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FERMO E LUCIA
di Alessandro Manzoni
INTRODUZIONE
( PRIMA INTRODUZIONE CONTEMPORANEA ALLA STESURA DEI PRIMI
CAPITOLI)
«La Storia si
può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte: poiché
richiamando dal sepolcro gli anni già incadaveriti, gli passa di nuovo
in rassegna, e li ordina di nuovo in battaglia: onde i perspicaci ingegni che
in questo arringo raccolgono palme conservano al loro nome quella
immortalità che agli altri conferiscono. Ma questi nobili campioni della
memoria non fanno all'obblio se non furti splendidi e rapiscono soltanto le
spoglie le più ricche e brillanti, imbalsamando coi loro inchiostri i
fatti dei prencipi e potentati, e personaggi, tessendo come in feral tela le
battaglie, e trapuntando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta
che formano un perpetuo ricamo di azioni gloriose. Però non essendo alla
debolezza del mio ingegno concesse queste vittorie, ed avendo io osservato nel
lungo giro dei miei anni molte e straordinarie vicende le quali mi sono
sembrate degne di memoria, ma di memoria defraudate saranno e per essere
avvenute in gran parte a persone meccaniche e di bassa condizione e non avere
portata mutatione nelle ruote degli stati: ho stimato di lasciarne una
ricordanza ai posteri o almeno ai miei discendenti, collo scolpirle in queste
carte, parendomi che le cose private di questi tempi sieno meritevoli di quella
osservazione che i dotti danno alle cose mostruose, perché in picciolo teatro
vi si veggono luttuose tragedie di calamità, e scene di malvagità
grandiosa. Onde si vede esser vero quel detto che il mondo invecchiando
peggiora, ma non credo che sarà vero d'ora in poi, perché avendo il male
ormai passato i termini della comparazione, ha toccato l'apice del superlativo,
e il pessimo non è di peggioramento capace. Si vedrà anche come
l'umana malizia ha saputo superare tutti i ritegni, e spezzare tutti i freni
più ben temprati, avendo potuto moltiplicare ogni sorta di sevizie,
perfidie ed atti tirannici a dispetto delle leggi divine ed humane. E
considerando che questi stati sieno soggetti alla Maestà del re
Cattolico che è quel sole che mai non tramonta, e che sovra di essi con
riflesso lume qual luna risplenda chi ne fa le veci, e gli amplissimi senatori
quali stelle fisse vi scintillino, e gli altri magistrati come erranti pianeti
portino la luce in ogni parte, venendo così a formare un nobilissimo
cielo, si vedrà che gli atti tenebrosi che a malgrado di tante
provvidenze si sono moltiplicati essere altro non possono che arte e fattura
diabolica, poiché l'humana potenza del male bastare a tanto non dovrebbe.
Narrando adunque come fedele spettatore li accidenti singolari da me osservati,
tacerò per degni rispetti molti nomi di personaggi e di luoghi che
potrebbero servire come di indizio e di guida a trovare i personaggi nel covile
oscuro della dimenticanza: né per ciò si dirà che questa sia
imperfezione alla suddetta mia storia; a meno che non fosse letta da persone
ignare della filosofia, e gli uomini dotti ben vedranno che nulla manca alla
sostanza; perché essendo fuori di ogni dubitazione che il nome altro non
è che purissimo accidente...».
Aveva
trascritta fino a questo punto una curiosa storia del secolo decimosettimo,
colla intenzione di pubblicarla, quando per degni rispetti anch'io stimai che
fosse meglio conservare i fatti e rifarla di pianta. Senza fare una lunga
enumerazione dei giusti motivi che mi vi determinarono, accennerò
soltanto il vero e principale. L'autore di questa storia è andato
frammischiando alla narrazione ogni sorta di riflessioni sue proprie; a me
rileggendo il manoscritto ne venivano altre e diverse; paragonando
imparzialmente le sue e le mie, io veniva sempre a trovare queste ultime molto
più sensate, e per amore del vero ho preferito lo scrivere le mie a
copiare le altrui; stimando anche che chi ha una occasione per dire il suo
parere sopra che che sia non debba lasciarsela sfuggire.
Le mezze
confidenze del narratore e le ommissioni frequenti dei cognomi dei personaggi,
e dei nomi dei luoghi, non fanno a dir vero oscurità: veggio nullameno
per esperienza che sono fastidiose a chi legge, e avrei desiderato trovare
altrove ciò che è solamente indicato nel manoscritto, ma non mi
venne fatto: in qualche luogo però le indicazioni di luogo sono
così chiare e moltiplici che il nome si è potuto trovare
certamente e facilmente, ed allora l'ho scritto.
È qui
il luogo d'antivenire un'accusa la quale per grave e pericolosa ch'ella sia,
potrà leggermente esser data a questo scritto: cioè che non sia
altrimenti fondato sopra una storia vera di quel tempo, ma una pura invenzione
moderna. Prego coloro i quali fossero disposti ad ammettere questo sospetto, a
riflettere che essi verrebbero ad accusare l'editore niente meno che di aver
fatto romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale
ha gloria di non averne o pochissimi. E benché questa non sia la sola gloria
negativa di questa nostra letteratura pure bisogna conservarla gelosamente
intatta, al che ben provvedono quelle migliaja di lettori e di non lettori i
quali per opporsi a ogni sorta d'invasioni letterarie si occupano a dar se non
altro molti disgusti a coloro che tentano d'introdurre qualche novità.
Oltre di che questo genere, quand'anche non sia altro che una esposizione di
costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati è altrettanto falso e
frivolo, quanto vero e importante era ed è il poema epico e il romanzo
cavalleresco in versi. Per queste ragioni ognun vede quanta debba importare
all'editore di allontanare da sé questo sospetto. Certo, il migliore espediente
sarebbe di mostrare il manoscritto, ma a questo egli non può indursi per
altri e pur degni rispetti. Il più degno dei quali si è, che se
il manoscritto fosse mostrato a pochissimi ed amici, l'incredulità durerebbe,
e se a molti si diffonderebbe l'opinione che la vecchia e originale storia
è molto meglio scritta che la nuova e rifatta, che v'era in quella un
certo garbo, una certa naturalezza, un sapore di verità, un'aria di
contemporaneità che è svanita affatto nella copia. Si direbbe che
veramente il reo gusto del secolo si fa sentire nello stile del vecchio
scrittore ma che però vi è una certa fragranza (dico bene?) di
lingua che ben fa vedere che di poco era spirato quell'aureo cinquecento, quel
secolo nel quale tutto era puro, classico, lindo, semplice, nel quale la buona
lingua si respirava per così dire coll'aria, si attaccava da sé agli
scritti, dimodoché, cosa incredibile e vera! fino i conti delle cucine e gli
editti pubblici erano dettati in buono stile. Che se nel secolo susseguente
tutto si alterò, almeno almeno la corruttela non era straniera, era un
lusso un abuso delle ricchezze patrie, una sazietà del bello o almeno
non si leggevano ancora libri francesi, perché la Francia non aveva ancora
quegli insigni scrittori che per disgrazia delle lettere ebbe dappoi.
Non volendo
adunque mostrare il manoscritto originale, ha l'editore pensato un altro mezzo
per convincere i lettori della realtà di questa storia. I dubbj su di
essa non possono nascere da altro che dal non trovare verità nel
costume, nei fatti, e nei caratteri del tempo rappresentato: poiché se si
venisse a concedere che questa verità si trova, allora il dire che la
storia è inventata potrebbe quasi quasi parere più che un biasimo
una lode, dal che bisogna guardarsi ben bene. Ora per certificare i più
increduli che i costumi sono veramente quelli del tempo, l'editore propone loro
di fare ciò ch'egli stesso ha fatto per giungere a questo convincimento.
A dir vero molte gli parevano tanto strane, ch'egli non sapeva risolversi a
crederle realmente avvenute, perloché si pose a frugare molto nei libri e nelle
memorie d'ogni genere che possono dare una idea del costume e della storia
pubblica e privata del Milanese nella prima metà del secolo decimosettimo.
Tutte le sue ricerche lo condussero a risultati talmente somiglianti a
ciò che egli aveva veduto nel manoscritto che non gli rimase più
dubbio della veracità della storia che vi si contiene. Per comodo di chi
volesse rifare queste ricerche egli pone qui una scelta delle letture opportune
a mettere chicchessia in caso di giudicare da sé questo fatto.
Nota di
libri, memorie etc.
......
Ma di questi
libri, dirà taluno; alcuni sono difficili a ritrovarsi, e la più
parte nojosi a leggersi, e scritti in uno stile tra il goffo e il lezioso, tra
il barbaro e il pedantesco. Alcuni poi sono in latino e come pretendere che si
leggano libri latini per convincersi se una storia è vera o supposta?
Chi non sa che le signore non imparano pur troppo il latino, e che le signore
appunto sono quelle che più si dilettano di leggere storie private?
dimodoché i mezzi di fare questa verificazione sarebbero appunto interdetti a
chi più probabilmente avrà letta la storia. Rispondo anche a
questa obbiezione, pregando il lettore a non farmene più altre per non
farmi perdere il tempo in ciarle, e ritardare così quello che importa
cioè il racconto.
Rispondo
dunque: che fra i pochi lettori di questa storia, vi saranno certamente molti,
i quali benché virtualmente sappiano che nel passato vi sono stati gli anni
1628-29 e -30, non hanno però mai pensato a questi anni, e che molto
meno sanno che cosa in quegli anni si facesse, come si vivesse, se vi sia stato
un po' di fame, di guerra, e dl peste, e di quelle altre coserelle che si vedranno
in questa storia. Questi ch'io dico penseranno dunque a quest'epoca per la
prima volta leggendo questa storia, e da essa ne ricaveranno tutte le notizie.
E appena avranno letta qualche pagina cominceranno a trovare che la tal cosa
non è verisimile, che la tal altra non ha il colore del tempo e simili
scoperte. Ora fra questi lettori scommetterei che forse non vi sarà una
sola signora. In generale elle non conoscono la maniera dotta e ingegnosa di
leggere per cavillare lo scrittore, ma si prestano più facilmente a
ricevere le impressioni di verità, di bellezza, di benevolenza che uno
scritto può fare; quando non vi trovino nulla di simile, chiudono il
libro, lo ripongono senza gettarlo con rabbia, e non vi pensano più.
Sicché io confido che la veracità di questa storia esse la sentiranno
senza discuterla, che non si divertiranno a sottilizzare per trovare il falso
dove non è; e per conseguenza la nota riportata di sopra è
affatto inutile per loro.
V'è
poi un'altra obbiezione che non si può lasciare senza risposta, una
obbiezione che l'editore farebbe a se stesso quando fosse certo che non
verrà in capo a nessuno. La pubblicazione di questa storia non è
cosa affatto inutile, non è una occasione di far perdere qualche ora a
pochi lettori? Lettori miei, se dopo aver letto questo libro voi non trovate di
avere acquistata alcuna idea sulla storia dell'epoca che vi è descritta,
e sui mali dell'umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può
facilmente arrivare per diminuirli e in sé e negli altri, se leggendo voi non avete
in molte occasioni provato un sentimento di avversione al male di ogni genere,
di simpatia e di rispetto per tutto ciò che è pio, nobile, umano,
giusto, allora la pubblicazione di questo scritto sarà veramente
inutile, l'obbiezione sarà ragionevole, e l'editore avrà un
dispiacere reale del tempo, e che ha fatto gittare agli altri, e del molto
più che egli stesso vi ha speso.
INTRODUZIONE RIFATTA DA ULTIMO
«L'Historia
si può veramente chiamare una guerra meravigliosa contro la Morte;
perché togliendoli di mano gl'anni già suoi prigionieri, anzi già
fatti cadaveri, li chiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo
in battaglia. Ma li illustri Campioni che in tal arringo fanno messe di palme,
rapiscono soltanto le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando coi
loro inchiostri i fatti de Prencipi e Potentati e qualificati Personaggi,
tessendo come in feral tela i conflitti di Marte, e trapontando coll'ago
finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un perpetuo ricamo di
azzioni gloriose. Però alla mia debbolezza non è lecito
solleuarsi a tal argomenti, e sublimità pericolose; essendo che la
Politica rinchiusa nelli latiboli delli Gabinetti come la Dea cacciatrice
negl'horrori del fonte, secondo che attesta Ouidio, se qualche Atteone spinge
lo sguardo troppo curioso a spiare i suoi segreti, sprizzandoli l'acqua
misteriosa nel fronte, lo tremuta in ceruo, con diuenir bersaglio de veltri.
Solo che hauendo io hauuto notitia di fatti degni di memoria, auuegnaché
successi a gente meccaniche et di piccol affare, ho stimato bene di lasciarne
una ricordanza a posteri con scolpirli in queste carte. Nelle quali si vedranno
in piccol teatro luttuose Traggedie di calamità, et scene di
malvaggità grandiosa, con intermezi di imprese virtuose, et bontà
angeliche che s'oppongono all'operationi diaboliche. Et veramente considerando
che questi Stati sijno soggetti alla Maestà del Re Cattolico, che
è quel Sole che mai non tramonta, et che sopra di essi, con riflesso
lume, qual Luna non mai calante risplenda chi ne fa le veci, et gl'amplissimi
Senatori quali Stelle fisse vi scintillino, et gl'altri Magistrati come erranti
Pianeti portino la luce per ogni doue, venendo così a formare un
nobilissimo cielo, altra caggione non si può dare delli fatti tenebrosi,
prepotenze, sevitie ed atti tirannici che si vanno moltiplicando, se non se
arte e fattura diabolica: poiché l'humana malitia per se sola, forza bastante
hauer non dovrebbe per deludere la vigilanza di tanti Heroi, che vanno
continuamente trafficandosi per il pubblico emolumento. Perloché descrivendo
questo racconto auuenuto nelli tempi di mia gioventù, abbenché la
più parte delle Persone in esso nominate sijno passate ad altra vita,
pure tacerò per degni rispetti li loro nomi, et il medemo farò
delli luoghi, solo indicando li territorij senza specificar il paese. Nè
alcuno dirà che questa sij imperfezzione del racconto, a meno non sij
persona del tutto ignara della Filosofia: che quanto agl'huomini dotti, ben
vedranno nulla manca alla sostanza di detto racconto; perché essendo fuori
d'ogni dubitatione che i nomi altro non sono se non purissimi accidenti...»
Tale
è il proemio d'una curiosa storia, che avevamo animosamente impresa a
trascrivere da un dilavato autografo del secolo decimo settimo, ad intento di
pubblicarla. Ma copiate le poche righe che abbiam qui poste per saggio, il
fastidio che provammo d'una prosa così fatta ci fece avvertire a quello
che ne proverebbero i lettori, e intralasciare una fatica che sarebbe
probabilmente gittata. È ben vero che il nostro anonimo dopo essersi sul
principio sbizzarrito in concettini e in figure, piglia poi nel racconto un
andamento più posato e più piano, e solo di tratto in tratto
spicca qualche salterello d'ingegno, dove il soggetto lo richiede a parer suo.
Ma quando egli cessa d'esser gonfio diviene così pedestre! così
sguaiato! Anzi, come il lettore ha potuto accorgersene, ha l'arte di riunire
queste qualità opposte in apparenza, e d'esser rozzo insieme e affettato
nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo: arte del
resto comune a quasi tutti gli scrittori del suo tempo, nel paese dove egli
scrisse.
Ogni
epoca letteraria ha un carattere generale suo proprio, una maniera, per dir
così, che si fa scorgere a prima vista negli scritti dozzinali, e dalla
quale i più distinti e originali non vanno mai esenti del tutto. In
Italia poi, spesso e forse ad ogni epoca, oltre la maniera generale v'ebbe in
ciascuno Stato e principalmente in ciascuna città capitale una maniera
particolare per dir così una sotto-maniera che era una modificazione di
quella: ne riteneva alcuni caratteri e ne aveva altri suoi proprii. Erano come
tante varietà d'una specie. Di tutte queste differenze si ponno trovare
ad ogni caso molte cagioni nelle varie circostanze dei diversi stati: una
cagione comune è l'essere in ciascuno di essi adoperato nei discorsi un
dialetto particolare anche tra le persone colte. Ogni lingua, ogni dialetto
oltre i segni d'idee per così dire semplici e che hanno segni sinonimi
in ogni altra lingua, ha segni particolari, e ancor più frasi che
esprimono o accennano un giudizio o pongono la questione in un modo
particolare. La moltitudine di questi vocaboli e di queste frasi particolari dà
ad ogni dialetto un carattere, un colore suo proprio, e v'introduce una specie
di criterio individuale.
Quando
l'uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il
dialetto di cui egli s'è servito nelle occasioni più attive della
vita, per l'espressione più immediata e spontanea dei suoi sentimenti,
gli si affaccia da tutte le parti, s'attacca alle sue idee, se ne impadronisce,
anzi talvolta gli somministra le idee in una formola; gli cola dalla penna e se
egli non ha fatto uno studio particolare della lingua, farà il fondo del
suo scritto.
Di
questo colore municipale si è fatto in varii tempi rimprovero a molti
scrittori: che deturpasse gli scritti non v'ha dubbio: quanto agli scrittori,
prima di rimproverarli così acremente si sarebbe dovuto pensare che non
è cosa tanto facile prescindere da quelle formole alle quali sono unite
per abito tutte le memorie, tutti i sentimenti, tutta la vita intellettuale.
Non è cosa facile certamente; e non è pur certo se questo sia un mezzo
di far buoni libri.
Questa
irruzione inevitabile di ciascun dialetto negli scritti generalmente parlando,
ha quindi contribuito grandemente a dare agli scritti d'ogni parte d'Italia un
carattere speciale: carattere così distinto che un uomo il quale abbia
un po' frugato nelle opere buone e triste dei varii tempi della letteratura
italiana, potrà dal solo stile d'un'opera argomentar quasi sempre non
solo il secolo ma la patria dello scrittore, e apporsi. Lo stile lombardo per
esempio ha un carattere suo proprio riconoscibile in tutti i tempi, e quasi in
tutti gli scrittori. Due classi ne ritengono meno degli altri: quegli che hanno
fatto uno studio particolare della lingua toscana; e quegli altri che trattando
materie generali, discusse dai primi scrittori di Europa, si sono serviti di
uno stile per dir così europeo etc. etc.
Nella
seconda metà del secolo decimo settimo, quando scriveva il nostro
autore, quella maniera che dominava in tutta la letteratura italiana e ha
conservata una turpe celebrità sotto il nome di secentismo; e che
consisteva principalmente in uno sforzo per trovare il maraviglioso ebbe nei
diversi paesi d'Italia diverse modificazioni, e tendenze principali: dove fu
principalmente una affettazione di sagacità raffinata, dove una
esagerazione impetuosa d'idee di sentimenti e d'immagini. In Lombardia, dove
pochissime idee erano diffuse e ventilate, donde nessun libro veramente
importante era uscito fin allora, dove la lingua toscana si studiava pochissimo
e da pochissimi, e da nessuno per così dire le lingue straniere, le
quali del resto non avendo ancora opere ben pensate non potevan comunicare idee
in Lombardia dove alcuni pochi studii erano coltivati in un modo pedantesco, e
molti studii trascurati anzi sconosciuti, il linguaggio comune doveva esser
rozzo, incolto, inesatto, arbitrario, casuale; e lo era infatti al massimo
grado. Sur un tal fondo si ricamava poi di quelle arguzie, si appiccava quella
ricercatezza che era la tendenza generale di tutta la letteratura italiana; e
ne usciva quel complesso di goffaggine prosuntuosa, d'ignoranza affermativa,
quella continuità d'idee storte espresse in solecismi, lo scrivere
insomma di cui si è dato un saggio. E il nostro autore non era uno dei
peggiori del suo tempo: era anzi alquanto al di sopra della proporzione media:
ma in verità s'io avessi avuta la pazienza di trascrivere la sua storia
voi non avreste quella di leggerla.
La
storia però ci parve interessante, e ci sapeva male ch'ella dovesse
rimanersi sempre sconosciuta. Ci siamo quindi risoluti di rifarla interamente,
non pigliando dall'autore che i nudi fatti.
Ma,
rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi
abbiamo noi sostituito? Qui giace la lepre.
Che
giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata qua
e là, non solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola,
qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l'abbiamo presa,
perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte d'Italia, si
fanno intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo
conosciute frasi dello stesso valore, le quali fossero non solo intelligibili,
ma adoperate negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le
avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando di buona voglia l'imitazione
d'una verità locale alla purezza della lingua; persuasi come siamo che
quel primo vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si
possa conciliare col secondo.
Oh!
dirà qui taluno, è questa una giustificazione o una burla? Come
pensate voi a scusarvi di quella picciola libertà, quando una
così grande e così strana ne avrete presa in ogni luogo? quando
tutta questa vostra dicitura è un composto indigesto di frasi un po'
lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che
non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e
per estensione o dall'una o dall'altra di esse? quando perfino conciliando,
come il nostro autore, due vizii opposti avete più d'una volta peccato
di arcaismo e di gallicismo in un solo vocabolo? dimodoché non si potrà
forse nemmeno dire dove specialmente pecchi questa lingua che adoperate, e non
si può dire se non che è cattiva lingua. Voi fate come chi dopo
aver pesto un galantuomo a furia di sassate gli chiedesse poi scusa di avergli
fatta qualche picciola macchia su l'abito.
Ringrazio
prima di tutto, molto cordialmente il cortese che mi fa questa censura; perché
dessa prova ch'egli ha letto o tutto o almeno in gran parte il mio scritto. E
appresso, lo prego di scusarmi se non gli posso rispondere. Non è
già ch'io non abbia ragioni da addurre per mia discolpa, non è
nemmeno perché io mi vergogni di diffondermi in un sì frivolo argomento
come sarebbe la mia propria giustificazione: giacché lasciando da parte questa
miserabile applicazione, la questione generale è per sè vasta e
importante. E questo appunto è il motivo per cui non posso rispondere al
cortese censore; perché le ragioni son troppe. Ci bisognerebbe un libro: e il
cortese censore sarà d'accordo con me che di libri uno per volta
è sufficiente, quando non è troppo.
Basta
all'autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi
legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno
per gloria lo scriver male. Per gloria! quand'anche ella fosse impresa
difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe
toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all'autore che egli parli di
sè: è un privilegio delle prefazioni, un picciolo e troppo giusto
sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio
dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo
in opera. I doni dell'ingegno non si acquistano, come lo indica il nome stesso;
ma tutto ciò che lo studio, che la diligenza possono dare, non istarebbe
certamente per me ch'io non lo acquistassi.
Che
cosa poi significhi scriver bene non credo che alcuno possa definirlo in
poche parole, e per me, anche con moltissime non ne verrei a capo. Ecco
però alcune delle idee che mi sembra doversi intendere in quella
formola. A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi,
che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori
(moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate
nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un'altra lingua, quando
che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono
passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso
senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate
all'uno e all'altro uso. Parole e frasi divenute per quest'uso generale ed
esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le
riconosca appena udite; dimodoché se un parlatore o uno scrittore per caso
adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un
senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare
che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario,
né ricordarsi (memoria negativa che debb'esser molto difficile) che quella
parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti
appellarsene alla memoria, all'uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali
fossero mille, converranno tosto del sì o del no.
Parole
e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l'egregio cavino
dallo stesso fondo, e dopo d'averli uditi successivamente, un uomo colto senta
fra di loro differenza d'idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di lingua.
Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e immedesimate col loro
significato, che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa
servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza
oscurità e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l'idea
comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in quell'uso
particolare.
Per
bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie
due condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l'ingegno) le
conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che
abbia posto studio nell'udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa
condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi adottate
esclusivamente per convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e
parlatori, come d'accordo, abbiano formata questa lingua ch'egli debbe
scrivere, gli abbiano preparati i materiali. Se in Italia vi sia una lingua che
abbia questa condizione, è una quistione su la quale non ardisco dire il
mio parere. È ben certo che v'ha molte lingue particolari a diverse
parti d'Italia, che in una sfera molto ristretta di idee certamente, ma hanno
quell'universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una,
nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa
arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un
barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse
altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n'ha un'altra
in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di
tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc.
ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la quale,
fino ad una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc.
era al livello delle cognizioni europee, lo sia ancora, se possa somministrare
frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto libri sempre
pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un'altra
quistione su la quale non ardisco dire il mio parere.
Frattanto,
desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori convengano una
volta dove sia questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico tutti, o il
grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono aver ragione soli
in una tal materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel che
convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è:
è quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se
esista o no questo universale o quasi universale uso d'una lingua comune. E a
dir vero il solo cercarla è un gran pregiudizio ch'ella non vi sia.
Certo dove ella v'è, non si fa la quistione, e se uno la proponesse, non
sarebbe pure inteso.
TOMO PRIMO
CAPITOLO I
IL CURATO DI...
Quel
ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene non
interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni
e per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si viene tutto ad
un tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un corso
diretto e continuato di modo che dalla riva si può per dir così
segnare il punto dove il lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo
congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all'occhio ed
all'orecchio questa trasformazione: poiché gli argini perpendicolari che lo
fiancheggiano non lasciano venir le onde a battere sulla riva ma le avviano
rapide sotto gli archi; e presso quegli argini uno può quasi sentire il
doppio e diverso romore dell'acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli
cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata dalle pile di macigno scorre
sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale. Dalla parte che
guarda a settentrione e che a quel punto si può chiamare la riva destra
dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato alla estrema falda del Monte
di San Michele, il quale si bagnerebbe nel fiume se l'argine non vi fosse
frapposto. Ma dall'opposto lato il ponte è appoggiato al lembo di una
riviera che scende verso il lago con un molle pendio, sul quale per lungo
tratto il passaggero può quasi credere di scorrere una perfetta pianura.
Questa riviera è manifestamente formata da tre grossi torrenti i quali
spingendo la ghiaja, i ciottoli, e i massi rotolanti dal monte, hanno a poco a
poco spinte le rive avanti nel lago, ed erano abbastanza vicini perché le
ghiaje gettate da essi a destra e a sinistra abbiano potuto col tempo toccarsi
e formare un terreno sodo. Allora hanno cominciato a correre in un letto
alquanto più regolare, poiché questi stessi depositi hanno loro servito
d'argine, e il successivo loro impicciolimento cagionato dall'abbassamento dei
monti, dal diboscamento, e dalla dispersione delle acque gli ha rinchiusi in un
letto più angusto. Così il terreno che li divide ha potuto essere
abitato e coltivato dagli uomini. Il lembo della riviera che viene a morire nel
lago è di nuda e grossa arena presso ai torrenti, e uliginoso negli
intervalli, ma appena appena dove il terreno s'alza al disopra delle
escrescenze del lago e del traripamento della foce dei torrenti, ivi tutto
è prati campagne e vigneti, e questo tratto d'ineguale lunghezza
è in alcuni luoghi forse d'un miglio. Dove il pendio diventa più
ripido son più frequenti, e assai più lo erano per lo passato,
gli ulivi; al disopra di questi e sulle falde antiche dei monti cominciano le
selve di castagni, e al di sopra di queste sorgono le ultime creste dei monti
in parte nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli verdissimi, in
parte coperte di carpini, di faggi, e di qualche abete. Fra questi alberi
crescono pure varie specie di sorbi, e di dafani, il cameceraso, il rododendro
ferrugigno, ed altre piante montane le quali rallegrano e sorprendono il cittadino
dilettante di giardini che per la prima volta le vede in quei boschi, e che non
avendole incontrate che negli orti e nei giardini è avvezzo a
considerarle colla fantasia come quasi un prodotto della coltura artificiale
piuttosto che una spontanea creazione della natura. Dove però la mano
dell'uomo ha potuto portare una più fruttifera coltivazione fino presso
alle vette, non ha lasciato di farlo, e si vedono di tratto in tratto dei
piccioli vigneti posti su un rapido pendio, e che terminano col nudo sasso del
comignolo. La riviera è tutta sparsa di case e di villaggi: altri alla
riva del lago, anzi nel lago stesso quando le sue acque s'innalzano per le
piogge, altri sui varj punti del pendio, fino al punto dove la montagna
è nuda, perpendicolare, ed inabitabile.
Lecco
è la principale di queste terre e dà il nome alla riviera: un
grosso borgo a questi tempi, e che altre volte aveva l'onore di essere un
discretamente forte castello, onore al quale andava unito il piacere di avervi
una stabile guarnigione, ed un comandante, che all'epoca in cui accade la
storia che siamo per narrare era spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre,
dalle montagne al lago, da una montagna all'altra corrono molte stradicciuole
ora erte, ora dolcemente pendenti, ora piane, chiuse per lo più da muri
fatti di grossi ciottoloni, e coperti qua e là di antiche edere le
quali, dopo aver colle barbe divorato il cemento, ficcano le barbe stesse fra
un sasso e l'altro, e servono esse di cemento al muro che tutto nascondono. Di
tempo in tempo invece di muri passano le anguste strade fra siepi nelle quali
al pruno e al biancospino s'intreccia di tratto in tratto il melagrano, il
gelsomino, il lilac e il filadelfo. Una di queste strade percorre tutta la
riviera ora abbassandosi, ora tirando più verso il monte, ora in mezzo
alle vigne, ed ora sulla linea che divide i colti dalle selve. Questa strada
è talvolta seppellita fra due muri che superano la testa del passaggero,
dimodoché egli non vede altro che il cielo e le vette dei monti: ma spesso
lascia un libero campo alla vista la quale quasi ad ogni passo scopre nuovi
ampi e bellissimi prospetti. Poiché guardando verso settentrione tu vedi il
lago chiuso nei monti, che sporgono innanzi e rientrano, e formano ad ogni
tratto seni, o ameni o tetri, finché la vista si perde in uno sfondo azzurro di
acque e di montagne; verso mezzogiorno vedi l'Adda che appena uscita dagli
archi del ponte torna a pigliar figura di lago, e poi si ristringe ancora e
scorre come fiume dove il letto è occupato da banchi di sabbia portati
da torrenti, che formano come tanti istmi: dimodoché l'acqua si vede
prolungarsi fino all'orizzonte come una larga e lucida spira. Sul capo hai i
massi nudi e giganteschi, e le foreste, e guardando sotto di te, e in faccia,
vedi il lungo pendio distinto dalle varie colture, che sembrano strisce di varj
verdi, il ponte ed un breve tratto di fiume fra due larghi e limpidi stagni, e
poscia risalendo collo sguardo lo arresti sul Monte Barro che ti sorge in
faccia, e chiude il lago dall'altra parte. Ma non termina quel monte la vista
da ogni parte, poiché di promontorio in promontorio declina fino ad una valle
che lo separa dal monte vicino; e come in alcune parti la stradetta si eleva al
disopra del livello di questa valle, da quei punti il tuo occhio segue fra i
due monti che hai in prospetto un'apertura che dalla valle ti lascia travedere
qualche parte dell'amenissimo piano che è posto al mezzogiorno del Monte
Barro. La giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto
concorre a renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo,
se avendovi passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le
vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è
impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le
memorie di quegli anni.
Su
questa stradetta veniva lentamente dicendo l'ufizio, ed avviandosi verso casa,
una bella sera d'autunno dell'anno 1628, il Curato di una di quelle terre che
abbiamo accennate di sopra. (Questa è la prima reticenza del nostro
storico). Talvolta tra un salmo e l'altro metteva l'indice nel breviario al
luogo dov'era rimasto, e tenendo così socchiuso il libro nella destra
mano, e la destra nella sinistra dietro le spalle, continuava il suo passeggio
guardando in qua e in là, e ripigliando i pensieri oziosi che erano
stati sospesi così così nel tempo che aveva recitata l'ultima
parte di ufizio. Uscendo poi da questa meditazione egli girava gli occhi
intorno, e arrestava lo sguardo sulle cime del monte, osservando come aveva
fatto tante altre volte sul monte i riflessi del sole già nascosto, ma
che mandava ancora la sua luce sulle alture, distendendo sulle rupi e sui massi
sporgenti come larghi strati di porpora.
Ripigliato
poscia il breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse ad una rivolta
della strada dov'era solito di alzar gli occhi dal libro e di guardare quasi
macchinalmente dinnanzi a sè, e così fece anche quel giorno. Dopo
la rivolta la strada andava diritta forse un centinajo di passi, e poi si
divideva; a destra saliva verso il monte, e dall'altro lato scendeva nella
valle fino ad un torrente. Da questa parte il muro non giungeva che all'anche
del passaggero, e lasciava libera la vista del pendio sottoposto, fino al
torrente, e ad un pezzo di monte che lo rinchiudeva dall'altra parte. In faccia
a colui che aveva voltata la strada, e alla separazione delle due strade v'era
una cappelletta sulla quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, e
terminate in punta che nella intenzione del pittore, e agli occhi degli
abitanti del vicinato volevano dir fiamme, e fra l'una e l'altra certe altre
figure da non potersi descrivere, che volevano dire anime del purgatorio; anime
e fiamme color di mattone su un fondo bianco con qualche scrostatura in varie parti.
Al rivolgimento dunque della strada alzando gli occhi verso la cappelletta il
nostro Curato vide una cosa che non si aspettava e che non avrebbe voluta
vedere. Due uomini stavano uno rimpetto all'altro ai due capi della strada: uno
seduto a cavalcioni sul muricciuolo con l'un piede appoggiato sul terreno della
strada e l'altro penzoloni giù lungo il muro, l'altro in piedi
appoggiato al muro con una gamba sopra l'altra, e le braccia incrocicchiate
sotto le ascelle. L'abito e il portamento non lasciavano dubbio della loro
professione. Avevano entrambi una reticella verde in capo la quale cadeva su
una spalla terminata in un gran fiocco di seta: due grandi mustacchi inanellati
all'estremità, il lembo del farsetto coperto e avviluppato da una cintura
lucida di cuojo, ripiena di cartoccini di polvere, ed alla quale erano appese
due pistole con uncini: un picciol corno ripieno di polvere appeso al collo
come i vezzi delle signore: alla parte destra delle larghe e gonfie brache una
tasca donde usciva un manico di coltellaccio, due legacce rosse al disotto del
ginocchio a un dipresso come i cavalieri della giarrettiera: uno spadone
dall'altro lato con una elsa di lamette d'ottone attorcigliate come una cifra;
al primo aspetto si mostravano di quella specie d'uomini tanto comune a quei
tempi, che avevano nome di bravi, specie che ora si è del tutto perduta
come tante altre buone istituzioni.
Che
quei due stessero lì aspettando qualcheduno era cosa troppo evidente; ma
quello che più spiacque al Curato fu di accorgersi per certi atti che
quegli che aspettavano era egli poiché al suo apparire si erano guardati
alzando la testa, con un moto che dava a divedere che avevan detto tutti e due
a un tratto: egli è desso: e quegli che stava a cavalcioni tirò
la sua gamba sulla strada e si alzò, l'altro si staccò dal muro;
e si avvicinarono rivolti verso il curato. Questi tenendo sempre il breviario
aperto dinanzi come se leggesse, alzava gli occhi per ispiare i loro movimenti
e vedendoli inviarsi così verso di lui, mille pensieri alla rinfusa gli
corsero pel capo. Domandò subito in fretta a se stesso, se tra i bravi e
lui vi fosse qualche uscita di strada a dritta o a sinistra, e gli sovvenne
tosto di no. Pensava se avesse qualche inimicizia, se potesse temere qualche vendetta,
e in quel turbamento il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava
alquanto; ma i bravi si avvicinavano. Pose la mano nel collare, come per
ricomporlo e intanto piegò indietro la testa e guardò colla coda
dell'occhio fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse, e non vide nessuno.
Diede un'occhiata al disopra del muricciolo, nei campi; nessuno: guardò
sulla via che gli era dinanzi; nessuno fuorché i bravi. Che fare? tornare
indietro, non era a tempo: fuggire; era lo stesso che farsi inseguire, o peggio.
Non potendo fuggire il pericolo gli corse incontro; perché i momenti di quella
incertezza erano allora così penosi per lui che non desiderava altro che
di abbreviarli: allungò il passo, recitò un versetto a voce
più alta, compose la faccia a tutta quella quiete ed ilarità che
potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso, e quando fu accostato
dai due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò sui due
piedi.
«Signor
curato»: disse uno di quei due, piantandogli gli occhi in faccia.
«Chi
mi comanda?» rispose subito il curato alzando gli occhi dal libro e tenendolo
spalancato e sospeso con ambe le mani.
«Ella
ha intenzione», proseguì l'altro, «di sposare domani Fermo Spolino, e
Lucia Zarella».
«Non
lo posso negare»: rispose il curato col tuono d'un uomo convinto d'una trista
azione; e soggiunse tosto: «io non c'entro: fanno gli aggiustamenti fra di
loro, vengono da noi, noi siamo i servitori del pubblico...»
«Bene
bene», interruppe il bravo, «questo matrimonio non si deve fare, ma né domani
né mai». «Ma, Signori miei», replicò il curato colla voce d'un uomo che
vuol persuadere un impaziente, «ma signori miei, si degnino di mettersi nei
miei panni: se la cosa dipendesse da me...»
«Orsù»
interruppe ancora il bravo che pareva avesse giurato di non lasciargli compire
un periodo, «se la cosa andasse a ciarle, ella ne avrebbe più di noi: ma
noi non sappiamo né vogliamo sapere altro: era nostro dovere d'avvisarla e
l'abbiamo fatto». «Ma loro signori son troppo giusti, e ragionevoli...»
«Ma»,
interruppe questa volta quell'altro che non aveva parlato fino allora, «ma il
matrimonio non si farà e» (qui una buona bestemmia) «chi lo farà
non se ne pentirà perché non ne avrà tempo e...»
«Zitto,
zitto», ripigliò quell'altro, «il signor Curato sa che noi siamo
galantuomini, e non vogliamo fargli del male, se egli opererà da
galantuomo. Signor Curato, ci ha intesi, l'illustrissimo Signor Don Rodrigo
nostro padrone le fa i suoi complimenti». «Se mi sapessero suggerire;...» disse
il curato: «Oh! suggerire a lei che sa il latino!», rispose il bravo con un
riso tra lo sguajato e il feroce. «Ella troverà un mezzo, Signor curato,
e sopratutto non si lasci uscire una parola di questo avviso che le abbiamo
dato per suo bene, perché altrimenti sarebbe per lei come se avesse fatto quel
tal matrimonio. Buona notte Signor Curato». Così dicendo, si
svilupparono dal curato, il quale pochi momenti prima avrebbe dato qualche gran
cosa per isfuggirli, e allora avrebbe voluto prolungare la conversazione, e
avviandosi dalla parte donde egli era venuto, presero la strada, cantando una
canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero Curato pigliò delle
due strade quella che andava a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba
dopo l'altra, che gli parevano ingranchite, e con animo che il lettore
comprenderà meglio dopo d'avere appreso qualche cosa di più
dell'indole di questo personaggio, e della condizione dei tempi in cui gli era
toccato di vivere.
.......
L'impunità
era organizzata, e aveva molte altre cause di simil genere, e la trepidazione
nell'eseguire le gride nata da queste cause, e la sicurezza già antica
nei trasgressori educati a soperchiare. Ora questa impunità minacciata
ed insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva ad ogni minaccia e ad ogni insulto
fare nuovi sforzi per conservarsi, aumentare la sua forza, resistere,
atterrire, tenersi unita, e così faceva difatti. Quindi la grida al suo
nascere trovava molta gente che aveva già prese le disposizioni
necessarie per continuare a fare ciò ch'ella veniva a proibire. Nessuna
libertà nelle cose oneste perché col fine di aver sotto la mano ogni
uomo per prevenire e punire ogni delitto, le gride assoggettavano ogni mossa
del privato al volere arbitrario di mille magistrati, ed esecutori d'ogni
sorta. Ma chi si era messo in istato di guerra colle gride, e cogli ordini
d'ogni specie, chi aveva già disposti i suoi mezzi di difesa nella forza
aperta, o nelle astuzie legali, o nella protezione, o nella connivenza allora
comune e scandalosa dei giudici, chi poteva e voleva ammazzare o dar la mancia
ad un birro, quegli era libero nelle sue operazioni, al sicuro delle gride, e
in caso di rivolgerle anche contro gli altri quando i suoi mezzi privati non
fossero stati bastanti. Accadeva a taluno di costoro di morire di morte violenta,
di esser sbanditi, vivevano in continuo sospetto, che vuol dire, erano nella
condizione di tutti i loro contemporanei. Quegli stessi che non avevano un
animo provocatore ed ingiusto si trovavano come costretti di guardarsi e di
stare sulle difese, il che teneva per dir così una quantità di
forze sempre in presenza e dava a tutta la società un'aria di sospetto,
di offesa. Ad ogni momento tutto era pronto, per venire alle mani.
