'aura; e già d'alto mirando,

non piú terra apparia, ma cielo ed acqua

vedevam solamente, quando oscuro

e denso e procelloso un nembo sopra

mi stette al capo, onde tempesta e notte

ne si fece repente e di piú siti

rapidi uscendo imperversaro i vènti;

s'abbuiò l'aria, abbaruffossi il mare,

e gonfiaro altamente e mugghiâr l'onde.

Il ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori

si squarciò d'ogni parte. Il giorno notte

fessi, e la notte abisso: e l'un da l'altro

non discernendo, Palinuro stesso

de la via diffidossi e de la vita.

  Cosí tolti dal corso, e quinci e quindi

per lo gran golfo dissipati e ciechi,

da buio e da caligine coverti,

tre soli interi senza luce errammo,

tre notti senza stelle. Il quarto giorno

vedemmo al fin, quasi dal mar risorta,

la terra aprirne i monti e gittar fumo.

Caggion le vele; e i remiganti a pruova,

di bianche schiume il gran ceruleo golfo

segnando, inverso i liti i legni affrettano.

Né prima fui di sí gran rischio uscito,

che giunto nelle Stròfadi mi vidi.

Stròfadi grecamente nominate

son certe isole in mezzo al grande Ionio,

da la fera Celeno e da quell'altre

rapaci e lorde sue compagne Arpie

fin d'allora abitate, che per téma

lasciâr le prime mense, e di Finèo

fu lor chiuso l'albergo. Altro di queste

piú sozzo mostro, altra piú dira peste

da le tartaree grotte unqua non venne.

Sembran vergini a' volti; uccelli e cagne

a l'altre membra: hanno di ventre un fedo

profluvio, ond'è la piuma intrisa ed irta,

le man d'artigli armate: il collo smunto,

la faccia per la fame e per la rabbia

pallida sempre e raggrinzata e magra.

  Tosto che qui sospinti in porto entrammo,

ecco sparsi veggiam per la campagna

senza custodi andar gran torme errando

di cornuti e villosi armenti e greggi.

Smontiamo in terra; e per far carne, prese

l'armi, a predare andiamo, e de la preda

gli dèi chiamiamo e Giove stesso a parte.

  Fatta la strage e già parati i cibi

e distese le mense, eravam lungo

al curvo lito a ricrearne assisi,

quand'ecco che da' monti in un momento

con dire voci e spaventoso rombo

ne si fan sopra le bramose Arpie;

e con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni,

col tetro, osceno, abbominevol puzzo

ne sgominâr le mense, ne rapiro,

ne infettâr tutti e i cibi e i lochi e noi.

  Era presso un ridotto, ove alta e cava

rupe d'arbori chiusa e d'ombre intorno

facea capace ed opportuno ostello.

Ivi ne riducemmo, e ne le mense

riposti i cibi e ne gli altari i fochi,

a convivar tornammo; ed ecco un'altra

volta d'un'altra parte per occulte

e non previste vie ne si scoverse

l'orribil torma; e con gli adunchi artigli,

co' fieri denti e con le bocche impure

ghermîr la preda, e ne lasciâr di novo

vòte le mense e scompigliate e sozze.

  Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra è d'uopo

contra sí dira gente". E tutti a l'arme

ed a battaglia incito. Eglino, in guisa

ch'io li disposi, i ferri ignudi e l'aste

e gli scudi e le frombe e i corpi stessi

infra l'erba acquattaro; il lor ritorno

stêro aspettando. Era Miseno in alto

a la veletta asceso; e non piú tosto

scoprir le vide, e schiamazzare udille,

che col canoro suo cavo oricalco

ne diè cenno a' compagni. Uscîr d'agguato

tutti in un tempo, e nuova zuffa e strana

tentâr contra i marini uccelli in vano:

ché le piume e le terga ad ogni colpo

aveano impenetrabili e secure;

onde securamente al ciel rivolte

se ne fuggiro, e ne lasciâr la preda

sgraffiata, smozzicata e lorda tutta.

