HOME PRIVILEGIA
NE IRROGANTO di
ARTURO
SCHOPENHAUER
AFORISMI
SULLA
SAGGEZZA
NELLA VITA
(dall’opera
PARERGA UND PARALIPOMENA)
TRADUZIONE
OSCAR D.
CHILESOTTI
MILANO
FRATELLI DUMOLARD
1885
AL
LETTORE
______
Odi
profanum vulgus, et arceo.
Q.
HORATII FLACCI. Odarum, Liber III, Ode I
Non per giovarti o per darti piacere,
lettore, non per averne lode o guadagno
(che di tutto ciò non mi cale) tradussi
questo libro,
ma così feci perchè così mi piacque fare.
Vale.
DOTT.
OSCAR CHILESOTTI.
INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO I. — Divisione
fondamentale
CAPITOLO II. — Di ciò che si
è
1. La salute dello spirito e
del corpo
2. La bellezza
3. Il dolore e la noja.
L’intelligenza
CAPITOLO III. — Di ciò che si
ha
CAPITOLO IV. — Di ciò che si
rappresenta
1.
Dell’opinione altrui
2. Il grado
3. L’onore
4. La
gloria
CAPITOLO V. — Parenesi e
massime
1. Massime
generali
2. Circa la
nostra condotta verso noi stessi
3. Circa la
nostra condotta verso gli altri
4. Circa la
nostra condotta di faccia all’andamento del mondo ed alla sorte
CAPITOLO VI. — Sulla
differenza delle età della vita
INTRODUZIONE
la
felicità non è facile a conquistare; è molto difficile trovarla in noi —
impossibile altrove.
CHAMFORT.
Prendo qui
nel suo significato immanente la nozione di saggezza nella vita, cioè
intendo
con ciò l’arte di rendere la vita quanto meglio è possibile piacevole e felice.
Questo
studio
potrebbe egualmente chiamarsi l’Eudemonologia;
sarebbe
dunque un trattato sulla
vita
felice. Questa potrebbe a sua volta essere definita una esistenza che,
considerata dal
punto di vista puramente esteriore, o
piuttosto (trattandosi d’un apprezzamento soggettivo)
che dopo fredda e matura riflessione è
preferibile alla non-esistenza. La vita felice, così
definita, ci attrarrebbe per sè stessa, e
non solo per il timore della morte; ne risulterebbe
inoltre che noi desidereremmo vederla
durare senza fine. Se la vita umana corrisponda, o
possa solamente corrispondere alla nozione d’una
tale esistenza, è questione a cui si sa che
ho risposto con una negativa nella mia Filosofia; l’eudemonologia
invece presuppone una
risposta affermativa. Infatti questa si
fonderebbe sopra tale errore innato, errore che ho
combattuto in principio del capitolo XLIX,
vol. II, della mia opera principale1. In
conseguenza, per poter nondimeno trattare
la questione, dovetti allontanarmi interamente
dal punto di vista elevato, metafisico e
morale a cui conduce la mia vera filosofia. Lo
sviluppo che segue è stabilito adunque, in
una certa misura, sopra una convenzione, nel
senso che esso si mette sotto il punto di
vista usuale ed empirico, e ne conserva l’errore. Il
suo valore inoltre non può essere che
condizionato, dal momento che la parola
eudemonologia non è che un eufemismo. Di più esso non ha
la minima pretesa di esser
completo, sia perchè il tema è
inesauribile, sia perchè io avrei dovuto ripetere ciò che altri
ha già detto.
Io non ricordo che il libro di Cardano: De utilitate ex adversis capienda (dell’utilità
che si può cavare dalle disgrazie), lavoro
degno d’esser letto, che tratti lo stesso argomento
dei presenti aforismi; esso potrà servire a
completare quanto io qui presento. Aristotele, è
vero, ha intercalato una breve eudemonologia
nel capitolo V, libro I, della sua Rettorica, ma
non ha fatto che un’opera assai meschina.
Io non ricorsi a questi miei predecessori; che non
è affar mio il compilare; tanto meno lo
feci perchè in tal modo si perde quell’unità di vedute
che è l’anima delle opere di sì fatta
specie. Insomma, certamente i saggi di tutti i tempi
hanno sempre detto lo stesso, e gli
sciocchi, cioè l’incommensurabile maggioranza di tutti i
tempi, hanno sempre fatto lo stesso, ossia
l’opposto, e sarà sempre così. Anche Voltaire
dice; Noi lascieremo questo mondo tanto stupido e tanto cattivo
quanto lo abbiamo trovato
venendoci.
CAPITOLO PRIMO
Divisione
fondamentale.
Aristotele (Etica a Nicomaco, I, 8) ha
diviso i beni della vita umana in tre classi: beni
esteriori, dell’anima e del corpo. Non
conservando che la divisione in tre io dico che ciò
che distingue le sorti dei mortali può
essere ridotto a tre condizioni fondamentali. Esse
sono:
1.° Ciò che si è: dunque la personalità nel
suo senso più lato. Per conseguenza qui si
comprende la salute, la forza, la bellezza,
il temperamento, il carattere morale, l’intelligenza
ed il suo sviluppo.
2.° Ciò che si ha: dunque proprietà e ricchezza
d’ogni natura.
3.° Ciò che si rappresenta: è noto che
con questa espressione s’intende la maniera
colla quale altri si figura un individuo,
quindi ciò che questi è nell’altrui rappresentazione.
Tutto ciò consiste dunque nell’opinione
altrui a suo riguardo, e si divide in onore, grado e
gloria.
Le differenze della prima categoria, di cui
abbiamo da occuparci, sono quelle che la
natura stessa ha posto fra gli uomini;
d’onde si può già inferire che la loro influenza sulla
felicità o sull’infelicità sarà più
essenziale e più penetrante che quella delle differenze che
derivano dalle convenzioni umane e che noi
abbiamo ricordato nelle due rubriche seguenti.
I veri
vantaggi personali, quali una gran mente o un gran cuore, sono
in rapporto ad ogni
vantaggio di grado, di nascita, pur anche
regale, di ricchezza, ecc., ciò che i re veri sono
rispetto ai re sul teatro. Già Metrodoro,
il primo discepolo d’Epicuro, aveva intitolato un
capitolo; Le cause che vengono da noi contribuiscono alla felicità più
di quelle che
nascono dalle cose.
E, senza dubbio, per la felicità
dell’individuo, pur anche in tutto il suo modo di
essere, la cosa principale sarà
evidentemente quello che si trova o si produce in lui. Infatti è
là che risiede immediatamente il suo
benessere o la sua infelicità; insomma è sotto questa
forma che si manifesta da bel principio il
risultato della sua sensibilità, della sua volontà,
del suo pensiero; tutto ciò che si trova al
di fuori non ha che un’influenza indiretta. Perciò
le medesime circostanze, i medesimi
avvenimenti esterni impressionano ogni individuo in
modo affatto differente, e, quantunque
tutti siano posti nello stesso mezzo, ognuno vive in
un mondo differente. Perchè ciascuno non ha
direttamente a che fare se non colle sue
proprie sensazioni, e coi movimenti della
sua propria volontà: le cose esterne non hanno
influenza su lui che in quanto determinino
questi fenomeni interni. Il mondo in cui si vive
dipende dal modo d’intenderlo, che è
differente per ogni testa; secondo la natura delle
intelligenze esso sembrerà povero, scipito
e volgare, o ricco, interessante ed importante.
Mentre un tale, per esempio, invidia un tal
altro per le avventure interessanti toccategli
nella sua vita, dovrebbe piuttosto
invidiargli il dono di concezione che ha dato a questi
avvenimenti l’importanza che assumono nella
sua descrizione, perchè il medesimo fatto che
si presenta in un modo così interessante
nella testa d’un uomo di spirito, non offrirebbe più,
concepito da un cervello grossolano e
triviale, che una scena insipida della vita d’ogni
giorno. Ciò si manifesta al più alto grado
in molte poesie di Goethe e di Byron, il fondo
delle quali sta evidentemente sopra un dato
reale; uno sciocco, leggendole, è capace
d’invidiare al poeta la graziosa avventura
in luogo d’invidiargli la potente immaginazione
che d’un avvenimento abbastanza comune, ha
saputo fare qualche cosa di così grande e di
così bello. Egualmente il melanconico vedrà
una scena di tragedia là dove il sanguigno non
vede che un conflitto interessante, ed il
flemmatico un caso insignificante.
Tutto questo proviene dal fatto che ogni
realtà, cioè ogni attualità
compita, si
compone di due metà, il soggetto e
l’oggetto, ma così necessariamente e così strettamente
unite come l’ossigeno e l’idrogeno
nell’acqua. Identica la metà oggettiva, e differente la
soggettiva, o viceversa, la realtà attuale
sarà tutt’altra; la più bella e la migliore metà
oggettiva, quando la soggettiva è
grossolana, di trista qualità, non darà mai che una cattiva
realtà ed attualità, simile ad un bel sito
visto col brutto tempo o riflesso da una camera
oscura difettosa. Per parlare più
volgarmente ognuno è ficcato nella sua coscienza come
nella sua pelle, e non vive immediatamente
che in essa; così dal di fuori vi sarà da portargli
ben poco aiuto. Sulle scene Tizio
rappresenta i principi, Caio i magistrati, Sempronio i
lacchè, o i soldati, o i generali, e così
di seguito. Ma queste differenze non esistono che
all’esterno; all’interno, come nocciuolo
del personaggio, è sepolto in tutti lo stesso essere,
vale a dire un povero commediante colle sue
miserie e coi suoi affanni.
Nella vita succede lo stesso. Le differenze
di grado e di ricchezza danno a ciascuno la
parte da rappresentare, a cui non
corrisponde affatto una differenza interna di felicità e di
benessere; anche qui è posto in ciascheduno
lo stesso povero bietolone colle sue miserie e
coi suoi fastidî che possono differire
presso i singoli individui quanto al fondo, ma che
quanto alla forma, cioè in rapporto
all’essere proprio, sono presso a poco gli stessi per tutti;
havvi certo differenza nel grado, ma questa
non dipende minimamente dalla condizione o
dalla ricchezza, vale a dire dalla parte da
rappresentare.
Come tutto ciò che succede, tutto ciò che
esiste per l’uomo, non succede e non esiste
immediatamente che nella sua coscienza,
evidentemente la qualità della coscienza sarà
l’essenziale prossimo, e nella maggior
parte dei casi tutto dipenderà da questa meglio che
dalle imagini che vi si presentano. Tutti
gli splendori, tutte le gioie son povere, riflesse dalla
coscienza appannata d’un imbecille,
rispetto alla coscienza d’un Cervantes che in una
squallida prigione scrive il Don Chisciotte.
La metà oggettiva dell’attualità e della
realtà è fra le mani della sorte e quindi
mutabile; la metà soggettiva la siamo noi
stessi, in conseguenza essa è immutabile nella sua
parte essenziale. Così malgrado tutti i
cambiamenti esterni la vita d’ogni uomo porta da un
capo all’altro lo stesso carattere; la si
può paragonare ad un seguito di variazioni sul
medesimo tema. Nessuno può sortire dalla
propria individualità. Per l’uomo avviene come
per l’animale; questo, qualunque siano le
condizioni in cui lo si mette, resta confinato nel
piccolo cerchio che la natura ha
irrevocabilmente tracciato intorno al suo essere, ciò che
spiega perchè, per esempio, tutti i nostri
sforzi per la felicità dell’animale che amiamo,
devono mantenersi per forza fra confini
assai ristretti, precisamente in causa di questa
limitazione del suo essere e della sua
coscienza; del pari l’individualità dell’uomo si trova
fissata anticipatamente la misura della sua
possibile felicità. Sono in special modo i confini
delle facoltà intellettuali che determinano
una volta per sempre l’attitudine alle gioie
d’ordine superiore.
Se tali facoltà sono limitate, tutti gli
sforzi esterni, tutto quanto gli uomini o la fortuna
facessero in suo favore, tutto sarà
impotente a trasportare l’individualità oltre la misura
della felicità e del benessere ordinario,
mezzo animale; essa dovrà contentarsi dei piaceri
sensuali, d’una vita intima ed allegra in famiglia,
d’una società di bassa lega o di
passatempi volgari. L’istruzione stessa,
quantunque abbia una certa azione, non saprebbe
insomma allargare di molto questo cerchio,
perchè i piaceri più elevati, più varii e più
durabili sono quelli dello spirito, per
quanto falsa possa essere in gioventù la nostra
opinione su tale argomento; e questi
piaceri dipendono sopratutto dalla forza intellettuale. È
dunque facile veder chiaramente quanto la
nostra felicità dipenda da ciò che siamo,
dalla
nostra individualità, mentre non si tiene
conto il più delle volte che di ciò che abbiamo o di
ciò che rappresentiamo. La sorte però può migliorarsi, inoltre chi
possiede la ricchezza
interna non le domanderà gran cosa; ma lo
sciocco resterà sciocco, lo scimunito sarà
scimunito fino alla fine, foss’anche in
paradiso fra mezzo le Urì. Goethe dice: Popolo, e
lacchè, e conquistatori in ogni tempo riconoscono che il
bene supremo dei figli della terra
e solamente la personalità. (W. O.
Divan).
Che il soggettivo sia incomparabilmente più essenziale alla
nostra felicità ed alle
nostre gioie dell’oggettivo ci viene
provato in tutto, dalla fame che è la miglior cucina, dal
vegliardo che guarda con indifferenza la
deità che il giovine idolatra, fino all’estremo
vertice ove troviamo la vita dell’uomo di
genio e del santo. La salute sopratutto prevale
talmente sui beni esteriori che in verità
un mendicante sano è più felice di un re malato. Un
temperamento calmo e giocondo, proveniente
da una salute perfetta e da una eccellente
organizzazione, una mente lucida, viva,
acuta e giusta, una volontà moderata e dolce, e
come risultato una buona coscienza, ecco i
vantaggi che nessun grado, nessuna ricchezza
saprebbero surrogare. Ciò che un uomo è per
sè stesso, ciò che l’accompagna nella
solitudine, e ciò che nessuno saprebbe
dargli o togliergli, è evidentemente più essenziale
per lui che tutto quello ch’egli può
possedere o che può essere per gli occhi altrui. Un uomo
di spirito, nella solitudine la più
assoluta, trova nei suoi pensieri e nella sua fantasia di che
spassarsi dilettevolmente, mentre
l’individuo povero di spirito potrà variare all’infinito le
feste, gli spettacoli, i passeggi e i
divertimenti senza riuscire a scacciar la noia che lo
tortura. Un buon carattere, moderato e dolce,
potrà esser contento nell’indigenza mentre
tutte le ricchezze del mondo non saprebbero
soddisfare un carattere avido, invidioso e
malvagio. In quanto all’uomo dotato in
permanenza d’una individualità straordinaria,
intellettualmente superiore, può far senza
della maggior parte di quei piaceri a cui
generalmente aspira la gente; anzi questi
non sono per lui che un disturbo ed un peso.
Orazio dice parlando di sè; V’è chi possede gemme, marmi, avorj,
statuette etrusche,
quadri, argento, vesti tinte di porpora di Getulia; v’è chi
non si cura d’averne (Ep. II, L. II,
v. 180 e seg.).
E Socrate alla vista d’oggetti di lusso
esposti per la vendita diceva: Quante
cose vi
sono di cui non ho bisogno!
Così la condizione prima e più essenziale
per la felicità della vita è ciò che noi siamo,
la personalità; a spiegarlo basterebbe il
fatto che essa agisce costantemente ed in ogni
circostanza, che inoltre non è soggetta a
peripezie come i beni delle altre due categorie, e
che non può esserci tolta. In questo senso
il suo valore può esser considerato come assoluto,
in opposizione al valore solamente relativo
degli altri beni. Ne risulta che l’uomo è molto
meno suscettibile d’esser modificato dal
mondo esterno di quello che non si sarebbe
disposti a crederlo. Solo il tempo, nel suo
potere sovrano, esercita egualmente anche qui i
suoi diritti; le facoltà fisiche ed
intellettuali s’infiacchiscono sotto i suoi colpi: il carattere
morale solo rimane inattaccabile.
Sotto questo rapporto i beni delle due
ultime categorie avrebbero un vantaggio sui
beni della prima, siccome quelli che il
tempo non toglie direttamente. Un altro vantaggio
sarebbe che, essendo posti fuori di noi,
sono accessibili di loro natura, e che ciascuno ha per
lo meno la possibilità di acquistarseli,
mentre ciò che è in noi, il soggettivo, è sottratto al
nostro potere; stabilito per diritto divino, esso si
conserva invariabile per tutta la vita. Così
l’idea seguente contiene una inesorabile
verità:
«Come nel giorno che t’ha dato al mondo, il
sole era là per salutare i pianeti, tu
sei cresciuto senza interruzione secondo la
legge con cui cominciasti. Tale è il tuo
destino; tu non puoi sfuggire a te stesso;
così parlavano già le Sibille, così i Profeti;
nè tempo, nè potenza alcuna spezza l’impronta
che si sviluppa nel corso della vita.»
«GOETHE.»
Quanto possiamo fare in questo riguardo si
è d’impiegare la personalità,
quale ci fu data, al nostro maggior
profitto; in conseguenza non coltivare che le
aspirazioni che le si confanno, non cercare
che lo sviluppo che le è appropriato
evitandone qualunque altro, non sceglier
quindi che lo stato, l’occupazione, il genere di vita
che le convengono.
Un uomo erculeo, dotato d’una forza
muscolare straordinaria, costretto dalle
circostanze esterne a darsi ad
un’occupazione sedentaria, ad un lavoro manuale, paziente e
penoso, o peggio ancora allo studio ed a
lavori di mente, occupazioni che reclamano forze
differenti, non sviluppate in lui, e che
lasciano precisamente senza impiego le forze che gli
sono caratteristiche, un tal uomo sarà
infelice tutta la vita; sarà anche molto più infelice
colui nel quale le facoltà intellettuali
prevalgono di molto, e che è obbligato a lasciarle
senza sviluppo e senza impiego per
occuparsi di faccende volgari che non domanda,
oppure, e sopratutto, d’un lavoro corporale
per cui la sua forza fisica non è sufficiente.
Tuttavia, nel caso, bisogna anche evitare,
specialmente nell’età giovane, lo scoglio della
presunzione e non attribuirsi un eccesso di
forze che non si abbia.
Dalla preponderanza bene stabilita della
nostra prima categoria sulle altre due, risulta
ancora che è più saggio adoprarsi per
conservare la salute e per sviluppare le proprie facoltà
che non per acquistare ricchezze, ciò che
non bisogna però interpretare nel senso che
occorra trascurare l’acquisto delle cose
necessarie e convenienti. Ma la ricchezza
propriamente detta, vale a dire un grande
superfluo, contribuisce poco alla nostra felicità;
per questo molti ricchi si sentono infelici
perchè sono sprovveduti di una vera coltura dello
spirito, di cognizioni e quindi di ogni
interesse oggettivo che potrebbe renderli atti ad
un’occupazione intellettuale. Perocchè
quanto la ricchezza può fornire al di là della
soddisfazione dei bisogni reali e naturali
ha un’influenza piccolissima sul nostro vero
benessere; questo è piuttosto turbato dalle
numerose ed inevitabili cure che porta con sè la
conservazione d’una grande fortuna.
Tuttavia gli uomini sono mille volte più occupati ad
acquistar la ricchezza che la coltura intellettuale,
quantunque ciò che si è contribuisca
di
certo alla nostra felicità più di ciò che
si ha.
Quante persone non vediamo noi diligenti
come formiche ed occupate da mattina a
sera ad accrescere una ricchezza già
acquistata! Essi non conoscono nulla al di fuori del
ristretto orizzonte che racchiude i mezzi
di riuscire al loro scopo; il loro spirito è vuoto, e
quindi inaccessibile a tutt’altra
occupazione. I piaceri i più elevati, i diletti intellettuali sono
per costoro impossibili; invano essi cercano
di sostituirli con divertimenti fugaci, sensuali,
facili ma costosi, che si permettono di
tempo in tempo. Al termine della loro vita essi
trovansi davanti come risultato, quando la
sorte fu loro propizia, un gran monte d’oro, di
cui lasciano allora agli eredi la cura di
aumentare oppure di dissipare. Una tale esistenza,
benchè condotta con apparenza seriissima ed
importantissima, è dunque tanto insensata
come un’altra che inalberasse apertamente
per insegna la mazza della follia2.
Così l’essenziale per la felicità della
vita è ciò che si ha in
sè stessi. È unicamente
perchè la dose ne è d’ordinario così
piccola che la maggior parte di coloro che sono già
sortiti vittoriosi dalla lotta contro il
bisogno, si sentono in fondo tanto infelici come chi si
trova ancora nella mischia. La vacuità del
loro interno, la scipitezza della loro intelligenza,
la povertà del loro spirito, li spingono a
cercare la compagnia, ma una compagnia composta
di persone a loro simili, perchè similis simile gaudet. Allora
comincia in comune la caccia
ai passatempi ed ai divertimenti, ch’essi
cercano da principio nei godimenti sensuali, nei
piaceri d’ogni specie, ed alla fine nelle
orgie. La sorgente di questa funesta dissipazione, la
quale in un tempo incredibilmente breve fa
disperdere grosse eredità a tanti figli di famiglia
entrati ricchi nella vita, non è altra
davvero che la noia risultante da questa povertà e da
questo vuoto dello spirito che abbiamo or
ora descritto. Un giovane lanciato così nel
mondo, ricco al di fuori ma povero al di
dentro, si sforza inutilmente di supplire al difetto
della ricchezza interna coll’esterna; ei
vuole ricever tutto dal di
fuori, simile a quei vecchi
che cercano d’attinger nuove forze nel
fiato delle giovinette. In tal modo la povertà interna
ha finito col produrre anche la povertà
esterna.
Non credo occorra metter in rilievo
l’importanza delle due altre categorie dei beni
della vita umana, perchè le ricchezze sono
oggidì troppo universalmente in pregio per aver
bisogno d’esser raccomandate. La terza
categoria è di una natura molto eterea a confronto
della seconda, visto che essa non consiste
che nell’opinione altrui. Tuttavia è ammesso che
ciascuno possa aspirare all’onore, cioè ad un buon nome; ad un grado può aspirare
unicamente chi serve lo Stato, e in quanto
concerne la gloria non ve
n’ha che infinitamente
pochi che possano pretendervi. L’onore è
considerato come un bene inapprezzabile, e la
gloria come la cosa più eccellente che
l’uomo possa acquistare; essa è il toson d’oro degli
eletti; invece solo gli sciocchi
preferiranno il grado alle ricchezze. La seconda e la terza
categoria hanno inoltre una sull’altra ciò
che si dice un’azione reciproca; quindi l’adagio di
Petronio; «Habes, haberis»3 è vero, e, in senso inverso, la buona opinione
altrui, sotto tutte
le forme, ci aiuta soventi volte ad
acquistar la ricchezza.
_____
CAPITOLO II
___
Di ciò che si è.
Noi abbiamo già conosciuto in modo generale
che ciò che si è contribuisce
alla nostra
felicità più di ciò che si ha o di ciò che si rappresenta. La cosa
principale è sempre ciò che
un uomo è, in conseguenza ciò che possede
in lui stesso, perocchè la sua individualità
l’accompagna dappertutto e dovunque, e
colora di sua tinta tutti gli avvenimenti della vita.
In ogni cosa, ed in ogni occasione quello
che a bella prima gli fa impressione è lui stesso.
Questo è già vero per i piaceri materiali,
e, a più forte ragione, per quelli dell’anima. Così
l’espressione inglese: To enjoy one’s self è molto
ben trovata; non si dice mica in inglese:
Parigi gli piace, si dice invece: egli si
piace a Parigi (He enjoys himself at Paris).
1. La
salute dello spirito e del corpo.
Ma se l’individualità è di qualità cattiva,
tutte le gioie saranno come un vino squisito
in una bocca impregnata di fiele. Così
dunque, nella buona come nella cattiva fortuna, e
salvo il caso di qualche grande disgrazia,
ciò che tocca ad un uomo nella sua vita è
d’importanza più piccola che la maniera con
cui egli lo sente, vale a
dire la natura ed il
grado della sua sensibilità sotto tutti i
rapporti. Ciò che abbiamo in noi stessi e da noi stessi,
in una parola la personalità ed il suo
valore, ecco il solo fattore immediato della nostra
felicità e del nostro benessere. Tutti gli
altri agiscono indirettamente; la loro azione quindi
può essere annullata, ma quella della
personalità mai.
Di qui viene che l’invidia più
irreconciliabile e nello stesso tempo nascosta colla
massima cura è quella che ha per oggetto i
vantaggi personali. Inoltre la qualità della
coscienza è la sola cosa permanente e
persistente; l’individualità agisce costantemente,
continuamente, e più o meno, in ogni
momento; tutte le altre condizioni non hanno che
un’influenza temporanea, passaggera,
d’occasione, e possono anche cangiare o sparire.
Aristotele dice: La natura è eterna, non le cose (Mor. a
Eudemo, VII, 2). È per questo che
noi sopportiamo con più rassegnazione la
sventura la cui causa è tutta esterna, piuttosto che
quella che ci colpisce per nostra colpa;
perchè la sorte può cangiare, ma la nostra propria
qualità è immutabile. Quindi i beni
soggettivi, quali un carattere nobile, una testa possente,
un umore gaio, un corpo bene organizzato ed
in perfetta salute, o, in generale, mens
sana in
corpore sano (Giovenale sat. X, 355), sono beni supremi,
ed importantissimi alla nostra
felicità; perciò dovremmo attendere molto
più al loro sviluppo ed alla loro conservazione
che non al possesso dei beni esterni e
dell’onore esterno.
Ma ciò che sopra tutto contribuisce più
direttamente alla nostra felicità è un umore
allegro, perocchè questa buona qualità
trova subito la ricompensa in sè stessa. Infatti chi è
gaio ha sempre motivo d’esserlo per la
stessa ragione ch’egli lo è. Niente può sostituire così
completamente tutti gli altri beni come
questa qualità, mentre essa stessa non può esser
surrogata da cosa alcuna. Che un uomo sia
giovane, bello, ricco e stimato, per poter
giudicare sulla sua felicità sarà questione
di sapere se, oltre a ciò, egli sia gaio; in cambio
s’egli è gaio, poco importa che sia giovane
o vecchio, ben fatto o gobbo, povero o ricco;
egli è felice. Nella mia prima giovinezza
ho letto un giorno in un vecchio libro la frase; Chi
ride molto è felice, chi piange molto è infelice; l’osservazione
è molto sciocca, ma a causa
della sua verità così semplice non ho
potuto dimenticarla, quantunque essa sia il superlativo
d’un truism (in inglese verità triviale). Così
dobbiamo, ogni volta che si presenta, aprire
alla gaiezza porte e fenestre, giacchè essa
non giunge mai di contrattempo, e non esitare a
riceverla, come facciamo di sovente,
volendo prima renderci conto se abbiamo bene in ogni
riguardo motivo d’esser contenti, od anche
per paura che essa non ci distragga da serie
meditazioni o da gravi cure quando è molto
incerto che queste possano migliorare la nostra
condizione, mentre la gaiezza, è un
beneficio immediato. Essa sola è, per così dire, il
danaro contante della felicità; tutto il
resto non ne è che il biglietto di banca; perocchè essa
sola può darci la felicità in un presente
immediato; così è la gaiezza il supremo bene per
esseri la cui realtà ha la forma di
un’attualità indivisibile tra due tempi infiniti. Noi
dovremmo dunque aspirare anzitutto ad
acquistare ed a conservare questo bene. È certo
d’altronde che niente contribuisce alla
gaiezza meno della ricchezza, e che niente vi
contribuisce meglio della salute: si è
nelle classi inferiori, fra i lavoranti e particolarmente
fra i contadini che troviamo i visi allegri
e contenti; nei ricchi e nei grandi dominano le
sembianze melanconiche. Dovremmo perciò
applicarci sopratutto a conservare questo stato
perfetto di salute di cui la gaiezza appare
come fioritura. Per ottener questo si sa che
bisogna fuggire ogni eccesso ed ogni
disordine, evitare ogni emozione violenta e penosa,
come pure ogni applicazione dello spirito
soverchia o troppo prolungata; bisogna ancora
prendere ogni giorno due ore d’esercizio
rapido all’aria libera, bagni frequenti d’acqua
fredda, ed altre misure dietetiche dello
stesso genere. Non v’è salute se non ci si dà ogni
giorno abbastanza movimento; tutte le
funzioni della vita per compiersi regolarmente
esigono il movimento degli organi per cui
si compiono, e dell’insieme del corpo.
Aristotele ha detto con ragione: la vita è nel movimento. Infatti la
vita consiste
essenzialmente nel movimento. All’interno
d’ogni organismo regna un movimento
incessante e rapido: il cuore nel suo
doppio movimento di sistole e diastole, batte
impetuoso ed instancabile; 28 pulsazioni
gli bastano per mandare la massa intiera del
sangue nel torrente della grande e della
piccola circolazione; il polmone aspira senza mai
smettere come una macchina a vapore;
gl’intestini si contraggono senza posa d’un
movimento peristaltico; tutte le glandule assorbono
e danno secrezioni incessantemente; il
cervello stesso ha un doppio movimento per
ogni battito del cuore e per ogni aspirazione
del polmone. Se, come succede nel genere di
vita interamente sedentario di tante persone, il
movimento esterno manca quasi totalmente,
ne risulta una sproporzione innaturale e
dannosa tra il riposo esterno ed il tumulto
interno. Perchè questo perpetuo moto all’interno
richiede anche d’esser aiutato qualche poco
dal moto all’esterno; tale stato sproporzionato è
analogo a quello che nascerebbe quando
fossimo tenuti a non lasciar scorgere al di fuori
segno visibile di un’emozione che ci fa
bollire il sangue internamente. Gli alberi stessi, per
prosperare, hanno bisogno d’esser agitati
dal vento. È questa una regola assoluta che si può
esprimere nel modo più conciso in latino: Omnis motus, quo celerior, eo magis motus
(quanto più celere, tanto più ogni
movimento è movimento).
Per meglio renderci conto quanto la nostra
felicità dipenda da una disposizione
all’allegria, e questa dallo stato di
salute, non abbiamo che a confrontare l’impressione che
producono su noi le stesse circostanze
esterne o gli stessi avvenimenti, nei giorni di salute e
di forza con quella che è prodotta, quando
uno stato di malattia ci dispone ad esser di
cattivo umore ed inquieti. Non è già ciò
che sono oggettivamente ed in realtà le cose, ma
ciò che esse sono per noi, nella nostra
percezione, che ci rende felici o infelici. È quanto
esprime assai bene questa sentenza
d’Epitteto: Ciò che
commuove gli uomini non son le
cose, ma l’opinione sulle cose. In tesi
generale i nove decimi della nostra felicità riposano
esclusivamente sulla salute. Con essa tutto
doventa sorgente di piacere; senza di essa invece
noi non sapremmo gustare un bene esterno di
qual si sia natura; pur anche gli altri beni
soggettivi, come le qualità
dell’intelligenza, del cuore, del carattere, sono diminuite e
guastate dallo stato di malattia. Così non
è senza ragione che noi prendiamo notizia
scambievolmente sullo stato della nostra
salute e che ci desideriamo reciprocamente di star
bene, perchè proprio in ciò v’ha quanto è
più essenzialmente importante per là felicità
umana. Ne segue adunque che è insigne
pazzia sacrificare la propria salute a checchessia,
ricchezza, carriera, studii, gloria e sopra
tutto alla voluttà, ed ai piaceri fuggittivi. Al
contrario tutto deve cedere il passo alla
salute.
Per quanto grande sia l’influenza della
salute su questa gaiezza così essenziale alla
nostra felicità, non di meno questa non
dipende unicamente dalla prima, perchè con una
salute perfetta si può avere un
temperamento melanconico ed una disposizione
predominante alla tristezza. Ne risiede
certamente la causa nella costituzione originaria,
quindi immutabile, dell’organismo e più
specialmente nel rapporto più o meno normale
della sensibilità con l’irritabilità e con
la riproduttività. Una preponderanza anormale della
sensibilità produrrà l’ineguaglianza
d’umore, una gaiezza periodicamente esagerata ed un
predominio della melanconia. Siccome il
genio è determinato da un eccesso della forza
nervosa, vale a dire della sensibilità,
Aristotele ha osservato con ragione che tutti gli uomini
illustri ed eminenti sono melanconici: Tutti gli uomini che sono nati o alla
filosofia, o alla
politica, o alla poesia o alle arti si mostrano melanconici (Prob. 30,
1). Cicerone ebbe
senza dubbio in vista questo passaggio
nella relazione tanto citata: Aristotele
disse tutti gli
uomini d’ingegno esser melanconici (Tusc. I,
33). Shakespeare ha dipinto molto
piacevolmente questa grande diversità del
temperamento generale; La
natura si diverte
qualche volta a formare esseri curiosi. V’ha chi si dà a
fare continuamente gli occhietti
piccoli e che si mette a ridere come un pappagallo davanti
un semplice suonator di
cornamusa, e v’ha chi tiene una tale fisonomia d’aceto che
non scoprirebbe i suoi denti,
pur per sorridere, quand’anche il grave Nestore giurasse
ch’ei ha udito or ora uno scherzo
dei più ameni. (Il
Mercante di Venezia, scena I).