L'uomo
che teme l'offesa e che vuole offendere, cerca compagni, quindi la tendenza
universale a quei tempi di arruolarsi per dir così, in classi, in corpi,
in maestranze, in confraternite. Alcune classi già anticamente
costituite avevano anche per questa circostanza una forza preponderante e
spaventosa, quindi gli altri per non trovarsi sempre individui contra una
società, dovevano esser contenti di trovare un motivo per riunirsi, di
avere deliberazioni, massime comuni, privilegi, e una bandiera, e di potere,
quando fossero toccati, rivolgere le forze solidali di molti a loro difesa. Il
clero era geloso sostenitore delle sue immunità, e come ad esso stava in
gran parte il decidere fin dove giungessero, non si deve domandare se le
estendesse fin dove potevano, e fin dove non potevano giungere. Che gli
ecclesiastici vuoti di spirito sacerdotale, ambiziosi, violenti, avari
riponessero tutta la religione in questa immunità non è da
stupirsene, poiché è chiaro che è cosa molto comoda l'avere una
scomunica da opporre ad una ragione, e cessare ogni pericolo con un privilegio
d'inviolabilità indefinita. Ma quello che merita più
considerazione si è come i buoni non cedessero ai tristi in questa
specie di zelo, come uomini pii e d'una virtù molto superiore alla
onestà, uomini certamente di alto ingegno, potessero combattere
acremente, lungamente, mettere tutto a repentaglio per pretese, le quali non
sembra che non possano conciliarsi col minimo grado di riflessione, e con un
grano di buona fede. Per ispiegare questo fenomeno si dice che erano idee del
tempo alle quali i migliori e più sinceri intelletti pagavano tributo
come gli altri. Ma questa spiegazione non ha senso se non si trovano le cagioni
per cui essi pure dovessero affezionarsi a queste idee, quando il loro amore
per la verità, e la loro attitudine a trovarla dovevano condurli a scoprire
il debole di queste idee. Le quali cagioni appariscono chiare a chi dà
una occhiata allo stato della società in quei tempi. Tante erano le
volontà d'impedire ogni esercizio delle facoltà le più
legittime, d'inceppare ogni diritto, e queste volontà erano così
potenti, che il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a malgrado
di esse, senza avere una forza propria. Quindi tribunali civili e criminali per
assicurare ai suoi membri una giustizia imparziale o per opporre una parzialità
ad un'altra, quindi minacce spirituali e temporali ad ogni attentato contro le
persone o i beni del clero, quindi forza per eseguire le sue leggi etc.
Malgrado queste immunità, le quali con nome non affatto improprio allora
si chiamavano libertà, il Clero si trovava ad ogni istante inceppato da
altre forze organizzate, non è quindi da maravigliarsi se i meno
ambiziosi le credessero non solo necessarie, ma insufficenti, se cercassero di
estenderle, se vedessero nella diminuzione di quelle, la diminuzione della
religione stessa, e se gridassero altamente che chi le intaccava, voleva
rendere impossibile l'esercizio della religione stessa. Tutto questo non
è detto per provare che avessero ragione di pensare e di operare a quel
modo, ma per ridurre il torto alla sua giusta misura, e per ricondurlo alle sue
vere cagioni, e per riflettere che vi hanno degli inconvenienti che oltre il
male diretto che fanno, ne producono dei grandissimi forzando quasi gli uomini
a cercare dei rimedi che non sono né ragionevoli, né perfettamente onesti, e
che oltre l'effetto per cui sono posti in opera ne producono molti altri
impreveduti e pessimi.
Abbondio
non nobile, non ricco, non animoso, si era presto avveduto di essere nella
società come il vaso di terra cotta in compagnia di molti vasi di bronzo
sempre in movimento. Aveva quindi secondata assai lietamente la volontà
dei suoi parenti che lo avevano avviato allo stato ecclesiastico. A dir vero il
suo fine principale non era stato quello di servire agli altri col ministero.
Egli aveva pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe
rispettata e forte, nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite
degli altri. Ma non basta appartenere ad una classe per goderne tutti i
vantaggi, come ognun sa: bisogna anche che l'individuo sappia dirizzare a suo
uso il più che può delle forze che la sua società
può mettere in opera, e non v'è organizzazione comune che
dispensi l'individuo dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio non
poteva adottare un sistema nel quale fosse necessaria una qualunque parte di
risoluzione, di attività, di resistenza, e altronde alla fin fine il
pover'uomo non domandava altro che quiete, vivere e lasciar vivere, come si
dice. Il suo sistema era dunque di evitare tutti i contrasti, e di cedere in
quelli che non avesse potuto evitare. Se egli era assolutamente forzato a
prender parte fra due contendenti, stava dalla parte più forte,
procurando però di far vedere all'altro ch'egli non gli era
volontariamente avverso, che potendo fare a suo modo sarebbe stato neutrale:
pareva che gli dicesse: — Ma perché non avete saputo essere il più
forte? io sarei allora con voi. — Con queste arti il pover'uomo era riuscito a
poter giungere senza forti burrasche fino all'età di cinquant'anni.
Ma
il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio a se stesso di esser
mosso da principj bassi e da non confessarsi; e si era quindi fatto (come
accade sempre) una dottrina sua propria, secondo la quale la sua condotta era
ragionevole anzi la sola ragionevole e onesta. Quando poi si vide in
virtù di questa sua buona condotta, bastantemente al coperto dalle
offese altrui, pensò, come accade, ad attaccare, e divenne un rigido
censore delle azioni e degli uomini che non tenevano la sua condotta, quando
però questa sua censura potesse esercitarsi senza alcuno anche lontano
pericolo.
Chi
era stato percosso e non era in caso di far vendetta era almeno almeno un
imprudente, un ammazzato era certamente un torbido, e se non lasciava parenti
irritati della sua morte, era un birbante; ma chi aveva commesso un omicidio
poteva esser certo che Don Abbondio non gli avrebbe mai trovato un difetto.
Quello poi che più gli dava collera era il vedere qualcuno dei suoi
confratelli pigliare le parti di un debole, difenderlo contro una soperchieria.
Questo chiamava egli un comprarsi le brighe a contanti, un volere addirizzare
le gambe ai cani. I potenti, i ricchi, i facinorosi, i protettori, i protetti,
insomma i vittoriosi d'ogni genere erano per lui uomini d'oro, e ne parlava
sempre col mele alla bocca. E se qualche seccatore trovava da apporre ad alcuno
di questi, mettendo il discorso sopra qualche grossa bricconeria commessa da
alcuno di questi grandi galantuomini, Don Abbondio si metteva a declamare
contro quel vizio di pretendere che gli uomini sieno perfetti. E quanto a
quelli che avevano sofferto di quella bricconeria, egli sapeva trovar loro
qualche torto, il che non è mai difficile, perché tra lo scellerato e
l'onesto, la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così
netto che l'uno stia tutto da una parte, e l'altro tutto dall'altra. E
sigillava sempre il discorso col suo assioma favorito, proferendo il quale
rifletteva con compiacenza sopra di sè: e l'assioma era: che ad un
galantuomo che vuol viver quieto, che sa stare nel fatto suo, non accadono mai
brutti incontri.
S'immagini
ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don Abbondio.
L'impressione di spavento per quei visi e per quelle minacce, l'idea d'un
pericolo associata a ogni momento dell'avvenire, il frutto di tanti anni di
studio e di politica perduto in un giorno, l'unica teoria sulla quale era
fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto,
pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita. Poiché
se si avesse potuto mandare in pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe stato
finito, essendo la coscienza di Don Abbondio bastantemente soddisfatta della
idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà delle ragioni, e
non istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il
mondo, troverà strano questo ritardo, e molto più una ripulsa,
mormorerà, e che cosa rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato da
questi pensieri il nostro Curato per sollevarsi un poco si scatenava in suo
cuore contro chi era venuto a togliergli per sempre la sua pace. Egli non
conosceva Don Rodrigo che di nome, e di vista, e non aveva avuta altra
relazione con lui che di fargli una grande scappellata quando lo incontrava e
di riceverne un mezzo saluto di protezione. Gli era occorso talvolta di
difenderlo, quando si parlasse di qualche soperchieria da lui fatta, e aveva
detto forse cento volte che Don Rodrigo era un degno cavaliere. Ma ora gli
diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali l'aveva difeso in altre occasioni.
Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei due sposi che in fondo erano la
prima cagione di una tanta sua angustia. Ragazzi, — andava ripetendo — ragazzi,
non pensano che a maritarsi e non si fanno carico dei fastidj in cui pongono un
galantuomo.
Colla
compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e
andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva
Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo
mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri
sul volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di
Don Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in
tutta la persona che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi
della vecchia Vittoria.
«Ma
che cosa ha, Signor padrone?»
«Niente
niente».
Questa
risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la
contò per una risposta, e proseguì.
«Come,
niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad
intendere?...»
«Quando
dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente,
o è cosa che non posso dire». Vittoria, vedendolo più presso alla
confessione che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre
più incalzando.
«Che
non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della
sua salute? Chi rimedierà?...»
«Tacete,
tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò».
Quando
Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la cosa era
grave, e giurò a se stessa di non lasciare andare a dormire il Curato
senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa
ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?»
«Sì sì, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in
sospetto». «Ma io non dirò niente se ella mi toglie da questa
inquietudine». «Non direte niente come quando siete corsa a ripetere alla serva
del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete
messo nel caso di domandargli scusa, come quando...» Vittoria sarebbe qui
montata sulle furie se non avesse avuto un secreto da scavare, e se non avesse
pensato che nulla allontana da questo intento come il piatire sopra cose
estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma in aria sommessa: «Oh per amor del
cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben castigata, non aveva
creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor
padrone, se io parlo...» «Via, via, non giurate». «Ma vorrei poterla soccorrere,
chi sa che io non abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre servita di
cuore e con attenzione, ma ella sa», e qui fece voce da piangere, «ella sa che
i misterj non li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...»
In
fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde fattigli
ripetere seriamente i più grandi giuramenti le narrò il
miserabile caso, mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo, e
l'inquietudine del fatto che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi
e ristette colla posata alzata nel pugno che tenne puntato sulla tavola.
«Misericordia!» sclamò Vittoria: «oh gente senza timor di Dio, oh
prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!»
«Zitto zitto, a che serve tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?»
«Oh! vedete», disse il curato in collera, «i bei pareri che mi dà
costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse
ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela». «Sa il cielo se me ne
spiace, Signor padrone, ma bisogna pensarci». «Sicuro, e nell'imbroglio son
io».
«Pur
troppo», disse Vittoria, «ma non si lasci spaventare: eh! se costoro potessero
aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare ma non strafare:
e qualche volta cane che abbaja non morde». «Lo conoscete voi questo cane? e
sapete quante volte ha morso?...» «Lo conosco e so bene che...» «Zitto, zitto,
questo non serve». «Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma
intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone».
«Ma
se non ho voglia». «Ma se le farà bene», e detto questo, si
avvicinò al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto come per
dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla
tavola: il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo
di tempo in tempo qualche esclamazione, come: — Una bagattella! ad un
galantuomo par mio: — ed altre simili, se ne andò a letto colla
intenzione di consultare tranquillamente, e ordinatamente sui casi suoi.
CAPITOLO II
FERMO
La
consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza, e
la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere
invitata, e ricevere L'incarico di proporre il partito, e così fu. Senza
annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi
accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che
si doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu nemmeno discusso, che si
pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal
tempo, ma questo anche fu rigettato perché non v'era spazio per eseguirlo. La
celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza
di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il
colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci, e rendiconti. Fu però
riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di
agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo
esperimento; passò in rassegna tutti i mezzi di superiorità e
d'influenza che l'autorità, la scienza, (in paragone di Fermo), e la
pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli
giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente
nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare, e appena
appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione, vi
andò colla lieta impazienza di un giovane che in quel giorno deve
sposare quella ch'egli ama. Era Fermo un tessitore di seta, sorta d'industria
che da una grande attività era allora in decadenza, ma non però
al segno che l'operajo abile non potesse onestamente vivere del suo lavoro.
L'emigrazione di molti lavoranti suppliva per così dire alla diminuzione
del lavoro lasciandone a sufficienza a quelli che rimanevano. In progresso di
tempo crescendo a dismisura le cause che avevano diminuita quella industria,
essa fu ridotta quasi a niente. Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo
di terra che faceva lavorare, e che lavorava egli stesso nel tempo in cui era
disoccupato dal filatojo, dimodoché non aveva a contrastare col bisogno. Era in
quel giorno vestito dalla festa con piume di vario colore al cappello, col suo
coltello dal bel manico, e mostrando in tutto l'abito e nel portamento un'aria
di festa e nello stesso tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli
uomini i più quieti, come infatti era Fermo. L'accoglimento serio,
freddo, misterioso di Don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi
gioviali e risoluti di Fermo. Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo
fra quei due: «Son venuto, signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che
ora le convenga che noi veniamo alla Chiesa».
«Di
che giorno intendete?»
«Oggi,
Signor curato; non siamo intesi così?»
«Oggi?»
replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi,
non posso».
«Come
non può? che cosa è accaduto?»
«Prima
di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma
grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch'ella ha da fare
è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»
«E
poi, e poi, e poi...»
«E
poi che cosa, Signor curato?»
«E
poi ci sono degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli?
che imbrogli ci ponno essere?»
«Avete
buon tempo voi altri, che non vi pigliate briga di niente, e vi fate servire, e
non avete conti da rendere. Ma io sono troppo dolce di cuore, procuro di
togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di fare quello che gli altri
vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio».
«Ma
per carità, non mi tenga così sulla corda; mi dica che cosa
c'è».
«Sapete
voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio che
non levi il sonno a chi lo ha fatto?»
«Ma
queste formalità non si sono già fatte?»
«Fatte,
fatte, pare a voi, perché la bestia son io che trascuro il mio dovere per non
far penare la gente. Ma ora, so io quel che dico, non posso più fare a
questo modo».
«Ma
via, quale è la formalità com'ella dice, che bisogni fare? La si
farà subito».
«Ecco:
nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra
professione, libero, industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un
luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a poco a poco vivere d'entrata:
ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».
«Ma
a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un poco di bene
voglio maritarmi; io non son venuto adesso a domandarle un parere, ma a sapere
quando mi vuol maritare».
«Sapete
voi quanti sono gl'impedimenti dirimenti?»
«Che
vuole che sappia io d'impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa manca, ed io
farò tutto».
«Error, conditio, votum, cognatio,
crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...»
«Si
piglia ella giuoco di me? Ella sa che io non so il latino».
«Dunque
se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi
rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello che
vuol da me, perché io non capisco niente».
«Tutti
questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce n'è una
filza».
«Insomma
al mio matrimonio c'è un impedimento?»
«Ve
ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio
sapere quale è l'impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo
disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno che cercava
di contenere.
Don
Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo conosceva come
giovane buono e l'aveva provato sempre rispettoso e quieto, e tra perché il
dover sempre arzigogolare pretesti, mentre aveva una buona ragione che non
poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si abbandonò e rispose con
tuono di corruccio e d'impazienza. «Voglio, voglio, tocca a voi dir: voglio?»
Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo che già
aveva voluto scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel
caldo crescente delle sue risposte. «Lo voglio per...» gridò con una
subita trasformazione, «e s'ella crede di farsi beffe di me perché son povero
figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch'io uno
sproposito come qualunque signore».
«Via
via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon giovane
ch'eravate?»
«Mi
dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se
volete ch'io possa parlare tranquillatevi».
«Son
tranquillo, e parli».
«Sappiate
adunque che è nostro dovere, dovere preciso di fare ricerche, ricerche
esatte per vedere se non ci sieno impedimenti».
«Ma
se ve ne fosse, perché non me li sa indicare?»
«Ma
non basta il non saperne, bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e poi
bisogna informarsi di molte altre cose, altrimenti?... il testo è
chiaro: Antea quam matrimonium denunciet, cognoscet quales sint...»
«Non
voglio latino. Ma perché non le ha fatte prima queste ricerche?»
«Ecco
mi rimproverate la mia troppa bontà. Ma adesso, mi son venute... basta,
so io».
«Insomma
quanto tempo ci vuole?»
«Molto,
molto».
«Quanto?»
«Almeno
un mese».
«Un
mese?» sclamò Fermo con volto burbero e sorpreso.
«Via
in quindici giorni si procurerà...»
«Signor
Curato...»
«Ebbene
voi non volete intender ragione, vedrò se in una settimana...»
«Or
bene, aspetterò una settimana, mi esporrò alle ciarle, ed ai
fastidj di questo ritardo. Ma la prevengo che questo ritardo non mi
renderà di buon umore, né disposto a contentarmi di ciance. S'ella vuol
farmi una ingiustizia, si ricordi che tutto quello che può accadere
è sulla sua coscienza. La riverisco». E così detto se ne
andò facendo un inchino frettoloso, e molto meno riverente del solito, e
lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima.
Il
povero sposo che, entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e di
festa, non aveva sentito altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla
stizza che lo rodeva, andava però riflettendo sui discorsi e sul
contegno del Curato, e trovava tutto pieno di mistero...
L'accoglimento
freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di
rimbrotto senza un perché, quel farsi nuovo del matrimonio che pure era
concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando che sia,
parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le
insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto: il complesso
insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così
incoerente, e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così
nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi
tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in forse di
ritornare al Curato per incalzarlo a parlare, ma sentendosi caldo, temette di
non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana
non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa
questa trista nuova. Sull'uscio del Curato si abbattè in Vittoria che
andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe
potuto cavar qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei:
«Sperava
che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria».
«Ma!
quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi
un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non celebrare il
matrimonio oggi come s'era convenuto».
«Oh!
vi pare ch'io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile avvertire
che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole
esser creduto.
«Via,
ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».
«Mala
cosa nascer povero, il mio Fermino».
Per
timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo,
dirò soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla
positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri
colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella
sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a
Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo,
e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era
accorto, che qualche signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi
sopra Lucia, etc.,parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo
dovere, del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un
galantuomo, fece insomma intender tanto che a Fermo non mancava più che
di sapere un nome. Finalmente per timore come si dice, di cantare, si
separò da Fermo raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di
ciò che le aveva detto.
«Che
volete ch'io taccia», disse Fermo, «se non mi avete voluto dir nulla».
«Eh!
non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma
vi raccomando il segreto». Così dicendo si mise a correre per un
viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata. Fermo che aveva acquistata
tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il
Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta
alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi che
gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello
stesso salotto, e gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che
novità è questa», disse Don Abbondio.
«Chi
è quel birbante», disse Fermo colla voce d'un uomo che non vuole esser
più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch'io sposi
Lucia?»
Don
Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta, Fermo vi
balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse e si pose la chiave
in tasca.
«Ah!
ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?»
«Fermo,
Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all'anima
vostra».
«Che
pensare? Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano avrebbe
detto: non vedo più lume. E continuò: «lo voglio sapere subito,
subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la mano al coltello
che però non si cavò di tasca. «Jesummaria!» sclamò Don
Abbondio.
«Lo
voglio sapere», gridò ancor più forte il giovane.
«Volete
voi la mia morte?»
«Voglio
sapere ciò che ho ragione di sapere».
«Ma
se parlo, io son morto. Non m'ha da premere la mia vita?»
«Ah!
le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in questo
momento. Parli».
«Oh
povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?»
«Le
prometto di fare uno sproposito se non parla subito».
Di
botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro
più tremante, e l'occhio più stralunato. Don Abbondio vide che
non poteva cavarsela che col proferire una parola, e articolò: «Don...»
«Don», replicò Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il
resto: «Don Rodrigo» disse finalmente il Curato. E non l'ebbe appena proferita,
che sentendo cessato il pericolo imminente, e vedendo che Fermo non aveva
più pretesto da minacciarlo, la paura si cangiò in collera e
cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una bella azione. Mi avete reso
un bel servizio». «Signor Curato», interruppe Fermo che provava una gioja
trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le
domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella
avrebbe avuto più pazienza».
«Sì
sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno,
aprite».
Fermo
sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e
gli domandò di nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite»,
replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la
presentò al curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa
una violenza. Il Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della
via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo.
Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora», disse il curato, «di non dir
niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e
da
lui che molto anco volea
chiedere
e udir qual lume al soffio sparve.
Don
Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò
Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse
volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in
situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e
non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla
senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima,
e si posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe
bisogno d'andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente. Lo spavento
del giorno passato, l'agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella
mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando del
brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria.
Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio
ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli
come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati
questi ordini si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci
di lui per un lungo tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto
diretto colla nostra storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei
lettori che non capiscono che l'uomo timido il quale lascia di fare il suo
dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il
quale cercando il male, e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una
gran forza d'animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere
solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non
morì di quella febbre.
Fermo
toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del villaggio, si
avviò a gran passi quasi senza avvedersene da quella parte che conduceva
al palazzotto di Don Rodrigo, ch'egli desiderava in quel momento d'incontrare
come un amico dopo una lunga assenza. I provocatori, i soperchianti, tutti
quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male
che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono.
Fermo era come l'abbiam detto un giovane tranquillo, ed innocuo, ma in quel
punto il suo cuore non batteva che per l'omicidio. Andava dunque per affrontare
lo scellerato quando pensò che a quella casa benché discosta alquanto
dall'abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo l'avvicinarsi con
mire ostili; giacch'ella era una specie di picciol forte con una guarnigione di
bravi. Egli sentì tosto che ad una sola parola irriverente che avesse
detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza parlare, intorno a
quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori lo
avrebbero dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta, pensò
che l'unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo
uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una macchia o un
muricciuolo. In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per tornare
a casa a prendere il suo archibugio. Andando, egli s'immaginava di starsene
appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di
vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava
una maledizione, e correva verso il confine per mettersi in salvo. E mentre
tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: — E
Lucia... che ne sarà? — Appena la catena delle idee feroci che lo
dominava in quel punto fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo
entrarono in folla. Si ricordò la consolazione che aveva tante volte
provata pensando di esser mondo di sangue, gli avvisi di suo padre, le
preghiere ripetute e sollecite di sua madre moribonda, pensò
all'inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò da quel sogno di
sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di gioja di non aver fatto
niente. — Dio mi ajuterà — disse, e deposto ogni pensiero di pigliar
l'archibugio, continuò la sua strada per andare ad informare Lucia e la
madre del tristo stato delle cose. In mezzo alla ripugnanza che sentiva a
dovere dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene per
togliersi un fiero sospetto dal cuore. La prepotenza di don Rodrigo non poteva
venire da altro, che da una sua brutale passione per Lucia. E Lucia ne era ella
informata? Così arrovellato giunse nel cortiletto della casa, e
sentì un gridio nella stanza superiore dov'era Lucia e s'immaginò
che sarebbero amiche e comari, e non si volle mostrare. Una fanciulletta che si
trovava nel cortile gli corse incontro gridando: «lo sposo, lo sposo!» «Zitto,
zitto», disse Fermo, «sali da Lucia, pigliala in disparte e dille all'orecchio,
ma all'orecchio ve', che ho da parlarle, e che l'aspetto nella stanza terrena,
e non lo dire a nessun altro».
La
fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza segreta
da eseguire.
Lucia
usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche se la
rubavano, e le facevano forza perché si lasciasse vedere, ma ella si schermiva
con quella modestia un po' guerriera delle foresi, chinando la faccia sul busto
e facendole scudo col gomito. Aveva i neri capegli spartiti sulla fronte con
una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle chiome dietro il capo
in una treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti cerchi, e trapunta da
grossi spilli d'argento che s'aggiravano intorno alla testa in guisa d'una
diadema, come ancora usano le donne del contado milanese. Al collo una collana
di molte fila, di granate alternate con bottoni d'oro a filigrana. Un bel busto
di broccato a fiori, le maniche corte fino al gomito dello stesso colore,
allacciate sopra le spalle con nastri di seta, e terminate da due gran
manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta terminata all'allacciatura
con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di seta
e ricamate sul piede. Oltre questo che era l'ornamento particolare di quel
giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza, la quale era
allora accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni
dell'animo suo in quel giorno. Poiché appariva nei suoi tratti una gioja non
senza un leggier turbamento, un misto d'impazienza, e di timore e quella specie
di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e
che temperato dalle emozioni gioconde e liete non turba la bellezza, ma l'accresce,
e le dà un carattere particolare. La picciola Santina entrò nella
stanza, non fece vista di nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era
staccata dalle donne, le disse la sua parolina all'orecchio, e se ne
andò, per timore di non lasciarsi scorgere di quello che aveva fatto.
Lucia disse, «torno», e scese in fretta in fretta. La faccia stravolta e il
portamento agitato di Fermo la spaventò. «Che c'è di nuovo?» gli
chiese ansiosamente. «Lucia», disse Fermo, con una voce nella quale più
non si distingueva che la tristezza, «Lucia per oggi è finita, e Dio sa
quando saremo marito e moglie». «Perché perché?» chiese ancor più
spaventata Lucia. Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella
mattina, tacendo però il nome di Don Rodrigo.
«Ah!
non può essere che quel demonio in carne», sclamò Lucia pallida,
e sconfortata. «Chi?» domandò Fermo. «Don Rodrigo». «Dunque voi
sapevate?...»
«Pur
troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato per buone ragioni; ora vi
dirò il tutto: lasciate che possiamo esser sole con voi». Così
detto salì in fretta le scale, ritornò nella stanza dove le donne
erano radunate, e componendo il volto come potè meglio: «Il signor
Curato», disse, «è ammalato, e per oggi non si fa nulla». Detto questo
salutò le donne e ripartì.
Quando
non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era abbastanza
imbarazzante in una sposa per motivare la sua subita scomparsa. La
società si disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà
e per curiosità di saper tutto, e le donne uscirono per potere
verificare il fatto, e far congetture.
Ma
la verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle
donne gli antecedenti che noi racconteremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO III
IL CAUSIDICO
I
tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati per la stessa causa ma in
diverso modo. Fermo si trovava nello stato di un uomo il quale ad un tratto
dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una sventura della
quale non conosce che una parte; è ansioso di sapere il di più,
vuole essere informato di tutto, aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne
può aspettare che non accrescano il suo rammarico, che non peggiorino la
sua condizione. Al dolore, al rancore, alla rabbia, si aggiungeva ora il
martello della gelosia. Egli aveva sempre avuta piena fede in Lucia, ma un
mistero di questo genere, un silenzio in questa materia lo tormentava, egli era
come spaventato di conoscere che Lucia aveva una cosa sul cuore, e ch'egli non
ne aveva saputo nulla. Agnese, la madre di Lucia era pure stupita, scandalizzata
di essere all'oscuro d'una cosa simile: ella che sapeva tante cose che non la
toccavano per nulla, ignorare una cosa tanto importante della sua Lucia! Agnese
le avrebbe fatto un rabbuffo terribile, se in questo caso il bisogno
d'ascoltare non avesse vinto d'assai quello di parlare. Lucia... ma dalle sue
parole il lettore intenderà lo stato del suo animo. «Parla! parla!
Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia atterrita,
costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò: «Santissima
Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo segno! Quel
senza timore di Dio di Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre
la seta. Andava da un fornello all'altro facendo a questa e a quella mille
vezzi l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e
si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo v'era
chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: "badate a
fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e borbottava poi:
"gli è un cavaliere; gli è un uomo che può fare del
male; è un uomo che sa mostrare il viso". Quel tristo veniva
talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui. Un giorno mi trovò
mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me più
libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: "ci
vedremo": i suoi amici ridevano di lui, ed egli era ancor più
arrabbiato. Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po'
di baruffa colla Marcellina, per avere un pretesto, e vi ricorderete mamma
ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire per grazia di
Dio, e per quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre di modo
ch'egli non mi potè cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui,
mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete mamma ch'io vi dissi
che aveva paura d'andar sola e non ci andai più: mi aspettava quand'io
andava a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla, forse ho fatto male. Ma
pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei sua
moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora...» Qui le parole
della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto. «Birbone!
assassino! dannato!» sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e
mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello. «Ma perché
non parlarne a tua madre?» disse Agnese: «se io l'avessi saputo prima...» Lucia
non rispose perché la risposta che si sentiva in mente non era da dirsi a sua
madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I singulti di Lucia la
dispensavano dall'obbligo di parlare. «Non ne hai tu fatto parola con nessuno?»
ridimandò Agnese. «Sì mamma, l'ho detto al Padre Galdino, in
confessione». «Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha
detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non
vedendomi non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se
durava la persecuzione egli ci penserebbe». «Oh che imbroglio! che imbroglio!»
riprese la madre. Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò
Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è
l'ultima che fa quel birbante». «Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò
Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per amor del cielo, Dio
c'è anche pei poveri! Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del
male?» «No, no per amor del cielo», ripeteva Agnese. «Fermo!» disse Lucia, «voi
avete un mestiere, ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non
senta più parlare di noi». «Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e
moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo
pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto.
«Sentite!» disse Agnese: «sentitemi che son vecchia». Era questa una
confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma
necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue parole. «Io ho
veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non
è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono
talvolta imbrogliate imbrogliate perché non abbiamo la pratica per uscirne. Ma,
sapete, c'è della gente che si ride degli imbrogli. Fate a modo mio
Fermo. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa
mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe, andate a Lecco:
sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo». «Bene andate da lui,
presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può
regalare gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli
parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che
andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato
tornavano a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per disperazione
cade nell'acqua, e si trova in casa sua. Fate così Fermo». Nelle
situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di
pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio definitivo e
determinato presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo di
consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non nuoce, e nello stesso
tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si
troverà una uscita.
Fermo
adunque abbracciò molto volentieri il parere. Lucia vi aggiunse la sua
approvazione. Agnese superba di averlo dato pigliò i capponi,
riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le avvolse e
le strinse con uno spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date
e ricevute parole di speranza uscì per una porticella dell'orto, onde
non esser veduto dai ragazzi che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo
sposo. Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi
andò a prendere il viottolo che guida a Lecco, fremendo, ripensando alla
sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola. Lascio poi
pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie
così legate, e tenute per le zampe nella mano d'un uomo agitato da tante
passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il braccio in un momento
d'ira o di risoluzione, o di disperazione, dava scosse terribili a quei
prigionieri e faceva balzare le loro quattro teste spenzolate le quali si
andavano beccando l'una l'altra, come succede troppo sovente fra compagni di
sventura. In poco d'ora Fermo giunse a Lecco, e s'avviò alla casa del
dottore. All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i
poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dottore,
dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai
capponi, e si rincorò pensando che non veniva colle mani vuote. Entrato
in cucina chiese alla fantesca del signor dottore: la fantesca vide le bestie,
e come avvezza a simili doni vi pose le mani sopra, mentre Fermo le andava
ritirando, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava
qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui,
e passate nello studio». Fermo fece un grande inchino al dottore, che lo
accolse umanamente con un: «venite figliuolo», e lo fece entrare con sè
nello studio. Era questo una stanza con un grande scaffale di libri vecchi e
polverosi, un tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno
tre o quattro seggiole, e da un lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio
quadrato coperto di vacchetta inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle
quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della
copertura, che s'incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da
camera, cioè coperto d'una lurida toga che gli aveva servito molti anni
addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a Milano per
qualche gran causa. Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste parole:
«Figliuolo, ditemi il vostro caso».
«Vorrei
dirle una parola in confidenza», rispose Fermo. «Son qui per questo», rispose
il dottore: «parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone. Fermo stette ritto
dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello.
«Vorrei
sapere da lei che ha studiato...» «Già», interruppe il dottore,
«già voi altri siete tutti così; invece di contare il fatto
spiccio a chi può ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se
doveste esaminare il causidico. Ma via, qualche minuto di più non fa
niente: parlate a modo vostro».
«Ella
ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio. Vorrei
dunque sapere se a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio,
c'è penale».
—
Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva
capito) ho capito, — e pensò subito al modo di cavare partito da quello
ch'egli aveva immaginato. Si fece dunque serio, ma in guisa di chi teme per uno
che vuol soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono
inarticolato che accennava il sentimento che espressero più chiaramente
le sue prime parole: «Caso serio, figliuolo, caso contemplato. Avete fatto bene
a venire da me. Non è mica vedete una di quelle cose che si decidono con
leggi vecchie, scritte in latino, nelle quali ci è sempre una decisione
per una parte e per l'altra. È un caso chiaro, deciso in una grida,
confermata da una grida, tenete, dell'anno scorso, dell'attuale signor
governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo», e qui si alzò,
pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne
prese una, e segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche
cosa, signor dottore». «Orbene ecco il vostro caso».
«...quel prete non faccia quel che è
obbligato per l'officio suo: ecco ci siamo: non è questo il caso
vostro». «Pare che abbiano fatta la grida per me». «Vedete figliuolo? ora
mò sentite la penale...
Mentre
il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che
risguardavano il caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il
dottore aveva bisogno, Fermo compitando lentamente, seguiva coll'occhio la
lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle
benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto. Il dottore
alzò gli occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah!
figliuolo vi siete fatto radere il ciuffo: avete avuto prudenza: ma volendo
venire da me non faceva bisogno: si vede che non mi conoscete: non sapete
quello ch'io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di questo». Per aver la
ragione di questa uscita del dottore, bisogna che l'ignaro apprenda e il dotto
si ricordi che a quei tempi coloro che facevano il mestiere di bravi, e che
vivevano di soprusi fatti spontaneamente o per mandato, usavano molti ingegni
per travisarsi, e non esser riconosciuti, e togliere così una prova materiale
del delitto. L'uso più comune era quello di portare un lungo ciuffo che
ordinariamente lasciavano cadere dietro la testa, e si gettavano poi sul volto
come una visiera al momento di affrontare qualcheduno, di far qualche impresa
che era meglio di poter poi negare. Per togliere questo abuso si erano fatte
gride sopra gride, le quali proibivano che si portassero capelli lunghi, sotto
pena... e discendendo al particolare ordinavano al barbiere come dovesse tosare
uno, intimando a chi lasciasse capelli più lunghi dell'ordinario la pena
di 100 scudi, o tre tratti di corda colla solita estensione di pena maggiore
all'arbitrio di S.E. Quale effetto producessero queste gride è manifesto
dalle diverse date di quelle.
La
grida si ristampava di tempo in tempo coll'avvertenza che ciò era
necessario perché fino allora non aveva giovato a nulla: e come nella medicina,
si cresceva la dose. Il ciuffo era dunque come un'insegna di bravo, e di
scapestrato. Da questa foggia è nato un termine metaforico tuttavia in
uso nel dialetto milanese: e non vi sarà forse alcuno, dei miei lettori
milanesi che non si ricordi di aver sentito, nella sua adolescenza, alcuno de'
suoi parenti, o il maestro del collegio, o il servo che lo conduceva a scuola,
o la fante dare di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un
ciuffetto. Prego il lettore di perdonarmi questa digressione e come necessaria,
e in grazia della condizione che gli ho data, e ripiglio il dialogo.
«In
verità, da povero figliuolo», rispose Fermo, «ch'io non ho mai portato
ciuffo in vita mia».
«Non
facciamo niente» riprese il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra
maligno e impaziente: «se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice
bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la
verità al giudice. Io non ho tempo da perdere. Se volete ch'io v'ajuti,
voi dovete contarmi tutto dall'a alla zeta, sinceramente, come al confessore.
Dovete dirmi chi vi ha dato il mandato: sarà naturalmente persona di
riguardo; ed allora io andrò da lui a fare un atto di dovere: non gli
dirò mica, vedete, ch'io sappia da voi che vi ha mandato egli: fidatevi:
gli dirò che vengo ad implorare la sua protezione per un povero giovane
calunniato. E tutto si aggiusterà a vostra soddisfazione: capite bene
che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse
tutta vostra, via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio imbrogli, e pur ché
non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi
d'impiccio, con un po' di spesa. Basta che mi sappiate dire chi è
l'avversario, che forse forse troveremo modo di appiccicargli qualche
criminale, e forse forse lo metteremo in panni più stretti dei vostri, e
lo faremo venire a domandar grazia. Ma come vi ho detto, se non avete un uomo,
un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro, e se la cosa si deve
decidere fra la giustizia e voi così a quattr'occhi, state fresco. Io vi
parlo chiaro: le scappate bisogna pagarle: se volete dormir quietamente sopra
questa faccenda; denari, e sincerità, parlare col cuore in mano, e poi
obbedire, fare quello che vi sarà suggerito».
Mentre
il dottore faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando coll'attenzione
d'un uomo che sognando, s'immagina di cercar qualche cosa, ed ora gli pare
d'averla trovata, di mettergli le mani sopra, e poi la vede scomparire, e ne va
di nuovo in cerca: tanto era lontano dal sospettare l'equivoco preso dal
dottore. Quando questi ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e tra un poco di
collera, però quella collera che un buon uomo di contado può
avere contra un signore che sa, e tra un certo orgoglio di farsi vedere libero
da quei timori che il dottore supponeva, rispose: «Oh signor dottore: la cosa
non è così: io non ho minacciato nessuno: io non faccio di queste
azioni, e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho
mai avuto che fare con la giustizia.La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo
da lei per informarmi come io possa farmi dar ragione; e son ben contento
d'aver veduta quella grida». «Diavolo!» disse il dottore, «che confusione mi
avete fatta? tant'è siete tutti così, possibile che non sappiate
farvi intendere?» «Ma signor dottore, mi scusi io non le ho contata la cosa,
ora le conterò. Deve sapere ch'io doveva sposare oggi», e qui il povero
Fermo si commosse, «doveva sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha
mai dato da dire a nessuno, e avevamo fatto tutto da galantuomini, e il curato
che doveva sposarci oggi non volle perché... perché gli fu minacciata la vita.
Quel prepotente di Don Rodrigo...»
Il
dottore si fece serio davvero, e dando sulla voce a Fermo: «Eh!» gridò,
«che mi venite a contare di queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi
altri che non sapete misurare le parole, e non venite a farli con un galantuomo
che sa che cosa vuol dire parlare. Andate, andate; non sapete quel che vi
diciate: io non m'impaccio con ragazzi, non voglio sentire discorsi in aria».
«Lo giuro!» «Andate vi dico, siete un ragazzo, pare che parliate ad un uomo che
non abbia mai sentito giurare. Andate, io non c'entro: imparate a parlare: non
si viene così a sorprendere un galantuomo». Con queste frasi spezzate,
il dottore spingeva verso la porta Fermo, il quale andava ripetendo: «ma senta,
ma senta». Il dottore aperta la porta chiamò Felicita, e le disse:
«restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente,
non voglio niente». Felicita dacché era ai servigi del dottore non aveva mai
eseguito un ordine simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch'ella non
esitò ad obbedire: prese le quattro povere bestie, e le diede a Fermo,
guardandolo con un'aria di compassione spregiante che pareva volesse dire:
costui deve stare in cattivi panni, ne ha fatta una grossa. Fermo voleva far
cerimonie, ma il dottore fu inespugnabile; e Fermo attonito, e trasognato, e
stizzito dovette ripigliarsi le vittime rifiutate, e partirsi di là
senza poter riposare il suo pensiero in altra determinazione, che di tornarsene
a casa sua, a riferire alle donne il tristo risultato della sua consulta.