Sola Celèno a l'alta rupe in cima

disdegnosa fermossi e, d'infortuni

trista indovina infurïossi, e disse:

"Dunque non basta averne, ardita razza

di Laomedonte, depredati e scórsi

gli armenti e i campi nostri, che ancor guerra,

guerra ancor ne movete? E le innocenti

Arpie scacciar del patrio regno osate?

Ma sentite, e nel cor vi riponete

quel ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema

ch'annunzio a voi quel che 'l gran Giove a Febo,

e Febo a me predice. Il vostro corso

è per l'Italia, e ne l'Italia arete

e porto e seggio. Ma di mura avanti

la città che dal ciel vi si destina

non cingerete, che d'un tale oltraggio

castigo arete; e dira fame a tanto

vi condurrà, che fino anco le mense

divorerete". E, cosí detto, il volo

riprese in vèr la selva, e dileguossi.

  Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;

e prieghi, invece d'armi, e voti oprando,

mercé chiesero e pace, o dive o dire

che si fosser l'alate ingorde belve:

e 'l padre Anchise in su la riva sporte

al ciel le palme, e i gran celesti numi

umilmente invocando, indisse i sacri

a lor dovuti onori: "O dii possenti,

o dii benigni, voi rendete vane

queste minacce; voi di caso tale

ne liberate; e voi giusti e voi buoni

siate pietosi a noi ch'empi non siamo".

  Indi ratto comanda che dal lito

si disciolgano i legni. Entriam nel mare,

spieghiam le vele agli austri, e via per l'onde

spumose a tutto corso in fuga andiamo

là 've 'l vento e 'l nocchier ne guida e spinge.

E già d'alto apparir veggiam le selve

di Zacinto; passiam Dulichio e Same;

varchiam Nèrito alpestro; e via fuggendo,

e bestemmiando, trapassiam gli scogli

d'Itaca, imperio di Laerte, e nido

del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre

il nimboso Leucàte, e quel che tanto

a' naviganti è spaventoso, Apollo.

Ivi stanchi approdammo; ivi gittate

l'àncore, ed accostati i legni al lito,

ne la picciola sua cittade entrammo.

  Grata vie piú quanto sperata meno

ne fu la terra; onde purgati ergemmo

altari e vóti, ed ostie a Giove offrimmo.

E d'Azio in su la riva festeggiando,

ignudi ed unti, uscîr de' miei compagni

i piú robusti, e, com'è patria usanza,

varie palestre a lotteggiar si diêro:

gioiosi che per tanto mare e tante

greche terre inimiche a salvamento

fosser tant'oltre addotti. Era de l'anno

compito il giro, e i gelidi aquiloni

infestavano il mare; ond'io lo scudo,

che di forbito e concavo metallo

fu già del grande Abante insegna e spoglia,

con un tal motto in su le porte appesi:

A' GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,

ED A TE 'L SACRA, APOLLO. Indi al mar giunti

ne rimbarcammo: e remigando a gara,

fummo in un tempo de' Feaci a vista,

e gli varcammo: poi rivolti a destra,

costeggiammo l'Epiro, e di Caonia

giungemmo al porto, ed in Butroto entrammo.

Qui cosa udii, che meraviglia e gioia

mi porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio

di Prïamo re nostro, era a quel regno

di greche terre assunto, e che di Pirro

e del suo scettro e del suo letto erede

troiano sposo a la troiana Andromache

s'era congiunto. Arsi d'immenso amore

di visitarlo, e di spïar da lui

come ciò fosse; e de l'armata uscendo,

scesi nel lito, e me n'andai con pochi

a ritrovarlo. Era quel giorno a sorte

Andromache regina in su la riva

del nuovo Simoenta a far solenne

sepolcral sacrificio; e, come è rito

de la mia patria, avea, fra due grand'are

di verdi cespi una gran tomba eretta,

monumento di lagrime e di duolo.

ove con tristi doni e con lugúbri

voci del grand'Ettòr l'anima e 'l nome

chiamando, il finto suo corpo onorava.

