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Da "STORIA DELLA LETTERATURA" Vol 1° - Einaudi editore ©

 

"L'ACCADEMIA"

di Amedeo Quondam

 

[…..omissis…..]

 

1. Per una definizione della forma Accademia.

 

«Setta di filosofi cosí chiamata.  Amm.  Ant.: A me è sempre piaciuto l'uso de' filosofi peripatetici e di quelli d'accademia.  Oggi adunanza d'huomini studiosi»: questa la concisa definizione del Vocabolario della Crusca, quando ormai la tipologia istituzionale, la sua forma, sono stabilmente consolidate.  Una definizione allo specchio: questa accademia enuncia il proprio di sé.  An­cora in riferimento al dominio di un «oggi», di un presente popolato, ovunque e da tempo, d'accademie.

Un nome che è di per sé un vessillo: intende compiutamente restaurare una classicità remota, il suo primato modellizzante, la sua proposta - ancora valida in questo oggi - di un rapporto tra filosofi in forma di dialogo.  La ma­trice umanistica è interamente riconoscibile in questi pochi tratti: gli huomini studiosi che si riuniscono in adunanza sono i tanti che hanno dato vita alle protoaccademie ficiniana o platonica, appunto, bessarionea, pomponiana o ro­mana, pontaniana, aldina, ecc. Ben più che una necessità lessicografica, que­sta immediata, prima (obbligatoriamente, nell'economia del dizionario/enciclo­pedia) connessione con l'originaria accademia greca, con la «setta di filosofi » platonici: enunciazione, invece, e subito, del nome dell'archetipo, della sua piena e assoluta pertinenza connotativa nei confronti della serie - presto in espansione - dei derivati (le tante accademie, il loro plurale, ora, nella Cru­sca), del loro differenziale riscontrarsi con l'oggi, con la sua stessa mobilità temporale.  Una piena e assoluta pertinenza connotativa che di volta in volta è confermata, ribadita, dalla Crusca all'Encyclopédie, e oltre, sempre: il pro­prio non può che essere questa archetipica Accademia, anche se l'oggi può, a sua volta, articolare in modo sempre più vario (discreto) l'ambito di efficacia del suo modello originario, sperimentare adattamenti e trasformazioni della sua stessa forma.  Adunanza o société/compagnie che sia, raccolga filosof /phi­losophes o huomini studiosi / gens de lettres, l'accademia si definisce intera­mente e compiutamente nel proprio del suo nome primo e fondante, nella forma di produzione e scambio di rapporti intellettuali e sociali che a partire dall'esperienza umanistica viene riconosciuta a quella remota ma culturalmen­te contigua, prossima - « classica » - « setta di filosofi ». Un'agnizione, emotivamente anche forte, del modello: da riprodurre, da imitare, ovunque siano huomini studiosi/ gens de lettres, comunque si diano le loro adunanze/socié­tés/compagnies.

Non è tanto questione - ripeto - di definizione lessicografica in senso stret­to, ma di avviare la descrizione analitica della forma profonda di questo mo­dello, della sua straordinaria ricchezza e varietà, della sua durata costante, del­la sua capillare diffusione geografica su scala interamente europea.  Dall'agni­zione umanistica, dal rilancio quattrocentesco dell'accademia archetipica, si­no all'Ottocento inoltrato, alle stesse odierne persistenze, si registra un sus­seguirsi formidabile d'iniziative, di storia: accademie in grandissima quanti­tà, che nascono, si affermano, durano / non durano, si rinnovano, decadono, muoiono, secondo ritmi differenziali ma anche omogenei nell'inesauribile inesorabile continuità, almeno, e secondo tipologie - soprattutto - profonda­mente diverse, ma che conservano aperto già nel nome (comune non più pro­prio) il rapporto con la forma originaria.  Una storia, dunque, di questa forma, del suo insieme sterminato, almeno in Italia: come riconosce la stessa Ency­clopédie.  Un insieme che ha il suo adeguato repertorio, il suo archivio altret­tanto sterminato: i cinque volumi di materiali, notizie, dati, inventariati da Michele Maylender, impropriamente intitolati Storia delle Accademie d'Ita­lia.  Certamente discontinui, fitti anche di imprecisioni (come documenterò), ridondanti per eccesso e nello stesso tempo per difetto, secondo i casi, ma pur sempre un punto di riferimento obbligato, non aggirabile, per ogni attraver­samento, anche settoriale, della fenomenologia accademica.  Oltre 22oo voci rubricate alfabeticamente, con fortissimi dislivello quantitativi (dalla voce di poche righe a quella che si snoda per decine di pagine), e soprattutto con una impressionante serie di allegati e di rinvii bibliografici ad altri documenti, sia a stampa sia manoscritti.  In cosa consiste il minimo comune che rende percor­ribile questo insieme cosí vasto, qual è la forma continua che omologa, pur nelle macroscopiche variabili, ogni accademia alla serie completa, cos'è, in conclusione, che rende possibile, che direttamente produce l'inventario alfa­betico?

Ancora una testimonianza, dal punto terminale, quasi, di questa storia plu­risecolare, quella del Tiraboschi: « Sotto questo nome io intendo quelle società di uomini eruditi, stretti fra loro con certe leggi, a cui essi medesimi si sog­gettano, che radunandosi insieme si fanno a disputare su qualche erudita que­stione, o producono e sottomettono alla censura dei loro colleghi qualche sag­gio del loro ingegno e dei loro studi».  L'accademia è, dunque, secondo il Tiraboschi, una società: esattamente come è definita dall'Encyclopédie prima e dal Tommaseo-Bellini poi.  Una società che si costituisce a partire da una domanda di lavoro collettivo: è un soggetto collettivo.  Gli «uomini eruditi» («studiosi» direbbe la Crusca) che ne fanno parte si radunano insieme per produrre esperienze e oggetti culturali, insieme verificandoli e discutendoli, cioè scambiandoseli attraverso l'istituto della «censura».  Se il dato discrimi­nante consiste nell'erudizione/studio, se questa è la legge - «naturale» - non scritta, che implica necessariamente per ogni soggetto d'ogni possibile acca­demia il dover essere «letterato» (nel senso che questo termine assume stabilmente nelle società d'ancien regime), l'accademia nasce come forma istitu­zionale solo quando - proprio in quanto società - si dà un corpo di norme (scritte o dette che siano: comunque codificate e ímplicitamente/esplicitamen­te accettate), quando si struttura come microsocietà mimetica della società reale, con i suoi apparati legislativi, esecutivi e giudiziari.  Una mimesi in ma­schera: afferma l'uguaglianza di tutti i suoi membri oltre (se non versus) le rispettive condizioni sociali originarie (attraverso l'istituto del «nome acca­demico »: una sorta di rito di passaggio, una rinominazione del proprio istituzionale che assume la funzione di sospendere la validità degli statuti sociali «normali», una perimetrazione che intende evidenziare un territorio neutra­le, interamente e compiutamente autoreferenziale, una vera e propria « repub­blica letteraria»), ma soltanto perché la soglia selettiva è saldamente attestata sulla legge «naturale» dell'erudizione/studio, in grado, quindi, di produrre un'incolmabile, ontologica quasi, distanza rispetto ai livelli differenziati e conflittuali della società reale, e di lasciar scattare in modo pressoché automatico (e forse inconsapevole: «naturale», di nuovo) un privilegio di classe - e di casta, in taluni casi - che vale come interdetto dell'altra società, d'ogni altra componente culturale, d'ogni altra pratica di comunicazíone/produzione che sia propria di classi sociali non alfabetizzate o semialfabetizzate, di classi, in­somma, «illetterate».  Società, queste, senza accademia.

L'immagine proposta dal Tiraboschi è quella di una società della scrittu­ra, fondata su leggi dette/scritte, che pratica la produzione di testi scritti, in un'economia di scambio (la «censura») pur sempre finalizzata e sollecitata alla/dalla presenza del testo.  Un'immagine non neutrale, questa, fortemente orientata, anzi.  Il Tiraboschi si riferisce prepotentemente all'esperienza sette­centesca dell'istituzione accademia, ne assume i connotati prevalenti a forma complessiva della sua lunga durata plurisecolare: ma in principio l'accademia fu sotto il segno della conversazione.  La sua stessa matrice originaria - cosí intensamente platonica nel proprio del nome che restaura - tra morti e soda­litates umanistici mostra pienamente il primato di un conversare come forma profonda dei rapporti culturali, come sistema di pratiche che trova nel dia­logo (un restauro anch'esso dell'archetipo rinominato) il suo genere privile­giato e di massima funzionalità comunicativa, il suo equivalente generale.

L'analisi della forma accademia deve, insomma, tener conto di questa ma­trice originaria, della stessa - fondante - connotazione platonica, e sovrap­porla, riscontrarla, all'identikit tracciato dal Tiraboschi, alle stesse definizioni dell'Encyclopédie, della Crusca, del Tommaseo-Bellini: per dare senso storico pieno all'insieme notevolissimo degli eventi più o meno effimeri, più o meno strutturati (con tutte le rispettive, differenziali, tipologie), raccolti nell'inven­tario alfabetico del Maylender. « Società di uomini eruditi », « adunanza d'huo­mini studiosi», « société ou compagnie de gens de lettres », «società d'uomini di scienze, di lettere, d'arti», certamente, ma anche e prima luogo e occa­sione di conversazione, di discorsi tra «genti che parlano e rispondono a pro­posito ».

Esiste, comunque, accademia, in quanto società della conversazione e/o della scrittura, solo   

quando si costituisce un gruppo, un'adunanza, di letterati/eruditi/studiosi: la sua forma istituzionale elementare è quella di un soggetto collettivo. Per questo non sono molto persuaso dell'opportunità di affrontare la descrizione analitica di questa o quell'altra accademia, come dello stesso insieme, scomponendo, all'interno della loro storia e della loro attivi­tà, il corpus delle presenze per esaltare particolarmente quella di uno o più soci autorevoli o di prestigio, il loro trasformarsi in membra disiecta.  Occorre pur sempre riferire il lavoro accademico di ogni membro, la sua stessa eco­nomia di produzione/scambio culturale, al lavoro complessivo dell'accademia, cercando di determinare la sua direzione generale, la sua strategia culturale sia rispetto ai lavori «privati» (esterni all'istituzione) dei membri, sia rispetto a quelli delle altre istituzioni accademiche.

Il soggetto che parla/scrive è il soggetto collettivo accademia.  E infatti il suo primo gesto, quando intende darsi un'organizzazione strutturata (detta o scritta che sia) o comunque notificare - ad altri e a sé - la propria esistenza, consiste nell'elaborare un contrassegno l'identità, una marca d'immediato ri­conoscimento della sua individualità d'accademia.  Non può che nominarsi, subito e soprattutto: per dire e dirsi che esiste.  L'accademia «inventa» il proprio del suo nome, rispetto ai tanti altri possibili o esistenti, per differen­za e per connessione, allo stesso tempo; e poi «inventa» il nome per ogni suo membro (nomi tutti semanticamente dipendenti dal nome primo del soggetto collettivo).  Ma lo sforzo maggiore di «invenzione» è la ricerca dell'impresa adeguata: perché sia il correlato diretto della prima nominazione, la sua trascrizione in vessillo, da esibire, esportare, diffondere.  Il proprio del nome e il proprio dell'impresa rappresentano modalità comunicative (del nome e del segno) organicamente funzionali, ma anche raffinate, spesso allusive, ermeti­che, talvolta.  Nel loro intrecciare codici differenti si dirigono a un destinatario compiutamente (se non esclusivamente) interno al gruppo che si nomina, si se­gna.  Una comunicazione istituzionalmente autoreferenziale.

Queste modalità comunicative primarie pongono il problema di analizzare l'accademia in quanto campo semiotico di fortissimo rilievo tipologico-cultu­rale, di ampia capacità modellizante.  L'economia del nome/nomi, dell'im­presa, delle leggi non solo rende possibile l'identità dell'accademia, ma so­prattutto consente di individuarne gli elementi costitutivi di luogo speciale, ad alto potenziale connotativo.  Accademia vs non-accademia, intanto: il tem­po e lo spazio dell'accademia, il suo rituale comunicativo, enunciano la loro piena autonomia, speciale in quanto differenziale, rispetto al tempo, allo spa­zio, al rituale della società reale.  Il tempo dell'accademia si iscrive in una dimensione essenzialmente festiva, pertiene alla tipologia culturale della festa, a una sua storica, determinata, forma: è il momento di sospensione - pro­grammata - dei ritmi feriali del tempo esterno, della loro stessa connotazio­ne lavorativa-produttiva (relativa, ovviamente, alle società colte, dominanti, nell'ancien regime, e comunque almeno sino alla nascita dell'accademia «pro­fessionalizzata»: quella «scientifica», soprattutto, al cui interno, invece, sarà riprodotta tutt'intera - anche se comunicata, socializzata, nell'ambito di un «far accademia » - l'economia di un sapere-lavoro).  Lo spazio dell'accademia privato o pubblico che sia, assume uno statuto deterritoriale, autonomamente riconnotato dalla pratica di «adunanza» che lo fonda, per separarlo radical­mente dai percorsi quotidiani attraverso lo spazio della casa, della chiesa, de­gli ambienti pubblici, dei luoghi, ancora, di lavoro (di produzione e di scam­bio), per differenziarlo dagli stessi possibili incroci in questi spazi esterni.  Il rituale accademico, nel suo trascrivere la forma profonda del vivere « civi­le» di una società sempre più omologata (nei suoi livelli, ovviamente, più al­ti) nei comportamenti, ne ríconnota, da parte sua, gesti e pratiche, ordínan­do il loro nuovo e autonomo senso in un sistema codificato, detto o scritto che sia.