Lucia
al suo partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale
coll'umile abito quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della madre,
e a rispondere singhiozzando alle minute interrogazioni ch'ella le andava
facendo, mischiandole di qualche rimprovero sul suo aver sempre taciuto. Fra
questi tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il
suo arcolajo a dipanar seta. Ma la povera sposa andava pensando a quello che si
potesse fare; il primo ripiego che viene in mente ai poverelli è quello
di aver parere ed ajuto, e Lucia si sovvenne del Padre Galdino. Andare al
convento, ch'era distante forse due miglia; ella non ardiva, in questo
frangente, e aveva ragione, pensava dunque di cercare qualche garzoncello
disinvolto e fidato, per cui potesse fare avvertire il buon Capuccino. Mentre
ella stava per informare la madre del suo disegno s'ode picchiare all'uscio, e
nello stesso momento un sommesso ma distinto «Deo gratias...» Lucia,
immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un inchino,
entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia pendente
alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa attorcigliata e stretta nelle due
mani sul petto. «Frà Canziano» dissero le due donne. «Il Signore sia con
voi», disse il frate: «vengo per la cerca delle noci; e come il raccolto
è stato buono voi ne darete a Dio la sua parte, affinché ve ne dia un
altro eguale o migliore l'anno venturo; se però i nostri peccati non
attireranno qualche castigo». «Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri» disse
Agnese. Lucia si alzò, e si avviò all'altra stanza, ma prima di
entrarvi ristette dietro le spalle di frà Canziano che rimaneva ritto
nella medesima positura, e ponendosi l'indice sulla bocca diede alla madre una
occhiata che domandava il segreto con tenerezza, con supplicazione, con
fierezza, e anche con una certa autorità. Partita Lucia, frà
Canziano disse ad Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure fare oggi: ho
veduto nel paese come una confusione, come qualche cosa che indichi una
novità; che c'è?»
«Il
Signor curato è ammalato, e bisogna differire», rispose in fretta
Agnese, e per cangiare di discorso richiese come andasse la cerca.
«Poco
bene, buona donna, poco bene. Vedete tutto quello che ho. Son tutte qui», e
così dicendo si tolse la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli
occhi di Agnese; «son tutte qui, e per raccogliere questo ho mendicato in dieci
case». «Mah! l'anno è scarso, fra Canziano, e i poverelli mancano di
pane, quando il pane è caro tutto si misura più per sottile».
«Perché
l'anno è scarso, buona donna? pei nostri peccati; e per far tornare
l'abbondanza che rimedio c'è? l'elemosina. Eh! quando io era cercatore
in Romagna, la limosina delle noci era tanto abbondante, che bisognò che
un benefattore ci facesse la carità d'un asino, perché il cercatore non
poteva durare. E si faceva tant'olio al convento che i poveri venivano a
prendere ogni volta che ne avevano bisogno. Ma in quel paese avevano più
carità perché avevano avuta una grande scuola. Sapete di quel miracolo?»
«No in verità: contate contate». «Oh! dovete dunque sapere che molti anni
prima ch'io andassi in quel convento v'era stato un padre che era un santo; il
padre Agapito. Un giorno d'inverno ch'egli passava per un viottolo in un campo
d'un nostro benefattore, uomo dabbene anch'egli, dunque il padre Agapito vide
il benefattore vicino ad un gran noce, e quattro contadini colle scuri al piede
per gettarlo a terra; e avevano già fatta una fossa intorno per
iscoprire le radici. — Che fate a quella povera pianta? disse il nostro
religioso. — Eh padre sono anni che non fa più frutto ed io penso di
farne legna. — Non fate non fate, disse il padre; sappiate che quest'anno la
porterà più noci che foglie. — Il benefattore che sapeva con chi
parlava, ordinò subito ai lavoranti che gettassero di nuovo la terra
sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che continuava la sua strada, —
Padre Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà pel convento.
— Si sparse la voce della profezia, e tutti correvano a guardare il noce:
infatti a primavera, fiori a furia, e poi noci noci a furia.
Ma,
Dio non volle che il benefattore avesse la consolazione di abbachiare quelle
noci, e lo chiamò a sè prima del raccolto. La consolazione
toccò al figliuolo, ma fu corta perché era un poco di buono, come
sentirete. Ora dunque, al raccolto il cercatore andò per riscuotere la
metà che era dovuta al convento; e colui si fece nuovo affatto, ed ebbe
la temerità di rispondere che non aveva mai inteso dire che i frati
sapessero far noci. Il cercatore fece la sua denunzia al convento. Sapete ora
che cosa avvenne? Un giorno dunque quello scapestrato aveva invitato alcuni
suoi amici dello stesso pelo, e così gozzovigliando, egli raccontava la
storia del noce, e rideva dei frati. Quei giovinastri ebbero voglia di andare a
vedere quello sterminato mucchio di noci, ed egli li condusse al granajo. Ma,
sentite mò ora; apre la porta, va verso il cantuccio dove era il gran
mucchio, e mentre dice: — guardate —, guarda egli stesso e vede, che cosa? un
bel mucchio di foglie secche di noce. Questo fu un castigo, e benché il fatto
sia di molti anni addietro, ad ogni raccolto di noci se ne parla tuttavia in
quel paese».
Qui
ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a
fatica, tenendo i due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra
Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la
bocca di quella per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto
attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede
un'occhiata che voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in
elogj, in augurj, in promesse, in ringraziamenti; e rimessa la bisaccia si
avviò; ma Lucia, fermatolo: «vorrei un servizio da voi», disse. «Vorrei
che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura, e
che mi faccia la carità di venire da noi poverette, subito subito,
perché io non posso venire alla Chiesa».
«Non
volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino».
«Non
mi fallate».
«State
tranquilla»; e così detto partì un po' più curvo e
più contento che non quando era arrivato.
Il
Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i suoi, e in tutto il
contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa specie di
ordine che gli si mandava da una donnicciuola di venire da lei; la commissione
non gli parve strana niente più che se gli si fosse commesso di
avvertire il Padre Galdino che il Vicario di provvisione e i sessanta del
consiglio generale della Città di Milano lo richiedevano per mandarlo
ambasciatore a Don Filippo Quarto Re di Castiglia, di Leone etc. Non vi era
nulla di troppo basso né di troppo elevato per un Cappuccino: servire
gl'infimi, ed esser servito dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii
colla stessa aria mista di umiltà, e di padronanza; essere nella stessa
casa un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva
nulla, cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la
chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un Cappuccino, faceva tutto a un
dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di nulla. Uscendo dal suo
convento per qualche affare, non era impossibile che prima di tornarsene si
abbattesse o in un principe che gli baciasse umilmente la punta del cordone, o
in una mano di ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di loro gli
bruttassero la barba di fango. La parola frate in quei tempi era proferita
colla più gran venerazione, e col più profondo disprezzo; era un
elogio e un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri
riunivano questi due estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta
professione di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio,
e alla venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione poi
data generalmente al loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di
nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la
varietà del sentimento che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto
loro. Varj pure e moltiformi erano e dovevano essere i motivi che conducevano
gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto. Uomini compresi
della eccellenza di quello stato che allora era esaltata universalmente, altri
per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo,
come allora si diceva, nel secolo, altri per fuggire una persecuzione, per cavarsi
da un impiccio, altri dopo una grande sventura, disgustati del mondo, talvolta
principi o fastiditi, o atterriti del loro potere; molti perché di quelli che
entrano in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un
sentimento vero di amor di Dio e degli uomini, per l'intenzione di essere
virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perché quando si è persuasi
d'una verità bisogna dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha
tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti) questa loro
intenzione non era una pia illusione, l'errore d'un buon cuore e d'una mente
leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa o non
considera le circostanze e le idee di quei tempi: era una intenzione ragionata,
formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con queste intenzioni
molti abbracciando quello stato facevano del bene tutta la loro vita; anzi
molti che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero accresciuti i mali
della società, diventavano utili con quell'abito indosso. Ho fatta tutta
questa tiritèra perché nessuno trovi inverisimile che fra Canziano,
senza fare alcuna obbiezione, senza stupirsi, si sia incaricato di dire,
nullameno che al Padre Guardiano, che s'incomodasse a portarsi da una
donnicciuola che aveva bisogno di parlargli.
Partito
Fra' Canziano: «tutte quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di
miseria! e per noi che rimarrà? sei fuor di te per la disgrazia».
«Mamma», rispose Lucia, «perdonatemi; ma voi vedete quanto importi di parlar
subito al Padre Galdino che ci può dar parere e soccorso. Se io avessi
fatta una elemosina come gli altri, Fra Canziano avrebbe dovuto girare Dio sa
quanto, prima di aver la bisaccia piena, e di tornare al convento; e colle
ciarle che avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe dimenticata la mia
commissione...»
«Via,
hai pensato bene, e poi è tutta carità; purché faccia buon
frutto».
Mentre
le donne stavano in questi ragionamenti, Fermo, si avviava verso il villaggio
ripassando nella sua mente gli strani discorsi del dottore, passando d'una
passione nell'altra, proponendo ora un disegno or l'altro, e non potendo
riposarsi in alcuno. — Tutti così: siete fatti tutti così: andava
dicendo fra sè: oggi me lo sento dire per la seconda volta: siam fatti
così: come siamo dunque fatti noi poverelli? che cosa pretendo io da
costoro? andava forse a domandare la carità? Pretendo la giustizia, per
bacco, (ommettendo molte altre più che esclamazioni, perché Fermo non
aveva mai tanto sagrato in tutta la sua vita, come fece in quel giorno).
Pretendo alla fine delle fini di sposare una donna secondo la legge di Dio.
Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d'accordo per mandare gli stracci
all'aria! Ma, se mi riducono alla disperazione... — Con questi pensieri giunse
alla casetta delle due donne ed entrando colla faccia adirata, e vergognosa
nello stesso tempo per la trista riuscita, gittò i capponi sur un
tavolo; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie per quel
giorno.
«Bel
parere che mi avete dato» diss'egli ad Agnese, «mi avete mandato da un buon
galantuomo, da uno che ajuta veramente i poverelli». E qui raccontò il
suo abboccamento col dottore. Agnese voleva replicare, e sostenere che il
parere era buono, e che se non aveva avuto buon effetto la colpa doveva essere
di Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a Fermo ch'ella sperava di aver
trovato un miglior consigliero. Il nome del Padre Galdino diede qualche
speranza a Fermo; ma Fermo accolse anche questa speranza, come accade a quelli
che sono nella sventura e nell'impaccio. «Ma, se il Padre», diceva, «non vi
trova un ripiego, lo troverò io in un modo o nell'altro». Le donne
consigliarono la pace e la pazienza, e la prudenza. «Domani», disse Lucia, «il
Padre Galdino verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche
rimedio che noi poveretti non sappiamo nemmeno immaginare».
«Lo
spero», disse Fermo; «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela
fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente».
«Addio
Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non è lontano
il tempo che potremo star sempre insieme. Usate prudenza, non fatevi vedere,
non parlate». Agnese aggiunse altri consigli, e Fermo partì colle
lagrime agli occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in tempo queste
portentose parole: «A questo mondo v'è giustizia finalmente». Tanto
è vero che un uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello
che si dica.
CAPITOLO IV
IL PADRE GALDINO
Era
un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le
più alte cime erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte,
ma che stava per ispuntare dietro a quella montagna che dalla sua forma
è chiamata il Resegone (segone), quando il Padre Galdino a cui Fra
Canziano aveva esposta fedelmente l'ambasciata si avviò dal suo Convento
per salire alla casetta di Lucia. Il cielo era sereno, e un venticello
d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava qua e là.
Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si vedevano
splendere le viti per le foglie colorate di diversi rossi; e i campi già
seminati, e lavorati di fresco spiccavano dall'altro terreno come lunghi strati
di drappi oscuri stesi sul suolo. L'aspetto della terra era lieto; ma gli
uomini che si vedevano pei campi o sulla via mostravano nel volto
l'abbattimento e la cura. Ad ogni tratto s'incontravano sulla via mendichi
laceri e macilenti invecchiati nel mestiere, fra i quali molti si conoscevano
per forestieri che la fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove
la carità consueta non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto
ai pitocchi indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano
guardati in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si vedevano alcuni i
quali dal volto dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa la mano e
di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano cheti a canto
al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza dirgli nulla, perché
la sola parola che indirizzavano ai passaggeri era per chiedere l'elemosina, e
un capuccino, come ognun sa non aveva niente. Ma il buon Padre Galdino si
volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e
diceva loro in aria di compassione: «andate al convento, fratello; finché ci
sarà un tozzo per noi, lo divideremo». I contadini sparsi pei campi non
rallegravano più la scena di quello che facessero i poverelli.
Salutavano essi umilmente il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come
l'andasse: «Come vuole padre?» rispondevano: «la va malissimo». Alcuni, che in
tempi ordinarj non avrebbero osato fermare e interrogare il Padre Guardiano,
fatti più animosi per la miseria dei tempi gli dicevano: «Come
anderà questa faccenda, Padre Galdino?»
«Sperate
in Dio che non vi abbandonerà. Povera gente! il raccolto è
proprio andato male?»
«Grano
non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate e il lavoro cessa da
tutte le bande».
Questa
vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon
Capuccino, il quale camminava col tristo presentimento in cuore di andare ad
udire una qualche sventura.
Ma
perché aveva egli in cuore questo presentimento? E perché si pigliava tanto a
cuore gli affari di Lucia? E perché al primo avviso si era egli mosso come ad
una chiamata del Padre Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?
Se
il lettore non fa tutte queste interrogazioni per malevola impazienza né per
cavillare il povero narratore, ma per una sincera volontà d'imparare e
di essere informato della storia, legga quello che siamo per dirgli intorno al
nostro buon frate, e sarà soddisfatto.
Il
Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessant'anni; e il suo aspetto
come i suoi modi annunziavano un antico e continuo combattimento tra una natura
prosperosa, rubesta, un'indole pronta, ardente, avventata, impetuosa, e una
legge imposta alla natura e all'indole da una volontà efficace e
costante. Il suo capo calvo e coperto all'intorno secondo il rito capuccinesco
di una corona di capelli che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di
tempo in tempo per un movimento di spiriti inquieti, e tosto si abbassava per
riflessione di umiltà. La barba lunga e canuta che gli copriva il mento
e parte delle guance faceva ancor più risaltare le forme rilevate della
parte superiore del volto, alle quali una antica abitudine di astinenza aveva dato
più di gravità che tolto di espressione, e due occhj vivi,
pronti, che talvolta sfolgoravano con vivacità repentina: come due
cavalli bizzarri condotti a mano da un cocchiere col quale sanno per costume
che non si può vincerla, pure fanno di tratto in tratto qualche salto,
che termina subito con una buona stirata di briglie.
Il
signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che facendosi
poi frate prese il nome di Cristoforo) il Signor Ludovico era figlio d'un ricco
mercante cremonese, il quale negli ultimi anni suoi, vedovo, e con questo unico
figlio rinunziò al commercio, comperò beni stabili si pose a
vivere da signore, cercò di far dimenticare che era stato mercante, e
avrebbe voluto dimenticarlo egli stesso. Ma il fondaco, le balle, il braccio
gli tornavano sempre alla fantasia come l'ombra di Banco a Macbeth: in mezzo ai
conviti, e alle riverenze dei parassiti; e il pover'uomo passò gli
ultimi suoi anni nella angustia, parendogli ad ogni tratto di essere schernito,
e non riflettendo mai che in verità vendere e comprare non è cosa
turpe, e che egli aveva fatta questa professione in presenza di tutto il
pubblico senza rimorso. Fece educare signorilmente il figlio come s'usava in
allora, cercando d'imitare, in quanto gli era permesso dalle leggi, dalle
consuetudini, e dal timore del ridicolo. Gli diede maestri di lettere, e di
esercizi cavallereschi; e morì lasciandolo ricco e giovanetto. Ludovico
aveva contratte nella sua educazione abitudini signorili, e le ricchezze
avevano attirati adulatori che lo avevano avvezzo ad esigere molti riguardi;
quando volle mischiarsi coi principali del paese, l'accoglimento o piuttosto le
ripulse che n'ebbe fecero un contrasto molto spiacevole colle sue abitudini. A
rendere la sua situazione più angustiosa, e ad accrescere il suo mal
umore inquieto contribuiva anche non poco l'indole sua onesta ed iraconda ad un
tempo, che gli rendeva insopportabile lo spettacolo delle angherie e dei
soprusi che commettevano alla giornata quelli ch'egli non era portato ad amare.
Viveva egli lontano da essi, ma come non poteva non vederli, e non sentirne
parlare, ad ogni occasione mostrava apertamente il disprezzo e il rancore che
sentiva per essi. Questo sentimento unito alla bontà e all'amore della
giustizia ch'era grande in lui, lo portava ad assumere volentieri le difese
degli oppressi; e con molte sconfitte e con qualche riuscita, con molte spese,
con molti raggiri, con molta audacia, e con qualche guajo che aveva corso si
era fatta una riputazione di protettore, ch'egli era sempre più
impegnato a sostenere, e che gli aveva procurato il favore di molti, e l'odio
caldo e risoluto di alcuni potenti.
Quando
un povero andava a raccontargli un sopruso che gli era stato fatto, ed a
raccomandarsi alla sua protezione parlando come se la tenesse per sicura, come
se gli fosse dovuta, il signor Ludovico si trovava quasi forzato a pigliare
l'impegno, dal timore di perdere ad un tratto tutta la sua riputazione. Ma non
è da domandare se in questa sua carriera aveva avuto impicci, disgusti,
e pentimenti. Oltre i contrasti fortissimi, i pericoli, le inimicizie
crescenti, le spese per le quali aveva molto diffalcato del suo patrimonio;
egli si trovava poi spesso anche in lite colla sua coscienza, la quale come
abbiam detto era sincera e bene intenzionata. Talvolta colui che veniva a
richiamarsi, e che bisognava torre da un impegno, non valeva niente meglio del
suo persecutore, ed esaminando ben bene i fatti dell'una e dell'altra parte si
sarebbe trovato che se uno meritava la galea l'altro avrebbe dovuto andare a
fargli compagnia: talvolta il caso era chiaro, il ricorrente era onesto, e
meritava soccorso davvero; ma che? pigliata in mano la sua causa, per opporsi
ad una batteria di raggiri, di soprusi, di violenze, di busse, Ludovico aveva
dovuto mettere in opera tanti raggiri, tanti soprusi, tante violenze, menar
tanto le mani egli stesso che terminato l'affare, ripensando ai casi suoi, egli
si rimaneva con un nemico potente di più, con molti quattrini di meno, e
con dei rimorsi alla coscienza. Questo dopo una vittoria, non dico niente poi
delle sconfitte: e furono molte. Era poi tormentato dall'idea del biasimo che
gli era dato da molti d'imprudente e di accattabrighe, invece della lode
ch'egli si sarebbe aspettata.
Così
combattuto sempre tra la sua inclinazione, e gli ostacoli, rispinto sovente,
urtato ad ogni passo, stanco ad ogni momento su questa strada ch'egli aveva
scelta, più volte gli era passato per la mente il pensiero che nasce
dagli imbrogli e dai contrasti, il pensiero di uscirne e di attendere all'anima
sua col darsi alla solitudine, cioè col farsi frate, cosa che in quei
tempi si chiamava uscire dal secolo. Ma questo che non sarebbe stato forse che
un disegno per tutta la sua vita, divenne una risoluzione per uno di quegli accidenti
che nelle sue circostanze non gli potevano mancare. Andava egli un giorno per
una via di Cremona, accompagnato da un antico fattore di bottega che suo padre
aveva trasmutato in maggiordomo, e che gli era stato fidato fino dall'infanzia.
Aveva costui nome Cristoforo: era un uomo di circa cinquant'anni, aveva moglie
ed otto figli; e tutta la famiglia sussisteva colle paghe del padre, e col di
più che vi aggiungeva la liberalità di Ludovico, il quale e per
buon cuore e per un po' di boria non avrebbe mai lasciato mancar nulla ad un
uomo che gli apparteneva. Vide Ludovico venir da lontano un signor tale col
quale egli non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nimico, e
ch'egli pagava della stessa moneta: caso molto comune; perché è uno dei
diletti di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiato senza
conoscersi. Costui si avanzava ritto, colla testa alta, colla bocca composta
all'alterigia e allo sprezzo, mostrando di non voler scendere verso il mezzo
della via.
Ora
bisogna sapere che Ludovico aveva il suo lato destro al muro, e che per
conseguenza aveva il diritto (bel diritto!) di passare accanto al muro, e che
l'altro doveva dargli il passo, ma come abbiam detto, costui accennava
tutt'altro che la voglia di farlo. Anzi quando furono presso, guardando d'alto
in basso Ludovico, gli disse con aria di comando: «Tiratevi a basso».
«A
basso voi», rispose Ludovico: «la strada è mia».
«Coi
pari vostri, la strada è sempre mia».
«Sì
s'ella appartenesse ai soperchiatori».
«A
basso, vile plebeo, o ch'io ti dò quella educazione che non ti poteva
dare tuo padre».
«Voi
mentite ch'io sia vile: ma non è da stupire che siate così
prodigo di quello che avete in tanta copia».
«Tu
menti ch'io abbia mentito», disse con furia e con disprezzo quel signore: e
questa risposta era di prammatica, come ora sarebbe dire: — benissimo — a chi
vi domanda della vostra salute: indi soggiunse; «e se tu fossi cavaliere come
son io, ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che tu sei il
mentitore».
«È
buona sorte per voi l'esser cavaliere; così potete essere insolente e
dispensarvi di sostenere la vostra insolenza, come vile che siete».
Così
dicendo pose mano alla spada.
«Temerario»,
gridò quel signore, «io spezzerò questa», e la cavò pure
così dicendo «dopo che sarà macchiata del tuo sangue».
Così si avventarono l'uno sull'altro. Cristoforo venne in ajuto del suo
padrone e cavò il suo coltello; e due servitori che accompagnavano il
signore andarono addosso a lui e a Ludovico. La gente si ritirava da ogni parte,
e giacché nessuno di quelli che s'abbattevano nella via era interessato per
amicizia, o per onore a pigliar parte nella disputa, la quale da duello divenne
tosto un fatto generale. Il signor Ludovico e il suo Cristoforo dovevano
difendersi contra tre, e il combattimento era tanto più diseguale che
Ludovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico che ad
ucciderlo; ma il signore voleva la vita dell'avversario. Ludovico aveva
già toccata in un braccio una pugnalata d'un servitore; e il nemico gli
cadeva addosso per finirlo, quando Cristoforo vedendo il suo padrone
nell'estremo pericolo s'avventò col pugnale al signore, il quale rivolta
tutta la sua ira contro di lui lo passò colla spada. A quella vista
Ludovico scordato ogni ritegno cacciò la sua nel ventre del provocatore,
il quale cadde quasi ad un punto col povero Cristoforo: i servitori veduto il
padrone sul terreno, si diedero alla fuga: e Ludovico rimase solo e ferito, e
circondato dal popolo che accorreva, vedendo finita la guerra. «Che è?
che è? — Come è andata? Son due morti. — Gli ha fatto un
occhiello nel ventre. — Chi? a chi?» Grida e confusione; e il povero Ludovico,
col compagno ucciso, e quel che è peggio col nemico ucciso da lui, si
trovava in mezzo ad una folla che lo stringeva d'ogni parte. Ma, come è
facile da supporre, il favore era piuttosto per lui che per l'avversario, e
tutti cercavano di salvarlo. Il caso era avvenuto vicino ad una Chiesa di
Capuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel
complesso di cose e di persone che si chiamava la giustizia. Il povero ferito
fu quivi condotto o portato dalla folla, e quasi fuori di sè pel furore,
pel rimorso, e pel dolore i padri lo accolsero dalle mani del popolo, che lo
raccomandava ai suoi ospiti, dicendo: «è un uomo dabbene, che ha fatto
freddo un birbone».
Ludovico
non aveva mai prima d'allora versato sangue; e benché l'omicidio fosse a quei
tempi cosa tanto comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo
raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione che Ludovico ricevette
dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova e terribile, fu
una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico,
l'alterazione de' suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal
furore, all'abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in un
punto l'animo dell'uccisore. Strascinato al convento egli non sapeva quasi dove
fosse e che si facesse; e cominciò appena a comprendere la sua situazione,
quando si trovò in un letto della infermeria, nelle mani del frate
chirurgo (i capuccini ne avevano sempre alcuno) che aggiustava faldelle e bende
sopra due ferite leggieri ch'egli aveva ricevute nello scontro.
Un
padre che assisteva più frequentemente ai moribondi, e che aveva spesso
reso di questi uficj sulla via, fu chiamato tosto sul luogo del combattimento;
e tornato pochi momenti dopo, entrò nella infermeria, e fattosi al letto
dove Ludovico giaceva: «Consolatevi», gli disse; «almeno è morto bene, e
mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo». Questa
parola fece rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli risvegliò
più vivamente e più distintamente i sentimenti che erano confusi
e affollati nel suo cuore, dolore per l'amico, pentimento e rimorso di
ciò ch'egli aveva fatto, e nello stesso tempo un senso forte e sincero
di commiserazione e di amore per l'infelice ch'egli aveva ucciso: Ludovico
allora avrebbe volentieri data la sua vita per ricuperare quella del suo
nemico. «E l'altro?» domandò al padre. L'altro era spirato.
Frattanto
le uscite e i contorni del convento erano affollati di popolo curioso: ma
giunta la sbirraglia fece smaltire la folla, e si pose in agguato a una certa
distanza dalle porte; ma in modo che nessuno potesse uscirne inosservato. Un
fratello del morto, due suoi cugini, e un vecchio zio vennero pure armati da
capo a piede; e facevano la ronda intorno, guardando con aria di minaccia gli
accorsi del popolo, i quali mostravano nei volti quasi una sorta di trionfo e di
contentezza.
Appena
Ludovico potè riflettere più pacatamente, chiamato un frate
confessore, lo pregò che andasse a casa della moglie di Cristoforo, che
l'assicurasse ch'egli non aveva fatto nulla per cagionare la morte del suo
amico, e nello stesso tempo le desse parola ch'egli si riguardava come il padre
della famiglia. Quindi pensando ai casi suoi, il pensiero di farsi frate che
tante volte come abbiamo detto gli era passato per la mente, gli si
presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione. Chiamò il
guardiano, e gli aperse il suo cuore, e n'ebbe in risposta, che bisognava
guardarsi dalle risoluzioni precipitate, ma che s'egli persisteva, non sarebbe
rifiutato. Allora egli fece chiamare un notajo, e fece in buona forma una
donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel
patrimonio) alla famiglia di Cristoforo; una somma alla madre, come se le
costituisse una contraddote, e il resto ai figli.
Gli
ospiti di Ludovico erano impacciati assai. Consegnarlo alla giustizia,
cioè alla vendetta de' suoi nemici, oltreché l'esser cosa vile e crudele
(ragione che è più potente quando è accompagnata da
altre), sarebbe stato lo stesso che rinunziare al privilegio di asilo,
screditare il convento presso tutto il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti
i capuccini dell'universo per aver lasciato ledere il diritto di tutti, tirarsi
contra tutte le autorità ecclesiastiche, le quali allora si
consideravano come tutrici di questo diritto. Per l'altra parte la famiglia
dell'ucciso era potentissima, forte di aderenze, irritata, e si faceva un punto
d'onore di vendicarsi, e minacciava della sua indegnazione tutti quelli che
mettevano un ostacolo alla vendetta. E quand'anche ai parenti fosse poco
importato della morte del loro congiunto (cosa che la storia non dice
però) tutti avrebbero esposta la loro vita per avere nelle mani
l'uccisore; e come toglierlo dalle mani dei capuccini sarebbe stato un esempio
insigne, di cui si sarebbe parlato per più d'una generazione, e che
avrebbe renduta sempre più rispettabile la casa, così erano tutti
impegnati, accaniti a riuscirvi.
La
risoluzione di Ludovico era il miglior ripiego per cavare i frati da questo
viluppo. Vestendo l'abito di capuccino, egli faceva una specie di riparazione,
rinunziava a tutte le massime di puntiglio e di vendetta che allora si
consideravano come leggi eterne e naturali di onore, rinunziava ad ogni
nimicizia, ad ogni gara, era insomma un nemico che depone le armi e si arrende.
I parenti poi potevano anche credere e dire che Ludovico si era indotto a
ciò per disperazione e per timore; e ridurre un uomo a rinunziare tutto
il fatto suo, a tagliarsi i capelli, a crescersi la barba, a camminare a piedi
nudi, a non possedere un quattrino, a dormire sulla paglia, a vivere di
elemosina, poteva parere un castigo bastante anche all'offeso il più
superbo. Il Padre Guardiano andò umilmente dal fratello del morto, e
dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di
servirla in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della chiesa,
parlò del pentimento di Ludovico (che era vero), e della sua
risoluzione, come se chiedesse un consiglio o quasi un permesso. Il fratello
diede nelle smanie, che il capuccino lasciò passare, dicendo di tempo in
tempo: «è un troppo giusto dolore»: parlò alteramente, e il
capuccino raddoppiò di umiltà e di complimenti; fece intendere
che in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una soddisfazione; e
il capuccino che non ne era persuaso, non gli contraddisse però;
finalmente domandò, impose come una condizione che l'uccisore di suo
fratello partirebbe tosto da Cremona. Il capuccino, che aveva già
pensato di far così, mostrò di accordar questo alla deferenza
ch'egli e tutti i suoi avevano per l'illustrissima casa, e tutto fu conchiuso.
Contenta
la famiglia per le ragioni che abbiam dette, contenti i frati, contenti quelli
che avrebbero dovuto punire Ludovico, perché dopo la donazione fatta da lui di
tutto il suo avere, la persecuzione che gli si sarebbe fatta non avrebbe
portato che impicci e fatiche, contento il popolo il quale vedeva salvo un uomo
che amava, dalle persecuzioni di prepotenti che odiava; e che nello stesso
tempo ammirava un conversione; contento finalmente ma per motivi diversi e
più alti il nostro Ludovico; il quale non desiderava altro che di
cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli altri che
potesse compensare il male ch'egli aveva fatto, e raddolcire il sentimento
insoffribile del rimorso. Così Ludovico a trent'anni si avvolse, come si
direbbe poeticamente, nelle ruvide lane, diede un eterno addio al mondo ed al
barbiere, e fu novizio. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita al
timore lo afflisse un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa
ingiustizia. Ognuno sa che quando uno si affigliava ad una regola, lasciava il
nome di battesimo, e ne prendeva un altro; Ludovico assunse quello di
Cristoforo.
Appena
Fra Cristoforo ebbe assunto l'abito, il guardiano gl'intimò che andrebbe
a fare il noviziato a Modena, e partirebbe all'indomani. Il novizio gli si
gettò allora ai piedi, e lo chiese d'una grazia. «Io parto», diss'egli,
«da questa città dove ho sparso il sangue d'un uomo, e vi lascio i
congiunti di esso e un fratello, quelli che io ho offesi, senza aver fatta una riparazione.
Permettetemi che io quanto è da me ripari almeno col fratello
l'ingiuria, e tolga se si può il rancore dal suo cuore». Al guardiano
parve che questo passo, fatto con tutte le precauzioni, riconcilierebbe al
tutto il convento colla famiglia e gli disse che gli darebbe risposta, e
andò difilato dal fratello dell'ucciso, esponendogli la richiesta di Fra
Cristoforo. Dopo qualche sbruffo di collera, e qualche esitazione: «venga
domani» diss'egli, e indicò l'ora. Il guardiano si assicurò che il
novizio non arrischiava nulla, e gli diede la licenza desiderata.
Il
signore superbo pensò tosto che poteva dare molta solennità a
questa riparazione, e soddisfare così in un punto la vendetta e
l'orgoglio, e crescere la sua importanza presso tutta la parentela, e presso il
pubblico: e fece avvertire in fretta tutti i parenti che all'indomani al mezzo
giorno restassero serviti (così si diceva allora) di venire da lui per
ricevere una soddisfazione comune. Al mezzogiorno la casa era piena di signori
d'ogni età e d'ogni sesso, tutti in grande apparato, con grandi cappe e
con durlindane infinite con... Il cortile e le anticamere e la strada
formicolavano di servi, di paggi, e di bravi. Fra Cristoforo vide tutto
l'apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un picciolo contrasto fu contento
che la riparazione fosse clamorosa. — L'ho ucciso in pubblico, diss'egli fra
sè, alla presenza dei suoi nemici: quello fu lo scandalo; questa
è riparazione —. Così con gli occhi bassi, col padre compagno al
fianco, attraversò la folla che lo riguardava con una curiosità
poco cerimoniosa, salì le scale, e con una confusione che cercava di
vincere giunse di sala in sala alla presenza del fratello il quale era
circondato dai parenti più prossimi.
Fra
Cristoforo gli si gettò ai piedi e disse: «Io sono l'omicida di vostro
fratello. Sa Iddio se io vorrei restituirvelo a costo del mio sangue; ma non
potendo che farvi inutili scuse, vi supplico di accettarle per Dio, e di
perdonarmi». Tutti gli occhi erano rivolti sul povero novizio e sull'uomo a cui
egli parlava, e s'intese un mormorio di pietà, e di rispetto. Il signore
che stava in atto di degnazione forzata e d'ira compressa, e si preparava a
goder d'un trionfo, fu turbato, e chinandosi verso l'inginocchiato: «Alzatevi»,
disse; «l'offesa... ma l'abito che portate... non solo questo; anche per voi...
Si alzi padre... Mio fratello... non lo posso negare; era... era un po'
caldo... ma, quello che Dio ha voluto... Non se ne parli più... Padre si
alzi per amor del cielo»; e presolo per le braccia lo sollevò...
Fra
Cristoforo alzato quasi a forza, e tenendosi pur chino rispose: «Se quegli che
io non oso nominare ha fallato, ha avuto pur troppo un severo castigo, e spero
che Dio misericordioso si sarà contentato di questo, e gli avrà
dato il suo perdono; ma io son qui, e non ho altro motivo per pretenderlo da
lei che la sua bontà, e i meriti del signore».
«Perdono!»
disse il signore: «ma padre Ella non ha bisogno... pure giacché lo vuole:
certo, certo io le perdono di cuore, in nome anche di tutti», e qui si
guardò intorno, e gli astanti: «sì sì» gridarono ad una
voce «tutti tutti». Allora il signore mosso dall'aspetto del frate, e dal
sentimento di tutti gli astanti, gettò le braccia al collo di
Cristoforo, il quale stringendolo più basso ricevette da lui e gli
rendette il bacio di pace.
Tutti
allora furono intorno a Fra Cristoforo, e la conversazione divenne generale. Il
signore che aveva voluto in questa occasione far pompa di tutto, aveva fatto
preparare un rinfresco sontuoso, e fatto cenno ad un cameriere, si
riavvicinò a Fra Cristoforo il quale stava in atto di accomiatarsi, e
gli disse: «Padre mi dia una prova di amicizia col gradire una picciola
refezione, e fare un po' di festa con noi». Intanto giunsero i rinfreschi. Il
signore volle servire pel primo il buon novizio: il quale scusandosi con
umiltà cordiale: «Queste cose» disse «non sono più per me; ma
tolga il cielo ch'io rifiuti i suoi doni: io sto per pormi in viaggio, si degni
di farmi portare un pane, perché io possa dire di aver goduta la sua
carità, di aver mangiato il suo pane, di aver questo segno del suo
perdono».
Il
signore commosso ordinò che così si facesse e tosto giunse un
cameriere riccamente vestito, che portando un pane sur un bacile d'argento lo
presentò al Padre, il quale presolo e ringraziato, lo pose nella sua bisaccia.
Il signore alzando la voce disse al cameriere: «si mandi pane bianco e vino al
convento per tutta la comunità». Dopo alcuni momenti Fra Cristoforo
chiese licenza, ed abbracciato di nuovo il signore, e tutti quelli che lo
stringevano e che volevano pure abbracciarlo, si sviluppò da essi a
fatica, ebbe a combattere nelle anticamere per isbrigarsi da quelli che gli
baciavano il lembo dell'abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò
nella via portato come in trionfo, ed accompagnato da una folla di popolo fino
alla porta donde uscì cominciando il suo pedestre viaggio verso il luogo
del suo noviziato.
Il
fratello dell'ucciso e il parentado, che si erano preparati ad assaporare quel
giorno la trista gioja dell'orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioja
serena del perdono e della benevolenza. La conversazione rimase più
pacata, più semplice, senza apparato, cordiale: e invece di trattenersi
di riparazione, di puntigli, di ricantare le storie delle soddisfazioni prese,
e dei sopramani vendicati, non si parlò che del Padre Cristoforo, e
delle virtù dei capuccini; e taluno che per la cinquantesima volta
avrebbe raccontato come il Conte Muzio suo avo aveva saputo fare stare quel
Marchese Stanislao che ognun sa che Rodomonte era, parlò invece della
vita penitente di un Fra Benedetto, morto molti anni prima. Sciolta la brigata,
il signore, ancora tutto commosso si maravigliava di tratto in tratto fra
sè di ciò che aveva detto, di ciò che aveva sentito, e
borbottava fra i denti: «Gran Frate, Frate singolare! Se rimaneva ancor
lì per qualche momento, quasi quasi gli avrei domandato io scusa
perch'egli mi abbia ammazzato il fratello!» Però è da notarsi che
tutti i convitati partirono di là un po' migliori di quello che vi
fossero andati, e ch'egli stesso fu per tutta la sua vita un po' meno superbo e
un po' più indulgente.
Il
Padre Cristoforo camminava con una consolazione quale non aveva provata mai
dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva essere
consacrata. Ai novizj era imposto silenzio; e Cristoforo serbava senza fatica
questa legge, tutto assorto nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e
delle umiliazioni che avrebbe incontrate per espiazione del suo fallo.
Fermandosi all'ora della refezione presso un benefattore, egli si mangiò
con una specie di voluttà il pane del perdono: ma ne risparmiò un
tozzo, e lo ripose nella sporta onde serbarlo come un ricordo perpetuo.
Non
è nostro disegno di narrare la vita fratesca del nostro buon padre:
diremo dunque soltanto ch'egli passò il suo noviziato sostenendo
alacremente le dure discipline di quello stadio, e sottomettendosi bravamente
alle prove, talvolta assai strane a cui erano posti i novizj; facendo per
ragione ciò che gli appariva ragionevole, e pensando pel resto che un
omicida non doveva esser trattato con molte cerimonie. Divenuto frate professo
egli si consacrò specialmente in quanto dipendeva dalla sua scelta a tre
sorta di servizi: assistere moribondi, comporre dissidj... e proteggere gli
oppressi. A questa ultima occupazione era egli portato dalla antica abitudine,
la quale operava in lui con motivi più puri, e da un resto di spirito
guerriero che le umiliazioni e le macerazioni non avevano sopito. Il suo
linguaggio come le sue azioni mostravano a chi l'avesse attentamente considerato
i segni di questo spirito indeboliti ad ogni momento da uno sforzo continuo, ma
non mai cancellati del tutto.