  Poiché venir mi vide, e che di Troia

avvisò l'armi, e me conobbe, un mostro

veder le parve, e forsennata e stupida

fermossi in prima; indi gelata e smorta

disvenne e cadde; e dopo molto, a pena

risensando, mirommi, e cosí disse:

  "Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea?

Sei corpo od ombra? Se da' morti udito

è il mio richiamo, Ettòr perché te manda?

Perch'ei teco non viene? E sei tu certo

nunzio di lui?" Ciò detto, lagrimando,

empia di strida e di lamenti i campi.

  Io di pietà e di duol confuso, a pena

in poche voci, e quelle anco interrotte,

snodai la lingua: "Io vivo, se pur vita

è menar giorni sí gravosi e duri:

ma cosí spiro ancora, e veramente

son io quel che ti sembro. O da qual grado

scaduta, e da quanto inclito marito!

Andromache d'Ettòr a Pirro, a Pirro

fosti congiunta? Or qual altra piú lieta

t'incontra, e piú di te degna fortuna?"

Abbassò 'l volto, e con sommessa voce

cosí rispose: "O fortunata lei

sovr'ogni donna, che regina e vergine,

ne la sua patria a sacrificio offerta,

del nimico fu vittima e non preda,

né del suo vincitor serva né donna:

io dopo Troia incensa, e dopo tanti

e tanti arati mari, a servir nata,

de la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto,

e 'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.

Questi poi con Ermïone congiunto,

e lei, che de la razza era di Leda

e del sangue di Sparta, a me preposta,

volle ch'Eleno ed io, servi ambidue,

n'accoppiassimo insieme. Oreste intanto,

che tôr l'amata sua donna si vide,

da l'amore infiammato e da le faci

de le furie materne, anzi agli altari

del padre Achille, insidïosamente

tolse la vita a lui. Per la sua morte

fu 'l suo regno diviso; e questa parte

de la Caonia ad Eleno ricadde,

che dal nome di Càone troiano

cosí l'ha detta, come disse ancora

Ilio da l'Ilio nostro questa ròcca

che qui su vedi; e Simoenta e Pergamo

queste picciole mura e questo rivo.

Ma te quai vènti, o qual nostra ventura

ha qui condotto, fuor d'ogni pensiero

di noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro

vive? cresce? che fa? come ha sentito

la morte di Creúsa? E qual presagio

ne dà ch'Enea suo padre, Ettor suo zio

si rinnovino in lui?" Cotali Andromache

spargea pianti e parole; ed ecco intanto

il teucro eroe che de la terra uscendo,

con molti intorno a rincontrar ne venne.

Tosto che n'adocchiò, meravigliando

ne conobbe, n'accolse, e lietamente

seco n'addusse, de' comuni affanni

molto con me, mentre andavamo, anch'egli

ragionando e piangendo. Entrammo al fine

ne la picciola Troia, e con diletto

un arido ruscello, un cerchio angusto

sentii con finti e rinnovati nomi

chiamar Pergamo e Xanto; e de la Scea

porta entrando abbracciai l'amata soglia.

Cosí fecero i miei, meco godendo

l'amica terra, come propria e vera

fosse lor patria. Il re le sale e i portici

di mense empiendo, fe' lor cibi e vini

da' regii servi realmente esporre

con vaselli d'argento e coppe d'oro.

  Passato il primo giorno e l'altro appresso,

soffiâr prosperi i vènti; ond'io commiato

a l'indovino re chiedendo, seco

mi ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,

cui non son degli dèi le menti occulte,

che Febo spiri e 'l tripode e gli allori

del suo tempio dispensi, e de le stelle

e de' volanti ogni secreto intendi,

danne certo, ti priego, indicio e lume

de le nostre venture. Il nostro corso,

com'ogni augurio accenna ed ogni nume

ne persuade, è per l'Italia; e lieto

e fortunato ancor ne si promette

infino a qui. Sola Celeno Arpia

novi e tristi infortuni, e fame ed ira

degli dèi ne minaccia. Io da te chieggio

avvertenze e ricordi, onde sia saggio

a tai perigli, e forte a tanti affanni".

