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Dante e  i Fedeli d’Amore

[Secondo i canoni interpretativi di U. Foscolo, di G. Rossetti, di G. Pascoli, di L. Valli]

 

Dante e la Divina Commedia

Cronologia di Contorno

 

Di Mauro Novelli

 

[Recupero parziale di appunti risalenti al 1990]

 


Dante e  i Fedeli d’Amore

 

 

Agli inizi del 1200, la Provenza poteva considerarsi  - con la Sicilia – la regione d’Europa più florida e più dinamica. La nobiltà della Francia meridionale aveva saputo approfittare, meglio di altre, delle opportunità culturali, scientifiche e tecnologiche derivanti dai contatti con la civiltà islamica favoriti dalle Crociate.

Anche le concezioni religiose avevano subito salutari ampliamenti e fertili revisioni: i signori di Provenza  e Linguadoca, maldisposti verso la crescente ricchezza ed il superbo strapotere di clero e papato, non disdegnavano di accordare la loro protezione ai movimenti pauperistici ed ereticali (Catari, Valdesi ecc.) in nome del recupero di antichi e più sani principi e di più coerenti valori.

I nuovi stimoli culturali generati dal contatto con l’Islam, coinvolsero certamente anche l’ambiente letterario provenzale: nasceva, prima in Europa, una poesia “laica”. Nelle liriche dei Trovatori (trobar= comporre versi) sotto forme tematiche amorose e cortesi, si dissimulavano giudizi sui valori sociali e valutazioni sui problemi etici generati dalla società feudale.

 

L’influenza della lirica persiana – strutturata da tempo ed affermata in tutto il mondo islamico – è evidente: di ispirazione Sufi, sotto il velo delle narrazioni amorose, suggeriva la superiorità della Sapienza vera (rappresentata e celata dalla figura della donna amata) nei confronti delle soffocanti rappresentazioni ortodosse espresse  dalla mediazione obbligata di istituzioni religiose ormai corrotte.

Doppio linguaggio quello escogitato dai Sufi: d’amore e cortese per il volgo, metaforico e mistico per chi fosse in possesso del codice di decrittazione, disarticolante per ogni forma di imposizione dogmatica dominante, ormai debordante oltre il campo religioso.

Se tale chiave interpretativa è riproponibile per la lirica provenzale, non è difficile intuire le preoccupazioni degli apparati curiali occidentali. Ed infatti il papato reagisce per soffocare quella impostazione gnostica[1] e platonica (e neoplatonica[2]) della concezione religiosa, veicolata in modo capillare dai Trovatori  in tutte le corti di Francia e Italia, compresa quella siciliana di Federico II, da cui si irradiavano le più radicali idee antipapali.

 

Nel 1208, le scorribande della soldataglia aizzata da Papa Innocenzo III contro gli Albigesi causavano la repentina e rovinosa decadenza della Provenza che finiva per perdere per sempre sia l’autonomia politica (a favore della Francia), che l’originalità letteraria: nel 1245, Papa Innocenzo IV vietò lo studio del Provenzale perché “lingua eretica”.

Ma il seme lasciato cadere cominciava ormai a germogliare e la catena non s’interruppe. In Italia (e non solo in Toscana) il “codice” veniva più accuratamente strutturato, la simbolizzazione più riservatamente articolata. Il simbolismo veniva ricondotto a più immediata verosimiglianza con gli affanni di un amore terreno: poteva servire, in caso di accusa, quule migliore scudo per le concezioni, troppo spesso eretiche, nascostamente espresse.

 

Tale Durante (Dante?), fiorentino, tradusse dal provenzale il Roman de la Rose che, dietro il tema usuale della affannosa conquista della donna amata, coglieva pretesti – neanche troppo velati – per condannare la concezione della provenienza divina dei diritti reali e per scagliarsi contro i privilegi della classe nobiliare, la vita da scandalo di un  clero ormai allontanatosi dagli insegnamenti del vangelo, il ruolo ormai traviante dell’apparato ecclesiastico.

Chi era in grado di intendere non poteva che essere un “Fedele d’Amore”, setta i cui adepti si trasmettevano informazioni di carattere politico ed elaborazioni filosofico-religiose (quasi sempre non ortodosse) attraverso lo scambio di componimenti poetici, solo apparentemente umanissimi ed innocenti.