È questa stessa diversità che Platone
disegna colle parole δυσκολος (d’umore
difficile), ed
ευκολος (d’umore facile). Essa può esser
ridotta alla suscettibilità, molto
diversa nei diversi individui, per le
impressioni piacevoli o disaggradevoli, in conseguenza
della quale Tizio ride ancora di ciò che
mette Cajo in disperazione. E di più la suscettibilità
per le impressioni piacevoli è d’ordinario
tanto più piccola quanto quella per le impressioni
disaggradevoli è più forte, e viceversa. A
probabilità eguali di buono o cattivo esito in un
affare, il
δυσκολος si stizzerà o si affliggerà
dell’insuccesso, e non si rallegrerà per la
riuscita;
l’ευκολος invece non sarà nè stizzito nè
afflitto per il cattivo esito, e sarà contento
per il buon successo. Se, nove volte su dieci,
il δυσκολος riesce ne’ suoi progetti,
ei non si
rallegrerà per le nove volte riescite a
bene, ma sarà triste per il cattivo esito della decima;
nel caso inverso
l’ευκολος sarà consolato e contento per
l’unico successo felice. Però non è
facile trovare un male che non abbia alcun
compenso; così succede che i δυσκολος,
cioè i
caratteri cupi ed inquieti, avranno, è
vero, a sopportare alla fin fine più disgrazie e dolori
immaginari che non i caratteri allegri e
spensierati, ma in cambio incontreranno meno
sventure effettive, perchè chi vede tutto
nero, chi teme sempre il peggio e prende le sue
misure in conseguenza, non avrà delusioni
così frequenti come colui che dà colore e
prospettiva ridente ad ogni cosa. Nondimeno
quando un’affezione morbosa del sistema
nervoso o dell’apparecchio digestivo viene
a dar forza ad una δυσκολια innata,
allora
questa può giungere a quell’alto grado in
cui un malessere permanente produce il disgusto
della vita, d’onde proviene l’inclinazione
al suicidio. Il quale può allora esser provocato
dalle più piccole contrarietà; ad un grado
molto elevato del male non havvi nemmeno
bisogno di motivo, per risolvervisi basta
la sola permanenza del malessere. Il suicidio si
compie allora con sì fredda riflessione e
con sì inflessibile risoluzione che a questo stadio il
malato, posto d’ordinario sotto custodia,
profitta, lo spirito costantemente fisso su questa
idea, del primo momento in cui la
sorveglianza sia rilassata per ricorrere senza esitazione,
senza lotta e senza paura, a questo mezzo
di sollievo per lui così naturale in questo
momento, e così ben venuto. Esquirol ha
descritto molto a lungo tale stato nel suo Trattato
delle malattie mentali. È certo che l’uomo il più
sano, e fors’anco il più gaio, potrà,
capitando il caso, determinarsi al
suicidio; ciò succederà quando l’intensità dei dolori o
d’una sventura prossima ed inevitabile sarà
più forte dei terrori della morte. Non v’è
differenza che nella potenza più o meno
grande del motivo determinante, potenza che è in
rapporto inverso colla
δυσκολια. Quanto più questa è grande,
tanto più il motivo potrà esser
piccolo; al contrario più
l’ευκολια, come pure la salute che ne è la
base, è grande, più grave
dovrà essere motivo. Vi saranno dunque
gradi innumerevoli tra questi due casi estremi di
suicidio, tra quello cioè provocato
puramente da una recrudescenza morbosa della
δυσκολια
innata, e quello dell’uomo sano ed allegro,
proveniente da cause affatto oggettive.
2. La
bellezza.
La bellezza è analoga in parte alla salute.
Questa qualità soggettiva, benchè non
contribuisca che indirettamente alla
felicità coll’impressione che produce sugli altri, ha
nondimeno una grande importanza anche per
il sesso mascolino. La bellezza è una lettera
aperta di raccomandazione che ci guadagna i
cuori anticipatamente; specie ad essa
s’applicano i versi di Omero; Non bisogna sdegnare i doni gloriosi
degli immortali che soli
possono dare e che nessuno può accettare o rifiutare a suo
piacere.
3. Il
dolore, e la noia. L’intelligenza.
Un semplice colpo d’occhio ci fa scoprire
due nemici della felicità umana; il dolore e
la noia. Inoltre possiamo osservare che a
misura che riusciamo ad allontanarci dall’uno, ci
avviciniamo al secondo, e reciprocamente;
di maniera che la nostra vita rappresenta in
realtà una oscillazione più o meno forte
tra i due. Ciò deriva dal doppio antagonismo in cui
ciascuno di essi si trova verso l’altro,
antagonismo esterno od oggettivo, ed antagonismo
interno o soggettivo. Infatti esteriormente
il bisogno e la privazione generano il dolore; per
contraccambio, gli agi e l’abbondanza fanno
nascere la noia. Si è per questo che vediamo la
classe inferiore del popolo lottare
incessantemente contro il bisogno, dunque contro il
dolore, ed al contrario, la classe ricca ed
altolocata alle prese permanentemente, spesso
disperatamente, contro la noia.
Internamente, o soggettivamente,
l’antagonismo si fonda sul fatto che in ogni
individuo la facilità ad esser
impressionato da uno di questi mali è in rapporto inverso colla
facilità ad esser impressionato dall’altro;
perocchè tale suscettibilità è determinata dalla
misura delle forze intellettuali. Infatti
una mente ottusa è sempre accompagnata da
impressioni grossolane e da una certa
mancanza d’irritabilità, ciò che rende l’individuo
poco accessibile ai dolori ed ai dispiaceri
d’ogni specie e d’ogni grado; ma questa stessa
qualità ottusa dell’intelligenza produce
d’altronde quel vuoto
interno che è stampato su
tanti visi e che si lascia scorgere per
un’attenzione sempre svegliata su tutti gli avvenimenti,
anche più insignificanti, del mondo
esterno; questo vuoto è appunto la vera sorgente della
noia, e chi ne soffre aspira con avidità ad
eccitamenti esterni, allo scopo di mettere in
movimento lo spirito ed il cuore non importa
con qual mezzo. Così egli non è difficile nella
scelta dei mezzi; lo si vede abbastanza
alla miserabile meschinità di svaghi a cui si
abbandonano gli uomini, al genere di
società e di conversazioni che cercano, non meno che
al numero immenso di fannulloni e di
balordi che vanno pel mondo. È principalmente
questo vuoto interno che li spinge alla
ricerca d’ogni specie di riunioni, di divertimenti, di
piaceri e di lusso, ricerca che conduce
tanta gente alla dissipazione e finalmente alla
miseria.
Nessuna cosa mette in guardia contro tali
traviamenti più sicuramente della ricchezza
interna, la ricchezza dello spirito, perchè questo
lascia tanto meno posto alla noia quanto
più avvicina alla superiorità. L’attività
incessante dei pensieri, il loro continuo avvicendarsi
in presenza delle diverse manifestazioni
del mondo interno ed esterno, la potenza e la
capacità di combinazioni sempre variate
mettono una testa eminente, salvo nei momenti di
fatica, fuori affatto dall’attacco della
noia. Ma d’altronde un’intelligenza superiore ha per
condizione immediata una sensibilità più
viva, e per radice un più grande impeto della
volontà e per conseguenza della passione;
dall’unione di queste due condizioni deriva una
intensità più considerevole di ogni
emozione ed una sensibilità esagerata per i dolori morali
ed eziandio pei fisici, come pure una
grande intolleranza di faccia al minimo ostacolo, od
anche al minimo sconcerto.
Ciò che contribuisce altresì potentemente a
questi effetti si è la vivacità prodotta dalla
forza dell’immaginazione. Quanto dicemmo si
applica, mantenuta ogni proporzione, a tutti
i gradi intermediarî che dividono il vasto
intervallo compreso tra l’imbecillità la più ottusa
ed il più gran genio. In conseguenza,
oggettivamente come pure soggettivamente, ogni
individuo si trova tanto più vicino ad una
delle sorgenti delle umane sventure quanto più è
lontano dall’altra. La sua inclinazione
naturale lo porterà dunque, sotto questo rapporto, ad
accomodare quanto meglio possibile
l’oggettivo col soggettivo, vale a dire a premunirsi
come meglio potrà contro quella sorgente di
dolori che lo attacca più facilmente. L’uomo
intelligente aspirerà prima d’ogni altra
cosa a fuggire qualunque dolore, qualunque contesa,
ed a trovare riposo ed agi; cercherà dunque
una vita tranquilla, modesta, riparata per quanto
è possibile contro gl’importuni; dopo aver
mantenuto per qualche tempo relazioni con ciò
che si chiama gli uomini, ei
preferirà una esistenza ritirata, e, se sarà uno spirito
assolutamente superiore, sceglierà la
solitudine. Perocchè più un uomo possiede in sè
stesso, meno ha bisogno del mondo esterno,
e meno gli altri possono essergli utili. Così la
superiorità dell’intelligenza conduce all’insociabilità. Ah! se la
qualità della società potesse
esser surrogata dalla quantità, varrebbe la
pena di vivere pur anche nel gran mondo; ma, pur
troppo, cento pazzi messi in mucchio non
fanno un uomo ragionevole. L’individuo
collocato all’estremo opposto, non appena
il bisogno gli dà tempo di riprendere fiato,
cercherà ad ogni prezzo passatempi e
società; e s’accomoderà con tutto, non fuggendo che
sè stesso. Si è nella solitudine, là dove
ciascuno è ridotto alle sue sole risorse, che si scorge
quanto si ha per sè stessi; là l’imbecille, sotto la porpora, sospira
schiacciato dal peso della
sua miserabile individualità, mentre l’uomo
altamente dotato, popola ed anima co’ suoi
pensieri la contrada la più deserta. Seneca
(Ep. 9) disse con ragione: La
stupidità dà fastidio
a sè stessa, come pure Gesù figlio di Sirach; La vita dello stolto è peggior della
morte. Così
in conclusione si vede che ogni individuo è
tanto più socievole quanto è più povero di
spirito ed in generale più volgare.
Perocchè nel mondo non si ha guari la scelta che tra
l’isolamento e la società. Si pretende che
i negri sieno di tutti gli uomini i più socievoli,
come sono senza dubbio i più limitati nelle
facoltà intellettuali; rapporti mandati
dall’America del Nord, e pubblicati da
giornali francesi (Le
Commerce, 19 oct. 1837)
raccontano che i negri, senza distinzione
fra liberi e schiavi, si uniscono in gran numero nel
locale più ristretto, perchè non saprebbero
vedere mai abbastanza spesso ripetute le loro
faccie nere e camuse.
Nello stesso modo che il cervello ci sembra
esser in certo qual modo il parassita od il
dozzinante dell’intero organismo, così gli
agi4 acquistati
da chicchessia, dandogli il libero
godimento della sua coscienza e della sua
individualità, sono a questo titolo il frutto e la
rendita di tutta la sua esistenza, la
quale, per il resto, non è che pena e fatica. Ma vediamo
un po’ cosa producono gli agi della maggior
parte degli umani!: noia e sgarbatezza, ogni
qual volta l’uomo non trova da occuparsi in
piaceri sensuali od in balordaggini. Ciò che
dimostra abbastanza che tali agi non hanno alcun
valore si è il modo con cui sono
impiegati; essi non sono letteralmente che Ozio lungo d’uomini ignoranti di cui
parla l’Ariosto.
L’uomo volgare non si preoccupa che di passare il tempo, l’uomo di
talento che d’impiegarlo. La ragione
per cui le teste povere sono tanto esposte alla noia, si è
che il loro intelletto non è assolutamente
altra cosa che l’intermediario
dei motivi per la loro
volontà. Se, in un dato momento, non vi
sono motivi da
cogliere, allora la volontà si riposa
e l’intelletto resta inerte, perchè la
prima, non meglio del secondo, non può entrare in
attività di suo proprio impulso; il
risultato è uno spaventevole stagnamento di tutte le forze
nell’individuo intero — la noia. Per
combatterla si suggerisce piano piano alla volontà dei
motivi piccoli, provvisori, scelti
indistintamente, allo scopo di stimolarla, e di metter con
ciò in attività anche l’intelletto che deve
coglierli: questi motivi sono dunque in rapporto ai
motivi reali e naturali ciò che la
carta-moneta è in rapporto al danaro, perchè il loro valore
non è che convenzionale. Tali motivi sono i
giuochi di carte ed altri, inventati precisamente
allo scopo che abbiamo indicato. In loro
mancanza l’uomo povero di sè si metterà a
stamburare sui vetri, od a dar colpi con
tutto quanto gli cade sotto mano. Anche il sigaro
porge facilmente di che supplire ai
pensieri.
Si è per questo che in tutti i paesi i
giuochi di carte sono arrivati ad essere
l’occupazione principale d’ogni società;
cosa che fornisce la misura di ciò che valgono
queste riunioni e che costituisce la
bancarotta dichiarata d’ogni pensiero. Non avendo idee
da scambiare, si scambiano carte cercando
di sottrarsi vicendevolmente alquanti fiorini. O
razza miserabile! Tuttavia, per non esser
ingiusto nemmeno qui, non voglio ommettere
l’argomento che si può invocare in
giustificazione del giuoco delle carte: si può dire che
esso è una preparazione alla vita del mondo
e degli affari, nel senso che vi si impara a
profittare con saggezza da circostanze
immutabili, essendo stabilite le carte dalla sorte, per
trarne tutto il partito possibile; a tal
fine si apprende a serbare un contegno corretto facendo
buon viso a cattivo giuoco. Ma, d’altra
parte, per questo stesso fatto, i giuochi di carte
esercitano un’influenza demoralizzatrice.
In fatti lo spirito del giuoco consiste nel sottrarre
ad altri ciò che possiede, non importa con
quale gherminella o con quale astuzia. Ma
l’abitudine di procedere così, contratta al
giuoco, prende radici, fa invasione nella vita
privata, e il giocatore arriva quindi
insensibilmente a proceder nella stessa guisa quando si
tratta del tuo e del mio, ed a considerare
come lecito ogni vantaggio che si ha in mano al
momento, poichè lo si può fare legalmente.
La vita ordinaria ne fornisce prove ogni giorno.
Giacchè gli agi sono, come dicemmo, il
fiore o piuttosto il frutto dell’esistenza di
ciascuno, perciocchè solamente essi lo
mettono al possesso del suo proprio io,
noi
dobbiamo stimare felici coloro che,
guadagnando sè stessi, guadagnano cosa che ha prezzo,
mentre gli agi non apportano alla maggior
parte degli uomini che uno scioccone di cui non
sanno che fare, uno scioccone che s’annoia
a morte, e che è di peso a sè stesso.
Congratuliamoci dunque o fratelli d’esser figli non di schiave,
ma di madri libere (Paolo,
Ep. ai Galati, 4, 31).
Inoltre come è più felice quel paese che ha
meno bisogno o non ha affatto bisogno
d’importazione, così è felice l’uomo a cui
basta la ricchezza interna, e che pei suoi
divertimenti non domanda che poco, od anche
nulla, al mondo esterno, attesochè una tale
importazione è costosa, obbligante,
pericolosa; essa espone a disgusti, e, in conclusione, è
sempre un cattivo succedaneo alle
produzioni del proprio suolo. Perocchè non dobbiamo, a
nessun titolo, aspettarci gran cosa dagli
altri, e in generale dal di fuori. Ciò che un individuo
può essere per un altro è molto
strettamente limitato; ciascuno finisce col restar solo, e chi è
solo? diventa allora la grande questione. Goethe
ha detto in proposito, parlando in modo
generale, che in ogni cosa ciascuno, in
conclusione, è ridotto a sè stesso (Poesia
e verità,
vol. III). Oliviero Goldsmith dice
egualmente: Intanto da
per tutto, ridotti a noi stessi,
siamo noi che facciamo o troviamo la nostra propria felicità
(Il Viaggiatore, v. 431 e
seg.).
Ognuno deve adunque essere e fornire a sè
stesso ciò che v’ha di migliore e di più
importante. Quanto più succederà così,
tanto più per conseguenza l’individuo troverà in sè
stesso le sorgenti dei suoi piaceri, e
tanto più sarà felice. Si è quindi con ragione che
Aristotele ha detto: La felicità appartiene a chi basta a sè
stesso (Mor. ad Eudemo, VII, 2).
Infatti tutte le sorgenti esterne della
felicità e del piacere sono di lor natura eminentemente
incerte, equivoche, fuggevoli, aleatorie,
quindi soggette ad arrestarsi facilmente pur anche
nelle circostanze più favorevoli, e questo
è pure inevitabile, attesocchè noi non possiamo
averle sempre alla mano. Anzi, con l’età,
quasi tutte fatalmente si esauriscono; perchè
allora amore, voglia di divertirsi,
passione pei viaggi e per cavalcare, attitudine a far figura
nel mondo, tutto questo ci abbandona; la
morte ci toglie perfino amici e parenti. A questo
momento, più che mai, è importante sapere
ciò che si ha da sè stessi. Non v’ha che questo,
infatti, che resisterà più lungamente.
Intanto in ogni età, senza differenza, ciò è e resta la
sorgente vera, e sola permanente della
felicità. Perocchè non vi è molto da guadagnare a
questo mondo: la miseria ed il dolore lo
empiono, e per quelli che hanno sfuggiti questi
mali, la noia è là che li insidia da ogni
banda. Inoltre d’ordinario è la perversità che regna, e
la stoltezza che parla più forte. Il
destino è crudele, e gli uomini sono miserabili. In un
mondo siffatto colui che ha molto in sè
stesso è simile ad una camera dell’albero di Natale,
illuminata, calda, gaia, in mezzo alle nevi
ed ai ghiacci d’una notte di dicembre. Per
conseguenza, aver un’individualità ricca e
superiore, e sopratutto molta intelligenza
costituisce senza dubbio la sorte più
felice sulla terra, per quanto ciò possa esser differente
dalla sorte la più brillante. Sicchè quanta
saggezza nell’opinione emessa su Descartes dalla
regina Cristina di Svezia in età di appena
diciannov’anni: Il signor
Descartes è il più felice
di tutti i mortali, e la sua condizione mi sembra degna
d’invidia (Vie de
Descartes par
Baillet, l. VII, c. 10). Descartes a
quell’epoca viveva da vent’anni in Olanda nella più
profonda solitudine, e la regina lo
conosceva solamente per quanto le era stato raccontato e
per aver letto una delle sue opere. Bisogna
solo, e ne era precisamente il caso in Descartes,
che le circostanze esterne sieno abbastanza
favorevoli per permettere di possedersi,
e
d’esser contenti di sè stessi; per questo
l’Ecclesiaste diceva
già: La saggezza è buona
con
un patrimonio e ci aiuta a rallegrarci alla vista del sole (7, 12).
L’uomo cui, per un favore della natura o
della fortuna, questa sorte è stata accordata,
starà attento con cura gelosa perchè questa
sorgente interna di felicità gli resti sempre
accessibile; per ciò occorrono indipendenza
ed agi.
Li acquisterà dunque ben volentieri colla
moderazione e col risparmio, e tanto più
facilmente perchè egli non è ridotto, come gli
altri uomini, alle sole sorgenti esterne dei
piaceri. Ed è per questo che la prospettiva
delle cariche, dell’oro, dei favori regali, e
l’approvazione del mondo non lo indurranno
a rinunziare a sè stesso per adattarsi alle
vedute meschine od al cattivo gusto degli
uomini. Al caso, ei farà come Orazio nella
epistola a Mecenate (L. 1, ep. 7). È una
gran pazzia perdere all’interno
per
guadagnare
all’esterno, in altri termini abbandonare, in tutto o in
parte, il proprio riposo, gli agi e
l’indipendenza per il fasto, il grado, le
pompe, i titoli, gli onori. Goethe però l’ha fatto. In
quanto a me, il mio genio mi ha tratto
energicamente nella via opposta.
La verità, qui esaminata, che la sorgente
principale della felicità vien dall’interno, si
trova confermata da una giusta osservazione
di Aristotele nella Morale
a Nicomaco (I, 7; e
VII, 13, 14); egli dice che ogni piacere
suppone un’attività, quindi l’impiego di una forza, e
che non può esistere senza di questa. Tale
dottrina aristotelica di far consistere la felicità
dell’uomo nel libero esercizio delle sue
facoltà saglienti è riprodotta egualmente da Stobeo
nell’Esposizione della morale peripatetica (Eclogoe ethicoe, II, c.
7); eccone un passo: La
felicità consiste nell’esercitare le proprie facoltà (αρετην)
in lavori capaci di
risultato; egli
spiega pure che
αρετη indica ogni facoltà non comune. Ora la
destinazione primitiva delle
forze di cui la natura ha dotato l’uomo, è
la lotta contro la necessità che l’opprime da per
tutto. Quando la lotta lascia un momento di
tregua, le forze senza impiego divengono un
peso per lui; ei deve allora giuocare con
esse, cioè impiegarle senza uno scopo, altrimenti si
espone all’altra sorgente dell’umana
infelicità, alla noia. Sicchè è la noia che tortura i
grandi ed i ricchi più che gli altri, e
Lucrezio ha fatto della loro miseria un quadro, di cui si
ha ogni giorno nelle grandi città
l’occasione di riconoscere la meravigliosa verità: Questi
sorte spesso dal ricco palazzo, ove si annoia, ma vi fa
ritorno un momento dopo non
trovandosi più felice altrove; un altro corre a briglia
sciolta in villa, quasicchè dovesse
portare aiuto a spegnerne l’incendio; appena toccata la
soglia è colpito dalla noia, e si
abbandona gravemente al sonno e cerca di dimenticar sè
stesso, oppure d’improvviso
desidera di nuovo la città e vi ritorna (L. III,
v. 1073 e seg.).
Presso questi signori, finchè sono giovani,
devono far le spese le forze muscolari e
genitali. Ma più tardi non restano più che
le forze intellettuali; in loro mancanza, od in
difetto di sviluppo o di materiali per
servire alla loro attività, la miseria è grande. La
volontà essendo la sola forza inesauribile, si
cerca allora di stimolarla coll’eccitare le
passioni; si ricorre, per esempio, ai
giuochi d’azzardo in grande, a questo vizio in vero
degradante. Del resto ogni individuo
sfaccendato sceglierà, secondo la natura delle forze in
lui predominanti, un divertimento che le
impieghi, come il giuoco delle palle o degli
scacchi, la caccia o la pittura, le corse
di cavalli o la musica, i giuochi di carte o la poesia,
l’araldica o la filosofia, ecc.
Possiamo anche trattare questa materia con
metodo, riportandoci alla radice delle tre
forze fisiologiche fondamentali: abbiamo
dunque da studiarle qui nel loro esercitarsi
senza
scopo; esse ci si presentano allora come sorgenti
di tre specie di piaceri possibili, fra le
quali ciascuno sceglierà quelle che gli
sono proporzionate secondo che l’una o l’altra di
queste forze predominano in lui.
Così troviamo anzi tutto le gioie della forza riproduttiva: esse
consistono nel
mangiare, nel bere, nella digestione, nel
riposo e nel sonno. Vi sono intere popolazioni a cui
si attribuisce di fare gloriosamente di
tali gioie uno spasso nazionale. In secondo luogo i
piaceri dell’irritabilità; essi sono
i viaggi, la lotta, il salto, la danza, la scherma, il cavalcare
ed i giuochi atletici d’ogni specie, come
pure la caccia, e veramente anche i combattimenti
e la guerra. In terzo luogo i piaceri della
sensibilità, quali
contemplare, pensare, sentire,
creare nella poesia o nell’arte plastica,
far musica, studiare, leggere, meditare, inventare,
filosofare, ecc. Vi sarebbero da fare molte
osservazioni sul valore, sull’altezza e sulla
durata di queste differenti specie di
piaceri; noi ne lasciamo la cura al lettore. Ma ciascuno
comprenderà che il piacere nostro, motivato
costantemente dall’impiego delle nostre
proprie forze, come pure la nostra
felicità, risultato del frequente rinnovarsi di questo
piacere, saranno tanto più grandi quanto
più la forza produttrice sarà di nobile specie.
Nessuno potrà inoltre negare che il primo
posto, sotto questo rapporto, tocchi alla
sensibilità il cui predominio deciso
stabilisce la distinzione tra l’uomo e le altre specie
animali; le due altre forze fisiologiche fondamentali,
che esistono presso l’animale nello
stesso grado, od in un grado anche più alto
che presso l’uomo, non vengono che in seconda
linea. Alla sensibilità appartengono le
nostre forze intellettuali; ed è per ciò che il suo
predominio ci rende atti a gustare i
piaceri che hanno sede nell’intelletto,
i
piaceri dello
spirito; piaceri che sono tanto più grandi quanto il
predominio della sensibilità è più
accentuato5. L’uomo normale, l’uomo ordinario non può prendere vivo
interesse ad una
cosa se questa non eccita la sua volontà, se non gli
presenta un interesse personale. Ora
ogni eccitamento persistente della volontà
è, per lo meno, di natura mista, quindi combinato
col dolore. I giuochi di carte, occupazione
abituale della buona
società di ogni paese6, sono
un mezzo per eccitare intenzionalmente la
volontà, e ciò mediante interessi tanto minimi
che non possono che occasionare dolori
momentanei e leggeri, non già dolori permanenti e
serî: cosicchè si può considerarli come un
semplice solletico della volontà. L’uomo dotato
di forze intellettuali predominanti, invece
è capace d’interessarsi vivamente alle cose per
via dell’intelligenza pura, senza immistione alcuna del volere; ne prova
anzi il bisogno.
Tale interesse lo trasporta allora in una
regione in cui il dolore è essenzialmente straniero,
nell’atmosfera per così dire, degli dei
dalla vita facile, Θεῶν ρεία ζωόντων. Mentre
l’esistenza del resto degli uomini passa
così nel torpore, e che i sogni e le aspirazioni di essi
sono dirette verso i meschini interessi del
benessere personale colle loro miserie d’ogni
sorte; mentre una noia insopportabile li
coglie appena non sono più occupati a coltivare tali
progetti, e che restano ridotti a sè
stessi; mentre l’ardore selvaggio della passione può solo
scuotere questa massa inerte, l’uomo dotato
di facoltà intellettuali preponderanti possiede
un’esistenza ricca di pensieri, sempre
animata, e sempre importante; oggetti degni ed
21
interessanti lo occupano non appena ha
l’agio di darsi a loro, ed ei porta con sè una
sorgente di gioie le più nobili. L’impulso
esterno gli è fornito dalle opere della natura e
dall’aspetto dell’attività umana, ed
inoltre dalle produzioni così svariate delle menti più
elevate di tutti i tempi e paesi, produzioni
che egli solo può realmente gustare per intero,
perchè egli solo è capace di comprenderli e
di sentirli interamente. Si è dunque per lui, in
realtà, che costoro hanno vissuto; si è
dunque a lui, in fatto, che essi hanno indirizzato le
loro parole, mentre gli altri, come uditori
d’occasione, non comprendono che qualche poco
qua e là, e solamente a mezzo, È certo che
appunto per questo l’uomo superiore acquista un
bisogno di più che gli altri uomini, il
bisogno d’imparare, di vedere, di studiare, di
meditare, di applicarsi; il bisogno quindi
di aver tempo disponibile. Ora, come Voltaire ha
giustamente osservato, non essendovi veri piaceri se non in
seguito a veri bisogni, questo
bisogno dell’uomo intelligente è
precisamente la condizione che mette alla sua portata
piaceri il cui accesso resta interdetto per
sempre agli altri; per costoro le bellezze della
natura e dell’arte, le opere
dell’intelletto d’ogni specie, anche quando se ne circondano, non
sono in fondo se non ciò che le cortigiane
sono per un vecchio. Un ente così privilegiato, a
lato della sua vita personale, vive d’una
seconda esistenza, d’una esistenza intellettuale che
arriva grado a grado ad essere il suo vero
scopo, l’altra non essendo più considerata che
come mezzo; per il resto degli uomini si è la loro
stessa esistenza, insipida, vuota e desolata
che deve loro servire di scopo. La vita
intellettuale sarà l’occupazione principale dell’uomo
superiore; aumentando senza mai cessare il
suo tesoro di senno e di scienza, essa così
acquista costantemente una connessione ed
una gradazione, una unità ed una perfezione
sempre più spiccate, come un’opera d’arte
in via di formazione. In cambio che penoso
contrasto fa con questa la vita degli
altri, puramente pratica, diretta solo al benessere
personale, vita che non ha aumento
possibile se non in lunghezza senza poter guadagnare in
profondità, e destinata nondimeno a servir
loro di scopo per sè stessa, mentre per l’altro
essa è un semplice mezzo!
La nostra vita pratica, reale, dal momento
che le passioni non la tengono in
agitazione, è noiosa e scipita; quando esse
la turbano diventa ben presto dolorosa; si è per
questo che sono felici solamente coloro cui
è toccato in sorte una somma d’intelletto
eccedente quella misura che il servizio della
loro volontà reclama. Così a lato della vita
effettiva essi possono vivere d’una vita
intellettuale che li occupa e li ricrea senza dolore, e
tuttavia con vivacità. Il semplice agio, vale a dire un intelletto non occupato al servizio
della volontà, non basta, abbisogna per ciò un eccedente positivo di forza che solo
ci rende
atti ad un’occupazione puramente spirituale
e non legata al servizio della volontà. Per lo
contrario l’ozio senza lo studio è morte e sepolcro dell’uomo vivo (Seneca,
Ep. 82). Nella
misura di questo eccedente, la vita
intellettuale esistente a lato della vita reale presenterà
gradazioni innumerevoli, dai lavori del
raccoglitore che descrive insetti, uccelli, minerali,
monete, ecc., fino alle più alte produzioni
della poesia e della filosofia.
Una tal vita intellettuale protegge non
soltanto contro la noia, ma anche contro le sue
perniciose conseguenze. Essa infatti ripara
dalla cattiva compagnia e dai molti pericoli,
disgrazie, perdite, e dissipazioni a cui si
espone chi cerca interamente la sua felicità nella
vita reale. Volendo parlare di me, per
esempio, dirò che la mia filosofia non m’ha fruttato,
ma mi ha risparmiato molto.
L’uomo normale invece o limitato, nei
piaceri della vita, alle cose esterne, quali le
ricchezze, il grado, la famiglia, gli
amici, la società, ecc.; su esse egli stabilisce la felicità
della sua vita, cosicchè tale felicità
crolla, quando le perde, o quando incontra qualche
disinganno. Per disegnare questo stato
dell’individuo possiamo dire che il suo
centro di
gravità cade fuori di lui. Si è per
ciò che le sue voglie ed i suoi capricci sono sempre
variabili: quando i suoi mezzi glielo
permettono ei comprerà talora una villa, talora dei
cavalli, oppure darà feste, poi
intraprenderà dei viaggi, ma sopra tutto condurrà una vita
fastosa, e tutto ciò precisamente perchè
cerca, non importa dove, una soddisfazione che
venga dal di fuori; così un uomo consumato spera trovare nel
brodetto e nelle droghe di
farmacia la salute ed il vigore la cui vera
fonte è la forza vitale propria. Per non passare
immediatamente all’estremo opposto,
prendiamo ora un uomo dotato di una potenza
intellettuale che senza esser eminente,
oltrepassi tuttavia la misura ordinaria e strettamente
sufficente. Vedremo quest’uomo, quando le
sorgenti esterne dei piaceri venissero a
mancare o più non lo soddisfacessero,
coltivare da dilettante qualche ramo delle belle arti,
oppure qualche scienza, come la botanica,
la mineralogia, la fisica, l’astronomia, la storia,
ecc., e trovarvi un gran fondo di piacere e
di ricreazione. A questo titolo possiamo dire che
il suo
centro di gravità cade già in parte dentro di lui. Ma il
semplice dilettantismo
nell’arte è ancora ben lontano dalla
facoltà creatrice; d’altra parte le scienze non
oltrepassano i rapporti dei fenomeni tra
loro, esse non possono assorbire l’uomo tutto
intero, colmare tutto il suo essere, nè per
conseguenza intrecciarsi così strettamente nel
tessuto della sua esistenza da renderlo
incapace di prender interesse a tutto il resto. Ciò
resta riservato esclusivamente alla suprema
altezza intellettuale, a quell’altezza che si
chiama comunemente genio; essa sola può
prender per tema, interamente ed assolutamente,
l’esistenza e l’essenza delle cose; dopo di
che tende, secondo la sua direzione individuale,
ad esprimere i suoi profondi concetti
coll’arte, colla poesia o colla filosofia.