Questo spazio, questo tempo, questo rituale dell'accademia circoscrivono un interno, significano tutt'intera la sua forma chiusa, autosuffìciente: ma effìmera.  Spazio/tempo/rituale hanno, infatti, una durata limitata, una validità programmata: la funzionalità del loro autonomo - integrato - codice è piena­mente differenziale, la sua potenzialità connotativa si dispiega esclusivamente in questo interno.  Un'autonomia differenziale, dunque: "accademia vs non-accademia", ma anche "interno vs esterno".  Spazio interno vs spazio esterno, tempo interno vs tempo esterno, rituale interno vs rituale esterno: una serie infinita, diffusa - di pratiche che attraversano, mettono in scena, la cultura come « intertenimento » in primo luogo, e quindi come « conversazione ». Co­me festa, soprattutto: e se l'accademia non fosse altro che la forma di un « car­nevale dei colti», dei tanti - infiniti, diffusi - suoi microeventi performativi, tutti a tempo/spazio/rituale programmato.

Se l'accademia è un gruppo, anzi, un soggetto collettivo, costituisce, per­tanto, luogo ed evento per eccellenza di produzione di rapporti sociali, non soltanto di pratiche intellettuale sodalizzate.  Pertiene, insomma, all'ambito più generale della dinamica del sociale: di un sociale colto, ovviamente.  Nell'istituzione accademia, infatti, si compie la socializzazione, lo scambio, di atti comunicativi culturalmente sempre, anche se diversamente, connotati: sia nel caso del «convegno erudito» (per usare la formula del Tiraboschi e di altri testi prima citati), con la stessa, eventuale, messa in circuito di saperi specia­lizzati, sia nel caso della più ampia «conversazione letteraria» (per stare, in­vece, alla testimonianza di Pietro Della Valle, o per anticipare le argomenta­zioni di Stefano Guazzo).  Con un solo avvertimento, una sola fondamentale, però, modalità di esercizio: sia che si «disputi su qualche erudita questione», sia che si produca una performance di «intertenimento» e di gioco, dovrà esse­re rispettato l'ambito «universale» (come dirà il Guazzo) della comunicazione accademica; il suo destinatario diretto non potrà che essere, sempre e comun­que, tutto intero il gruppo che si è riunito.  Questa legge elementare, «natu­rale», della forma accademia è detta con forza nel Cortegiano: quando la discussione sulla donna, nel terzo libro, corre il rischio - assumendo un lin­guaggio tecnico, specializzato - di discriminare il «cerchio» dei presenti, di trasformare l'intertenimento originario, cioè il «gioco del cortegiano», in un «convegno erudito», modificando unilateralmente l'ordine del giorno collet­tivamente approvato, e quindi le stesse finalità di quella adunanza»; metten­do in questione, soprattutto, il valore simbolico - per quanto attiene proprio la forma della comunicazione - di quel suo riunirsi in «cerchio».  E questa legge «naturale», primaria, della comunicazione accademica resterà valida anche quando emergeranno tipologie settoriali, ad alto indice di professio­nalità e di competenze in saperi specifici (quelli della «nuova scienza», so­prattutto), non più «universalmente» praticabili, non più compatibili con l'or­dine di un sapere organico, intero, continuo.  Anche quando questa «frattura epistemologica» sarà interamente consumata, quando, cioè, il medico parlerà soltanto a medici, quando lo scienziato si rivolgerà esclusivamente a scienzia­ti, quando, insomma, la comunicazione accademica da «universale» diventerà settoriale (producendo il proprio dei rispettivi linguaggi), resterà inalterata la necessità di riferire il discorso di ciascuno all'insieme dei presenti.  Ordinati, divisi per «classi».

Nella forma «classica» di accademia, quella della conversazione e del dia­logo (la forma, insomma, che riconosce la propria matrice umanistico-plato­nica) le competenze si sovrappongono agli stati sociali: vi si trovano raccolti, fianco a fianco, nobili e borghesi, teologi e medici, avvocati e musicisti, lette­rati e matematici, ecc.: almeno sino all'avvento della «nuova scienza» e alla conseguente nascita di una tipologia «scientifica» in senso stretto dell'acca­demia.  Sono ben pochi, infatti, gli esempi di accademie «riservate»: oltre a quelle direttamente «corporative» da sempre - dei medici, soprattutto -, si segnalano in particolare quelle «ecclesiastiche» (di carattere sia storico sia teologico-dottrinario), piuttosto numerose, mentre invece estremamente rara è la tipologia «aristocratica», contrapposta - nel caso almeno delle due acca­demie di Recanati, dei Disuguali e degli Animosi - a quella «borghese».  La forma «classica» di accademia si presenta, insomma, stabilmente finalizzata all'integrazione sociale: la discriminante decisiva agisce, infatti, sul piano del modello di cultura e delle sue pratiche.  Un modello di fortissima efficacia modellizzante, rispetto almeno alla serie degli eventi chiamati accademia: e profondamente connotato in senso aristocratico-nobiliare.  Questo conversare, queste pratiche di produzione e scambio culturale, rinviano al loro luogo ori­ginario di codifìcazione: alla forma del sistema culturale cortigiano.

Questa società delle accademie, il suo stesso mito della «repubblica lette­raria», si attesta su un territorio culturale omogeneo, se non direttamente unitario e soprattutto propone l'immagine di un sapere continuo, senza frat­ture che ne impediscano la percorribilità, la stessa riproducibilità sulla base della parola d'ordine dell'imitazione.  L'accademia rinvia al dominio (anche ideologico) di una cultura universale, alle sue referenze umanistiche e clas­sícistiche: luogo di «dialogo» della parte «ragionevole» dell'uomo, di com­mercio e «conversazione» di valori positivi (in quanto eruditi e insieme «pia­cevoli »), di sublimazione-rimozione delle parti « basse » dell'uomo, dei « disva­lori» del corpo.  In questo senso l'accademia assume una funzione strategica­mente decisiva nel processo di affermazione di questo modello culturale (in senso anche antropologico), contribuisce in modo determinante alla sua diffu­sione capillare, al suo radicarsi profondo, oltre e contro le stesse differenze di collocazione sociale, nelle società di ancien régime: le sue parole d'ordine diventano ugualmente valide, attivamente omologanti (pur negli ovvi disli­velli istituzionali e operativi che lo sterminato archivio del Maylender esibi­sce), su tutto il territorio nazionale, in tutti i gruppi sociali che possano rac­cogliere «letterati» più o meno «eruditi», comunque adunabili in «conversazione», in «società», nobili/ecclesiastici/borghesi che siano.  Attraverso l'ac­cademia questa tipologia culturale consolida il suo primato, si costituisce in luogo privilegiato di pratiche culturali tradotte in termini di maschera socia­lizzata: di gioco, di occasione festiva.  Non soltanto perché l'economia acca­demica prescrive l'assunzione di un nome fittizio e l'impiego di dispositivo « teatrali » (in un teatro chiamato « repubblica letteraria »), ma soprattutto per­ché - in quanto istituzione - si pone come scena del soggetto collettivo, l'orma di un circuito comunicativo (a indice variabile, pur sempre, di informazione «culturale» prodotta/consumata) fortemente connotato a partire da quel pro­prio strutturale che è il rituale accademico, dalla sua istanza simulatoria in­scritta in un tempo e in uno spazio definiti, programmati.

 

2.   Conversazione e società: il discorso dell'accademia.

 

L'accademia parla, ha parlato.  Mi riferisco non soltanto alla serie - note­volissima - di testi direttamente «accademici», collettivi o di singoli che sia­no, destinati a replicare all'esterno, diffondere, conversazioni o atti già detti o compiuti nell'interno istituzionale dell'accademia, ma soprattutto a quegli interventi che intendono illustrare (e sempre diffondere all'esterno, tramite il medium della stampa) l'immagine culturale di un'accademia determinata, e quindi esaltare in termini generali il modello culturale dell'accademia, in quanto modello di «società», modello di « repubblica letteraria ».

Da subito questo discorso si afferma, enuncia le sue componenti fonda­mentali:

 

Fu questo secolo ripieno d'uomini che la natura di rado produce, i quali insieme conversavano ed erano da tutti grandemente reputati, per che allora risplende­vano le virtù sopra le ricchezze, come oggi le ricchezze sopra le virtù, e tanta differenzia si faceva tra uno che sapesse lettere e uno che non le sapesse, quanto è da uno uomo dipinto e uno vero.

 

Cosí Lorenzo di Filippo Strozzi: l'assoluto primato culturale del conversare tra chi sa lettere, il dominio di questa autentica ricchezza non effimera se impiegata in modo proprio e «naturale», il modello - soprattutto - di cul­tura = virtù destinato a tanto lunga presenza ed efficacia omologante nella sto­ria delle società d'ancien régime, a conservare il suo prestigio (anche ideo­logico) pur quando si profila l'avanzare prepotente dell'economia della «ricchezza» su quella della « virtù », come troppo precipitosamente rileva Lorenzo di Filippo Strozzi, ad accrescere, anzi, proprio in questa fase, il suo prestigio e la sua funzione modellizzante.  E soprattutto il carattere autoreferenziale di questo conversare: se rende possibile il riconoscimento della virtù di chi sa lettere e ne pratica l'esercizio all'interno di un insieme, lo propone in termini assoluti, come riconoscimento di tutti, senza distinzione alcuna tra «interno» ed « esterno ».

L'architesto di tutti questi discorsi a venire sull'accademia e sul conversa­re insieme è Il Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione.  E non per inde­bita estensione della sua efficacia: già nel 1569 il gruppo che parla nelle sue pagine è individuato come accademia.  Nell'orazione Delle lodi dell'Accademie Scipione Bargagli, quando cita l'autorevole presenza delle prime accademie umanistiche, di quelle «state alla memoria de' nostri tempi più vicine e d'al­tre che negli stessi tempi nostri ancora si vivono avventurosamente», ricorda quella - subito, insomma, mitica - di Urbino: «Delle cosí fatte venne a ren­dersi quella cosí mentovata della città di Urbino, donde uscirono, come dal caval troiano si favella, principi di lettere e di virtú riguardevolissime ». Ancora e sempre lettere e virtù strettamente intrecciate: dal « caval troiano » di questa « città in forma di palazzo » escono i « principi » che si chiamano Pietro Bembo, Bibbiena, Lodovico di Canossa, Federico e Ottaviano Fregoso, e su tutti lo stesso Castiglione, esemplari di quell'intreccio/reversibilità nell'econo­mia del primato delle lettere e della virtú che costituisce l'elemento decisivo dell'orazione del Bargagli.

Nel Cortegiano s'individuano con precisione, e facilità, gli elementi strut­turali della forma accademia: un gruppo si riunisce in uno spazio e in un tempo determinato, la sua conversazione si organizza in gioco, l'articolazione è regolata (alcuni locutori designati, un «locotenente» che presiede, l'insieme degli allocutori e dei destinatari che fa cerchio, chiude emblematicamente il circuito della comunicazione).  Un codice che funziona perfettamente, che non ha bisogno di trasformarsi in legge scritta: lo stesso, identico, codice di tante accademie non-istituzionali a venire, circoscritte ed effìmere come questa che si tiene per quattro sere nelle sale del palazzo di Urbino.  Un riunirsi occasiona­le, ma per una festa: per celebrare il passaggio del papa, in questo caso.  Non un'accademia qualsiasi, però, non un comunque conversare: il gioco e la festa sono regolate, ordinate, ma soprattutto sono interamente - profondamente ­connotate dal loro essere gioco e festa di una corte, in corte.  La pertinenza del modello di questa conversazione in forma di «gioco» - relativo, appunto, al «formar con parole un perfetto cortegiano » - risulta strutturalmente orga­nica al suo referente assoluto: una conversazione in corte, dunque, sul con­versare in corte.  Lo spazio di questa accademia si sovrappone integralmente allo spazio della corte, il suo tempo s'inserisce armonicamente nei ritmi del tempo della corte.