  Qui pria solennemente Eleno, occisi

i dovuti giovenchi, in atto umíle

impetrò dagli dèi favore e pace;

poscia, raccolto in sé, le bende sciolse

del sacro capo; e me, cosí com'era

a tanto officio attonito e sospeso,

per man prendendo, a la febèa spelonca

m'addusse avanti, e con divina voce

intonando proruppe: "O de la dea

pregiato figlio (quando a gran fortuna

è chiaro in prima che 'l tuo corso è vòlto;

tal è del ciel, de' fati e di colui

che gli regge, il voler, l'ordine e 'l moto),

io di molte e gran cose che antiveggo

del tuo peregrinaggio, acciò piú franco

navighi i nostri mari, e 'l porto ausonio,

quando che sia, securamente attinga,

poche ne ti dirò, ch'a te le Parche

vietan che piú ne sappi; ed a me Giuno,

ch'io piú te ne riveli. In prima il porto,

e l'Italia che cerchi, e sí vicina

ti sembra, è da tal via, da tanti intrichi

scevra da te, ch'anzi che tu v'aggiunga,

ti parrà malagevole, e lontana

piú che non credi; e ti fia d'uopo avanti

stancar piú volte i remiganti e i remi,

e 'l mar de la Sicilia e 'l mar Tirreno,

e i laghi inferni e l'isola di Circe

cercar ti converrà, pria che vi fondi

securo seggio. Io di ciò chiari segni

darotti, e tu ne fa nota e conserva.

  Quando piú stanco e travagliato a riva

sarai d'un fiume, u' sotto un'elce accolta

sarà candida troia, ed arà trenta

candidi figli a le sue poppe intorno,

allor di': - Questo è 'l segno e 'l tempo e 'l loco

da fermar la mia sede, e questo è 'l fine

de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame

addur ti deggia a trangugiar le mense,

comunque avvenga, i fati a ciò daranno

opportuno compenso; e questo Apollo

invocato da voi presto saravvi.

Queste terre d'Italia e questa riva

vèr noi vòlta e vicina ai liti nostri,

è tutta da' nimici e da' malvagi

Greci abitata e cólta: e però lunge

fuggi da loro. I Locri di Narizia

qui si posaro; e qui ne' Salentini

i suoi Cretesi Idomeneo condusse;

qui Filottete il melibeo campione

la piccioletta sua Petilia eresse.

Fuggili, dico, e quando anco varcato

sarai di là ne l'alto lito, intento

a sciôrre i vóti, di purpureo ammanto

ti vela il capo, acciò tra i santi fochi,

mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto

te coi tuoi sacrifici non conturbi:

e questo rito poi sia castamente

da te servato e da' nepoti tuoi.

  Quinci partito, allor che da vicino

scorgerai la Sicilia, e di Peloro

ti si discovrirà l'angusta foce,

tienti a sinistra, e del sinistro mare

solca pur via quanto a di lungo intorno

gira l'isola tutta, e da la destra

fuggi la terra e l'onde. È fama antica

che questi or due tra lor disgiunti lochi

erano in prima un solo, che per forza

di tempo, di tempeste e di ruine

(tanto a cangiar queste terrene cose

può de' secoli il corso), un dismembrato

fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando

tanto urtò, tanto róse, che l'esperio

dal sicolo terreno alfin divise:

e i campi e le città, che in su le rive

restaro, angusto freto or bagna e sparte.

Nel destro lato è Scilla; nel sinistro

è l'ingorda Cariddi. Una vorago

d'un gran baratro è questa, che tre volte

i vasti flutti rigirando assorbe,

e tre volte a vicenda li ributta

con immenso bollor fino a le stelle.

Scilla dentro a le sue buie caverne

stassene insidïando; e con le bocche

de' suoi mostri voraci, che distese

tien mai sempre ed aperte, i naviganti

entro al suo speco a sé tragge e trangugia.

Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto

ha di donna e di vergine; il restante,

d'una pistrice immane, che simíli

a' delfini ha le code, ai lupi il ventre.

Meglio è con lungo indugio e lunga volta

girar Pachino e la Trinacria tutta,

che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo,

serntir quegli urli spaventosi e fieri

di quei cerulei suoi rabbiosi cani.

  Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli

sembrar ti può che sian d'Eleno i detti,

e se scarso non m'è del vero Apollo,

sovr'a tutto io t'accenno, ti predico,

ti ripeto piú volte e ti rammento,

la gran Giunone invoca: a Giunon vóti

e preghi e doni e sacrifici offrisci

devotamente; che, lei vinta alfine,

terrai d'Italia il desïato lito.

  Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia

sarai di Cuma, il sacro averno lago

visita, e quelle selve e quella rupe,

ove la vecchia vergine Sibilla

profetizza il futuro, e 'n su le foglie

ripone i fati: in su le foglie, dico,

scrive ciò che prevede, e ne la grotta

distese ed ordinate, ove sian lette,

in disparte le lascia. Elle serbando

l'ordine e i versi, ad uopo de' mortali

parlan de l'avvenire, e quando, aprendo

talor la porta, il vento le disturba,

e van per l'antro a volo, ella non prende

piú di ricôrle e d'accozzarle affanno;

onde molti delusi e sconsigliati

tornan sovente, e mal di lei s'appagano.

Tu per soverchio che ti sembri indugio,

per richiamo de' vènti o de' compagni,

non lasciar di vederla, e d'impetrarne

grazia, che di sua bocca ti risponda,

e non con frondi. Ella daratti avviso

d'Italia, de le guerre e de le genti

che ti fian contra; e mostreratti il modo

di fuggir, di soffrir, d'espugnar tutte

le tue fortune, e di condurti in porto.

Questo è quel che m'occorre, o che mi lice

ch'io ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti

te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".

  Poscia che ciò come profeta disse,

comandò come amico ch'a le navi

gli portassero i doni, opre e lavori

ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati,

e gran masse d'argento e gran vaselli

di dodonèo metallo: una lorica

di forbite azzimine; e rinterzate

maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,

una targa, un cimiero, una celata,

ond'era a pompa ed a difesa armato

Nëottòlemo altero. Il vecchio Anchise

ebbe anch'egli i suoi doni: ebber poi tutti

cavalli e guide; e fu di remi e d'armi

ciascun legno provvisto; e perché 'l vento

che secondo feria, non punto indarno

spirasse, ordine avea di sciôr le vele

già dato Anchise, a cui con molto onore

si fece Eleno avanti, e cosí disse:

  "O ben degno a cui fosse amica e sposo

la gran madre d'Amore: o de' celesti

sovrana cura, ch'a l'eccidio avanzi

già due volte di Troia, eccoti a vista

giunto d'Italia. A questa il corso indrizza:

ma fa mestier di volteggiarla ancora

con lungo giro, poiché lunge assai

è la parte di lei che Apollo accenna.

Or lieto te ne va, padre felice

di sí pietoso figlio. Io, già che l'aura

sí vi spira propizia, indarno a bada

piú non terrovvi". Indi la mesta Andromache

fece con tutti, e con Ascanio al fine

la suprema partenza. Arnesi d'oro

guarniti e ricamati, e drappi e giubbe

di moresco lavoro, ed altri degni

di lui vestiti e fregi, e ricca e larga

copia di biancherie donogli, e disse:

  "Prendi, figlio, da me quest'opre uscite

da le mie mani, e per memoria tienle

del grande e lungo amor che sempre avratti

Andromache d'Ettorre; ultimi doni

che ricevi da' tuoi. Tu mi sei, figlio,

quell'unico sembiante che mi resta

d'Astïanatte mio. Cosí la bocca,

cosí le man, cosí gli occhi movea

quel mio figlio infelice; e, d'anni eguale

a te, del pari or saria teco in fiore".