Non è che per un uomo di tal tempra che
l’occupazione permanente con sè stesso, coi
suoi pensieri e colle sue opere riesce un
bisogno irresistibile; per lui la solitudine è la ben
venuta, gli agi sono il bene supremo; in
quanto al resto egli può farne senza, e quando lo
possede esso gli doventa ben di frequente
un peso. Di quest’uomo possiamo dire che il suo
centro di gravità cade tutto intero dentro di lui. Questo ci
spiega nello stesso tempo come
succede che tali uomini d’una specie così
rara non portano ai loro amici, alla loro famiglia,
al bene pubblico, l’interesse intimo ed
illimitato di cui molti fra gli altri sono capaci,
perocchè alla fin fine essi possono farne a
meno possedendo sè stessi. Esiste adunque di più
in essi un elemento isolante, la cui azione
è tanto più energica in quanto che gli altri uomini
non possono soddisfarli pienamente; così
essi non saprebbero vedere affatto negli altri degli
eguali, ed anzi, sentendo continuamente la
dissomiglianza della loro natura in tutto e da per
tutto, si abituano adagio adagio ad essere
fra gli umani come individui di una specie
differente, ed a servirsi, quando le loro
riflessioni si portano su di essi, della terza persona
plurale in luogo della prima.
Considerato sotto un tal punto di vista
l’uomo il più felice sarà dunque colui che la
natura ha riccamente dotato dal lato
intellettuale, tanto ciò che è in
noi ha più importanza di
ciò che è al di fuori; questo, vale a dire
l’oggettivo, in qualunque modo agisca, non agisce
mai se non per l’intermediario dell’altro,
vale a dire del soggettivo; l’azione dell’oggettivo
è quindi secondaria. È quanto espresse in
bei versi Luciano: La
ricchezza dell’anima è la
sola vera ricchezza; tutti gli altri beni sono fecondi di
dolori (Ant. I, 67).
Un uomo ricco siffattamente all’interno non
domanda al mondo esteriore che un dono
negativo, cioè gli agi per poter perfezionare
e sviluppare le facoltà del suo spirito, e per
poter godere delle sue ricchezze interne;
ei reclama dunque unicamente la libertà di potere,
per tutta la sua vita esser sè stesso ogni
giorno, ed ogni ora. Per l’uomo destinato ad
imprimere la traccia del suo spirito
sull’umanità intera, non esistono che una sola felicità ed
una sola infelicità, e sono di poter
perfezionare il suo ingegno e completar le sue opere,
oppure esserne impedito. Tutto il resto per
lui non ha importanza. Ed è per questo che
vediamo le grandi menti d’ogni epoca
attribuire il prezzo più alto agli agi, perocchè tanto
vale l’uomo, tanto valgono i suoi agi. Credo invero che la felicità stia negli
agi (ozii), dice
Aristotele (Mor. a Nic. X, 7). Anche
Diogene Laerzio riporta che Socrate
vantava gli agi
come la più bella ricchezza (II, 5,
31). Si è sempre ciò che intende Aristotele (Mor. a Nic.
X, 7, 8, 9), quando dichiara che la più
bella vita è quella del filosofo. Egli dice egualmente
nella Politica (IV, 11): Esercitare liberamente il proprio genio, ecco la vera
felicità. E
Goethe nel Wilhelm Meister; Chi è nato con un genio, per un genio,
trova in esso la sua
più bella esistenza.
Ma posseder agi non è solo fuori della
sorte ordinaria, ma anche fuori della natura
ordinaria dell’uomo, perocchè sua
destinazione naturale si è d’impiegare il suo tempo ad
acquistare il necessario per la esistenza
sua e per quella della famiglia. Egli è figlio della
miseria, non un’intelligenza libera. Così
gli ozi riescono ben presto ad essere di peso, poi si
fanno tortura per l’uomo ordinario dal
momento che egli non può occuparli con mezzi
artificiali e fittizi d’ogni specie, coi
giuochi, con passatempi, e con bagattelle d’ogni forma.
Anzi per questo gli ozi gli procurano anche
dei danni, perocchè si è detto con ragione:
«difficilis
in otio quies» è difficile esser tranquilli nell’ozio. D’altra parte però una
intelligenza che oltrepassi di molto la
misura normale è parimenti un fenomeno
straordinario, quindi contro natura.
Tuttavia, quando essa è data, l’uomo che ne è fornito,
per trovare la felicità, ha precisamente
bisogno di quegli agi che per gli altri sono qualche
volta importuni e qualche volta funesti; in
quanto a lui, senza agi sarà un Pegaso sotto il
giogo; in una parola sarà infelice.
Nondimeno se queste due anomalie, l’una esterna e l’altra
interna, si trovano riunite, la loro unione
produce un caso di suprema felicità, perocchè
l’uomo così favorito condurrà allora una
vita d’un ordine superiore, la vita d’un essere
sottratto alle due sorgenti opposte dei
dolori umani; il bisogno e la noia; che egli è del pari
sollevato e dalla cura penosa di
affaccendarsi per provvedere alla sua esistenza e
dall’incapacità di sopportare gli ozi (vale
a dire l’esistenza libera propriamente detta);
altrimenti un uomo non può scappare da
questi due mali se non se per il fatto che essi si
neutralizzino e si annullino
reciprocamente.
Di fronte a tutto ciò che precede, bisogna
considerare d’altra parte che, in seguito ad
un’attività preponderante dei nervi, le
grandi facoltà intellettuali producono un aumento
eccessivo dell’attitudine a sentire il
dolore sotto tutte le forme; che inoltre il temperamento
passionato che ne è la condizione, come
pure la vivacità e la perfezione più grande di ogni
percezione, che ne sono inseparabili, danno
alle emozioni così prodotte una violenza senza
confronto più forte; ora si sa che le
emozioni dolorose sono molto più frequenti che le
piacevoli; finalmente bisogna anche
ricordare che le alte facoltà intellettuali fanno di chi le
possiede un uomo straniero agli altri
uomini ed alle loro agitazioni, visto che più questi
possede in sè stesso, meno può trovare in
altrui. Mille oggetti per i quali costoro prendono
un piacere infinito, a lui sembrano
insipidi e ripugnanti. Forse in tal maniera la legge di
compensazione che regna dovunque, domina
egualmente qui pure. Non si è forse preteso
bene spesso e non senza qualche apparenza
di ragione, che in fondo l’uomo più povero di
spirito è il più felice? Comunque si sia,
nessuno gl’invidierà questa felicità. Io non voglio
antecipare sul lettore per la soluzione
definitiva di tale questione, tanto più perchè Sofocle
stesso ha espresso su ciò giudizi
diametralmente opposti: Il
sapere è di molto la porzione
più considerevole della felicità (Antigone).
Un’altra volta disse: La
vita del saggio non è la
più piacevole (Ajace). I filosofi dell’Antico Testamento non vanno
meglio d’accordo tra
loro; Gesù, figlio di Sirac, ha detto: La vita dello stolto è peggior della
morte (22, 12);
l’Ecclesiaste invece (1, 18): Dove molta sapienza, ivi molto dolore.
Frattanto ci tengo a ricordar qui che ciò
che si disegna più particolarmente con una
parola propria esclusivamente della lingua
tedesca, Philister (borghese,
droghiere, filisteo),
si è precisamente l’uomo che, in seguito
alla misura limitata e strettamente sufficente delle
sue forze intellettuali, non ha bisogni spirituali; tale
espressione appartiene alla vita da
studenti, ed è stata messa in uso più tardi
in un rispetto più elevato, ma analogo ancora al
suo senso primitivo, per qualificare colui
che è l’opposto d’un figlio delle Muse, vale a dire
un uomo affatto prosaico. Costui infatti è
e resta l’αμουσος ανηρ
(l’uomo non iniziato alle
Muse). Ponendomi ad un punto di vista più
alto ancora vorrei definire i filistei
dicendo
che
sono gente costantemente occupata, e ciò
colla più gran serietà del mondo, d’una realtà che
non è realtà. Ma questa definizione, già
d’una natura trascendentale, non sarebbe in
armonia col punto di vista popolare a cui
mi son messo in questa dissertazione; potrebbe
quindi non esser compresa da tutti i
lettori. La prima invece ammette più facilmente un
commento specifico, e disegna abbastanza
l’essenza e la radice delle proprietà
caratteristiche tutte del filisteo. Costui è
dunque, come dicemmo, un
uomo senza bisogni
spirituali.
Da ciò derivano molte conseguenze: la
prima, in rapporto a lui
stesso, si è che non
avrà mai gioje spirituali, secondo la massima già citata che non vi sono veri piaceri se non
con veri bisogni. Nessuna aspirazione ad acquistar conoscenze
e giudizi nuovi per le cose in
sè stesse anima la sua esistenza: e nessuna
aspirazione ai piaceri estetici, perocchè queste
due aspirazioni sono strettamente legate
assieme. Quando la moda o qualche altro stimolo
gl’impone tali piaceri ei se ne sbriga nel
modo più breve possibile, come un galeotto si
sbriga del suo lavoro forzato. Soli piaceri
per lui sono i sensuali, su di essi egli prende il suo
compenso. Mangiar ostriche, bever vino di
Champagne, ecco per lui l’apice dell’esistenza;
procurarsi tutto quanto contribuisce al
benessere materiale, ecco lo scopo della sua vita.
Troppo felice quando tale scopo lo occupa
abbastanza! Perocchè se questi beni gli sono
stati già concessi antecipatamente, ei
diventa preda della noia; per cacciarla prova tutto ciò
che si può immaginare; balli, teatri,
società, giuochi di carte, giuochi d’azzardo, cavalli,
donne, ebbrezza, viaggi, ecc. E nullameno
tutto questo non basta quando l’assenza di
bisogni intellettuali rende impossibili i
piaceri dello spirito. Così una serietà fosca e secca,
molto simile a quella dell’animale, è
propria del filisteo e lo
caratterizza. Niente lo diverte,
niente lo scuote, niente risveglia il suo interesse.
I piaceri materiali sono presto esauriti; la
società, composta di filistei suoi pari,
gli viene ben tosto a noia; il giuoco delle carte finisce
collo stancarlo. Gli restano rigorosamente
parlando le soddisfazioni della vanità alla sua
maniera: esse consisteranno a sorpassare
gli altri nelle ricchezze, nel grado, nell’influenza o
nel potere, ciò che allora gli vale la loro
stima; oppure anche ei cercherà di potersi almeno
fregare intorno a coloro che brillano per
tali vantaggi, e di riscaldarsi ai riflessi del loro
splendore (in inglese questo si chiama snob).
La seconda conseguenza che risulterebbe
dalla proprietà fondamentale che abbiamo
riscontrata nel filisteo, si è che
in rapporto agli altri, siccome è privo di bisogni intellettuali,
e limitato ai soli materiali, cercherà gli
uomini che potranno soddisfare questi ultimi, e non
coloro che potrebbero provvedere ai primi.
Sicchè non sono certamente le alte qualità
intellettuali che chiede loro; che anzi
quando le incontra eccitano la sua antipatia, e
fors’anche il suo odio, perocchè ei non
prova in loro presenza se non un sentimento
importuno d’inferiorità ed un’invidia
sorda, secreta, che nasconde colla più gran cura, che
cerca di dissimulare a sè stesso, ma che
giusto per questo cresce talora fino ad una rabbia
muta. Non è mica sulle facoltà dello
spirito che costui penserà mai a misurare la sua stima o
la sua considerazione; ei le riserverà
esclusivamente al grado ed alla ricchezza, al potere ed
all’influenza, cose che passano a’ suoi
occhi come le sole qualità vere, le sole in cui può
aspirare di eccellere. E tutto ciò perchè
il filisteo è un uomo privo di bisogni intellettuali. Il
suo estremo soffrire deriva dal fatto che
le idealità non gli
portano alcun divertimento, e
che, per sfuggire la noia, ei deve sempre
ricorrere alle realtà. Ora queste
da una parte sono
ben presto esaurite, ed allora in luogo di
far piacere, stancano; e dall’altra portano con sè
sciagure d’ogni fatta, mentre le idealità
sono inesauribili e per sè stesse innocue.
In tutta questa dissertazione sulle
condizioni personali che contribuiscono alla nostra
felicità, ebbi in vista le qualità fisiche,
e principalmente le qualità intellettuali. Si è nella
mia memoria sul Fondamento della morale (§ 22) che
ho esposto come la perfezione
morale, a sua volta, influisca direttamente
sulla felicità: a quest’opera invito il lettore.
_____
CAPITOLO III.
___
Di ciò che si ha.
Epicuro, il grande maestro di felicità, ha
mirabilmente e giudiziosamente diviso i
bisogni umani in tre classi. Primo, i bisogni naturali e necessari: quelli
che non soddisfatti
producono dolore; essi dunque non
comprendono che il victus
e
l’amictus (cibo e
vesti).
Sono facili da soddisfare. — Secondo, i bisogni naturali, ma non necessari: cioè il
bisogno
di soddisfazione sessuale, quantunque
Epicuro non lo dica nell’opera di Diogene Laerzio
(del resto riproduco qui, in generale,
tutta questa dottrina leggermente modificata e
corretta). Tale bisogno è già più difficile
da soddisfare. — Terzo, quelli
che non sono nè
naturali, nè necessarî: e sarebbero i bisogni del
lusso, dell’abbondanza, del fasto e della
splendidezza; il loro numero è infinito, e
la loro soddisfazione molto difficile (Vedi
Diogene Laerzio L. X, c. 27, § 149 e 127; —
Cicerone, De fin. I, 13).
Il limite dei nostri desiderî ragionevoli
riferendosi ai beni di fortuna, è difficile, se
non impossibile, determinarlo. Perocchè la
soddisfazione di ciascuno a tale riguardo si
fonda non sopra una quantità assoluta, ma
sopra una quantità relativa, vale a dire sul
rapporto tra le sue brame e le sue
ricchezze; così queste ultime, considerate in sè stesse,
sono tanto prive di significato quanto il
numeratore di una frazione senza denominatore. La
mancanza di beni a cui un uomo non ha mai sognato
d’aspirare, non può affatto privarlo di
qualche cosa; ei sarà perfettamente pago
senza di essi, mentre un altro che possede cento
volte di più si sentirà infelice perchè gli
manca il solo oggetto che brama. Ciascuno ha pure,
riguardo i beni a cui gli è permesso
aspirare, un orizzonte tutto proprio, e le sue pretese non
vanno oltre i limiti di quest’orizzonte.
Quando un oggetto, collocato entro questi limiti, gli
si presenta in modo ch’ei possa esser certo
di raggiungerlo, si troverà felice; al contrario si
sentirà infelice se, sopravvenendo
ostacoli, tale prospettiva gli è tolta. Ciò che è posto al di
là non ha alcuna azione su di lui. Si è per
questo che la immensa fortuna del ricco non dà
molestia al povero, e per questo pure,
d’altra parte, che tutte le ricchezze già possedute non
consolano il ricco quando è deluso in
un’aspirazione. (La ricchezza è come l’acqua salata:
più se ne beve, più cresce la sete; lo
stesso succede della gloria).
Il fatto che dopo la perdita della ricchezza
o dell’agiatezza, appena vinto il primo
dolore, il nostro umore abituale non sarà
molto diverso da quello che era per lo avanti, si
spiega riflettendo che, il fattore del
nostro avere essendo stato diminuito dalla sorte,
riduciamo subito, da noi stessi,
considerevolmente il fattore delle nostre pretese. Ecco dove
sta quanto havvi di veramente doloroso in
una disgrazia; una volta compiuta questa
operazione, il dolore si fa sempre meno
sensibile, e finisce collo sparire; la piaga si
cicatrizza. Nell’ordine inverso, in
presenza d’un avvenimento felice, il peso che comprime
le nostre pretese s’innalza e permette loro
di dilatarsi: in ciò consiste il piacere. Ma questo
pure non dura che il tempo necessario
perchè l’operazione si compia; noi ci avvezziamo poi
alla scala così aumentata delle pretese, e
diveniamo indifferenti al possesso corrispondente
della ricchezza. È quanto esprime un passo
di Omero (Odissea, XVIII,
130-137) di cui
presentiamo gli ultimi versi: Tale invero è lo spirito degli uomini
terrestri, simile ai giorni
mutevoli che adduce il padre degli uomini e degli dei.
La fonte dei nostri dispiaceri sta negli
sforzi da noi sempre rinnovati per elevare il
fattore delle aspirazioni, mentre l’altro
fattore colla sua immobilità vi si oppone.
Non bisogna stupirsi di vedere, nella
specie umana, povera e piena di bisogni, la
ricchezza più altamente e più sinceramente
apprezzata, fors’anco più venerata, di qualunque
altra cosa; il potere stesso non è tenuto
in conto se non perchè conduce alla fortuna; e
neppure bisogna maravigliarsi nel vedere
gli uomini metter da parte, o passar sopra a
qualunque considerazione quando si tratta
d’acquistar ricchezze, nel veder per esempio i
professori di filosofia far buon mercato
della loro scienza per guadagnar danaro. Si fa
spesso rimprovero agli uomini di volgere i
loro voti specialmente al danaro e di amarlo più
d’ogni altra cosa al mondo. Pure è ben
naturale, quasi inevitabile, di amare ciò che, simile
ad un Proteo instancabile, è pronto ad
assumere in ogni momento la forma dell’oggetto
attuale delle nostre voglie sì mobili, o
dei nostri bisogni sì diversi. Ogni altro bene, infatti,
non può soddisfare che un solo desiderio,
che un solo bisogno: le vivande hanno valore
solamente per chi ha fame, il vino per chi sta
bene, i medicamenti per chi è malato, una
pelliccia durante l’inverno, le donne per
la gioventù, ecc. Tutte queste cose non sono
dunque che αγαθα
προς τι, vale a dire relativamente buone. Il solo
danaro è il bene
assoluto, perchè esso non provvede unicamente
ad un solo bisogno «in concreto,» ma al
bisogno in generale «in abstracto.»
I beni di fortuna di cui si può disporre
devono dunque esser considerati come un
riparo contro il gran numero di mali e di
disgrazie possibili, e non come un permesso, e
meno ancora come un obbligo di aversi da
procurare i piaceri del mondo. Le persone che,
senza aver un patrimonio, giungono col loro
ingegno, qualunque esso sia, al punto di
guadagnare molto danaro, cadono quasi
sempre nell’illusione di credere che il loro ingegno
sia un capitale stabile, e che il danaro
che frutta loro l’ingegno sia per conseguenza
l’interesse del detto capitale. Così non
mettono da canto alcun poco di ciò che guadagnano
per farsene una rendita certa, ma spendono
nella stessa misura che prendono. Ne segue che
d’ordinario essi cadono in miseria quando i
loro guadagni ristanno o cessano
completamente; infatti il loro talento
stesso, passaggero di sua natura, come lo è per
esempio il genio per quasi tutte le belle
arti, si esaurisce, oppure le circostanze speciali o le
occasioni che lo rendevano produttivo
spariscono. Gli artigiani possono a tutto rigore
menar una tal vita, perchè la capacità
richiesta per il loro mestiere non si perde facilmente,
o può esser surrogata dal lavoro dei loro
operai; inoltre i loro prodotti sono oggetti di
necessità il cui smercio è sempre
assicurato; un proverbio tedesco dice con ragione: «Ein
Handwerk hat einen goldenen Boden7» vale a dire un buon mestiere vale molto
oro.
Così non avviene degli artisti e dei virtuosi d’ogni
specie. Ed è giusto per questo che
sieno pagati a prezzi così alti; ma anche
per la stessa ragione dovrebbero essi capitalizzare
il danaro che guadagnano; nella loro
presunzione lo considerano invece come se non fosse
che l’interesse e vanno incontro così alla
loro rovina.
In cambio la gente che possiede un
patrimonio sa molto bene fin da principio
distinguere tra capitale ed interessi.
Sicchè la maggior parte cercherà d’investire il suo
capitale nel modo più sicuro, nè lo
rosicchierà in alcun caso, anzi riserverà, possibilmente,
sugl’interessi l’ottava parte almeno per
prevenire ad una crisi eventuale. Costoro si
mantengono così soventi volte
nell’agiatezza. Niente di quanto diciamo si applica ai
commercianti; per essi il danaro è per sè stesso
l’istromento del guadagno, l’utensile di
professione per così dire: d’onde segue che
anche quando lo hanno acquistato col loro
lavoro, cercheranno nel suo impiego i mezzi
di conservarlo e di aumentarlo. Così la
ricchezza è abituale in questa classe più
che in qualunque altra.
In generale, si troverà che ordinariamente
quelli che hanno già lottato colla vera
miseria e col bisogno, li temono
incomparabilmente meno, e sono più portati alla
dissipazione di coloro che non conoscono
questi mali se non per averne sentito parlare. Alla
prima categoria appartengono tutti coloro
che; non importa per qual colpo della sorte, o per
qualunque talento speciale, sono passati
rapidamente dalla povertà all’agiatezza; alla
seconda quelli che, nati con beni di
fortuna, li hanno conservati. Costoro stanno in
apprensione per l’avvenire più dei primi e
sono più economi. Se ne potrebbe dedurre che il
bisogno non è cosa tanto brutta come
sembrerebbe visto da lontano. Però la ragione vera
dev’essere piuttosto la seguente: all’uomo
nato con un patrimonio, la ricchezza appare
come qualche cosa d’indispensabile, come
l’elemento della sola esistenza possibile, allo
stesso titolo dell’aria; così ei ne avrà
cura come della sua vita istessa, e sarà, in generale,
ordinato, previdente ed economo. Al
contrario a colui che fin dalla nascita visse in povertà,
si è questa che sembrerà la condizione
naturale; le ricchezze che gli potranno toccare più
tardi, non importa come, gli pareranno un
superfluo, buono solo per goderne e farne
baldoria; egli dirà a sè stesso che quando
saranno nuovamente sparite, saprà cavarsela senza
di esse come per lo avanti, e che, per per
di più, sarà sollevato da un fastidio. È proprio il
caso di dire con Shakespeare: Bisogna che il proverbio si verifichi: il
mendicante a cavallo
fa galoppare la bestia fino alla morte (Enrico
VI, P.
Aggiungiamo ancora che questa gente
possede, non tanto nella testa quanto nel cuore,
una ferma ed eccessiva confidenza da una
parte nella sua buona fortuna e dall’altra nelle
sue proprie risorse, che le hanno di già
dato aiuto per cavarsi dalle strettezze e
dall’indigenza; questa gente non considera
la miseria, come fanno i ricchi di nascita, quale
un abisso senza fine, ma la crede un basso-fondo
che basta battere col piede per rimontarne
alla superficie. Con questa stessa
particolarità umana si può spiegare perchè le donne,
povere prima del loro matrimonio, sieno
molto spesso più esigenti e più prodighe di quelle
che hanno portato con sè una grossa dote;
infatti, quasi sempre, le ragazze ricche non
possedono solamente beni di fortuna, ma
anche uno zelo, o, per così dire, un certo istinto
ereditario di conservarli che fa difetto
alle povere. Tuttavia coloro che volessero sostenere
la tesi opposta troveranno autorità nella
satira prima dell’Ariosto; in cambio il dottor
Johnson si mette dalla parte mia: «Una
donna ricca, essendo abituata a maneggiar monete,
le spende con giudizio; ma quella che per
il suo matrimonio si trova per la prima volta in
possesso della ricchezza, trova tanto gusto
nello spendere che getta il danaro con grande
profusione.» (Vedi Boswell, life
of Johnson, vol. III, pag.
199, ediz. del 1821). Io
consiglierei per ogni evento, a chi sposa
una ragazza povera, di affidarle non già un
capitale, ma una semplice rendita, e
sopratutto di vegliare perchè il patrimonio dei figli non
cada nelle sue mani.
Non credo proprio far cosa indegna della
mia penna raccomandando qui la cura di
conservar la propria fortuna, guadagnata od
avuta in eredità; perocchè è un vantaggio
inapprezzabile il possedere tutta fatta una
sostanza quand’anche essa non bastasse a
lasciarci vivere agiatamente solo e senza
famiglia, in una vera indipendenza, vale a dire
senza aver bisogno di lavorare; ecco ciò che
costituisce il privilegio che affranca dalle
miserie e dai tormenti propri della vita
umana; ecco l’emancipazione della servitù generale
che è il destino dei figli della terra. Non
è che con questo favore della sorte che siamo
veramente uomini nati liberi; a questa sola condizione si è realmente sui juris, padroni
del
proprio tempo e delle proprie forze, e si
potrà dire ogni mattina: La
giornata m’appartiene.
Sicchè tra chi ha una rendita di mille
scudi e chi ne ha una di centomila la differenza è
infinitamente più piccola che tra il primo
e chi non ha nulla. Ma la fortuna patrimoniale
arriva al suo più alto valore quando tocca
a colui che, dotato di forze intellettuali superiori,
intende ad uno scopo la cui realizzazione
non mira ad un lavoro per vivere; messo in tali
condizioni quest’uomo è doppiamente dotato
dalla sorte; ei può ora vivere a suo genio, e
pagherà al centuplo il suo debito
all’umanità producendo ciò che nessun altro potrebbe
produrre, e creando cose che formeranno il bene
e nello stesso tempo l’onore della
comunità umana. Un altro, posto in una
situazione altrettanto favorevole, sarà benemerito
dell’umanità per le sue opere
filantropiche. Quanto a chi possedendo un patrimonio, non
produce alcunchè di simile, in qualunque
misura si sia, fosse pure a titolo di saggio, o che
con studi seri non si crea almeno la
possibilità di far progredire una scienza, costui non è
che un fannullone spregievole. E nemmeno
questi sarà felice perchè il fatto d’esser liberato
dal bisogno lo trasporta all’altro polo
della miseria umana, alla noia, che lo tortura in tal
maniera ch’ei sarebbe assai più contento se
il bisogno gli avesse imposto un’occupazione.
La noia lo farà cadere più facilmente in quelle
stravaganze che gli toglieranno la fortuna di
cui non è degno. In realtà una folla di
persone non è nell’indigenza se non per aver speso il
suo danaro, finchè ne aveva, a fine di
procurarsi un sollievo momentaneo alla noia che la
opprimeva.
Le cose succedono in tutt’altro modo quando
lo scopo a cui si tende è quello di
elevarsi altamente nel servizio dello
Stato; quando si tratta, per conseguenza, d’acquistare
favore, amici, relazioni per mezzo dei
quali potersi alzare di grado in grado e giungere forse
un giorno ai posti più eminenti: in tal
caso val meglio, in sostanza, esser venuto al mondo
affatto senza beni di fortuna. Per un
individuo sopratutto che non è della nobiltà, e che ha
qualche talento, essere un povero cialtrone
costituisce un vantaggio reale ed una
raccomandazione. Perocchè ciò che ognuno
cerca ed ama anzitutto, non solo nella semplice
conversazione, ma anche a fortiori nel
servizio pubblico, si è l’inferiorità degli altri. Ora
non v’ha che un pitocco che sia convinto e
penetrato della sua profonda, intera,
indiscutibile, onnilaterale 8 inferiorità, della sua totale dappocaggine
e della sua nullità al
punto voluto dalla circostanza. Un pitocco
solamente si china abbastanza spesso ed
abbastanza a lungo, e sa piegare la schiena
a riverenze di 90 gradi ben contati; egli solo
soffre tutto col sorriso sulle labbra; egli
solo riconosce che i meriti non hanno alcun valore;
egli solo vanta pubblicamente, ad alta voce
od a grosso carattere, come capolavori le inezie
letterarie dei suoi superiori, od in
generale degli uomini influenti; egli solo sa l’arte di
mendicare; per conseguenza egli solo può
esser iniziato a tempo, vale a dire fin dalla prima
giovinezza, a quella verità nascosta che
Goethe ci ha svelato in questi termini: Che nessuno
si lagni della bassezza, perchè essa è la potenza, checchè
se ne dica (W. O. Divan).
Chi invece ebbe dai genitori una fortuna
sufficiente per vivere sarà d’ordinario
recalcitrante; egli è uso a camminare colla
testa alta; egli non ha imparato tutti questi
giuochi di flessibilità; fors’anche egli
pensa di giovarsi di quel certo talento che possede e
di cui dovrebbe piuttosto comprendere
l’insufficienza in faccia a ciò che succede con il
mediocre e lo strisciante 9; egli è pure capace di notare
l’inferiorità di coloro che sono posti
al di sopra di lui, e finalmente, quando le
cose toccano l’indegnità, egli doventa restìo ed
ombroso. Non si va avanti nel mondo così;
alla fine potrà accadergli di dire con Voltaire,
quell’impudente: Non abbiamo che due giorni da vivere, non
vale la pena di passarli
strisciando davanti spregevoli bricconi.
Disgraziatamente, sia detto strada facendo,
spregevole briccone è un attributo per il
quale esiste in questo mondo un numero
maledettamente grande di soggetti. Possiamo
dunque vedere che ciò che dice Giovenale
(Sat. II, v. 164): Non facilmente emergono coloro al cui
merito pone ostacolo la povertà, si
applica piuttosto alla carriera delle
persone eminenti che a quella degli uomini di mondo.
Tra le cose che si possede non ho
annoverato moglie e figli perchè si è piuttosto
posseduti da loro. Si potrebbe più
ragionevolmente comprendervi gli amici, ma qui pure il
proprietario deve nella stessa misura
essere anche proprietà dell’altro.
_____
CAPITOLO IV
___
Di ciò che si rappresenta.
1. Dell’opinione
altrui.
Ciò che rappresentiamo, o, in altri
termini, la nostra esistenza nell’opinione altrui è
generalmente, in conseguenza di una
debolezza particolare della nostra natura, troppo
apprezzata, benchè la più piccola riflessione
possa insegnarci che tutto questo per sè stesso
non ha importanza alcuna per la nostra
felicità. Sicchè si dura fatica a spiegarsi la grande
soddisfazione interna che prova un uomo
quando s’accorge d’una prova di stima datagli
dagli altri, e quando viene lusingata la
sua vanità, non ne importa il come. Tanto
infallibilmente il gatto si mette a ronfare
quando gli si carezza il dorso, altrettanto
sicuramente si vede una dolce estasi
dipingersi sulla figura dell’uomo che vien lodato,
sopratutto quando la lode tocca il dominio
delle sue pretese, e quand’anche essa fosse una
menzogna palpabile. I segni
dell’approvazione altrui lo consolano spesso d’una sventura
reale o della parsimonia colla quale
stillano per lui le due fonti principali di felicità, di cui
abbiamo trattato finora. Dall’altro lato fa
stupore il vedere quanto egli sia infallantemente
angosciato e molte volte dolorosamente
ferito da ogni lesione alla sua ambizione, in
qualunque senso, a qualunque grado, o sotto
qualunque rapporto si sia, da ogni sdegno, da
ogni trascuranza, dalla più piccola
mancanza di riguardi. Servendo di base al sentimento
dell’onore, questa proprietà può avere
un’influenza salutare sulla buona condotta di
moltissime persone, a guisa di succedaneo
della loro moralità; ma in quanto alla sua azione
sulla felicità reale dell’uomo, e
sopratutto sulla quiete dell’animo e sull’indipendenza, le
due condizioni sì necessarie alla felicità,
essa è piuttosto perturbatrice e dannosa che
favorevole. Si è per questo, che, dal
nostro punto di vista, è prudente metterle un limite e,
con saggie riflessioni e con un giusto
apprezzamento del valore dei beni, moderare questa
grande sensibilità riguardo l’opinione
altrui tanto nel caso che carezzi quanto nel caso che
ferisca, perocchè in tutti e due pende dal
medesimo filo. Altrimenti restiamo schiavi
dell’opinione e del sentimento degli altri:
Sic leve, sic
parvum est, animum quod laudis avarum
Subruit
ac reficit.
(Talmente tenue, talmente piccolo è ciò che
perturba e riconforta un’anima avida di
lode).
Per conseguenza un giusto apprezzamento del
valore di ciò che si e in
sè stesso e per
sè stesso confrontato con ciò che si è solamente agli occhi altrui contribuirà
molto alla
nostra felicità. Il primo termine del confronto
comprende quanto riempie il tempo della
nostra esistenza, il contenuto intimo di
questa, e quindi tutti i beni che abbiamo esaminati
nei capitoli intitolati Di ciò che si è e Di ciò che si ha. Perocchè
il luogo dove si
trova la
sfera d’azione di tutto questo è proprio la
coscienza dell’uomo. Invece il
luogo di tutto ciò
che siamo per gli altri è la coscienza altrui; è la figura sotto la
quale noi vi appariamo,
come pure le nozioni che vi si riferiscono 10. Ora queste sono cose che, direttamente, non
10
Le classi più eminenti nel
loro lustro, splendore e fasto, nella loro magnificenza ed ostentazione d’ogni
natura
possono dire a sè stesse: La nostra felicità è posta interamente fuori di noi;
il suo luogo è nella testa
esistono affatto per noi; tutto ciò non
esiste che indirettamente, vale a dire se non in quanto
stabilisce la condotta degli altri verso di
noi. Ed anche questo non entra realmente in
considerazione che in quanto influisce su
ciò che potrebbe modificare quello
che siamo in
noi e per noi stessi. Ciò posto, quanto succede
in una coscienza straniera ci è, a tal titolo,
perfettamente indifferente, e, a nostra
volta, noi vi diverremo indifferenti a misura che
conosceremo abbastanza la superficialità e
la futilità dei pensieri, i ristretti limiti delle
nozioni, la piccolezza dei sentimenti,
l’assurdità delle opinioni e il numero considerevole di
errori che s’incontra nella maggior parte
dei cervelli umani — a misura che impareremo per
esperienza con qual disprezzo si parla,
all’occasione, di ciascuno di noi quando non si teme
o non si crede che lo sapremo — ma
sopratutto allorquando avremo inteso una sol volta con
qual disdegno una dozzina d’imbecilli parla
dell’uomo il più degno di stima.