L'istanza modellizzante non è soltanto nella forma di questa conversazione e nel suo essere regolata (elementi, questi, comuni alla stessa tradizione uma­nistica del «dialogo»: vera e propria matrice culturale della stessa accademia, del resto, come si è già più volte rilevato), ma nella argomentazione che vie­ne articolata nei quattro libri.  Il Cortegiano non si limita a mettere in scena un'accademia-conversazione, ma enuncia la forma della conversazione in un'ac­cademia-corte.  Ne dice soprattutto la « regula universalissima »: la grazia.  Per questo la sua proposizione è forte, e assume ben presto, subito, una presenza di dimensioni complessivamente modellizzanti, istituendo un campo semiotico polifunzionali, « discreto », scandito in tante diverse « circostanzie », in tante « parti » che predicano sempre e comunque il « tutto » della sua « regula uni­versalissima »: nobiltà e lettere, virtù e lingua, musica e arti, vestirsi, ballare, amare, e conversare, soprattutto conversare, anche in termini faceti, amorosi, filosofici, ecc.  Una grammatica generale, insomma, finalizzata e funzionale alla Produzione e allo scambio di rapporti interpersonali frontali, diretti, veico­lati attraverso la parola, in un'economia del guardare e del parlare: la stessa questione della lingua, ne1 primo libro, non risulta in alcun modo pertinente all'esclusivo ambito di una comunicazione scritta, ma nel suo porsi subito, in apertura, quasi, del «gioco del cortegiano », afferma l'esigenza primaria di trovare uno standard comunicativo «convenevoli» - adeguato e funzionale al tempo stesso - intanto a questa conversazione, a questa accademia.  Una conversazione che è insieme accademica e cortigiana, ed enuncia nel suo arti­colarsi sera dopo sera l'annessione dei rapporti sociali sotto il segno domi­nante della sprezzatura, della sua economia simulatoria, della sua coazione alla scena.  In questa conversazione cortigiana (che costituisce l'equivalente generale delle pratiche sociali della/nella corte, e proietta la sua efficacia mo­dellizzante di «forma del vivere» all'esterno, come valore culturale assoluto e universale, il solo, anzi, in grado di garantire omologazione e socialità), in questa stessa accademia che si snoda ben temperata nel corso di quattro serate di festa e di gioco - ad alto indice, però, di « intertenimento » colto - occorre soprattutto nascondere i arte di ogni discorso proposto, nascondere la fatica per organizzarlo e dirlo: occorre, insomma, far sembrare proprio della natura ciò che è proprio dell'arte.  Per questo Il Cortegiano mette in scena non solo un modello di dialogo, ma la sua stessa producibilità: nel suo tempo e nel suo spazio definiti, nella sua occasione di festa e di gioco, nella sua regolata scansa modalità metadiscorsiva, può assumere le proporzioni di accademia, essere direttamente registrata come accademia, già nel 1569.

 

[……omissis…..]

 

Ma è nella Civil conversazione di Stefano Guazzo che l'«animal conver­sevole» trova la più articolata e minuziosa descrizione: in riferimento diretto sia al Cortegiano sia alla forma accademia.  Secondo il Guazzo la «conversa­rzione» è per eccellenza la forma della pratica quotidiana dei apporti cortigiani: forma della «sprezzatura», della dissimulazíone dell'arte e della fatica di un lavoro.  La « conversazione » è il cuore della « forma del vivere »: ed è civile in quanto «'l viver civilmente non dipende dalla Città, ma dalle qualità dell'animo.  Cosí, - precisa il Guazzo, - intendo la conversazione civile non per rispetto solo della Città, ma in considerazione de' costumi e delle maniere che la rendono civile».  Questo primato assoluto, segmentato poi in una mi­nuta casistica di posizioni tra locutore e allocutore, tra i soggetti della conversazione stessa, ha un suo momento privilegiato, un suo cuore ancora più interno: l'accademia.  Se, infatti, la «conversazione è principio et fine del sa­pere», se la «conversazione insegna più che i libri», se la «disputa è il cribro della verità», il suo luogo «naturale» non è allora proprio nell'accademia?

 

[….omissis….]

 

Ma sarà ben degno di riso et di reprensione quel letterato, il qual essendo in­volto solamente negli studi, non riduce la sua dottrina alla vita commune, et si scuopre in tutto ignorante delle cose del mondo.  Et voglio dirvi di più, che sa­rebbe errore il credere che la dottrina s'acquisti più nella solitudine fra i libri, che nella conversazione fra gli huomini dotti; percioché è sentenza filosofica, et la pruova lo dimostra, che meglio s'apprende la dottrina per l'orecchie che per gli occhi, et che non accaderebbe consumarsi la vista né assottigliarsi le dita nel rivolger le foglia degli scrittori, se si potesse baver del continuo la presenza loro et ricever per l'orecchie quella viva voce, la qual con mirabil forza s'ím­prime nella mente; oltre che abbattendovi nel leggere in qualche oscura diffi­cultà, non potete pregare il libro che ve la dichiari, et vi conviene talhora par­tirvi da lui mal contento, dicendogli se non vuoi esser inteso né io t'intenderò; dal che potete riconoscere quanto più util cosa sia il parlar coi vivi che coi morti

 

Questo primato dell'oralità - parlare/ascoltare vs scrívere/leggere - argo­mentato anche in termini di comune buon senso, porta sino in fondo la píú cauta enunciazione del Cortegiano secondo cui « più spesso» occorre «servirsi del parlare che dello scrivere» ", e ne trasforma la circostanziata referenzialità cortigiana in termini assoluti: non soltanto il letterato deve assumere nel suo orizzonte comunicativo la «vita commune », ma più complessivamente si deve prender atto del primato delle orecchie sugli occhi, in quanto strumenti dei comunicare.  L'indicazione operativa del Cortegiano si è trasformata - autono­mamente, organicamente - in un'antropologia della conversazione, che enun­cia la centralità dell'« animal conversevole ». Nobile, però, in primo luogo, e quindi accademico: 

 

Ma sopra tutte l'altre cose hanno forza di risvegliar gl'intelletti quelle virtuose el che in tal contese che nascono fra letterati, i quali disputando imparano, et quel che in tal modo imparano lo fermano nella memoria, et mentre cercano a pruova l'un l'altro di prevaler con ragioni, si viene al perfetto conoscimento delle cose; et perciò si suol dire che la disputa è il cribro della verità, et perché la verità si cava dalle intelligenze communi, non si possono apprendere queste intelligenze se non col pratticare.

 

L'accademia costituisce, insomma. il punto d'intersezione tra la contesa/disputa e il «commune»/pratica: ne socializza la virtù, la verità.  Solo che que­sta accentuazione dei connotati « comuni », di « pratica » interpersonale e pub­blica, assume caratteri scopertamente militari e cavallereschi: questa disputa accademica non finisce per mettere in causa l'occhio e l'orecchio di chi assiste, di chi ascolta, di chi osserva i letterati che «cercano a pruova l'un l'altro di prevalere », non evoca la presenza di un terzo, oltre i due contendenti, che non è direttamente impegnato ma sa apprezzare tutta la vírtú della contesa?  E questo terzo non può essere proprio il nobile che accoglie nella sua casa, pa­trocina, sollecita la disputa accademica, la converte alla sua funzionale economía di, gioco e d'intrattenimento?  L'accademia che si profila nelle pagine della Civil conversazione non è per un qualsiasi « animal conversevole ». E in­fatti le citazioni di accademie illustri, che seguono questa apologia del con­versare, pongono al primo posto quella degli Invaghiti di Mantova, «fondata in casa dell'illustrissimo signor Cesare Gonzaga, valoroso prencipe et singolar protettore degli uomini virtuosi» ": un principe che assiste alle loro contese/ dispute.  Ma è la forma accademia a trovare adeguata e appassionata esaltazione:

 

Inestimabile è il frutto che si raccoglie da queste accademie, et sono bene avi­sati quei che vi pongono dentro il piede, percioché conoscendo che non può un solo da se stesso acquistar molte scienze, poi che l'arte è lunga et la vita è brie­ve, come dice il nostro Hippocrate, quivi ottengono tutto ciò che vogliono, perché discorrendo altri delle divine, altri dell'humane historie, chi di filosofia, chi di poesia et d'altre diverse materie, si fanno acconciamente partecipi di quel che faticosamente et con lungo studio ha ciascuno appreso, imitando coloro i quali non potendo soli vivere largamente, convengono con altri in un luogo, et conferiscono insieme le loro portioni, delle quali compongono uno magnifico et solenne convito

 

Se questa forma accademia continua ad essere espressa dall'immagine del « convito », implica necessariamente la partecipazione di tutti, una mutua soli­darietà di scambio e di offerta: la fatica di uno studio personale (prodotto all'esterno) assume le proporzioni di un vero e proprio investimeto che con­sente di capitalizzare la parte di un sapere determinato all'interno di un'economia generale della conoscenza, che riesce ad integrare tutte le « scienze».  La conversazione - anche nella tipologia della disputa e della contesa - rap­presenta il tramite necessario e indispensabile per questo scambio di espe­rienze, per questa socializzazione: consente che il « convito » sia di tutti.  In­fatti «la conversazione è il vero affìnamento et l'intera perfettione della dot­trina», e «giova più al letterato un'hora ch'egli dispensi nel discorrere con suoi eguali, ch'un giorno di studio in solitudine»: la sua convenienza è dunque di natura strettamente economica.

Il modello accademico, cosí enunciato in esordio del testo, affiora più volte nel corso del dialogo, prima ancora della messa in scena conclusiva di quel « convito » di nobili casalesi.  Torna ad assumere una funzione centrale quando il discorso si ferma sulla figura del «letterato», per descrivere la sua naturale propensione alla «compagnia», alla sodalitas, più che alla vita solitaria:

 

Et per certo fra tutte le compagnie non vi è alcuna più stabile né più stretta­mente congiunta che quella de' letterati, i quali si amano più fra loro di quel che facciano i parenti et fratelli, Percioché concorrendo in essi i medesimi studi, et le medesime volontà sono costretti a compiacersi Oltre modo l'uno dell'altro et a ridursi dal numero di molti ad uno solo

 

L'accademia come soggetto collettivo, come economia del tutto rispetto alle parziali e personali competenze di ciascuno.  L'accademia come soggetto collettivo universale, soprattutto, perché «più diletta nelle conversazioni l'huo­mo universale che quello d'una sola professione»: l'accademia, perciò, non rinvia al suo esterno, agli statuti professionali dei suoi membri, al loro sapere specializzato e parziale; nel suo autonomo interno «acquistano meraviglioso credito quei che oltre alla loro principal professione sanno ragionar mezanamente et con discretezza d'altre parti; anzi da questi accessorii riportano tanto maggior bonore quanto più sono fuori del loro studio ordinario».  La conver­sazione accademica non deve mirare al raggiungimento di una soluzione delle Possibili questioni che possono essere assunte nel suo ordine dei lavori: può - e deve - mettere in gioco le varie risposte (ugualmente valide), contrapporle perché soddisfino le regole del suo «intertenimento» organizzarle anche in paradossi (la sequenza delle tante « questioni » o dei tanti « problemi » acca­demici che arrivano alle stampe tra fine Cinque e Seicento).  Senza mai per­dere di vista la necessità di non trasformare la conversazione/disputa in dibat­tito ad alto contenuto professionale, di linguaggi anche settoriali: il rischio, insomma, denunziato dalla controversia sulla donna nel terzo libro del Cor­tegiano.  E in particolare puntando alla varietà, alla molteplicità dei discorsi dei temi, delle soluzioni: perché

 

accadendo communemente nelle conversazioni ragionar di diverse cose et saltar d'una in altra, o secondo il proverbio di palo in frasca, non vi è cosa, per mio credere, che faccia più honore et che ci conservi più grati nelle buone compa­gnie, che l'essere universali et l'haver la manica piena di diverse mescolanze, al che fare io considero che sia oltremodo giovevole la compagnia di molti virtuosi, come è questa delle accademie.

 

Questa conversazione «universale» è la forma dell'intertenimento sociomon­dano, delimita e struttura il rapporto fra cultura/sapere e società/potere: isti­tuisce l'accademia come luogo e spazio della festa - proprio perché questo « strettamente » congiungersi riduce « il numero di molti a uno solo » -, come forma di scambio e di rapporto che si oppone alla forma (esterna) di un lavo­ro e della sua fatica: «Quando questo mio corpo è rinchiuso là dentro, sono esclusi da lui tutti i noiosi pensieri, i quali aspettandomi alla porta mi tornano nell'uscire a caricar la soma sopra le spalle». L'accadcmia è al di qua della porta: uno spazio edenico, differenziale.