Era
a quei tempi comunissima a tutte le classi di persone l'usanza d'infiorare il
discorso di quelle parole delle quali quando si vogliono stampare non si pone
che l'iniziale con alcuni puntini, di quelle parole che esprimono o ciò
che vi ha di più sozzo o ciò che vi ha di più riverito, di
quelle parole le quali quando scappano ad un signorino nella puerizia, fanno
fare viso dell'arme alla mamma, e la fanno sclamare: «ohibò! dov'hai tu
inteso questo: nella via o dai servitori certamente» (e l'avrà inteso
dal signor padre) di quelle parole che non sono sconosciute nelle sale fastose,
e che formano la terza parte dei colloquj del popolo, al quale dicono alcuni
sapienti che converrebbe abbandonarle; ma questi sapienti non dicono bene,
perché comunque gli uomini sieno classificati, non vi ha alcuna classe d'uomini
alla quale convenga ciò che è turpe. Quest'uso era adunque comunissimo
in allora, e chi ne vuol la prova dia una occhiata alle leggi che bestemmiavano
pene atroci per impedir la bestemmia, guardi alla cura che i vescovi prendevano
per togliere questa vergogna dal clero stesso. Il signor Ludovico aveva fatto
un tale uso di queste frasi che la lingua del Padre Cristoforo durava fatica a
rimandarle tutte le volte che si presentavano, cioè ad ogni primo impeto
di passione di qualunque genere; ma il Padre Cristoforo faceva stare la sua
lingua. Solamente in certi casi rari, nei quali la passione era tanto viva che
quasi quasi Cristoforo tornava per un momento Ludovico, veniva ad un
componimento. Si proferivano le parole, ma trasformate: ad alcune consonanti
radicali n'erano sostituite altre che toglievano il senso ordinario alla
parola, e lasciavano soltanto travedere una lontana intenzione, quasi un
bisogno di proferirla. Così mutato, trasformato, temperato era l'animo,
in modo però che riteneva alquanto dell'antica sua natura.
Abbiamo
già detto che la Lucia si confessava dal Padre Cristoforo, e che gli
aveva confidate le sozze persecuzioni di Don Rodrigo. È quindi naturale
che il Padre accorresse alla chiamata di Lucia con ansia tanto più
grande, che avendole egli dato consiglio di non palesar nulla, e di starsene
quieta sperando che la burasca passasse, temeva ora che il suo consiglio fosse
stato cagione di qualche nuovo pericolo; ed alla sollecitudine di carità
che gli era naturale, si aggiungeva quello scrupolo delicato che tormenta i
buoni.
Ma
frattanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del Padre Cristoforo, egli
è giunto, si è affacciato alla porta; e le donne lasciando il
manico dell'aspo che facevano girare e stridere, si sono alzate, dicendo ad una
voce: «Oh Padre guardiano!»
CAPITOLO V
IL TENTATIVO
Il
qual padre guardiano si fermò ritto sulla soglia, e vedendo le due donne
sole, abbassò gli occhi, e si raccolse un momento, come era uso a fare
dacché era divenuto capuccino, tutte le volte che si trovava solo in presenza
di qualche persona di quel sesso terribile, che non avesse l'età
prescritta alle fantesche dei curati. Rialzando poi lo sguardo, s'accorse al
volto turbato delle due donne che i suoi presentimenti non erano fallaci; e
soprastato alquanto sulla soglia come per aspettarne la trista conferma, disse
con quel tuono di interrogazione che si risente già di ciò che
deve significare una risposta troppo preveduta: «E bene?» Lucia rispose con uno
scoppio di pianto. La madre cominciò dal chiedere scuse infinite al
padre guardiano dell'avere ardito incomodarlo, ma egli si avanzò e
postosi sur un sedile contesto di alga, troncò tutte le scuse, e dopo
aver detto a Lucia: «quetatevi povera figliuola», domandò di essere
informato di tutto brevemente. Il buon Padre ben si accorgeva di mettere una
condizione un po' dura e difficile; Agnese gli raccontò tutta la trista
storia del giorno antecedente fra le interruzioni del guardiano, che faceva
abbreviare le ciarle e che chiedeva schiarimenti, e che di tempo in tempo
diceva qualche parola di compassione e di conforto a Lucia che singhiozzava
amaramente. Quando la storia fu terminata; «Dio benedetto!» sclamò il
Padre Cristoforo: «fino a quando li lascerai fare costoro?» Indi volgendosi
tosto alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha visitate: povera Lucia! mah!
non vi perdete d'animo: Dio vi ajuterà, ve lo prometto io: oh non vi ha
mica creata perché foste tormentata da costui: Dio ha i suoi fini, e al termine
delle cose si vede la sua mano. Ascoltate; io vi prometto di non abbandonarvi:
oh non vi abbandonerò certo; mah! Dio sa quello che io potrò
fare: e chi sa che Dio non voglia servirsi di un uomo da nulla come son io per
cambiare un prepotente, e per sollevare dei poverelli. Lasciate ch'io pensi un
momento che cosa si possa fare per andare incontro al pericolo più pressante,
e poi Dio provvederà». Così dicendo appoggiò il gomito
sinistro sul ginocchio, e la fronte nella palma, e colla destra strinse il
mento barbuto, come per concentrare e tener ferme tutte le forze della sua
mente; Lucia stava aspettando con fiducia e con dolore, e la madre mandava
giù giù lo sguardo quanto poteva per ispiare qualche cosa dei
pensieri del padre, il quale fece mentalmente questo monologo: — Poffare, che
quell'uomo dovesse giungere a questo segno! Eh non è il primo pur
troppo! Ma non ci sarà chi possa farlo stare? Vediamo. Quello che
più importa sarebbe di far succedere subito il matrimonio. Per... dinci:
il signor curato fa una gran villania, e io gli parlo fuor dei denti... ciarle,
ciarle: egli sa che io non dò pugnalate, e mi lascerà dire, o mi
risponderà bravamente. Ma posso fargli paura anch'io: se trovassi il
modo di fargli venire un comando, ma un comando, e con un buon rabbuffo:
Monsignore illustrissimo non vuole di queste infami porcherie, sì ma
intanto, che cosa può accadere? No no bisognerebbe mettere in salvo
questa povera colomba e mettere un freno a quel birbante. Il fatto è
chiaro: la legge c'è; e la giustizia,... quando fosse stimolata. Eh qui
non facciamo niente: costui gli spaventa tutti: toccare Don Rodrigo,
già! per amor di Dio! chi l'oserebbe? Ma il mondo poi non finisce qui:
costui fa il tiranno spaventa questi poveri foresi che lo credono più
potente che non è! E il cordone di San Francesco ha legate altre spade
che quella di costui: se potessi mettere in moto le mie barbe a Milano... E
intanto? e poi? e poi? E chi sa se non sarei contraddetto da alcuni dei nostri?
costui fa il protettore dei cappuccini, l'amico del convento: e i suoi bravi si
sono ricoverati talvolta da noi... e chi sa come si rappresenterebbe la cosa? e
quando si vedesse che si tratta di soccorrere una povera figlia che non
può compensare con altrettanta protezione! Ah! se fosse una gran
signora! Ma se fosse una gran signora non sarebbe in questo caso. Oh poveretti
noi! Oh che tempi! Quando io credeva che facendomi cappuccino sarei fuori di
questo mondo infame! Eh non se ne va fuori che quando si muore. E fare un
tentativo presso Don Rodrigo? Ehn! che cosa varranno le parole d'un povero
frate su quel diavolo in carne? Eppure non c'è altro da fare. Chi sa che
adoperando preghiere, qualche minaccia lontana: fargli sentire che c'è
qualcheduno che sa quel che si può fare contra uno scellerato
soperchiatore? Forse non sarà che un infame cappriccio venutogli
dall'aver tanto fatto impunemente: e quando vedrà che l'affare
può diventar serio... Sì non c'è altro, non c'è
altro. Se non altro si vedrà come giuoca costui, e si guadagnerà
tempo.
Il
Padre Cristoforo si fermò in questa determinazione, pei motivi che
abbiamo riferiti, e che in verità bastavano se non a farne sperar molto,
a renderla almeno preferibile ad ogni altra: ma dietro a tutti questi motivi ve
n'era un altro che dava un gran peso a tutti questi, e che quantunque agisse
così potentemente non era distintamente avvertito da lui. Il Padre
Cristoforo era portato a cogliere con premura una occasione di trovarsi a
fronte d'un soperchiatore, di resistergli se non altro con esortazioni, di
confonderlo, e di provargli ch'egli aveva il torto, e di combatterlo e di
vincerlo come che fosse.
Mentre
il buon frate stava ancor meditando, Fermo il quale per tutte le ragioni che
ognuno può indovinare non sapeva star lontano da quella casa, erasi
affacciato alla porta, e visto il padre assorto, e le donne che gli facevano
cenno di non disturbarlo, sdrucciolò per un angolo della porticella
nella stanza, e costeggiando il muro andò a riporsi tacitamente in un
angolo della stanza. Quando il Padre si alzò per comunicare alle donne
il suo disegno, s'accorse di Fermo, e gli fece un saluto che esprimeva una
affezione resa più intensa dalla pietà, e Fermo ne fu commosso.
«Ha
saputo?» disse Fermo.
«Pur
troppo ho inteso la vostra disgrazia» rispose il Padre; «ma tu non ti perderai
d'animo come queste poverette, e sopra tutto aspetterai che Dio ti ajuti, e Dio
ti ajuterà».
«Benedette
le sue parole», rispose Fermo: «ella non è di coloro che danno sempre
torto ai poverelli, e che rimproverano una disgrazia come se fosse una colpa.
Ma il signor curato e il signor dottore...»
«Non
pensare a questo che è inutile: io sono un povero frate, ma ti ripeto
quello che ho detto a queste donne: per poco ch'io sia non vi
abbandonerò». «Oh lei non è come gli amici del mondo. Sciaurati!
dopo tante promesse fatte nell'allegria, che darebbero il sangue per me, che mi
avrebbero sostenuto sempre, che se avessi avuto briga con qualcuno per
cavaliere ch'ei fosse... e poi: se vedesse come si ritirano: oh nessuno
più ne vuol sentire a parlare...»
Mentre
Fermo parlava il Padre Cristoforo lo guardava coi suoi occhi scintillanti, e
prendeva un'aria severa di modo che Fermo si andava accorgendo che le parole
sue non erano gradite, ed ora voleva lasciar cadere il discorso, ora tentando
di raggiustare la faccenda, si andava incespicando e pronunziava parole
sconnesse... «voleva dire: cioè Padre, non m'intendo mica...»
«E
che Fermo! dunque tu avevi cominciato a guastare l'opera mia, prima ch'ella
fosse intrapresa! Tu pensavi a difenderti della violenza colla violenza!
Ringrazia il cielo che sei stato disingannato a tempo. Come! tu speravi
soccorso da questi che tu chiami amici? Soccorso per liberarti dalla
ingiustizia? Poveretto! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita e il
suo riposo per sagrificarlo alla giustizia, alla giustizia altrui? Sì;
pel denaro, per la vendetta, pel diletto di far male l'uomo disprezza il pericolo;
sì allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioja ad affrontare
il suo simile: ma perché uno non sia oppresso, ma perché non s'impedisca una
cosa giusta, ma perché le cose vadano come dovrebbero andare, tranquillamente
ordinatamente, tu credevi che troveresti chi si armerebbe con te contra un
potente? Gli uomini non provano per questo quella gioja feroce che fa
desiderare di affrontarsi coll'uomo: o se ve n'ha di tali sono tanto rari...; e
— a queste parole Fra Cristoforo strinse fortemente la mano a Fermo — e anche
questi han torto. Ringrazia il cielo che non ti ha dato il tempo di confidare
in questi ajuti tanto da far qualche cosa della quale ti saresti pentito.
Ascolta, Fermo, io son pronto a fare quello che posso per voi; ma vi pongo una
condizione».
«Comandi,
padre guardiano».
«Tu
mi devi promettere che ti fiderai di me, che non affronterai, che non
provocherai nessuno...»
«Promettete
promettete», dissero le donne.
«Prometto
prometto», disse Fermo.
«E
bene» continuò il buon frate; «importa assai che di questo affare si
parli il meno possibile: perché i discorsi potrebbero rendere inutili i miei
sforzi per farlo terminar bene: io spero che quelli che tu chiamavi amici non
parleranno, per la stessa ragione che gli ha distolti dall'operare. Io andrò
oggi a parlare con quell'uomo dal quale viene tutto questo male, e non dispero
di far tutto finire: in ogni caso, vi prometto di nuovo di non abbandonarvi
mai. Frattanto voi state ritirati, schivate i discorsi, e sopra tutto non vi
mostrate; questa sera o domani avrete nuove di me». Detto questo egli
interruppe tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì inculcando
di nuovo la quiete e la prudenza; e s'avviò al suo convento.
Ivi
andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise alla parca mensa, e
allora più parca del solito per la carestia che cominciava a farsi
sentire dappertutto, e dopo raccomandati al vicario gli affari del suo picciolo
regno, si pose in via verso il covile dell'orso che si trattava di ammansare;
senza riporre a dir vero, molta speranza nel suo tentativo.
Il
Castellotto di Don Rodrigo era posto sul pendio della montagna discosto due
miglia dalla casetta di Lucia, un po' più basso e più verso
settentrione, e a tre miglia circa dal convento il quale come abbiam detto era
al piano del fiume, e nel paesetto posto sulla riva sinistra. Questo
castellotto posto sulla cima d'uno di quei piccioli promontorj fra i quali si
dividono le grandi montagne, era fuori dell'abitato. Intorno al castellotto
erano tre o quattro casette di contadini che lavoravano i fondi di Don Rodrigo,
e che gli facevano da servitori e da bravi secondo l'occorrenza: vecchj che
parlavano dell'antico onore della casa e delle loro prodezze giovanili, e le
proponevano in esempio ai giovani: giovani che cercavano di emulare quei fatti
gloriosi, e donne che sentivano pure un nobile orgoglio della loro condizione
di suddite ad un cavaliere che sapeva farsi rispettare, e di madri e mogli
d'uomini che si facevano temere. Quando però, il che non era caso raro,
alcuno degli uomini loro tornava col capo rotto a casa, o si trovava minacciato
della vendetta di qualche offeso furibondo, o in un altro di quegli impiccj in
cui doveva farli cader sovente il modo loro di vivere, le donne urlavano
allora, mostravano con furore i ragazzi sul volto ai mariti, predicavano la
pace e il timor di Dio, e non si mettevano in silenzio che dopo aver toccata
qualche bussa. L'aspetto delle abitazioni di costoro dava un indizio della vita
tra il rustico e l'eroico che essi menavano, poiché guardando dalle porte si
vedevano nelle loro stanze terrene appesi alla rinfusa gli archibugj e le
zappe, la reticella e il berretto piumato col cappello pastorale di paglia.
Quando
il Padre giunse dinanzi al Castellotto trovò la porta chiusa, segno che
il padrone stava a tavola e non voleva esser frastornato. Le rade e picciole
finestre che davano sulla via erano chiuse da imposte cadenti per
vetustà ma difese da grosse ferriate, e quelle del piano terreno tanto
elevate che un uomo avrebbe appena potuto affacciarvisi salendo sulle spalle
d'un altro.
Tutto
al di fuori era silenzio, e un passaggero avrebbe potuto credere che quella
casa fosse abbandonata, se quattro creature, che erano poste in euritmia al di
fuori, non avessero dato un indizio di abitazione, e nello stesso tempo un
simbolo della ospitalità di quei tempi. Due grandi avoltoj colle ali
tese erano inchiodati ciascuno sur una imposta; ed uno già mezzo
consumato dal tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro, non
aveva quasi più nemmeno la figura d'un bel cadavere: e due bravi (quei
due medesimi che avevano messa quella bella paura in corpo al curato) sdraiati
ciascuno sur una delle panche di pietra poste al di qua e al di là della
porta, facevano guardia oziosa al castello del signore aspettando di godere gli
avanzi della sua mensa. Il Padre stava per ritirarsi ed aspettare in qualche
distanza che la porta si aprisse; ma uno de' bravi avendolo veduto: «padre» gli
disse: «ella vuol riverire il Signor Don Rodrigo: aspetti aspetti, qui non si
mandano indietro i religiosi, noi siamo amici del convento», e così
dicendo si alzò, e senza dar retta al frate che voleva ritornarsene,
battè due colpi del martello sulla porta; a quel segno giunse
borbottando un servo; ma quando ebbe veduto il Padre, lo fece entrare tosto
dicendogli che avvertirebbe il padrone, e attraversato un angusto cortile lo
condusse per alcuni salotti quasi fino alla porta della sala del convito. A
misura che il frate si avvicinava col suo duca, sentiva un romore crescente di
forchette e di coltelli, un sordo fragore di piatti di stagno posti l'uno
sull'altro, e sopra tutti un frastuono di voci discordi che tutte volevano
coprire le altre. Il frate desideroso allora più che mai di attendere
miglior congiuntura stava litigando sulla porta col servo per ottenere di
aspettare in un canto della casa che il pranzo fosse terminato, quando la porta
si aperse, e Don Rodrigo che stava di contro veduta la barba e il cappuccio, e
accortosi della intenzione modesta del buon Frate: «Ehi ehi» disse «non ci scappi
Padre, avanti, avanti». Il padre, mal suo grado si avanzò, in mezzo ai
clamori e alle dispute dei convitati, i quali accorgendosi ad un per volta del
sopravvenuto lo salutavano con quell'aria di rispetto ironico ed affettato che
gli amici di Don Rodrigo dovevano avere per un cappuccino.
Bisogna
confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando,
è un più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi
s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più
colossali, vi si scorgono scelleratezze più raffinate, più
ingegnose, più recondite, più ardite che non nel corso reale
degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a
compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli
onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di
forze, e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio ancor che
trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di
linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non
dà sempre agli uomini realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla
parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa
difficile in favore della giustizia sono obbligati a pensare ai mezzi per
giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera
senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti
riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente
in uno stato di esitazione, di cautela, e di studio, che gli fa sovente
scomparire, in faccia ai loro avversarj risoluti ed incoraggiati dalla forza e
dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o
sciocco, o perverso degli spettatori. L'uomo retto sente, a dir vero con certezza
e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un
risultato, una conseguenza d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la
quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime fa ridere
l'avversario, il quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è
posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non
ha che sè per testimonio e per approvatore, e che vede negli altri
contraddizioni e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è
disposto a dubitare: o almeno si trova in quello stato di contrasto che fa
comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra
in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe
quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più placida
e più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore, e
nell'animo interno mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna
che si crederebbe rimorso; dimodoché a poco a poco finisce per essere soperchiato
non solo nei fatti ma anche nel discorso, e nel contegno, e sta come un
supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.
Si
è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo,
il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più
stretta giustizia, e la cessazione della più vile iniquità, si
rimase come confuso, e vergognoso quando si trovò così solo con
tutte le sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di
amici di Don Rodrigo, e in sua presenza. Era questi in capo alla tavola: alla
sua destra sedeva il giovane Conte Orazio cugino di Don Rodrigo, suo compagno
di libertinaggio e di soperchieria, e che villeggiava con lui: alla sinistra il
Podestà, che Don Rodrigo aveva invitato non senza perché, potendo
trovarsi in un impegno dal quale si sarebbe cavato meglio quando la Giustizia
fosse tutta disposta in favor suo. Il Podestà mostrava di ricevere
l'onore di sedere famigliarmente a tavola d'un cavaliere con un rispetto misto
però d'una certa libertà che gli dava il suo uficio; accanto a
lui, e con un rispetto il più puro e il più sviscerato sedeva il
nostro Dottor Duplica, il quale avrebbe voluto essere il protetto di tutti
quelli che eran da più di lui, e il protettore di tutti quelli che gli
erano inferiori: due o tre altri convitati di ancor minore importanza
attendevano a mangiare e a sorridere con una adulazione ancor più
passiva di quella del dottore: e quando questi approvava con un argomento o con
una lode che voleva esser ragionata, essi non sapevano dire più in
là di: «certamente».
«Da
sedere al padre», disse Don Rodrigo; e un cameriere avvicinò una scranna
sulla quale si pose il Padre Cristoforo facendo qualche scusa al signore di
esser venuto in ora inopportuna, a parlargli d'un affare d'importanza.
«Parleremo,
quanto Ella vorrà, ma intanto portate da bere al Padre». Il Padre voleva
schermirsi, ma Don Rodrigo in mezzo al trambusto dei litiganti gridava: «No
per... non mi farà questo torto, padre: non sarà mai detto che un
cappuccino si parta da questa casa senza aver gustato del mio vino, né un
creditore insolente senza avere assaggiato della legna dei miei boschi». Queste
parole produssero un riso universale e interuppero un momento la quistione che
si agitava caldamente fra i commensali. Un servo portando sur un bacile
un'ampolla, come allora usava, di vino, e un lungo bicchiero a foggia di
calice, lo presentò al Padre, che non volendo resistere ad un invito
tanto pressante dell'uomo che voleva farsi propizio, non esitò a
mescere, e si pose a sorbire lentamente il vino.
«Le
torno a dire, Signor Podestà riverito, che l'autorità del Tasso
non serve al suo assunto, che anzi è contro di lei», riprese ad urlare
il Conte Orazio: «perché quel grand'uomo che conosceva tutte le regole e tutti
i puntigli della cavalleria più soprafina ha fatto che il messo di
Argante prima di esporre la sfida ai cavalieri cristiani, domandi licenza a
Goffredo...»
«Ma
questo», replicava non meno urlando il Podestà, «questo è un
sopra più, un mero sopra più: giacché il messo è di sua
natura inviolabile per diritto delle genti, jus gentium, e secondo quel
proverbio, — ella m'insegna che i proverbi sono voce di Dio secondo quell'altro
proverbio che dice: vox populi vox Dei — quel proverbio: ambasciator non
porta pena; dico che non avendo il messaggero detto nulla in persona propria,
ma solamente presentata la sfida in iscritto, secondo tutte le regole, non
doveva mai...»
«Con
buona licenza di questi signori», interruppe Don Rodrigo il quale questa volta
contra il suo solito aveva voglia di troncare la quistione: «rimettiamola nel
Padre Cristoforo, e si stia alla sua sentenza».
«Bene,
benissimo», disse il Conte Orazio al quale parve cosa molto graziosa il far
decidere una questione di cavalleria da un cappuccino; mentre il
Podestà, a cui pareva un po' ostico l'esser sottoposto ad un giudizio
mostrava leggermente il suo malcontento con un suono inarticolato accompagnato
da una quasi invisibile mossa di spalle. «Ma, da quel che mi pare d'avere
inteso», disse il Padre, «non sono cose di cui io mi debba intendere».
«Solite
scuse di modestia di loro Padri», disse Don Rodrigo; «ma non mi
scapperà: Eh via! sappiamo bene ch'ella non è venuta al mondo
colla barba, e col cappuccio, e il mondo lo ha conosciuto. Via via. Ecco il
fatto».
«Il
fatto è stato...» gridò il Conte Orazio.
«Lasciate
pur dire a me che sono neutrale, cugino», riprese Don Rodrigo. «Il fatto
accaduto in Milano è: che un Cavaliere spagnuolo mandò la sfida
ad un cavalier milanese: e il portatore non trovando il provocato in casa,
consegnò la lettera ad un fratello del cavaliere; il quale, letta che
l'ebbe diede alcune bastonate al portatore...»
«Ben
date, bene applicate» gridò il Conte Orazio; «fu una vera
ispirazione...»
«Del
demonio», interruppe il podestà «battere un ambasciatore! persona sacra!
anch'Ella padre, mi dirà se questa è azione da cavaliero...»
«In
verità signor Podestà ch'io non avrei mai potuto credere che un
par suo desse tanta importanza alle spalle di un mascalzone».
«Ma
Signor conte, ella mi fa dire dei paradossi ai quali io non ho mai pensato. Io
parlo dell'offesa fatta alla livrea del Cavaliere spagnuolo, e non delle spalle
del messo: parlo sopra tutto delle leggi di cavalleria. Mi dica un po' se i
Feciali, che erano quelli che gli antichi romani mandavano ad intimar le sfide
ai popoli con cui si mettevano in guerra, domandavano il permesso di esporre
l'ambasciata; e mi trovi un po' uno scrittore che faccia menzione che un
feciale sia mai stato bastonato».
«Che
mi parla di antichi romani, che in queste cose erano rozzi, e principianti?...
non v'erano stati ancora paladini nel vero e stretto senso della parola: ma ora
che le cose si sono raffinate, che l'esperienza ha resi gli uomini ben
più delicati, e che abbiamo scrittoroni i quali hanno immaginati tutti i
casi escogitabili, e hanno scavato coll'acume del loro ingegno fino all'ultimo
fondo di queste questioni, ora, io dico e sostengo, che un messo che non
domanda la licenza di esporre una ambasciata di sfida è un temerario,
violabile, violabilissimo, e che a bastonarlo si acquista indulgenza».
«Ebbene
mi risponda un po' a questo. Il portatore non è disarmato? e offendere
un disarmato non è atto proditorio? Dunque il cavaliere milanese...»
«Piano
piano, che bell'equivoco mi fa ella Signor podestà?...»
«Come?»
«Ma
lasci rispondere. Atto proditorio è ferire colla spada un cavaliere
disarmato. Confesso che infilzare colla spada un plebeo senza necessità
sarebbe azione tanto vile, quanto bastonare un cavaliere: ma qui si tratta di
bastonate date ad un plebeo; e lei non mi troverà una regola che imponga
di dire guarda che ti bastono, come si dice: mano alla spada... E lei Signor
Dottore riverito, invece di farmi dei sogghigni, per darmi ad intendere che è
del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni colla sua buona tabella, per
ajutarmi a fare entrare la ragione in capo a questo signore?»
«Io...»
rispose alquanto sconcertato il dottore, «io godo di questa dotta disputa; e
benedico quel grazioso accidente che ha dato occasione ad una guerra di ingegni
sottili, e di labbra eloquenti che serve d'istruzione e di diletto agli
ascoltatori; di modo ché non vorrei, anche potendo, metter daccordo due
combattenti che fanno sì bella mostra delle loro forze. Ho detto, potendo,
giacché io non m'arrogo di fare il giudice... e se non m'inganno il nobile
padrone di casa ha nominato un giudice... qui il padre...»
«È
vero», disse Don Rodrigo, «ma come volete che il giudice parli quando gli
avvocati non vogliono tacere!»
«Son
muto», rispose il Conte Orazio: il Podestà fece pur cenno che tacerebbe.
«Ah!
finalmente! A lei padre», disse Don Rodrigo con una serietà beffarda.
«Ho
già fatte le mie scuse col dire che non me ne intendo», rispose Fra
Cristoforo dando il bicchiere ad un servo.
«Scuse
magre», gridarono tutti: «vogliamo la sentenza».
—
Mascalzoni... cioè poveri traviati; pensava fra sè il Padre
Cristoforo, credete voi che starei qui a sentire le vostre pappolate se non si
trattasse di cavare una innocente dagli artigli di quel lupo che voi
accarezzate vilmente?
Ma
come s'insisteva d'ogni parte: «Ebbene», disse, «poiché lor signori non
vogliono credermi quand'io dico che non me ne intendo, vedrò di far dire
a loro la stessa cosa. Il mio debole parere dunque in tutto questo si è,
che a ben fare non vi dovrebbero essere né sfide, né portatori, né bastonate».
«Nè
cavalieri spagnuoli, né cavalieri milanesi, voleva forse dire padre»: rispose
il Conte Orazio: «ed io aggiungo: nemmeno padri cappuccini. Oh vorrebb'essere
un bel vivere, padre... come si chiama il padre?»
«Padre
Cristoforo».
«Padre
Cristoforo ella ci vorrebbe ricondurre a vivere di ghiande. Senza sfide e senza
bastonate! sarebbe un bel mondo! impunità per tutti i paltonieri, e il
punto d'onore andato. Ma scommetto che il Padre ha voluto scherzare perché sa
benissimo che la sua supposizione è impossibile».
Don
Rodrigo il quale non vedeva volentieri che il suo schiamazzatore cugino facesse
tante questioni col podestà che gli premeva di tenersi amico,
approfittò della sentenza del padre Cristoforo per divertire il discorso
dalla questione, e rivolto al dottore con aria di protezione e di scherno.
«Oh»
disse, «voi dottore che siete famoso per dar ragione a tutti, vediamo un po'
come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo».
«In
verità», rispose il dottore, rivolgendosi al padre, «io non so intendere
come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e
l'uomo di mondo, non abbia posto mente che la sua sentenza, buona, ottima e di
giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una
disputa cavalleresca: perché ogni cosa è buona a suo luogo: ma credo
anch'io che il padre Cristoforo ha voluto terminare con uno scherzo ingegnoso
una questione broccardica».
Il
Padre Cristoforo non rispose, e perché come è facile indovinarlo era
stomacato da lungo tempo della disputa e dei disputanti, e perché sapeva che il
dottore non si curava di esser persuaso: e finalmente perché sarebbe stato impacciato
a rispondere; giacché quantunque nel suo cuore egli pensasse veramente
ciò che avevano espresso le sue parole; le ragioni della sua sentenza
erano tanto lontane dalle idee di quel tempo ch'egli stesso avrebbe durato
fatica a trovarle.
Il
dottore il quale vide che i due litiganti stanchi di avere impiegata la bocca
in parole si erano rimessi a guadagnare sul piatto il tempo perduto, e temendo
che non si valessero delle forze riacquistate per ricominciare una guerra nella
quale egli era già compromesso, pensò di toccare un'altra
materia, e disse: «Del resto signori miei giacché si è parlato di
cavalieri spagnuoli e di cavalieri milanesi, o viceversa, giacché ho un eguale
rispetto per gli uni e per gli altri; credo che presto vedremo anche dei cavalieri
alemanni, se le notizie che girano sono fondate, cosa che loro signori sapranno
meglio di me».
«Le
lettere ch'io ricevo da Milano», rispose Don Rodrigo, «mi danno che è
voce comune che gli alemanni ottengono il passaggio per andar contro Mantova, e
che pur troppo si crede che il passaggio sarà per di qui, giacché i
comaschi muovono cielo e terra per fare a noi questo regalo...»
«Non
si sturbi, non si sturbi...» rispose sorridendo il podestà: «non
verranno alemanni né a Como, né qui».
«Ed
io le dico» ricominciò il Conte Orazio, «che si assicura che sono
già in marcia per Lindò, e si nomina il generale che sarà
il celebre Conte di Colalto, e che si dà la nota dei reggimenti fra i
quali vi è quel rinomatissimo reggimento dei più scelti e forbiti
diavoli in carne che abbiano mai portato moschetto, il reggimento del famoso
principe di Valdistano, o Vallistai come lo chiamino...»
«Il
nome legittimo in lingua alemanna», interruppe il podestà, «è
Vagliensteino, come l'ho inteso più volte proferire dal nostro signor
comandante spagnuolo».
«Ebbene
il reggimento di Vaglien... quello che è: e oltre di questo vi è
il reggimento di Galasso, del Barone Aldringhen ed altri simili, tutta gente
che ha combattuto contro i Luterani, e che non ha timor di Dio né degli uomini,
e che dove passa non lascia un filo d'erba».
«Per
me», riprese Don Rodrigo, «non ho voglia di aspettarli qui, e» continuò
sogghignando verso il Conte Orazio, «se non avessi un affaruccio da sbrigare,
sarei già a Milano».
«Il
vostro affare è già bell'e disperato, e se non avete altro potete
partire».
«Voi
vorreste aver guadagnata la scommessa; ma piano, caro mio, se gli alemanni non
vengono in questi giorni, la scommessa la pagherete». Queste parole e il
sorriso infernale con cui furon dette e risposte furono un lampo pel padre
Cristoforo il quale s'accorse fremendo e tremando, che l'oggetto della
scommessa doveva essere l'innocente Lucia. Il dottore intese forse quanto il
padre, ma non tremò né fremè, né fece vista di nulla.
«Attenda
a tutto bell'agio ai suoi affari, sulla mia parola signor Don Rodrigo e non
pensi a privarci della sua rispettabile persona; che già gli alemanni
non sognano nemmeno di passare per di qua. Per mettere il piede sul nostro
territorio che ha l'onore di appartenere alla monarchia spagnuola, bisogna
ottenere il permesso del re Cattolico Don Filippo Quarto nostro signore che Dio
guardi. Ora il permesso a chi tocca concederlo o negarlo? Niente meno che al
Conte Duca, al gran d'Olivares, a quel modello dei politici, a quell'uomo che
si può chiamare il favorito dei principi e il principe dei favoriti. Ora
pensino le signorie loro, se un Olivares vuol permettere il passaggio...»
«Ma
le dico che si radunano a Lindò...»
«Appunto
questo è quello che mi persuade di più che non passeranno in Italia.
Certe cose io le so dal nostro signor comandante spagnuolo, il quale si degna —
brav'uomo! — di trattenersi meco con qualche confidenza. Sapranno ch'egli
è un figliuolo d'un creato del Conte Duca, e che sa qualche cosa di
questo gran ministro. Ebbene fra le strepitose doti del Conte Duca la
più strepitosa forse è quella di saper nascondere i suoi disegni:
di modo che quegli stessi che lo servono più da vicino, quegli che
scrivono i suoi dispacci non sanno mai che cosa passi in quella testa, e molte
volte anche dopo che un affare è stato conchiuso, nessuno ha potuto
indovinare quale era in esso l'intenzione del Conte Duca. È una volpe,
col dovuto rispetto, un furbo che farebbe perder la traccia a chichessia; e
quando accenna a destra si può esser certi che batterà a
sinistra, ed è perciò che nessuno può mai indovinare
quello ch'egli sia per risolvere. Onde quand'io veggo truppe alemanne venire
alla volta d'Italia, tanto più dico, che sono destinate per altra parte;
perché chi regola tutto anche fuori della monarchia è il Conte Duca; che
ha le mani lunghe quanto la vista».
«Ma
per dove crede lei che siano destinate tutte queste truppe?»
«Per
dove? non per l'Italia certo. Potrebbero esser destinate a gettarsi nella
duchea di Borgogna per far diversione ai francesi, i quali (tutto per invidia
del Cardinal di Riciliù contro il Conte Duca, perché vede benissimo che
non può competere con quella testa) i quali francesi dico per invidia
soccorrono gli olandesi che si trovano all'assedio di Bolduc. E questa
congettura, per dir tutto, la tengo dal signor comandante spagnuolo».
«Ma
sappia signor podestà che le notizie che noi abbiamo da Milano, vengono
da personaggi in confronto dei quali...»
«Via
via, cugino», interruppe Don Rodrigo «che il signor dottore è impaziente
di dare egli una decisione questa volta».
«Io
decido e sentenzio», disse il Dottore, «che le cene di Eliogabalo sarebbero
vinte al confronto dei pranzi del nobile signor Don Rodrigo, e che la carestia
non ardisce approssimarsi a questa casa dove regna la splendidezza sua capitale
nemica».
Tutti
fecero plauso al dottore e viva a Don Rodrigo; e tutti subito si misero a
parlare della carestia. Qui tutti furono d'una sola opinione; ma il fracasso
era forse più grande che se vi fosse stato disparere: giacché tutti
esprimevano energicamente la stessa opinione con diverse frasi, ma tutti in una
volta. «Carestia!» diceva uno, «non c'è carestia sono gli
accapparratori, birbanti». «I fornaj, i fornaj» gridava un altro. «Impiccarli!
dei buoni esempj, senza pietà. E quei birboni impostori che con un'aria
pietosa hanno la sfrontatezza di dire che il pane è caro perché il
raccolto è stato scarso, e che il grano manca! Impiccarli, impiccarli!
sono i peggiori: tutte invenzioni per nascondere gli accapparramenti».
«Hanno
detto che non vogliono vendere finché un terzo degli abitanti non sia morto di
fame e il frumento non costi cento lire al moggio. Oh scellerati! impiccarli!»
«Il
grano c'è: questo è un fatto innegabile: dunque bisogna farlo
saltar fuori: e il mezzo è pronto: impiccare quelli che lo nascondono».
«Dov'è
tutto il male? nella carezza del pane: e chi lo vende caro? i fornaj: e per
farli mutar vezzo, impiccarne uno o due».
«Eh
ci vuol altro che uno o due: sono tutti birbanti, col pelo sul cuore.
Impiccarli, impiccarli!» Chi ha mai intesa e goduta l'armonia che fa in una
fiera di campagna, una troppa di cantambanchi, quando prima di spiegare i suoi
talenti dinanzi al rispettabile pubblico, ognuno accorda il suo stromento,
facendolo stridere più forte che può affine di poterlo sentire in
mezzo al romore degli altri, che procura di non ascoltare, s'immagini che tale
fosse la conversazione di economia politica dei nostri commensali. In mezzo a
questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e dando urtoni e
gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni
arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato di quello che in
Lombardia si chiama vino della chiavetta, e del quale, per un privilegio
singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del
vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però
cangiarla del tutto: il gridio continuò per una buona mezz'ora: le
parole che si sentivano più spesso erano ambrosia e impiccarli.
Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata: e
Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al padre
Cristoforo, e lo condusse seco in una stanza vicina.
CAPITOLO VI
PEGGIO CHE PEGGIO
Ognuno
può avere osservato che, dalla peritosa sposa di contado fino a... fino
all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e per dirla in milanese il
più navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari, certi moti
insignificanti dei quali fanno uso quasi involontariamente quando, trovandosi
con persone colle quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che
dire, o aspettano il momento di dir cosa la quale non è attesa né
sarà molto gradevole a chi deve intenderla. La differenza che passa tra
gl'intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal
dialetto del mio paese, il quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra
specie) la differenza è che i primi coi loro moti incerti, e vacillanti
e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo, e vi si vanno sempre
più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello
stesso tempo un esercizio di eleganza e di superiorità. Tutte le classi
hanno una provvisione particolare, e caratteristica di questi atti, e questa
distinzione era più osservabile nei tempi in cui le classi erano
più distinte per abitudini, e anche pel costume di vestire, il quale si
prestava naturalmente ad usi diversi di questo genere. Si potrebbe qui fare una
erudita enumerazione di questi gesti, cominciando dai personaggi più
celebri e dalle condizioni più note degli antichi romani, o anche degli
Egizj, ma sarebbe troppo provocare l'impazienza del lettore avido certamente di
seguire la nostra interessante storia. Diremo soltanto che gli atti più
usuali dei cappuccini per avere come dicono i francesi une contenance,
erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi indietro
dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella larga manica sinistra
e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di palpare ad uno ad uno i grossi paternostri
del rosario che tenevano appeso alla cintola. Questa ultima operazione appunto
faceva il Padre Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don
Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il
lettore sa che il buon padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di Don
Rodrigo non occorre parlare, giacché ognun sa che nessuno è tanto
sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare. Stava
egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di quello
che il padre fosse per dirgli, sospetto che il contegno un po' irresoluto del
padre aveva quasi cangiato in certezza. Gli accennò con sussiego che
sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio con queste parole:
«In
che posso obbedirla, padre?»
Questo
era il suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire
chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.
Il
tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere ogni
imbarazzo al padre Cristoforo; perché risvegliando quell'uomo vecchio che il
padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto quello che v'era in lui
di più franco e di più risoluto: cosicché invece di farsi animo
dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a rispondere sullo stesso tuono,
per non guastare l'opera delicata che stava per intraprendere.
Onde,
con modesta, ma assoluta franchezza, rispose:
«Signor
Don Rodrigo il mio sacro ministero mi obbliga a passare un officio con
Vossignoria. Io desidero ardentemente che nessuna mia parola possa spiacerle: e
per antivenire ad ogni disgusto debbo assicurarla che in tutto quello ch'io
sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto quello di qualunque altra
persona».
Don
Rodrigo non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando
le ciglia, e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e
sprezzante. Il Padre fece le viste di non avvedersene, e continuò, con
qualche esitazione, perché le parole ch'egli stava per proferire non
esprimevano veramente quello ch'egli sentiva:
«Qualche
tristi hanno abusato del nome di Vossignoria illustrissima per minacciare un
parroco, ed atterrirlo dal fare il debito suo, e sopraffare indegnamente due
poveri innocenti. Vossignoria può con una parola confondere questi
ribaldi, disingannare quelli che potessero aver dato fede alle loro parole, e
sollevare quelli che ne patiscono. Lo può, e ardisco dirle, lo deve. La
sua coscienza, la sua sicurezza, il suo onore sono interessati in questo
sciagurato affare».