Comprenderemo allora che attribuire un alto
valore all’opinione degli uomini è far loro
troppo onore.
In ogni caso, è proprio esser ridotti ad
una meschina risorsa il non trovare la felicità
nelle due classi di beni di cui abbiamo già
parlato, ed il doverla cercare in questa terza, o,
con altre parole, in ciò che si è non
realmente, ma nell’immaginazione altrui. In tesi
generale è la nostra natura animale che
costituisce la base del nostro essere, e per
conseguenza anche della nostra felicità.
L’essenziale per il benessere è dunque la
salute, e poi i mezzi necessari al nostro
mantenimento, e per conseguenza una vita
libera da cure moleste. L’onore, il fasto, la
grandezza, la gloria, qualunque valore si
attribuisca loro, non possono entrar in concorrenza
con questi beni essenziali, nè surrogarli; ben
altrimenti, toccando il caso, non si esiterebbe
un momento solo a cangiarli con gli altri.
Sarà dunque molto utile per la nostra felicità il
conoscere per tempo questo fatto così
semplice che ognuno vive anzitutto ed effettivamente
nella sua propria pelle e non nell’opinione
degli altri, e che allora naturalmente la nostra
condizione reale e personale, quale la
determinano la salute, il temperamento, le facoltà
intellettuali, le rendite, la moglie, i
figli, l’abitazione, ecc., è cento volte più importante per
la nostra felicita di ciò che piace agli
altri fare di noi. L’illusione contraria rende infelice.
Esclamare con enfasi: «L’onore vale più
della vita» è dire realmente: «La vita e la salute
sono niente; ciò che gli altri pensano di
noi, ecco l’importante». Tutt’al più questa massima
può esser considerata come una iperbole in
fondo alla quale si trova la prosaica verità che
per mantenersi e per andar avanti fra gli
nomini, l’onore, vale a
dire la loro opinione a
nostro riguardo, è spesso d’un’utilità indispensabile:
ritornerò più avanti su tale questione.
Quando si vede invece come quasi tutto ciò
che gli uomini cercano durante l’intera loro
vita, a prezzo di sforzi incessanti, di
mille pericoli e di mille amarezze, ha per iscopo finale
di elevarli nell’opinione altrui, perocchè
non solo le cariche, i titoli e le onorificenze, ma la
ricchezza ancora, o pur anche la scienza11 e le arti sono, in sostanza, ricercate
principalmente a questo fine, quando si
vede che il risultato definitivo a cui si tende è di
ottenere più rispetto da parte degli altri,
tutto ciò non prova, ahimè! se non la grandezza
dell’umana follia.
Annettere troppo valore all’opinione altrui
è una superstizione universalmente
dominante; che essa abbia le sue radici
nella nostra stessa natura, o che abbia seguito la
nascita della società e della civiltà, egli
è certo che esercita in ogni caso sulla nostra
condotta un’influenza smisurata ed ostile
alla nostra felicità. Possiamo seguire tale
influenza dal punto in cui si mostra sotto
la forma d’una deferenza ansiosa e servile per il
che se ne dirà? fino al punto in cui pianta il pugnale di
Virginio in petto alla figlia, oppure
in cui trascina l’uomo a sacrificare alla
gloria postuma il suo riposo, la sua fortuna, la sua
salute e perfino la sua vita. Questo
pregiudizio offre, è vero, a chi è chiamato a regnare
degli
altri. 11 Scire
tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter (Che tu sappi è niente, se non sai che gli
altri lo sanno).
(Nota
di Schopenhauer).
sugli uomini od, in generale, a dirigerli,
una risorsa comodissima; sicchè il precetto d’aver
da tenere svegliato o stimolato il
sentimento dell’onore occupa il posto principale in ogni
ramo dell’arte dell’educazione; ma riguardo
alla felicità dell’individuo, ed è questo che qui
ci occupa, succede tutt’altra cosa, e noi
dobbiamo dunque dissuaderci dall’attribuire un
valore troppo alto all’opinione altrui. Se
nondimeno, come ce lo insegna l’esperienza, il
fatto si presenta ogni giorno; se ciò che
la maggior parte degli uomini stima di più si è
precisamente l’opinione altrui a loro
riguardo, e se essi se ne preoccupano più che di
quanto, succedendo nella loro propria
coscienza, esiste immediatamente per loro; se
dunque, per un rovesciamento dell’ordine
naturale, si è l’opinione altrui che sembra loro
esser la parte reale dell’esistenza,
l’altra non apparendo esserne che la parte ideale; se fanno
di ciò che è derivato e secondario
l’oggetto principale, e se l’immagine del loro essere nella
testa degli altri sta loro più a cuore che
il loro essere stesso; tale apprezzamento diretto di
ciò che direttamente non esiste per alcuno
costituisce quella follia a cui si è dato il nome di
vanità, «vanitas» per
indicare con questa parola il vuoto ed il chimerico di tale tendenza. Si
può facilmente comprendere anche, per
quanto dicemmo più indietro, che essa appartiene
alla categoria di quegli errori che
consistono nell’obliare lo scopo per i mezzi, come
l’avarizia.
In fatti il prezzo che noi annettiamo
all’opinione altrui e la nostra costante
preoccupazione a questo riguardo passano
quasi ogni limite ragionevole, talmente che tale
preoccupazione può esser considerata come
una specie di mania generalmente
diffusa, o
piuttosto innata. In tutto ciò che
facciamo, come in tutto ciò che ci asteniamo di fare, noi
prendiamo in considerazione l’opinione
altrui quasi prima d’ogni altra cosa, e si è da una tal
cura che in seguito ad un esame profondo
vedremo nascere la metà circa dei tormenti e
delle angoscie che abbiamo provato.
Perocchè è davvero questa preoccupazione che
troviamo in fondo di ogni nostro amor
proprio, così spesso offeso perchè è così
morbosamente sensibile, al fondo di ogni
nostra vanità e di ogni nostra pretesa, come pure
al fondo del nostro fasto e della nostra ostentazione.
Senza una tale preoccupazione, senza
una tal rabbia, il lusso non sarebbe il
decimo di ciò che è. Su essa è stabilito tutto il nostro
orgoglio, punto d’onore e puntiglio12, di qualunque specie si sia ed a qualunque sfera
appartenga, — e quante vittime non fa di
frequente! Essa si mostra già nel fanciullo poi in
ogni stadio della vita, ma raggiunge tutta
la sua forza nell’età avanzata, perchè allora,
l’attitudine ai piaceri sensuali essendo
esaurita, vanità ed orgoglio non hanno più a divider
l’impero che con l’avarizia. Un tale furore
si osserva più chiaramente nei Francesi presso i
quali essa regna endemicamente e si
manifesta spesso per mezzo dell’ambizione la più
sciocca, della vanità nazionale la più
ridicola, e della millanteria la più spudorata; ma le
loro pretese per ciò stesso si annullano
perchè li espongono al riso delle altre nazioni, ed
hanno fatto un nomignolo grottesco del
titolo di grande nation.
Per spiegare più chiaramente tutto ciò che
abbiamo esposto fin qui sulla stoltezza di
preoccuparsi fuor di misura dell’opinione
altrui voglio ricordare un esempio davvero
maraviglioso di questa follia radicata
nella natura umana; questo esempio è favorito da un
effetto di luce che deriva da circostanze
speciali e d’un carattere appropriato; ciocchè ci
permetterà di ben valutare la forza di
questo bizzarro motore delle azioni umane. Ecco un
brano del rapporto dettagliato pubblicato
dal Times del 31
marzo 1846 sulla recente
esecuzione di un certo Thomas Wix, operaio
che aveva assassinato il suo padrone per
vendetta: «Nella mattina del giorno fissato
per l’esecuzione, il reverendo cappellano delle
carceri si portò presso di lui. Ma Wix,
quantunque assai calmo, non ascoltava le esortazioni
del ministro di Dio; sua sola
preoccupazione era quella di far mostra d’un coraggio estremo
in presenza della folla che stava per
assistere alla sua brutta fine. E vi è riuscito. Arrivato
nel cortile che doveva traversare per
giungere al patibolo, innalzato di contro alla prigione,
esclamò: «Ebbene, come diceva il dottor
Dodd, conoscerò fra poco il gran mistero!»
12
Point d’honneur und
puntiglio nel
testo. (Nota del Trad.).
Quantunque avesse le braccia legate, salì
senza aiuto la scala della forca; giunto alla cima,
fece a dritta e a manca saluti agli
spettatori, e la moltitudine assembrata vi corrispose, in
ricompensa, con formidabili acclamazioni,
ecc.»
Aver davanti gli occhi la morte, sotto la
forma più spaventosa, coll’eternità dopo di
essa, e non preoccuparsi se non dell’effetto
che si produrrà su quella massa di balordi
accorsi e dell’opinione che si lascierà
dopo morte nelle loro teste, non è forse un saggio
unico d’ambizione? Lecomte che, lo stesso
anno, fu ghigliottinato a Parigi per tentato
regicidio, si rammaricava principalmente,
durante il processo, di non potersi presentare
davanti la Camera dei pari, vestito
convenientemente, ed anche al momento dell’esecuzione
era suo gran dolore che non gli si avesse
permesso di radersi la barba prima di salire il
patibolo.
Lo stesso succedeva per lo passato, ciò che
potremo vedere nell’introduzione
(declaracion) da cui
Mateo Aleman fa precedere il suo celebre romanzo Guzman
d’Alfarache; in essa è detto che molti delinquenti dal
cervello sconcertato tolgono le loro
ultime ore alle cure della salute eterna, a
cui dovrebbero impiegarle esclusivamente, per
terminare ed imparare a mente un piccolo
discorso che vorrebbero recitare dall’alto della
forca.
Possiamo trovare la nostra propria immagine
in simili tratti; perocchè sono gli esempi
di taglia colossale che forniscono le
spiegazioni più evidenti in ogni materia. Per noi tutti,
ben di sovente, le nostre preoccupazioni, i
nostri affanni, le cure angosciose, le nostre
collere, le nostre inquietudini, i nostri
sforzi, ecc., hanno in vista quasi interamente
l’opinione altrui e sono tanto assurde
quanto quelle dei poveri diavolacci ricordati più
indietro. L’invidia e l’odio partono
egualmente, in gran parte, dalla stessa radice.
Nessuna cosa evidentemente contribuirebbe
meglio alla nostra felicità, composta
principalmente di calma dello spirito e di
soddisfazione, del limitare la potenza di un tale
motore, e dell’abbassarla a un grado che la
ragione potesse giustificare (a 1/50 per esempio)
estraendo così dalle nostre carni questa
spina che le strazia. Ma la cosa è molto difficile;
abbiamo a che fare con una bizzarria
naturale ed innata: Anche
i saggi si spogliano per
ultimo dalla passion della gloria, dice
Tacito (Hist. IV, 6). Il solo mezzo di liberarci da
questa follia universale sarebbe di
riconoscerla distintamente per una follia, e, a tale scopo,
renderci conto ben chiaramente fino a qual
punto le opinioni, nelle teste degli uomini, sieno
in massima parte e molto di frequente
false, storte, erronee ed assurde; quanto l’opinione
altrui abbia poca influenza reale su noi
nella maggior parte dei casi e delle cose; quanto in
generale essa sia cattiva, talmentechè non
vi sarebbe chi non si ammalerebbe dalla collera
se sentisse in che tono si parla e cosa si
dice di lui; quanto infine l’onore istesso non abbia,
propriamente parlando, che un valore
indiretto e non immediato, ecc. Se potremo riuscire
ad ottenere la guarigione di questa pazzia
generale, guadagneremo infinitamente in calma di
spirito ed in soddisfazione, ed
acquisteremo nel tempo stesso un contegno più fermo e più
sicuro, e un portamento molto più sciolto e
più naturale. L’influenza affatto benefica d’una
vita ritirata sulla nostra tranquillità
d’animo e sulla nostra soddisfazione proviene in gran
parte perchè essa ci sottrae all’obbligo di
vivere costantemente sotto lo sguardo altrui e, per
conseguenza, ci toglie la preoccupazione
incessante sulla loro possibile opinione: ciò che ha
per effetto di renderci a noi stessi. In
tal maniera sfuggiremo egualmente a molti mali
effettivi la cui causa unica è questa
aspirazione puramente ideale, o, per dire più
correttamente, questa deplorabile demenza;
ci resterà pure la facoltà di prestare maggior
cura ai beni reali, che potremo allora
gustare senza essere disturbati. Ma «Χαλεπα
τα καλα»
(moleste le cose buone) lo abbiamo già
detto.
Dalla follia della natura umana or ora
descritta, germogliano tre rampolli principali:
l’ambizione, la vanità e l’orgoglio. Tra i
due ultimi la differenza consiste in ciò che
l’orgoglio
è
la convinzione già fermamente acquistata del nostro alto valore sotto ogni
rapporto; la vanità invece è il desiderio di far
nascere questa convinzione negli altri e,
d’ordinario, colla secreta speranza di
poter in seguito appropriarsela. Così l’orgoglio è l’alta
stima di sè, procedente dall’interno, dunque
diretta; la vanità invece è la tendenza ad
acquistarla dal di fuori, dunque
indirettamente. Per ciò la vanità rende loquaci, l’orgoglio
taciturni. Ma il vanitoso dovrebbe sapere
che l’alta opinione degli altri, a cui aspira, si
ottiene molto più presto e più sicuramente
serbando un continuo silenzio che parlando,
quand’anche s’avesse da dire le più belle
cose del mondo. Non è orgoglioso chiunque lo
voglia; tutt’al più può affettare orgoglio
chiunque lo voglia; ma quest’ultimo si tradirà ben
presto nella parte che vuol rappresentare,
siccome in ogni parte presa a prestito. Perocchè
ciò che rende realmente orgoglioso si è la
ferma, l’intima, l’incrollabile convinzione di
meriti eminenti e d’un valore
straordinario. Tale convinzione può essere erronea, oppure
basarsi su meriti semplicemente esterni e
convenzionali — ciò poco importa all’orgoglio,
purchè essa sia reale e sincera. Poichè
l’orgoglio ha le sue radici nella convinzione, sarà,
come ogni idea, al di fuori della nostra libera volontà. Il suo
peggior nemico, voglio dire il
suo maggior ostacolo, è la vanità che briga l’approvazione
altrui per fondar poi su questa la
propria alta stima di sè stessa, mentre
l’orgoglio suppone un’opinione già fermamente
stabilita.
Quantunque l’orgoglio sia generalmente
biasimato ed infamato, nondimeno sono
tentato di credere che ciò venga
principalmente da coloro che non hanno di che
insuperbirsi. Vista l’impudenza, e la
stupida arroganza della maggior parte degli uomini,
ogni persona che possede meriti di
qualsivoglia specie farà molto bene a metterli in chiara
luce da sè stesso, allo scopo di non
lasciarli cadere in un completo oblio; perocchè colui che
benevolmente, non cerca di approfittarsene
e si conduce con la gente come se fosse affatto
suo simile, non tarderà ad esser
considerato da essa in tutta sincerità come un suo pari.
Vorrei raccomandare di condursi in siffatta
guisa a coloro sopratutto i cui meriti sono
dell’ordine il più elevato, meriti reali,
in conseguenza puramente personali, attesochè essi
non possono esser richiamati ad ogni
momento alla memoria, come le decorazioni e i titoli,
da una impressione dei sensi; altrimenti
facendo, vedranno realizzarsi troppo spesso il sus
Minervam (il maiale che ammonisce Minerva).
Un eccellente proverbio arabo dice: Scherza collo schiavo, ed ei ti mostrerà
ben tosto
il deretano. Anche la massima di Orazio: Sume superbiam quaesitam meritis (Assumi la
superbia richiesta dai meriti) non è da
disdegnare. La modestia è proprio una virtù inventata
principalmente per uso e consumo dei
mariuoli, perocchè esige che ciascuno parli di sè
come se fosse un mariuolo: ciocchè
stabilisce un’eguaglianza di livello ammirabile e
produce la stessa apparenza come se non vi
fosse in generale che della canaglia.
Intanto l’orgoglio a più buon mercato è
l’orgoglio nazionale. Esso tradisce presso chi
ne è tocco l’assenza di ogni qualità individuale di cui
potesse andar fiero, perocchè, se così
non fosse, questi non sarebbe ricorso ad una
qualità che divide con tanti milioni d’individui.
Chiunque possede meriti personali distinti
riconoscerà invece più chiaramente i difetti della
sua nazione, poichè l’ha sempre sotto gli
occhi. Ma ogni miserabile imbecille, che non ha al
mondo cosa di cui possa andar superbo, si
getta su quest’ultima risorsa, d’esser fiero cioè
della nazione alla quale si trova
appartenere per azzardo; si è con ciò che vuol rifarsi, e,
nella sua gratitudine, è pronto a difendere
πνιξ και λαξ (a pugni ed a
calci) tutti i difetti e
tutte le sciocchezze proprio alla sua
nazione.
Così, su cinquanta inglesi, per esempio, se
ne troverà appena uno solo che leverà la
voce per approvarvi quando parlerete con
giusto disprezzo del bigottismo stupido e
degradante della sua nazione; ma questo
solo individuo sarà certamente una buona testa. I
Tedeschi non hanno orgoglio nazionale e
provano così quell’onestà di cui hanno la fama;
invece provano tutto il contrario coloro
fra i Tedeschi che professano ed affettano in modo
ridicolo tale orgoglio, come fanno
principalmente i deutschen
Brüder (fratelli tedeschi) ed i
democratici che adulano il popolo allo
scopo di sedurlo. Si pretende bene che i Tedeschi
abbiano inventato la polvere, ma io non
sono di quest’opinione. Lichtenberg presenta la
seguente questione: «Perchè un uomo che non
è tedesco si fa molto di rado passare per
tale? e perchè quando vuol farsi passare
per qualche cosa, si dirà ordinariamente francese o
inglese?»13. Del resto l’individualità, in ogni persona, è cosa ben
altrimenti importante della
nazionalità, e merita mille volte più di
questa d’esser presa in considerazione. Onestamente
non si potrà mai dire gran bene d’un
carattere nazionale, poichè nazionale
significa
che
appartiene al volgo. Si è piuttosto la
meschinità dello spirito, la demenza e la perversità
della specie umana che sole spiccano in
ogni paese sotto forma differente, ed è questo che
si chiama carattere nazionale. Stomacati di
uno, ne lodiamo un altro, fino a che anche
questo c’ispira lo stesso sentimento. Una nazione
si ride dell’altra, e tutte hanno ragione.
La materia di questo capitolo può esser
classificata, come dicemmo, in onore, grado e
gloria.
2. Il
grado.
In quanto al grado, per importante che sembri
agli occhi del volgo e dei filistei, e per
grande che possa essere la sua utilità come
roteamento nella macchina dello Stato, avremo
finito con esso in poche parole per
raggiungere il nostro scopo. Si tratta d’un valore di
convenzione, o, più correttamente, d’un
valore di simulazione; la sua azione ha per risultato
una stima simulata, e il tutto è una
commedia per la folla. Le decorazioni sono cambiali
tirate sull’opinione pubblica; il loro
valore si basa sul credito del traente. Intanto, senza
parlare del danaro non indifferente che
risparmiano allo Stato sostituendo le ricompense
pecuniarie, esse sono nondimeno
un’istituzione delle più felici, dato che la loro
distribuzione sia fatta con discernimento
ed equità. Infatti la folla ha occhi ed orecchie, ma
nient’altro; sopratutto il senno le è
infinitamente scarso, e corta pure la memoria. Certi
meriti sono affatto fuori della portata del
suo comprendimento; e ve n’ha di quelli che essa
comprende ed acclama al loro apparire, ma
che ben presto dimentica. Ciò essendo, trovo
convenientissimo di gridare, ovunque e
sempre, alla folla coll’organo d’una croce o d’una
stella: «L’uomo che vedete non è vostro
pari, egli ha dei meriti!» Per altro con una
distribuzione ingiusta, non ragionevole od
eccessiva, le decorazioni perdono il loro prezzo;
sicchè un principe dovrebbe mettervi tanta
circospezione ad accordarle, quanta un
commerciante a segnar cambiali.
L’iscrizione «Al merito» sopra
una croce è un pleonasmo;
ogni decorazione dovrebbe essere «pour le merite, ça va sans dire»14.
3. L’onore.
La discussione sull’onore sarà molto più difficile e
molto più lunga di quella sul
grado. Prima di tutto dovremo definirlo. Se
a tal uopo dicessi: «L’onore è la coscienza
esterna, e la coscienza è l’onore interno»,
la definizione potrebbe forse piacere a qualcuno,
ma avremmo una spiegazione piuttosto
brillante che netta e ben fondata. Sicchè direi:
«L’onore è, oggettivamente, l’opinione che
hanno gli altri del nostro valore, e,
soggettivamente, il timore che c’ispira
tale opinione.» In quest’ultima qualità esso ha di
sovente un’azione molto benefica,
quantunque in morale pura niente affatto fondata,
sull’uomo d’onore.
La radice e l’origine del sentimento
dell’onore e della vergogna, inerente ad ogni
uomo che ancora non sia interamente corrotto,
ed il motivo dell’alto prezzo attribuito
all’onore, saranno messi in mostra colle
considerazioni seguenti. L’uomo non può, da sè
solo, che assai poca cosa: egli è un
Robinson abbandonato; unicamente in società cogli altri
è, e può molto. Ei si rende conto di questa
condizione fino dall’istante in cui la sua
coscienza comincia a svilupparsi un po’,
che subito si sveglia in lui il desiderio di esser
annoverato come un membro utile della
società, capace di concorrere «pro parte virili»
all’azione comune, con diritto così di
partecipare ai vantaggi della comunità umana. Vi
riesce soddisfacendo da prima a ciò che si
esige e si aspetta da qualunque uomo in
qualunque posizione, e poi a ciò che si
esige e si aspetta da lui nella posizione speciale che
occupa. Ma egli conosce ben presto che ciò
che importa non è d’esser un uomo di tal
tempra nella sua propria opinione, ma bensì
in quella degli altri. Ecco l’origine dell’ardore
con cui egli briga favorevole l’opinione
altrui, e dell’alto prezzo che vi annette.
Queste due tendenze si manifestano colla
spontaneità d’un sentimento innato che si
chiama sentimento dell’onore e, in certe
circostanze, sentimento del pudore (verecundia).
Ecco ciò che caccia il sangue sulle guancie
all’uomo non appena ei si crede minacciato di
perdere nell’opinione altrui, benchè si
sappia innocente, od ancorchè il fallo svelato non sia
che un’infrazione relativa, vale a dire non
concerni che un obbligo assunto gentilmente.
D’altra parte nessuna cosa fortifica in lui
il coraggio di vivere meglio della certezza
acquistata o rinnovellata della buona
opinione degli altri, perocchè essa gli assicura la
protezione ed il soccorso delle forze
riunite dell’insieme, ciocchè costituisce un riparo
contro i mali della vita infinitamente più
gagliardo delle sue sole forze.
Dalle diverse relazioni in cui un uomo può
trovarsi con altri individui e che mettono
costoro nel caso di accordargli fiducia, in
conseguenza di avere, come si dice, buona
opinione di lui, nascono diverse specie di
onore. Di esse le principali sono il mio ed il tuo, i
doveri a cui si ha preso impegno, e in fine
il rapporto sessuale; vi corrispondono l’onore
borghese, l’onore dell’officio e l’onore sessuale, ciascuno dei quali presenta ancora delle
suddivisioni.
L’onore
borghese occupa la sfera la più estesa: consiste nella presupposizione
che noi
rispetteremo assolutamente i diritti di
ciascuno e che, per conseguenza, non impiegheremo
mai a nostro vantaggio mezzi ingiusti od
illeciti. Esso è la condizione richiesta per
partecipare al commercio pacifico cogli
uomini. Basta, per perderlo, una sola azione che gli
sia fortemente e manifestamente contraria;
come conseguenza ogni pena criminale ce lo
toglie egualmente, a condizione però che la
pena sia giusta. Tuttavia l’onore si basa sempre,
in ultima analisi, sulla convinzione
dell’immutabilità del carattere morale, in virtù della
quale una sola cattiva azione garantisce
una qualità identica di senso morale in tutte le
azioni ulteriori, non appena si
presenteranno ancora circostanze simili; ciò che indica pure
l’espressione inglese «character» che vuoi
dire stima, riputazione, onore. Ed ecco perchè la
perdita dell’onore è irreparabile, a meno
che non sia dovuta alla calunnia od a false
apparenze. Perciò v’hanno leggi contro la
calunnia, i libelli, e di più contro le ingiurie;
perocchè l’ingiuria, l’insulto semplice, è
una calunnia sommaria, senza indicazione di
motivi: in greco si potrebbe esprimere
questo pensiero così: «εστι ἡ
λοιδορια
διαβολη
συντομος»
(L’ingiuria è la calunnia abbreviata); tuttavia questa massima non si trova
espressa in alcun luogo.
È un fatto che chi ingiuria non ha niente
di reale nè di vero da produrre contro l’altro,
altrimenti lo esprimerebbe come premessa e
lascierebbe tranquillamente a chi ascolta la
cura di tirare la conclusione; ma invece dà
la conclusione e resta in debito della premessa
contando sulla presupposizione nello
spirito degli uditori ch’egli proceda in siffatta guisa
solamente per brevità.
L’onore borghese prende, è vero, il nome
dalla classe borghese; ma la sua autorità si
estende sopra tutte le classi
indistintamente, senza eccezione pure per le più alte; nessuno
può farne senza; si è proprio un affare dei
più serj, e bisogna guardarsi dal prenderlo alla
leggera. Chiunque viola la fede e la legge
rimane per sempre uomo senza fede e senza
legge, checchè faccia e checchè possa
essere; i frutti amari che porta con sè la perdita
dell’onore non tarderanno a mostrarsi.
L’onore
ha,
in un certo senso, carattere negativo, in
opposizione alla gloria il cui
carattere è positivo, perchè
l’onore non è quell’opinione che si riferisce a qualità speciali,
appartenenti ad un solo individuo, ma è
l’opinione che si riferisce a qualità d’ordinario
presupposte, e che l’individuo è tenuto di possedere
egualmente agli altri. L’onore dunque
si accontenta di far testimonianza che
questo soggetto non fa eccezione, mentre la gloria
afferma che esso è un’eccezione. La gloria
deve quindi esser acquistata; l’onore al contrario
non abbisogna che di non esser perduto. Per
conseguenza la mancanza di gloria è l’oscurità,
una negazione; la mancanza d’onore è l’onta, una positività. Non
bisogna però confondere
questa condizione negativa con la
passività; tutto all’opposto l’onore ha un carattere
interamente attivo. Infatti esso procede
unicamente dal suo
soggetto; esso è fondato sulla
condotta propria di questi e non sulle azioni d’altri, o su
fatti esterni; esso è dunque «των
έφ̉ ημι̃ν»
(una qualità interna). Vedremo bentosto che questo è il marchio distintivo fra
il
vero onore, e l’onore cavalleresco o falso
onore. Dal di fuori non v’ha attacco possibile
contro l’onore che colla calunnia; il solo
mezzo di difesa ne è il respingerla colla pubblicità
necessaria per smascherare il calunniatore.
Il rispetto che si accorda all’età sembra
fondarsi sul fatto che l’onore dei giovani,
quantunque accordato per supposizione, non
è ancora stato messo alla prova e per
conseguenza non esiste, propriamente
parlando, che a credito, mentre per gli uomini maturi
si è potuto constatare nel corso della vita
se colla loro condotta hanno saputo serbarlo.
Perocchè nè gli anni per sè stessi — gli
animali raggiungendo essi pure un’età avanzata e
forse più avanzata che l’uomo — nè
l’esperienza quale semplice conoscenza più intima
dell’andamento delle cose umane
giustificherebbero abbastanza il rispetto dei giovani per
chi conta maggior numero d’anni, rispetto
che tuttavia si esige universalmente; la pura
fiacchezza senile darebbe diritto ai
riguardi piuttosto che alla considerazione. Nondimeno è
da notare che vi è nell’uomo un certo
rispetto innato, realmente istintivo, per i capelli
bianchi. Le grinze, segno ben più certo di
vecchiezza, non lo ispirano minimamente. Non si
è mai fatto menzione di grinze
rispettabili, si è sempre detto: i venerabili capelli bianchi.
L’onore non ha che un valor indiretto.
Perocchè, come spiegai al principio del
capitolo, l’opinione degli altri a nostro
riguardo non può aver valore per noi che in quanto
determini o possa determinare eventualmente
la loro condotta verso di noi. È vero che ciò
succede sempre per quanto a lungo si viva
cogli uomini o fra essi. Infatti, siccome nello
stato di civiltà dobbiamo solo alla società
la nostra sicurezza e il nostro avere, siccome
inoltre in ogni impresa abbiamo bisogno degli
altri e ci occorre avere la loro confidenza
perchè essi entrino in relazione con noi,
l’opinione loro avrà un alto prezzo agli occhi
nostri; ma questo prezzo sarà sempre
indiretto, ed io non saprei ammettere che essa potesse
avere un valore diretto. Tale è pure il
parere di Cicerone (Fin., III,
17): Della buona fama
poi Crisippo e Diogene invero dicevano che, messa da parte
l’utilità, per essa certo non
sarebbe da muovere un dito; ciò che io pure affermo
altamente. Anche Elvezio nel suo
capolavoro Dello spirito (Disc. III, cap. 13), sviluppa a
lungo questa verità, e giunge alla
conclusione: Noi non amiamo la stima per sè stessa,
ma, unicamente per i vantaggi che
procura. Ora il mezzo non potendo valere più del
fine, la massima pomposa: Prima
della
vita l’onore, non sarà mai, come già dicemmo, che
un’iperbole.
Ecco quanto sull’onore borghese.
L’onore
dell’officio è l’opinione generale che un uomo investito d’un impiego
posseda effettivamente tutte le qualità
richieste, e adempia appuntino ed in ogni circostanza
agli obblighi della sua carica. Quanto più
nello Stato la sfera d’azione di un uomo è
importante ed estesa, quanto più il posto
ch’egli occupa è elevato e potente, tanto più
grande deve essere l’opinione che si ha
delle qualità intellettuali e morali che ne lo rendono
degno; per conseguenza dovrà alzarsi il
grado dell’onore che gli si accorda e che si
manifesta coi titoli, colle decorazioni,
ecc., e l’umiltà nella condotta degli altri a suo
riguardo s’accentuerà progressivamente. Si
è la posizione di un uomo che, misurata sulla
stessa scala, determina costantemente il
grado particolare dell’onore che gli è dovuto;
questo grado tuttavia può esser modificato
dalla facilità più o meno grande delle masse a
comprendere l’importanza della posizione.
Ma si concederà sempre maggior onore a chi
avrà obblighi affatto speciali da
disimpegnare, come quelli d’un officio, per esempio, che al
semplice borghese, il di cui onore è
stabilito principalmente su qualità negative.
L’onore dell’officio esige inoltre che colui
che tiene una carica, la faccia rispettare a
causa dei suoi colleghi e dei suoi
successori; per riuscirvi deve, come dicemmo, soddisfare
puntualmente a’ suoi doveri, ma di più non
deve lasciare impunito nessun attacco contro il
posto o contro lui stesso, come
funzionario: non permetterà dunque giammai che si dica
ch’egli non disimpegna scrupolosamente ai
doveri del suo officio, o che questo non è di
alcuna utilità per il paese, dovrà invece,
facendo punire il colpevole dai Tribunali, provare
che tali attacchi erano ingiusti.
Come sotto-ordini di questo onore troviamo
quelli dell’impiegato, del medico,
dell’avvocato, di ogni pubblico professore,
e pur anco di ogni graduato, in poche parole, di
chiunque in virtù d’una dichiarazione officiale
è stato proclamato capace di un qualche
lavoro intellettuale, e per ciò si è
impegnato ad eseguirlo; l’onore finalmente in quella
qualità che si può comprendere sotto la
designazione di obbligati
pubblici. In tale categoria
bisogna dunque mettere anche il vero onore militare, che
consiste nell’opinione che
chiunque si è impegnato a difender la
patria comune, possede realmente le qualità volute,
fra le quali e prima d’ogni altra il
coraggio, il valore e la forza, e che costui è pronto a
difenderla risolutamente fino alla morte,
ed a non abbandonare per nessun prezzo la
bandiera a cui ha prestato giuramento. Ho
dato all’onore
dell’officio un significato molto
largo, perocchè ordinariamente
quest’espressione significa il rispetto dovuto dai cittadini
all’officio stesso.