Le argomentazioni del Guazzo, questa stessa appassionata apología del conversare come forma propria dell'aggregarsi in accademia, contribuiscono a individuare le ragioni storiche dello strepitoso diffondersi di tante adunanze più o meno regolate, più o meno effimere.  Ne enunciano, soprattutto, l'istanza culturale di fondo, il modello antropologico: questo «animal conversevole» non può fare a meno di sfruttare tutte le possibili occasioni per soddisfare la sua esigenza primaria, «naturale», nel pieno rispetto di quel codice che dice e regola il primato delle lettere, imitando e riproducendo pur sempre, l'originario, mitico, convíto.  E se si considera che la Civil conversatione è uno dei testi di più rilevante e stabile presenza editoriale - diretta e insieme mediata: tra citazioni, traduzioni e adattamenti - in tutta l'Europa d'ancien regime, non soltanto in Italia, si potrà forse avviare l'analisi del fenomeno accademico in termini non più quasi esclusivamente curiosi o addírittura ironici ", almeno rispetto alle sue proporzioni d'insieme.  La serie quantitativamente formidabile degli eventi che consapevolmente si assegnano il nome di accademia, costituisce, in realtà, la diffusa pratica di questa tipologia culturale che si radica ben presto in profondità nella società colta, senza particolari discriminazioni tra aristocratici, ecclesiastici e borghesi, sino ad assume­re le dimensioni omologanti di codice totale, di generale «forma del vivere» (come sempre il testo del Guazzo propone), in grado di regolare e significare l'economia di produzione e scambio dei rapporti interpersonali culturalmente e socialmente connotati: una «forma del vivere» fondata sulla grazia, sui va­lori propri del sistema cortigiano, tra festalgioco e intertenimento e disputa.  Ogni accademia, grande o piccola che sia, regolata oppure occasionale, non può non essere riferita a questa antropologia della conversazione, alla sua stessa matrice cortigiana: le sue radici son tutte qui, non altrove, e qui è il suo senso storico pieno.

Il discorso della/sulla accademia continua: inarrestabile, come inarresta­bile è la sequenza di atti fondativi.  Si articola, si fa più vario, sia con stampe di opere direttamente accademiche (in cui la funzione autore è del soggetto collettivo), sia con monografia che esaltano questa o quella istituzione, oppure con microdiscorsi sull'impresa, sulla legge, ecc.: in grado, talvolta, di interro­garsi sulla sua forma istituzionale, sulle sue tipologie, sulla serie, in crescita costante, dei tanti eventi, sulla storia stessa dell'accademia.

 

 

[……omissis…..]

 

4- Il proprio dell'impresa.

 

L'economia della doppia nominazione (dell'accademia e dei singoli mem­bri) risulta organicamente correlata - come più volte si è detto - a quella dell'altro contrassegno fondamentale dell'accademia: l'impresa.  Un intreccio comunicativo profondo, una solidarietà «espressiva» - direbbe il Klein ­completa: e integrata, verbale e figurata insieme.  Per moltissime accademie, poi, l'impresa, oltre il nome, è tutto: nient'altro resta di repertoriabile, anche per lo stesso ostinato Maylender.

Qualche dato che mostri subito l'ampiezza del fenomeno: sul solito totale di 2050 accademie, circa il 36 per cento può esibire il proprio contrassegno, la sua speciale, personale impresa, il suo messaggio visivo con tutto il carico di informazioni che è in grado di veicolare, per quanto riguarda propositi, obiettivi modalità.  Un significante straordinario, l'impresa.  Quel dato percentuale può essere poi scomposto per secoli: presentano, cosí, la loro impresa il 43 per cento delle accademie del XVI secolo, il 50 per cento di quelle del XVII, e soltanto il 24 per cento di quelle del XVIII.  Non è, insomma, soltanto la tradizione del nome strettamente accademico a decadere, soppiantata da sistemi intenzionalmente più denotativi, ma pure quella dell'impresa.  E l'uso dell'impresa interessa tutti i tipi di accademia precedentemente descritti, al­meno sulla base delle procedure di nominazione, anche se prevale nettamente in quello del nome accademico in senso stretto: pari al 53 per cento per il secolo XVI, al 56 per cento per il XVII e al 35 per cento per il XVIII, con un decremento meno accentuato, segno che la tipologia accademica più tradizio­nale è anche più conservatrice.

Una tradizione di complessa e sterminata ampiezza: a partire dal «gero­glifico», attraverso l'«emblema», sino all'«impresa», si costituisce una cul­tura figurativa e filosofica (almeno nella sua fase d'avvio) che struttura e con­nota profondamente l'immaginario cinquecentesco: un universo iconologico che assume le proporzioni di macrocodice delle arti figurative, della comuni­cazione letteraria, di quella visiva in senso lato, sino a invadere aspetti non marginali della vita quotidiana (negli apparati, nelle «macchine» celebrative e festive), sino a diventare occasione di gioco mondano.

La definizione classica dell'impresa resta quella di Paolo Giovio, per quan­to in seguito sottoposta a revisioni, critiche, integrazioni; l'impresa, per esse­re «buona», ha bisogno di cinque «condizioni»: che abbia « giusta propor­zione d'anima e di corpo », cioè di sentenza e di immagine; che «non sia oscura di sorte ch'abbia mestiero della sibilla per interprete a volerla inten­dere, né tanto chiara ch'ogni plebeo l'intenda»; che «sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, instrumenti meccanici, animali bizzarri e uccelli fantastici »; che « non ricerchi alcuna forma umana »; e infìne « richiede il mot­to, che è l'anima del corpo», in lingua diversa dall'« idioma di colui che fa l'impresa».  L'impresa nasce come contrassegno «militare» e «amoroso», come indica con precisione lo stesso titolo del Dialogo del Giovio: ma ben presto assume una pertinenza più estesa, entra in accademia.  Anzi diventa un elemento specificamente accademico: come dimostra la serie cospicua di testi, discorsi, trattati, o direttamente o parzialmente dedicati a imprese accade­miche.  La stessa orazione, in precedenza citata, del Bargagli è pubblicata in appendice al suo trattato Delle imprese; e il Domenichi, nel Ragionamento che accompagna una ristampa del Dialogo del Giovio, riconosce una sorta di necessità produttiva di imprese da parte delle accademie: « Sono state a' no­stri e oggi ancora sono in piedi in Italia tante onorate academie e raunanze d'uomini virtuosi e litterati, che, avendo tutti bellissimi concetti, verisimilmente debbono aver fatto argutissime imprese».  E provvede, quindi, a esibirne un articolato campionario.

Questa pertinenza comunicativa subito riconosciuta, con il concetto (e più generalmente con gli strumenti della retorica) spiega molto dello straordina­rio successo dell'impresa in area prima manierística, come argomenta il Klein, e poi barocca.  Per il Garuffi, che osserva la fenomenologia accademica da un punto di vista quasi terminale, l'impresa può essere definita come «analogica consimboleità».  Un gioco verbale di prestigio, questo, che interviene alla fine di tanti scritti, trattati, repertori, ecc., e che, citandoli, anche indiretta­mente, attraversandone lo spessore, è in grado di riferirne l'esperienza com­plessiva alla forma accademia, la cui impresa «consiste in un simbolo col quale esprimesi in pittura dentro ad un quadro il sentimento comune di tutta la raunanza, da cui fu scielto quel corpo d'impresa, e consiste in un desiderio non mai interrotto di giungere alla perfezione del sapere mediante gli esercizi dell'ingegno».  Il primo gesto da compiere, nel riunirsi, non può che essere quello di darsi il proprio del nome e dell'impresa: è il primo atto del soggetto collettivo chiamato accademia: una « scielta » che deve esprimere il « sentimen­to comune».  Finalizzata, poi: deve significare, ingegnosamente, argutamente (con giusto equilibrio, come ammonisce il Giovio: senza eccedere né in oscurità né in banalità), il programma assunto dal gruppo che si nomina e si dà questa impresa.  E se al nome primo possono corrispondere tanti nomi secondi, anche all'impresa prima possono correlarsi altrettante imprese seconde.  Con un avvertimento, sempre del Ferro: che «le imprese particolari, oltre alla conditione che i nomi loro particolari siano tolti dalla particolare loro impresa e che a lei o al di lei corpo sieno proportionati, deeno - dico - confarsi ancora al nome generale».

La tradizione dell'impresa definisce, con rilievo assoluto, un codice visivo ad alto indice socioculturale: aperto, mobile rispetto a chi lo osserva, richiede spesso un apparato notevole di competenze.  La sua remota nascita all'interno dell'esperienza «ermetica», nella sequenza differenziale geroglifìco-emblema-­impresa, ne connota pur sempre una pertinenza comunicativa riservata, spe­ciale.  Se l'impresa individua, in origine, il proprio di un linguaggio cavalle­resco, militare e amoroso insieme, resta poi sempre una «filosofia del cava­liere», come dice Scipione Ammirato, e come risolutamente afferma Luca Contile: «Il publicar l'imprese tocca a coloro nati nobili di sangue e ricchi di robba e di titoli signorili», con la sola precisa eccezione, tra i «professori delle arti meccaniche», di architetti/scultori/pittori, purché famosi e al servizio di principi, non foss'altro per la loro specifica competenza figurativa.

Questa netta discriminante (culturale e sociale allo stesso tempo) che per­corre tutto il discorso sull'impresa riproducendone la funzionalità originaria, come si riferisce alla loro diffusa presenza in accademia? È forse un ulteriore segno di come la forma accademia veicoli e protragga il primato del modello della «conversazione» tra gentiluomini?  Se l'impresa è il contrassegno della «filosofia del cavaliere» (armato o innamorato che sia), le tante, tantissime accademie che l'esibiscono, sono tutte accademie di «cavalieri», di « honorati huomini», di «nobili»?  Certamente no: anche se occorre riconoscere tutta la complessità della questione, nel suo porre la necessità di affrontare l'analisi del rapporto fra il modello accademia e le sue tante e diverse pratiche afi'interno d'una storia che è lunga e movimentata.  Soltanto una descrizione ravvicinata del materiale conservato nell'archivio del Maylender e altrove potrebbe, forse, fornire una risposta soddisfacente e documentata: intanto si può osservare come le stesse proporzioni - più volte enunciate - del processo di espansione del modello «cortigiano», il suo progressivo costituirsi in istanza omologante assoluta, in generale «forma del vivere», in grammatica della società di ancien régime, descrivano un evidente percorso di annessione (e validazione) di tipo­logie culturali anche diverse.  Il modello «cortigiano» esce all'esterno del suo spazio originario e proprio, ma non smarrisce le sue connotazioni profonde: diventa paradigma, stereotipo, istanza ripetitiva anche banalizzata, ma sempre in connessione con la sua forma prima.

Come documenta proprio la sterminata diffusione di imprese accademiche: da quelle estremamente raffinate, sofisticate, ermetiche della tradizione cin­quecentesca (che necessitano di adeguate illustrazioni e chiarimenti), a quelle molto píú semplici, approssimative, prossime anche a un grado zero denota­tivo.  Basta sfogliare uno dei repertori a stampa o dei manoscritti che le rac­colgono: come il Casanatense 1028, che ne presenta ben 244. L'arco del­l'esperienza produttiva «inventiva») di imprese qui è interamente esempli­ficato: da quella raffinata e colta sino all'impresa banalizzata e tirata via con pochi tratti figurativi, assolutamente senza «espressione», senza sottili giochi metaforici/metonimici, senza « proporzione », né oscura né tanto chiara, senza «bella vista », con motti non solo in volgare ma anche ben poco ricercati.  Ma pur sempre un'impresa, anch'essa: in grado di riprodurre, quindi, e di esten­dere l'efficacia della tradizione, di testimoniare ancora una volta che proprio dell'accademia è «inventarla», esibirla.  Contrassegno visibile, «espressione figurata», della sua identità.


 

5- Una microsocietà regolata: le leggi accademiche.

 

La « raunanza » di « nobili » e di « letterati » ben presto si organizza, assume una forma stabile e regolata, soprattutto.  La «conversazione» si dà leggi, dice le regole di questo gioco.  Le fissa direttamente, articolo dopo articolo, trascri­vendo il codice non scritto ancora ma già operativo, sperimentato, convalidato dallo stesso replicato riunirsi.  Per quanto interessi una quota esigua di acca­demie, questa regolamentazione legislativa assume un rilievo notevolissimo: sia perché consente di individuare una più marcata articolazione tipologica, sia perché documenta analiticamente quella tendenza della forma accademia a co­stituirsi in microsocietà, in «repubblica letteraria».  Una repubblica, una socie­tà, non progettabili senza il proprio delle sue leggi.

Soltanto il 10 per cento circa delle solite 2050 accademie archiviate dal Maylender ha lasciato tracce evidenti di un apparato legislativo, il testo, più o meno ampio e più o meno completo, delle sue leggi: e precisamente il 13 per cento delle accademie del secolo XVI, circa l'8 per cento di quelle del XVII, il 13 per cento ancora di quelle del secolo XVIII, e il 15 di quelle di primo Ottocento.  Si può, però, rilevare subito come l'incremento fra Sette e Ottocento sia direttamente collegato all'intervento del potere pubblico, alla politica culturale dell'istruzione che gli stati avviano nell'età delle riforme e della rivoluzione.