«Della
mia coscienza, padre, non mi si deve parlare che per rispondermi quando mi
piaccia di parlarne; la mia sicurezza... ma non posso credere ch'ella abbia
avuta l'intenzione ardita di farmi una minaccia; e suppongo che questa parola
le sia sfuggita senza riflessione. Quanto al mio onore, io potrei esser grato a
chi ne sente premura in cuor suo, ma sappia che ne ho la cura io, e che
chiunque osa prendersi questa cura per me, io lo riguardo come colui che lo
offende».
La
fredda ed altiera impudenza di Don Rodrigo avrebbe fatta perder la flemma al
Padre, se questi non ne avesse fatta una provvisione per trenta anni, e se non
fosse stato compreso dell'importanza del negozio che stava trattando. Con
questo pensiero, riprese: «Signor Don Rodrigo: sa il cielo se io ho disegno di spiacerle:
ella pure lo sa: non volga in ingiurie quello che mi detta la carità,
sì una umile carità: con me ella non potrà venire a
parole, io son disposto ad ingojare tutto quello che le piacesse di dirmi: ma
per amor del cielo, per quel Dio innanzi a cui dobbiamo tutti comparire
(così dicendo il padre aveva preso fra le mani e poneva dinanzi agli
occhi di Don Rodrigo il teschietto di legno che era appeso in capo al suo
rosario, e che i cappuccini portavano per un ricordo continuo della morte) per quel
Dio, non si ostini a volere una misera, una indegna soddisfazione a spese
dell'anima sua, e delle lagrime dei poverelli: pensi che Dio gli ha cari come
la pupilla dei suoi occhj, e che le loro imprecazioni sono ascoltate
lassù: risparmi l'innocenza e la...»
«Padre
Cristoforo», interruppe bruscamente D. Rodrigo: «il rispetto ch'io porto al suo
abito è grande; ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe
il vederlo in dosso ad uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa».
Questa
parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma fatti tutti i vezzi
d'un uomo che tranghiotte in fretta una amarissima medicina, egli rispose: «Lo
dica pure, purché non lo creda; e già non lo crede. Ella sa che le
ingiurie che io posso ascoltare per questa causa non mi avviliscono, ella sa
che il passo che io faccio ora non è mosso da fini spregevoli: ella non
mi disprezza in questo momento. Faccia Dio che non venga un giorno in cui ella
si penta di non avermi ascoltato. Non metta la sua gloria nel... Qual gloria, signor
Don Rodrigo! Qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Fare il male
è concesso sovente all'ultimo degli uomini: il più vile dei
banditi può far tremare. Non v'è disonore a ritrarsi dalla
iniquità: la codardia sta nel fare delle azioni inique per timore di
scomparire dinanzi ai tristi. Signor Don Rodrigo, le parole ch'io proferisco
ora dinanzi a lei sono numerate, un giorno le potrebbero esser fatte scontare
ad una ad una da Colui che me le ispira».
«Sa
ella», disse interrompendo con istizza ma non senza qualche raccapriccio Don
Rodrigo, «sa ella che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, io
so benissimo andare in chiesa come fanno gli altri? Ma in casa mia. Oh!» e
continuò con un sorriso affettato, «io non posso lagnarmi di Dio che
m'abbia fatto nascere in basso luogo, ma ella mi tratta per da più che
io non sono alla fine. Il predicatore in casa! non l'hanno che i principi
regnanti».
«E
quel Dio che domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle
loro reggie, quel Dio le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo
ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregare per una
innocente...»
«Insomma,
padre», disse alzandosi dispettosamente Don Rodrigo; «io non so quello ch'ella
mi voglia dire: io non capisco altro se non che vi debb'essere qualche
fanciulla che le preme assai: vada a fare le sue confidenze a chi le piace; e
non si permetta di seccare più a lungo un gentiluomo».
Il
Padre Cristoforo vedendo Don Rodrigo alzarsi, come perduta la pazienza,
temè che questi rompesse affatto il discorso, e levatosi egli pure col
maggior garbo che potè, e con aria quasi supplichevole, dissimulando
quello che potevano avere di frizzante le parole che aveva intese, rispose:
«Sì la mi preme; ma non più di lei: io veggio in entrambi dei
fratelli di redenzione, e delle anime che mi sono più care del mio
sangue. Don Rodrigo io sono un nulla dinanzi a lei, ma il mio rispetto, ma la
mia riconoscenza potranno forse valere qualche cosa per la intensità loro
se non per la mia persona. Non mi dica di no: salvi una innocente, una sua
parola può far tutto».
«Ebbene»,
disse Don Rodrigo, «giacch'ella crede ch'io possa far molto per questa persona;
giacché questa persona le sta tanto a cuore...»
«Ebbene?»
riprese ansiosamente il Padre Cristoforo al quale l'atto e il contegno di Don
Rodrigo non permettevano di abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare
le sue parole.
«Ebbene»,
proseguì Don Rodrigo: «le consigli di venirsi a mettere sotto la mia
protezione. Non le mancherà più nulla, e non son cavaliere, se
alcuno ardisce inquietarla».
«La
vostra protezione!» riprese il padre Cristoforo, dando indietro due passi,
appoggiandosi fieramente sul piede destro, e mettendo la destra sull'anca,
levando la manca coll'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia
due occhi infiammati: «la vostra protezione! bene sta che abbiate parlato
così; che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura, e
non vi temo più».
«Come
parli, frate?...»
«Parlo
come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più
far paura. La vostra protezione! Io sapeva che Lucia era sotto la protezione di
Dio: ma voi, voi me lo fate sentire ora con tanta certezza, che non ho
più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia dico: vedete come io
pronunzio questo nome colla fronte alta, e con gli occhi immobili».
«In
questa casa...»
«Ho
compassione di questa casa: ella è segnata dalla maledizione. State a
vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a
quattro scherani! Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua
immagine per darvi il diletto di tormentarla! voi avete creduto che Dio non
saprebbe difenderla! Vi siete giudicato. Ne ho visti di più potenti, di
più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro preda, mentre non
avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava in
silenzio dietro alle loro spalle per coglierli. Lucia è sicura di voi,
ve lo dico io povero frate, e quanto a voi, ricordatevi che verrà un
giorno...»
Don
Rodrigo che combattuto tra la rabbia, e il terrore non trovava parole per
rispondere, quando sentì che una predizione stava per venirgli addosso,
prese la mano tuttavia alzata del padre, e coprendogli la voce gridò:
«Levamiti
dinanzi, plebeo incappucciato, poltrone temerario».
Queste
parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo.
All'idea di strapazzo e di villania era nella sua mente così bene, e da
tanto tempo associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che a quel
complimento gli cadde ogni spirito d'ira e di entusiasmo, e non gli
restò più altro da fare che di udire tranquillamente quello che
piacesse a Don Rodrigo di aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli
artigli del gentiluomo, abbassò il capo e rimase immobile, come quando
nel forte della burrasca il vento cade, un'antica pianta ricompone naturalmente
i suoi rami e riceve la gragnuola come la manda il cielo.
«Villan
rifatto!» proseguì Don Rodrigo: «così rimeriti accoglienze alle
quali non sei avvezzo, e che non son fatte per te: ma tu adoperi da par tuo.
Ringrazia quel sajo che ti copre quelle spalle di paltoniere, e ti salva dalle
carezze che si fanno ai pari tuoi per insegnar loro a parlare. Esci colle tue
gambe per questa volta; e la vedremo».
Così
dicendo, accennò una porta opposta a quella per cui erano entrati: il
padre Cristoforo chinò il capo, come salutando, e se ne uscì per
quella, tranquillamente, lasciando don Rodrigo a misurare a passi concitati il
campo di battaglia.
Non
è da credere che l'animo del buon frate fosse pacato come il suo
aspetto; ma in mezzo al turbamento naturale nelle sue circostanze, egli sentiva
più di fiducia che non ne avesse prima di quell'infelice colloquio. Le
parole di sicurezza ch'egli aveva dette a Don Rodrigo, non erano state un'arte
per atterrir l'avversario: esprimevano un sentimento sincero e distinto. Gli
pareva che la superbia e l'iniquità di Don Rodrigo fossero salite a
quell'altezza, dove la provvidenza le arresta, e le rovina. Questi calcoli
riescono spesse volte fallaci, e l'ingiustizia a questo mondo talvolta sale,
sale, sale, quando si crede che giunta al colmo, non possa che precipitare: ma
Fra Cristoforo la pensava così come abbiam detto; e sperava più
che mai che la cosa si terminerebbe con una uscita inaspettata e favorevole
all'innocenza. Ma quale uscita? Non avrebbe egli saputo dirlo: ma credeva
confusamente che una se ne troverebbe.
Quand'ebbe
chiusa dietro sè la portiera, vide nella stanza dov'entrava, e che
riusciva nel cortile, vide una persona che si andava tirando pian piano dietro
la parete come per non esser veduta dalla stanza del colloquio; e s'accorse che
era un servo il quale era stato ad origliare, e continuò a camminare
senza far vista di nulla, per uscir nel cortile. Ma il servo fattosigli vicino
gli disse sottovoce: «padre, ho inteso tutto, e le vorrei parlare».
«Dite
tosto».
«Non
posso qui: guai se il padrone o altri mi sorprende. Ma io so tante cose, e non
mi regge la coscienza né il cuore... Vedrò di venir domani al suo
convento».
«Dio
vi benedica; ma intanto?»
«Non
si farà nulla prima. Vada vada».
«Dio
vi ricompenserà: io non uscirò domani, e mi troverete
certamente».
«Vada
vada per amor del Cielo, e non mi tradisca».
Il
volto del buon frate rispose a queste parole più chiaro che non avrebbe
potuto qualunque discorso; il servo rimase, e il padre uscì nel cortile,
quindi nella via, e respirò più liberamente quando si vide fuori
di quella caverna. L'inaspettata proposta del servo confermò e crebbe la
sua fiducia. — Ecco, diss'egli tra sè, un filo che la provvidenza mi
pone in mano. — Così pensando guardò in alto e vide che il sole
era poco discosto dalla cima del monte; e che non rimaneva che un'ora e mezzo
di giorno. Allora benché affaticato per la via che aveva già fatto, e
per quello che aveva detto e inteso, studiò il passo affine di poter
riportare un avviso qual ch'e' fosse alle donne, come aveva promesso, e
trovarsi al convento prima di sera. Era questa una delle leggi più
severe del codice fratesco: e le trasgressioni erano punite con rigore, e talvolta
le recidive con crudeltà, perché oltre la disciplina, l'onore del
convento era interessato a prevenire delle assenze che avrebbero fatto dire Dio
sa che. Al qual proposito si può osservare che ogni volta che gli uomini
hanno potuto dividersi in classi, in crocchi, in picciole società, e
farsi leggi particolari, per lo più invece di approfittare di questa
esenzione dalle leggi comuni per istabilire una certa condiscendenza utile a
tutti i contraenti, hanno aguzzati gl'ingegni per trovare rigori e pene
più raffinate: di modo che parrebbe quasi che tormentare altrui sia
più dolce che assicurar se stesso.
Ma
nella casetta di Lucia dal momento che il padre ne era partito non si era stati
in ozio: si eran messi in campo e ventilati disegni dei quali è necessario
informare il lettore. Partito il padre, Fermo e Lucia stavano in silenzio
osando appena di sogguardarsi di tratto in tratto, e non si parlando che con
sospiri: poiché le speranze che avevano nella spedizione del buon padre erano
tanto leggere e indeterminate, che temevano entrambi di farle svanire col
comunicarle.
Lucia
andava tristamente ammanendo il desinare, e Fermo stava in tra due, volendo ad
ogni momento partire per togliersi dallo spettacolo di Lucia così
accorata, e non sapendo staccarsi. Ma Agnese dopo aver meditato un poco, dopo
aver più volte risposto a se stessa di sì col capo, con una voce
piena di pensiero ruppe il silenzio e disse: «Sentite, figliuoli. Se aveste
coraggio e destrezza quanto è di mestieri, se vi fidate di vostra madre
(quel vostra fece trasalire Lucia) io m'impegnerei a cavarvi di questo
impiccio, meglio forse e più presto del padre Cristoforo, con rispetto
del suo studio».
Lucia
si fermò sui due piedi con più ansia che speranza in una promessa
tanto magnifica; e Fermo: «Coraggio!» disse: «destrezza! dite, dite quel che si
può fare».
«Non
è vero», proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, il punto
principale sarebbe vinto, che a tutto il rimanente vi sarebbe rimedio?» «Oh
maritati» rispose Fermo: «e poi quel che Dio vuole». Lucia non aperse bocca; ma
un rossore che le velò tutta la faccia parve ripetere parola per parola
ciò che Fermo aveva detto.
«Maritati
che foste», continuò Agnese, «coi pochi risparmi di Fermo, e coi nostri,
colla nostra poca abilità, possiamo vivere anche via di qui: per me non
ho che questa poveretta al mondo, e grazie al cielo non vi sarei di peso,
giacché il pane me lo guadagno. Lontani dalla persecuzione di questo tiranno
senza timor di Dio, noi potremmo far casa, e vivere in santa pace, non è
vero, figliuoli?»
«Sicuro»,
rispose Fermo, «ma tutto sta nell'essere maritati».
«Ebbene,
come vi ho detto, coraggio e destrezza; fare quello che vi dirò io, e la
cosa è facile».
«Facile!»
dissero ad una voce quelli per cui la cosa era divenuta tanto stranamente, e
dolorosamente difficile.
«Facile,
a saperla fare»; replicò Agnese. «Bisogna fare un matrimonio gran
destino». — La buona donna voleva dire clandestino.
«Cospetto!»,
disse Fermo: «mi par bene di avere inteso altre volte questa parola, ma non so
che cosa voglia dire. Ma come fare il matrimonio se il curato non vuole? Senza
il curato non si può fare».
«Bisogna
che il curato ci sia, e questo è facile, ma non fa bisogno ch'egli
voglia, che è il punto».
«Spiegatevi
meglio».
«Ecco
come si fa. Bisogna aver due testimoni, destri e ben informati. Si va dal
parroco. Lo sposo dice: — Signor curato, questa è mia moglie: — la sposa
dice: Signor curato, questo è mio marito: — il parroco sente, i
testimonj sentono, e il matrimonio è fatto, e sacrosanto come se lo
avesse fatto il papa. Ma bisogna che il curato senta, che non v'interrompa,
perché se ha tempo di fuggire prima che tutto sia detto, non si è fatto
niente. Bisogna dire in fretta, ma chiaro, sentite: come faccio io: — questa
è mia moglie: questo è mio marito: — (e faceva mostra di una
volubilità di lingua che in verità possedeva in un modo
singolare). Quando le parole son proferite, il curato può strillare,
strepitare fare quello che vuole, siete marito e moglie».
«Possibile!»
sclamò Lucia.
«Oh
vedete», disse Agnese «che nei trent'anni che sono stata al mondo prima di voi
altri, non avrò imparato niente. La cosa è certa e una mia amica
che voleva pigliar marito contra la volontà dei suoi parenti, ha fatto
così. Poveretta! che arte ha usata per riuscirvi, perché il curato stava
sull'avviso, ma ha saputo cogliere il momento, ha pigliato colui che voleva, e
se ne è pentita tre giorni dopo».
«Se
fosse vero, Lucia!...» disse Fermo, riguardandola con aria di una aspettazione
supplichevole.
«Come!
se fosse vero», ripigliò Agnese: «Io mi cruccio per voi, e non son
creduta. Bene bene; cavatevi d'impiccio come potete: io me ne lavo le mani».
«Ah
no! non ci abbandonate», disse Fermo.
«No
no»: riprese Agnese: «me ne lavo le mani: sentite, io son donna che sopporto
ogni cosa per quelli a cui voglio bene, ma non voler credere alle mie parole, e
non voler fare quello che dico io; questo non lo posso sopportare».
Chi
avesse tentato direttamente con preghiere di smuovere Agnese irritata, avrebbe
facilmente avuto da fare per molto tempo: ma Lucia ottenne l'effetto in un
momento, senza porvi astuzia, facendo una obbiezione:
«Ma,
perché dunque», diss'ella, «questa cosa non è venuta in mente al Padre
Cristoforo?» Questa interrogazione impegnò la buona Agnese a rispondere,
e a giustificare il suo assunto.
«Bisogna
saper tutto», diss'ella. «Al Padre Cristoforo che ne sa molto più di me,
la cosa sarà venuta in mente prima che a me: ma io so bene perché non ne
avrà voluto parlare».
«Perché?»
domandarono i due giovani.
«Perché?...
perché... i religiosi dicono che è una cosa che non istà bene».
«Come
possono dire che non istia bene, quando dicono che non si può disfare»,
disse Fermo.
«Se
non istà bene», disse Lucia, «non bisogna farla».
Per
rispondere a Fermo era necessario un ragionamento troppo sottile per Agnese: si
volse ella adunque a Lucia, e disse: «Non bisogna dirla prima di farla, perché
allora sconsigliano: ma quando sarà fatta, che cosa vuoi che ti dica il
Padre Cristoforo? — Ah figliuola è stata una scappata, non me ne tornate
a fare una simile! — Tu gli prometterai di non tornarvi: non è vero? non
son cose che si facciano due volte. E allora il Padre Cristoforo ti
assolverà».
Lucia
non si mostrava convinta di questo raziocinio; ma Fermo tutto rincorato disse:
«Ebbene quand'è così la cosa è fatta. Lucia, voi non mi
verrete meno, non mi avete voi promesso d'esser mia? Non abbiamo noi fatto ogni
cosa da buoni cristiani? E se non fosse stato questo... non saremmo noi marito
e moglie?»
«Fatta!
fatta!» disse Agnese: «adagio. E i testimonj? E trovare il modo di acchiappare
il signor curato, che da due giorni se ne sta rincantucciato in letto, e che
quando vi vedesse comparire a un miglio di distanza, scapperebbe come il diavolo
dall'acqua santa?»
«Ho
trovato il modo; l'ho trovato», disse Fermo, battendo il pugno sulla tavola e
facendo trasalire e fremere le stoviglie apparecchiate pel desinare: «l'ho
trovato. Vado, e torno. Bisogna ch'io parli con Toni; e se posso acconciare la
faccenda con lui, l'è fatta; e vengo subito ad informarvene».
«Ma
ditemi prima quello che intendete di fare» disse precipitosamente Agnese, alla
quale pareva pure di dover esser consultata la prima.
«Non
ho un momento da perdere: bisogna ch'io lo colga in casa a quest'ora:
altrimenti, chi sa se potrei trovarlo. Vado e torno, per sentire il vostro
parere; senza il vostro parere non si farà nulla. Cara Agnese, io vi
considero come se foste la madre che ha patito: sono nelle vostre mani. Persuadete
Lucia». Così detto sparì.
Non
ci voleva meno di queste parole perché Agnese perdonasse a Fermo di farle
aspettare una confidenza e di intraprendere qualche cosa senza il suo
consiglio.
«Ragazzo!»
diss'ella quando fu partito «purché non me ne faccia una e non mi guasti tutto.
Basta: mi ha promesso di non far nulla senza la mia licenza».
Necessità,
come si dice, assottiglia l'ingegno: e Fermo il quale nel sentiero retto e
facile di vita che aveva percorso fin allora non aveva mai avuto occasione di
far molto uso della sua penetrazione, ne pensò in questo caso una, che
avrebbe fatto onore ad un giurisperito. Corse alla casetta di Tonio, la quale
era nel villaggio dove risiedeva il parroco, a forse trecento passi di distanza
dalla abitazione di Lucia. Quando Fermo entrò nella cucina, la moglie,
la vecchia madre di Tonio stavano sedute alla mensa, e tre o quattro figli
ritti intorno aspettando il desinare che Tonio stava cucinando. Ma non si
vedeva sui volti quell'allegria che ordinariamente anche i poverelli mostrano
in quel momento: la carestia aveva costretti i poverelli ad una sobrietà
ancor più rigida che per l'ordinario, e tutti cogli occhi fissi sulla
pentola nella quale Tonio tramestava accidiosamente una bigia polenta di fraina
(o se volete di poligonum fagopyrum ) pareva che invece di rallegrarsi
della vista del desinare pensassero tristamente a quella buona parte di
appetito che rimarrebbe intatta dopo sparecchiato. In quel momento Tonio
riversò la polenta sulla tafferia di faggio che stava appronta a riceverla,
e il largo orlo che rimase vuoto all'intorno fece ancor più chiaramente
risaltare la povertà del convito. Nullameno le donne rivolte
cortesemente a Fermo, gli dissero se voleva restar servito: complimento
che il contadino di Lombardia non lascia mai di fare quando mangia seduto sulla
sua porta a chi s'abbatte a passarvi quand'anche stesse mangiando l'ultimo
boccone del suo piatto. «Vi ringrazio», rispose Fermo: «io vengo per dire
qualche cosa a Tonio; e se vuoi Tonio, per non incomodare le tue donne vieni a
pranzar meco all'osteria, e parleremo». La proposta fu per Tonio tanto gradita
quanto meno aspettata; e le donne che in un'altra occasione forse avrebbero
avuto che dire su questa partita videro con piacere che si scemasse alla
polenta un concorrente, e il più formidabile. Tonio non domandò
altro, e partì con Fermo.
Giunti
all'osteria del villaggio, seduti a tutto loro agio in una perfetta solitudine
giacché la miseria aveva fatti sparire tutti i frequentatori di quel luogo di
delizie, fatto recare quel poco che si trovava, vuotato un boccale di vino,
Fermo con aria di mistero disse a Tonio: «Se tu vuoi farmi un picciolo
servizio; io posso e voglio farne uno grande a te».
«Parla,
parla, comandami pure», rispose Tonio, versandosi da bere, «oggi andrei nel
fuoco per te».
«Tu
sei in debito di venticinque lire col signor curato per fitto del suo campo che
lavoravi l'anno passato».
«Tu
sei sempre stato un martorello, Fermo: non sai che all'osteria non si fa
menzione di debiti? Ecco, io mi sentiva una voglia che sarei andato nel fuoco
per te, ma con questo discorso tu mi hai fatto passare tutta l'allegria, e
quasi non ti son più obbligato».
«Se
ti parlo del debito», rispose Fermo «è per darti il mezzo di
soddisfarlo. Eh! non ti farebbe piacere? saresti contento?»
«Contento?
per diana se sarei contento. Non pel curato vedi: ma per togliermi la
seccatura: se la faccenda continua così non potrò più
andare alla Chiesa: non mi vede una volta che non me ne gitti un motto, o
almeno almeno non mi faccia un cenno con quella sua brutta cera. E poi e poi,
egli si tiene in pegno la collana d'oro di mia moglie; e prevedo che
quest'inverno se l'avessi, la cangerei in tanta polenta; non in vino», e qui
fece un sospiro, «in polenta. Ma...»
«Ma,
ma; se tu mi vuoi rendere un servizio, io ti darò le venticinque lire».
«Il
servizio è fatto» rispose Tonio; «non fa nemmeno bisogno che tu mi dica
che cosa è».
Fermo,
gli fece promettere sul bicchiere il segreto, e continuò:
«Tu
sai che io sono promesso a Lucia Zarella. Il curato mi va cercando cento scuse
magre per tirare in lungo: io vorrei spicciarmi. Mi hanno mò detto che
presentandomi al curato con due testimonj, e dicendo io: questa è mia
moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e
fatto. M'hai tu inteso?»
«Tu
vuoi ch'io venga per testimonio?»
«Appunto».
«Il
matrimonio è fatto, è fatto», rispose Tonio baldanzosamente,
versandosi un altro bicchiere di vino. «Così vi fossero molti tribolati
come te, e in caso di spendere venticinque lire».
«Ma
bisogna che tu mi trovi un altro testimonio».
«Bisogna
che lo trovi io ah? io perché son più destro di te. Bene è
trovato. Quel martoraccio di mio fratello Gervaso, farà quello che gli
dirò io: basta che tu mi dia tanto ch'io gli possa pagar da bere;
perché, a questo mondo, niente per niente: è un proverbio che lo sa
anche Gervaso, lo sanno anche quelli che non sanno dire il Credo».
«Farò
di più», disse Fermo, «lo condurremo qui a stare allegro con noi».
«Benone»
rispose Tonio.
Fermo
pagò lo scotto, ed uscirono quindi entrambi pieni di speranza; Fermo
avvisò il compagno che si tenesse pronto per l'indomani sull'imbrunire;
gli raccomandò di nuovo il segreto, quindi si avviò alla casa di
Lucia, e Tonio alla sua cantando ad alta voce, come non aveva più fatto
da molti mesi.
Ma
in questo frattempo Agnese aveva penato in vano a persuadere Lucia. In tutto il
tempo del desinare (il quale non era grazie a Dio più scarso
dell'ordinario, perché tanto le donne, quanto Fermo erano dei più agiati
del contorno) e dopo quando le furono ritornate all'aspo, Agnese pose in opera
tutta la sua eloquenza, ma invano.
Lucia
rispondeva sempre con un dilemma senza però saperlo presentare in forma:
«O si può fare», diceva, «e perché non dirlo al padre Cristoforo? o non
si può fare, e non si deve fare». Non già che questo rifiuto non
fosse più amaro a Lucia che lo proferiva che alla madre; ma Lucia non
avrebbe voluto per nulla al mondo far contra la sua coscienza. «Abbiamo bisogno
più che mai», diceva ancora, «dell'ajuto di Dio, e se facciamo
ciò che non istà bene, come lo potremo sperare?» Così
spesero tutto quel tempo in argomentazioni; e uno che le avesse intese
disputare, e tornar da capo ognuna a ripetere le stesse ragioni, avrebbe potuto
credere che la fosse controversia fra due dotti, piuttosto che disputa fra due
donnicciuole.
Fermo
giunse che si disputava tuttavia. Ma Agnese, alla quale allora premeva
più di sapere che di parlare, «ebbene Fermo», disse, «avete trovato il
bandolo? Dite, vediamo un po'».
Fermo
snocciolò tutto il disegno; e terminò con un «ahn!» interiezione
milanese la quale significa: sono o non sono un uomo? si poteva trovar di
meglio? ve lo sareste aspettato? e cento altre cose simili.
Agnese
crollò il capo, e disse: «non avete pensato a tutto».
«Che
ci manca?» rispose Fermo, punto, e spaventato nello stesso tempo.
«E
Perpetua?» gridò Agnese; «e Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Come
volete ch'ella vi lasci entrare dal curato? Pensate s'ella non avrà
ordini severissimi di tenervi lontani più che un ragazzo da una pianta
di pomi maturi. Come farete ad ingannare Perpetua?»
«Povero
me! non ci ho pensato, io».
«Sentite,
se non ci fosse altra difficoltà, a Perpetua ci penso io», rispose
Agnese, la quale giacché l'iniziativa gli era stata tolta, era almeno contenta
di mostrare che era necessaria la sua sanzione. «Ecco come la cosa si dovrebbe
fare. Sull'imbrunire, capite bene che quella è l'ora giusta, Tonio va
alla porta del curato, picchia, viene Perpetua, Tonio le dice di avvertire il
curato ch'egli è lì per pagare. Voi altri due intanto vi
apparecchiate dietro l'angolo della casa a man sinistra. Quando Perpetua torna
per aprire a Tonio, io mi trovo sulla porta, e quando Perpetua ha detto a
Tonio: — andate su —, io mi mostro a Perpetua, la chiamo, e le dico queste
parole magiche: — ho da parlarvi di quel tale affare. — Con quest'amo vedete io
la tiro con me dalla destra fin dove voglio; ma basterà che io
l'allontani tanto che voi possiate pian pianino introdurvi nella porta lasciata
aperta da Tonio, e tenergli dietro pian pianino per le scale, e poi fermarvi
nella stanza vicina a quella dove sarà il curato, ed essergli addosso
poi nel momento opportuno». Agnese chiuse il discorso alla sua volta con un
«ahn?» prolungato in aria di trionfo, levando il mento, ed avanzando la faccia
verso Fermo.
«Benedetta
voi...!»
«Mah!»
interruppe Agnese: «tutto questo serve poco, perché Lucia si ostina a dire che
è peccato».
Fermo
pos'egli pure in campo la sua eloquenza: fece mille interpellazioni a Lucia, e
rispose sempre egli per mostrare che i dubbj di essa erano vani: ma Lucia fu
inconcussa.
«Sentite»,
diss'ella, «fin qui abbiamo fatto tutto col timor di Dio; proseguiamo a questo
modo, e Dio ci ajuterà. Io non capisco tutte queste vostre ragioni: vedo
che per far questa cosa bisogna camminare a forza di bugie, di nascondigli. No
no Fermo: io voglio esser vostra, ma colla fronte scoperta, il bandolo lo
troverà la provvidenza».
La
disputa, come era da supporsi, divenne generale. Fermo insisteva rimproverando
Lucia di poco amore, e ripetendo i suoi argomenti con una forza e una amarezza
sempre crescente: Lucia addolorata, tenera, ma ferma li ribatteva
singhiozzando, ed Agnese predicava all'una, dava sulla voce all'altro secondo
l'occasione. Tutt'ad un tratto, un calpestio affrettato di sandali, e un romore
di tonaca sbattuta, somigliante a quello che produce in una vela allentata il
soffio ripetuto del vento, annunziò il Padre Cristoforo. Si fece
silenzio, e Agnese ebbe appena il tempo d'imporre sotto voce a Lucia di non dir
parola del disegno contrastato.
CAPITOLO VII
...
Il
Padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon generale, il quale,
perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non iscorato,
soprappensiero, ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il
bisogno lo chiede, a premunire i luoghi che potrebbero esser minacciati, a dare
ordini, disposizioni, avvertimenti.
«La
pace sia con voi», diss'egli, entrando, tutto ansante, ma con voce ferma. «Non
v'è nulla a sperare dall'uomo: tanto più bisogna confidare in
Dio». Benché nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del Padre Cristoforo,
giacché il vedere un potente recedere da una soperchieria per preghiera e senza
esser sopraffatto da una forza superiore era cosa più inaudita che rara,
nullameno la trista certezza fu un colpo per tutti.
Ma
Fermo ne prese più sdegno che accoramento. Le ripulse replicate di
Lucia, i suoi disegni così ben meditati, e le sue speranze al vento, il
non saper più come uscire per altra via d'impaccio, un lungo diverbio,
avevano cresciuta e riscaldata la stizza che egli covava già da due
giorni: l'amore, però, e il rispetto che Lucia gli ispirava anche
rifiutando ciò ch'egli bramava sopra ogni cosa, avevan temperata questa
stizza, e impedito ch'ella non iscoppiasse in escandescenza. Ma quando a quella
passione compressa si presentò un oggetto odioso per ogni parte, quello
che ne era l'oggetto principale, la passione non ebbe più freno.
«Vorrei
sapere», gridò Fermo colla bava alla bocca e come non aveva mai gridato
in presenza del Padre Cristoforo, «vorrei sapere che ragione ha detto quel
cane, per sostenere che Lucia non ha da esser mia moglie».
«Povero
Fermo!» rispose il Padre, con un accento di pietà e d'amorevolezza. «Sai
tu che se alcuno potesse costringere quei signori a dire le loro ragioni, le
cose non andrebbero a questo modo».
«Dunque
ha detto il cane che egli non vuole, perché non vuole?»
«Non
ha detto nemmen questo. Piacesse a Dio che per commettere l'iniquità gli
uomini fossero costretti di confessarla apertamente; l'iniquità
trionferebbe meno sulla terra».
«Ma
che parole ha dette quel tizzone d'inferno?»
«Io
le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere. Dimmi, se tu dopo un lungo
giro uscissi da un sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini,
sapresti tu descrivere la via che hai percorsa? noverare i tuoi passi, segnare
le giravolte e gl'inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità
potente sono come il lampo che abbaglia e fa terrore, e non lascia vestigio.
Essa può minacciarti di vendetta perché tu abbi sospetto di lei, e nello
stesso tempo farti intendere che il tuo sospetto è certezza: può
dirti: guai a te se non mi comprendi, guai a te se mostri di comprendermi:
può insultare, e mostrarsi offesa, schernire e chieder ragione,
atterrire e lagnarsi, essere impudente e irreprensibile. Non cercar più
altro. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo, non ha
mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di voler nulla; ma... pur
troppo quello che voi mi avete rivelato, quello che io non avrei voluto
credere, è vero. Mah! confidenza in Dio come v'ho detto: questa è
l'ora dell'uomo, ma va passando. Voi, poverette, non vi perdete d'animo, e tu,
mio Fermo... oh! credi ch'io so pormi ne' tuoi panni, ch'io sento quello che
passa nel tuo cuore... ma abbi pazienza: io so che questa parola è
amara: ma è la sola che ti possa dire un uomo che non sia tuo nemico.
Dio stesso, che è onnipotente, non te ne vuol dir altra, per ora. Io
parto, e vi lascio nelle mani di Dio... Oh il sole è caduto e
arriverò tardi: ma poco importa. Fatevi animo: Dio mi ha già dato
un segno di volervi ajutare. Domani non ci vedremo: io rimango al convento; ma
per voi. Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al convento,
alla Chiesa, e pel quale io possa farvi sapere quello che occorrerà: io
sarò avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che colui
non sospetta, che finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche
protezione, e la vedremo. Sento una voce che mi dice che tutto finirà
presto e bene. Fede, coraggio, e buona sera». Detto questo s'avviava
frettolosamente, quando udì Fermo dire, mormorare con voce contenuta dal
rispetto, e velata dalla collera, ma intelligibilmente: «la finirò io».
La faccia e l'atteggiamento di Fermo non lasciava dubbio sul senso di queste
parole.
«Misericordia!»
sclamò Agnese. Lucia si volse supplichevolmente al Padre Cristoforo,
come se volesse dire: — ammansatelo —.
«Tu
la finirai!» disse rivolgendosi il Padre Cristoforo, ed appostandosi sulla
porta: «no Fermo, tu non sei da tanto: non tocca a te. Dio solo può
finirla, e guai a te se tu ardisci di prevenire il suo giudizio».
«Nasca
quel che può nascere, ad ogni modo la voglio finire. Sì la voglio
finire. È di carne finalmente lo scellerato».
«Fermo,
in nome di Dio», disse Lucia.
«Dio!
Dio!» disse Agnese. «Voi perdete la testa: non sapete quante braccia egli ha ai
suoi comandi? e quand'anche... oh misericordia! contra i poveri c'è
sempre la giustizia».
«Non
gli parlate di questo», interruppe il Padre: «egli non se ne cura. Ascoltami
Fermo: voglio che tu mi ascolti. Io ti leggo in cuore: io so che il tuo
pericolo non ti fa terrore; so che in questo momento l'idea della morte non ti
spaventa né per gli altri né per te. Ma ascolta. Tu eri nella gioja e nella
speranza; un uomo ti si è parato sulla via, e ti ha gettato nella
angoscia e nella miseria: tu credi che tolto di mezzo quest'uomo, ti ritroverai
al posto dove tu eri prima d'incontrarlo. Povero ingannato! la tua via è
cangiata, ti è forza intraprenderne un'altra: guai a te se ti poni in
quella dell'omicidio. Poni che tutto ti riesca a tuo grado: ebbene! che avrai
tu fatto? l'odio è dolce ora al tuo cuore: ma sai tu... sai...» e
così dicendo prese la mano di Fermo e la strinse a segno di dargli
dolore... «sai tu come si volge il cuore dell'uomo che ha versato il sangue? Ve
n'ha che rimangono quelli di prima; ma tu non sei uno di loro: guai a te! son
reprobi. Io ho perduto degli amici cari, ben cari... ma se Dio mi concedesse di
poter far rivivere un uomo, credi tu ch'io sceglierei uno di essi? Quegli ch'io
vorrei poter risuscitare col mio sangue è un uomo a cui io non aveva mai
fatto il torto più leggiero, e che mi ha insultato. Poni che tutto ti
riesca, poni che non vi sia giustizia, che tu sposi tranquillamente... che la
colomba si unisca allo sparviero. Ma sarai tu Fermo? avrai sposato Lucia? Tu
non sarai Fermo, te lo dico io: tu non penserai come ora: in ogni tuo pensiero,
per quanto importante egli sia per essere, per quanto lieto, oltre quello che
ci sarebbe per tutti, per te ci sarà sempre un morto di più.
Avrai tu figli? Guardati dal trovarti in casa quando questa sfortunata
farà loro ripetere i comandamenti di Dio, e dirà loro: non fare
omicidio. Potrai tu ricordare con tua moglie, le speranze e le traversie che
hanno preceduto il tuo matrimonio: potrete voi dire una volta: ma Dio ci ha
ajutati? Quand'ella si sveglierà al tuo fianco, penserà tremando
che è coricata con uno che ha ucciso; e quando la collera più
leggera, un primo moto d'impazienza apparirà sul tuo volto; ella
crederà di scorgervi le prime tracce dell'omicidio. No Fermo; vedi:
è notte; io già son colpevole di avere indugiato a tornare al
convento; ma io non mi parto di qui se tu non mi giuri in faccia a quella
Vergine» (e accennò una immagine attaccata al muro della stanza) «di
aver deposto ogni pensiero di vendetta».
«Io
per lei ho tutta la stima, ma colui...»
«Ti
parlo io per me? Che hai tu a perdonarmi? A colui, sì a colui tu devi
perdonare. Io te l'ho detto, e tu non hai più scusa: la maledizione del
cielo cadrebbe sopra di te. Tu sei giovane e più robusto di me, ma se tu
non vuoi gettare a terra un vecchio che non ti ha fatto mai del male, tu non uscirai
di qui prima d'aver fatto quel giuramento».
Fermo
esitava; Agnese stava attonita ed in aspettazione colla bocca aperta. «Ebbene
Fermo» disse Lucia, come costretta, ed in modo che il Padre non intendesse
tutto il senso delle sue parole: «fate quel che vi dice quest'uomo del Signore,
ed io vi prometto che io farò tutto quello che si potrà, tutto
quello che vorrete perch'io possa esser vostra moglie».
«Lo
giuro», disse Fermo.
«Chiama
in testimonio quella Vergine», disse il Padre Cristoforo, «che tu non
attenterai alla vita del tuo nemico, che tu farai tutto per evitarlo».
«Così
la Vergine non mi abbandoni», disse Fermo, commosso, ma risoluto.
«E
non ti abbandonerà»; rispose il Padre gettandogli le braccia al collo.
«Addio: ricordatevi del garzoncello. Dio sia con voi».
Lucia
lo salutò piangendo.
«Padre,
padre», gridò Agnese, trattenendolo, «quanto sono mortificata che in
grazia nostra Ella torni così tardi al convento». Il Padre Cristoforo
pensò che il miglior modo di corrispondere a questo complimento era di
non perder tempo in altre parole, e partì.
«Me
lo avete promesso», disse Fermo a Lucia.
«Ve
l'ho promesso e lo manterrò»: rispose Lucia colle lagrime agli occhi,
«ma vedete, come me lo avete fatto promettere. Dio non voglia...»
«Perché
volete farmi un tristo augurio, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a
nessuno».
Agnese
voleva riparlare della spedizione, e pigliare i concerti, ma Lucia pregò
che tutto si rimettesse all'indomani, e Fermo partì agitato lasciando le
donne più agitate di lui.
Intanto
il Padre Cristoforo, benché fiaccato e frollo delle corse, dei disagi, delle
inquietudini, e delle parlate di quel giorno, aveva presa correndo la via per
giungere al più presto al convento; e andava saltelloni giù per
quel viottolo sassoso torto, e reso ancor più difficile dalla
oscurità; andava il povero frate, parte ruminando gli accidenti della
giornata, e quello che poteva soprastare, parte pensando all'accoglienza che
riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta. Vi giunse pur
finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello,
aspettando quel che Dio fosse per mandare. Il frate portinajo aperse, e accolse
il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto di sussiego, di
soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini
(tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche
suo fallo o anche per qualche sventura sembra loro stare in cattivi panni. «Il
Padre Guardiano le vuol parlare», disse costui al nostro amico, il quale
seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a
toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale
gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare
per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.