Mi pare che l’onore sessuale richiegga
d’esser esaminato più da vicino, e che i suoi
principi debbano esser rintracciati fino
nella radice; ciò che verrà a confermare nel tempo
stesso che ogni onore si fonda, alla fin
fine, sopra considerazioni di utilità. Considerato
nella sua natura l’onore sessuale si divide
in onore delle donne ed in onore degli uomini, e
costituisce d’ambe le parti uno spirito di corpo bene
inteso. Dei due il primo è molto più
importante perchè nella vita della donna il
rapporto sessuale è l’affare principale. Così
dunque l’onore femminile è, quando si parla di una ragazza,
l’opinione generale che ella
non si sia data all’uomo, e, per la donna
maritata, che ella si sia data a quello solo a cui è
unita in matrimonio. L’importanza di questa
opinione si fonda sulle considerazioni
seguenti. Il sesso femminile invoca e si
aspetta dal sesso mascolino assolutamente tutto;
tutto ciò che desidera e tutto ciò che gli
è necessario; il sesso mascolino non domanda
all’altro, prima di tutto e direttamente,
che un’unica cosa. Si dovette quindi acconciarsi in
maniera tale, che il sesso mascolino non
potesse ottenere questa unica cosa se non a
condizione di prendersi cura di tutto, e
per soprammercato dei nascituri; su tale
disposizione di cose è basato il benessere
di tutto il sesso femminile. Perchè la disposizione
possa eseguirsi conviene necessariamente
che tutte le donne tengano fermo insieme, e che
mostrino uno spirito di corpo. Esse si
presentano allora come un solo tutto, a schiere
serrate, dinanzi la massa intera del sesso
mascolino, come contro un nemico comune che,
avendo dalla natura ed in virtù della
preponderanza delle forze fisiche ed intellettuali, il
possesso di tutti i beni terrestri, deve
esser vinto e conquistato allo scopo di giungere,
essendone padrone, a godere nello stesso
tempo dei beni terrestri. A tal fine la massima
d’onore di tutto il sesso femminile, si è
che la vita in comune fuori del matrimonio sarà
assolutamente interdetta agli uomini, affinchè
ognuno di essi sia costretto al matrimonio
come ad una specie di capitolazione, e che
così siano provvedute tutte le donne. Tale
risultato non può essere ottenuto per
intero che coll’osservanza vigorosa della massima or
ora esposta; sicchè il sesso femminile
tutto intero veglia con vero spirito
di corpo a che tutti
i suoi membri l’eseguiscano fedelmente. Per
conseguenza ogni ragazza che col concubinato
si rende colpevole di tradimento verso il
suo sesso, è scacciata dal corpo intero e notata
d’infamia, perocchè il benessere della
comunità correrebbe pericolo se questo modo di
procedere si generalizzasse; allora si
dice: Ella ha perduto il suo onore. Nessuna donna deve
più frequentarla; la si sfugge come
un’appestata. La stessa sorte tocca alla donna adultera,
perchè essa ha violato la capitolazione
consentita dal marito, e tale esempio distoglie gli
uomini dal conchiudere sì fatte
convenzioni, mentre ne dipende la salute di tutte le donne.
Ed inoltre, siccome una tale azione
comprende una frode ed un volgare mancamento di
parola, la donna adultera perde non solo
l’onore sessuale, ma anche l’onore borghese. Per
ciò si può dire, come per scusarla: «una
ragazza è caduta»; non si dirà mai: «una donna è
caduta»; il seduttore può rendere l’onore
alla prima col matrimonio, ma giammai l’adultero
alla sua complice, in seguito a divorzio.
Dopo una esposizione così chiara si riconoscerà
che la base del principio dell’onor
femminile è uno spirito
di corpo salutare, necessario
anzi, ma tuttavia calcolato giustamente e
fondato sull’interesse; si potrà bene attribuirgli la
più alta importanza nella vita della donna,
si potrà accordargli un grande valore relativo, ma
non mai un valore assoluto che oltrepassi
quello della vita colle sue sorti; nè si ammetterà
in alcun caso che questo valore arrivi al
punto d’esser pagato a prezzo dell’esistenza stessa.
Non si potrà dunque approvare Lucrezia, nè
Virginio nel loro esaltamento degenerante in
una buffonata tragica. La peripezia nel
dramma Emilia Galotti (di W.
Lessing), per la stessa
ragione ha qualche cosa talmente
ributtante, che si sorte dallo spettacolo affatto mal
disposti. In cambio ed a dispetto dell’onor
sessuale non si può astenersi dal simpatizzare
colla Clärchen dell’Egmont. Tale maniera di spingere agli estremi il
principio dell’onore
femminile appartiene, come tante altre,
all’oblio del fine per i mezzi; si attribuisce, con tali
esagerazioni, all’onore sessuale un valore
assoluto, quando, non altrimenti d’ogni altro
onore, non ha che un valore relativo;
fors’anche si potrebbe esser condotti a dire che questo
valore è puramente convenzionale, quando si
legga «Thomasius, De
concubinato»; si
scorge in quest’opera che, fino alla
riforma di Lutero, in quasi tutti i paesi e in ogni tempo,
il concubinato fu uno stato di cose
permesso e riconosciuto dalla legge e che la concubina
non cessava d’esser onorevole: senza
parlare di Militta Babilonese (vedi Erodoto, I, 199),
ecc. Vi hanno pure convenienze sociali che
rendono impossibile la formalità esterna del
matrimonio, sopratutto nei paesi cattolici
ove non è ammesso il divorzio; ma in ogni paese
tale ostacolo esiste per i sovrani; a mio
avviso, intanto, aver un’amante è da parte loro
un’azione molto più morale di un matrimonio
morganatico; i figli nati da simili unioni
possono levar pretese nel caso in cui la
discendenza legittima venisse ad estinguersi, d’onde
risulterebbe la possibilità, benchè assai
lontana, d’una guerra civile. Di più il matrimonio
morganatico, concluso cioè a dispetto di
ogni convenienza esterna, è alla fin fine una
concessione fatta alle donne ed ai preti,
due classi di persone a cui si deve guardarsi, per
quanto si può, dal concedere qualche cosa.
Consideriamo ancora che ciascuno, nel suo
paese, può sposare la donna da lui
desiderata; ve n’ha uno solo a cui questo diritto naturale
è tolto: questo pover’uomo è il sovrano. La
sua mano appartiene al paese; non la si accorda
che in vista di una ragione di Stato, vale
a dire dell’interesse del paese. E tuttavia questo
principe è un uomo che, come gli altri, vorrebbe
una volta seguire l’inclinazione del suo
cuore. È ingiustizia ed ingratitudine,
quanto volgarità borghese, il proibire o il rimproverare
al sovrano di vivere colla sua amante, bene
inteso però quando ei non le accordi influenza
alcuna sugli affari del paese. Dal suo lato
pure quest’amante, in rapporto all’onore sessuale,
è per così dire una donna eccezionale,
fuori della regola comune, ella non si è data che ad
un sol uomo, lo ama e ne è amata, ed egli
non potrà mai prenderla per moglie. Ciò che
prova sopratutto che il principio
dell’onore femminile non ha un’origine puramente naturale
si è il gran numero di sacrifizi sanguinosi
che gli vengono fatti dall’infanticidio e dal
suicidio delle madri. Una ragazza che si dà
fuori della legge viola, è vero, la fede verso il
suo sesso; ma da lei questa fede è stata
solo tacitamente accettata, non giurata. E siccome
nella maggior parte dei casi è precisamente
il suo stesso interesse che ne soffre nel modo
più diretto, la sua follia è infinitamente
più grande della sua depravazione.
L’onore sessuale degli uomini è provocato
da quello delle donne a titolo di spirito
di
corpo opposto; ogni uomo che si adatta al
matrimonio, vale a dire ad una capitolazione così
vantaggiosa per la parte avversaria, contrae
l’obbligo di vegliare ormai a che si rispetti la
capitolazione, affinchè un tal patto non
venga a perdere della sua saldezza se si prendesse
l’abitudine di non osservarlo che assai
negligentemente; non bisogna che gli uomini, dopo
aver accordato tutto, giungano al punto di
non esser nemmeno sicuri della sola cosa che
hanno stipulato d’aver in cambio, cioè del
possesso esclusivo della sposa. L’onore del
marito esige che questi vendichi
l’adulterio della moglie, e lo punisca almeno colla
separazione. Se egli lo tollera quando ne
sia a conoscenza, la comunità mascolina lo copre
di vergogna; ma questa non è, presso a
poco, così profonda come quella della donna che ha
perduto l’onore sessuale. Essa è tutt’al
più una levioris notae
macula (una macchia di lieve
impronta), perocchè le relazioni sessuali
sono per l’uomo un affare secondario, vista la
moltiplicità e l’importanza delle altre sue
relazioni. I due grandi poeti drammatici dei tempi
moderni hanno preso, ciascuno due volte,
per soggetto l’onore maschile: Shakespeare
nell’Otello e nel Racconto d’una notte d’inverno, e
Calderon in El medico de
su honra (Il
medico del suo onore) e in A secreto agravio secreta venganza (Ad
oltraggio secreto,
secreta vendetta). Del resto questo onore non
chiede che il castigo della donna, e non quello
dell’amante; la punizione di quest’ultimo
non è che opus
superogationis (affare di
soprammercato), ciò che conferma molto bene
che la sua origine sta nello spirito di corpo
dei mariti.
L’onore, quale lo considerai fin qui nelle
varie specie e nei suoi principî, lo si trova
regnare in generale presso tutti i popoli
ed in tutte le epoche, quantunque si possa scoprire
qualche modificazione locale o temporanea
sui principî dell’onor femminile. Ma esiste pure
un genere di onore interamente diverso da
quello che ha corso generalmente e dovunque, un
genere di onore di cui nè i Greci nè i
Romani avevano la menoma idea, come non l’hanno
pure fino ad oggi nè i Chinesi, nè
gl’Indiani, nè i Maomettani. In fatti esso è nato nel medio
evo, e non si è climatizzato che
nell’Europa cristiana; qui pure non è penetrato che in una
frazione minima della popolazione, cioè fra
le classi superiori della società e fra gli emuli di
esse. Il suo nome è onore cavalleresco, o punto d’onore. La base
di esso è totalmente
diversa da quella dell’onore di cui abbiamo
trattato finora; su alcuni punti ne è anzi
l’opposto, poichè l’uno fa l’uomo onorevole, e
l’altro invece l’uomo
d’onore. Vengo
dunque ora ad esporne separatamente i
principi sotto forma di codice o specchio
cavalleresco.
1.° L’onore non consiste nell’opinione
altrui sul nostro merito, ma unicamente nelle
manifestazioni di quest’opinione; poco importa che
l’opinione manifestata esista realmente,
o non esista, e meno che sia o non sia
fondata. Per conseguenza il mondo può avere la più
cattiva opinione sul nostro conto a causa
della nostra condotta; esso può disprezzarci
quanto gli accomoda; tutto ciò non nuoce
per niente al nostro onore fino a che qualcuno
non si permette di dirlo ad alta voce. Ma
viceversa se pure le nostre qualità e le nostre
azioni forzassero l’universo mondo a
stimarci altamente (perocchè ciò non dipende dal
libero arbitro di esso), basterà che un
solo individuo, fosse pure il più cattivo od il più
stupido, dimostri disprezzo a nostro
riguardo, ed ecco d’un tratto leso, fors’anche perduto
per sempre il nostro onore se noi non lo
ripariamo. Un fatto che mostra esuberantemente
non trattarsi minimamente dell’opinione per
sè stessa, ma solo della sua manifestazione
esterna, si è che le parole offensive
possono esser ritirate, che al caso si può domandarne
perdono, e che allora avviene come se non
fossero state pronunziate; la questione di sapere
se l’opinione che le aveva provocate cangiò
nel tempo istesso e perchè si è cangiata, non ha
a che fare; non si annulla che la
manifestazione, ed allora tutto è in regola. Il risultato che si
ha in vista non è dunque di meritare il
rispetto, ma di estorcerlo.
2.° L’onore di un uomo non dipende da ciò che egli fa, ma da ciò che gli vien fatto, da
ciò che gli succede. Abbiamo studiato più
sopra l’onore che regna da per tutto; i suoi
principî ci hanno dimostrato che esso
dipende esclusivamente da ciò che un uomo fa o dice;
invece l’onore cavalleresco risulta da ciò
che un altro dice o fa. Esso è dunque posto nella
mano, o semplicemente attaccato
all’estremità della lingua del primo venuto: per poco che
questi vi accenni l’onore è ad ogni istante
in pericolo di perdersi per sempre, a meno che
l’offeso non se lo riprenda colla forza.
Parleremo fra poco delle formalità da compiere per
rimetterlo a posto. Per altro questa
procedura non può esser seguita che con pericolo della
vita, della libertà, della fortuna e della
quiete dello spirito. La condotta di un uomo, fosse
pure la più onorevole e la più nobile, la
sua anima la più pura e la sua testa la più eminente,
tutto ciò non impedirà che il suo onore non
possa esser perduto non appena piacerà ad un
individuo qualunque d’ingiuriarlo; e, sotto
la sola riserva di non aver ancora violato i
precetti dell’onore in questione, questo
individuo potrà essere il più vile briccone, il bruto
più stupido, uno scioperato, un giocatore,
un uomo ingolfato nei debiti, in poche parole un
cialtrone nemmeno degno che l’altro lo
guardi. E ordinariamente sarà ad una creatura di
siffatta specie che piacerà insultare,
perocchè come Seneca ha giustamente osservato (De
Constantia, 11), quanto più un uomo è dispregiato e schernito, tanto più ha
la lingua
sciolta, ed è contro l’uomo eminente di cui
parlammo or ora che un vile briccone, si
scaglierà di preferenza, perchè caratteri
opposti si odiano e perchè la vista di qualità
superiori risveglia di solito una rabbia
sorda nell’anima dei tristi; per questo dice Goethe:
(W.
O. Divan) Perchè
lagnarti de’ tuoi nemici? Potrebbero mai esser tuoi amici, uomini
pei quali una natura come la tua è secretamele un eterno
rimprovero?
Si vede bene quanta riconoscenza tale genia
deve al principio dell’onore, principio
che la solleva allo stesso livello di coloro
i quali le sono infinitamente superiori sotto ogni
aspetto. Che un individuo siffatto scagli
un’ingiuria, vale a dire attribuisca ad un altro
qualche brutta qualità; se questi non lava
tosto nel sangue l’insulto, questo passerà
provvisoriamente per un giudizio
oggettivamente vero e fondato, per un decreto avente
forza di legge; l’affermazione potrà anche
restare per sempre vera e valevole. In altri
termini l’insulto rimane (agli occhi di
tutti gli «uomini d’onore») come l’insultatore (fosse
pur l’ultimo degli uomini) lo ha detto,
perchè l’insultato ingoiò
l’affronto (è questo il
«terminus
technicus»). Da allora gli «uomini d’onore» lo sprezzeranno
profondamente, lo
fuggiranno come se avesse la peste;
rifiuteranno, per esempio, altamente e pubblicamente
di andare in una società ove lo si riceve,
ecc. Credo poter con certezza far risalire al medio
evo l’origine di questo lodevolissimo
sentimento. Infatti C. W. de Wachter (Contributo alla
storia tedesca particolarmente sul diritto
penale, 1845) c’insegna che fino al XV secolo nei
processi criminali non spettava al
denunciatore provare la reità, ma che toccava all’accusato
provare la sua innocenza. Questa prova
poteva darsi col giuramento di purgazione, per il
quale occorrevano all’accusato i consacramentales che
giurassero esser convinti ch’egli
fosse incapace d’uno spergiuro. Se
l’accusato non poteva trovare garanti, o se l’accusatore
li ricusava, interveniva il giudizio di Dio
che consisteva ordinariamente nel duello.
Perocchè «l’accusato» diveniva allora un
«insultato» e doveva purgarsi dall’insulto. Ecco
dunque l’origine della nozione
dell’«insulto» e di tutta quella procedura che viene praticata,
salvo il giuramento, anche oggigiorno fra
gli «uomini d’onore.»
Tutto questo ci spiega anche la profonda
indignazione d’obbligo che commuove gli
«uomini d’onore» quando si sentono accusar
di menzogna, e così pure la sanguinosa
vendetta che ne tirano; ciò che pare tanto
più strano in quanto che la menzogna è cosa
d’ogni giorno. In Inghilterra sopra tutto
la faccenda si leva all’altezza d’una superstizione
fortemente radicata (chiunque minaccia di
morte colui che lo accusa di menzogna
dovrebbe, in realtà, non aver mai mentito
in tutta la sua vita). Nei processi criminali del
medio evo v’era una procedura ancor più sommaria,
e consisteva nel replicare dell’accusato
all’accusatore: «Tu hai mentito», dopo di
che si faceva appello immediatamente al giudizio
di Dio; da ciò deriva nel codice dell’onor
cavalleresco l’obbligo di ricorrere senza ritardo
alle armi quando si abbia ricevuto l’accusa
d’aver mentito. Ecco quanto concerne l’ingiuria.
Ma esiste qualche cosa molto peggiore
dell’ingiuria, qualche cosa talmente orribile che
devo domandar perdono agli «uomini d’onore»
d’osare unicamente ricordarla in questo
codice dell’onor cavalleresco; non ignoro
che solo a pensarvi essi ne avranno i brividi e che
i capelli si drizzeranno loro sulla testa,
perocchè questa cosa è il summum
malum, di tutti i
mali della terra il più grande, più
spaventevole della morte e dell’eterna dannazione. Può
succedere infatti, horribile dictu, può
succedere che un individuo dia uno schiaffo od una
percossa ad un altro individuo: con ciò una
spaventevole catastrofe! La morte dell’onore è
allora così completa che, se si può guarire
con un semplice salasso ogni altra lesione
dell’onore, questa per la radicale
guarigione esige che si debba uccidere completamente.
3.° L’onore non si dà pensiero di ciò che
possa esser l’uomo in sè e per sè, e
nemmeno della questione di sapere se la condizione
morale d’un individuo possa
modificarsi coll’andar del tempo o d’altre
simili pedanterie da scolaretti. Quando l’onore è
stato per un momento intaccato o perduto,
esso può esser prontamente ed interamente
ristabilito, ma alla condizione che vi si provveda
al più presto: la panacea ne è il duello. Se
però l’autore dell’affronto non appartiene
alle classi che professano il codice dell’onor
cavalleresco, o s’egli lo ha violato in
qualche occasione, havvi, sopratutto quando l’affronto
è stato prodotto da vie di fatto, ma pur
anco quando lo fu solamente da parole, havvi,
diciamo, un’operazione infallibile da
intraprendere, ed è, se si ha un’arma addosso, di
passargliela immediatamente od anche, a
rigore, un’ora dopo, attraverso il corpo; in tal
maniera l’onore è riparato. Ma qualche
volta si vuole evitare quest’operazione perchè si
teme gl’impicci che ne potrebbero derivare;
allora se non si è ben sicuri che l’offensore si
sottometta alle leggi dell’onore
cavalleresco, si ricorre ad un rimedio palliativo che si
chiama pigliar l’avvantaggio. Consiste questo, quando
l’avversario è stato villano,
nell’esser notabilmente più villano di lui;
se per ciò le ingiurie non bastano si viene alle
percosse: e qui pure v’ha un climax, una gradazione nella cura
dell’onore: gli schiaffi sono
guariti colle bastonate, queste colle
scudisciate; per le scudisciate poi v’è qualcuno che
raccomanda, come rimedio d’efficacia
garantita, lo sputare nel viso. Ma nel caso in cui non
si arrivi a tempo con questi rimedi, bisogna
senza fallo ricorrere alle operazioni sanguinose.
Un tal metodo di cura palliativa è basato
in sostanza sulla massima seguente:
4.° Nella stessa maniera che esser
insultato è un’onta, insultare è un onore. Così, che
la verità, il diritto e la ragione sieno
pure dalla parte del mio avversario, e che io lo ingiuri,
sull’istante egli non ha che da andare al
diavolo con tutti i suoi meriti: il diritto e l’onore
sono dalla mia parte, ed egli al contrario
ha provvisoriamente perduto l’onore fino a che
non lo ristabilisca — col diritto e colla
ragione, direte voi? niente affatto!: colla pistola o
colla spada. Dunque dal punto di vista
dell’onore la rozzezza è una qualità che supplisce o
domina tutte le altre: il più villano ha
sempre ragione: quid
multa? Qualunque sciocchezza,
qualunque sconvenienza, qualunque infamia
si abbia potuto commettere, una villania
grossolana toglie loro questo carattere, e
le legittima seduta stante. Che in una discussione,
od in una semplice conversazione una
persona mostri una conoscenza più esatta della
questione, un amore più severo della
verità, una mente più vasta, un raziocinio più giusto,
in una parola ch’egli metta in luce tali
meriti intellettuali che facciano cader nell’ombra i
nostri, nondimeno noi potremo d’un sol colpo
annullare tutte queste superiorità, nascondere
la nostra pochezza di mente, ed esser
superiori a nostra volta divenendo villani ed offensivi.
Perocchè una villania volgare atterra
qualunque argomento ed eclissa qualunque grande
ingegno. Se dunque il nostro avversario non
vuol entrare in partita, e non replica con una
villania ancora più grande, nel qual caso
verremo a nobile tenzone per pigliar
l’avvantaggio, saremo noi i vincitori e l’onore resterà
dal nostro lato: verità, istruzione,
raziocinio, intelligenza, ingegno, tutto
ciò deve far fagotto, e fuggire davanti l’arte divina
dello svillaneggiare. Così gli «uomini
d’onore», non appena qualcuno manda fuori una
opinione differente dalla loro, o fa mostra
di ragioni migliori di quelle che essi possono
mettere in campo, faranno vista
immediatamente d’inforcar gli arcioni di un tal cavallo da
guerra; quando in una controversia mancano
di argomenti da opporre, essi cercheranno
qualche insulto grossolano, ciò che fa lo
stesso officio ed è più facile a trovare: dopo di che
se ne andranno tutti trionfanti. Dopo
quanto abbiamo esposto, non si ha forse ragione di
dire che il principio dell’onore nobilita
il tono della società?
La massima di cui ci siamo or ora occupati
è fondata a sua volta sulla seguente, che è,
a dir vero, il fondamento e l’anima del
presente codice.
5.° La corte suprema di giustizia, quella
davanti a cui, in ogni contesa concernente
l’onore, si può appellarsi di qualunque
altro giudizio, si è la forza fisica, vale a dire
l’animalità. Perocchè qualunque villania è,
propriamente parlando, un appello all’animalità
nel senso che essa dichiara l’incompetenza
della lotta delle forze intellettuali o del diritto
morale e la surroga con quella delle forze
fisiche; nella specie uomo, che
Franklin definisce
a toolmaking
animal (un animale che fabbrica degli arnesi), questa lotta si effettua
col
duello, per mezzo di arme costruite
espressamente allo scopo, e porta una decisione senza
appello. Questa massima fondamentale è
disegnata, come si sa, coll’espressione diritto
della forza, espressione che implica un’ironia come in
tedesco la parola Aberwitz
(delirio,
demenza), che indica una specie di «Witz»
(spirito) che è ben lungi dall’essere del «Witz»;
nello stesso ordine d’idee l’onore
cavalleresco dovrebbe chiamarsi l’onore
della forza.
6.° Trattando dell’onore borghese, lo
abbiamo trovato molto scrupoloso circa i
capitoli del tuo e del mio, degli obblighi
contratti e della parola data, invece il codice in
questione professa su tutti questi punti i
principî più nobilmente liberali. Infatti v’ha una
sola parola a cui non si deve mancare: «la parola
d’onore» vale a dire la parola dopo la
quale si ha detto: «sul mio onore», donde
risulta la presunzione che si può mancare ad ogni
altra parola. Ma anche nel caso in cui si
avesse violato la parola d’onore, l’onore, a un
bisogno, può esser salvato per mezzo della
nota panacea, il duello: siamo tenuti a batterci
con chi sostenesse che abbiamo data la
nostra parola d’onore. Inoltre non esiste che un solo
debito che occorra pagare immancabilmente: il
debito di giuoco, che, per questo motivo, si
chiama «debito di onore». In quanto agli
altri debiti si rubi pure ad Ebrei ed a Cristiani, che
ciò non nuoce minimamente all’onore
cavalleresco15.
Qualunque mente di buona fede riconoscerà a
prima vista che un tal codice strano,
barbaro e ridicolo dell’onore non può aver
la sua origine nell’essenza della natura umana o
in una maniera sensata di considerare i
rapporti degli uomini fra loro. E questo è quanto
conferma pure il dominio molto ristretto
della sua autorità: tale dominio, che ebbe principio
solamente nel medio evo, è limitato
all’Europa, ed anche qui non comprende che la nobiltà,
la classe militare ed i loro emuli16. Perocchè nè i Greci, nè i Romani, nè le
popolazioni
eminentemente civilizzate dell’Asia, non
meglio nell’antichità che nei tempi moderni,
hanno saputo e sanno una parola di un
siffatto onore e dei suoi principi. Tutti questi popoli
non conoscono che ciò che noi abbiamo
chiamato l’onore borghese. Presso di loro l’uomo
non ha altro valore che quello conferitogli
dalla sua intera condotta, e non quello fattogli
dalle parole che una mala lingua si diverte
a proferire sul suo conto. Presso tutti questi
popoli ciò che dice o fa un individuo può benissimo
annientare il suo proprio
onore,
ma
non mai quello di un altro. Una percossa,
presso tutti questi popoli, non è altra cosa che una
percossa, eguale e forse meno pericolosa
del calcio che può tirare un cavallo od un asino:
una percossa potrà, al caso, suscitar la
collera o spingere immediatamente alla vendetta, ma
non ha niente di comune coll’onore. Queste
nazioni non tengono registri ove notare a conto
le percosse o le ingiurie, oppure le soddisfazioni che si
ebbe cura, o si trascurò di ottenere.
Per bravura, e per disprezzo della vita
esse non la cedono affatto affatto17
all’Europa
cristiana. I Greci ed i Romani erano certo
eroi perfetti, ma ignoravano completamente il
«punto d’onore». Il duello, presso di loro,
non era privilegio delle classi nobili, ma affare di
vili gladiatori, di schiavi abbandonati, di
rei condannati che erano eccitati a battersi,
alternativamente colle bestie feroci, per
divertimento del pubblico. Col Cristianesimo i
giuochi dei gladiatori furono aboliti, ma
al loro posto, e regnando sovrana la religione di
Cristo, si istituì il duello,
coll’intermedio del giudizio di Dio. Se i primi erano un sacrifizio
crudele offerto alla pubblica curiosità, il
duello è un sacrifizio non meno crudele al
pregiudizio generale, sacrifizio in cui non
sono immolati colpevoli, schiavi o prigionieri,
ma uomini liberi e nobili.
Moltissimi tratti che la storia ci ha
conservato provano che gli antichi ignoravano
assolutamente questo pregiudizio. Quando,
per esempio, un capo teutono invitò Mario ad
un duello, l’eroe gli fece rispondere che
«se era stanco della vita non aveva che da
appiccarsi per la gola», proponendogli
tuttavia un gladiatore dei più valenti con cui
potrebbe combattere a suo piacere (Freinsheim,
Supplementi a Tito Livio, 1. LXVIII, c.
12). Leggiamo in Plutarco (Temistocle, 11)
che Euribiade, comandante della flotta, in una
discussione con Temistocle, avrebbe alzato
il bastone per batterlo; non si scorge mica che
questi abbia snudata la spada, ma che
disse: «Batti, ma ascolta». Quale indegnazione il
lettore «uomo di onore» deve provare non
trovando menzione in Plutarco che il corpo degli
ufficiali ateniesi non abbia immediatamente
dichiarato di non voler più servire sotto
Temistocle! Perciò uno scrittore francese
dei nostri giorni dice con ragione: «Se qualcuno
s’immaginasse di dire che Demostene fu un
uomo d’onore si riderebbe per compassione.....
Neppur Cicerone era uomo d’onore.» (Soirées littéraires, par C. Durand; Rouen, 1828, vol.
II, pag. 300). Inoltre il passo di Platone
(De leg., IX, le
sei ultime pagine e XI, pag. 131,
ediz. Bipont) sopra le
αικια, vale a dire sulle ingiurie con vie di fatto,
prova abbastanza che
in quest’argomento gli antichi non
supponevano nemmeno tale sentimento del punto
d’onore cavalleresco. Socrate, in seguito
alle sue numerose controversie, si espose molte
volte alle percosse, che sopportava con
tutta calma; un giorno, avendo ricevuto un calcio,
non ne fece caso e disse a qualcuno che si
maravigliava di ciò: «Se me lo avesse dato un
asino ne porterei querela?» (Diogene
Laerzio, II, 21). Un’altra volta, siccome qualcuno gli
diceva: «Quest’uomo vi biasima; non vi
ingiuria forse?» rispose: «No, perchè ciò che dice
non si riferisce a me» (Ibid. 36). — Stobeo (Florilegium, ediz.
Gaisford, vol. I, pag. 327-
330) ci ha conservato un lungo brano di
Musonio, brano che ci lascia scorgere la maniera
con cui gli antichi consideravano le
ingiurie: essi non conoscevano altra soddisfazione che
quella da ottenersi per mezzo dei
magistrati, e i saggi disdegnavano pur questa. Si può
vedere nel Gorgia di Platone (pag. 86, ediz.
Bipont) che in fatti così aveva luogo l’unica
riparazione che si potesse pretendere per
uno schiaffo; noi vi troviamo anche (pag. 133)
riportata l’opinione di Socrate in
proposito. E ciò spicca pure da quanto racconta Aulo
Gellio (XX, 1) di un certo Lucio Verazio il
quale si divertiva, per malizia e senza motivo
alcuno, a dare uno schiaffo ai cittadini
romani che incontrava per istrada; allo scopo di
evitare lunghe formalità egli si faceva
accompagnare da uno schiavo che portava un sacco
di moneta di bronzo e che era incaricato di
pagare immediatamente al passeggiero stupito
l’ammenda legale di 25 assi. Crate, il
celebre cinico, avendo ricevuto dal musicista
Nicodromo uno schiaffo così forte che il viso
gli si era gonfiato con larga echimosi, si
attaccò alla fronte una tavoletta
coll’iscrizione: Nicodromo
fece, ciò che coperse di
vergogna il suonatore di flauto che si era
lasciato trasportare ad una tale brutalità (Diogene
Laerzio, VI, 89) contro un uomo che tutta
Atene riveriva al pari d’un Dio Lare (Apulejo,
Flor. pag. 126, ediz. Bipont). Abbiamo in
argomento una epistola di Diogene di Sinope a
Melesippo nella quale, dopo avergli detto
d’esser stato battuto da alcuni Ateniesi ubbriachi,
aggiunge che di ciò non gli cale (Nota
Casaub. ad Diog. Laert., VI, 33). Seneca nel libro De
constantia sapientis, dal capitolo X fino alla
fine, tratta in dettaglio de
contumelia per
stabilire che il savio la sprezza. Al
capitolo XIV dice: «Ma il saggio percosso da uno
schiaffo che farà? Ciò che fece Catone, il
quale percosso nel viso non si adirò, non vendicò
l’ingiuria e neppure la perdonò, ma negò
che gli fosse stata fatta».
«Sta bene, esclamerete, ma erano savî!»
E voi altri, siete pazzi voi altri? — Ve lo
accordo.
Noi vediamo dunque che ogni principio
d’onore cavalleresco era ignoto agli antichi
precisamente perchè consideravano, sotto
ogni punto di vista, le cose nel loro aspetto
naturale senza prevenzioni e senza
lasciarsi raggirare da ciance empie o funeste. Sicchè in
uno schiaffo non vedevano altra cosa se non
ciò che è in realtà, un piccolo danno fisico,
mentre per i moderni esso è una catastrofe
ed un tema da tragedia, come per esempio nel
Cid di Corneille ed in un dramma tedesco più
recente intitolato La forza
delle circostanze,
ma che dovrebbe piuttosto chiamarsi La forza del pregiudizio. Se un dì
fosse dato uno
schiaffo nell’Assemblea nazionale a Parigi,
l’Europa intera ne rimbomberebbe. Le
reminiscenze classiche, e gli esempi
dell’antichità or ora ricordati devono aver mal disposto
gli «uomini d’onore»; noi raccomandiamo
loro come antidoto di leggere in Jacques
le
fataliste, capolavoro di Diderot, la storia di
Monsieur Desglands18; vi
troveranno un tipo
nobilmente straordinario dell’onore
cavalleresco moderno che potrà dilettarli e nel tempo
stesso edificarli a maraviglia.
Da quanto precede resta provato abbastanza
che il principio dell’onore cavalleresco
non è un principio primitivo, basato sulla
natura stessa dell’uomo; invece esso è artificiale,
e la sua origine è facile a scoprire.
L’onore cavalleresco è il figlio di quei secoli in cui i
pugni erano esercitati più che le teste, ed
in cui i preti tenevano incatenata la ragione, del
medio evo insomma, del medio evo tanto
vantato, e della sua cavalleria. Allora infatti il
buon Dio non aveva la sola missione di
vegliare su noi, ei doveva anche giudicare per noi.