Certo occorre osservare che questa documentazione risente immediatamen­te dello stato generale del repertorio del Maylender, dei fortissimi squilibri nell'informazione prodotta: troppo esigua è, infatti, la quota di accadente adeguatamente descritte (anzi, descrivibili utilizzando materiali di varia provenienza, a stampa, manoscritti, figurativi, anche), mentre la stragrande maggioranza non può che limitarsi a esibire i soli contrassegni d'identità, l'elemen­tare, fisiologico, dato del nome, della città, dell'impresa.  Per surrogare questa scarsità d'informazioni relativa all'assetto istituzionale, si potrebbe ricorrere ad alcuni elementi indiziari: la citazione, ad esempio, di cariche accademiche ricoperte da un socio, la presenza di un principe/protettore, il riferimento alla periodicità e regolarità delle riunioni e al loro essere tematicamente program­mate, come pure ad altre modalità organizzative.  Ma si tratta di indizi frammentari, ascrivibili a un'economia legislativa non scritta: in ogni caso difficilmente computabili senza rischi di valutazioni disomogenee.

Il Maylender non si limita a ricordare la presenza di queste leggi scritte: spesso le pubblica, anche integralmente, organizzando nel repertorio un altro repertorio settoriale. Ne risulta che l'istanza legislativa segue, di solito, l'espe­rienza più o meno lunga e regolare di un'adunanza: l'atto che ne formalizza lo statuto non può che fondarsi sul riconoscimento della validità di quel primo gesto.  Nel discorso di apertura ufficiale dell'Accademia della Crusca, il 25 mar­zo 1584, a due anni di distanza dalle prime iniziative dell'originario gruppo dei cinque « Crusconi », il nuovo arciconsolo Giovambattista Deti si esprime cosí:

 

Oh favorita Accademia, poiché in tal giorno tanto sublime, tanto ragguardevole e sacrosanto, se' stata degnata che ti si dea principio.  E in verità infino ad ora non possiamo dire noi con verità che questa sia stata Accademia, poiché essendo stata priva d'ordine, di capo e d'esercizi accademici, più tosto brigata s'è potuta chiamare.  Ma oggi voi vi siete eletto un capo che (benché considerando la persona, indegnissimo di tanto grado) mediante voi, che di lui non avete di mestie­re, se non per ombra vi saprà reggere e governare.

 

Il passaggio dalla condizione di «brigata» a quella di accademia prevede l'ac­quisizione di alcuni elementi obbligati: le leggi li riassumono e li ordinano tutti.

Dalle dirette trascrizioni del Maylender è possibile desumere una tipologia normativa stabile al di là delle stesse, ovvie, procedure di personalizzazione e delle stesse trasformazioni istituzionali: la legge intanto regola l'economia del nome e dell'impresa, i sia generali sia particolari; dà poi indicazioni sulle modalità di riunione e di lavoro; formalizza con minuzia il governo, le cariche, le gerarchie; formula criteri per le nuove ammissioni; enuncia, infine, alcuni divieti e raccomandazioni, prevedendo - per ogni eventuale controversia - un apposito collegio di disciplina.  Questo schema è duraturo e stabile: almeno per quanto riíuarda l'affermazione dell'autonomia piena del potere decisio­nale e operativo, di scelta e di rifiuto, dell'accademia, l'enunciazione della sua sovranità.  Attraverso la legge questo soggetto collettivo assume le propor­zioni di soggetto giuridico: si costituisce in microsocietà autonoma nei fonda­menti stessi del suo potere Un'istanza normativa che emerge subito: già con le accademie senesi, con il primato - in quanto società regolate - degli Intro­nati e dei Rozzi le cui leggi risalgono direttamente all'atto fondativo, cioè al 1525 e al 1531 rispettivamente.

Un'analisi in dettaglio dei testi editi dal Maylender o segnalati consentirebbe d'individuare alcuni elementi di grande rilievo: verificare, ad esempio, l'influenza del modello giuridico delle XII tavole (molto imitate: dagli Intronati sino all'Arcadia), o l'acquisizione di particolari procedure.  Nell'economia di questo lavoro, intanto, una sola esemplificazione legislativa, particolarmente completa pur nella sua stringatezza non formalizzata in articoli: le leggi dell'Accademia-degli oziosi di Napoli, che risalgono al primo Seicento:­

 

     Gli essercitii da farsi nell'Academia, percioché sono lo strumento principale a conseguire il fine da noi desiderato, dovranno essere con molta sollecitudine posti in opera da li Academici.

Saranno principalmente tre, et ciò sono le lettioni, le composizioni e le que­stioni ad esseguíre.

I quali essercitii deve ragunarsi l'Academia almeno un giorno della settima­na, a ciò stabilito nell'hora che parrà píú opportuna, e dovrà ciascuna ragunanza durare almeno per lo spatio d'un'hora e mezza, distribuendo la prima mezz'hora alle lettioni, la seconda alle composizioni et alle loro censure et risposte, l'ul­tima alle questioni.

Le lettioni dovranno imporsi dal Principe agli Academici conforme la loro habilità, dottrina et ínclinatione, e distribuite che saranno dovrà farsene nota dal Segretario, il quale havrà pensiero d'andare racordando a tempo a coloro che dovranno leggere, affìnché in niuna adunanza manchi la dovuta lettione; et in caso di assentia o d'altro impedimento di colui a chi toccasse di leggere, potrà con saputa del Principe avisare per la lettione alcuno degli altri nella nota de­scritti.

La materia delle lettioni dovrà essere 'ntorno alla Poetica, alla Ritorica, alle discipline matematiche et a tutte le parti della filosofia, et intorno alla spiana­tíone degli autori c'hanno delle sopradette materie scritto: vietan e le non si debba leggere alcuna materia di T@ologia e della Sacra Scrittura, delle quali per riverenza dobbiamo astenerci, e medesimamente niuna delle cose appartenenti al publico governo, i quali si deve lasciare alla cura de' Principi che ne reggono.

 

La legge disciplina il tempo dell'accademia, organizza la sua scansione fun­zionale alla «conversazione» di un sapere senza rischio di complicazioni poli­tiche ed ecclesiastiche: dominio delle lettere (anche «amene»), della retorica, delle scienze classicamente umanistiche, attraverso le «lettioni», la proposta di « composizioni » (con relativa pubblica « censura »), le dispute.  Un impiego del tempo socializzato che tenga conto delle competenze di ciascuno.  Il caso di questa legge degli Oziosi è esemplare, anche se la sua articolazione non è com­pleta: non dà indicazioni sulle procedure associative e sul governo accademi­co. In altre leggi questi dati sono molto precisi, addirittura esclusivi, come nel caso di quella degli Animosi di Cremona, che sancisce «che quelli s'hanno ri­cevere siano persone o nobili di sangue, ancorché non fossero atti alli esercizio o nobili per virtù, cosí pratica come speculativa, e che a tale ricevimento con­corrano gli due terzi de' voti».  La forma accademia come radunanza di « no­bili» e di «letterati» è esplicitamente sancita, trascritta in corpo legislativo: in poche battute è riassunta una vastissima letteratura sulla nobiltà, sul suo doppio compatibile di sangue e di virtú. L'accademia l'assume interamente, compiutamente: la soglia selettiva si attesta sul parametro della nobiltà, co­munque sia.

Ma questa «repubblica letteraria», allora, come si correla con la forma istituzionale della società reale?  Una testimonianza, ancora: quella di Giovanni Battista Alberti, che scrive nel 1639 un ampio Discorso dell'origine delle Accademie publiche et private, cioè le università e le accademie vere e proprie, in quanto « honesto trattenimento » e « raunanza di persone scelte e riguarde­voli per nobiltà, dottrina e costumi, ove si crea il Principe a tempo, si fanno gli officiali annui, si formano regole da osservarsi da ciascuno accademico, go­vernandosi l'Accademia a guisa di republica con modo aristocratico». La defi­nizione è, pur nell'assoluta concisione, molto precisa per quanto attiene la struttura organizzativa, ma colpisce quella definizione della forma del suo go­verno come « republica con modo aristocratico ». Probabilmente ha ragione il Pecorella', quando vi riconosce un segno inconsapevole, forse, della diretta influenza dell'assetto politico-istituzionale di Genova, città in cui l'Alberti vi­veva e in cui pubblica il suo Discorso.  Ma quell'«aristocratico» non può anche intensamente connotare l'ambiguità strutturale di questa «repubblica», il suo essere all'insegna esclusiva della nobiltà, di «letterati», certo, della loro «virtú », ma anche e soprattutto di « nobili », del loro « sangue »

Una strana «repubblica».  Inscrive compiutamente una scena e ne organiz­za le procedure di simulazione: attraverso le leggi, anche, oltre che attraverso il rapporto fondamentale con il modello culturale cortigiano della « conversa­zione ». Questa «repubblica» è determinata nel suo tempo autonomo (per du­rata oltre che per periodicità), ed esibisce la maschera del proprio del nome e il metasemema metaforico-metonimico dell'impresa; è perimetrata anche nello spazio: un interno che non può avere alcun rapporto di continuità con l'esterno, come alcune leggi esplicitamente sanciscono: « Quello che si averà trattato nell'Academia, uscito che sarà l'Academico fuori, né 1'habbia a palesare ad huomo vivente, neanco al proprio Academico che quel giorno non vi fosse intervenuto, sotto la sudetta pena, e basti che de ciò vi sia la relazione di due Academici non sospetti», affermano le leggi degli Accesi di Palermo, e repli­cano quelle degli Ardenti di Viterbo: «Niun Academico ardisca di palesare i segreti e i negozi che si tratteranno nelle congregationi». È  questa probabil­mente la motivazione strutturale dei tanti sospetti di congiura che si addense­ranno su molte accademie: da quella pomponiana a quelle napoletane sciolte per ordine del viceré Pedro de Toledo nel I547, ad altre ancora.

Questa strana «repubblica» chiamata accademia non è, però, il sogno di una cosa: corrisponde a centinaia e centinaia di atti fondativi, a una serie infi­nita e continua di pratiche, effìmere o istituzionalizzate che siano, alle tante « raunanze » che si susseguono compiutamente autoreferenziali, nella loro eco­nomia autonoma di spazio e tempo, anche quando escono all'esterno, con « me­morie », « atti », « lezzioni », discorsi di vario tipo. Una « repubblica » in maschera che codifica l'«intertenimento», il gioco, la festa: il carnevale segreto e differenziale dei «nobile», per sangue e per virtú che sia.  Una microsocietà simulata - e regolata - che si vuol separare dalla società reale, ma ne riproduce organicamente il codice culturale profondo, il modello antropologico. Quando ad esempio si sofferma a sancire per legge il divieto del gioco: «Che nel luogo dell'Accademia sia proibita qualunque sorta di giuochi, essendo simil tratte­nimento contrario al fine che si pretende, ch'è di pascere l'intelletto e di rego­lare la volontà», ammonisce la legge degli Animosi di Cremona '; «che non ardisca alcuno di portare nei locali dell'Accademia dadi, carte ed altre cose atte a giuocare», precisa meglio quella degli Ardenti di Viterbo li; «si proibi­sce in detta Accademia ogni illecito trattenimento, cioè in giuochi di carte, dadi, ed altri simili disonesti trattenimenti», replica quella dei Timidi di Mari­tova. Giochi che devono restare fuori dei «locali» dell'Accademia perché propri di «trattenimenti disonesti», che contraddicono la funzionale disponi­bilità a una forma di gioco, invece, compiutamente onesto perché virtuoso, riservato a nobili per lettere e per sangue.

È  il modello stesso della «conversazione» accademica a garantire che il suo gioco produrrà un « intertenimento » piacevole e virtuoso: non solo, ma è soprattutto in grado di assicurare a tutti coloro che vi prendono parte - « grandi/ mediani/piccioli» che siano - l'uguaglianza, esaltata come «il principal fra i molti sostentamenti delle Academie et congregazioni », proprio per il suo strut­turale «stimar il picciolo suo eguale et se stesso grande stimar picciolo ». Un'uguaglianza, però, a sovranità limitata: non solo non può non tener conto di tutti quei casi in cui l'accademico sia un uomo che abbia - fuori - «dignità et offitio », perché «in tal caso è obbligato a servar il decoro del magistrato che egli tiene» (e in una società cosí formalmente e rigidamente gerarchizzata, cosí rispettosa e gelosa di etichetta e di precedenze, questa casistica non indi­vidua certo solo poche eccezioni), ma è valida esclusivamente nello spazio e nel tempo dell'Accademia, nel suo interno: «Fuori di essa ciascuno secondo la sua qualità è trattato», come dice, appunto, con estrema chiarezza il Ca­nobbio.