Giunto
alla cella del guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria
del guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò
la testa sul petto e disse: «Padre son balordo». Era questa, chi nol sapesse,
la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore.
Bisogna sapere che il guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre
Cristoforo avesse commesso un mancamento. Un lettore di otto anni potrebbe qui
domandare, perché faceva il volto serio, se era contento; e gli si
risponderebbe, che appunto era contento perché il Padre Cristoforo gli aveva
dato il diritto di fargli il volto serio. La condotta del nostro amico era
tanto irreprensibile che il guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso
sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di
riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di
esser daddovero il padre guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il
dottore, senza disputare, dava però a divedere chiaramente di non
approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi confratelli e
del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto
con gli altri; biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che
veniva che i frati e il guardiano avevano per lui più rispetto che
amore. E il rispetto veniva in parte anche dalla fama di santo che il padre
Cristoforo aveva al di fuori; e che apportava al convento onore e limosine. Non
è quindi da stupirsi se il guardiano si dilettasse nel vedersi davanti
balordo quel padre Cristoforo, e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui, e
il sentimento della propria autorità.
«È
questa l'ora», diss'egli gravemente, «di ritornare al convento?»
«Padre,
confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo».
«E
perché vi siete dunque tanto indugiato? perché avete violata una regola che
conoscete così bene?»
«Fui
trattenuto da un'opera di misericordia».
Il
guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire; e vide tosto che se avesse
voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al padre
Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde gli parve meglio fargli una
ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole. Gli disse
che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di
orgoglio, e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene
che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere, e
poi attendere alle opere di surerogazione; e altre cose di questo genere.
Aggiunse poi che egli, padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta
importanza fosse la regola da lui infranta, e per la disciplina, e per evitare
ogni scandalo; ma che per l'età sua, e per esser questo il primo suo fallo
contro la regola, e perché si teneva certo che non v'era altro che la
violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di
coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate; e così lo
congedò, e si gittò sul duro suo pagliaccio; più soddisfatto
però che se si fosse posto sul letto il più delicato: poiché non
è da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro
dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano.
Questa
fu la mercede che il nostro padre Cristoforo ebbe della sua giornata spesa come
abbiam detto. Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo. Egli recitò
il suo buon miserere, e lo concluse dicendo: «Dio, fate misericordia a
me, e a quel poveretto che io... toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la
mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia, e benedite il Padre guardiano.
Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli, e
degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei
zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i
laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei
ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli
indemoniati, dei vivi, e dei morti. Così sia». Quindi si gettò
anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire; che ne ha bisogno.
Ma
i nostri tre altri personaggi passarono la notte come sono tutte le notti che
precedono una giornata destinata ad una impresa scabrosa e di incerto esito.
Agnese appena levata cominciò a spiegare a Lucia tutte le parti del
disegno, ad istruirla a puntino sul da farsi e da evitarsi in ogni operazione,
e a combattere di nuovo le obbiezioni che Lucia aveva fatte nel giorno
antecedente. Ma Lucia ascoltò le istruzioni, promise di eseguirle, e non
oppose più nulla. Data la sua promessa, ella stimava inutile ogni parola
che tornasse a mettere in questione ciò ch'era stabilito: e non è
senza ragione che noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo
sesso, ma nella specie.
Del
resto non è ben chiaro se nella rassegnazione di Lucia non entrasse
anche un po' il pensiero ch'ella sarebbe stata di Fermo, e se, giacché
l'iniquità degli uomini aveva voluto che questa si facesse come per
forza, ella non era un po' contenta che forza le si facesse. La poveretta ad ogni
modo era abbattuta, piena d'incertezza, d'angoscia, e di tristi presentimenti:
in quella agitazione insomma in cui pone una grande aspettazione, e che
è più dolorosa che la prostrazione che nasce dopo la sventura.
Fermo
non fu tardo a lasciarsi vedere, e concertò colle donne l'operazioni
della giornata, prevedendo ogni contrattempo, parando ogni ostacolo, e
ricominciando ad ogni tratto a descrivere la faccenda come si racconterebbe una
cosa fatta. Appena partito Fermo, Agnese andò nella casa vicina a cercare
un garzoncello suo nipote, chiedendolo ai parenti per quel giorno per fare un
servizio. Quando l'ebbe ottenuto, lo introdusse nella sua cucina, gli diede da
colazione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico, e si stesse un po' in
Chiesa, un po' sulla piazza del convento, ma sempre in vicinanza, aspettando
che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare. «Il Padre Cristoforo, quel bel
vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che chiamano il santo...»
«Ho
capito», disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che dà
spesso qualche immagine».
«Appunto
Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto: ma non ti sviare, ve': bada di non
andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell'acqua, né
a veder pescare, né a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, né...»
«No
no, medina mia: non sono poi un ragazzo».
«Bene,
abbi giudizio, e quando tornerai vedi, queste due belle parpagliole
nuove sono per te».
«Datemele
ora, che...»
«No
no, tu le giuocheresti. Va' e portati bene che avrai anche di più».
Nel
rimanente di quella lunga mattina, accaddero alcune cose che posero in sospetto
ed in agitazione l'animo già conturbato delle donne. Un mendico
più rubesto e di più florido viso che non fossero per l'ordinario
i suoi confratelli, con qualche cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto,
entrò a domandare per Dio, gettando gli occhi qua e là come per
ispiare. Quand'ebbe ricevuto un pezzo di pane, lo ripose con molta indifferenza
lasciando quasi travedere che quello non era il suo fine principale. Si
trattenne anzi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione,
facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere
sempre il contrario di quello che era; e finalmente, congedato se ne
andò. Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi
travestiti, di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e giunti dinanzi
alla porta allentavano il passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol
guatare, e non dar sospetto. Le donne socchiusero la porta, per togliersi da
questa persecuzione che dava loro molto da pensare. Ma questa precauzione fu
causa che il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perché
avendo Agnese un tratto visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un
po' di spiraglio, guatò più attentamente, e vide attraverso la
picciola fessura un uomo che stava adocchiando nella stanza: ella si
alzò, e l'uomo sparì.
Finalmente
all'ora del pranzo la persecuzione cessò. Agnese rincorata non udendo
più pedate sospette, si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio,
guardava nella via, a dritta e sinistra; e non vide più nulla che le
desse da pensare. Nullameno ne rimase alle donne, e particolarmente alla
timidetta Lucia, una perturbazione indeterminata, che le tolse una gran parte
della risoluzione di che ella aveva bisogno in una tale giornata.
Alle
ventitrè ore tornò Fermo, come era stato convenuto, e disse:
«Tonio e Gervaso son qua fuori, noi andiamo all'osteria a cenare, come siamo
intesi, e al tocco dell'avemmaria, verremo a prendervi. Coraggio, Lucia, tutto
dipende da un momento». Lucia sospirò, e rispose: «oh sì,
coraggio»: con una voce che smentiva la parola.
Fermo
e i due suoi compagnoni trovarono questa volta l'osteria più popolata.
Sul limitare stesso, colla schiena appoggiata ad uno stipite, colle mani sotto
le ascelle, coll'occhio teso, e con una faccia tra l'annojato e l'agguatante,
stavasi un uomo, che non aveva cera né di contadino, né di viaggiatore, né di
benestante; non pareva uno sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che
faccenda egli s'avesse. Un uomo più sperimentato di Fermo, guardandolo
attentamente l'avrebbe detto un servo travestito. Questi non si mosse, e
mirò fisamente Fermo, il quale si torse entrando per fianco nella picciola
apertura lasciata da quella cariatide. I suoi compagni l'imitarono se vollero
entrare.
Ad
un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora,
gridando quindi tutti e due ad un fiato come si farebbe in una controversia fra
due dotti: fra i due giuocatori stava un gran fiasco di vino dal quale andavano
essi versando a vicenda. Questi pure adocchiarono Fermo con una
curiosità molto significante. Finalmente ad un altro desco erano tre
vestiti da contadini, ma con un contegno che indicava abitudini più
guerresche che casalinghe. E questi pure gli occhi addosso a Fermo: quindi
occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta. Fermo insospettito,
e incerto guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei loro aspetti
una interpretazione di questo mistero: ma quelli non indicavano altro che un
buon appetito. L'ostiere stava aspettando gli ordini dei sopravvenuti, Fermo lo
fece venire con sè in una stanza vicina; e comandò da cena.
«Chi
sono quei forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava
stendendo sul desco una tovaglia grossolana.
«Chi
sono? Che m'importa chi essi sieno?» rispose l'ostiere. «Non sapete che la
prima regola del nostro mestiere è di non impacciarsi dei fatti altrui?
Tanto è vero che fino le nostre donne non son curiose. Quel che ci preme
si è che quelli che frequentano la nostra casa sieno galantuomini; come
sono certamente questi di cui mi chiedete».
«Ma
se non li conoscete, come sapete che sieno galantuomini?»
«Le
azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni. Quegli che bevono il vino e
non lo criticano, che mostrano sul banco la faccia del re, senza taccolare, e
che non fanno questioni con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da
consegnare a uno, lo aspettano fuori e lontano dall'osteria per non far torto,
quelli sono i galantuomini».
Fermo
non ne potè cavar altro: la cena fu servita, ma l'umore diverso dei
convitati fe' sì ch'ella non fosse molto lieta. I due fratelli avrebbero
voluto assaporarne tranquillamente e prolungarne le delizie; e a Fermo parevano
mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perché la presenza e
gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir meglio,
cresciuta l'inquietudine.
«Che
bella cosa», disse Gervaso, «che Fermo voglia pigliar moglie, e abbia
bisogno...»
«Zitto,
zitto», disse tosto Fermo, «per amor del cielo».
La
cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci crediamo dispensati dal
farne la descrizione. Diremo soltanto che Fermo, osservando per sè una
rigida sobrietà, largheggiò nel mescere ai suoi convitati, per
metter loro addosso del coraggio per ogni evento.
Terminata
la cena dovettero i tre compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle facce
sconosciute, le quali tutte si rivolsero a Fermo come la prima volta.
Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori dell'osteria, si volse addietro, e vide
che due lo seguivano: sostette allora coi suoi compagni, piantando gli occhi in
faccia a quelle ombre, come se dicesse: — vediamo che cosa vogliono da me costoro.
— Ma i due quando s'accorsero che Fermo si era accorto di essi si fermarono un
momento, si parlarono sotto voce, e tornarono indietro. Se Fermo fosse stato
tanto presso da intendere le loro parole, avrebbe inteso che uno di essi diceva
al compagno: «s'è addato di qualche cosa: torniamocene per non guastar
tutto: è troppo per tempo: non vedi che il paese è pieno di
gente? lasciamoli andare tutti al nido».
V'era
infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente in
un villaggio al cader della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla
quiete solenne della notte. Le donne venivano dal campo portandosi in collo i
bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai quali facevano
ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini colle vanghe e colle
zappe sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le povere
cene: si udivano saluti di quelli che s'incontravano, e colloqui brevi e tristi
sulla scarsezza del ricolto e sulle sventure di quell'anno tristissimo. Frattanto,
si udiva il tocco misurato e solenne della squilla che annunziava la fine della
giornata.
Quando
Fermo vide che i due indiscreti s'erano ritirati, continuò la sua strada
fra le tenebre crescenti, ripetendo a bassa voce ai fratelli gli avvertimenti sul
modo di condurre a buon termine l'impresa. Quando giunsero alla casetta di
Lucia, era notte fatta.
Fra
il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto un barbaro
che non era privo d'ingegno, l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi,
e di paure. La povera Lucia era da molte ore nelle angosce di questo sogno:
Agnese, la stessa Agnese così risoluta, e disposta all'operare, era
sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma al
momento in cui l'azione comincia, e l'animo che fino allora tollerava i
pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda, e tornando, è
costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora
egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio che lo agitavano
succede un altro terrore, e un altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente
come una apparizione nuova, inaspettata, si scoprono mezzi e ostacoli non
pensati: ciò che sembrava più difficile si trova talvolta fatto
quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano il
loro uficio ad un passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca
alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.
Un
matrimonio clandestino era per Lucia Zarella quello che l'uccisione di un
dittatore per Marco Bruto. Quando s'intese bussare sommessamente alla porta,
Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire
ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo piuttosto che eseguire la
risoluzione presa; ma quando Fermo entrato disse: «son qui, andiamo»; quando
tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già
determinata, Lucia non ebbe spazio né cuore di far contrasto e come
strascinata, prese tremando un braccio della madre, e un braccio di Fermo, e s'avviò
senza far motto colla brigata avventurosa.
Zitti,
zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero in vicinanza della casa del
nostro Don Abbondio il quale era ben lontano, pover'uomo! dal pensare che una
tanta burasca si addensasse sul suo capo. Qui si separarono come erano
convenuti: Lucia, Agnese e Fermo presero per un viottolo tortuoso che girava
attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro
di fianco della casa vennero a porsi presso all'angolo di essa, Fermo e Lucia
per trovarsi nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro
verrebbe, Agnese per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno. Toni
destro col disutilaccio di Gervaso che non sapeva far nulla da sè, e
senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e
toccarono il martello.
«Chi
è, a quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in
quel momento: era la voce di Perpetua. «Malati non ce n'è: dovrei
saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?»
«Son'io»,
rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor
curato».
«È
ora da cristiani questa?» rispose agramente Perpetua: «che discrezione? tornate
domani».
«Sentite:
tornerò o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi ed ero
venuto per pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si
può aspetterò un'altra occasione, questi so come spenderli, e
verrò quando ne abbia guadagnati degli altri».
«Aspettate,
aspettate: vado e torno: ma perché venire a quest'ora?»
«Se
l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete,
me ne vado».
«No
no: aspettate un momento; torno con la risposta».
Così
dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai
promessi, e detto sotto voce a Lucia: «coraggio: è un momento; come a
far cavare un dente», venne a porsi dinanzi la fronte della casa, aspettando
che Perpetua aprisse per far vista di passare.
Perpetua
venne infatti tostamente, aperse la porta, e disse: «dove siete?» Quando i due
fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò
Perpetua fermandosi un momento sui due piedi.
«Buona
sera, Agnese», disse Perpetua, «donde a quest'ora?»
«Vengo
dalla filanda», rispose Agnese, «e se sapeste... mi sono indugiata appunto in
grazia vostra».
«Oh
perché?» rispose Perpetua: indi rivolta ai due fratelli: «entrate», disse, «ed
aspettate che vengo anch'io». Quegli entrarono.
«Perché»,
ripigliò Agnese, «una donna, pettegola! non sanno le cose e voglion
parlare... credereste? si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo
perch'egli non vi ha voluto. Io sosteneva che voi l'avete rifiutato...»
«Certo
sono stata io, ma chi è costei?»
«Questo
non fa... ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene
tutta la storia per confonder colei».
«Bugiarda,
bugiarda», disse Perpetua. «È una bugiarderia, la più nera.
Sentite, come andò la faccenda: e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio,
socchiudete la porta, e salite pure ch'io verrò poi». Tonio rispose di
dentro che sì. Perpetua cominciò la sua storia, e Agnese si
avviò passo passo verso l'angolo della casa opposto a quello dietro cui
erano in agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo
voltò seguita da Perpetua: e voltatolo tossì per dar segno. Il
segno fu inteso, e Fermo traendo Lucia la quale correva come un leprotto
inseguito, in punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono
delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli che gli stavano
aspettando. Chiusero sommessamente il chiavistello per di dentro e salirono insieme,
mentre Agnese moltiplicava le inchieste per trattenere la fante. I quattro
congiurati tutti diversamente commossi ascesero le scale, e posati che furono
sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: «Deo gratias», ed entrò col
fratello, mentre Don Abbondio che gli aspettava rispose: «Avanti». Fermo e
Lucia ristettero dietro la porta: senza moversi, senza alitare: l'orecchio il
più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore
di Lucia. Toni entrato socchiuse la porta dietro di sè. Don Abbondio
convalescente della febbre, e non guarito della paura stava seduto su un
vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un
vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un
lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha dopo d'aver
sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e
sulla tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e
sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre. Presso alla lucerna era il
breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale....
«Ah!
ah!» fu il saluto di Don Abbondio.
«Il
signor Curato dirà che siamo venuti tardi», disse Toni inchinandosi,
come pure fece più goffamente Gervaso.
«Venite
tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio. «Basta, vediamo».
«Sono
venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni
cavando un gruppetto di tasca.
«Vediamo»,
replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e
furono trovate irreprensibili.
«Ora
signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera
Tecla».
«È
giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una
chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una
parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa
per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse
l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, «c'è tutto?»
disse, indi lo consegnò a Toni.
«Ora»,
disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».
«Non
vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio. «Ecco volete darmi anche
quest'incomodo».
«Che
dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»
«Bene,
bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro
nel calamajo. Perpetua, dov'è costei? Perpetua!»
«Perpetua
era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor
Curato: cerchi il calamajo che farà più presto».
Così
brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e
calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la
composizione. Frattanto Toni, e Gervaso com'era convenuto si posero dinanzi
allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per ozio andavano
soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti
senza essere intesi. Don Abbondio tutto nella sua quitanza non badava ad altro.
Al fruscio dei quattro piedi che era il segno convenuto, Fermo strinse la mano
di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè, e pian piano
entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro
i due fratelli. Don Abbondio finito ch'ebbe di scrivere rilesse attentamente,
da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, e prima di alzare gli occhi
dalla carta: «sarete contento?» disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni
allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso
dall'altra, e i due sposi apparvero in mezzo come all'alzare d'un sipario. Don
Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì,
s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo
che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: «Signor curato, in
presenza di questi testimonj, questa è mia moglie».
Le
labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva
già lasciata cadere la quitanza, fatto un salto, afferrata colla manca e
sollevata la lucerna, e tirato colla destra a sè un tappeto che copriva
il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la
seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua
dolce voce tremante aveva appena potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio
gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto e
tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca perch'ella non potesse
proseguire, gridava a testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento!
ajuto! ajuto!» Il lucignolo della lucerna che Don Abbondio aveva lasciata
cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia
appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo pareva una statua
sbozzata in creta, cui un rozzo fattore dell'artefice copre, da testa, con un
umido panno. Cessata ogni luce Don Abbondio lasciò la poveretta la quale
già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico
com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina,
v'entrò, vi si chiuse, e continuò a gridare: «tradimento!
Perpetua! accorr'uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una
schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua!
dov'è costei!» Nella stanza tutto era confusione: Fermo, inseguendo come
poteva il curato, aveva trascinata con sè Lucia alla porta, e bussava
gridando: «apra apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a
terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso
spiritato gridava, e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.
In
mezzo a questo serra serra, non possiamo a meno di fermarci un istante per fare
una riflessione. Fermo il quale strepitava in casa altrui, che vi s'era
introdotto frodolentemente, che assediava il padrone in una stanza, pare un
soperchiatore, un torbido; e pure gli era un poveretto a cui si negava la
ragione la più limpida, la più sacra. Don Abbondio impaurito,
minacciato mentre tranquillamente attendeva ai fatti suoi pare l'oppresso, la
vittima, l'uomo onesto, e pure era egli in realtà il soperchiatore.
Così va il mondo; o... voglio dire, così andava nel secolo decimo
settimo.
Don
Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra
che dava sul sagrato, a gridare accorr'uomo. Batteva la più bella luna
del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe
lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente con un gran mazzo
di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale dopo suonata l'avemaria era
rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare. «Lorenzo!»
gridò il curato, «accorrete, gente in casa! ajuto». Lorenzo si
sbigottì, ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi
urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso
ch'egli non chiedeva, e di farlo senza suo rischio. Corse indietro alla porta
della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò,
andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa
campana, e tirò a martello.
CAPITOLO VIII
LA FUGA
—
Ton, ton, ton, ton, — i contadini appena corcati balzano a sedere sul letto: —
che è? che è? La campana: fuoco? banditi? — Le donne pregano e
consigliano i mariti di non si muovere, di lasciar correre gli altri: gli
uomini si alzano dicendo: — vado soltanto alla finestra —: i garzoni caccian la
testa dal fenile: i più curiosi e bravi sono già nella via colle
forche e coi fucili: altri gl'imitano, e i poltroni come se si lasciassero
vincere dalle preghiere ritornano al covile.
Frattanto
Perpetua che nelle ciarle s'era dimenticata di se stessa, ma che noi non
abbiamo dimenticata, aveva inteso come un romore, un gridio, e aveva interrotto
il discorso per avviarsi verso casa, cercando invano di rattenerla Agnese, la
quale pure stava sulla corda non vedendo tornare nessuno; e all'udire quel
gridìo fu pure presa da una grande inquietudine. Ma quando la campana a
martello si fece udire, corsero entrambe verso la porta. Toni aveva finalmente
ricolta la quitanza, e pigliando a tentone Gervaso nelle tenebre, aveva
pigliata la porta e scendeva saltelloni dalla scala: Lucia pregava fievolmente
Fermo di cavarla da quella caverna; e quando egli udì quel tocco funesto
gli parve pure mill'anni d'esserne fuori, e trovò la porta come gli
altri. Perpetua correndo affannata con Agnese, si abbattè in Toni e il
fratello che uscivano, e gli assalì d'inchieste alle quali essi non
dierono risposta, ed usciti nella via, s'avviarono a casa.
Per
buona sorte Fermo e Lucia usciti nella via, presero la strada opposta a quella
donde veniva Perpetua, ed ella entrò a furia in casa senza vederli, e vi
si chiuse. Agnese che guardando fiso gli aveva visti uscire, gli raggiunse, e
tutti e tre voltarono in fretta, in silenzio, palpitando, il canto, e
s'avviarono pure verso casa. Intanto la gente traeva da tutte le parti alla
chiesa: già i più lesti erano entrati nel campanile e avevano
inteso da Lorenzo che la gente era in casa del curato. Ma guardando al di fuori
videro le porte chiuse, e tutto quieto: taluni però osservando
più per minuto s'accorsero che una finestra era appena socchiusa e
intravvidero per lo spiraglio la faccia lunga di Don Abbondio, il quale avendo
sentita sgombrata la stanza vicina, e conoscendo cessato il pericolo,
cominciava ad essere inquieto e malcontento del troppo soccorso. «Che cosa
è stato?» domandò uno degli accorsi: «Sono fuggiti», rispose il
curato, «tornate a casa, vi ringrazio». «Fuggiti, chi?» «Cattiva gente, cattiva
gente, tornate a casa, non c'è più niente». Qui cominciarono risa
di alcuni, rimbrotti di alcuni altri, domande dei sopravvegnenti, discorsi
d'ogni genere. Lorenzo lasciata finalmente la corda uscì dalla Chiesa, e
si pose in mezzo ai crocchj a render ragione dell'aver così messo a
soqquadro tutto il paese. Ma in mezzo ai paesani si videro passare in ordine di
battaglia alcuni armati e di sinistro aspetto: erano gli amici che abbiam
già veduti all'osteria. A quelli che li vedevano nasceva sospetto che
fossero banditi, e che per cagion loro si fosse suonato a stormo: chi si ritirava,
chi si univa in crocchio, e già da molti si parlamentava del partito da
prendersi.
Ma
siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e ad ogn'uomo che vedevano
parevan dire: — tu non sei quello —, così nessuno volle gittare la prima
pietra, e a poco a poco la folla svanì, ognuno si ritirò a casa,
e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua.
Ma
i tre personaggi che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non
rispondendo alle inchieste e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla
casa di Lucia; quando un garzoncello che andava guardando attentamente tutti
quelli che passavano, al vederli, mise un sospiro che pareva volesse dire: —
gli ho trovati una volta —; si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel
lembo della veste, e disse con voce bassa e affannata: «Tornate indietro per
amor del cielo!» Era Menico, e fu tosto riconosciuto. «Perché?» dissero tutti e
tre. «Indietro, indietro, vi dico non tornate a casa, venite al convento;
così mi ha detto il padre Cristoforo». La proposta parve a tutti strana,
e in altri momenti udendola da un Menico non vi avrebbero posto mente; ma nei
momenti di confusione e di paura, tutti i consigli pajono buoni. Quelli
ristettero: ma Menico continuava: «Venite con me pei viottoli, vi
condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto per istrada». «Ma la
casa...» disse Agnese.
«Niente
niente, venite con me, lo ha detto il Padre Cristoforo: Dio vi liberi dal
tornare a casa». Essi seguirono il ragazzo, il quale in quel punto era
più presente a sè che essi non fossero, ed entrati per una
callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di strada
comoda, poteva condurre al convento.
Quantunque
il lettore possa aver facilmente indovinato quale fosse il novo pericolo di
Lucia, e donde il buon Frate ne avesse avuto l'avviso, pure è dovere
dello storico il raccontare per esteso tutta la faccenda. Per procedere
ordinatamente è mestieri tornare a Don Rodrigo che abbiamo lasciato
solo, avendo noi preferito di accompagnare il Padre Cristoforo.
Don
Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala, le pareti
della quale come ora diciamo erano coperte da grandi ritratti di famiglia.
Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo della sala, si mirava in faccia un suo
antenato guerriero, terrore dei nemici, colle gambiere, colla corazza, coi
bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la mano manca posta sul
fianco e la destra sullo spadone a foggia di bastone. Quando Don Rodrigo era
sotto a questo antenato, e voltava, ecco in faccia un altro antenato,
magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta seggiola di velluto, con
una lunga toga nera, tutto nero fuorché un collare con due ampie facciuole:
aveva una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una supplica,
e pareva dicesse: — vedremo —: di qua una matrona terrore delle sue damigelle,
di là un abate terrore dei monaci, tutta gente insomma che spirava
terrore. In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo
che un frate avesse osato prender con lui il tuono di Nathan, e ammonirlo, anzi
minacciarlo. Formava un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come
soddisfare ad un tempo alla passione e all'onore; e talvolta, sentendosi
fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e quasi
stava per deporre il pensiero di soddisfarsi.
Finalmente,
per fare qualche cosa, chiamò un servo, e ordinò che facesse le
sue scuse alla brigata, dicendo ch'egli era trattenuto da un affare urgente.
Quando il servo tornò a riferire che quei signori erano partiti lasciando
i più umili ossequj e i più vivi ringraziamenti: «E il conte
Attilio?» domandò, sempre passeggiando, don Rodrigo. «È uscito
con quei signori». «Bene: sei persone di seguito pel passeggio: la mia spada;
il cappello; il pugnale di gala». Il servo partì facendo un inchino, e
Don Rodrigo, salì nella sua stanza, si cinse una ricca spada, depose il
pugnale che aveva in cintura, e ne prese uno di gala col fodero a rilievi
d'oro, e con un bel diamante sul pomo, si gettò la cappa sulle spalle,
si coperse col cappello a grandi piume, e colla palma lo inchiodò sul
capo; e si dispose ad uscire. A dir vero, egli non andava né per faccenda né
per diporto; ma sentiva un bisogno indistinto e confuso di uscire in gran
pompa, di circondarsi della sua forza per mostrare agli altri ed a sè
stesso ch'egli era pur sempre quel Don Rodrigo. Al piede della scala
trovò i sei seguaci tutti armati, i quali fatta ala ed inchino, gli
tennero dietro. Più burbero, più superbioso, più
accigliato del solito uscì egli e si pose a camminare verso Lecco
ricevendo inchini profondi, simili a genuflessioni dai contadini in cui
s'abbatteva: i bravi che lo seguivano non avrebbero lasciato di punire il
contegno poco ossequioso d'uno smemorato, o d'un temerario. Don Rodrigo
rispondeva con una leggera mossa di capo. I signorotti pure facevano riverenza
a colui che, senza contrasto, era il più potente di loro, e Don Rodrigo
corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quando però Don Rodrigo
s'incontrava nel signor Castellano spagnuolo, l'inchino allora era egualmente
profondo dall'una e dall'altra parte; si vedevano come due potentati i quali
non hanno fra loro nessuna relazione né di pace né di guerra, ma che per
convenienza fanno onore al grado l'uno dell'altro. Dopo aver passeggiato, Don
Rodrigo si presentò in una casa dove si teneva brigata, e dove fu
accolto con quella cordialità rispettosa che è riserbata a quelli
che fanno paura, e finalmente a notte avanzata tornò al suo castellotto.
Il
Conte Attilio era giunto da poco; e fu servita la cena, alla quale Don Rodrigo
pareva ancora alquanto sopra pensiero.
Il
Conte ruppe il silenzio, dicendo con aria maligna:
«Cugino,
quando pagate questa scommessa?»
«Il
giorno di San Martino non è venuto».
«Bene;
ma tanto fa che la paghiate ora; perché passeranno tutti i santi del paradiso
prima che...»
«Questo
è quello che si ha da vedere».
«Cugino,
voi volete nascondervi da me: ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver
vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra».
«Che?...»
«Che
il Padre..., il padre... che so io? quel frate insomma vi ha convertito».
«Questa
pensata è veramente una delle vostre».
«Convertito,
cugino, convertito, vi dico. Io per me ne godo: sapete che bella cosa sarebbe
vedervi tutto compunto e cogli occhi bassi. E che gloria per quel padre! Come
sarà tornato a casa pettoruto! Non son mica pesci che si pigliano ogni
giorno e con ogni rete. Siate certo che vi citerà per esempio; e quando
andrà a far qualche missione un po' lontano, parlerà dei fatti
vostri. Mi par di sentirlo con quella voce nel naso, predicare a questo modo: —
In una parte di questo mondo, che per degni rispetti non nomino, viveva,
uditori carissimi, un cavaliere dissoluto, amico più delle femine che
dei servi di Dio, il quale avvezzo a far d'ogni erba fascio...»
«Basta
basta», interruppe Don Rodrigo mezzo sogghignando, e mezzo arrovellato. «Se
volete raddoppiar la scommessa, io son pronto».
«Diavolo!
che aveste voi convertito il padre!»
«Non
mi parlate di colui: e quanto alla scommessa, aspettate san Martino».
La
curiosità del Conte era stuzzicata; egli non fece risparmio d'inchieste,
ma Don Rodrigo le deluse tutte, rimettendosi sempre al giorno della prova, e
non si arrischiando di comunicare al suo avversario disegni che non erano
ancora né incamminati, né assolutamente risoluti.
Ma
quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le
passioni che si erano combattute nel suo animo non vi rimaneva altra che il
desiderio di soddisfarsi.
Quel
poco di compugnimento, che il colloquio del padre Cristoforo aveva messo
addosso, era svanito insieme coi sogni della notte, e la memoria stessa di
averlo sentito non serviva che a raddoppiargli la stizza. Le sensazioni
posteriori a quel colloquio, il passeggio coi bravi, gl'inchini, le canzonature
del Conte avevano ritornata...................................... e quei tristi
credendosi scoverti, si ritirarono in buon ordine come abbiamo detto. Ma quel
buon servo che aveva già promesso al Padre Cristoforo di tenerlo
avvertito, seppe quello che si tramava; trovò il modo di correre al
convento, informò il Padre, il quale spedì tosto Menico, come
abbiamo veduto.
I
nostri tre fuggitivi camminarono qualche tempo in silenzio, dietro il loro
picciolo guidatore, il quale superbo di andar così di notte, per un
affare, come un uomo, superbo di essere nella brigata, quello che dava
consiglio, che avvisava al da farsi, che rincorava, che aveva la mente
più riposata, guardava attentamente la via, scegliendo i tratti
più brevi, e i più fuor di mano, e rivolgendosi alle rivolte con
aria d'importanza, a dire: «per di qua».
Avevano
fatto un terzo circa della via, ed erano lontani dal paese, tanto che guardando
indietro non si vedevano più i radi lumi delle lucerne che le donne
sporgevano dalle finestre ponendovi la mano sopra di traverso per non esser
vedute e per mandar la luce sulla via per dove tornavano a casa gli uomini a
subire un interrogatorio: e nessuno dei tre aveva ancora avuto animo di
comunicare agli altri i pensieri che lo agitavano: s'udiva solo di tempo in
tempo Agnese sclamare: — poveri morti benedetti, ajutateci —, Lucia invocare la
Vergine, e Fermo mormorare qualche esclamazione di sdegno. Fu la prima Agnese
che proferì un periodo compiuto. «E la casa?» diss'ella: «l'abbiamo
lasciata in abbandono, senza nemmeno porvi una custodia: sulla fede di questo
ragazzo, che Dio sa come ha inteso».
«Come!»
rispose con un poco di stizza e di albagia, Menico: «come! sentirete, sentirete
or ora dal Padre Cristoforo. Buon per voi che io vi abbia saputi trovare. Guaj
se andavate a casa: mi ha detto il Padre, che doveste uscirne subito subito, e
temeva ch'io non fossi in tempo». «Bembè sentiremo», rispose Agnese. Ma
Lucia andava stretta al braccio della madre, rifiutando dolcemente l'appoggio
di Fermo, ed arrampicando la prima sui muricciuoli che avevano a superare per
non essere ajutata da lui, e in mezzo a tutte le agitazioni tremando pure di
trovarsi così di notte per via con lui, per quel pudore che non nasce
dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, e somiglia
al sospetto del fanciullo che trema nelle tenebre senza sapere che cosa ci sia
da temere. Le parole di Agnese furono il principio d'una conversazione
generale: addomesticati già un poco alla loro nuova e inaspettata
situazione, si posero tutti e tre a favellar sotto voce (il che spiacque assai
a Menico, al quale pareva pure di meritar fiducia dopo la sua impresa) a
favellare dell'accaduto e di quello che poteva soprastare. La povera Lucia
parlò poco: e quello che me la rende più cara e più
pregiata si è ch'ella non si lasciò sfuggire una parola che
rinfacciasse alla madre ed a Fermo l'ostinazione loro a volerla tirare a quella
impresa ch'era così mal riuscita: non proferì mai quelle parole:
«l'aveva detto io».
Finalmente
per viottoli di campi, e per selve senza sentiero giunsero i viaggiatori ad un
torrente che dal monte chiamato Resegone scende nell'Adda e si chiama Bione,
nome che invano altri cercherebbe in un dizionario geografico. Il torrente era
al di là dal convento, ma non è da dir per questo che Menico
avesse fallita la strada, giacché era stato mestieri allungarla per ischifare
la via comune e battuta. Scesero alcuni passi col torrente, e quindi volgendo a
diritta divennero sulla piazzetta che si apriva dinanzi al convento ed alla
chiesicciuola unita a quello.
«Adesso
vedrete», disse Menico sottovoce: si affacciò alla porta della chiesa,
la sospinse dolcemente, e quella in fatti si aperse, e la luna, entrando per lo
spiraglio illuminò la barba d'argento, e la tonaca del Padre Cristoforo,
che stava ivi ritto ad aspettare. Quando egli vide che con Menico v'erano i tre
che egli dubbiosamente aspettava, disse a bassa voce: «Dio sia benedetto: siete
fuori di pericolo», e gli fece entrare. A canto del nostro Padre Cristoforo si
trovava un altro cappuccino. Era questi il laico sagrestano che egli con
preghiere e con ragioni aveva determinato a vegliar con lui, a lasciare aperta
la chiesa, e a starvi in sentinella per accogliere quei poveri minacciati; e
non vi voleva meno dell'autorità del padre, e della sua fama di santo
per condurre il laico ad una condiscendenza piena non solo d'incomodo, ma di
pericolo. Quando furono entrati: «Chiudete ora la porta senza far fracasso»,
disse il padre Cristoforo. Ma il laico al quale pareva già d'aver fatto
troppo, crollò la testa, e disse: «Chiudersi di notte in chiesa con
donne...! mi pare...» e continuava a crollare la testa.
—
Vedete un po', diceva fra sè il padre Cristoforo: se fosse un
masnadiero, Fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo, e una
innocente che si vuol salvare dagli artigli del lupo...
«Omnia
munda mundis» disse impetuosamente volgendosi a Fra Fazio, e dimenticando
che Fra Fazio non sapeva il latino. Ma questa dimenticanza fu appunto quella
che ottenne l'intento. Se il Padre avesse voluto addurre ragioni, Fra Fazio non
avrebbe mancato di ragioni da opporre, e la cosa sarebbe andata in lungo, Dio
sa anche come sarebbe finita; ma quando egli udì quelle parole d'un
suono così pieno e solenne, e dette così risolutamente, gli parve
che in esse dovesse essere tutta la soluzione dei suoi dubbj, rispose: «Ha
ragione», e volse a bell'agio la chiave nella toppa, e i nostri profughi si
trovarono chiusi nel santuario in salvo da ogni pericolo.
Il
Padre Cristoforo si pose ginocchioni ad orare un momento; e tutti lo imitarono:
quindi levato: «Figliuoli miei», disse, «Iddio non vi vuole ancora in riposo,
ma voi avete un segno della sua protezione, e un'arra ch'egli non vi
abbandonerà». E qui raccontò ai poveretti il pericolo a cui erano
sfuggiti, e proseguì: «Vedete che per ora è necessario
allontanarvi di qua: vi siete nati, è casa vostra, non avete fatto torto
a nessuno, ma il serpente talvolta fa disertare l'uomo dalla sua dimora, e gli
uomini pure si cacciano su questa terra come se vi fossero posti per divorarsi
l'un altro. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con
fiducia, senza rancore; è il mezzo di abbreviarla e di renderla utile.
Per me siate certi che penso a voi, e che troverò più mezzi per
ajutarvi che altri forse non crede. Frattanto io ho pensato a trovarvi per
qualche tempo un rifugio ove possiate starvi in sicuro finché si trovi il modo
di ritornare sicuri a casa vostra, e di giungere all'adempimento dei vostri
giusti e santi desiderj. Usciti di qui, voi v'incamminerete in silenzio al lago
presso allo sbocco del Bione, ivi vedrete un battello: direte: — barca: — vi
sarà risposto: — per chi? — replicate — San Francesco —: e la barca vi
accoglierà e vi trasporterà all'altra riva, dove troverete un
baroccio, il quale vi condurrà a salvamento». Chi domandasse come il
Padre aveva ai suoi comandi tante persone, e le aveva potute così
disporre ai servigi dei suoi protetti, mostrerebbe di non sapere che cosa
potesse un cappuccino che aveva fama di santo. Prese quindi in disparte Agnese,
le diede una lettera, le disse a chi doveva consegnarla assicurandola che con
quella troverebbe assistenza, e le raccomandò, che facesse in modo che
Fermo dopo averle accompagnate al luogo della loro dimora proseguisse il suo
viaggio. Quindi consegnò a questo un'altra lettera colle opportune
istruzioni.
Rimaneva
da pensare alla custodia delle case, le quali erano prive dei loro custodi
naturali. Le chiavi furono consegnate al Padre: quelle di Agnese per esser date
in mano d'una sua sorella, e quelle di Fermo per un suo cognato. Il Padre
ricevette le commissioni d'entrambi, procurando di acquietare la sollecitudine
di Agnese.
I
viaggiatori partivano quasi brulli di denaro: ma avevano dei risparmj in casa;
indicarono al Padre il luogo del deposito, ed egli promise di far loro tenere
il tutto sicuramente e presto. Finalmente con voce commossa, e contenendo le
lacrime: «Dio sia con voi», disse: «partite senza ritardo: il cuore mi dice che
ci rivedremo presto».
Certo,
il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire. Ma che sa
egli il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Il
sagrestano aperse la porta, commosso anch'egli, i viaggiatori partirono dando e
ricevendo un addio con voce sommessa e alterata; e la porta si richiuse.
Andarono quegli pian piano com'era stato loro segnato alla riva del lago; quivi
mutate le parole, entrarono nel battello, e il barcajuolo puntando il remo alla
riva, lo fece staccare, e remigando a due braccia, prese il largo verso la riva
opposta.