Perciò le cause giudiziarie d’indole
delicata si decidevano per mezzo delle Ordalie
o
giudizi
di Dio, che consistevano, meno qualche piccola eccezione,
in combattimenti singolari, non
solamente tra cavalieri, ma anche tra
borghesi come viene provato da un bel passo
dell’Enrico VI di Shakespeare (2a parte, atto 2°, scena 3a). Il combattimento singolare o
giudizio di Dio era un’istanza suprema a cui
si poteva appellarsi contro ogni sentenza
giudiziaria. In tal modo, invece della
ragione, si era la forza e la destrezza fisica, altramente
detta la natura animale, che si erigeva a
tribunale, e non era mica ciò che un uomo aveva
fatto, ma ciò che gli era accaduto che
decideva se egli aveva torto o ragione, precisamente
come procede il principio dell’onore
cavalleresco oggigiorno in vigore. Se qualcuno
conservasse ancora dei dubbi su tale
origine del duello e delle sue formalità non avrebbe,
per levarseli intieramente, che a leggere
l’eccellente opera di J. G. Mellingen, The
history of
duelling, 1849. Ai nostri giorni ancora, fra le
persone che regolano la loro vita su questi
precetti, — già si sa che ordinariamente
non sono nè le più istruite, nè le più ragionevoli —
ve n’ha di quelle per le quali l’esito del
duello rappresenta effettivamente la sentenza divina
nelle conseguenze che ha portato il
combattimento; opinione nata evidentemente da una
lunga trasmissione ereditaria e
tradizionale.
Fatta astrazione dalla sua origine, il
principio dell’onore cavalleresco ha per iscopo
immediato di farsi accordare, colla
minaccia della forza fisica, le testimonianze esterne di
quella stima che si crede troppo difficile,
o superfluo d’acquistare realmente. Presso a poco
è la stessa cosa come se qualcuno scaldasse
colla mano il bulbo d’un termometro e volesse
provare, perchè la colonna di mercurio
sale, che la sua camera è bene riscaldata. Volendo
considerare la cosa più da vicino, eccone
il principio: nello stesso modo che l’onore
borghese, avendo in vista i rapporti
pacifici degli uomini tra loro, consiste nell’opinione che
noi meritiamo piena fiducia perchè
rispettiamo scrupolosamente i diritti altrui, del pari
l’onore cavalleresco consiste nell’opinione
che noi siamo da temere perchè
decisi a
difendere ad oltranza i nostri diritti. La
massima che val meglio ispirar timore che fiducia
non sarebbe così falsa, visto il pochissimo
conto che si può fare sulla giustizia degli uomini,
se vivessimo nello stato di natura in cui
ciascuno deve da sè stesso difendere la sua persona
e i suoi diritti. Ma essa non trova
applicazione nella nostra epoca di civiltà, in cui lo Stato si
è preso l’incarico di proteggere persone e
proprietà; essa non esiste più che come quei
castelli e quei torrioni dell’epoca del
diritto feudale, inutili ed abbandonati, frammezzo
campi ben coltivati, quartieri animati, e
fors’anche strade ferrate. L’onore cavalleresco, per
la ragione stessa che professa la massima
precedente, è andato a ficcarsi necessariamente in
tutte quelle offese alla persona che lo
Stato non punisce che leggermente, o non punisce
affatto in virtù del principio: De minimis lex non curat, tali
delitti non producendo che un
danno insignificante, e non essendo il più
delle volte che semplici puntigli. Per mantenere il
suo dominio in una sfera molto elevata,
esso ha attribuito alla persona un valore la cui
esagerazione è affatto sproporzionata con
la natura, la condizione ed il destino dell’uomo;
spinge questo valore fino al punto di fare
qualche cosa di sacro dell’individuo, e, trovando
del tutto insufficienti le pene pronunziate
dallo Stato contro le piccole offese alla persona, si
prende la briga di punirle esso stesso con
punizioni sempre corporali, ed anche colla morte
dell’offensore. Havvi evidentemente, in
sostanza, l’orgoglio più smisurato e l’oltracotanza
più ributtante nell’obbliare la natura
reale dell’uomo e nel pretendere di rivestirlo d’una
inviolabilità e d’una irreprensibilità
assolute. Ma ogni uomo che è deciso a mantenere simili
principî colla violenza, e che professa la
massima: chi m’insulta o
mi tocca deve morire,
merita per ciò solo d’essere espulso dal
paese19. È vero
che si mette avanti ogni sorta di
pretesti per inorpellare questo orgoglio
smisurato. Di due uomini intrepidi, si dice, nessuno
cederà; nella più leggera collisione essi
verranno subito alle ingiurie, poi alle percosse e
finalmente all’omicidio: è dunque
preferibile, in riguardo alle convenienze, di sorpassare i
gradi intermedi, e ricorrere immediatamente
alle armi. I dettagli della procedura sono stati
allora formulati in un sistema di rigido
pedantismo, sistema che ha le sue leggi e le sue
regole, e che è davvero la buffonata più
lugubre del mondo; vi si può scorgere, nessuno lo
neghi, il Panteon glorioso della follìa. Ma
il punto di partenza istesso è falso; nelle cose
d’importanza minima (gli affari gravi
restano sempre deferiti alla decisione dei tribunali) di
due uomini intrepidi ve n’ha sempre uno, il
più saggio, che cede: quando non si tratta che di
opinioni non si vorrà nemmeno occuparsene.
Ne troviamo la prova nel popolo, o, per
meglio dire, in tutte quelle numerose
classi sociali che non ammettono il principio
dell’onore cavalleresco; quivi le contese
seguono il loro corso naturale e tuttavia l’omicidio
vi è cento volte meno frequente che nella
frazione minima, l/1000 appena, che lo accetta;
anche le risse vi sono rare. Si pretende
inoltre che questo principio, coi suoi duelli, sia la
pietra angolare che mantiene il bon ton e le belle
maniere nella società, che sia un baluardo
che mette al riparo dall’urto della
brutalità e della rozzezza. Per altro in Atene, a Corinto, a
Roma c’era della buona ed anche della
buonissima società, delle maniere eleganti, del bon
ton, senza che vi fosse bisogno d’impiantarvi
l’onore cavalleresco a guisa di spauracchio. È
giusto però il dire che le donne non
regnavano nella società antica come presso di noi. Oltre
il carattere frivolo e puerile che assume
con esse la conversazione, poichè se ne bandisce
qualunque soggetto serio ed ampliamento
trattato, la presenza delle donne nella nostra
società contribuisce di certo per una gran
parte ad accordare al coraggio personale il
primato su ogni altra qualità, mentre in
realtà esso non è che un merito molto subordinato,
una semplice virtù da sotto-tenente nella
quale gli animali stessi ci sono superiori; infatti
non si dice forse: «coraggioso come un
leone?» Ma v’ha di più: all’opposto dell’asserzione
precedentemente riportata, il principio
dell’onore cavalleresco è di sovente il rifugio sicuro
della disonestà e della scelleratezza negli
affari gravi, e nello stesso tempo l’asilo
dell’insolenza, della sfacciataggine e
della rozzezza nelle cose di lieve momento, per la
semplicissima ragione che nessuno si vuol
prender la briga di castigare queste brutte qualità
a rischio della vita. In prova vediamo il
duello rigogliosamente in fiore, e praticato colla più
sanguinaria serietà, precisamente presso
quella nazione la quale, nelle sue relazioni
politiche e finanziarie, ha mostrato
mancanza di vera onestà: a chi ne ha fatto la prova
bisognerebbe domandare di che natura sieno
le relazioni private cogli individui di quella
nazione; in quanto poi alle loro maniere civili
ed alla loro coltura sociale, sono cose che da
lunga data hanno grande celebrità come
modelli negativi.
Tutti questi motivi che vengono allegati
sono adunque privi di fondamento. Si
potrebbe affermare con più ragione che,
come il cane brontola quando lo si irrita e fa vezzi
quando lo si carezza, nello stesso modo è
proprio della natura dell’uomo il rendere ostilità
per ostilità e l’essere esacerbato ed
irritato per le manifestazioni dello sprezzo o dell’odio.
Cicerone l’ha già detto: «L’ingiuria ha un certo aculeo che gli
stessi uomini saggi e
prudenti difficilmente possono tollerare», ed
infatti in nessuna parte del mondo (fatta
eccezione di alcune sette divote) si
sopportano con calma le ingiurie, o, a più forte ragione,
le percosse. Ma la natura c’insegna di non
andar al di là d’una rappresaglia equivalente
all’offesa, non ci dice mica di punir colla
morte colui che ci accusasse di menzogna, di
stupidità, o di codardia. L’antica massima
tedesca: «Ad uno schiaffo
con uno stile» è un
pregiudizio cavalleresco che muove a
sdegno. In qualunque caso si è alla collera che tocca
rendere o vendicare le offese, e non
all’onore od al dovere, ai quali il principio dell’onore
cavalleresco ne impone l’obbligo. È certo
d’altronde che un rimprovero non offende che
nella misura con cui ci colpisce; ciò che
lo prova si è che la più piccola allusione, che batta
giusto, ferisce molto più profondamente di
un’accusa assai più grave ma che non sia
fondata. Per conseguenza chiunque ha la
coscienza sicura di non aver meritato un
rimprovero, può disdegnarlo e non gliene
calerà. Il principio dell’onore invece gli impone
di mostrare una irritazione che non prova e
di vendicare col sangue offese che non lo hanno
colpito. Eppure è veramente aver pochissima
opinione del proprio valore il cercar di
soffocare ogni parola che mostrasse di
metterlo in dubbio! La vera stima di sè stesso darà la
calma ed il disprezzo reale delle ingiurie;
in mancanza di essa, la prudenza e la buona
educazione ci comandano di salvare
l’apparenza e di dissimulare la nostra collera. Se
inoltre noi giungessimo a spogliarci dal
pregiudizio del principio cavalleresco; se nessuno
più ammettesse che un insulto fosse capace
di togliere o di restituire checchessia all’onore;
se si fosse convinti che un torto, una brutalità,
una villania non possono essere giustificati
all’istante colla sollecitudine che si
vorrà mettere a darne soddisfazione, cioè a battersi,
allora ognuno arriverebbe a comprendere che
quando si tratta d’invettive e d’ingiurie, si è il
vinto che sorte vincitore dal
combattimento, e che, come dice Vincenzo Monti, delle
ingiurie avviene lo stesso come delle
processioni sacre, le quali ritornano sempre al loro
punto di partenza. Allora non basterebbe
più, come attualmente, spacciare una insolenza per
mettere il diritto dalla nostra parte;
allora il senno e la ragione avrebbero ben altra autorità,
mentre oggidì devono, prima di parlare,
vedere se non urtano in checchessia l’opinione
delle menti meschine e degli imbecilli che
irrita ed allarma già la loro sola apparizione, che
altrimenti l’intelligenza può trovarsi nel
caso di giuocare in un colpo di dadi, la testa ove
risiede contro il cervello grossolano ove è
alloggiata la stupidità. Allora la superiorità
intellettuale occuperebbe realmente nella
società il primo posto che gli è dovuto e che si dà
oggi, benchè in modo mascherato, alla
superiorità fisica ed al coraggio alla ussara; di più
allora vi sarebbe, per gli uomini eminenti,
un motivo di meno per fuggire la società, ciò che
fanno attualmente. Un mutamento tanto
radicale farebbe nascere il vero
bon ton e
fonderebbe la vera buona società nella
forma in cui, senza dubbio, ha esistito a Roma, a
Corinto ed in Atene. A chi volesse averne
saggio raccomando di leggere il Banchetto
di
Senofonte.
L’ultimo argomento in difesa del codice
cavalleresco sarà senza dubbio concepito
così: «Andiamo dunque! ma allora un uomo
potrebbe, Dio ce ne guardi, percuotere un
altro!» A ciò potrei rispondere, senza
frasi reboanti, che il caso si è presentato ben di
frequente in quei 999/1000
della
società presso i quali tale codice non è ammesso, senza che
un solo individuo ne sia morto, mentre che
presso coloro che ne seguono i precetti, ogni
percossa, per regola, diventa una faccenda
mortale.
Ma voglio esaminare la questione più in
dettaglio. Io mi sono molto di sovente affaticato
la mente per trovare nella natura animale
od intellettuale dell’uomo una qualche ragione
valida od anche solamente plausibile,
fondata non su semplici modi di dire, ma su nozioni
distinte, una qualche ragione, ripeto, che
possa giustificare la convinzione, profondamente
radicata in una parte della specie umana,
che una percossa è una orribile cosa: tutte le mie
ricerche riescirono vane. Una percossa non è
e non sarà mai che un piccolo male fisico che
ogni uomo può cagionare ad un altro, senza
provare con ciò altra cosa se non che egli è più
forte o più destro, oppure che l’altro non
stava in guardia. Dall’analisi di più non abbiamo.
Inoltre io vedo questo stesso cavaliere per
il quale, una percossa ricevuta dalla mano di un
uomo sembra il più grande di tutti i mali,
ricevere un colpo dieci volte più forte dal suo
cavallo ed assicurare, trascinando la gamba
e dissimulando il dolore, che non è niente.
Allora ho supposto che ciò dipendesse dalla
mano dell’uomo. Vedo però il nostro cavaliere
in un combattimento, ricever dalla mano di
un uomo colpi di punta e di taglio ed assicurare
ancora che sono bagattelle di cui non vale
la pena di parlare. Imparò inoltre che i colpi di
lama piatta non sono a un dipresso tanto
terribili come i colpi di bastone, sicchè molto di
recente gli allievi delle scuole militari
erano ancora passibili dei primi, e giammai degli
altri. Ma v’ha di più: nella iniziazione di
un cavaliere il colpo col piatto della lama è un
grandissimo onore. Ed ecco esauriti tutti i
miei motivi psicologici e morali; ora non mi resta
più che a considerare la cosa come
un’antica superstizione, profondamente radicata, come
un nuovo esempio, a lato di tanti altri, di
quanto si può dare ad intendere agli uomini. Ciò
che è provato anche dal fatto ben noto che
in China i colpi di bastone sono una punizione
civile impiegata assai frequentemente anche
riguardo a funzionarî d’ogni grado; la qual
cosa dimostra che colà la natura umana, pur
anco fra le persone più civili, non parla come
da noi20.
Inoltre un esame imparziale della natura
umana c’insegna che il battere
è
tanto
naturale all’uomo quanto il mordere agli
animali carnivori e il dar colpi di testa alle bestie
cornute; l’uomo è, propriamente parlando,
un animale percuotitore. Per
questo siamo mossi
a sdegno quando sentiamo che un uomo ha
morsicato un altro uomo: dare o ricever colpi
invece è per esso un effetto tanto naturale
quanto frequente. Si comprende facilmente come
le persone d’una educazione finita cerchino
di sottrarsi a tali effetti dominando
reciprocamente la loro naturale
inclinazione. Ma havvi invero della crudeltà nel voler far
credere ad una intera nazione, od anche
solo ad una classe d’individui, che ricevere una
percossa sia una disgrazia spaventevole,
che dev’essere seguita dall’omicidio. Ci sono
troppi veri mali a questo mondo perchè sia
permesso d’aumentarne il numero e crearne
d’immaginarî che ne portano pur troppo di reali
seco loro, ciò che fa tuttavia questo sciocco
e scellerato pregiudizio. Come conseguenza
io non potrei che disapprovare quei governi e
quei corpi legislativi che gli vengono in
aiuto affaticandosi con ardore per far abolire, tanto
nel codice civile che nel militare, le
punizioni corporali. Così facendo essi credono di agire
nell’interesse dell’umanità, quando, al
contrario, lavorano così a consolidare questo
traviamento snaturato e funesto a cui sono
già state sacrificate tante vittime. Per ogni colpa,
salvo le più gravi, infliggere alcune
bastonate è la punizione che nell’uomo si presenta per
prima alla mente; dunque è la più naturale;
chi non si sottomette alla ragione, si
sottometterà ai colpi. Punire con una
leggera bastonatura colui che non può esser colpito
nelle ricchezze quando non ne ha, e che non
può esser privato della libertà, quando si ha
bisogno de’ suoi servigi, è un atto tanto
giusto quanto naturale. Perciò non viene presentata
alcuna buona ragione contro questo
principio; gli oppositori si contentano d’invocare la
dignità dell’uomo, maniera di parlare che non si appoggia
sopra una nozione veramente
chiara, ma ancora e sempre sul fatale
pregiudizio di cui abbiamo parlato più in alto. Un
fatto recente dei più comici viene a
confermare tale stato di cose: molti Stati hanno or ora
sostituito nell’armata le stangate alle
bastonate; le stangate come ogni altro colpo,
producono senza dubbio un dolore fisico, e
nondimeno sono tenute per non infamanti, nè
disonoranti.
Stimolando così il pregiudizio che ci tien
servi, s’incoraggia nello stesso tempo il
principio dell’onore cavalleresco e quindi
del duello, mentre d’altra parte si fanno sforzi, o
piuttosto si pretende di sforzarsi per
abolire colle leggi il duello21. Così
vediamo questo
frammento del diritto del più forte,
trasportato attraverso il tempo dal medio-evo al XIX
secolo, fare oggi ancora scandalosa mostra
di sè in pieno giorno; è tempo alla fin fine di
cacciarlo vergognosamente. Oggidì, quando è
proibito di addestrare con metodo cani e galli
a battersi gli uni contro gli altri (in
Inghilterra almeno questi combattimenti sono puniti), ci
è dato veder creature umane eccitate loro
malgrado a lotte mortali: si è da questo ridicolo
pregiudizio, da questo principio assurdo
dell’onore cavalleresco, si è da questi stupidi
rappresentanti e da questi campioni che,
per la prima bagattella insorta, viene imposto agli
uomini l’obbligo di battersi fra loro come
gladiatori. Propongo ai nostri puristi tedeschi di
rimpiazzare la parola duell, derivata probabilmente non
dal latino duellum, ma dallo
spagnuolo duelo (danno, querela, pena), colla parola Ritterhetze (lotta di
cavalieri, come si
dice lotta di galli o di bull-dogs). Si ha
certamente amplio soggetto al riso nel vedere le
formalità pedanti con cui si compiono tutte
queste follie. Non si è per ciò meno mossi a
sdegno, riflettendo che questo principio,
col suo codice assurdo, costituisce nello Stato uno
Stato che, non riconoscendo altro diritto
se non quello del più forte, tiranneggia le classi
sociali che sono sotto il suo dominio collo
stabilire un tribunale permanente della Santa-
Vehme; ognuno può esser citato da
chichessia a comparirvi; i motivi della citazione, facili a
trovare, fanno l’officio di sbirri del
tribunale, e la sentenza pronunzia la pena di morte
contro le due parti. È questo naturalmente
il rifugio dal fondo del quale l’individuo più
spregevole, alla sola condizione di
appartenere alle classi soggette alle leggi dell’onore
cavalleresco, potrà minacciare, od anche
uccidere gli uomini più nobili e migliori, che sono
precisamente quelli che odia di necessità.
Poichè al giorno d’oggi la giustizia e la polizia
hanno guadagnato presso a poco abbastanza
autorità perchè un briccone non possa più
arrestarci per la strada gridandoci: la
borsa o la vita!, sarebbe tempo che il buon senso
assumesse altrettanta autorità affinchè la
prima canaglia venuta non possa più venirci a
turbare nel bel mezzo della nostra
esistenza più pacifica esclamando: l’onore o la vita!
Bisogna finalmente liberare le classi
superiori dal peso che le opprime, bisogna affrancarci
tutti dall’angoscia di sapere che possiamo
ad ogni momento essere chiamati a pagare colla
nostra vita la brutalità, la rozzezza, la
balordaggine o la cattiveria di tale individuo cui avrà
piaciuto scaricarla contro di noi. È
ingiusto, è vergognoso che due giovani inesperti e senza
cervello sieno tenuti ad espiare col loro
sangue la più piccola contesa. Ecco un fatto che
prova a quale altezza si sia levata la
tirannia di questo Stato nello Stato, ed a qual punto sia
arrivato il potere di questo pregiudizio:
si è visto spesso persone uccidersi per la
disperazione di non aver potuto ristabilire
il loro onore cavalleresco offeso, sia perchè
l’offensore era di troppo alta o di troppo
bassa condizione, sia per tutt’altra causa di
disproporzione che rendeva il duello
impossibile; una tal morte non è proprio tragicomica?
Tutto quanto è falso ed assurdo si rivela
alla fine per ciò che, giunto al suo sviluppo
perfetto, porta come fiore una contraddizione;
egualmente nel caso nostro la contraddizione
sboccia sotto la forma della più ingiusta
antinomia; infatti il duello è proibito all’ufficiale, e
nondimeno questi è punito colla
destituzione se, dandosene il caso, si rifiutasse di battersi.
Poichè ci sono, voglio andare ancora più
avanti col mio parlar franco. Esaminata con
cura e senza prevenzioni, la grande
differenza, che si fa risuonare tanto forte, tra l’uccidere
il proprio avversario in una lotta alla
piena luce del sole e ad armi eguali oppure in un
agguato, è fondata semplicemente su quanto
abbiamo già detto che cioè questo Stato nello
Stato non riconosce altro diritto che
quello del più forte e ne fa la base del suo codice dopo
averlo elevato all’altezza di un giudizio
di Dio. Infatti, ciò che si chiama un combattimento
leale non prova altra cosa se non che si è
o il più forte o il più abile. La
giustificazione che
si cerca colla pubblicità del duello
presuppone dunque che il diritto
del più forte sia
realmente un diritto. Ma la circostanza che il
mio avversario sa difendersi male mi dà
effettivamente la possibilità, e non il
diritto di
ucciderlo; questo diritto, altrimenti detto la
mia giustificazione morale, non può derivare che dai
motivi che io ho di togliergli la vita.
Ammettiamo ora che questi motivi esistino e
che sieno soddisfacenti; allora non v’ha più
alcuna ragione di cercar prima chi di noi
due maneggia meglio la pistola o la spada, allora è
indifferente che io lo uccida in tale o
tal’altra maniera, per davanti o per di dietro. Perocchè,
moralmente parlando, il diritto del più
forte non ha più peso del diritto del più scaltro, ed è
di quest’ultimo che si fa uso quando si
ammazza a tradimento: qui il diritto del pugno vale
esattamente il diritto della testa.
Osserviamo inoltre che anche nel duello sono messi in
pratica i due diritti, perchè ogni finta
nella scherma è un inganno. Se io mi credo
moralmente autorizzato a toglier la vita ad
un uomo, farei una sciocchezza col rimettermi
alla sorte s’egli sapesse maneggiare le
armi meglio di me, perocchè in questo caso sarà lui
che dopo avermi offeso mi ucciderà per
soprammercato. Rousseau è d’avviso che bisogna
vendicar un’offesa non col duello, ma
coll’assassinio; egli presenta tale sua opinione con
molte precauzioni nella 21.a nota, concepita in termini così misteriosi,
del IV libro
dell’Emilio22. Ma egli è ancora così
fortemente imbevuto dal pregiudizio cavalleresco che
considera il rimprovero d’una menzogna come
giustificazione dell’assassinio, mentre
dovrebbe sapere che ogni uomo ha meritato
questo rimprovero innumerevoli volte, egli
stesso per primo ed al più alto grado. È
evidente che il pregiudizio che autorizza ad
uccidere l’offensore a condizione che il
combattimento succeda di pieno giorno e ad armi
eguali, considera il diritto della forza
come se fosse realmente un diritto, e il duello come
un giudizio di Dio. Almeno l’italiano che
bollente di collera assalta senza complimenti, a
colpi di coltello, l’uomo che lo ha offeso,
agisce in modo logico e naturale: egli è più
scaltro, ma non più cattivo del duellista.
Se si volesse oppormi che ciò che mi giustifica
dell’uccisione del mio avversano in duello
si è che da parte sua egli cerca di fare altrettanto,
risponderei che provocandolo l’ho messo nel
caso di legittima difesa. Mettersi così
mutuamente e con intenzione nel caso di
legittima difesa non significa altro, in conclusione,
se non cercare un pretesto plausibile per
l’omicidio. Si potrebbe meglio trovare una
giustificazione nella massima: «Volenti non fit injuria» (Non si
fa torto a chi v’acconsente),
poichè si è di comune accordo che si
rischia la vita; ma a ciò si potrebbe replicare che
volens non è parola esatta, perocchè la tirannia
del principio dell’onore cavalleresco e del
suo codice assurdo è l’alguazilo che ha
trascinato i due campioni, o per lo meno uno di essi,
davanti questo tribunale sanguinario della
Santa-Vehme.
Mi sono fermato a lungo sull’onore
cavalleresco, ma lo feci con una buona intenzione
e perchè la filosofia è l’Ercole che solo
può combattere sulla terra le mostruosità morali ed
intellettuali. Due cose principalmente
distinguono lo stato della società moderna da quello
della società antica, e ciò a detrimento
della prima a cui danno una tinta seria, tetra, sinistra
da cui non era velata l’antichità, ciò che
la fa apparir candida e serena come il mattino della
vita. Queste due cose sono: il principio
dell’onor cavalleresco e la sifilide, par
nobile
fratrum. A loro due hanno avvelenato νεἰκος
και φιλία
della
vita (i contrasti e le amicizie
della vita). Infatti l’influenza della
sifilide è molto più estesa che non sembri a prima vista
per ciò che tale influenza non è solamente
fisica ma anche morale. Dappoichè la faretra
d’amore porta anche freccie avvelenate s’è
introdotto nelle mutue relazioni dei sessi un
elemento eterogeneo, ostile, direi quasi
diabolico, il quale fa che esse sieno pregne d’una
tetra e paurosa diffidenza: gli effetti
indiretti d’una tale alterazione nel fondamento d’ogni
comunità umana si fanno sentire egualmente,
a gradi diversi, in tutte le altre relazioni
sociali; ma la loro analisi dettagliata mi
trarrebbe troppo lungi. Analoga, benchè di tutt’altra
natura, è l’influenza del principio d’onore
cavalleresco, questa forza di grave conseguenza
che rende la moderna società rigida, cupa
ed inquieta poichè ogni parola fuggitiva vi è
scrutata e discussa. Ma non è tutto. Questo
principio è un Minotauro universale a cui
bisogna sacrificare ogni anno un gran
numero di figli di famiglie nobili, presi non in un
solo Stato, come per il mostro antico, ma
in tutti i paesi d’Europa. Sicchè è tempo alla fine
d’attaccare coraggiosamente corpo a corpo
la chimera, come ho fatto or ora. Possa il XIX
secolo sterminare questi due mostri dei tempi
moderni! Noi non disperiamo di vedere i
medici riuscirvi circa uno di essi col
mezzo della profilassia. Ma appartiene alla filosofia
l’annientar la chimera raddrizzando le
idee; i governi non hanno potuto aver buon esito
colle leggi, che il solo ragionamento
filosofico può attaccare il male nella radice. Fino a che
questo avvenga, se i governi vogliono
seriamente abolire il duello, e se il piccolissimo
successo dei loro sforzi non dipende che
dalla loro impotenza, io vengo a proporre loro una
legge di cui garantisco l’efficacia e che
non reclama operazioni sanguinose, nè patiboli, nè
forche, nè prigioni perpetue. Si tratta
invece di un piccolo, di un piccolissimo rimedio
omeopatico dei più facili; eccolo:
«Chiunque manderà o accetterà una sfida riceverà alla
chinese, di pieno giorno, davanti il corpo di
guardia dodici colpi di bastone per mano del
caporale; chi portò la sfida, e così pure i
testimoni ne riceveranno sei cadauno23. Per le
conseguenze eventuali del duello succeduto
si seguirà la procedura criminale ordinaria».
Qualche cavaliere mi porrà forse l’obiezione che dopo aver
subito un tale castigo molti
«uomini d’onore» saranno capaci di
bruciarsi le cervella; a ciò rispondo: Val meglio che un
pazzo uccida sè stesso, piuttosto che un
altro uomo. Ma so molto bene che in sostanza i
governi non cercano seriamente l’abolizione
dei duelli. Gli stipendi degli impiegati civili,
ma sopra tutto quelli degli ufficiali
(salvo nei gradi elevati) sono molto inferiori al valore di
ciò che producono. Quindi si paga loro la
differenza in onore. Questo è rappresentato dai
titoli e dalle decorazioni, e, sotto un
punto di vista più largo e più generale, dall’onore della
funzione. Ora per tale onore il duello è un
eccellente cavallo da maneggio il cui
ammaestramento comincia già nelle
Università. Si è col loro sangue che le vittime pagano il
deficit dello stipendio.
Per non fare alcuna ommissione ricordiamo
qui ancora l’onore
nazionale. È desso
l’onore di tutto un popolo considerato come
membro della comunità dei popoli. Questa
comunità non riconoscendo altro foro che
quello della forza, e ciascun membro avendo per
conseguenza da difendere da sè stesso i
suoi diritti, l’onore di una nazione non consiste solo
nell’opinione fermamente stabilita che essa
merita fiducia (il credito), ma di più che essa è
abbastanza forte perchè la si tema; perciò
una nazione non dovrebbe lasciar impunita la più
piccola offesa ai suoi diritti. L’onore
nazionale combina dunque il punto d’onore borghese
col punto d’onore cavalleresco.
4. La
gloria.
In ciò che si rappresenta ci resta da esaminare per ultimo la gloria.
Onore e gloria
sono gemelli, ma alla maniera dei Dioscuri
di cui uno, Polluce, era immortale e l’altro,
Castore, mortale: l’onore è il fratello
mortale della gloria immortale. È evidente che ciò non
si deve intendere che della gloria la più
alta, della gloria vera e di buona lega, perocchè
v’hanno pure molte specie effimere di
gloria. Inoltre l’onore non si applica che a qualità
che il mondo esige da tutti coloro i quali
si trovano in condizioni simili, la gloria invece si
applica a qualità che non si possono
pretendere da alcuno; l’onore si riferisce a meriti che
ciascuno può attribuirsi pubblicamente, la
gloria a meriti che nessuno può attribuirsi da sè
stesso. Mentre l’onore non va oltre i
limiti in cui siamo personalmente conosciuti, la gloria,
tutto all’opposto, precede nel suo volo la
conoscenza dell’individuo e se la porta dietro
tanto lontano quanto arriverà ella stessa.
Ognuno può pretendere all’onore; alla gloria le
sole eccezioni, perocchè non la si acquista
che con produzioni eccezionali. Tali produzioni
possono essere atti od opere: da ciò due strade per
giungere alla gloria. Un animo grande
sovra ogn’altra cosa ci apre la via degli
atti; una mente grande ci rende capaci di seguir
quella delle opere. Ciascuna delle due ha
vantaggi ed inconvenienti suoi propri. La
differenza capitale si è che le azioni
passano, e le opere rimangono. L’azione la più nobile
ha sempre un’influenza solamente temporanea,
l’opera del genio invece sussiste ed agisce,
benefica e nobilitante, a traverso i tempi.
Delle azioni non resta che la memoria che diventa
sempre grado a grado più piccola, svisata e
indifferente; essa è pur anco destinata a sparire
affatto se la storia non la raccoglie per
trasmetterla, pietrificata, alla posterità. Le opere in
cambio sono immortali da per sè stesse, e
le opere scritte sopra tutto possono vivere in ogni
tempo. Il nome e la memoria di Alessandro
il Grande sono soli viventi oggidì; ma Platone,
Aristotele, Omero ed Orazio sono presenti
essi stessi, vivono ed agiscono direttamente. I
Veda, colle loro Upanishadi sono là,
davanti a noi; ma di tutte le azioni compite nel loro
tempo, non la più piccola nozione è giunta
fino a noi24 W. Un
altro svantaggio delle azioni
si è che esse dipendono dalla occasione
che, prima di ogn’altra cosa, deve dar loro la
possibilità di prodursi: d’onde risulta che
la grandezza della loro gloria non è regolata
unicamente dal loro valore intrinseco, ma
anche dalle circostanze che danno loro
importanza e splendore. La gloria delle
azioni deriva inoltre, quando queste sono puramente
personali, come in guerra, dalla relazione
d’un piccolo numero di testimoni oculari; ora può
succedere che non vi sieno stati testimoni,
o che questi sieno ingiusti o mal prevenuti.
D’altra parte le azioni, essendo qualche
cosa di pratico, hanno il vantaggio d’esser alla
portata delle facoltà che intendono e
giudicano presso tutti gli uomini; perciò si rende loro
immediatamente giustizia non appena i dati
sono esattamente prodotti, a meno che tuttavia i
motivi non ne possano esser nettamente
conosciuti o giustamente apprezzati che più tardi,
perocchè, per ben comprendere un’azione,
bisogna conoscerne il motivo.
Per le opere la cosa è affatto diversa; la
loro produzione non dipende dall’occasione,
ma unicamente dal loro autore, ed esse
restano quello che sono in sè stesse e da per sè
stesse per quanto a lungo durino. Qui, in
cambio, la difficoltà consiste nella facoltà di
giudicarle, e la difficoltà è tanto più
grande quanto più le opere sono di qualità eminente; di
sovente mancano giudici competenti; di
sovente pure mancano giudici imparziali ed onesti.
Di più non è un tribunale solo che decide
della loro gloria, havvi sempre luogo ad appello.