Questa uguaglianza messa in scena nel gran teatro (o gran mercato, secon­do il Garuffi) dell'accademia, da tanti esaltata e issata a contrassegno generale, naturale (fisiologico), del suo costituirsi in «radunanza de' virtuosi», non ri­guarda in alcun modo gli statuti sociali reali e le gerarchie politico-istituziona­li, non ne sospende la validità per riprodurre una società qualsiasi di uguali: l'extraterritoríalità accademica riguarda esclusivamente la forma e le pratiche di una núcrosocietà (regolata) della «conversazione».  Fondata e finalizzata, al tempo stesso, suRa/alla virtú, sulla/alla nobiltà (di sangue e di lettere), assicura a tutti coloro i quali vi sono ammessi che potranno parlare senza discri­minazioni che riproducano all'interno accademico meccanicamente le disugua­glianze dell'esterno: in questo circuito comunicativo tutti sono, devono esse­re, uguali, lo scambio d'informazioni (il «mercato») può realizzarsi senza salti né fratture, perché la competenza culturale di chi assume di volta in volta il ruolo di locutore, rispetto ai pur sempre variabili allocutori, in un'economia di mutua reversibilità (effetto primario dell'uguaglianza), è assolutamente omo­genea, organica, continua con quella di tutti.  Una microsocietà di uguali: per conversare virtuosamente, nobilmente, con il conforto di un apparato scenico, gradevole e piacevole, come le tante macchine che invadono lo spazio cittadi­no, per celebrare nascite e morti, matrimoni e guerre, santi ed eroi.  Un'omo­logia culturale profonda, che vuole sdoppiarsi in un interno circoscritto ma al tempo stesso sovraconnotato: spazio della virtù e della nobiltà, « repubbli­ca letteraria».

 

 

6. L'insieme, le tipologie accademiche.

 

Lo sterminato archivio del Maylender - tante volte citato e utilizzato ­raccoglie nei suoi cinque volumi un insieme notevolissimo di informazioni, di dati: con forti dislivello in quantità e qualità, ma tra loro compatibili.  In ogni caso rappresenta un punto obbligato di riferimento per ogni percorso attraverso la fenomenologia accademica, in grado anche di segnalare ulteriori deviazioni e soste, rinviare ad altri archivi, a tante biblioteche.  Un insieme costellato da non pochi errori, dominato da un'istanza di omologazione di forme associative che accademie certamente non sono (confraternita, brigate, compagnie, ecc.), ma sempre attentissimo a ogni minimo indizio, alla più opa­ca traccia.  Un monumento davvero eccezionale e tutto sommato completo: ben poche sono le acquisizioni ulteriori proposte, e di poco rilievo.

L'insieme scheda alfabeticamente poco più di 2270 «accademie», di cui una ventina sono subito da escludere perché il Maylender stesso ne confuta persuasivamente l'esistenza (confusione nelle fonti, o non-accademie).  Dalla nostra rilevazione è opportuno accantonare la tipologia della « colonia »: sia perché riproduce direttamente la forma dell'accademia-madre, sia soprattut­to perché subentra, nella maggioranza dei casi, ad accademie preesistenti e già schedate (colonie arcadiche, in particolare, ma anche di altre accademie: per un totale di circa 140).  Dal computo sono poi escluse le accademie uma­nistiche e quelle tante compagnie della Calza che minuziosamente il Maylender registra, per un'evidente pertinenza di campo: di questo lavoro rispetto all'al­tro che lo precede (e sono circa 6o).  L'insieme su cui sono state e saranno prodotte rilevazioni e tabelle è costituito, dunque, da 2050 accademie.

I dati dell'archivio del Maylender, come si è detto, risultano molto squili­brati: in realtà non fanno altro che riprodurre, trascrivere, lo stato delle fonti.  Accademie di lunga durata e complessa organizzazione, accanto ad accademie effimere, di cui si conserva solo il nome e la città, talvolta l'impresa; accade­mie dalla storia illustre e accademie senza storia, anzi fuori dalla storia, co­strette a una marginale presenza nella stessa sequenza cronologica: una quota notevole (.137, circa il 7 per cento dell'insieme) risulta non solo priva di data ma anche di qualsiasi elemento temporale, sia pure indiretto; e moltissime altre accademie possono essere riferite soltanto a generiche aree secolari, con un margine di approssimazione sempre notevole: la quota di accademie senza data o con data generica si avvicina complessivamente al 15 per cento.

Tenendo necessariamente conto di questi elementi, la distribuzione crono­logica dell'insieme consente d'individuare il picco fortissimo del secolo XVII (42,5 per cento) rispetto al 18,4 del secolo XVI e al 25 del XVIII, mentre nel primo Ottocento la misura è del 7,4 per cento.  Ma di quali accademie si tratta, qual è la tipologia di queste tante radunanze?  Descrivendo la situazione di quei veri e propri contrassegni accademici che sono il nome e l'impresa, si è già proceduto a individuare un'articolazione differenziale, che pur semplificando la classificazione del Ferro, consente di individuare ritmi diversi nel caso delle accademie che assumono il nome proprio del loro promotore, di quelle che invece si danno una compiuta organizzazione accademica (con il relativo proprio del nome e dell'impresa), e di quelle, infine, che si nominano a partire dal campo disciplinare, dall'ubicazione della sede, ecc.  E nello stesso tempo la presenza di dispositivo giuridici ha già proposto la questione dello statuto accademico anch'esso differenziato.

Una prima suddivisione potrebbe essere quella tra accademie «pubbliche» e « private », ma non nel senso proposto dall'Alberti, che nelle « pubbliche » si­tua le università'.  Questa suddivisione è comunque complessa e precaria, e non potrebbe in alcun modo organizzarsi in tabelle d'assieme, quantitativa­mente omogenee, sia per la mobilità istituzionale dell'accademia, sia per lo stesso confine incerto tra pubblico e privato, tra formalizzato e non-forma­lízzato.

In principio fu, comunque, la «conversazione»: codificata, come si è det­to, anche in assenza di leggi scritte.  Un gruppo di « nobili » e di « letterati » si riunisce: in un interno circoscritto e determinato, il più delle volte nella casa di chi promuove l'accademia (e spesso le dà il proprio nome), o a turno nelle varie case degli accademici.  Ma le riunioni di - questa radunanza privata (for­malizzata o non, poco importa) possono anche tenersi in uno spazio neutrale, pure pubblico: in una chiesa ad esempio.  La serie degli incroci, per quanto non infinita, è certo notevole e intricata, e si complica introducendo la varia­bile della legge: come nel caso, in precedenza ricordato, della Crusca, che tra­sforma la propria condizione di «gioviale brigata per attendere a liete eserci­tazioni letterarie», come dice il Maylender, in quella di accademia con il pro­prio della legge scritta.  Un'ulteriore, definitiva, complicazione conseguirebbe dalla valutazione della storia di molte accademie, che mutano non solo ragione sociale ma anche campo di applicazione e finalità, soprattutto nella stagione delle riforme e delle rivoluzioni, quando diventa molto stretto il rapporto con il potere e con la sua politica generale nel campo della pubblica istruzione e ,del sapere.  Un rapporto spesso non volontario, subito da parte dell'accademia, che deve accettare decreti che sanciscono la fine della sua autonomia, del suo essere conversazione privata: come quello della Repubblica cisalpina del 1797, e quello napoleonico del 1810; e prima ancora, come quello di Maria Tere­sa e Giuseppe II, che dà un nuovo assetto alla vecchia Accademia Virgiliana, ex Timidi, nel 1767.

Sotto questo profilo la situazione diventa ancor più complessa e rende pra­ticamente impossibile una descrizione d'insieme.  Le modalità di rapporto del­l'accademia con i potere politico sono infatti estremamente differenziate sia nella sincronia sia nella diacronia.  Si registrano, nella maggior parte dei casi, rapporti di reciproco gradimento, talvolta - come si è detto - di riconosci­mento ufficiale: e non potrebbe essere altrimenti, considerando la forma stessa dell'accademia, in quanto conversazione di nobili e di letterati.  Ma si registra­no pure non pochi casi di conflittualità, scoperta o latente, di situazioni diffì­cili: come nel caso delle accademie romane sotto il pontificato di Paolo li, in quello degli Ortolani di Piacenza, che scompaiono all'arrivo dei Farnese, in quello delle accademie napoletane al tempo del viceré Pedro de Toledo.  Talvolta il rapporto con il potere si fa diretto e organico, anche ben prima dell'avvento della politica delle riforme.  Due casi soltanto, fortemente emble­matici: il primo riguarda la ben nota vicenda dell'Accademia degli Umidi, che solo dopo pochi mesi dalla sua costituzione (con relativa stesura di leggi) è trasformata, per intervento diretto di Cosimo, in Accademia Fiorentina, con un preciso ruolo di controllo e d'indirizzo - centralizzato: strutturalmente «pubblico» - delle attività culturali del granducato, e quindi integrata in un sistema multipolare, accanto all'università e all'Accademia dell'Arti del dise­gno.  Il secondo caso riguarda l'Accademia Palatina di Napoli, promossa per intervento personale del viceré Luis Francisco de la Cerda duca di Medinacoe­li che raccoglie nel «palazzo» (donde il suo nome: ma è anche detta di Medi­nacoeli, a sottolineare ancor più il rapporto genetico di dipendenza), a partire dal 1698, i rappresentanti più autorevoli, giovani e meno giovani, del «ceto civile » napoletano, in un quadro d'iniziativa politica di notevole rilievo e respiro.

Una nettissima discriminante sembra porsi tra accademie private e pubbli­che, tra lo strutturarsi in società regolata e il continuare a riprodurre la forma «conversazione»: un bipartitismo imperfetto ma che, comunque, separa pro­fondamente la fenomenologia accademica.  Da una parte le accademie con am­pia traccia di sé, del proprio lavoro, con quantità anche notevoli di memoria conservata, iscritte nel discorso della storia; dall'altra una serie fittissima, con­tinua, di atti fondativi con pochi indizi, quasi senza memoria: accademie sen­za storia.  E se la discriminante profonda fosse sul piano della capacità di ela­borare un progetto, di assumere consapevolmente il punto di vista del modello culturale, piuttosto che quello delle sue pratiche?  In ogni caso queste tante accademie senza storia fanno parte integrante della storia della forma acca­demia: dicono, pur nell'assenza di un'identità piena, di una voce forte e inte­ramente riconoscibile, tutt'intera la capacità penetrativa e omologante del modello culturale della «conversazione».

Queste distinzioni tipologiche e istituzionali pongono il problema di altre distinzioni, immediatamente materiali, finanziarie, anche: quanto costa un'accademia, e chi ne finanzia l'attività?  Ancora un discorso che non può non tener conto degli elementi differenziali della fenomenologia accademica: un conto è porsi questa domanda per le accademie «pubbliche» e per quelle che hanno una struttura stabile, una sede, cariche, ecc.; e tutt'altro diventa per le private, informali o effimere che siano. Che comunque un'accademia costi poco, meno certamente di altre istituzioni culturali (dell'università, ad esempio) è un dato sicuro: non a caso si consigliavano i principi, nel Cinquecento, a promuo­verle e proteggerle, perché in cambio di un'esigua spesa garantivano un gran­de prestigio, onore e fama, per il mecenate-protettore.  Ma non sempre l'atti­vità accademica è legata alla generosità di un finanziatone: talvolta raccolgono quote associative (per l'Arcadia esiste un'ampia documentazione contabile), oppure si dedicano ad attività editoriali (come la veneziana Accademia della Fama, che elabora un grandioso progetto di stampe, presto fallito; o come la Palatina di Milano, una vera e propria società editoriale per la stampa dei muratoriani Rerum italicarum scriptores).  Il problema non ha solo un aspetto tecnico-finanziario: l'erogazione di contributi da parte di privati o di pubbli­che istituzioni comporta ovviamente una dipendenza, esplicita o dissimulata, e quindi l'integrazione all'interno di un progetto di politica culturale.

L'accademia costa poco, almeno fìno a quando la «nuova scienza» non pone una domanda di strumenti e macchine complessi e costosi.  Ma ben poche sono le accademie scientifiche sede di esperienze: un caso pressoché unico ècostituito dalla fiorentina Accademia del Cimento, che può godere dell'ap­poggio granducale; e per le private si può ricordare l'Accademia Corrara di Venezia, che per le sue ricerche nel campo dell'astronomia può contare sul­l'appassionata e munifica presenza di Girolamo Correr, da cui prende e nome e sede.  Per quanto diventi luogo di conversazioni settoriali, che elaborano e usano un nuovo specifico linguaggio non più «universale» (come predicava il Guazzo), l'accademia scientifica continua a essere prevalentemente una strut­tura di scambio culturale e sociale: anche quando rende pubbliche « lezzioni », « memorie », « atti », produce all'esterno il lavoro compiuto al suo interno.