 

Ognuno trattava della “donna amata” (in codice: la sapienza l’intelligenza attiva degli aristotelici, l’intuizione gnostica senza intermediari del divino; ma anche la setta, l’insieme dei Fedeli, l’organizzazione iniziatica); dei “tormenti sentimentali” (i timori di essere scoperti e cancellati prima di poter vedere il trionfo della vera Sapienza); delle “folgorazioni” quando si incontrava lo sguardo della donna amata ( la nuova vita che l’iniziazione permetteva di intraprendere); delle similitudini con le donna amate dagli altri fratelli (le diverse esperienze pur con una univoca meta; della “pietra” che occorre sollevare per scoprire il vero amore (la Chiesa corrotta e corruttrice la cui intermediazione è solo un ostacolo verso il sacro); della necessità di proteggersi contro “Falsosembiante (l’Inquisizione).

 

Quasi tutti i fedeli d’amore ebbero una intensa ed attiva vita politica, schierati sempre contro i rigurgiti feudali e contro l’ingerenza del papato nella vita sociale ed amministrativa dei Comuni.

 

Guido Guinizzelli. Fu giudice a Bologna e podestà a Castelfranco Veneto. Fu bandito dalla sua città per decisione dei Guelfi. Avvertì, nel codice poetico della setta, la freddezza sterile, inefficace e pericolosa di formule ormai ripetute meccanicamente e con scarsa profondità di dottrina filosofica e religiosa sottostante. Modificò pertanto quel codice: non più la semplice celebrazione di maniera dei Fedeli d’Amore tutti ormai in attesa del trionfo della “Rosa” o del “Fiore”, attesa per altro ormai sospetta per l’Inquisizione; occorreva agire e procedere alla esaltazione della ricerca (con più profondo senso filosofico) della divina Intelligenza, della santa Sapienza. In tal modo, l’Intelligenza attiva, unica nell’amore dei Fedeli, prese per ciascuno di essi un diverso nome di donna (Lucia per Guinizzelli, Giovanna per Cavalcanti, Beatrice per Dante, Lagia per LApo GIAnni).

Con Guinizzelli, il vecchio stile diventò “dolce stil novo”.

Più velato nella elaborazione filosofica e religiosa attorno al vero scopo della setta: davanti al volgo ed alla Inquisizione aveva apparenze e nome di donna e meglio si prestava a raffigurare nella poesia l’amata Santa Sapienza.

Più fertile intellettualmente per lo stimolo offerto ad ogni Fedele d’Amore nell’elaborare riflessioni personali e non più stereotipate, intime e non cristallizzate, non di maniera.

Non bisogna parlare apertamente – suggerisce in un sonetto il Guinizzelli – perché se “alcuni degli uccelli” (gli adepti) possono aver ardire, ve ne sono altri che, per loro natura, non possono osare molto… Pertanto è opportuno che “ciò che om pensa non dee dire”.

 

Guido Cavalcanti. Forse il capo della setta. Esiliato ed in odore di eresia, muore dopo un “sopralluogo” in Provenza, viaggio camuffato da pellegrinaggio a Santiago de Compostella. Alta la sua immagine di poeta, misteriosa quella di uomo. Rompe con Dante, tanto che da questi è posto in Purgatorio perché non colpito dalla luce.

 

Dino Compagni. Fu Gonfaloniere di Giustizia; appoggiò Giano della Bella per favorire il coinvolgimento del popolo nel governo della città. Fu l’unico Fedele d’Amore ad avere il coraggio di chiamare la donna amata “Intelligenza”. Fu costretto a ritirarsi a vita privata.

 

Lapo Gianni. Notaio e giudice. Ricordato nel famoso sonetto di Dante: “Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io……

 

Gianni Alfani. Informa, tra l’altro,  di aver incontrato a Venezia tale Madonna di Venegia e comunica – con soddisfazione e sollievo – di averla trovata del tutto uguale alla sua Madonna di Firenze.

 

Francesco da Barberino. Notaio a Bologna e a Firenze. Esiliato, si recò in Francia. Scrisse i “Documenti d’Amore”, una collezione di precetti dettati da Amore ad Eloquenza per risvegliare le dodici virtù che, in un uomo comune “non innamorato”, giacciono addormentate.

 

Cecco d’Ascoli. L’estremista. Studioso di Astrologia ed Alchimia, insegnò all’università di Bologna. Criticò polemicamente la Divina Commedia accusando Dante di aver ipotizzato che l’Amore può anche nascere nell’anima che da esso si è allontanata (Dante si staccherà dai Fedeli d’Amore), mentre secondo Cecco, dall’Amore “non si diparte altro che per morte”.