Infatti se, come abbiamo detto, la memoria
delle azioni giunge alla posterità sola, e quale i
contemporanei l’hanno trasmessa, le opere
al contrario vanno ai posteri da per sè stesse, e
quali sono, salvo i frammenti perduti: qui dunque
non v’ha la possibilità di snaturare i dati,
e se al loro apparire l’ambiente ha potuto
esercitare qualche influenza dannosa, questa più
tardi sparisce. Anzi, per meglio dire, si è
il tempo che produce, uno ad uno, il piccolo
numero di giudici veramente competenti,
chiamati, come esseri eccezionali quali sono, a
giudicarne di più eccezionali ancora:
eglino depongono successivamente nell’urna i loro
voti significativi, e con ciò si
stabilisce, qualche volta dopo secoli, un giudizio pienamente
fondato e che il progredire del tempo non
può invalidare. Si vede quindi che la gloria delle
opere è assicurata, infallibile. Occorre un
concorso di circostanze esterne ed un azzardo
perchè l’autore arrivi alla gloria durante
la vita; il caso sarà tanto più raro quanto più il
genere delle sue opere sarà difficile ed
elevato. Perciò Seneca ha detto (Ep. 79), in un
linguaggio incomparabile, che la gloria
segue tanto infallantemente il merito quanto
l’ombra il corpo, benchè essa cammini, come
l’ombra, ora davanti ed ora di dietro. Dopo
aver sviluppato questa idea egli aggiunge:
«Ancorchè l’invidia imponesse silenzio su di te
a tutti i viventi verrà chi giudicherà senza odio, senza
amore;» questo passo ci mostra nel
tempo stesso che l’arte di soffocare
malignamente i meriti col silenzio e con una finta
ignoranza, allo scopo di nascondere al
pubblico ciò che è buono a profitto di ciò che è
cattivo, è stata già messa in pratica dalla
canaglia fin dall’epoca di Seneca, come lo si fa
dalla canaglia ai nostri giorni, e che all’una
e all’altra è l’invidia
che chiude la bocca.
D’ordinario la gloria è tanto più tardiva
quanto più sarà durevole, perocchè tutto ciò
che è squisito matura adagio. La gloria
chiamata ad esser eterna è pari alla quercia che
cresce lentamente dal seme; la gloria
facile, effimera somiglia alle piante annuali, rapide a
crescere; in quanto poi alla gloria falsa
essa è come quelle cattive erbaccie che nascono a
vista d’occhio e che si cerca in tutta
fretta di estirpare. E questo perchè quanto più un uomo
appartiene alla posterità, o con altre
parole all’umanità intiera in generale, tanto più è
straniero alla sua epoca; perocchè ciò che
egli crea non è destinato specialmente a questa
come tale, ma come parte dell’umanità
collettiva; perciò queste opere non essendo tinte del
color locale del loro tempo, succede ben di
sovente che i contemporanei le lascino passare
inosservate. Ciò che costoro apprezzano
sono piuttosto le opere che trattano delle cose
fuggevoli del giorno, o che servono al capriccio
del momento; queste appartengono loro
completamente, vivono e muoiono con essi.
Così la storia dell’arte e della letteratura
c’insegna generalmente che le più alte
produzioni della mente umana sono state accolte, di
regola, con disfavore e sono rimaste in
abbandono disdegnate fino al giorno in cui spiriti
elevati, attratti da esse, hanno
riconosciuto il loro valore ed hanno assegnato loro una
considerazione che da quel momento
conservarono costantemente. In ultima analisi tutto
questo ha fondamento sul fatto che ciascuno
non può realmente comprendere ed apprezzare
se non quanto gli è omogeneo. Ora
l’omogeneo per l’uomo d’ingegno limitato si è ciò che è
limitato; per l’uomo triviale ciò che è
triviale; per una mente vasta ciò che è vasto, e per
l’insensato l’assurdo; quello che ciascuno
preferisce è l’opera sua propria, essendo cosa
della stessa natura.
Già il vecchio Epicarmo, il poeta favoloso,
cantava così: «Non è cosa ammirabile
ch’io parli così, e che un simile piaccia
al suo simile, e gli sembri esser nato bello;
imperocchè il cane par cosa bellissima al
cane, ed il bue al bue, l’asino all’asino sembra una
maraviglia, il porco al porco». Val bene la
pena di tradurre questi versi, affinchè quanto
esprimono non sia perduto per nessuno25.
Lo stesso braccio più vigoroso quando
lancia un corpo leggero, non può comunicargli
abbastanza moto perchè vadi lontano e
colpisca fortemente; il corpo cadrà inerte da vicino
perchè, mancando di massa materiale
propria, non può ricevere forza dall’esterno; tale sarà
la sorte dei pensieri grandi e belli, dei
capolavori del genio, quando, per esser compresi, non
incontrano che cervelli piccoli, teste
deboli o balzane. Ecco quanto i saggi di tutti i tempi
hanno ad una voce e senza posa deplorato.
Gesù, figlio di Sirach, per esempio dice: «Chi
parla ad uno stolto parla ad un addormentato; quando ha
finito di parlare l’altro
domanda: che hai?» — In Amleto: «Un discorso sagace dorme nell’orecchio di
uno
sciocco». — Goethe a sua volta: «La parola più
felice perde il suo valore quando chi
l’ascolta ha l’orecchio di traverso». Ed
anche: «Tu non puoi agire, tutto sta inerte (ottuso);
non te ne affliggere! Il sasso gettato
nella palude non fa cerchî».
Ecco Lichtenberg: «Quando una testa ed un libro urtandosi danno
un suono fesso,
dipende ciò sempre dal libro?» Lo
stesso autore disse altrove: «Tali
opere sono specchi;
quando vi si mira una scimmia non possono riflettere le
sembianze d’un apostolo».
Riportiamo pure il bello e toccante lamento
del vecchio papà Gellert, che ben lo
merita: «Quante volte le migliori qualità
trovano scarsi ammiratori, e quante volte la
maggior parte degli uomini prende il
cattivo per buono! È questo un male che si vede ogni
giorno. Ma come evitare tale pestilenza?
Dubito che questa calamità possa esser bandita dal
mondo. Non vi sarebbe a tal uopo che un
solo mezzo sulla terra, ma è infinitamente
difficile: che cioè i matti diventassero
savi. Ma che! Ciò non sarà mai. Essi non conoscono
il valore delle cose, giudicano cogli
occhi, non colla ragione. Lodano costantemente ciò che
è vile perchè non hanno mai conosciuto il
buono.»
A questa incapacità intellettuale degli
uomini la quale fa che, come disse Goethe, sia
meno raro veder nascere un’opera eminente
che non di vederla conosciuta ed apprezzata,
viene ad aggiungersi ancora la loro
perversità morale che si manifesta coll’invidia.
Perocchè colla gloria che si acquista,
havvi un uomo di più che si leva sopra gli altri della
sua specie; costoro sono dunque abbassati
altrettanto, di modo che ogni merito straordinario
ottiene la sua gloria a spese di coloro che
non hanno meriti: «Quando
noi rendiamo onore
agli altri dobbiamo abbassar noi stessi», scrive
Goethe (W. O. Divan).
Ecco ciò che spiega perchè, non appena
appare un’opera superiore, di qual genere
non importa, tutte le innumerevoli
mediocrità fanno alleanza, e congiurano per impedirle
che sia conosciuta e per soffocarla se è
possibile. Loro tacita parola d’ordine si è: «abbasso
il merito». Coloro stessi che hanno meriti e che sono
già al possesso della lor parte di
gloria, non vedono volentieri sorgere una
gloria novella di cui lo splendore diminuirà
d’altrettanto lo splendore della gloria
loro. Goethe stesso ha detto: «Se per nascere avessi
atteso che mi si dasse la vita, non sarei
ancora di questo mondo; potete ben comprenderlo
vedendo come si arrabattano coloro che, pur
di parer qualche cosa, mi rinnegherebbero
volentieri».
Sicchè, mentre l’onore trova molto di sovente
giudici retti, mentre l’invidia non lo
attacca e lo si accorda anzi ad ognuno per
antecipazione od a credenza, la gloria, tutto al
contrario, deve esser conquistata con seria
lotta, a dispetto dell’invidia, ed è un tribunale di
giudici decisamente sfavorevoli che decreta
la palma. Possiamo e vogliamo divider l’onore
con tutti, ma la gloria acquistata da un
altro diminuisce la nostra o ce ne rende la conquista
più penosa. Inoltre la difficoltà
d’arrivare alla gloria colle opere è in ragione inversa del
numero d’individui di cui si compone il
pubblico dedicatosi ad esse, e ciò per motivi facili
a comprendere. Sicchè la fatica è più
grande per le opere che hanno per iscopo l’istruire che
non per quelle che son fatte solo per
dilettare. Per i lavori di filosofia la difficoltà è ancora
più grande perchè l’insegnamento che
promettono, dubbio da una parte, senza profitto
materiale dall’altra, s’indirizza, fin da
bel principio, ad un pubblico di concorrenti.
Da quanto dicemmo sulle difficoltà di
giungere alla gloria deriva che il mondo
vedrebbe nascere molto poche opere
immortali, od anche nessuna, se coloro che possono
produrne non lo facessero per amore stesso
di queste opere, per loro propria soddisfazione,
e se avessero bisogno dello stimolante
della gloria. Anzi, chiunque può produrre il buono
ed il vero, e fuggire il male, sfiderà
l’opinione delle masse e dei loro organi, dunque li
disprezzerà. Perciò si è fatto giustamente
osservare, da Osorio fra gli altri (De
gloria), che
la gloria fugge davanti coloro che la
cercano e segue coloro che non se ne curano, perchè i
primi si piegano al gusto dei loro
contemporanei, mentre gli altri lo affrontano.
Tanto è difficile acquistar la gloria
quanto è poi facile conservarla. Anche su ciò essa
è in opposizione coll’onore. Questo è
accordato a tutti, anche a credito, e basta saperlo
conservare. Ma l’affare è arduo perchè una
sola azione vituperevole lo fa perdere
irrevocabilmente. Al contrario la gloria
non può realmente esser mai perduta, perocchè
l’azione o l’opera che l’ha data resta
sempre compita, e la gloria ne va sempre all’autore
quand’anche questi non aggiungesse nuovi
meriti a quelli già acquistati. Se nondimeno essa
si estingue, se l’autore le sopravvive,
vuol dire che si trattava di gloria falsa, vale a dire non
meritata; essa proveniva da una valutazione
esagerata e momentanea del merito; era una
gloria del genere di quella di Hegel, di
quella gloria che Lichtenberg descrive, dicendo che
era stata «proclamata a suono di tromba da una
brigata di amici e di discepoli e ripercossa
dall’eco dei cervelli vuoti; ma come devono ridere i posteri
quando un giorno, battendo
alla porta di questi castelli di parole smaglianti, di
questi avanzi incantevoli d’una moda
svanita, di queste stanze di convenzioni finite, troveranno
tutto, assolutamente tutto vuoto, e
non un pensiero che risponda con fiducia: ENTRATE».
In conclusione, la gloria è fondata su ciò
che un uomo è in confronto degli altri. È
dunque in essenza qualche cosa di relativo,
e non può quindi avere che un valore relativo.
Essa sparirebbe totalmente se gli altri
divenissero ciò che è già l’uomo celebre. Una cosa
non può avere un valore assoluto se non se
conservando il suo prezzo in ogni circostanza;
nel caso presente ciò che avrà un valore
assoluto sarà dunque ciò che un uomo è per sè
stesso direttamente: ecco per conseguenza
la cosa che costituirà necessariamente il valore e
la felicità d’un gran cuore e d’una gran
mente. Ciò che v’ha di prezioso invero non è la
gloria, ma il meritarsela. Le condizioni
che ne rendono degni sono, per così dire, la
sostanza; la gloria non è che l’accidente;
questa agisce sull’uomo celebre come sintomo
esterno che viene a confermare a’ suoi
occhi l’alta stima ch’egli ha di sè stesso; si potrebbe
dire che, simile alla luce che non diviene
visibile se non riflessa da un corpo, ogni mente
superiore non acquista la piena coscienza
di sè che colla gloria. Ma il sintomo istesso non è
infallibile, visto che esiste pure gloria
senza merito, e merito senza gloria. Su questo
argomento disse Lessing in modo graziosissimo:
«Vi sono uomini celebri,
ve ne sono che
meriterebbero di esserlo». Sarebbe invero
un’esistenza ben miserabile quella il cui valore o
svilimento dipendesse da ciò che essa
appare agli occhi altrui, e tale sarebbe la vita
dell’eroe e dell’uomo di genio se il prezzo
della loro esistenza consistesse nella gloria, vale
a dire nell’approvazione altrui. Ogni
individuo vive ed esiste prima di tutto per suo proprio
conto, di conseguenza principalmente in sè
e per sè stesso. Quello che un uomo è, non ne
importa il come, lo è a bella prima e sopra
tutto in sè stesso; se, così considerato, il valore
ne è minimo vuol dire che esso è pure
minimo considerato in generale. L’immagine invece
del nostro essere, quale si riflette nella
testa degli altri uomini, è qualche cosa di secondario,
di derivato, di eventuale, non riferendosi
che molto indirettamente all’originale. Inoltre le
teste delle masse sono un locale troppo
miserabile perchè la vera felicità vi possa trovare il
suo posto. Non vi si può trovare che una felicità
chimerica. Quale ibrida società non si vede
riunita in questo tempio della gloria
universale! Capitani, ministri, ciarlatani, espilatori,
ballerini, cantanti, milionarî ed ebrei:
precisamente così; i meriti di questa gente sono molto
più sinceramente apprezzati, trovano molto
maggior sentita stima che non i
meriti
intellettuali, sopra tutto quelli d’ordine
superiore, che non ottengono dalla grande
maggioranza che una stima sulla parola. Dal
punto di vista eudemonologico la gloria non è
che il boccone più raro e più squisito
presentato al nostro orgoglio ed alla nostra vanità. Ma
si trova una straordinaria soprabbondanza
d’orgoglio e di vanità presso la maggior parte
degli uomini benchè queste due condizioni
sieno dissimulate; e fors’anco le s’incontra in
più alto grado presso coloro che possedono,
non importa a qual titolo, diritti alla gloria, e
che più di sovente devono portare ben a
lungo nell’animo la coscienza incerta del loro alto
valore, prima d’aver occasione di metterlo
alla prova e di farlo poi conoscere; fino allora
essi hanno il sentimento di subire una
secreta ingiustizia26. In
generale, e come dicemmo in
principio del capitolo, il prezzo annesso
all’opinione è del tutto sproporzionato e fuor di
ragione, a tal punto che Hobbes ha potuto dire
in termini molto energici ma giustissimi:
«Ogni
piacere dell’animo, ogni soddisfazione viene dal poter avere, mettendosi a
confronto
cogli altri, un’alta opinione di sè stesso. (De
Cive, I, 5)». Così si spiega il prezzo
grandissimo che si annette alla gloria, e i
sacrifizî che si fa nella sola speranza di arrivarvi
un giorno: «La fama è lo sprone che spinge le menti
superiori (ultima debolezza delle
anime nobili) a sdegnare i piaceri ed a consacrare la loro
vita al lavoro».
Come anche:
«Quanto
è faticoso l’arrampicarsi su quelle cime ove brilla il tempio della fama».
Perciò la più vanitosa di tutte le nazioni
ha sempre in bocca la parola «gloria» e la
considera come il motore delle grandi
azioni e delle grandi opere. Solo, siccome la gloria
non è incontestabilmente che il semplice
eco, l’immagine, l’ombra, il sintomo del merito, e
siccome in ogni caso ciò che si ammira deve
valere più dell’ammirazione, ne segue che
quello che rende veramente felice non sta
nella gloria ma in ciò che ce la procura, nel
merito stesso, o, per parlare più
esattamente nel carattere e nelle facoltà che fondano il
merito sia nell’ordine morale, sia
nell’ordine intellettuale. Perocchè ciò che un uomo può
essere di più eccellente, è necessariamente
per lui stesso che deve esserlo; quanto del suo
avere si riflette nella testa degli altri,
quanto egli vale nella loro opinione non è per lui che
accessorio e d’un interesse subordinato.
Per conseguenza colui che non fa che meritare la
gloria, quand’anche non la ottenga, possede
ampiamente la cosa principale ed ha di che
consolarsi se gli manca l’accessorio, vale
a dire la gloria stessa. Ciò che rende l’uomo
degno d’invidia non è l’esser tenuto per
grande da quel pubblico così incapace di giudicare
e di sovente così cieco, ma è l’esser
grande; e neppur si è felicità suprema vedere il proprio
nome passar alla posterità, bensì produrre
pensieri che meritino di esser raccolti e meditati
in ogni epoca. Ecco quanto non può esser
tolto «των ἐφ́ ημῖν»; il
resto è «τον οὔκ ἐφ́
ημῖν».
Quando invece l’ammirazione stessa è
l’oggetto principale, si è il soggetto che non ne
è degno. Tale infatti è il caso della falsa
gloria, vale a dire della gloria non meritata. Chi la
possede deve contentarsene per ogni suo
pasto, poichè ei non ha quelle qualità di cui questa
gloria non dovrebbe esser che il sintomo,
il semplice riflesso. Ma tal gloria gli verrà molto
di sovente a noia: giunge finalmente il
momento in cui a dispetto dell’illusione sul proprio
conto che la vanità gli procura, ei sarà
preso dalle vertigini su quelle altezze per cui non è
fatto, od anche si risveglierà in lui un
vago sospetto di non essere che di bronzo dorato;
allora è preso dal timore di essere
conosciuto ed umiliato come lo merita, sopratutto quando
già può legger sulla fronte dei saggi il
giudizio dei posteri. Ei rassomiglia ad un uomo che
possede una eredità in virtù d’un
testamento falso.
Il rimbombo della gloria vera, di quella
gloria che vivrà a traverso i tempi che
verranno, non arriva mai alle orecchie di
chi ne è l’oggetto, e nondimeno lo si vede felice.
Egli è che sono le facoltà eminenti a cui
deve la gloria, l’agio di poterle svolgere, cioè di
agire in conformità della propria natura,
il poter occuparsi degli oggetti che ama o che lo
dilettano, egli è tutto ciò che lo rende
felice; e solo in tali condizioni sono create le opere
che condurranno alla gloria. Si è dunque la
sua anima grande, si è la ricchezza della sua
intelligenza, l’impronta della quale nelle
sue opere costringerà all’ammirazione le età
future, sono queste cose che formano la
base della sua felicità; vi si aggiungono ancora i
suoi pensieri la cui meditazione sarà
soggetto di studio e sorgente di delizia ai più nobili
spiriti attraverso secoli innumerevoli. Aver
meritato la gloria, ecco ciò che ne costituisce il
valore e nel tempo istesso la propria
ricompensa. Che lavori chiamati a gloria immortale
l’abbiano qualche volta già ottenuta dai
contemporanei, è tal fatto dovuto a circostanze
fortuite e che non ha grande importanza.
Perocchè gli uomini mancano ordinariamente di
giudizio proprio, e sopra tutto non hanno
le facoltà volute per apprezzare le produzioni di
un ordine superiore e difficile; perciò
essi seguono sempre su queste materie l’autorità
altrui, e la gloria suprema è accordata di
pura fiducia da novantanove ammiratori su cento.
Per questo l’approvazione dei
contemporanei, per quanto numerose sieno le voci loro, ha un
prezzo assai basso per il pensatore; questi
vi distingue solo l’eco di qualche voce che non è
ella stessa che un effetto del momento. Un
virtuoso si sentirebbe molto lusingato dal plauso
approvatore del pubblico se sapesse che,
salvo uno o due individui, l’uditorio è composto
affatto da sordi, i quali per dissimulare
scambievolmente la loro infermità, applaudiscono a
tutta forza non appena vedono muover le
mani la sola persona che ha le orecchie sane? Che
sarebbe dunque s’egli sapesse pure che i
capi della claque sono stati
spesso comprati per
procurare il più splendido successo al più
infelice raschiatore di violino! Questo ci spiega
perchè la gloria contemporanea subisca così
di rado la metamorfosi in gloria immortale:
d’Alembert espone la stessa idea nella sua
magnifica descrizione del tempio della gloria
letteraria: «L’interno del tempio non è abitato che
dai morti che non vi erano mentre
vivevano, e da pochi viventi che sono messi alla porta,
nella maggior parte, non appena
hanno cessato di vivere».
Strada facendo possiam dire che elevare un
monumento ad un uomo ancora in vita è
lo stesso che dichiarare che su quanto lo
concerne non si ha fidanza nella posterità. Quando
ad onta di tutto un uomo arriva durante la
vita ad una gloria che le generazioni future
confermeranno, ciò non succederà mai se non
in età avanzata; v’ha bene qualche eccezione
a questa regola in favore degli artisti e
dei poeti, ma molto di rado per i filosofi. I ritratti di
uomini celebri per le loro opere, fatti
generalmente in un’epoca in cui la loro celebrità era
già stabilita, confermano la regola
precedente; essi ce li presentano ordinariamente vecchi e
canuti, sopratutto i filosofi. Tuttavia dal
punto di vista eudemonologico la cosa è
perfettamente giustificata. Aver gloria e
gioventù in una volta sarebbe troppo per un
mortale; la nostra esistenza è così povera
che i suoi beni devono essere ripartiti con più
risparmio. La gioventù possede abbastanza
ricchezze sue proprie; essa può tenersene paga.
Si è nella vecchiezza, quando i piaceri e
le gioie sono morte, come gli alberi durante la
fredda stagione, che l’albero della gloria
viene a germogliare molto a proposito, come
verdura d’inverno; si può anche paragonare
la gloria a quelle pere tardive che si sviluppano
nell’estate, ma che non sono mangiate che
d’inverno. Non havvi più bella consolazione per
il vegliardo che di vedere tutta la forza
de’ suoi giovani anni incorporarsi in opere che non
invecchieranno come la sua gioventù.
Esaminiamo ora più davvicino la strada che
conduce alla gloria colle scienze, essendo
queste maggiormente a nostra portata; a
loro riguardo potremo stabilire la regola seguente.
La superiorità intellettuale di cui fa
testimonianza la gloria scientifica si manifesta sempre
per una combinazione nuova di certi dati.
Questi possono essere di specie assai differenti,
ma la gloria annessa alla loro combinazione
sarà tanto più grande e più estesa quanto più
essi stessi saranno più generalmente
conosciuti e più accessibili a tutti. Se questi dati sono,
per esempio, cifre, linee curve, questioni
speciali di fisica, di zoologia, di botanica o di
anatomia, passi corrotti di antichi autori,
iscrizioni quasi cancellate o di cui ci manca
l’alfabeto, o punti oscuri della storia, in
tutti questi casi la gloria che si acquisterà nel
combinarli giudiziosamente non si estenderà
più lontano della conoscenza stessa di tali dati
e per conseguenza non oltrepasserà il
cerchio d’un piccolo numero di uomini che
d’ordinario vivono ritirati, e che sono
gelosi della gloria nella loro speciale professione. Se
invece i dati sono di tale specie che tutto
il mondo conosce, per esempio sulle facoltà
essenziali ed universali della mente o del
cuore umano, oppure sulle forze naturali la cui
azione succede costantemente sotto i nostri
occhi, od anche sull’andamento, noto a tutti,
della natura in generale, allora la gloria
di averli messi maggiormente in luce con una
combinazione nuova, importante ed evidente,
si spargerà col tempo quasi da per tutto fra
l’umanità civilizzata. Perocchè se i dati
sono accessibili a tutti, lo sarà pure in generale la
loro combinazione. Nondimeno la gloria
starà sempre in rapporto colle difficoltà che
saranno da superare per conquistarla.
Infatti quanto più gli uomini, a cui i dati sono
famigliari, saranno numerosi, tanto più
sarà difficile combinare questi dati in modo nuovo e
giusto ad un tempo, poichè una infinità di
menti vi si saranno già provate ed avranno
esaurito ogni possibile risultato. In
cambio i dati inaccessibili al pubblico volgare, la
conoscenza dei quali non si acquista che
con lunghe e faticose ricerche, ammetteranno
ancora ben di sovente una nuova
combinazione; studiandoli con mente fredda e con sano
criterio, si può con facilità aver la sorte
di arrivare a cose inaspettate e tuttavia razionali. Ma
la gloria così ottenuta avrà, presso a
poco, per limite il cerchio stesso della conoscenza di
questi dati. Perocchè la soluzione dei
problemi di siffatta natura esige per verità molto
lavoro e molto studio; d’altra parte i dati
per i problemi della prima specie, con cui si può
acquistare precisamente la gloria più alta
e più vasta, sono da tutto il mondo conosciuti
senza sforzo; ma se basta poca fatica per
conoscerli, occorrerà tanto più talento e fors’anche
il genio per combinarli. Ora non v’ha
lavoro che, per valore proprio o per quello che gli si
attribuisce, possa sostenere il confronto
col talento o col genio.
Da tutto ciò risulta che coloro i quali si
sanno dotati di una ragione solida e di un
raziocinio giusto, senza aver pertanto il
sentimento di possedere un’intelligenza fuori
dell’ordinario, non devono indietreggiare
di fronte a lunghi studi ed a faticose ricerche; essi
potranno con ciò levarsi sopra quegli
uomini alla cui portata stanno i dati universalmente
noti, e raggiungere quelle regioni
discoste, che sono accessibili solamente all’attività del
dotto. Imperocchè quivi il numero dei
concorrenti è infinitamente più piccolo, ed una mente
un po’ superiore troverà ben presto
l’occasione di una combinazione nuova e razionale; il
merito della sua scoperta potrà pure aver
per base la difficoltà di giungere alla conoscenza
dei dati. Ma la moltitudine sentirà
solamente da lontano lo strepito degli applausi che questi
lavori procureranno all’autore da parte de’
suoi confratelli di scienza, soli conoscitori nella
materia. Seguitando fino alla fine la
strada qui indicata, si può anche determinare il punto in
cui i dati, per l’estrema difficoltà di
acquistarli, bastano a sè stessi, senza bisogno di
combinazione, per stabilire una gloria.
Tali sono i viaggi in paesi molto lontani e poco
visitati: così si diviene celebri per
quello che si è veduto, non per quello che si è pensato.
Questo sistema ha pure un grande vantaggio,
il poter cioè comunicare agli altri più
facilmente le cose vedute che non quelle
pensate, mentre il pubblico stesso comprende le
prime meglio delle seconde; si trova pure
in tal modo un numero più grande di lettori.
Perocchè, come disse già Asmus: «Dopo un lungo viaggio si hanno molte cose
da
raccontare».
Ma ne risulta pure che quando si fa
conoscenza personale cogli uomini celebri per
siffatte gesta, si ricorda spesso
l’osservazione di Orazio:
Coelum, non animum,
mutant qui trans mare corrunt
(Cangiano
cielo, ma non cangiano l’animo coloro che vanno al di là dei mari).
(Ep.
I, 11, v. 27).
Su quanto concerne l’uomo dotato di alte
facoltà, dirò che solamente chi può osare di
darsi alla soluzione di quei grandi e
difficili problemi che trattano di cose generali ed
universali, farà bene da una parte di
allargare quanto più sia possibile il proprio orizzonte,
ma d’altra parte dovrà estenderlo
egualmente in tutte le direzioni, senza abbandonarsi
troppo addentro in qualcuna di quelle
regioni speciali note solo a pochi; in altre parole, non
andar troppo avanti nei dettagli speciali
d’una sola scienza, e molto meno ancora far della
micrologia in qualsivoglia ramo della
scienza. Perchè non occorre che egli si dedichi a cose
difficilmente accessibili per innalzarsi
sopra la folla dei concorrenti; ciò che è alla portata di
tutti gli fornirà precisamente materia a
risultati nuovi, importanti e veri. Ma anzi per questo
il suo merito potrà esser apprezzato da
tutti coloro che conoscono i dati, vale a dire dalla
maggior parte del genere umano. Ecco la
ragione dell’immensa differenza tra la gloria
serbata ai poeti ed ai filosofi e quella
accessibile agli eruditi in fisica, chimica, anatomia,
geologia, zoologia, filologia, storia ed
altre scienze.
________________
CAPITOLO V.
Parenesi e massime.
Qui meno che altrove ho la pretesa d’esser
completo, che altrimenti dovrei ripetere le
numerose ed in parte eccellenti regole per
la vita date dai pensatori di tutte le epoche da
Teognide e dal pseudo-Salomone27 fino a La Rochefoucault, e non potrei
evitare di ripetere
molte cose volgari, notissime, già
ampiamente trattate. Ho pure rinunziato quasi
interamente a qualunque ordine sistematico.
Che il lettore se ne consoli, perocchè in
materie siffatte un trattato completo e
ordinato rigorosamente sarebbe riuscito senza dubbio
noiosissimo. Ho messo giù quello che mi è
venuto in mente alla bella prima, quello che mi
parve degno d’esser comunicato, e quello
che, per quanto me ne ricordava, non era ancora
stato detto, od almeno non era stato detto
così completamente, e sotto questa forma; non
faccio dunque che spigolare nel vasto campo
ove altri ha già mietuto.
Tuttavia per mettere un po’ d’ordine nella
grande varietà d’opinioni e di consigli
relativi al mio soggetto, li classificherò
in massime generali ed in massime concernenti la
nostra condotta verso noi stessi da prima,
poi verso gli altri e finalmente di faccia
all’andamento delle cose ed alla sorte in
questo mondo.
1. Massime
generali.
1.° Considero regola suprema d’ogni
saggezza nella vita la proposizione espressa da
Aristotele nella Morale a Nicomaco (VII, 12):
«ὁ
φρονιμος το
αλυπον διωκει, ου
το
ἡδυ,» ciò che
si può tradurre: Il
saggio cerca l’assenza del dolore, non il piacere. La verità
di tale sentenza è basata sul fatto che
ogni piacere ed ogni felicità sono negativi per natura,
mentre è positivo il dolore. Ho svolta e provata
questa tesi nella mia opera principale, vol I,
§ 58. Voglio nondimeno spiegarla ancora con
un fatto d’osservazione giornaliera. Quando
il nostro corpo tutto intero è sano ed
intatto, salvo una piccola parte ferita o dolorosa, la
coscienza cessa dal sentire la salute del
tutto; l’attenzione si dirige interamente sul dolore
della parte lesa, ed il piacere,
determinato dal sentimento totale dell’esistenza, sparisce.
Similmente quando tutti i nostri affari
vanno a gonfie vele, salvo uno solo che riesce a
male, si è proprio questo, fosse pure di
minima importanza, che ci gira continuamente per il
cervello, si è su questo che si portano
sempre i nostri pensieri, e di rado su altre cose di
maggior rilievo che vanno a seconda dei nostri
desideri. In ambo i casi è lesa la volontà,
la
prima volta come si oggettiva nell’organismo,
la seconda negli sforzi dell’uomo; noi
vediamo nei due casi che il suo
soddisfacimento è sempre negativo, e che per conseguenza
non è provato direttamente dall’individuo
intero; tutto al più arriverà alla coscienza per
riflessione. Ciò che v’ha di positivo
invece si è l’impedimento della volontà, il quale si
manifesta pure direttamente. Ogni piacere
consiste nel sopprimere tale impedimento, nel
liberarsene, e non può esser quindi che di
breve durata.
Ecco dunque ov’è basata l’eccellente regola
d’Aristotele or ora citata, d’aver cioè da
dirigere la nostra attenzione non sulle
gioie e sui divertimenti della vita, ma sui mezzi di
sfuggire per quanto è possibile ai mali
innumerevoli di cui è seminata. Se questa via non
fosse la vera, l’aforismo di Voltaire: «La felicità non è che un sogno e il
dolore è reale»
sarebbe così falso come è giusto in realtà.
Però quando si vuole far il bilancio della propria
esistenza dal punto di vista eudemonologico
bisogna stabilire le partite non sui piaceri
gustati, ma sui mali a cui si potè
sottrarsi. Inoltre l’eudemonologia, vale a dire un trattato
sulla vita felice, deve cominciare
dall’insegnarci che il suo nome stesso è un eufemismo, e
che per «vita felice» bisogna intender solo
una «vita meno infelice», in poche parole
un’esistenza sopportabile. E infatti havvi
la vita non perchè se ne goda, ma perchè la si
subisca, perchè si soddisfi ai doveri che
impone; ciò che indicano molto bene le
espressioni: «degere vitam, vitam defungi» in
latino; «si scampa così28» in
italiano; «man
muss suchen
durchzukommen», «er
wird schon durch die Welt kommen» in
tedesco, ed altre
simili. Sì! è una consolazione per la tarda
età l’aver dietro di sè una vita laboriosa. L’uomo
più felice è dunque colui che conduce
un’esistenza senza dolori troppo forti sia nel morale,
sia nel fisico, e non colui che ebbe per
sua parte le gioie più vive ed i piaceri più grandi.
Voler misurare su questi la felicità di un’esistenza
si è ricorrere ad una scala falsa. Perocchè
i piaceri sono e rimangono negativi:
credere che essi rendano felici è una illusione che
l’invidia tien viva e colla quale punisce
sè stessa. I dolori invece sono sentiti positivamente,
ed è la loro assenza che forma la scala
della felicità nella vita. Se ad uno stato libero dal
dolore viene ad aggiungersi ancora
l’assenza della noia, allora si raggiunge sulla terra la
felicità in ciò che v’ha di essenziale, perocchè
il resto non è più che una chimera. Ne segue
che non bisogna mai procurarsi piaceri a
prezzo di dolori, anzi nemmeno a prezzo della loro
sola minaccia, visto che sarebbe pagare
cose negative e chimeriche con cose positive e
reali. In cambio havvi vantaggio nel sacrificare i
piaceri allo scopo di evitare dolori.