  Ed io da loro, anzi da me partendo,

con le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:

"Vivete lieti voi, cui già la sorte

vostra è compita: noi di fato in fato,

di mare in mar tapini andrem cercando

quel che voi possedete. A noi l'Italia

tanto ognor se ne va piú lunge, quanto

piú la seguiamo; e voi già la sembianza

d'Ilio e di Troia in pace vi godete,

regno e fattura vostra. Ah! che de l'altra

sia sempre e piú felice e meno esposta

a le forze de' Greci. Io, s'unqua il Tebro

vedrò, se fia giammai che ne' suoi campi

sorgan le mura destinate a noi;

come la nostra Esperia e 'l vostro Epiro

si son vicini, e come ambe le terre

fien vicine e cognate, ed ambe avranno

Dardano per autore, e per fortuna

un caso stesso; cosí d'ambedue

mi proporrò che d'animi e d'amore

siamo una Troia: e ciò perpetua cura

sia de' nostri nipoti". Entrati in mare,

ne spingemmo oltre a gli Ceràuni monti

a Butroto vicini, onde a le spiagge

si fa d'Italia il piú breve tragitto.

Già dechinava il sole, e crescean l'ombre

de' monti opachi, quando a terra vòlti

col desire e co' remi in su la riva

pur n'adducemmo, e procurammo a' corpi

cibo, riposo e sonno. Ancor la notte

non era al mezzo, che del suo stramazzo

surse il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe

con gli orecchi spiati il vento e 'l mare,

mirò le stelle, contemplò l'Arturo,

l'Iadi piovose, i gemini Trïoni,

ed Orïone armato; e, visto il cielo

sereno e 'l mar sicuro, in su la poppa

recossi, e 'l segno dienne. Immantinente

movemmo il campo, e quasi in un baleno

giunti e posti nel mar, vela facemmo.

  Avea l'Aurora già vermiglia e rancia

scolorite le stelle, allor che lunge

scoprimmo, e non ben chiari, i monti in prima,

poscia i liti d'Italia. - Italia! - Acate

gridò primieramente. - Italia! Italia! -

da ciascun legno ritornando allegri

tutti la salutammo. Allora Anchise

con una inghirlandata e piena tazza

in su la poppa alteramente assiso:

"O del pelago - disse - e de la terra,

e de le tempeste numi possenti,

spirate aure seconde, e vèr l'Ausonia

de' nostri legni agevolate il corso".

  Rinforzaronsi i vènti; apparve il porto

piú da vicino; apparve al monte in cima

di Pallade il delúbro. Allor le vele

calammo, e con le prore a terra demmo.

  È di vèr l'Orïente un curvo seno

in guisa d'arco, a cui di corda in vece

sta d'un lungo macigno un dorso avanti,

ove spumoso il mar percuote e frange.

Ne' suoi corni ha due scogli, anzi due torri,

che con due braccia il mar dentro accogliendo,

lo fa porto e l'asconde; e sovra al porto

lunge dal lito è 'l tempio. Ivi smontati,

quattro destrier vie piú che neve bianchi,

che pascevano il campo, al primo incontro

per nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -

guerra ne si minaccia; a guerra additti

sono i cavalli; o pur sono anco al carro

talvolta aggiunti, e van del pari a giogo:

guerra fia dunque in prima, e pace dopo".

Quinci devoti venerammo il nume

de l'armigera Palla, a cui gioiosi

prima il corso indrizzammo. In su la riva

altari ergemmo; e noi d'intorno, come

Eleno ci ammoní, le teste avvolte

di frigio ammanto, a la gran Giuno argiva

preghiere e doni e sacrifici offrimmo.

  Poiché solennemente i prieghi e i vóti

furon compiti, al mar ne radducemmo

immantinente; e rivolgendo i corni

de le velate antenne, il greco ospizio

e 'l sospetto paese abbandonammo.