Istituzione a basso costo, dunque, l'accademia, ma fortemente remunera­tiva: come una festa, un apparato, una macchina celebrativa, esattamente co­me uno dei tanti eventi che percorrono la scena urbana iscrivendo lo spazio e il tempo della festa', spesso direttamente a questi correlata e sovrapposta, l'accademia suscita l'ammirazione, sollecita la « virtù » e l' « onore » di chi vi prende parte, attiva una domanda emulativa. il moto perenne di tanti atti fondativi: pratiche di un modello omologante, eventi di un uso del tempo e dello spazio in senso aristocratico-cortigiano, come virtuosi intertenimenti, onorate conversazioni.  L'atto del riunirsi - formalizzando o non formalizzando il suo statuto - risulta cosí fortemente connotato, ben più che una festa qualsiasi, un qualsiasi intertenimento: il suo essere insieme onorato e virtuoso ne dilata, ne amplifica la fama, la «notizia», ne enuncia tutta la superiorità, la rende indiscutibile.  Da imitare, da riprodurre: un investimento sicuro, in termini di immagine e di prestigio, per chi se ne faccia promotore, animatore.

L'insieme dei 2050 atti fondativi può anche essere scomposto per tipolo­gie interne, per settori d'interesse, per le materie di cui è oggetto la comune conversazione.  Risulta ampiamente dominante, almeno sino alla svolta sette­centesca delle accademie organizzate per «classi», quella forma «universale» di conversazione di cui il Guazzo enuncia la superiorità «civile».  I dati relativi a questa nettissima preponderanza sono i seguenti: 72,6 per cento rispet­to all'insieme delle accademie del secolo XVI, 77,2 rispetto a quelle del secolo XVII, 63,6 rispetto a quelle del XVIII secolo.  Certo, occorre tener conto dei notevolissimi dislivello d'informazione, e soprattutto del fatto che per la massima parte di queste accademie registrate come «universali» si è dovuto pro­cedere a una rubricazione in absentia di notizie utili e particolareggiate: ma che non si sia conservata memoria di interessi specifici non è, forse, indizio del loro del loro praticare una «conversazione» non altrimenti circoscrivibile, del loro essere, appunto, «adunanze» secondo l'immagine che ne produce il Guazzo?  In tutti questi casi riunirsi implica, dunque, una necessità complessiva di rapporto, socialmente e culturalmente connotato; soddisfa una sempre forte e sostenuta domanda di scambio di notizie («letterarie»); attiva la produci­bilità stessa della comunicazione: in termini, pur sempre, di intertenimento, di festa, di gioco.  Le differenze istituzionali e d'apparato sembrano non con­tare: accademie con o senza legge, effimere o stabili, private o pubbliche, si situano organicamente (funzionalmente) sotto il segno dominante. della « civil conversazione», ne dicono la piena pertinenza di territorio - continuo e omo­geneo - di un sapere non ancora separato in pratiche e linguaggi settoriali, non ancora distinguibile in «classi» differenziali.

Un insieme di eventi accademici non solo quantitativamente cospicuo, ma forte soprattutto nel modello che esibisce e riproduce: la centralità delle humanae litterae.

Questo scoperto contrassegno della matrice originaria, della nascita umanistica della forma accademia, trova riscontro, dunque, in una serie formidabile di pratiche che in dettaglio ne articolano la competenza generale (« universale ») in quanto « letteraria conversazione », già dalla stessa fase cinquecentesca: accademie, insomma, che si rivolgono a settori speciali­stici della comunicazione letteraria, come quella della Nuova poesia, a Roma verso il 1535, che sperimenta una metrica «barbara», o come l'Accademia della Chiave d'oro, a Pavia verso il 1546, che si dedica alle lettere classiche o greco-latine, o come ancora l'accademia dei Marinai, a Rimini verso il 1590, che cura l'egloga piscatoria, o quelle degli Addiacciati di Prato, verso il 1550: e dei Sollevati di Treia, verso il 1590, che privilegiano la poesia georgica pastorale.  La specializzazione riguarda anche l'aspetto linguistico, sempre rispetto alla comunicazione letteraria: è il caso, ovviamente, dell'Accademia della Crusca e di quella della Valle di Blenio, verso il 1560, con un'attenzione alla produzione dialettale.

Questa dominanza della «conversazione letteraria» è stabile e continua, e s'intreccia con le funzioni sociomondane proprie della forma accademia in quanto istituzione della festa e del gioco in una società di «nobili» e di «let­terati ». Conferma, insomma, a pieno le dimensioni culturali di questa società, le riproduce, e interamente le connota: questo intertenimento non può che essere in primo luogo «letterario», perché ne cita in ogni suo atto la forma profonda e originaria.  Secondo modalità che si trasformano, nella lunga du­rata: dal primato umanistico e primocinquecentesco del dialogo (della sua pertinenza «filosofica», o comunque di un esercizio molto articolato delle humanae litterae, con una forte discriminante linguistica, anche, di tipo classicistico) alla diffusa produzione accademica - in volgare - di testi collettivi strettamente «letterari», correlati agli statuti dei generi definiti dalla «fon­dazione »/« nascita » della letteratura, e finalizzati alla produzione di « rac­colte» di componimenti vari: poesie, prose, orazioni, testi teatrali, ecc.

L'archetipica «setta di filosofi» è ancora riconoscibile nelle accademie uma­nistiche: non più poi nella selva che si affolla di accademie cinquecentesche.  Letterarie e volgari: come rileva, anche precocemente, nel 1537, un attardato sostenitore del primato classicistico del latino, il Florido, quando polemica­mente critica tutti coloro che solo per aver trascorso pochi giorni a studiare il volgare ardiscono fondare un'accademia ". Sette di letterati, ora: professionisti e dilettanti si riuniscono insieme, per occuparsi «principalmente di let­tere », di «buone e degne lettere», come scrivono il Bargagli e il Guazzo.  La loro «conversazione» è letteraria perché rivolta alla pubblica «lettione» di testi, alla loro censura, alla loro pubblicazione, infine.  A partire dalla fase cinquecentesca, fino a tutto il Settecento, la storia della produzione letteraria s'intreccia profondamente, in modo non sempre districabile, con la storia delle accademie.  La biografia - e l'esperienza intellettuale - di grandi e piccoli pro­tagonisti percorre lo spazio accademico: basti pensare ai casi esemplari di Spe­roni, Tasso, Marino, Loredano, fino alla grande stagione dell'egemonia arca­dica, di un'accademia, cioè, che dà il suo nome, periodizza, una fase della storia letteraria nazionale (e come tale è riconosciuta già dagli «avversari» di secondo Settecento).  Un caso senza dubbio eccezionale, questo dell'Ar­cadia, ma che attesta come tra accademia e letteratura si definisca - per tutta la fase almeno dell'ancien régime - un reticolo, una grata, di scambi, un'economia - reversibile - di rapporti e di sovrapposizioni, un gioco delle parti che interferisce direttamente, e in modo non marginale, sulla storia di alcuni ge­neri: il fenomeno del petrarchismo, la sua diffusione «di massa», la sua fun­zione di strumento elementare (sillabario) per l'accesso all'alfabetizzazione tramite la lingua del padre Petrarca passa in gran parte attraverso l'istituzione accademica, sede primaria di scrittura/lettura/censura; e lo stesso si po­trebbe argomentare per il dibattito teorico sugli statuti della comunicazione letteraria sia in generale (la «poetica» e la «retorica») sia di alcuni generi (il poema ad esmpio, la querelle Ariosto/Tasso); la stessa produzione di testi teatrali (di spettacolo) trova nelle accademie un punto centrale di elaborazione e di riferimento, come mostrano - già nella fase di avvio della storia accade­mica - le vicende degli Intronati e dei Rozzi. Insomma la storia della let­teratura cinque-seicentesca, dal Cortegiano all'Arcadia, potrebbe essere tutta scritta assumendo il punto di vista dell'accademia, la sua centralità. Un in­dizio minimo, infine: essere accademico, di una o più (o di «níuna») istitu­zioni, diventa un contrassegno d'identità, da issare subito nel frontespizio delle proprie opere: non c'è testo a stampa, tra fine Cinque e primo Seicento soprattutto, che non riporti con precisione, con pignoleria quasi, le referenze accademiche del suo autore ".

Se l'accademia umanistica trascrive il suo farsi nel dialogo, citando fedel­mente la forma del modello originario, le sue trasformazioni successive in «conversazione letteraria» producono tipologie testuali diverse Ma omogenee, pur sempre di «buone e degne lettere»: essenzialmente discorsive e poetiche.

 

[……..omissis……….]

 

Sull'originaria istanza socializzante dell'incontro anche piacevole, giocoso, antropologicamente festivo, finisce per prevalere in modo decisivo e irreversibile l'istanza conoscitiva delle competenze e professionalità dei vari soggetti che si riuniscono: per fare accademia, pur sempre.  Ma a partire dalla piena riconoscibilità dello statuto culturale di ciascuno: perché le informazioni che si scambiano siano percorribili, reversibili.  Se accanto alla conversazione si compiono «esperienze», si trasforma la qualità del lavoro accademico e il suo rapporto, in particolare, fra il tempo dell'accademia e il tempo della professione/ruolo sociale, fra interno ed esterno, insomma.  Questi accademici « scien­ziati » non sembrano cercare un'occasione « festiva », un « intertenimento »: al contrario, sembrano prolungare, nelle riunioni accademiche, il tempo e lo spa­zio del loro lavoro , con l'identità professionale di ciascuno, il proprio sapere, la propria competenza.  Per questo, probabilmente, le accademie scientifiche risultano popolate soltanto da «scienziati», e in termini microsettoriali molto forti: i matematici con i matematici, i botanici con i botanici, i medici con i medici, gli astronomi con gli astronomi, ecc.

Questa «nuova scienza» trasforma la conversazione: a metà Seicento ha rapidamente intrapreso la sua traiettoria di fuga non solo dall'unitarietà clas­sico-umanistica del sapere, ma dagli stessi suoi codici linguistici, dalle sue mo­dalità comunicative.  La sua nuova accademia produce un nuovo sistema comu­nicativo, un nuovo linguaggio - matematico, secondo il modello teorico-meto­dologico galileiano, destinato a diventare in breve tempo il vettore di una comunicazione riservata, specializzata: per quanto «accademica» questa nuo­va lingua non potrà che essere interamente differenziale.

Un segnale del progressivo affermarsi della «nuova scienza» sperimentale è dato dalla stessa nominazione accademica: Lincei, Investiganti, Cimento, Traccia, Spioni.  Nomi tutti che intendono esplicitamente, consapevolmente, connotare il nuovo metodo di ricerca, i suoi moduli operativi: issare nel pro­prio del nome collettivo (e trascrivere nel correlato dell'impresa) la forma del lavoro di ciascun membro, il suo strutturale procedere per indizi, investigando le tracce, come una lince, «provando e riprovando ». In questa economia del nome proprio si profila l'immagine di uno scienziato «spia», prende corpo linguistico il suo metodo indiziario.

La trasformazione è irreversibile: nella fase settecentesca i vecchi vessil­li dell'accademia classica (nome e impresa) sono abbandonati.  Non più inven­zioni ingegnose, argute, paradossali: segnali, comunque, del piacere istituzionalmente connesso a una forma accademica costituita in quanto conversazione, segnali anche di un tempo e di uno spazio connotabili in termini festivi.  Nomi ora di uno spazio e di un tempo dedicati, ancora istituzionalmente, al prolun­gamento di un lavoro, al suo farsi pubblico ma non mondano, nel rispetto inte­grale delle competenze professionali settorialmente riconosciute, e ordinate - divise - ora in classi.  Mai più insieme: le belle lettere con le belle lettere, le scienze con le scienze, le arti con le arti.  Non più quindi il bisogno - gio­coso - di rinominarsi, di tradurre il proprio di una competenza all'interno di un insieme, bensì la registrazione fedele, la duplicazione, di quella sola iden­tità nominabile con il proprio del nome, senza ellissi, metafore, obliquità.  Accademia di scienze: l'identità piena e stabile di una disciplina autonoma per statuto e pratiche, di un sapere che riconosce il suo essere separato, anche per linguaggio, atti, gesti comunicativi.

E questo nominarsi diretto mette in questione lo stesso termine «accademia», troppo compromesso con l'ordine sociale ed epistemologico dell'ancien regime, ora che si progettano riforme, rivoluzioni, si agisce e si parla in nome del progresso e della felicità.  Prevale un'istanza denotativa: società, istituto, ateneo.  Anche perché l'accademia, proprio in quanto scientifica, funzionale, cioè, al massimo grado, ad un progetto di progresso, a una politica pubblica della conoscenza e dell'istruzione, stringe forti rapporti con il potere pubblico: l'Istituto delle Scienze di Bologna, fondato nel I712, rappresenta una vera e propria svolta istituzionale, che troverà ampia conferma nell'azione di molti governi «illuminati», che provvederanno a incentivare il lavoro delle accade­mie scientifiche o di quelle «miste» (in cui però la componente scientifica è non solo attestata ma molto rilevante) dal Regno di Napoli, al Lombardo-­Veneto, al Piemonte, allo Stato Pontificio, ecc.  La Repubblica cisalpina e Na­poleone Bonaparte confermeranno pienamente questa tendenza, con i decreti del 1797 e del i8io, e in particolare fisseranno la nuova forma dell'accade­mia: divisa per classi, centralizzata o nella capitale o in una città importan­te, senza impresa, senza fi nome d'una volta, con leggi pubbliche non più atto privato.