Il
lago era sgombro, non soffiava un respiro di vento, e la superficie dell'acqua,
illuminata dalla luna giaceva piana e liscia senza una increspatura, come un
immenso specchio. I remi che tagliando l'onda con tonfo misurato uscivano ad un
colpo grondanti, e segnando di infinite stille lo spazio sul quale precorrevano
per rituffarsi nell'acqua, rompevano solo la piana superficie del lago; l'onda
segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa segnava una striscia fuggente,
che si andava allontanando dal lido. I viaggiatori silenziosi, volgendosi
addietro, guardavano le montagne e il paese che la luna illuminava. Si
distinguevano i villaggi, i campanili, le capanne: il castellotto di Don
Rodrigo colla vecchia sua torre, alto sulle capanne, pareva un feroce ritto
nelle tenebre che in mezzo ad una folla di coricati nel sonno vegliasse
meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio
verso il sito della sua umile casa, e vide un pezzo di muro bianco che usciva
da una macchia verde scura, riconobbe la sua casetta, e il fico che ombreggiava
la porta: e seduta com'era sul fondo della barca, poggiò il gomito sulla
sponda, chinò su quello la fronte come per dormire; e pianse
segretamente.
Addio,
monti posati sugli abissi dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali,
conosciute a colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che
visse fra voi, come egli distingue all'aspetto l'uno dall'altro i suoi
famigliari, valli segrete, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branco
disperso di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi
vi conosce dall'infanzia! quanto è nojoso l'aspetto della pianura dove
il sito a cui si aggiunge è simile a quello che si è lasciato
addietro, dove l'occhio cerca invano nel lungo spazio, dove riposarsi e
contemplare, e si ritira fastidito come dal fondo d'un quadro su cui l'artefice
non abbia ancor figurata alcuna immagine della creazione. Che importa che nei
piani deserti sorgano città superbe ed affollate? il montanaro che le passeggia
avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della maraviglia nel mirare
edificj che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a
fatica pietra sopra pietra. Le vie, che hanno vanto di ampiezza, gli sembrano
valli troppo anguste, l'afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa
del monte non aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto timido e
delicato come il cittadino, si lagna del clima e della temperie, e dice che
morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col sole, non riposava
che al mezzo giorno e al cessare delle fatiche diurne, passa le ore intere
nell'ozio malinconico ripensando alle sue montagne.
Ma
questi sono piccioli dolori. L'uomo sa tormentar l'uomo nel cuore; e
amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei momenti passati
lietamente affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non
temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto una
certa maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più
quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente
trasformata. Dolore speciale: la contemplazione della perversità d'una
mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo
simile. Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle
prime speranze; casa nella quale sedendo con un pensiero s'imparò a
distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma desiderata con un
misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e
sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna. Addio chiesa dove nella
prima puerizia si stette in silenzio e con adulta gravità, dove si
cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente
le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire,
Chiesa, dove era preparato un rito, dove l'approvazione e la benedizione di Dio
doveva aggiungere all'ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della
santità. Addio! Il serpente nel suo viaggio torto e insidioso, si posta
talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la
sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l'uomo il quale ad
ogni passo incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è
obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi
figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile usurpatore, e
parte. E l'uomo pure caccia talvolta l'uomo sulla terra come se gli fosse
destinato per preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia
del potente oltraggioso: ma i passi affannosi del debole sono contati, e un
giorno ne sarà chiesta ragione.
La
barca giunta alla riva, urtando sull'arena scosse Lucia, la quale dopo avere
asciugate in segreto le lagrime, si alzò come dal sonno. Fermo
uscì il primo, porse la mano ad Agnese, questa uscita la porse a Lucia,
e tutti e tre resero tristamente grazie al barcajuolo, il quale rispose:
«Niente, niente, siamo quaggiù per ajutarci». Fermo voleva cavare una
parte dei pochi quattrinelli che si trovava in tasca; ma il barcajuolo li
rifiutò come se gli fosse proposto un furto. Trovarono il barroccio,
v'ascesero, e continuarono silenziosamente la via. La notte aveva già
passato il mezzo, e la luna illuminava tuttavia il cammino che dopo aver
seguito, abbandonato, e ripreso più volte il corso dell'Adda, corse per
lungo tempo di valle in valle fra monti che andavano sempre diminuendo
d'altezza.
L'aurora
mostrò loro delle colline, il cui aspetto sarebbe stato lieto per animi
lieti. Ma oltre la sventura che teneva sotto di sè i nostri viaggiatori,
la dura condizione dei tempi avrebbe impedita ogni gioja in qualunque
viaggiatore: giacché sur una terra ridente non s'incontrava che l'uomo tristo e
squallido dalla fame, che usciva per domandare soccorso non dovendo trovare
quasi che il suo simile bisognoso di soccorso.
A
giorno fatto giunsero al luogo della fermata; e discesero ad una osteria dove
li condusse la loro guida, la quale pose a riposare il suo cavallo, per
ritornarsene, e ricusò pure ogni pagamento. Qui Fermo avrebbe voluto
sostare almeno tutta la giornata, ma Agnese e Lucia lo persuasero a partire, ed
egli partì, tutto incerto dell'avvenire, ma certo almeno che un cuore
rispondeva al suo, e viveva delle sue stesse speranze.
TOMO SECONDO
CAPITOLO I
DIGRESSIONE.
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LA
SIGNORA
Avendo
posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto creder
così al lettore ch'egli troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo
in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà sospesa alquanto da
una discussione sopra principj; discussione la quale occuperà
probabilmente un buon terzo di questo capitolo. Il lettore che lo sa
potrà saltare alcune pagine per riprendere il filo della storia: e per
me lo consiglio di far così: giacché le parole che mi sento sulla punta
della penna sono tali da annojarlo, o anche da fargli venir la muffa al naso.
La
discussione viene all'occasione della osservazione seguente che mi fa un
personaggio ideale.
—
I protagonisti di questa storia, — dic'egli, — sono due innamorati; promessi al
punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle circostanze condotte
da una volontà perversa. La loro passione è quindi passata per
molti stadj, e per quelli principalmente che le danno occasione di manifestarsi
e di svolgersi nel modo più interessante. E intanto non si vede nulla di
tutto ciò: ho taciuto finora ma quando si arriva ad una separazione
secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine del capitolo
passato, non posso lasciare di farvi una inchiesta: — Questa vostra storia non
ricorda nulla di quello che gl'infelici giovani hanno sentito, non descrive i
principj, gli aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non li
dimostra innamorati?
—
Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi
la parte la più elaborata dell'opera: ma nel trascrivere, e nel rifare,
io salto tutti i passi di questo genere.
—
Bella idea! e perché, se v'aggrada?
—
Perché io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere
d'amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione.
—
Poffare! nel secolo decimonono, ancora simili idee! Ma i vostri riguardi sono
tanto più strani, in quanto l'amore dei vostri eroi è il
più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste
descriverlo in modo di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare
altrui ad un sentimento virtuoso.
—
Armatevi di pazienza, ed ascoltate. Se io potessi fare in guisa che questa storia
non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno
detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora
forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non
potrebbe certamente aver nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe
inutile per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo,
quand'anche fosse trattato da tutt'altri che dal mio autore e da me; perché
quale è lo scritto dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo
può sentirlo? Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per
esempio d'una vergine non più acerba, più saggia che avvenente
(non mi direte che non ve n'abbia), e di anguste fortune, la quale perduto
già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca
di tenere occupato il cuor suo coll'idea dei suoi doveri, colle consolazioni
della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare
né torre; ditemi un po' che bell'acconcio potrebbe fare a questa creatura una
storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto
saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso che un giovane prete il quale coi
gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la
preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli
rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando
troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di
distrazione, ponete il caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa
storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia
da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei
sentimenti ch'egli debbe soffocare ben bene nel suo cuore, se non vuole mancare
ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua
vita una contraddizione che tutta la alteri. Vedete quanti simili casi si
potrebber fare. Concludo che l'amore è necessario a questo mondo: ma ve
n'ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e
che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa
bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno
scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli animi:
come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza,
l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v'ha mai eccesso; e
lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po' più nelle cose di
questo mondo: ma dell'amore come vi diceva, ve n'ha, facendo un calcolo
moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla
conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente
l'andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno
per un prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d'amore
che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea
sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei.
—
Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali, e peggio; idee che
tendono a soffocare ogni slancio d'ingegno, e ben diverse dalle idee grandi
della vera religione...
—
La religione ha avuto scrittori del genio il più ardito ed elevato,
pensatori profondi, e pacati ragionatori d'una esattezza scrupolosa, e tutti
tutti questi senza una eccezione hanno disapprovate le opere in cui l'amore
è trattato nel modo che voi vorreste. Oh ditemi di grazia come mai io
posso persuadermi che tutti questi non han saputo conoscere quel che si voglia
la vera religione, e che voi avete trovata senza fatica la verità,
dov'essi con uno studio di tutta la vita non hanno saputo pescare che un errore
grossolano?
—
Così voi condannate tutti gli scritti...?
—
Sono i giudici che condannano: per me vi dico solo il perché io abbia esclusi
tutti quei bei passi da questa storia. Ma se volete dei giudizj, e delle
condanne, voi ne troverete nei casi in cui è lecito anzi bello il
condannare, cioè quando uno giudica se stesso. Vedete quello che hanno
pensato dei loro scritti amorosi quegli scrittori (del cristianesimo intendo) i
quali si sono acquistata fama di grandi, e nello stesso tempo di più
castigati.
Vedete
per esempio, il Petrarca e Racine.
—
Il Petrarca viveva in tempi...
—
Non parliamo del Petrarca, perché io spero che leggeremo presto intorno a lui
il giudizio d'un uomo il quale ne dirà, quello che né voi né io non
giungeremmo a trovare. Vi tratto, come vedete, senza cerimonie, perché siete un
personaggio ideale.
—
Ebbene, Racine. Non è ella cosa convenuta fra tutti gli uomini che hanno
due dita di cervello, e che non sono un secolo indietro dagli altri, che il
pentimento che Racine provò per le sue tragedie è una debolezza
degli ultimi suoi anni, debolezza indegna di quel grande intelletto, debolezza
che fa compassione?
—
Vi sono stati due Giovanni Racine. Uno per aver la grazia dei potenti,
adulò in essi apertamente il vizio, ch'egli conosceva per tale, e per
giustificare appunto le sue tragedie, beffò degli uomini pei quali aveva
in cuor suo un rispetto sentito, e sostituì gli scherni personali ai
ragionamenti per evitare la quistione: punse acerbamente quanto potè ed
umiliò con epigrammi stizzosi certi tali, che non la natura certo, ma il
giudizio di una gran parte del pubblico aveva fatti suoi emoli; e nello stesso
tempo si rose internamente, si accorò, perdette la sua pace ad ogni
critica che sentiva fare delle sue opere: tormentato e tormentatore pei
meschini interessi della letteratura, e della sua letteratura. Questi è
quel Giovanni Racine che scriveva rime d'amore.
L'altro,
viveva ritirato tranquillamente nel seno della sua famiglia: se non si
allontanò affatto dai potenti, almeno parlò ad essi (caso raro,
quasi unico in quei tempi) delle miserie degli uomini che essi avrebbero dovuto
sollevare, o non creare: non solo non cercava più gli applausi, non solo
non provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con dolore: non solo non si
arrovellava ad ogni critica; ma quando un uomo non provocato lo fece segno ad
un pubblico insulto, non se ne lagnò, e invece di ricevere scuse,
rispose con ringraziamenti. Egli che era stato cortigiano nella sua giovinezza,
rifiutò di sedere alla mensa di un principe per non privare i suoi figli
della sua compagnia. In pace con sè, col genere umano, e coi letterati,
egli trascorse vent'anni libero da quelle passioni che avevano agitata la sua
prima età, e non si può proprio dire per questo che fosse
rimbambito, poiché scrisse «Atalia». Questi è quel Giovanni Racine, che
si pentiva di avere scritte rime d'amore. Che di questi due uomini il debole
fosse il secondo, si può certamente dire, se ne dicono tante! ma per me,
non posso persuadermene.
—
Dunque secondo voi, aveva ragione di pentirsi: dunque se non fosse rimasto che
un esemplare delle tragedie amorose di Racine, se questo esemplare fosse stato
in vostra mano, se Racine ve lo avesse chiesto per abbruciarlo, per privare la
posterità d'un tale monumento d'ingegno, voi avreste...? non ardisco
quasi interrogarvi.
—
Io glielo avrei dato subito perché quel brav'uomo potesse aver la soddisfazione
di gettarlo sul fuoco. Come! voi credete che si sarebbe dovuto esitare a
togliergli dal cuore questa spina? Gliel avrei dato subito, perché il
dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di Racine era un sentimento
più importante, che non sia stato e non sia per essere il piacere che
hanno dato e che sono per dare le sue tragedie fino alla consumazione dei
secoli.
—
Queste sono ciarle; ma avete pensato che con questi stralci voi vi andate
scemando sempre più il numero de' lettori; e che se avrebbero potuto
essere centinaja, sa il cielo se li conterete a dozzine?
—
Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non arrivo a sentire la forza di questo
inconveniente.
—
Ma voi volete privarvi volontariamente dei mezzi più potenti di
dilettare, di quei mezzi che anche in mano della mediocrità possono
talvolta produrre un grande effetto?
—
Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che
non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la
più servile, l'ultima delle professioni. E vi confesso che troverei
qualche cosa di più ragionevole, di più umano, e di più
degno nelle occupazioni di un montambanco che in una fiera trattiene con sue
storie una folla di contadini: costui almeno può aver fatti passare
qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie; ed è
qualche cosa. Ma, per non ingannarvi, avvertite che in tutte queste ciarle che
abbiam fatte finora, non abbiam detto nulla o quasi nulla sul fondo della
quistione. Voi non lo avete toccato; ed io sono rimasto, rispondendovi, in
quella sfera dove vi siete posto: abbiam ciarlato di fuori, come si usa. Che se
volete veder qualche cosa sul fondo della quistione, andate di grazia a quegli
scrittori di cui abbiam fatto cenno; o pure pensateci un po' seriamente voi stesso.
—
Pensarci? Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a porre
insieme le idee di un Vandalo e d'una donnicciuola...
—
Sparisci; e torniamo alla storia.
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Dove
siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo dire. Abbiam
già avvertito che delle due classi fra le quali era divisa la
società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi,
d'uomini che avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva alla
prima. La sua timida discrezione raddoppia però a questo punto della
narrazione: e il progresso della narrazione stessa ne fa vedere il motivo. Le
avventure di Lucia nel suo novello soggiorno si trovano implicate con intrighi
tenebrosi, rematici, misteriosi, terribili, di persone che deggiono essere
state potenti, e imparentate assai: e l'autore si scopre impacciato tra il
desiderio di raccontare quello che sa, e il terrore di offendere di quelle
famiglie il mormorare contra le quali era un peccato punito in questo mondo.
Quindi egli va col calzare del piombo, e narrando i fatti, sopprime tutte le
indicazioni che potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste
indicazioni anche quella del luogo. Ma in questa parte almeno egli non è
stato destro abbastanza, e noi possiamo annunziare senza timore d'ingannarci il
luogo dove si è fermata Lucia: poiché l'autore senza avvedersene ci ha
dato un filo che condurrebbe alla scoperta anche un ragazzo. Egli dice in un
passo del suo racconto che Lucia giunse ad un borgo nobile e antico al quale di
città non mancava che il nome; altrove parla del Lambro che vi scorre:
altrove ancora dice che v'era un arciprete: con queste indicazioni non v'ha in
Europa uomo che sappia leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.
La
madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo, solette in
una osteria di Monza, senza alcuna pratica del paese, senza alcuna conoscenza,
non avendo in così alto mare altra bussola che la lettera del Padre
Cristoforo. La lettera era diretta al Padre Guardiano dei Cappuccini. Agnese
chiese conto del convento alla moglie dell'albergatore; la quale non lo diede
che dopo aver tentata ogni via per avere un pagamento anticipato di un
così picciol servizio, in tante informazioni, sul nome e sulla
qualità delle donne, sui motivi del loro viaggio, sugli affari che
potevano avere col Padre Guardiano. Ma le donne, alle quali era stato dal loro
protettore raccomandata la discrezione, seppero ingannare le ricerche della
ostessa, la quale fu obbligata di insegnar loro gratuitamente la via del
convento. Si mossero quindi tosto benché dovessero risentirsi del travaglio
della notte e del giorno antecedente: la lepre cacciata non sente la stanchezza
che quando ha trovato un ricovero.
Agnese
a cui l'aspetto di Monza non era nuovo perché v'era passata molti anni
addietro, né imponente perché aveva soggiornato a Milano, camminava francamente
guidando e incoraggiando Lucia, la quale andava rasente il muro tutta
sospettosa. Girando di via in via, e ad ogni rivolta di canto trovando ancora
vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia mista di non so quale afa, come
chi vede una brutta grandiosità. Ma il sentimento predominante di
accoramento e di terrore non le dava campo di esprimere quello che allora
provava, né di provarlo distintamente e con forza. Giunte alla porta del
convento, tirarono il campanello, e al portinajo che sopravvenne chiesero del
padre guardiano al quale avevano una lettera da consegnare. Quando Lucia vide
una tonaca cappuccinesca le parve di essere in paese conosciuto, e si riebbe alquanto.
Il padre guardiano non si fece aspettare, salutò le donne, prese la
lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse con una voce che
annunziava la compiacenza: «Oh! il mio Padre Cristoforo». Il Padre Cristoforo
era stato suo collega nel noviziato; e d'allora in poi essi avevano contratta
una amicizia da chiostro, voglio dire una amicizia cordiale, intima più
che fraterna, simile a quelle che si narrano di qualche pajo d'uomini
dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società
separate con vincoli particolari dalla società universale degli uomini.
Queste frazioni, questi crocchj creano fra tutti i membri che li compongono un
vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di benevolenza,
vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj accaniti e
mortali, ma forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno
della picciola società, e per dare a quegli stessi che si odiano una
apparenza, e una condotta da amici ogni volta che essi si trovino in contrasto
cogli estranei. Quando poi una conformità di sentimenti e di
inclinazioni, crea fra due individui di queste società una benevolenza
particolare ella è tanto più forte quanto più essi si sono
scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.
Il
padre guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhj dal
foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento.
Quand'ebbe
terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano
sul mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver
trovato quello di che aveva bisogno: «Non c'è altri che la Signora: se
la Signora vuol pigliarsi l'impegno...» Fece quindi a bassa voce ad Agnese
alcune interrogazioni alle quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete
seguirmi? Io spero di aver trovato ove collocare in sicuro questa buona
ragazza». Le donne si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui
suggerito: e il padre: «venite con me» disse; «statemi soltanto alcuni passi
addietro; perché, vedete, il paese è maligno, e Dio sa quante storie si
farebbero se si vedesse il padre guardiano con una bella giovane, voglio dire
con donne per la via». Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al
guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata. Giunti al monastero, il
guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele
alla moglie del fattore la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla
via, progredì nel cortile promettendo di tornare a momenti.
L'interrogatorio
della fattora fu come doveva essere, più imperioso, più astuto,
più pressante d'assai che non fosse stato quello dell'albergatrice; e
Agnese schermendosi a stento, andava già componendo una filastrocca
nella sua mente, perché vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar qualche
cosa, quando per buona sorte, ritornò il padre guardiano con faccia
giuliva ad annunziare alle donne che la Signora si degnava riceverle. La
fattora le lasciò partire guardando con dispetto il guardiano ch'era
venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando
il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo da tenersi colla
Signora: «Siate umili, e riverenti, raccomandatevi alla sua protezione,
rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per
farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me».
Agnese
e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza, e di pensiero di
questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al padre chi ella fosse:
probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così modesto, e
per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora; ma,
come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta,
la quale sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però
solo quel tanto che non si potrebbe tacere.
Era
la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco che era stata posta
dall'adolescenza in quel monistero, e vi aveva assunto il velo, e fatta la
professione. Aveva essa l'incarico di vegliare sulle fanciulle che erano nel
monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra delle
educande; ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità
che queste le davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che
di Signora; ed era da tutte riguardata, come la protettrice, la donna principe
del monistero; e con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi
servigi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di
cella.
La
sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del monistero;
e i cappuccini i quali di generazione in generazione, o per meglio dire di
vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto di amicizia
col monistero, godevano essi pure di questa protezione. Ecco perché il padre
guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è
condotta ora dinanzi a lei.
Dal
cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al
parlatorio; prima di porvi il piede il guardiano, accennando la porta aperta
disse sottovoce alle donne: «qui è la Signora», come per farle
rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia non aveva mai
veduto un monistero: ponendo tutta timorosa il piede sulla soglia del parlatorio,
si guardò intorno per vedere dove fosse la Signora a cui si doveva fare
l'inchino, e non iscorgendo persona, stava come smemorata, quando osservando il
padre che andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò,
e vide un pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi il doppio
con una doppia grata la quale togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la
lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in
piedi, e le s'inchinò profondamente come avevano già fatto gli
altri due.
L'aspetto
della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po'
conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni. Un velo nero teso
orizzontalmente sopra la testa scendeva a dritta e a manca dietro il volto,
sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte che
si vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava un candido
avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte liscia ed elevata
si corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si
riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido movimento. Due occhi pur
nerissimi si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione
dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in
quegli occhi un non so che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea
che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito,
talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi
accompagnavano. Le guance pallidissime, ma delicate scendevano con una curva
dolce ed eguale ad un mento rilevato appena come quello d'una statua greca. Le
labbra regolarissime, dolcemente prominenti, benché colorate appena d'un roseo
tenue, spiccavano pure fra quel pallore; e i loro moti erano, come quelli degli
occhi, vivi, inaspettati, pieni di espressione e di mistero. Una gorgiera
bianca, increspata lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito:
la nera cocolla copriva il rimanente dell'alta persona, ma un portamento
disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni rivolgimento, forme di alta
e regolare proporzione. Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa
di studiato, o di negletto, di stranio insomma che osservato in uno colla
espressione del volto dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare. La
stoffa della cocolla e dei veli era più fine che non s'usasse a monache,
il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla
tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli; il che
mostrava o dimenticanza o trascuraggine di tener secondo la regola, sempre
mozze le chiome già recise nella cerimonia solenne della vestizione.
Questa
stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso nei gesti
della Signora. S'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso, come se
temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio; talvolta
dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se ne intendesse
una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta dopo una lunga e manifesta
distrazione, si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua
mente non aveva avvertiti.
Queste
cose non si facevano scorgere a Lucia non avvezza a scernere monaca da monaca,
e neppure ad Agnese: l'occhio del padre guardiano era certamente più
esercitato, ma perciò appunto era avvezzo ad osservare senza maraviglia
nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi s'era già da
molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora. Ma ad un
viaggiatore che l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere
non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi
separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle
commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.
In
quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta in piedi, presso la grata,
appoggiata ad essa mollemente con una mano, intrecciando le bianchissime dita
nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata osservando quelli che si
presentavano, e specialmente Lucia.
«Reverenda
madre, e signora illustrissima», disse il padre guardiano colla fronte bassa, e
con la destra tesa sul petto; «ecco quella innocente derelitta, per la quale
imploro la valida sua protezione». E sulle ultime parole accennava alle donne
che accompagnassero con atti e con inchini la sua supplicazione; la povera
Agnese dopo d'aver fatto al padre un cenno del volto che voleva dire: — so quel
che va fatto — raddoppiava gl'inchini, rannicchiandosi, e risorgendo come se
una molla interna la facesse muovere, e Lucia s'inchinò pure, da
inesperta, ma con una certa grazia che la bellezza, la giovinezza, e la
purità dell'animo danno a tutti i movimenti. La Signora curvò
leggermente il capo verso il padre guardiano, fece alle donne cenno della mano
che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di
sedersi, sedette e sempre rivolta al padre, rispose: «Ho appreso dai miei
antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi
ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a
qualche cosa. È una buona ventura per me il potere render servizio a'
nostri buoni amici i padri cappuccini». Queste parole furono accompagnate da un
sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno.
Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe: «Non
mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno con
sè il loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di
far conto sul ricambio dei nostri buoni padri. Il mondo è pieno di
tristi e d'invidiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento
in cui possa aver bisogno di una buona testimonianza, e d'ajuto».
Il
guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima parte della
quale significava che la Signora non avrebbe mai bisogno di nessuno, e la
seconda che i padri avrebbero tenuta a guadagno ogni occasione di far cosa
grata alla Signora. Questa proseguì: «Ma via; mi dica un po' più
particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio
che si possa fare per essa».
Lucia
arrossò tutta, e chinò la faccia sul seno. «Deve sapere,
reverenda madre», cominciò Agnese, «che questa mia povera figliuola,
perché io sono sua madre...»
Il
guardiano le gittò un'occhiata e interruppe.
«Questa
giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio confratello:
essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel quale possa stare
sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per sottrarsi a dei
gravi pericoli».
«Pericoli!»
disse la Signora. «Quali pericoli? di grazia, padre guardiano. Mi dica la cosa
per minuto: ella sa che noi altre monache siamo vaghe d'intendere storie».
«Sono»,
rispose il padre, «pericoli dei quali la reverenda madre, non conosce nemmeno
il nome, beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe offendere le
purissime vostre orecchie, e contristare l'illibatezza dei vostri pensieri,
signora illustrissima».
«Oh!
certamente!» rispose precipitosamente la signora, senza molto badare
all'aggiustatezza della risposta; e si fece tutta di porpora. Era verecondia?
Chi avesse osservata una subitanea ma viva espressione di scherno e di dispetto
che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più
se lo avesse paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance
di Lucia.
La
Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e
stava per rivolgere il discorso a Lucia, quando il guardiano, tenendo di non
aver mal detto, ripigliò così il discorso: «Non tutti i grandi
del mondo, si servono dei doni di Dio a gloria di lui, e a vantaggio del
prossimo, come fa la Signora illustrissima. Un cavaliere prepotente e senza
timor di Dio, ha tentato ogni via, giacché deggio pur dirlo, per insidiare la
castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di lusinga
gli andavano falliti, non temè di ricorrere alla forza aperta,
tentando... insomma di farla rapire. Ma Dio non l'ha lasciata cadere in quei
sozzi artigli, e le ha invece preparato un ricovero sotto le ale
incontaminate...»
«Ma
voi», disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia, «voi che dite di codesto
signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli
sozzi».
«Signora,
madre, illustrissima», balbettò Lucia che sarebbe stata confusa a dover
rispondere su questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una
persona sua pari e conosciuta. Ma Agnese venne in soccorso: «Illustrissima
signora», diss'ella, «il suo parlare è troppo alto per questa povera
figliuola. Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore colui,
come il diavolo l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi
compatirà se parlo male, perché noi siam gente come Dio vuole; del
resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro pari,
timorato di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto un po'
più di giudizio; so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo
amico intrinseco qui del padre guardiano, è religioso al pari di lui, e
davantaggio, e potrà attestare...»
«Voi
siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata», disse la Signora, dando
sulla voce ad Agnese. «Non so che fare dei parenti che rispondono pei loro
figliuoli». Agnese voleva aprir bocca, ma la signora con tuono ancor più
brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole non servono a nulla».
Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di
sinistro, di feroce che quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la
alterava di modo che chi avesse osservato quel volto in quel punto ne avrebbe
conservata una immagine disgustosa per sempre. I suoi guardi erano fissi sopra
Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico. E
continuò: «Voi fate conto forse, che perché io son qui rinchiusa, fuori
del mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad intender qualunque cosa.
Povera donna! appunto perché son qui, sono men facile ad essere ingannata su
certe materie. Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è
sempre un uomo compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è
così allegro! in così bella situazione! così tranquillo!
è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia; vorrebbero
anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a far vita beata: ma... pur
troppo sono legati nel mondo. Scusi il mio caldo, padre, ma ella sa meglio di
me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno queste cose, la menzogna la
più imperterrita, la più persistente, la più solenne
è quella che sta sul labbro di colui che vuole sagrificare i suoi figli,
e far loro violenza. Questi sono i peccati, contra i quali si dovrebbe
predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno».
A
queste parole, la Signora, si pose a sedere tutta turbata, ed ognuno si sarebbe
avveduto che un pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere,
dominava allora la sua mente, e che gli affari di Lucia non erano che un
oggetto di considerazione secondaria.
Agnese
intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le avesse tirata
addosso questa tempesta, il guardiano voleva pure animar Lucia a parlare, ma
questa animata già dalla circostanza, si avvicinò alla grata, e
in tuono modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto la
mia buona madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava», e
qui arrossò, «lo sposava io... di mio genio, mi perdoni se parlo da
sfacciata, ma è per difendere mia madre: e quanto a quel signore...»
«Buona
fanciulla», interruppe la Signora con voce raddolcita, «credo un po' più
a voi, ma non vi credo ancora del tutto. Vi ha due linguaggi che si somigliano;
quello che parte dal fondo del cuore, e quello d'una figlia oppressa che dice
il falso per terrore, e protesta di amare ciò ch'ella abborre più
al mondo. Voglio sentirvi da sola a sola. Padre guardiano, se ella conoscesse
per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non
istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me,
piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...»
«Il
Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani questo
affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza,
ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi. Stimo però cosa
molto savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato
questa faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto,
la determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia
perseguitata».
«Lo
spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di far
dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò
fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua
intromissione. Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare. La fattora
del monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa
giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai
pochi servigj ch'ella faceva. Ne parlerò colla madre Badessa, ma da
quest'ora, le dò la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta».
Il guardiano proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò
gentilmente, ma lasciando però capire che ella faceva assegnamento sulla
riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una delle monache che le
facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad Agnese che
andasse alla porta del chiostro, per intendersi con la monaca e con la fattora,
e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed a
Lucia. Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della
decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia rimase sola con la
Signora a subire l'esame.
CAPITOLO II
LA SIGNORA, TUTTAVIA
Le
parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano
certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto
quel colloquio per comparire una monaca come le altre. Ma quando ella si
trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva le
osservazioni di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i
suoi discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che
prima di riferirli è necessario raccontare la storia di questa Signora,
e rivelare le passioni e i fatti che rendevano tale il suo linguaggio.
Questi
fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria
fossero comuni molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità
di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per
narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di
questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia
alcun dubbio. Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano
etc., scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere
informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di
osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti
racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella
nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per
render più compiuta la storia particolare della Signora. Queste cose
però, quantunque rese più che probabili da una tale
testimonianza, e quantunque essenziali al filo del nostro racconto, noi le
avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non avessimo
potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora,
che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i
primi fatti della Signora, ma deve creare una impressione d'opposto genere, e
consolante. Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e
ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli
uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno
terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo
inutile, comunque uno le esponga. Senza esaminare il valore di questo modo di
sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di
sopprimere un libro.
Che
se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di
cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano
l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un'altra
digressione, e a rispondergli così: — Il manoscritto unico, in cui
è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia
mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non
vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è
raccontata vi annojasse, giacché dagli uomini si può aspettar tutto; in
questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica.
Il
Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e
di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non
avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle
sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non
di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il
risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men
degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto
ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la
convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo
dovere del suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi
nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali
gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia nata in tali circostanze, e
destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si
sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro
non lo poteva fuggire. Tale fu il destino della Signora dal primo momento della
sua vita; e quando una donzella della signora Marchesa venne con l'aria confusa
di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: «è una femmina»; il
signor marchese rispose mentalmente: — è una monaca —. Si pose quindi a
frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato
portato da una santa la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata
monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare richiamasse al
solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto
apposta per la sua neonata. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi
che le furono posti fra le mani; e il padre, facendola saltare talvolta sulle
ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa. A misura ch'ella si avanzava
nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza
non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e
nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione
all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo trasporto pei
piaceri e pel fasto. Di tutte queste disposizioni il padre favoriva quelle
soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo considerava
come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia
come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli
alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che
manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero. Della bellezza né
egli, né la madre, né un fratello destinato a mantenere il decoro della
famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu informata dalle donzelle, alle
quali prestò fede immediatamente. Benché la condizione alla quale il padre
l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata,
nessuno le disse però mai: — tu devi esser monaca —. Era questa come una
idea innata; e quando veniva il caso di parlare dei destini futuri della
fanciulla, questa idea si dava per sottintesa. Accadde per esempio che alcuno
della casa correggendola di qualche aria d'impero troppo oltracotante, gli
diceva: «tu sei una ragazzina, questi modi non ti convengono; quando sarai la
madre badessa, allora comanderai, farai alto e basso». Talvolta il padre le
diceva: «tu non sarai una monaca come le altre: perché il sangue si porta da
per tutto dove si va»; e simili discorsi nei quali la Signora apprendeva
implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca.
Confusa
con questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra,
che per esser monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa
tanto certa non era però fatta, e che il farla o non farla sarebbe
dipenduto da una sua determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti si
acconciavano nella sua mente come potevano: perché se un uomo non dovesse star
tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe
più tranquillità. A sei anni fu posta in un monistero e per
educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa. Quale coltura
d'ingegno potesse riceversi a quei tempi in un monastero, è facile
argomentarlo dalla coltura universale, e questa si può argomentare dai
libri che ci rimangono di quell'epoca. Ora basti il dire che nella prima metà
del secolo decimosettimo non uscì ch'io sappia in Milano un libro, non
dico insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: dimodoché dalla
ignoranza universale si può francamente supporre che alle giovani di
quel tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è di
più chiaro, di più certo, di meglio digerito nelle cognizioni
umane, la storia romana. Ma quello che più importa di dire nel caso
nostro si è che quella parte di educazione che i fanciulli riuniti in
comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora un
effetto contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi. Fra le
giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate
a splendidi matrimonj, perché così voleva l'interesse delle famiglie
loro. Geltrudina nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava
magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, e a quello splendido che la
fantasia dei fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano
loro, la sua fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più,
perché le era stato detto tante volte: — tu non sarai una monaca come le altre
—. Ma ella s'accorse con maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle
sue compagne non sentivano punto d'invidia di questo suo avvenire; e alle immagini
circoscritte e scarse che può somministrare anche ad una fantasia
adolescente il primato in un monastero, opponevano le immagini varie e
luccicanti di sposo, di palagi, di conviti, di villeggiature, di veglie, di
tornei, di abiti, di carrozze, di livree, di braccieri, di paggi.
Queste
immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel ronzio,
quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori, appena colti, collocato
davanti ad un'arnia. Sulle prime ella volle competere con le compagne, e
sostenere la superiorità della condizione, che le era destinata; ma
quanto più ella cercava di magnificare le sue dignità future,
tanto più le esponeva ad un terribile genere di offesa, il ridicolo;
sentimento che quelle spavalducce applicavano più naturalmente e
più saporitamente alle dignità che vantava Geltrude, appunto
perché le vedevano esercitate dalle loro superiore; sorta di persone per le
quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione, come lo scherno. E
quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi contro
le avversarie, perché le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose
delle quali si ride in questo mondo: si ride bensì di chi le desidera
senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente; e questo ridere mostra
l'alta estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le
stimano, non esprimono il loro giudizio con la derisione.
Geltrudina
quindi per non restare al disotto non aveva altro a rispondere, se non che,
ella pure avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio, essere
strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto, se lo avesse voluto,
che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti. Quell'idea che le stava
rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario
perch'ella fosse monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse
allora, e divenne perspicua e predominante. Con questo pensiero ella si teneva
bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e di rancore
contra quelle sue compagne le quali erano ben altrimenti sicure, e ch'ella
avrebbe amate se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un
confronto doloroso. Perché questa sventurata non aveva un animo ostile, non si
dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e
tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò che poteva
essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto
di avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto
impunemente sfogarlo. In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a
quella età così critica, che separa l'adolescenza dalla
giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra
nell'animo, solleva, ingrandisce, adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza
tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova. Assoluta innocenza di
pensiero; massime e pratiche di Religione ragionata; occupazioni utili e
interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa
e libera nei parenti o negli educatori, sono i mezzi sicuri per trascorrere
impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla,
saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita. Ma le
circostanze della povera Geltrude erano ben diverse: tutto tendeva per essa a
realizzare ogni pericolo di quella età e a renderla turbolenta, e
funesta per l'avvenire. Pochissimi lavori, e lo studio del canto sopra parole
d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero impadronirsi della
mente di Geltrude, e trattenerla dal vagare in un mondo ideale. Gli esercizj
corporali consistevano in un giro quotidiano dell'orto claustrale. La
confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi con
persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua
scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata.
E,
quanto alla Religione, ciò che è in essa di più
essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni, e
vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni
soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette
in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai
istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato
nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione. Non vogliamo qui parlare di
alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per
verità sacrosante, e s'insegnavano insieme con le verità,
pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj
dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all'idea della
Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali
perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la distruzione; ma
pregiudizj che in gran parte non tolgono l'essenziale, e si possono combinare
con un sentimento di pietà profonda e sincera, e con una vita non solo
innocente, ma operosa nel bene, e sagrificata all'utile altrui, del che tanti
esempj hanno lasciati i tempi trascorsi, e ne offrono fors'anche i presenti.
Ma,
come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a
quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni
sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il padre principalmente,
che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe
stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e
sè questa obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata:
caso difficile, ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi.
Supponendo adunque che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto
rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per
non usare della semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che
poteva lasciar qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non
desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse
monaca. Il Marchese Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni
aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un
uomo di pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna
prendere gli uomini come sono, e non pretendere da essi gli effetti di una
perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non si determina a nulla in
questo mondo. Così per prevenire all'interesse che il secolo poteva
offrire a Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello
della potenza e del dominio claustrale. Egli aveva pensato ed operato colla
dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il quale desse il fuoco alla casa
di un nimico posta a canto alla sua, con la intenzione che quella sola dovesse
andare in fumo ed in faville. Ma il fuoco appiccato ch'ei sia non si lascia
guidare dalle intenzioni dell'incendiario, va dove il vento lo spinge, e si
trattiene a divorare dove trova materia combustibile; e le passioni svegliate
una volta non ricevono più la legge di chi le ha ispirate, ma si volgono
agli oggetti che la mente apprende come più desiderabili. L'orgoglio di
giovane vagheggiata, adorata, supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e
fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi ben vestiti, era ben
più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello tutta s'immerse
la fantasia orgogliosa di Geltrudina. Cominciò dunque a far castelli in
aria, a figurarsi un giovane ai piedi, a levarsi spaventata, e fuggire dicendo:
— come ha ella ardito di venir qui? — e non ricordava più che il giovane
senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla. Ma quella fuga e
quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva
coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la
più parte delle commedie. Richiamava alla memoria quel poco che aveva
veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi
indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e
rifaceva tutto per suo uso, ma in un modo più splendido. Questi pensieri
l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella
confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sott'occhio, e si
confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che si
aspettava da lei.
Le
monache si accorsero di questa sua risoluzione ch'ella non cercava nemmeno di
nascondere affatto; poiché malgrado la fermezza di questa risoluzione,
Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre di sua
bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte: poiché in quel
caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre;
operazione passiva che le pareva molto più facile, che di pronunziare
quelle parole: «non voglio». La poverina faceva come colui che avendo da dire
qualche cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e gli manda le sue
idee in un bel foglio di carta. Ma se la determinazione traspariva, i motivi
erano celati alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di
indifferenza che la faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di
chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione profonda che
è data a quella età, e che forse non ritorna più in
nessuna altra epoca della vita, e che appena appena potrà aver
riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli uomini di
questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri.
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto o saputo
osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo
al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola stizza se non altro nella
quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa
dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della
pubertà v'è una parte di stranio, di fantastico, di individuale
che non si confida, né s'indovina, a quel che dice il manoscritto.