Condannato per eresia nel 1324, la scampò fino al 1327, quando fu preso ed arso vivo dall’Inquisizione.

 

Dante Alighieri. Politicamente attivo in Firenze fino al suo esilio (1301). Anche la sua donna amata aveva un nome: “la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapevano che si chiamar” (dalla Vita Nuova).

L’incontro di Dante con Beatrice (la vera Conoscenza, l’Intelligenza attiva, la Setta) iniziò Dante alla Vita Nuova. Con Beatrice giunse quasi alla visione di Dio (ultimi canti del Paradiso). Ma per la definitiva più folgorante illuminazione fu necessario superare la Sapienza-Beatrice e pervenire a strumenti più sottili: si fece ricorso (tramite la Contemplazione-S.Bernardo) alla Vergine Madre-Intuizione-Congiunzione col divino. Usando quindi la potenza dell’Intuizione (superiore alla Sapienza-Conoscenza) la mente di Dante fu colpita dalla folgorazione finale.

Nel Monarchia mise a punto il suo pensiero politico. Papato e Impero discendono direttamente da Dio e non devono avere commistioni nel loro procedere per il bene dell’uomo; il primo per il bene spirituale, il secondo per quello materiale. Il libro fu “abbrusciato” nella pubblica piazza dal Cardinale Del Poggetto che fece ricercare, invano, la sepoltura del poeta per disperderne le ossa.

Quanto alla Divina Commedia, ne fu vietata la pubblicazione a Roma e, successivamente, nello Stato Pontificio: occorrerà attendere la metà del ‘700 perché  venisse stampata da un editore romano, il quale prudentemente indicò Napoli come luogo di edizione.

 

Francesco Petrarca. In uno dei suoi primi sonetti chiedeva a Cecco d’Ascoli (il grande Ascholan), con grande reverenza, se avesse mai potuto morire felice contemplando l’Amore di Madonna finalmente trionfante. Cecco rispondeva che, vista la malvagità dei tempi, anche al Petrarca non sarebbe restato ormai che disperare per il trionfo della donna amata, dalla quale lui stesso, Cecco, “ va traendo guai sotto il suo velo” per i gran tuoni che vengono da grande altezza (la feroce reazione della Chiesa che lo fece ardere vivo).

 

Giovanni Boccaccio. Per salvare la Divina Commedia fornì (per i primi sedici Canti) un commento “positivo”, senza far cenno ai codici sottostanti in grado di permettere la traduzione delle teorie controcorrente – al limite dell’eresia - di Dante.

Più volte, in vari sonetti, tornerà sull’inganno da lui perpetrato ai danni del volgo nascondendo le vere concezioni dantesche sia in campo teologico che politico.

 

 


 


DANTE E LA DIVINA COMMEDIA

 

 

Un po’ di numerologia.

 

100 Canti, uno di proemio, e 33 per ciascuna delle 3 Cantiche.

Endecasillabi strutturati in terzine incatenate.

Il viaggio si svolge in 7 giorni, quanti quelli della creazione. Inizia l’8 aprile del 1300 , venerdì santo.

3 sono le guide che accompagnano Dante nel viaggio: Virgilio, la Conoscenza colta; Beatrice la Conoscenza illuminata; S. Bernardo, la Conoscenza mistica.

3 sono le purificazioni necessarie per giungere alla visione di Dio: nell’Inferno la purificazione del corpo; nel Purgatorio quella dell’anima; nel Paradiso quella dello spirito.

3 sono i Canti che hanno il primo verso in latino, uno per ciascuna Cantica, le quali hanno tutte l’ultimo verso terminante in “stelle”.

3 sono le belve incontrate dal poeta. 3 i gradini per salire in Purgatorio.

7 sono i vati ricordati nel poema. 7 i suoi sogni.

9 sono i cerchi infernali, 9 le cornici del Purgatorio con il Paradiso Terrestre; 9 i cieli del Paradiso prima dell’Empireo.

 

Altrettanto curiosa l’analisi delle rime finali dei versi[3].

Con la parola “Papa” non termina alcun verso.

Con “Chiesa” 1 verso, nell’Inferno.

Con “Rosa” 1 verso, nel Paradiso.

Con “Donna 3 versi, tutti nel Paradiso.

Con “Fiore” 5 versi, 1 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso.