La trasformazione coinvolge radicalmente la funzione sociale dell'accade­mia: questo prevalere del lavoro e del suo specifico sapere, questo mirare al progresso, all'utilità pubblica, alla felicità, spiazza definitivamente la vecchia forma dell'accademia-conversazione, « intertenimento » di nobili e di studiosi.  R il tempo, ora, degli scienziati, delle loro competenze: non più per gioco, l'accademia.  Questo nuovo sapere «borghese», con le sue arti, le sue tecniche i suoi mestieri, e le sue scienze, con la sua Encyclopédie, non vuole aver nulla a che fare con l'ancien regime, con la sua stessa ancienne Académie: la nuova si chiamerà istituto, ateneo, società.

 

 

7. La durata.

 

Piú volte si è fatto riferimento alla condizione profondamente differen­ziale dei 205o eventi accademici rubrícati dal Maylender: anche per quanto riguarda la durata, la continuità della loro presenza.  Eventi effimeri s'intrec­ciano a istituzioni che varcano i secoli, stabili e rinnovate: è possibile proce­dere a una ricognizione di questo vasto insieme che sia in grado di organizzare tipologie omogenee di durata accademica?  La risposta non può che essere ne­gativa, almeno sulla base della documentazione del Maylender: la schedatura del suo archivio riesce - e solo parzialmente, come si è rilevato - a segnalare la data dell'atto fondativo, spesso congetturale, per approssimazione, men­tre la registrazione della data di cessazione dell'attività dell'accademia è molto rara, di nuovo - spesso - per approssimazione, congetturale.  Risultano dispo­nibili le due date - di avvio e di chiusura -e talvolta quelle di rilancio, re­stauro, riconversione, ecc., per circa il 30 per cento delle accademie cinque­centesche, per quasi il 25 per cento di quelle seicentesche, per il 30 per cento circa, di nuovo, di quelle settecentesche.

La gran parte degli eventi accademici presenta, dunque, una collocazione cronologica valida per il solo atto fondativo: segno, probabilmente, del loro carattere effimero, spesso risolto interamente nella fase preparatoria, di scelta del nome e dell'impresa; ma segno, pure, della frammentarietà e precarietà di queste tante accademie che nascono per poi - piú o meno rapidamente - spegnersi senza lasciare traccia, senza memoria ulteriore di sé, con discrezione, quasi.  Senza atto di morte, insomma: perché non c'è piú nessuno a certificarlo?                                            

 

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Nelle tipologia delle accademie che prendono il nome da quello del loro fondatore-promotore, si registra una immediata dipendenza dalle sue vicende personali: se il protagonista muore, muore anche l'accademia…..   

 

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…………si possono citare ancora questi esempi di destino fortemente intrec­ciato: gli Argonauti di Venezia non sopravvivono alla morte del loro anima­tore (e finanziatone) Vincenzo Coronelli, l'Accademia Cinica di Zara muore con la morte di Giulio Zaccaria, gli Elevati di Belluno con quella del vescovo Giulio Berlendis, i Filesotici di Brescia con quella del gesuita Francesco Lana conte de' Terzi, i Selvaggi di Bologna con quella di Giovanni Capponi, gli Sni­dati di Rieti con quella di Loreto Mattei, ecc.; e analoga sequenza potrebbe essere proposta per le accademie settecentesche.  Ma la cessazione dell'attività può conseguire anche da eventi d'altro tipo: l'animatore-promotore si trasfe­risce altrove (come nel caso dei Trasformati di Lecce, che chiude quando Sei. piene Ammirato parte, o della Rinaldiana di Napoli, mentre per gli Eterei è il duca Scipione Gonzaga a lasciare Padova e per gli Animosi è Ascanio Marti­nengo; tra le accademie seicentesche: quella della  Traccia di Bologna non so­pravvive alla partenza per Padova di Geminiano Montanari, e i Ravvivati di Siena subiscono irreparabilmente il trasferimento a Roma di Ludovico Ser­gardi, ecc., tralasciando i casi settecenteschi), si fa prete (come nel caso dell'Accademia Salernitana promossa dal duca Annibale Marchese) o va in con­vento (come nel caso dell'Accademia Modenese promossa dal principe Alfon­so, e in quello dell'Orsinia di Solofra istituita da Vincenzo Orsini, che sarà poi papa Benedetto XIII), oppure si mette a lavorare (come nel caso della Cassiana di Modena, promossa dal conte Carlo Cassio), oppure deve subire interventi imprevisti (l'arresto, come nel caso del cardinale Giuseppe Capecelatro pro­motore dell'Accademia Arcivescovile, liquidata dalla rivoluzione napoletana del 1799; o anche la morte violenta, come nel caso di Marco Pio signore di Sassuolo, fondatore dell'Accademia Pia).

La casistica può essere dilatata all'infinito: conta soprattutto rilevare una più generale dipendenza dell'accademia dalle vicende esterne.  L'autonomia del suo spazio e del suo tempo deve continuamente riscontrarsi con il tempo e lo spazio della storia e dei suoi eventi spesso imprevedibili, naturali: la peste, ad esempio, e più in generale la grande crisi intorno agli anni '30 del Seicento (causa profonda, probabilmente, della stessa depressione accademica in questo microperiodo), ma anche le vicende politiche (dalla repressione dei moti del i 647 alla rivoluzione partenopea del I 799, alla proclamazione della Cisalpina, che abolisce praticamente tutte le accademie del suo territorio, alla svolta na­poleonica, ecc.). Il sogno di una repubblica letteraria deve necessariamente fare i conti con le mutazioni spesso violente della realtà.

Ma se questi eventi possono incidere sulla durata dell'accademia, dall'esterno, il suo tempo può essere direttamente iscritto nella forma che assume: di accademia per occasione, ad esempio (come nel caso dei Rinnovati di Tortona, che si riuniscono nel 1620 per i funerali del vescovo, o come in quello dei Ta­citi di Catanzaro che nel 1658 festeggiano la nascita dell'erede al trono di Spa­gna), di accademia stagionale (nel tempo delle vacanze, ad esempio, come nel caso degli Sfaccendati di Ariccia, che si raccolgono nel palazzo Chigi verso il 1672). Ma la durata può diventare effimera anche per motivi imprevisti: i cinque giovani che il 19 settembre 1561, a Viterbo, si recano da un notaio per stipulare l'atto di fondazione dell'Accademia dei Desiderosi, e puntualizzano anche le quote da sottoscrivere, certo non sono in grado di prevedere che di li a poche settimane saranno già in cosí grave disaccordo da dover annullare l'at­to fondativo, facendo ritorno dal notaio Leone Petrocchi il 12 novembre 1561. E cosí pure nessuno dei tanti aderenti al progetto di Istituto Nazionale elabo­rato dalla Repubblica napoletana del 1799 ne auspicava una cosí rapida e bru­tale fine: il sogno di una repubblica, appunto.

Di fronte al dato di un 30 per cento circa di accademie con contrassegni temporali più o meno precisi per quanto concerne almeno l'inizio e la fine della loro esperienza, resta pur sempre da considerare la quota di quel 70 per cento che riesce appena a essere identificato nella pertinenza cronologica dell'atto fondativo (e si consideri come il rapporto si sbilanci ancor più nella fase sei­centesca: 25 di contro al 75 per cento).  Tutte accademie effimere, di breve durata?  Il farsi e il disfarsi senza sosta di iniziative, di presenze, di gesti che vogliono aggregare, riunire in conversazione nobili e studiosi, la forma stessa di questa adunanza, costituiscono senza dubbio un indizio probante che si trat­ta, nella maggior parte dei casi (forse in misura pari a questo 70 per cento), di atti istitutivi che non si assegnano progettualmente il compito di durare, bensí intendono - consapevolmente, forse - soddisfare un'esigenza primaria e im­mediata di fare qui e ora accademia: in quanto pratica sociale della civile con­versazione, di un « intertenimento » culturalmente connotato, occasione di fe­sta e di gioco.

Accademie senza storia perché radicate nel quotidiano, nella forma di rap­porti sociali che assume la virtú a equivalente generale, a paradigma della sua civiltà.  Accademie iscritte nel calendario, insomma: effimere non per motivi contingenti, ma proprio m quanto occasioni comunicative.  E perciò senza trac­ce scritte, senza memoria: il loro esistere non è, forse, per conversare, per situarsi pienamente nel dominio dell'oralità?  Ma a questo sterminato insieme di pratiche che vogliono chiamarsi ed essere chiamate accademia per quanto prive di coordinate temporali (e all'altro insieme, anch'esso cospicuo, delle ac­cademie prive di qualsiasi elemento cronologico, se non genericamente seco­lare) occorre dare pieno senso storico, per non trasformare in interdetto, in cancellazione dall'archivio, l'impossibile loro registrazione nell'ordine tempo­rale della Storia.  È  proprio nella loro diffusa effimera presenza che la forma accademia trova il massimo grado di funzionalità culturale: atti fondativi che enunciano nel loro stesso silenzioso emergere la validità omologante della « ci­vil conversazione», ne predicano le proporzioni di equivalente generale della forma stessa del vivere.  Microeventi, più ancora che microstorie, che si strut­turano in nebulosa: la loro luce per accumulo non si correla, forse, natural­mente alle grandi costellazioni, alle stelle fisse, non si inscrive nello stesso fir­mamento accademico?

 

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8. La geografia

 

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Da Torino a Palermo, insomma, dal Piemonte alla Sicilia il fenomeno sem­bra percorrere tutta la penisola.  Passando anche per Livorno: il suo caso, per quanto particolare, risulta infatti omologo a questi altri prima citati.  Il forte incremento di accademie livornesi tra Sei e Settecento (rispetto a quota zero per il Cinquecento, si hanno 5 e quindi io atti fondativi nei secoli successivi) rinvia direttamente al suo costituirsi in grande emporio culturale, in centro d'interscambio di «notizie letterarie», in vero e proprio porto della «repub­blica letteraria» sino alla stagione dell'Encyclopédie.

Sono rimaste sinora escluse dalla rilevazione tutte le «colonie»: un gran­de fenomeno, pressoché interamente arcadico, che conferma a pieno l'econo­mia centrata della distribuzione accademica sul territorio nazionale'.  Nel corso della sua lunga storia l'Arcadia istituisce ben io i colonie o sottocolonie: una strategia di accentramento che persegue consapevolmente l'obiettivo di ribal­tare la tendenza alla disseminazione autonoma, all'isolamento spesso verticale, alla non comunicabilità dei 227 centri che ospitano le 870 accademie seicen­tesche.  Il modello di «repubblica» che l'Arcadia propone soddisfa le esigenze di decoro e di cultura che la società di fine secolo e di primo Settecento avanza attraverso le parole d'ordine del « buon gusto » e della « razionalità »: le rende pienamente omologanti, depotenziandole di tutte le spinte radicali proprie del­l'esperienza dei « moderni », se non dei « libertini ». L'Arcadia rivitalizza acca­demie spente, organizza gruppi professionali (in molti casi di sacerdoti: in se­minari, collegi, conventi), suscita nuove aggregazioni strettamente - sempre ­collegate alla centrale romana.  Una sola grande accademia: dopo secoli di tra­dizione, dopo tanti atti fondativi, un unico progetto unitario, una « repubblica letteraria » integrata che raccoglie i suoi membri dalle Alpi alla Sicilia, in gran­di città e in piccoli centri.  Centouno sedi della stessa accademia: e la consape­volezza - gratificante - per migliaia di arcadi di esser parte non accessoria di un'unica, omogenea, forma istituzionale.

Poco prima del suo definitivo tramonto l'accademia realizza cosí il suo so­gno di sempre: potersi dire al singolare, riprodurre l'archetipo originario, quel «luogo ombreggiato a un miglio da Atene».  Poi sarà - ben presto, tumultuo­samente, anche - il tempo di altre forme di organizzazione, di rapporto, di scambio culturale, di altri soggetti collettivi nelle pratiche intellettuali: non più accademia, se non come sopravvivenza marginale o consapevole restauro archeologico.  Neppure l'ellittico riferimento arcadico a una classicità fuori del tempo resiste: ridicolizzato, aggredito dall'emergere delle prime forme stori­che dell'avanguardia. 

Non sarà mai più il tempo per recitare, tutti insieme, « et in Arcadia ego ».