Nell’uno e nell’altro caso è indifferente
che i dolori seguano o precedano i piaceri. Non
v’ha davvero maggior follia del voler
trasformare questo teatro di miserie in un luogo di
delizie, e dell’ andar cercando gioie e
piaceri in luogo di procurar di sfuggire alla maggior
somma possibile di dolori. Quanta gente per
altro non cade in tale follia! L’errore è
infinitamente più piccolo presso colui che,
con occhio troppo triste, considera questo
mondo come una specie d’inferno e non si
occupa se non di procurarsi una stanza a prova
di fuoco. Il pazzo corre dietro ai piaceri
della vita e non trova che disinganni; il saggio evita
i mali. Se ad onta de’ suoi sforzi non
raggiunge lo scopo, la colpa è del destino, non della
sua follia. Ma per poco che vi riesca non
avrà mai delusioni perchè i mali a cui sarà
sfuggito sono sempre reali. Nel caso stesso
in cui avesse fatto per evitarli un giro troppo
grande, od avesse sacrificato inutilmente
qualche piacere, egli in realtà nulla ha perduto
perocchè i piaceri sono chimerici, e
desolarsi per la perdita di essi sarebbe una meschinità o
piuttosto una ridicolaggine.
Disconoscendo tale verità in favore
dell’ottimismo, la sorgente di molte calamità è
aperta. Infatti, nei momenti in cui siamo
liberi da dolori, inquiete brame fanno brillare a’
nostri occhi le chimere d’una felicità che
non ha esistenza reale, e c’inducono ad andarne in
cerca; con ciò ci procuriamo il dolore che
è incontestabilmente reale. Allora rimpiangiamo
quello stato franco da dolori che abbiamo
perduto e che si trova ormai dietro di noi come un
paradiso che abbiamo lasciato scappare, e
vorremmo inutilmente che non fosse accaduto
quanto noi stessi abbiamo fatto succedere.
Pare così che un cattivo demonio sia
costantemente occupato a toglierci coi
miraggi ingannatori dei nostri desideri, da quello
stato senza dolore, che è vera e suprema
felicità. Il giovane s’immagina che quel mondo
ch’egli non ha ancora veduto esista perchè
lo si goda, che sia la sede d’una felicità positiva
la quale sfugge solo a coloro che non hanno
l’abilità di saperla afferrare. Lo fortificano
nella sua credenza i romanzi e le poesie, e
quell’ipocrisia che governa il mondo, sempre e
dovunque, colle apparenze esterne. Ritornerò
fra breve su tale argomento. D’ora innanzi la
sua vita sarà una caccia alla felicità
positiva, caccia condotta più o meno prudentemente; e
questa felicità positiva è calcolata, ad un
tal titolo, esser composta di piaceri positivi. In
quanto ai pericoli a cui si rischia di
esporsi, ebbene, che fare? bisogna bene adattarvisi!
Questa caccia trascina in cerca di
selvaggina che non esiste in alcun modo, e finisce
d’ordinario col condurre ad una infelicità
troppo reale e positiva. Dolori, sofferenze,
malattie, perdite, passioni, affanni,
povertà, disonore e mille altre pene, ecco sotto quali
forme si presenta il risultato di essa. Il
disinganno giunge sempre troppo tardi. Se invece si
obbedisce alla regola da noi qui riportata,
se si stabilisce il piano della propria vita in modo
da evitare i dolori, vale a dire di
allontanare il bisogno, le malattie ed ogni altro affanno,
allora lo scopo è reale; si potrà così
ottener qualche cosa, e tanto più facilmente perchè il
piano sarà stato meno disturbato dalla ricerca
di quella chimera che è la felicità positiva.
Ciò si accorda con quello che Goethe, nelle
affinità elettive, fa dire a Mittler il quale è
sempre occupato della felicità degli altri:
«Chi vuole liberarsi da
un male sa sempre cosa
vuole: invece chi cerca quello che non ha è cieco come colui
che è affetto da cateratta».
Queste parole ricordano il bell’adagio: «il meglio è nemico del bene» Da tutto
ciò si può
anche dedurre l’idea fondamentale del
cinismo, come l’ho esposta nella mia grande opera,
tomo II, capitolo 16°. Cosa è infatti che
portava i cinici a respingere tutti i piaceri, se non il
pensiero dei dolori che tosto o tardi li
accompagnano? Evitare questi sembrava loro molto
più importante che non procurarsi i primi.
Profondamente penetrati e convinti della
condizione negativa di ogni piacere e
positiva di ogni dolore, essi dirigevano ogni loro
sforzo allo scopo di sfuggire ai mali, e
per ciò giudicavano necessario di respingere
interamente ed intenzionalmente i piaceri
che consideravano insidie tese per mettere l’uomo
in balia del dolore.
Certamente noi nasciamo tutti in Arcadia,
come dice Schiller, vale a dire cominciamo
la nostra vita pieni di aspirazioni alla
felicità, al piacere, e coltiviamo la folle speranza di
giungervi. Ma, regola generale, arriva ben
presto il destino il quale ci afferra rozzamente e
c’insegna che niente è nostro, che tutto
è suo, nel senso
che egli ha diritto incontestabile
non solamente su quanto possediamo ed
acquistiamo, sopra moglie e figli, ma anche sopra
le nostre braccia e le nostre gambe, sopra
i nostri occhi e le nostre orecchie, e perfino sopra
quel naso che portiamo in mezzo alla
faccia. In qualunque caso non passa gran tempo che
l’esperienza verrà a farci comprendere che
felicità e piacere sono una «fata
morgana» la
quale, visibile solo da lontano, sparisce
quando la si avvicina, ma che in cambio pena e
dolore hanno una realtà, e che si
presentano immediatamente e per sè stessi senza prestarsi
ad illusioni o ad aspettazioni lusinghiere.
Se la lezione porta i suoi frutti, allora cessiamo
dal correr dietro alla felicità ed al
piacere, e ci mettiamo piuttosto a chiudere, per quanto è
possibile, ogni accesso al dolore ed agli
affanni. Conosciamo così che ciò che il mondo può
offrirci di migliore si è un’esistenza
senza pene, tranquilla, sopportabile e ad una tal vita
limiteremo le nostre esigenze allo scopo di
poterne godere più sicuramente. Perocchè per
non diventare infelicissimi, il mezzo più
certo si è di non domandare d’esser felicissimo. È
quanto riconobbe Merck, l’amico di
giovinezza di Goethe, quando scrisse: «Questa
brutta
pretesa alla felicità, sopra tutto nella misura in cui la
sogniamo, rovina tutto in questo
basso mondo. Chi può liberarsene non domandando che ciò che
ha davanti a sè, potrà farsi
strada nella mischia» (Corrispondenza di Merck). È
dunque cosa prudente abbassare ad
una misura assai modesta le proprie pretese
ai piaceri, alle ricchezze, al grado, agli onori,
ecc., perocchè le disgrazie più grandi sono
attirate su di noi precisamente da essi, da questa
lotta per la felicità, per lo splendore e
per il piacere. Ma una tale condotta è già saggia ed
accorta per ciò solo che è molto facile
essere estremamente infelice, e che è invece, non
difficile, ma affatto impossibile essere
molto felice. Il cantore della saggezza ha detto con
ragione: «Colui che ama un’aurea mediocrità, sta lontano, sagace, dal
tetto frusto per
sordidezza, sta lontano, prudente, dai palazzi che destano
invidia. Più forte è scosso dai
venti il pino gigante: e le alte torri cadono con più
fragore: le folgori poi colpiscono le
cime più elevate» (Orazio,
Libro
II, ode 10).
Colui il quale essendosi imbevuto degli
insegnamenti della mia filosofia, sa che la
nostra esistenza è una cosa che dovrebbe meglio
non essere e che la suprema saggezza
consiste nel negarla, e nel francarsene,
costui non fonderà mai grandi speranze sopra
soggetto, nè situazione alcuna, non
agognerà con passione ad una cosa qualunque in questo
mondo, e non alzerà grandi lamenti in
seguito a qualche delusione, ma conoscerà la verità
di ciò che disse Platone (Rep. X, 604): «Nessuna cosa umana è degna di considerazione», e
l’altra verità enunciata dal poeta
persiano: «Hai tu perduto
l’imperio del mondo? Non te ne
affliggere; chè non è niente. Hai tu acquistato l’imperio
del mondo? Non te ne rallegrare;
chè non e niente. Dolore e felicità, tutto passa, passa nel
mondo (nel tempo) e non è niente»
(Anwari Soheili). (Si veda il motto del Gulistan di Saadi,
trad. ted. di Graf.).
Ciò che aumenta particolarmente la
difficoltà di assimilare idee tanto saggie, si è
quell’ipocrisia di cui ho parlato più
sopra, e nessuna cosa sarebbe più utile che lo svelarla
per tempo alla gioventù. La magnificenza è
quasi sempre cosa di pura apparenza, come le
decorazioni dei teatri; le manca l’essenza.
Così e i vascelli ornati a festa, e i colpi di
cannone, e le illuminazioni, e le musiche,
e i gridi d’allegrezza, ecc., tutto ciò è l’insegna, la
mostra, il geroglifico della gioia; ma il più delle volte la
gioia non c’è: essa sola ha mancato
d’intervenire alla festa. Laddove è
presente in realtà, la gioia arriva e non si fa invitare, nè
annunciare, viene da sè senza cerimonie,
introducendosi in silenzio, spesso per motivi i più
insignificanti e i più futili, nelle
occasioni più comuni, qualche volta anche in circostanze
che sono tutt’altro che brillanti o
gloriose. Come l’oro in Australia, essa si trova
sparpagliata qua e là secondo il capriccio
del caso, senza regola e senza legge, più di
sovente in fina polvere, molto di raro in
grandi masse. Ma pure, di tutto le manifestazioni di
cui abbiamo or ora parlato, solo scopo si è
il far credere agli altri che nella festa c’è la gioia,
e solo intento il produrre l’illusione nel
cervello altrui.
Come della gioia, così della tristezza. Con
quale andamento melanconico s’avanza
questo lungo e lento convoglio! La fila
delle vetture è interminabile. Ma guardate un po’
nell’interno: esse sono tutte vuote, e il
defunto non è realmente condotto al cimitero che dai
cocchieri della città. O immagine parlante
dell’amicizia e della considerazione a questo
mondo! Ecco quello che io chiamo falsità,
vanità ed ipocrisia dell’umana condotta. Noi
abbiamo anche un esempio nei ricevimenti
solenni con numerosi invitati in abito da festa;
questi sono l’insegna della nobile e
dell’alta società: ma in luogo suo si avrà malessere,
affettazione, riservatezza, noia: perocchè
ove son molti convitati v’ha sempre della
canaglia, fossero pure tutti i petti
coperti da decorazioni. Infatti la vera buona società è, da
per tutto e necessariamente, assai
ristretta. In generale le feste, le solennità portano sempre
con sè qualche cosa che dà un suono vuoto,
o per dir meglio un suono falso, precisamente
perchè contrastano colla miseria e colla
povertà della nostra esistenza e perchè ogni
confronto fa meglio spiccare la verità. Ma
visto dal di fuori tutto ciò produce bell’effetto, e
così è raggiunto lo scopo. Chamfort dice in
modo graziosissimo: «La
società, i circoli, i
saloni, ciò che si chiama il mondo, sono una meschina
commedia, un povero melodramma
senza interesse che si sostiene un momento per i meccanismi,
i costumi, e le decorazioni.»
Le accademie e le cattedre di filosofia
sono egualmente l’insegna, il simulacro esterno della
saggezza; ma il più delle volte essa non è
della festa, e, a cercarla, la si troverebbe in ben
altri luoghi. Lo sbatacchiare delle
campane, i vestimenti sacerdotali, il contegno pietoso, le
smorfie da bacchettone, sono la mostra, la
falsa apparenza della devozione, e così di
seguito. Ed è per ciò che a questo mondo
tutte le cose possono esser dette nocciuole vuote;
la mandorla è rara per sè stessa, e più
raramente ancora è posta nel suo guscio. Occorre
cercarla in tutt’altra parte, e d’ordinario
non la si trova che per caso.
2.° Quando si volesse valutare la
condizione di un uomo dal punto di vista della sua
felicità, bisognerebbe prender notizie non
su ciò che lo diverte, ma su ciò che lo attrista,
perocchè quanto più saranno insignificanti
per sè stesse le cose che lo affliggono, tanto più
l’uomo sarà felice; occorre un certo stato
di benessere per divenir sensibile a bagattelle che
nella sventura non si sentirebbero affatto.
3.° Bisogna guardarsi dallo stabilire il
benessere della propria vita sopra una base
larga coll’elevare alte pretese alla felicità:
posto sopra un tale fondamento esso crolla più
facilmente, perocchè in allora fa nascere
senza fallo molte sventure. L’edificio della felicità
si comporta dunque sotto tale rapporto alla
rovescia degli altri che sono tanto più solidi
quanto più la loro base è grande. Tenere le
pretese il più basso possibile in proporzione
colle proprie risorse d’ogni specie, ecco
la via più sicura per evitare grandi guai.
In generale è una follia delle più grandi e
delle più diffuse il prendere, in qualunque
maniera si sia, vaste disposizioni per la
propria esistenza. Perocchè prima di tutto, per farlo,
si conta sopra una durata della vita piena
ed intera, a cui invece arrivano molto pochi.
Inoltre quand’anche si vivesse tanto a
lungo, l’esistenza sarebbe sempre troppo corta in
relazione ai piani prestabiliti; la loro
esecuzione reclama sempre più tempo che non si
avesse supposto; essi sono talmente
soggetti, come tutte le cose umane, alle vicende della
sorte e ad ostacoli d’ogni natura, che si
può ben di rado condurli a compimento. Finalmente
anche allora che si è riusciti a conseguire
tutto quello che si desiderava, si scorge che si è
trascurato di tener conto delle
modificazioni che il tempo produce in noi
stessi; non si è
riflettuto che, nè per creare nè per
godere, le nostre facoltà non restano invariabili
nell’intera vita. Ne risulta che lavoriamo
sovente per acquistare cose che, una volta
ottenute, non si trovano più adatte alla
nostra taglia; succede pure che nei lavori preparatori
di un’opera impieghiamo anni che nel
frattempo ci tolgono le forze necessarie per arrivare a
buon fine. Medesimamente le ricchezze
acquistate a prezzo di lunghe fatiche e di numerosi
pericoli non possono più esserci utili, e
troviamo di aver lavorato per gli altri; ed avviene
ancora che non siamo più in caso di
occupare un posto ottenuto finalmente dopo avervi
aspirato ed ambito per lunghi anni. Le cose
sono giunte troppo tardi per noi, o, viceversa,
siamo noi giunti troppo tardi per esse,
sopratutto allorchè si tratta di opere o di produzioni;
il gusto dell’epoca ha cangiato; si è
maturata una nuova generazione che non prende alcun
interesse a queste materie; oppure altri ci
ha preceduto per strade più corte, e così di
seguito. Quanto abbiamo esposto in questo
terzo paragrafo era già stato compendiato da
Orazio nei versi:
Quid aeternis minorem
Consiliis animum
fatigas?
(L.
II, O. 11, v. 11 e 12).
(Perchè stanchi una mente debole con eterni
progetti?)
Tale errore così comune è determinato
dall’inevitabile illusione ottica degli occhi
dello spirito, illusione che ci fa apparire
la vita come senza fine, o come troppo corta
secondo che la vediamo dall’ingresso o dal
termine della nostra carriera. Essa però ha il suo
buon lato: senza di lei produrremmo
difficilmente qualche cosa di grande.
Ma in generale ci succede nella vita ciò
che succede al viaggiatore: a misura che egli
avanza, gli oggetti prendono forme
differenti da quelle che mostravano da lungi e si
modificano per così dire di mano in mano
che va loro vicino. Così avviene dei nostri
desideri. Troviamo spesso ben altra cosa,
qualche volta anche meglio che non cerchiamo; di
sovente pure incontriamo quanto desideriamo
per tutt’altra via di quella inutilmente
percorsa fino allora. Certe volte laddove
crediamo trovare un piacere, una gioia, una
soddisfazione, in loro luogo ci si presenta
un ammaestramento, una spiegazione, una
cognizione, vale a dire un bene duraturo e
reale che si offre a noi invece di un bene
passaggero e fallace. Si è un tale pensiero
che corre, come base fondamentale, a traverso
tutto il Wilhelm Meister, romanzo
intellettuale, superiore precisamente per ciò a tutti gli
altri, anche a quelli di Walter Scott, che
sono tutti solamente opere morali, ossia che non
osservano la natura umana che dal lato
della volontà! Nel Flauto
magico, geroglifico
grottesco, ma espressivo e molto
significante, ci si presenta egualmente questo stesso
pensiero fondamentale simbolizzato a grandi
e larghi tratti come quelli delle decorazioni
teatrali; il simbolo sarebbe anzi perfetto
se nello scioglimento Tamino, invece d’essere
spronato dal desío di posseder Tamina, non
domandasse e non ottenesse che l’iniziazione
nel tempio della Saggezza; in cambio
Papageno, l’opposto necessario di Tamino, otterrebbe
la sua Papagena. Gli uomini superiori e
veramente nobili assimilano subito questo
ammaestramento del destino e vi si adattano
con sommessione e con riconoscenza:
comprendono che a questo mondo si può bene
trovare istruzione, ma non felicità; si
abituano a cambiare le speranze colle
cognizioni; ne vanno contenti e dicono alla fin fine
col Petrarca
Altro
diletto che ’mparar non provo.
Possono anche arrivare al punto di non dar
seguito ai loro desideri ed alle loro aspirazioni
che in apparenza per così dire, e per
ischerzo, mentre in realtà e nella serietà del loro
interno non attendono che all’istruzione;
ciò che li adorna di una tinta pensosa, geniale e
nobile. In questo senso si può dire che succede
di noi come degli alchimisti, i quali mentre
non cercavano che oro, hanno trovato la
polvere da fuoco, la porcellana, le medicine e
perfino molte leggi naturali.
2.
Circa la nostra condotta verso noi stessi.
4.° Il manovale che aiuta a fabbricare un
edifizio, non ne conosce il progetto, o non
l’ha sempre sotto gli occhi; tale è pure la
posizione dell’uomo mentre è occupato a dividere
uno per uno i giorni e le ore della sua
esistenza in rapporto all’insieme della sua vita ed al
carattere fondamentale di essa. Quanto più
questo carattere sarà nobile, considerevole,
espressivo e individuale, tanto più sarà
necessario e benefico per l’individuo il gettare di
tempo in tempo uno sguardo sul piano
prestabilito della propria vita. È vero che per ciò ei
deve aver fatto già un primo passo col «conosci te stesso»: deve
dunque sapere ciò che
vuole realmente, principalmente e prima
d’ogni altra cosa; deve conoscere quello che è
essenziale alla sua felicità, e quello che
viene solo in seconda o terza linea; deve rendersi
conto sommariamente della sua vocazione,
della parte che ha da rappresentare nel mondo, e
de’ suoi rapporti colla gente. Se tutto ciò
sarà importante ed elevato, allora l’aspetto del
piano prestabilito della sua vita gli darà
forza, lo sosterrà, lo innalzerà più che qualunque
altra cosa; questo esame lo incoraggierà al
lavoro e lo terrà lontano da quei sentieri che
potrebbero fargli smarrire la dritta via.
Solamente quando arriva sopra un’altura il
viaggiatore abbraccia a colpo d’occhio e
riconosce l’insieme del cammino percorso,
colle sue svolte e co’ suoi giri; così pure non è
che al termine d’un periodo della nostra
esistenza, e qualche volta sul finir della vita, che
conosciamo il vero nesso delle nostre azioni,
dei nostri lavori, e delle nostre produzioni, il
loro preciso legame, il loro concatenamento
e il loro valore. Infatti fino a che siamo
immersi nella nostra attività noi operiamo
solo secondo le proprietà inconcusse del nostro
carattere, sotto l’influenza dei motivi e
nella misura delle nostre facoltà, vale a dire per
assoluta necessità; noi non facciamo in un
dato momento che quello che in quel momento
ci sembra giusto e conveniente. Solamente
in seguito ci sarà permesso d’apprezzare il
risultato, e lo sguardo gettato sulle cose
passate ci darà contezza del come
e
del perchè. Per
questo quando compiamo le più grandi
azioni, o quando diamo al mondo opere immortali,
non abbiamo coscienza della loro vera
natura: esse non ci sembrano che quello che v’ha di
più appropriato al nostro scopo d’allora, e
di meglio corrispondente alle nostre intenzioni;
non riceviamo altra impressione se non
quella d’aver fatto precisamente ciò che bisognava
fare in quel momento; non è che più tardi
che il nostro carattere e le nostre facoltà spiccano
in piena luce da quell’insieme e dal suo
concatenamento; per mezzo dei dettagli vediamo
allora come abbiamo preso la sola vera fra
tante strade false quasi per ispirazione e guidati
dal nostro genio. Tutto quanto abbiamo
detto or ora è vero e in teoria e in pratica, e si
applica egualmente ai fatti inversi, vale a
dire al male ed alla falsità.
5.° Un punto di molta importanza per la
saggezza nella vita si è la proporzione con
cui dobbiamo dividere la nostra attenzione
tra il presente e l’avvenire affinchè l’uno non
porti nocumento all’altro. V’hanno molte
persone che vivono troppo nel presente: le
frivole; altre troppo nell’avvenire: le
timorose e le inquiete. Di rado si conserva la giusta
misura. Quegli uomini che, mossi dai loro
desideri o dalle loro speranze, vivono
unicamente nell’avvenire, gli occhi sempre
diretti in avanti, che corrono con impazienza
incontro al futuro, perocchè, pensano,
questo è per portar loro fra breve la vera felicità,
mentre intanto lasciano passare il
presente, che non curano, senza goderlo: costoro
somigliano a quegli asini a cui in Italia
si fa sollecitare il passo per mezzo d’un fascetto di
fieno attaccato ad un bastone davanti la
testa: essi vedono il fieno davanti e sempre vicino
ed hanno ognora la speranza d’arrivarvi.
Tali persone infatti s’ingannano da sè stesse per
tutta la loro esistenza non vivendo
perpetuamente che ad
interim fino alla morte. Perciò
invece di occuparci incessantemente ed
esclusivamente di piani e di progetti per l’avvenire,
o, viceversa, abbandonarci a rimpiangere il
passato, dovremmo non dimenticar mai che il
presente solo è reale e certo, e che
l’avvenire, al contrario, si presenta quasi sempre ben
diverso da quello che pensavamo, come pure
fu del passato; ciò che in conclusione fa che
avvenire e passato hanno molto minor
importanza che non sembri. Perocchè la lontananza
che impiccolisce gli oggetti per l’occhio,
li ingrandisce per il pensiero. Il presente solo è
vero ed effettivo; esso è il tempo realmente
impiegato, e su di esso esclusivamente è
fondata la nostra esistenza. Perciò deve
meritar sempre agli occhi nostri benevole
accoglienza; noi dovremmo gustare, con la
piena coscienza del suo valore, ogni ora
sopportabile e libera da affanni e da dolori
attuali, vale a dire non turbarla col viso
rattristato dalle speranze cadute per lo
passato o dalle apprensioni per l’avvenire. Si può
dare stoltezza più grande del respingere
una buona ora presente o di guastarla malamente
coll’inquietudine dell’avvenire o coi
dispiaceri del passato? Diamo il tempo dovuto alle
cure, se non al pentimento; ma poi, in
quanto ai fatti compiuti, bisogna dirsi:
«Abbandoniamo,
benchè a malincuore, tutto ciò che è passato all’obblio; è necessario
soffocar l’ira nel nostro seno.» E in
quanto all’avvenire: «Tutto
ciò sta sulle ginocchia
degli dei»29. In cambio circa il presente è
bene pensare come Seneca: Singulas
dies,
singulas vitas puta (Considera ciascun giorno
come una vita separata), e rendersi questo
solo tempo reale tanto gradevole quanto
meglio è possibile.
I soli mali futuri che devono con ragione
preoccuparci sono quelli il cui arrivo ed il
cui momento di arrivo sono certi. Ma v’ha
ben poca gente che si trovi in questo caso,
perocchè i mali sono o semplicemente possibili
o tutt’al più verosimili, oppure sono certi,
ma è incerto il tempo del loro arrivo. Ad
allarmarsi per queste due specie di mali non si
avrebbe un solo istante di riposo. In
conseguenza, allo scopo di non perdere la tranquillità
della nostra vita per mali la cui esistenza
o la cui epoca sono ignote, conviene abituarci a
riguardare gli uni come se non dovessero
mai arrivare, e gli altri come se non dovessero di
certo arrivare in un tempo vicino.
Ma quanto più la paura ci lascia in riposo,
tanto più siamo agitati da desideri, da
voglie sfrenate e da strane pretese. La
canzone, così nota, di Goethe: «Io
ho collocato le mie
brame nel nulla» significa, in fondo, che solo quando si
sarà liberato da tutte le sue pretese
e si sarà ridotto all’esistenza tale quale
è realmente nuda e spoglia, l’uomo potrà acquistare
quella calma di spirito che è la base
dell’umana felicità, perocchè tale calma è
indispensabile per godere del presente
della vita, e dell’avvenire. A tal uopo dovremmo
pure ricordarci che il giorno d’oggi non viene che una sola volta,
e più mai. Ma invece noi
c’immaginiamo che ritornerà domani: però domani è un altro giorno che
anch’esso non
viene che una volta. Dimentichiamo che
ciascun giorno è una porzione integrante, dunque
irreparabile, della vita, e lo consideriamo
come contenuto nella vita, nello stesso modo che
gl’individui sono contenuti nella nozione
dell’insieme. Di più apprezzeremmo e
gusteremmo molto meglio il presente se nei
giorni di benessere e di salute conoscessimo a
qual punto, durante la malattia o
l’afflizione, il ricordo ci presenta come infinitamente
invidiabile ogni ora libera da dolori o da
privazioni; che questa ci appare quale un paradiso
perduto, od un amico disconosciuto. Ma al
contrario noi viviamo i nostri bei giorni senza
prestar loro alcuna attenzione, e solamente
quando arrivano i cattivi vorremmo richiamare
gli altri. Lasciamo passare da canto, senza
goderne e senza accordar loro un sorriso, mille
ore serene e piacevoli, e più tardi nel
tempo triste, portiamo verso di esse le nostre vane
aspirazioni. In luogo di condurci così,
dovremmo rendere omaggio a quelle attualità
sopportabili, fossero pure le più comuni,
che lasciamo fuggire con tanta indifferenza, che
fors’anche respingiamo con impazienza; dovremmo
ricordarci sempre che questo presente
precipita ad ogni momento in quell’apoteosi
del passato in cui ormai, risplendente della
luce delle cose non periture, è conservato
dalla memoria, per ripresentarsi agli occhi nostri
come l’oggetto della nostra più ardente
aspirazione allorquando, sopratutto nelle ore
d’affanno, il ricordo viene ad alzare il
velo dinanzi le cose che furono.
6.° Il limitarsi rende felici. Quanto più
il nostro cerchio di visione, di azione e di
contatto è ristretto, tanto più siamo
felici; e più esso è vasto, più ci troviamo tormentati ed
inquieti. Perocchè insieme ad esso
aumentano e si moltiplicano le pene, i desideri e le
apprensioni. Ed è per tale motivo che i
ciechi non sono tanto infelici come potremmo
crederlo a priori; è facile convincersene all’aspetto della
calma dolce, quasi allegra, delle
loro sembianze. Questa regola ci spiega
anche in parte perchè la seconda metà della nostra
vita sia più triste della prima. Infatti
nel corso dell’esistenza, l’orizzonte delle nostre vedute
e delle nostre relazioni va allargandosi.
Nell’infanzia esso è limitato ai dintorni più prossimi
ed alle relazioni più strette;
nell’adolescenza si estende in modo considerevole; nell’età
virile abbraccia tutto il corso della
nostra vita ed arriva anche a relazioni lontanissime,
perfino con Stati e con popoli diversi;
nella vecchiezza comprende le generazioni future.
Ogni limitazione invece, anche nelle cose
dello spirito, giova alla nostra felicità. Perocchè
quanto meno sarà eccitata la volontà, tanto
meno vi saranno dolori, e noi sappiamo che il
dolore è positivo e la felicità
semplicemente negativa. Il limitare il cerchio d’azione toglie
alla volontà le occasioni esterne
d’eccitamento; il limitare lo spirito, le occasioni interne.
Quest’ultimo ha solo l’inconveniente di
aprir l’accesso alla noia che diviene sorgente
indiretta d’innumerevoli patimenti perchè
si ricorre a qualunque mezzo per scacciarla; si
mette a prova infatti e riunioni, e
divertimenti, e il giuoco, e il lusso, e la crapula, e mille
altre cose; da ciò danni, rovine e
disgrazie d’ogni specie. Difficilis
in otio quies (è difficile
la pace nell’ozio). In cambio, per
dimostrare quanto il limitarsi esternamente giovi alla
felicità umana, per quello, bene inteso,
che può giovare una cosa qualunque, non abbiamo
che da ricordarci come il solo genere di
poesia che intende a dipingere le genti felici,
l’idillio, le rappresenti sempre poste
essenzialmente in una condizione ed in un ambiente
dei più ristretti. Questo stesso sentimento
produce pure il piacere che troviamo in ciò che si
chiama quadri di genere. Per conseguenza
avremo felicità nella maggior possibile
semplicità delle nostre relazioni ed anche nella uniformità del genere
di vita fino a che una
tale uniformità non ci dia in braccio alla
noia: a questa condizione sopporteremo più
facilmente la vita ed il suo peso
inseparabile; l’esistenza scorrerà, come un ruscello, senza
tempeste e senza vortici.
7.° Quello che importa, in ultima analisi,
per la nostra felicità o per la nostra infelicità
si è ciò che riempie ed occupa la
coscienza. Ogni lavoro puramente intellettuale apporterà
in totalità alla mente capace di
dedicarvisi risorse maggiori che non le apporterebbe la vita
reale colle sue alternative costanti di
buono e cattivo esito, colle sue scosse e co’ suoi
tormenti. È vero d’altronde che ciò esige
disposizioni di spirito non comuni. Conviene
inoltre osservare che da una parte
l’attività esterna della vita ci distrae e ci allontana dallo
studio, e toglie allo spirito la
tranquillità ed il raccoglimento all’uopo necessari, e che
d’altra parte l’occupazione continua dello
spirito ci rende più o meno incapaci di star in
mezzo all’andamento ed al tumulto della
vita reale; è dunque saggia cosa sospendere una
tale occupazione quando una circostanza
qualunque necessita un’attività pratica ed
energica.
8.° Per vivere con prudenza perfetta e
per trarre dalla propria esperienza tutti
gl’insegnamenti ch’essa contiene, è necessario
portarsi spesso indietro col pensiero e
ricapitolare ciò che nella vita si è
veduto, fatto, appreso e sentito nello stesso tempo;
bisogna pure confrontare il proprio
giudizio d’altre volte colle idee, progetti ed aspirazioni
attuali, col loro risultato, e colla
soddisfazione dataci da tale risultato. L’esperienza ci serve
così da maestro speciale che viene a darci
lezione privatamente. La si può anche
considerare come il testo, costituendone il
commento le cognizioni e il raziocinio. Molto
raziocinio e copiose cognizioni
somiglierebbero a quei libri le cui pagine presentano due
linee di testo e quaranta di chiose. Molta
esperienza accompagnata da poco raziocinio e da
scarso sapere ricorda quelle edizioni di
Deux-Ponts che non hanno annotazioni e che
lasciano così molti passi del testo
inintelligibili.
Si è a tali precetti che si riferisce la
massima di Pitagora, di passare in rivista cioè, la
sera, prima di addormentarsi, quanto si ha
fatto nella giornata. L’uomo che se ne va nel
tumulto degli affari e dei piaceri senza
mai rinvangare il suo passato, e che si contenta di
aggomitolare la matassa della vita, perde
ogni ragione chiara delle cose; il suo spirito
diventa un caos, e ne’ suoi pensieri
s’infiltra una certa confusione di cui fa testimonianza il
suo modo di conversare sconnesso, a scatti,
a frammenti, e, per così dire, sottilmente
sminuzzato. Tale stato sarà messo tanto più
in rilievo quanto più sarà grande l’agitazione
esterna, la somma delle impressioni, e
quanto più sarà piccola l’attività interna dello spirito.
Qui osserviamo pure come dopo un certo
periodo di tempo da che le relazioni e le
circostanze che agirono su noi sono
sparite, non possiamo più far ritornare e rivivere la
disposizione e la sensazione prodotte già
in noi; ma ciò che possiamo benissimo ricordarci
si è le nostre manifestazioni in
quell’occasione. Ora queste sono il risultato, l’espressione e
la misura delle sensazioni e dello stato
che esse produssero in noi. La memoria quindi, o la
carta dovrebbero conservare con ogni cura
le traccie delle epoche importanti della nostra
vita. Perciò tener un giornale sarà cosa
molto utile.
9.° Bastare a sè stesso, esser per sè
stesso tutto in tutto, e poter dire: «Omnia
mea
mecum porto<