Con “Amore”  26 versi, 4 nell’Inferno, 10 nel Purgatorio, 12 nel Paradiso.

Con “Cristo” 12 versi, tutti nel Paradiso.

Con “Spirito Santo” 4 versi tutti nel Paradiso.

Con Maria 8 versi, 4 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso.

Con “Luce” 9 versi.

Con “Virgilio” 3 versi.

Con “Beatrice” 9 versi.

Con “Dio” 3 versi nell’Inferno, 6 nel Purgatorio (2 terminanti in “Deo”), 9 nel Paradiso.

Con “Stelle” 12 versi.

 

E’ il viaggio metaforico della vita dell’uomo; individua gli strumenti e le aspirazioni di una esistenza non limitata da una visione costretta. Ma rappresenta anche il rifugio spirituale dalla traversie patite per l’esilio, comunque un conforto contro il disordine spirituale  e morale del mondo all’inizio del ‘300, disordine generato dalla commistione dei due poteri (Papato e Impero) generata dalla usurpazione delle Chiesa contro il potere secolare. A fronte di tale disordine, il viaggio rappresenta il cammino (iniziatico) da percorrere per pervenire al bene ricomposto (spirituale e terreno).

Il viaggio dell’uomo è affiancato da tre guide: Virgilio (sapiente e non potente), Beatrice (sacra e non santa), S. Bernardo (contemplativo e non razionale).

Con Virgilio, “per phylosophica documenta”, si potrà giungere alla serenità terrena consapevoli delle debolezze umane (Inferno), ma anche degli strumenti intellettuali  per superarle (Purgatorio).

Con Beatrice, “per documenta spiritualia”, si perverrà ad una felicità ultraterrena, inseriti nell’armonia del creato (Paradiso).

Ma se sono queste le aspirazioni massime di un uomo pur saggio, non possono esserlo per un iniziato. Per Dante, Fedele d’Amore, non può bastare l’essere inserito nell’armonia cosmica ed in essa aver trovato collocazione. In essa vuole infatti perdersi, rifondendo e stemperando il suo Amore nell’Amore universale, che non ha frazionamenti, distinzioni o individualità.

E infatti, nel XXXI Canto del Paradiso, ammirato con inesprimibile stupore il manifestarsi ed il collocarsi dei Beati, Dante si allontana anche da Beatrice. La Sapienza, pur se illuminata, non può oltre: per la visione terminale occorrono strumenti più sacralmente sottili.

E’ attraverso S. Bernardo di Chiaravalle - la Contemplazione – che gli verrà offerto un più potente strumento: la conoscenza mistica ed intuitiva, la sapienza cosciente e fusa col divino simboleggiate dalla Madonna.

Beatrice riprende, tra i Beati, il posto che le compete nel terzo Giro accanto a Rachele (da sempre il simbolo della Conoscenza). Sebbene lontanissima – quanto un uomo in fondo al mare potrebbe vedere lontana la regione dove si scatenano i temporali – Dante vede netta l’immagine della donna riflettere i raggi divini (gnosticamente, senza intermediari): la sua figura è cristallina, non deviata o appannata da mezzi intermedi frapponentisi, da strutture mediatrici che ne attenuino o ne mistifichino la limpidezza agli occhi di colui che la sta osservando:

 

“ma nulla mi facea, che sua effige

non discendea a me per mezzo mista”

 

E Dante ringrazia Beatrice per avergli mostrato le vie, non della santità, ma della libertà intellettuale:

 

Tu m’hai di servo tratto a libertade

per tutte quelle vie, per tutt’i modi

che di ciò fare avei la protestate.

 

Per voce di Bernardo, nel canto XXXII, Dante ribadisce la sua concezione teologica, mirante a considerare le mediazioni sovrastrutturali tra l’umano ed il divino come non confacentesi al cammino verso la massima sacralità spirituale. Una volta superati gli insufficienti strumenti forniti dalla Sapienza iniziatica (la Donna), occorre accedere a quelli offerti dalla Sapienza intuitiva (la Madonna). La Donna gli ha certamente permesso la contemplazione della ”candida rosa”, ma non lo fornisce della forza necessaria per condurlo alla intuizione del “primo amore”:

 

Riguarda omai nella faccia che a Cristo

più si somiglia, che la sua chiarezza

sola ti può disporre a veder Cristo.