  E prima il tarentino erculeo seno

(se la sua fama è vera) a vista avemmo;

poscia a rincontro di Lacinia il tempio,

la ròcca di Caulóne e 'l Scillacèo,

onde i navili a sí gran rischio vanno;

indi ne la Trinacria al mar discosto

d'Etna il monte vedemmo, e lunge udimmo

il fremito, il muggito, i tuoni orrendi

che facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi

e dentro a le caverne i flutti e i fuochi,

al ciel ruttando insieme il mare e 'l monte

fiamme, fumo, faville, arene e schiuma.

  Qui disse il vecchio Anchise:

"È forse questa

quella Cariddi? Questi scogli certo,

e questi sassi orrendi Eleno  dianzi

ne profetava. Via, compagni, a' remi

tutti in un tempo, e vincitori usciamo

d'un tal periglio". Palinuro il primo

rivolse la sua vela e la sua proda

al manco lato; e ciò gli altri seguendo,

con le sarte e co' remi in un momento

ne gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo

prima al ciel ne sospinse; indi calando,

ne l'abisso ne trasse. In ciò tre volte

mugghiar sentimmo i cavernosi scogli,

e tre volte rivolti in vèr le stelle

d'umidi sprazzi e di salata schiuma

il ciel vedemmo rugiadoso e molle.

  Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme

ne mancâr sí, che del vïaggio incerti

disavvedutamente a le contrade

de' Ciclopi approdammo. È per se stesso

a' vènti inaccessibile e capace

di molti legni il porto ove giugnemmo;

ma sí d'Etna vicino, che i suoi tuoni

e le sue spaventevoli ruine

lo tempestano ognora. Esce talvolta

da questo monte a l'aura un'atra nube

mista di nero fumo e di roventi

faville, che di cenere e di pece

fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse

vibrano ad ora ad or lucide fiamme

che van lambendo a scolorir le stelle;

e talvolta, le sue viscere stesse

da sé divelte, immani sassi e scogli

liquefatti e combusti al ciel vomendo

in fin dal fondo romoreggia e bolle.

  È fama, che dal fulmine percosso

e non estinto, sotto a questa mole

giace il corpo d'Encèlado superbo;

e che quando per duolo e per lassezza

ei si travolve, o sospirando anela,

si scuote il monte e la Trinacria tutta;

e del ferito petto il foco uscendo

per le caverne mormorando esala,

e tutte intorno le campagne e 'l cielo

di tuoni empie e di pomici e di fumo.

  A questi mostri tutta notte esposti,

entro una selva stemmo, non sapendo

le cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso

ne si togliea, poiché 'l paese conto

non c'era: né stellato, né sereno

si vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,

e tra le nubi era la luna ascosa.

  Già del giorno seguente era il mattino,

e 'l chiaro albore avea l'umido velo

tolto dal mondo, quando ecco dal bosco

ne si fa 'ncontro un non mai visto altrove

di strana e miserabile sembianza,

scarno, smunto e distrutto: una figura

piú di mummia che d'uomo. Avea la barba

lunga, le chiome incolte, indosso un manto

ricucito di spini: orrido tutto,

e squallido e difforme, con le mani

verso il lito distese, a lento passo

venia mercé chiedendo. Era costui,

come prima ne parve e poscia udimmo,

greco, e di quei che militaro a Troia.

Onde noi per Troiani e i nostri arnesi

e le nostr'armi conoscendo, in prima

attonito fermossi; e poscia quasi

rincomato a noi venne e con preghiere

e con pianto ne disse: "Oh! se le stelle,

se gli dèi, se quest'aura onde spiriamo,

generosi e magnanimi Troiani,

serbin la vita a voi, quinci mi tolga

la pietà vostra, e vosco m'adducete,

ove che sia; ché mi fia questo assai;

poi ch'io son greco, e di quei Greci ancora

che venner (lo confesso) a i danni vostri.