 

Prima di innalzare la sua ode alla Madonna perché conceda a Dante la visione finale, Bernardo rivolge una ultima raccomandazione al poeta: lo invita ad accantonare gli strumenti razionali e ad adottare il sentire del cuore:

 

Veramente, ne forse tu t’arretri

movendo l’ali tue, credendo oltrarti,

orando grazia convien che s’impetri;

 

grazia da quella che puote aiutarti;

e tu mi seguirai con l’affezione

si che dal dicer mio lo cor non parti.

 

L’ultimo Canto si apre con l’inno più bello e, al tempo stesso e come rasentando la profanazione, più fertile di considerazioni filosofico-teologiche di tutto il poema:

 

Vergine madre, figlia del tuo figlio

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

 

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

E’ la definizione dell’amore più alto, senza limiti, non concepibile razionalmente: vergine e madre, figlia del figlio, umile e alta. In esso tutto è compreso: lo Spirito Santo (etterno consiglio), il Cristo (l’umana natura), il Padre (il suo fattore).

[Tria sunt mirabilia – affermavano i Rosa+Croce – deus et homo, mater et virgo, trinus et unus].

Alcuni commentatori considerano le terminazioni dei versi 3, 4 e 5 delle due terzine appena riportate quale definizione della Trinità: consiglio, natura, fattore. Ma perché allora tralasciare la terminazione del 6° verso (sua fattura)? Il creato, il cosmo non può essere trascurato e riconduce all’unità la Trinità. Considerandolo, potremmo interpretare (gnosticamente o neoplatonicamente): l’amore universale che armonizza ed esaurisce in sé lo spirito e l’uomo, il fattore primo e il creato.

Ed è proprio a cagione di quell’Amore e della sua fertilità (ventre, caldo e pace) che è prodotto il “fiore” (la candida rosa o, la chiesa rinnovata dei fedeli d’Amore, il “loro” fiore?):

 

nel ventre tuo si raccese l’amore

per lo cui caldo nell’etterna pace

così è germinato questo fiore.

 

Bernardo continua osannando le virtù della Madonna: fiaccola ardente di carità, fontana vivace di speranza, infusa di magnificenza, di misericordia di pietà. Terminata l’implorazione, Bernardo avverte la benevola intenzione della Madonna di intercedere e fa cenno a Dante di “guardare” in alto. Ma, procedendo prima del cenno del santo, il poeta si è già avvicinato, ha già predisposto l’animo per la tensione massima del desiderio, “come dovea” e non come Bernardo voleva; non solo, ma vuole avvertire di aver superato anche l’intermediazione dell’ultima guida per disporsi alla folgorante intuizione finale: è solo, e non è interessato a spiegarci come siano scomparsi da questo processo alchemico finale sia S. Bernardo che la Madonna:

 

E io che al fine di tutti i disii

appropinquava sì come io dovea

l’ardor del desiderio in me finii.

 

Bernardo m’accennava e sorridea

perch’io guardassi suso; ma io era

già per me stesso tal quel ei volea;

 

ché la mia vista, venendo sincera

e più e più intrava per lo raggio

dell’alta luce che da sé è vera.

 

E come dopo un sogno bellissimo resta nel cuore impressa la sensazione di piacere anche se il ricordo (inutile) dei particolari non torna, razionalmente, alla memoria, così il poeta:

 

cotal son io, che quasi tutta cessa

mia visione, ed ancor mi distilla

nel core il dolce che nacque da essa.

 

Dante, aiutato dalla capacità sempre più acuta di intu-ire, penetra l’essenza di Dio ri-congiungendo a questa la sua; comprende il nodo con il quale l’Amore lega quel “tutto” che la mente umana deve squadernare  (in sustanze e accidenti) perché il macrocosmo risulti comprensibile ad essa ed al suo intelletto:

 

E mi ricorda ch’io fui più ardito

per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi

l’aspetto mio col valore infinito

----------------------

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna;

 

sustanze e accidenti e lor costume

quasi con flati insieme, per tal modo

che ciò ch’io dico è un semplice lume.

 

La forma universal di questo nodo

Credo ch’io vidi, perché più di largo,

dicendo questo, mi sento ch0i’ godo.

 

Gli par di vedere tre cerchi concentrici, di tre colori ma di unica sostanza; come in un arcobaleno, due si riflettono l’un con l’altro, il terzo di fuoco, spirante sui primi e dai primi.

Dante fissa ancor di più lo sguardo nell’immagine e con tale intensità che, in uno dei primi due cerchi individua i contorni, raffigurati come dipinti e inspiegabilmente contenuti, di una immagine umana: il Cristo. O l’Uomo?

 

Quella circulazion che si concetta

Pareva in te come lume riflesso,

dalli occhi miei alquanto circumspetta,

 

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta della nostra effige;

per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

 

Nello sforzo parossistico teso a  comprendere questo mistero ultimo, la mente di Dante è percossa da una fulgidissima luce, come di lampo, e per un istante è permesso al poeta di avvertire quel che la sua mente voleva comprendere, gli è permesso il raggiungimento dello scopo primario e finale:

 

ma non era di ciò le proprie penne:

se non che la mia mente fu percossa

da un fulgore in che sua voglia venne.

 

[ Due sono, nell’ultimo Canto,  le similitudini notevoli, entrambe venate di vaga trasgressività, per la collocazione prossima alla intuizione divina. La prima perché di contenuto pagano: è il ricordo degli Argonauti e della loro nave che, per prima, proiettò la sua ombra nel regno di Nettuno. La seconda perché di contenuto scientifico: mira a porre in evidenza gli affannosi limiti intellettuali dello scienziato, del geometra intento a ricercare – invano – la legge che regola il rapporto tra la circonferenza ed il suo diametro. Dal mythos (la prima), al logos (la seconda) per giungere allo ieros (l’intuizione finale del sacro).]

 

 Ma neanche la “fantasia” si dimostra sufficientemente potente ed adeguata (l’intelletto da tempo è stato superato). E se prima era messa alla prova nel tentativo di comprendere quella realtà squadernata, ora, “volere razionale “ e “aspirazione intuita” pesantemente umani se distinti, si stemperano e si armonizzano, coinvolti da quell’Amore che tutto armoniosamente muove con moto uniforme e circolare - ben diversamente dalle pulsioni umane, che spingono a irregolari moti rettilinei obliqui e non uniformi.

E’ ormai perfetto, nell’Uomo, l’equilibrio cosciente tra materia e spirito, tra volontà e desiderio, ricomposti nell’unità del tutto. Perché i moti dell’anima, pur ampi e rapidi, sono ricompresi nel moto uni-verso del cosmo. Perché a reggere ed a dirigere queste potenzialità è l’Amore che in sé tutto stempera e tutto contempera.

 

All’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgea il mio disio e ‘l velle

si come ruota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

 

Sono convinto che se avessimo qualche lustro a disposizione per poter utilmente apprendere di scolastica, di Tomistica, di Aristotelismo, di Gnosticismo, di Neo-platonismo di Teologia, di Etica di Retorica, di Logica ( e via studiando) saremmo in grado di trovar (non solo per gli ultimi Canti) le ragioni   che convinsero il Cardinale Del Poggetto a voler disperdere le ossa di Dante.

Ma è questo il nostro scopo?

Non sarà più utile riflettere per brevi attimi ma col cuore per ricordare, con la mente per rammenatare, con le membra per rimembrare e occupare noi stessi nella lettura della Commedia, con l’animo incline a raccogliere la raccomandazione che Bonaventura – nel suo “Itinerarium mentis in Deo” – offre a quanti hanno in animo di intraprendere quel viaggio trasmutante:

 

“ Interroga la Grazia e non la Dottrina, il Desiderio e non la Ragione, il grido della preghiera e non lo studio delle lettere, lo sposo e non il maestro, l’ombria mistica e non la chiarezza, non la luce ma il fuoco che tutto infiamma e, nel rapimento dell’ardentissimo affetto, ci trasporta in Dio”.

 

Ma se si fosse attardato a riflettere ecumenicamente coi Padri della Chiesa meglio che a razzolar tra l’ossa scarnificate dei morti, chi ricorderebbe oggi l’apostolica e pericolosa inutilità del cardinale Bertrando Del Poggetto, Principe di Santa Romana Chiesa, amante sì del fuoco ma per raggiungere scopi ben diversi da quelli anelati da Fra’ Bonaventura?

Della Divina Commedia non si interessò: l’interpretazione sottile era, per lui come per il volgo, troppo sottile: quella grossolana satollava tutti a sufficienza.

Ben più vistosa, di facile intendimento per S. E. Bertrando la manifesta e pericolosa eresia del “Monarchia”, abbrusciato sulla pubblica piazza nel 1329.