Se 'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto

ch'io ne deggia morir, morte mi date,

e (se cosí v'aggrada) a brano a brano

mi lanïate, e ne fate esca a' pesci;

ché se per man d'umana gente io pèro,

perir mi giova". E, cosí detto, a' piedi

ne si gittò. Noi l'esortammo a dire

chi fosse e di che patria e di che sangue,

e qual era il suo caso. Il vecchio Anchise

la sua destra gli porse, e con tal pegno

l'affidò di salute; ond'ei securo

tosto soggiunse: "Itaca è patria mia,

Achemènide il nome. Io fui compagno

de l'infelice Ulisse; e venni a Troia,

la povertà del mio padre Adamasto

fuggendo (cosí povero mai sempre

foss'io stato con lui!); qui capitai

con esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia

con gli altri suoi questo crudele ospizio,

per téma abbandonommi e per oblio

ne l'antro del Ciclopo. È questo un antro

opaco, immenso, che macello è sempre

d'umana carne, onde ancor sempre intriso

è di sanie e di sangue: ed è 'l Ciclopo

un mostro spaventoso, un che col capo

tocca le stelle (o Dio, leva di terra

una tal peste!), ch'a mirarlo solo,

solo a parlarne, orror sento ed angoscia.

Pascesi de le viscere e del sangue

de la misera gente; ed io l'ho visto

con gli occhi miei nel suo speco rovescio

stender le branche e, due presi de' nostri,

rotargli a cerco e sbattergli e schizzarne

infra quei tufi le midolle e gli ossi.

Vist'ho quando le membra de' meschini

tiepide, palpitanti e vive ancora,

di sanguinosa bava il mento asperso,

frangea co' denti a guisa di maciulla.

  Ma nol soffrí senza vendetta Ulisse;

né di se stesso in sí mortal periglio

punto oblïossi; ché non prima steso

lo vide ebbro e satollo a capo chino

giacer ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio

ruttar pezzi di carne e sangue e vino,

che ne restrinse; ed invocati in prima

i santi numi, divisò le veci

sí che parte il tenemmo in terra saldo,

parte, con un gran palo al foco aguzzo,

sopra gli fummo; e quel ch'unico avea

di targa e di febèa lampade in guisa

sotto la torva fronte occhio rinchiuso,

gli trivellammo, vendicando alfine,

col tôr la luce a lui, l'ombre de' nostri.

  Ma voi che fate qui? ché non fuggite,

miseri voi? Fuggite, e senza indugio

tagliate il fune e v'allargate in mare;

che cosí smisurati e cosí fieri,

com'è costui che Polifemo è detto,

ne son via piú di cento in questo lito,

tutti Ciclopi, e tutti antropofàgi,

che vanno il dí per questi monti errando.

Già visto ho la cornuta e scema luna

tornar tre volte luminosa e tonda,

da che son qui tra selve e tra burroni

con le fere vivendo. Entro una rupe

è 'l mio ricetto; e quindi, benché lunge

gli miri, ad or ad or d'avergl'intorno

mi sembra, e 'l suon n'abborro e 'l calpestio

de la voce e de' piè. Pascomi d'erbe,

di còccole e di more e di corniali,

e di tali altri cibi acerbi e fieri:

vita e vitto infelice. In questo tempo,

quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi

ch'altro legno giammai qui capitasse,

salvo ch'i vostri. A voi dunque del tutto

m'addico: e, che che sia, parrammi assai

fuggir questa nefanda e dira gente.

Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplicio

mi date ed ogni morte". A pena il Greco

avea ciò detto, ed ecco in su la vetta

del monte avverso Polifemo apparve.

Sembrato mi sarebbe un altro monte

a cui la gregge sua pascesse intorno,

se non che si movea con essa insieme,

e torreggiando, inverso la marina

per l'usato sentier se ne calava.

Mostro orrendo, difforme e smisurato,

che avea come una grotta oscura in fronte

in vece d'occhio, e per bastone un pino,

onde i passi fermava. Avea d'intorno

la greggia a' piedi, e la sampogna al collo,

quella il suo amore, e questa il suo trastullo,

ond'orbo alleggeriva il duolo in parte.

Giunto a la riva, entrò ne l'onde a guazzo:

e pria de l'occhio la sanguigna cispa

lavossi,