 


 


 

CRONOLOGIA DI CONTORNO

 

910                  Ordine di Cluny (Benedettini riformati)

1030    (I)        Morte di Bruni. Medico, fisico, astronomo, mtematico, geografo, storiografo.

1037    (I)        Morte di Avicenna

1050                Scuola di medicina a Salerno

1067    (I)        Fondazione dell’Università di Bagdad

1085                Presa di Toledo. Inizia la riconquista della Spagna

1090-1153        Bernardo di Chiaravalle

1098                Ordine Cistercense

1099                Prima Crociata e conquista di Gerusalemme

1100 - 1200      Movimenti ereticali e pauperismi: Valdesi, umiliati, Catari

1118 – 1312      ordine dei templari

1126-1198 (I)   Averroè

1144    (E)        Morte di Guglielmo di Norwich. Inizio delle accuse di omicidio rituale contro gli Ebrei

1158                Fondazione dell’Università di Bologna.

1165 circa        Fondazione della Sorbona

1187    (I)        Riconquista araba di Gerusalemme

                        1208                Crociata contro gli Albigesi promossa da Papa Innocenzo III. Repentina decadenza della Provenza, la regione più ricca d’Europa

1209                Ordine dei Francescani

1212-1250        Federico II

1214-1292        Ruggero Bacone

1215                Ordine dei Domenicani

                       Quarto Concilio Lateranense: obbligo del distintivo giallo per gli Ebrei; condanna delle eresie valdese e catara; dogma della transustansazione.

1221-1274        Bonaventura da Bagnoregio

1225 -1274       Tommaso d’Aquino

1229    (I)        Morte di Yaqut, geografo.

1235 -1315       Raimondo Lullo

 

1265 – 1321      DANTE ALIGHIERI

 

1267 - 1337      Giotto di Bondone

1275 -1342       Marsilio da Padova

1285 -1314       Filippo il Bello

1290    (E)        Espulsione degli Ebrei dall’Inghilterra

1294 -1303       Pontificato di Bonifacio VIII

1300                Muore Guido Cavalcanti

1304 - 1374      Francesco Petrarca

1305 - 1314      Pontificato di Clemente V

1306    (E)        espulsione degli Ebrei dalla Francia

1308 -1313       Enrico (Arrigo) VII di Lussemburgo

1313 -1354       Cola di Rienzo

1313 -1375       Giovanni Boccaccio

1314                 J. De Molay al rogo con gli ultimi Templari. Pontefice Clemente V. Re di Francia Filippo il Bello.

1316-1334         Pontificato di Giovanni XXII

1329- 1384        John Wycliff     

1337/1453        Guerra dei 100 anni tra Francia e Inghilterra

1348   (E)          Persecuzione degli Ebrei in Germania e e primo isolamento nei ghetti

1353   (I)          Viene ultimata la costruzione dell’Alhambra

1369 -1415        Jan Hus

1483 -1546        Martin Lutero

1492   (E)          Espulsione degli Ebrei dalla Spagna

1492                 Scoperta dell’America   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Gnosticismo: A) Trascendenza assoluta del divino: nessun contatto e/o passaggio è possibile da lui al creato.

B) poiché la materia non è passibile di alcun rapporto con Dio, tra l’infinito ed il finito deve essere compresa una serie di esseri degradanti in purezza e perfezione, gli Eoni (Cristo è uno di questi, come l’anima umana) responsabili della creazione materiale e del suo “funzionamento”.

C) La salvezza dell’uomo, immerso nella materia ma con reminiscenze del pleroma originario consiste nel superamento dei ceppi materiali e nel tendere dell’anima al ricongiungimento finale nel “tutto”.

[2] Neoplatonismo: A) trascendenza assoluta del Principio Primo, inaccessibile ad ogni esperienza sensibile o intellettuale che non sia intuizione folgorante.

B) Ineffabilità del Principio Primo, definibile solo per negazione: fonte di ogni ente è essostesso un non-ente.

C) Infinità del Principio Primo: non ha limiti né determinazioni assegnabili o descrivibili.

D) La salvezza dell’uomo procede attraverso il tentativo di cancellazione della differenza tra l’individuo ed il tutto cosmico e non già nella presa di coscienza del suo posto – ben distinto e definito – nell’universo

[3]- Il rimario in mio possesso risale al 1928. Si tratta dell’elaborato di Luigi Polacco, inserito nell’edizione della Divina Commedia commentata da Giuseppe Vandelli.