Venne
finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per
qualche tempo nella casa e nel mondo. Il passo era spiacevole assai pel
Marchese Matteo, ma inevitabile, perché una ragazza allevata in un monastero
non poteva far la domanda di esservi ammessa ai voti se non dopo esserne stata
fuori per qualche tempo. Era questa una formalità destinata ad
assicurare alle figlie la libera scelta dello stato; giacché ognun vede che
sarebbe stato troppo facile di fare abbracciare il monastico ad una giovane,
che rinchiusa nel chiostro dall'infanzia non avesse mai avuta idea di altro
modo di vivere.
Nessuno
ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare
la validità di un atto qualunque; assegnando anticipatamente i caratteri
che quell'atto deve avere per essere un atto daddovero. Invenzione che mostra
affè molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perché la
più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per
decidere se una cosa sia fatta o non fatta. Ma tutte le invenzioni dell'ingegno
umano partecipando della sua debolezza non sono senza qualche inconveniente: e
le formalità ne hanno due. Accade talvolta che dove gli uomini hanno
deciso che una cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali
modi, la cosa si fa realmente in modi tutti diversi e che non erano stati
preveduti. In questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta. E non
andate a farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è
fatta; egli lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa
stessa una distinzione profonda; vede, e vi insegna che la cosa materialmente
è fatta, legalmente non è.
Dall'altra
parte accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto, deciso,
statuito che, dove si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente il tal
fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare
impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei
caratteri senza fare la cosa stessa. In questo secondo caso bisogna riguardare
la cosa come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a
riflettere, o di semplicità rustica affatto colui che, ostinandosi ad
esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è. Guaj se si
desse retta a queste chiacchere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a
pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo mondo. Ma questi
caratteri, se non infallibili, sono almeno stati scelti dopo accurate
osservazioni, senza passioni, né secondi fini, in tempi nei quali gli uomini
fossero abbastanza esercitati nel riflettere su quello che vedevano per
circostanziare i fatti che dovevano essere dopo di loro? Ah! qui è la
quistione; ma per trattarla con qualche fondamento converrebbe fare la storia
del genere umano; dal che ci asteniamo, e perché a dir vero, non l'abbiamo
tutta sulle dita, e perché siamo per ora impegnati a raccontare quella di
Geltrude, in quanto ella è necessaria a conoscere la storia ancor
più vasta degli sposi promessi.
Per
accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era
prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine
che in questo tempo ella dovesse esser condotta a vedere spettacoli, ad
assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare
per farsi monaca. E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un
ecclesiastico, il quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta
forza, e se ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma
libero e ragionato. Queste formalità però avevano certamente il
secondo inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e
la giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia. La cosa poteva accadere in
molti modi: ch'ella sia talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e
troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia almeno la discrezione di
non affermar mai di quelle verità che sono contrastate, perché la sua
affermazione diverrebbe un argomento di più contro di esse.
Benché
Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il giorno
della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei. Oltrepassare quelle
mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta campagna, e quel ch'è
più entrare nella città, furono sensazioni più forti che
non fosse il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare. Per uscirne
vittoriosa aveva la poveretta composto un piano nella sua mente. — O vorranno
ottenere il loro intento colle buone, diceva ella tra sè, o mi
parleranno brusco. Nel primo caso io sarò più buona di essi,
pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro
che di non essere sagrificata. Nel secondo caso, io starò ferma; il
«sì» lo debbo dire io, e non lo dirò.
—
Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne né l'una
né l'altra cosa ch'ella aveva pensata. I parenti avvertiti dalle monache delle
disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per
qualche tempo nessuna proposizione né con vezzi, né con minacce. Solo dal
contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche
parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non
già di ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno venire in
capo ad alcuno della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia.
Così ella non trovava mai un varco per venire alla dichiarazione che era
pure indispensabile; e i modi secchi, laconici, altieri che si usavano con lei
non le davano nemmeno il campo di potere avviare un discorso fiduciale ed
amichevole il quale di passo in passo la conducesse a toccare il punto sul
quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere. Che s'ella
sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava pure a volere
famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza lamentarsi implorava
velatamente un po' di amore, se si abbandonava ad espressioni confidenziali, e
affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più diretto e
più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che
l'amore della famiglia non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei
dipendeva l'esser trattata come una figlia di predilezione. Allora ella era
costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze che aveva tanto
ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto. Si accorava e si andava
sempre più perdendo d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva
a qual altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il non veder mai un volto amico,
ma le immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata la
rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e
splendido che ognuno, e i giovani particolarmente, si formano nella fantasia,
per fuggire dalla considerazione di oggetti che attristano. Ritornava ella
dunque più che mai a quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi
giocondi coi quali conversare. Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella
era tenuta ritirata quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti
doveva venir dopo quella domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di
non fare. Rinchiusa per una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata
dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse, non mai condotta in
altre case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del
monastero, che, senza contare tutte le altre difficoltà, non era a
questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi l'unico suo difetto, giacché del
resto, bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza,
sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza, nulla gli mancava.
V'era rischio per altro che s'egli tardava troppo ad esistere l'immaginazione
di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto gli trasferisse la bontà che
aveva per lui, al primo ente reale che non fosse troppo diverso da questo
immaginato da rendere impossibile lo scambio.
L'occasione
si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude. Noi ommettiamo i
particolari di questo sciaurato affare, diremo soltanto che la prima lettera di
risposta ch'ella aveva scritta ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di
questa, fu tosto consegnata al Marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu,
come era da aspettarsi, strepitoso.
Il
paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il Marchese Matteo che
aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della
sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza al ragazzaccio, per non
aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se
egli si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di
donna Geltrude, la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non
vi sarebbe stato asilo per lui. Queste minacce erano a quei tempi molto
frequenti, e facevano pure colpo assai, perché ognuno era avvezzo a vederne
molte ridotte ad effetto. Ciò non di meno per esser più certo
della segretezza del paggio il Marchese Matteo nel forte del rabbuffo gli
appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a ragione che il paggio sarebbe
stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale per una parte poteva
lusingare la sua vanità, quando ella avesse finito con un incidente
doloroso e umiliante. Alla donna di casa che aveva intercettato il corpo del
delitto furono date molte lodi, e nello stesso tempo una prescrizione di
segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le fecero
comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per lei.
Ma
il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a
scendere sul capo di Geltrude. Il Marchese Matteo dopo d'averla caricata di
strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto si sentiva
veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua
stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla
colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla
stessa donna che aveva scoperti gli altari.
Geltrude
aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata
dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche la memoria
del fallo, che basta a rattristare la situazione la più gioconda, e
l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come né quando, la cosa sarebbe
finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più
terribile; l'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile,
e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il
fratello la prima volta dopo il suo fallo la faceva trasalire di spavento. In
questa agitazione continua si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un
sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso ancor
più forte dalla educazione, il timore della vergogna: sentimento non
solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che come tutti gli
altri può diventare passione violenta e perniciosa quando non sia
diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio. La sola idea del pericolo che la
sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse
risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un
congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più
odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso.
Ella
sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto
ottener da lei quello che si fosse voluto. E sentiva nello stesso tempo quanto
fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacché il primo
requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto
essere di non aver nulla da rimproverarsi.
La
compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua
ritiratezza angosciosa. Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua
colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la odiava. E la donna non amava la
fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco dissimile da
quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso. La
conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio
reciproco. Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni
splendidi della fantasia: perché questi sogni erano tanto in opposizione col
suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini
erano tanto legate con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con
incredula avversione, e ricadeva come un peso abbandonato, nella considerazione
delle circostanze reali.
Cominciò
quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita
che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a
trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere.
L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era
abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva
perduta ogni forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore per
signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi,
e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si
permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò
che accade realmente nell'animo. Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a
dir vero non vi aveva preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla
tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era
meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce,
divenne un sollievo. Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e
si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere
una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi tutta ad
una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in
parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro, e
una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e
quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la
più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve
un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo
nel quale si trovava. L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione
le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per
tentazioni, e le combatteva. In questa incertezza, ella desiderava di rivedere
il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una
immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa
nella famiglia.
Dopo
molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena di
entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva
istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli
rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una
risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla
proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si
sarebbe fatta per lo meglio.
CAPITOLO III
V'ha
dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di
essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa
che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una
apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena
sbocciato, che s'abbandona sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue
fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno.
L'animo
vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con
alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione
non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e pura
volontà non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti
che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal
prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei
quali tanto più si dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto
più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli
appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima
preziosi per legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili
suoi fini.
Il
Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a
fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche
profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal
ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che la figlia
gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere
il ferro mentre ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude
ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude
v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura,
giunse senza alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi
piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: «perdono». Il Marchese con una voce
poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che
questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che
bisognava insomma meritarlo. Geltrude in tanto più turbata ed atterrita
in quanto ella era venuta con la speranza di tosto ottenerlo, chiese che
dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il Marchese non
rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di
Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia.
Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida
sur una piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di
collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo
invincibile, perché egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza
della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore
il vender gatta in sacco. Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce,
e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la
vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo,
che le dava ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di pericoli
per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza...
«Ah!
sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal
ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività
della sua fantasia. Il Marchese, — ci ripugna dargli in questo momento il
titolo di padre — la prese in parola, le annunziò il più ampio
perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della
vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che
fanno paura, perché lasciano indovinare a quali improperj esporrebbe il cangiar
di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si
succedevano nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto:
dubitava di essersi troppo avanzata, o d'essere stata strascinata più
innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero era però dubbio e
confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente,
manifestarlo, accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del
Marchese, sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.
Il
Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per metterli,
diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima e
nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro accorsero immediatamente. La
Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che
quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne
era uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un
sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto
chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi
muricciuoli. S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che
riguardava il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre
articoli che abbiamo accennati. Del resto i disegni del Marchese sul
collocamento di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava
interesse della famiglia, e alle mire avare e ambiziose in allora tanto
universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione
non poteva non approvarli. L'affezione materna però le faceva desiderare
che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona madre che abbia
una figlia tanto scrignuta e contraffatta da non poter esser chiesta da
nessuno, desidera ch'ella preferisca il celibato al matrimonio. Al giovane
Marchesino era stato detto fino dall'infanzia che le entrate della casa erano
appena appena proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una
picciola parte sarebbe stato un decadere se non nella sostanza almeno
nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente come un dovere in Geltrude
di chiudersi in un chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi
l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco
costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto
lieto alla madre e al fratello. «Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia
questa l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco» aggiunse «la
consolazione della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente
quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di
consigli.
È
risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo spavento
e la preghiera al Padre, come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli
ripetè francamente: «ha promesso di prendere il velo». Le lodi e gli
abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con
lagrime che furono credute di consolazione. Il Marchese Matteo si diffuse
allora a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano
per rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia. Parlò delle
distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri
avevano di possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna del
monastero, dal momento in cui vi avrebbe riposto il piede. La madre e il
fratello applaudivano: Geltrude era come posseduta da un sogno.
«Oh!»
s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si dimentica il
principale: bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache,
altrimenti non si conclude nulla». Detto questo fece chiamare tosto il
Segretario. Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la
fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di
stendere la supplica. Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per
pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe
dicendo: «Presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già
conosciamo la vostra abilità». Il Segretario scrisse, e il foglio fu
dato a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome,
come le comandò il Marchese. Il quale preso il foglio, e consegnatolo al
Segretario perché lo portasse addirittura cui era indiritto; comandò che
si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario, che si dicesse
ch'ella era guarita dalla sua indisposizione — era il pretesto preso per dar
ragione della sua assenza continua —, e che tosto le si facessero apprestare
abiti più sontuosi. Quindi rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese
quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza per richiedere
alla Badessa di esser ricevuta. «Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento,
«perché non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e
sarà ancor più contenta quando il primo passo sia fatto».
«Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa. «La giornata è bellissima».
«Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per partire. «Ma...»
cominciò Geltrude, e non potè continuare. «Piano, piano,
cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude
è stanca, e vuole aspettare fino a domani. Volete voi che andiamo
domani?» domandò a Geltrude con uno sguardo che nello stesso tempo
mostrava il sereno e minacciava il temporale. «Domani», rispose con debole voce
Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel
proferire quella parola si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo,
il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro. «Domani», disse
solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il
resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude
avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni,
rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere
distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un po' quella
macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere almeno
come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la
conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso. Le distrazioni si tenevano
dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una povera
fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende
chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla. Mentre
s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella
stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo
più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noja
intollerabile. La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte
riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie
non le lasciò il tempo di raccozzar due idee. Del resto a misura che
l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po'
d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva.
L'acconciatura era appena finita che venne l'ora del pranzo. I servi la
inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di congratularsi per la
ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che
essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude. A tavola
Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva
corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi. Il
Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del
ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si
sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la
parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione. I complimenti
erano per la sposina — così si chiamavano le giovani che erano per farsi
monache — e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta
era una conferma. S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella
stessa una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben
chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché
come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da
lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa?
Partite le visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale
era stata esclusa per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata.
Lo spettacolo e il romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi
incessanti del padre, della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano
sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i
pensieri sulla sua situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un
povero cielo. Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le volte
rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano in fretta coi doppieri,
annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata.
Si
montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa
gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione. La
sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima. Chi si faceva prometter da
lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della
madre tal altra sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del
monastero. Se alcuno non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o
trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si
sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una
offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento. Finalmente la
brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude stordita,
intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti
sui complimenti che aveva ricevuti. «Ho finalmente», disse il Marchese Matteo
«avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari.
Domani mattina», soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per
andare a Monza come ha stabilito Geltrude». Geltrude condotta finalmente dalla
Marchesa nella stanza che le era preparata vi rimase con una donna che era
stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto
presso di lei il tristo uficio di carceriera.
Questo
cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo ella in quel giorno il
padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu
tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una
delle passioni che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella vedeva
di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse
un ricambio continuo, una gara di sgarbi. Geltrude in certi momenti di
divozione le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi
in quel giorno trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta
la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che
con queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto
le dava stizza: mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi
sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna
le aveva usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne
lamentò al padre. Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non
istette a domandarle come ella pure avesse trattata la donna; ma promise che
darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò immediatamente ai
servigi di Geltrude un'altra donna di casa. Era questa la vecchia governante
del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio. La vecchia alla
quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice,
aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva poste tutte le sue
compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese ella era stata la
prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte
d'entrata al Marchesino. Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta
che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali era un
personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della signorina che
aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude,
a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della
vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie, e di
sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio della
casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri dove s'erano
chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di
quella casa. Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e
che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato invano
domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò
degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite
di grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la
città aveva parlato. «Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»;
e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza.
Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le
visite. Verrebbe poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva
esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo
sarebbe in movimento. Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche
curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché
stanca e stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità
che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal pensata e male scritta. La
vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude, quando Geltrude era già
coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva. Le cure di rado tolgono il sonno
alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude.
Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che
dalla voce agra della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché si
preparasse al viaggio di Monza.
«Alto,
alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita,
rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno. La Signora Marchesa
si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il Marchesino
è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di
partire quando che sia. Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era
tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma
quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia
della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa
volta avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar
lei. Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor
Marchese; ma poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor
Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli. Poveretto! con due
paroline però s'acqueta subito. Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando
così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude
infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto
dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva
fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante, stava cogli
occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per la sua mente
come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento
nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi
guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e
leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle
esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un
tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza. Il nome del
Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle
parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella
mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a
volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non
restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di schivare
quella collera. Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e
pei suoi modi aspri, sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il
Marchesino era quegli che più sovente aveva il monastero in bocca; e
perché le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui, la tenevano in
uno stato continuo di paragone umiliante. Lo temeva essa però, ma fino
ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno,
ella era meglio fornita di lui, di quando in quando ella si vendicava con un
motto di molti giorni di una pesante persecuzione. Era quindi fra loro come un
continuo stato di guerra. Ma quando dopo la sua prigionia Geltrude comparve
davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli
occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale
non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si sentì soggiogata
per sempre. Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento d'impazienza
potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per
gittarle un motto, un rimprovero che alludesse a quello, la faceva tremare. Si pose
ella quindi a sedere in fretta, e pure in fretta cominciò a vestirsi.
Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era troppo lontano; che
il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sagrificio era ben
lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine per grossolano e
sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri con
l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino; ma un effetto
dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori
non ragionevoli.
Geltrude
si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella
sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla. Il Marchesino, al quale
corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno
d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava
nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver
fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo.
Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse. «Avete
scelto una bella giornata: buon augurio». «Buon augurio» ripeterono la Marchesa
e il Marchesino. Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese
accennò amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava
alquanto in forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che
avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come un di noi». Appena
Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente
una tazza di ciocolatte.
Prendere
il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso
ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano piccioli
fili, che legavano sempre più la povera Geltrude. Essa non confermava
con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non
diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a
lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover
dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre
più apparenza di stranezza scandalosa. Preso il fatal ciocolatte, il
Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di
consiglio amorevole le disse. «Orsù figlia mia, diportatevi bene:
scioltezza, e buon garbo». E qui le diede le istruzioni su quello che doveva
fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda. «Benissimo, a
meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi
aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla... Non mi date in
fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da un
contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che
sangue uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia;
il vostro fallo è cancellato e dimenticato». Quand'anche Geltrude avesse
avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso,
che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe
immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni. Ella
arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si
gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un
servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e
a ricomporsi. Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si
montò in cocchio, e si partì. Gl'impicci, le noje, e i pericoli
del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di
sangue nobilissimo furono il tema del discorso durante il tragitto. All'entrare
nel borgo, al vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere
il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si
fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena di curiosi;
e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese,
e s'avviò quasi senz'altro pensiero. Attraversando il cortile si vide la
porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache. In prima fila alcune
anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano
immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre
dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in
ultimo sollevate sopra sgabelletti. Si vedevano pure qua e là luccicare
più basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave,
ed apparire qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più
destre e le più animose delle educande che serpendo tra una monaca e
l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che
era in verità troppo giusto.
Geltrude
come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai
parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È
inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo
straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché. Geltrude fu
accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni. Dopo i primi
saluti, la badessa nel modo con cui si fa per formalità una domanda
della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava
in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son
qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella
doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel
suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi
irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte
ch'ella non potè proseguire, e ristette un istante guardando come
incantata la badessa, e la folla che la circondava. Così guatando ella
vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di
quelle faccette e più negli occhi un'espressione mista di malizia e di
compassione, che diceva chiaramente: «Ah! c'è incappata la brava!»
Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro,
l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di
coraggio. E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che
si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per
indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per
esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una
espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì.
Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a
tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al
padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò riflettendo che dopo
quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per tornare
indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il
partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in quel
momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa a
vestir l'abito». Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a finir la sua
frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude
furono seguite da una acclamazione generale. Chetato il tumulto, la badessa
tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata data in
iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva letti i celebri
romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io
accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime
che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di
averne ottenuta la licenza. Bensì senza riguardi, accuseremo il tempo
che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta
desiderosa non meno che desiderata. E voi, carissima figlia, con l'acume del
vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina della
decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore; e da me umilissima
superiora».
Le
acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto
perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La
badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò
allora che la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse:
«Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire
tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada». L'ordine fu dato ed
eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione.
Geltrude passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e
d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a
un di presso lo stesso senso: — l'avevam sempre detto che sareste nostra —.
Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di
passare nel parlatorio. A questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli,
la folla si diradò, e la badessa con alcune delle anziane si
avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia
milanese vi andava pel di fuori.
V'ha
due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare
ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più
riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e
l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato
dalla speranza. Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di
quella stretta comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi
di volere prima di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di
progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta. Con
questo pensiero ella fu condotta nel parlatorio. Qui rinnovati i complimenti,
la badessa pregò gli ospiti di aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva
porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota, e ne
rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.
Due
secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che
noi crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota,
rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di
dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini
ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale
esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero un più
grande effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò
fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta
severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una
tale censura sarebbe anzi a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente
ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di
fabbrica monastica, quando ha potuto averne. Si parla soltanto di questo fatto,
perché può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta
delle leggi che non sono eseguite.
Dopo
un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser
trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti
che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto, e
rispinte con molta modestia.
Mentre
la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie
riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era
costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano,
la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor
Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità... debbo
dirle... che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa... la
Superiora, quale io sono indegnamente... tiene obbligo di avvertire i parenti
che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella
scomunica... Mi scuserà...»
«Benissimo,
benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza. Ma già
ella non può dubitare...»
«Oh!
Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio dovere;
ma s'immagini...»
«Certo,
certo, madre badessa». Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si
separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e
andarono a mescersi ognuno alla sua brigata. Dopo alcuni altri complimenti, il
Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della
badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più
stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse
partita la mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che
anello!
Ma
la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o
prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei?
Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente
dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del
monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra
le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.
CAPITOLO IV
Appena
cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle
riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder partire i signori, e la
nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu
assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo
contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di
queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di
che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia. Ma tutti gli elogi non furono
per Geltrude. La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della
badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che
contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì,
sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa». Il
discorso sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che
ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude
doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione. E qui come
conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei
contorni era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e
variate descrizioni; e le parlò di molte sposine ch'egli aveva
incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa
semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere. Il
Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva
più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una
occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa,
malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei
tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che
cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in
cosa indifferente.
La
Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi
della carozza. Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e
alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito
dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.
Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza
interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata. Dopo cena
il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a
Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come
sposina. «Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere
per Geltrude una madrina degna della nostra casa». La madrina, mio giovane
lettore, era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle
conversazioni, di presentarla, e di vegliare sovr'essa. Siccome il Marchese
proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come
invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto
per parentesi che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò
tosto: «Vi sarebbe...» «No no», interruppe il Marchese, «la prima condizione
d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso
universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto
giudizio che merita che si faccia una eccezione per lei». E qui rivolto a
Geltrude col piglio di chi fa una grazia singolare, continuò: «Ognuna
delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate
questa sera alla conversazione, ha le condizioni necessarie per esser madrina
d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser
preferita: scegliete».
Geltrude
incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare
sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta
con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un
disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel qualunque vantaggio che
le dava il potere scegliere. Nominò dunque la dama che in quel giorno le
era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più
carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che
nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto
quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in
una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia. La dama scelta da Geltrude
aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il
marito d'una sua figlia ch'ella amava assai. «Ben scelto, ben scelto», disse il
Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a
farne la domanda alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata
fatta da Geltrude: che son certo che la dama aggradirà doppiamente la
domanda».
Noi
non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui fu
condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti
dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante volte la
stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i
sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta
la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime
alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che appare
negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le qualità auree
di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava
una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire
ogni cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro.
Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione
del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace. Si destava
talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al
passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: — Oh che
sproposito! — si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare
indietro. La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi
raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta
cangiato in un pieno abbattimento. Tornavano allora alla mente le
difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto
schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si
gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente
non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di
pigliare il velo. Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse
ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude
ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al
chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava
ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi
l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare. Quando dopo
questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva
spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere
che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era posta in una
circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un
nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo
poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più. Benché
alcune volte in quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza
all'impegnarsi davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò
ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il
retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto
in una situazione così dura e così difficile, ch'ella non poteva
né pure pensare di farlo. Ella era come chi trovandosi sur un ripido pendio,
vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi
un luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che
bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta,
disastrosa. E la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma siccome
chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento
presente, non vuol mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi
così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea
d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava
da percorrere un momento di più forte speranza. Questo momento era
quello dell'esame che un ecclesiastico deputato dal vicario delle monache
doveva fare della sua vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola
con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe
offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso,
di conoscere ella stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare
sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di quello che
potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi
pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il
momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo
affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo
esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna
muoversi; e il momento venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a
Geltrude che in quel giorno il Signor... ecclesiastico mandato dal vicario
delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione. Ma come quella
conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con
l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario
aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione
nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza
forzata d'ogni altro custode.
«Orsù,
Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta
di coronar l'opera. Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da esso
dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino
di tutta la vita. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto
di vostro consenso, anzi a vostra richiesta. Se in tutto questo frattempo vi
fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma
ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate. Io mi
sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete
dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di
avere una smentita. Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi
potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due
partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che
io ho presa leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho
fatte tante pubblicità senza riflessione... che so io... che ho preteso
far violenza alla vostra vocazione... o di svelare i veri motivi della
richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento. Il primo partito non
può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa.
Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come una figlia
colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima
colpa...»
Il
tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso
aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia
dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le
foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e
crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e
la fè sciogliere in uno scoppio di pianto. «Via via... che è
stato?» disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto
occupato delle conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che
ella potesse toccare altri tanto sul vivo. «Che è stato? io ho parlato
in una supposizione impossibile... pure doveva pensare anche ad un tal caso...
per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle
risposte che oggi siete per dare. Il Signor... vi domanderà se la vostra
risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato,
consigliato... che so io?... ed io doveva avvisare di pesare ben bene la
risposta, perché ella sia tale da non pormi nella necessità, di farne
un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle; voi farete il vostro dovere da
brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di
consolazioni. Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola:
rasserenatevi, non fate che il Signor... vi trovi in uno stato che possa dare
dei sospetti... mi fido di voi». Così dicendo partì, lasciando
Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane
del suo carattere in quella circostanza. Geltrude pianse amaramente, si
sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione
era così piena di dolori, di incertezze, e d'angustie, che la poveretta
prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di
estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento. Ma qual
si fosse il partito al quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella
stessa sentiva ripugnanza e vergogna a presentarvisi in un aspetto che
annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un aspetto
tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo. Pretendono alcuni che le
figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro
animo che l'animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non
quegli individui del genere umano che si chiamano di preferenza uomini. Ma
tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai
messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex
professo negli scritti: giacché essi peccano tutti verso le donne o di
galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana. Con questa osservazione
non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che
sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni
infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere;
ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre
lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il
Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e
agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate.
Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la
madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in
modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.
I
lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di
vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per
cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno
difficoltosa che la condotta negli affari della vita. Per servire a questo privilegio
noi diremo qualche cosa del Signor...
Era
un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la
cosa la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue
intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e
nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam dire
con questo ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri,
supporre il male, attenersi a quell'indegno proverbio che dice, — chi pensa
male pensa una volta sola —: ohibò: questo è un eccesso
più comune, e peggiore. Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose
che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire
sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a tanto che da un attento esame
egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma con quella maggior certezza che
è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana. Il caso di
Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di
pensare. Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli aveva ad esaminare ne
aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di conservarsi
nel chiostro per esser pura e santa. Il Signor... aveva creduto con gioja al
primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale si
trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla prevenzione
dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a sentire
l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una
buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la
risoluzione esisteva. — Oh! — dirà taluno, — se egli non avesse creduto
al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude
era una finta, o il Marchese un tiranno impostore. E doveva egli pensar
così senza alcun fondamento? — Ohibò, di nuovo: non doveva pensar
nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare, il
buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una
cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo. Il
Signor... pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa
quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò
di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo
paura: non me ne maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella
saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella risoluzione che a lei
forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente
il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo
interrogarla minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione
per ispirazione».
«Signore»,
rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo,
«io ho desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo dipende la scelta
della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da
ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere
più chiaramente quale sia la mia vocazione».
«Bene,
bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor... «così mi
piace. Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono
talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia. Per decidere bisogna dubitare,
o fare come se si dubitasse. La prego, per ora, si faccia forza: per quanto
ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si
tratta di risolvere ora. Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e
si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione. Come le è
venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se
il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e
di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione
più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre l'effetto
ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore,
e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano. Geltrude
rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare
l'istoria del paggio?... Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a
tutto costo. Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e
tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti?
Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude
era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe
cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in
seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che
sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude. Che s'ella avesse attribuita la
sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consigli, a
leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel
momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le
ripassarono in processione nella memoria. Le parve dunque che il solo mezzo per
uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse
all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità né punti da
discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava
mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si
risolse. Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che
la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir
così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette
all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e
disse: «È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita
inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del
mondo». Queste parole furon porte con l'apparenza della più ferma
persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor...
un segno una prova di riflessione posata. E in quel momento furon contenti
ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere
uscita d'impaccio come che fosse. Da quel momento Geltrude non pensò
nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il Signor...
oltre ogni sua speranza. Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate
minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato
religioso... «No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti
desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno
lasciata libera». Il Signor... si scusò di averle fatta una simile
interrogazione. «Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così
degno! s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il
mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza». L'esame
finì con le giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per
iscaricarsi la coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona
da un pio proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo
cordiale per confermarla in quello; e partì con la persuasione di non
aver mai trovata un'anima così ben disposta. Del resto noi siamo ben
lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame
all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col
suo carattere, la cosa doveva avere a un di presso quell'esito, qualunque fosse
l'esaminatore.
Geltrude,
ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato,
che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre. Questi era
in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le
commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le
prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il
Marchese respirò. Le fece animo, la colmò di lodi, la
soffocò di promesse; tutto questo con una eloquenza di tenerezza
sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di avere ottenuto il suo
fine; ma le parole di Geltrude sembravano di chi ha liberamente scelto, ed
è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi fa quello che uno
desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni rimorso, è una
virtù concessa a tutto il genere umano.
Da
quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una
interiore, ed era di persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua
scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano
renderle gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel
pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o
mondane, tutto purché fosse consolazioni. L'altra occupazione era di accelerare
quanto più si poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione,
per uscir di casa, per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al
tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore
quell'intollerabile: — potrei forse ancora —. Questo suo desiderio s'accordava
troppo con quelli del Marchese perch'egli non cercasse ogni via di soddisfarlo;
e in fatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo tutte le dispense per
far presto.
Così
mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto. Diremo
dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito;
che scorso il tempo del noviziato nel quale la sua risoluzione parve sempre
più spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che poteva
farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far
credere il contrario, trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione,
con una pompa straordinaria, e quale si conveniva alla casa. Il sacrificio fu
consumato, il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano
che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del
cielo non discese sovr'esso.
È
uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione
cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all'uomo che ricorra ad
essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo. Quegli stesso, che per
violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via
falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj. Poiché, se la
via ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere,
gli dà l'idea chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e
la forza di farlo, che che ne possa conseguire; e se la via è soltanto
difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa
dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei
mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente,
soave e deliziosa. Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere,
perché erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per
continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice ma irrevocabile,
tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della vocazione.
Con quest'ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d'ogni
genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta: e il secolo stesso
anzi l'età in cui ella visse ha dato esempj dei quali si è
conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la
forza, e dopo d'essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure,
vi trovarono la rassegnazione e la pace; una pace quale si trova di rado negli
stati eletti più liberamente. Che dico? Geltrude stessa fu uno di questi
esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben altri errori anzi
delitti, dopo sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato. Ma
per non precorrere ora agli eventi col racconto, diremo che Geltrude dopo la
sua professione, continuava ad opporre nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e
alle consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione:
e questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e
particolarmente nelle cose che potevano lusingare il suo orgoglio.
Il
lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude
era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella era
stata tanto desiderata nel monastero. In fatti il monastero aveva acquistato
nel marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava ormai come
parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia. Ma questo
vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta. Lo
pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini che
avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo
delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in
tempo ella non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che
avevano cantato per farla venire nella loro gabbia. E queste beccatelle le
suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro
acquisto. Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata,
tanto più libera delle altre provava talvolta un certo conforto iracondo
nel valersi di questi vantaggi, e nell'esercitare in tal modo la sua
superiorità. Una superiorità d'un altro genere era pure per essa
una occasione continua di cercare consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua
bellezza: ma quali consolazioni, per amor del cielo! pari a quelle che provava
Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch'egli aveva trovate nei
frantumi del vascello sul quale era naufragato. Anzi non pari, perché quel
solitario le gettò in disparte con disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse
un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più; ma
la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi
affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire. Ben è vero
che ella si andava paragonando con le altre, e si trovava più bella,
ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di
voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato
della madre celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla
poveretta il dolce in bocca. Spendeva una parte del suo tempo nell'adornarsi
come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre
l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del
suo volto, e a dir vero questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva
dato un volto che per poco che gli si lavorasse attorno stava bene. Per far
questo aveva Geltrude trovato un mezzo molto ingegnoso. Gli specchj come ognun
sa erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude nei
primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le
regole; ma la infelice scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto
ch'ella teneva appeso nella sua camera una lastra di latta levigatissima, e a
quella si consultava segretamente. Ma quando dalle sue consulte ella aveva
conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella
se lo udiva ripetere dalle più mondane o dalle più adulatrici fra
le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva tutt'altro che soddisfatto. E quando
poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte di piacere così
mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più rabbia che
pentimento. Così la meschina si precludeva l'adito alle consolazioni
reali di cui il suo stato era ancora capace, perché per giungere a quelle la
prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole
afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla
riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti
che aveva abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad
essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per
magra che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma oltre le
distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella godeva per la
condiscendenza delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il
grado più elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata
eletta Maestra delle educande. E per una distinzione singolare le erano state
assegnate due giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizj,
quasi damigelle. Quel posto era per Geltrude una occasione continua di
esercitare le passioni più pericolose ch'ella covava. Fra le educande
che le erano state affidate si trovavano ancora alcune di quelle che le erano
state compagne, e Geltrude così vicina ad esse di età non aveva
ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità puerili del sodalizio:
ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le dava la sua autorità.
Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di pentimento dello stato che
aveva abbracciato, ella provava un certo rancore contra quelle giovanette
destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era
più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di vederle liete
d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto per toglierla
loro, cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la pazza
ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei momenti,
poverette quelle educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare indietro il
suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare per lungo
tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò
ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente,
l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza
indiscreta e antisociale. Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore
al chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a
tutte quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non
solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava;
si mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro
discorsi, e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli
avevano incominciati.
In
queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e con ogni
cosa circostante ella passò i primi anni del chiostro, non senza qualche
ritorno di divozione, e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva ben
presto nelle sue abitudini predominanti. Questa vita di noja e di contrasto era
tanto penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava
disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di
sensazioni fosse stato possibile. Ma la clausura, le grate, le regole, la
facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri
soltanto vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere
impunemente, o con lusinga d'impunità una simile licenza alle sue
azioni. Finalmente la sventura di Geltrude volle che l'occasione si
presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e come
diremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO V
Il
quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle,
era annesso al monastero, ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un
corridojo. Era un cortiletto quadrato, ricinto a terreno da un porticato
continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un basso ed unico piano
di abitazione. Il lato appoggiato a quella parte del chiostro ove dimoravano le
suore, era un lungo stanzone, che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle
educande; un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di
dormitorio: il terzo diviso in varie camere era l'appartamento della Signora e
delle sue damigelle; il quarto finalmente più stretto degli altri era
tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del chiostro, il quale
abbracciava il cortiletto da tre lati. L'altro, e appunto quello occupato
dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile, o
per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa. Era dessa
elevata al di sopra del quartiere delle educande, ma quello che se ne poteva
vedere da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una
parte di casa civile: erano tetti e tettucci diseguali di altezza e di forma
soprapposti l'uno all'altro come a caso. Ma in uno di quei tetti v'era un
pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo, e adito a passare su quei
tetti, e dal quale si poteva guardare nel cortiletto delle educande.
Era
severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici, che dovessero
togliere ai vicini ogni vista nel loro chiostro; ma o fosse che, per essere
quella parte di casa disabitata, le monache non avessero mai badato a quel
pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi da quella servitù eccedesse
la possibilità del monastero, o che non si potesse venirne a capo senza
quistioni, il fatto è che da quel pertugio si guardava nel cortiletto
delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il padrone di
quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad un uomo di
quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi
s'intende nei nostri; perché a quei tempi tante cagioni favorivano la
scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, ella giungeva ad un
segno del quale grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza
comune del vivere presente. I mezzi d'impunità erano allora varj ed
infiniti; la frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la
vergogna: gli animi erano avvezzi ed allevati per dir così nel sangue:
da questi fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo
stesso tempo la perversità delle idee rendeva quei fatti più
comuni, e più tollerati. La vendetta, per esempio, era comunemente
stimata non solo lecita, ma onorevole, ma comandata in alcuni casi; e benché i
ministri della religione non l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni
pubbliche a questa massima perversa, benché non avessero anzi cessato giammai
di inveire contra la vendetta e contra le massime che la autorizzavano, pure
l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una distinzione
che a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua
assurdità non è ancora del tutto caduta in disuso: si diceva che
i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la vendetta
secondo la religione era viziosa, ma ch'ella era un dovere secondo le leggi
dell'onore: così si diceva e non dai più perversi, né dai
più stolti. Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto
draconiane; e domandavano sangue per molti casi; senza che questo onore così
delicato si stimasse poi offeso, se per necessità, il sangue si
fosse dovuto versare a tradimento, o per mano di sicarj. Ne veniva di
conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso diveniva
causa di un altro, e così all'infinito, e che l'orrore al sangue si
diminuiva con l'abitudine, anche negli uomini che non erano sanguinari, e che
si era formato come un sentimento universale che una certa misura di
animosità, di crudeltà e di delitti fosse una condizione
necessaria inevitabile della società; chi avesse detto che quello era un
male temporario, e speciale sarebbe stato deriso come un ottimista, un
utopista, un sognatore metafisico: appena uno si sarebbe degnato di
rispondergli: «gli uomini sono sempre stati e saranno sempre così».
Portate le idee comuni a questo punto di licenza in molti, e di tolleranza e di
rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro che gli uomini i
quali avevano una tendenza distinta alla perversità, per giungere al
colmo di essa, pigliavano le mosse da un punto ben più avanzato, ben
più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei nostri giorni;
trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai nostri giorni a
giungervi, e vi giungevano. L'omicida ai nostri giorni, quand'anche fosse
impunito sarebbe un oggetto di orrore, oggetto forse di più profondo
orrore sarebbe chi senza commettere l'omicidio di propria mano ne avesse dato
l'ordine ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali, dovrebbero temere di
perdere tutte le dolcezze della comune società. Quindi l'uomo, che in qualunque
condizione, aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente. Ma
allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere non toglieva
alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso a giustificarsi e
a render ragione dinanzi alla opinione pubblica: non si trattava che di provare
che il caso richiedeva l'omicidio, che il delitto era una azione tollerata, o
prescritta dalle leggi della opinione stessa. La speranza di poter fare questa
giustificazione, dinanzi ad una opinione già tanto perversamente
indulgente, e di farla accettare col terrore doveva essere, ed era uno stimolo
ai tristi potenti per correre allegramente la loro via. Bastava quindi un
leggero interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi fra i
tristi ad attentati, ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i
più avvezzi al delitto, benché vi fossero tratti da un interesse molto
maggiore, da una passione molto più violenta. Sarebbe un soggetto degno
di curiosità, la ricerca delle cagioni per cui quelle idee e quei
costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte le nazioni
d'Europa, sieno poi stati da migliaia di scrittori, e da milioni di parlanti
attribuite poi esclusivamente agli Italiani. Ma noi invece di avviarci in una
nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da farci
perdonare: torniamo quindi alla storia.
Il
padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane
scellerato: e si chiamava il signor Egidio: perché di cognomi, come abbiam
detto, l'autor nostro è molto sparagnatore. Suo padre, uomo dovizioso
bastantemente non aveva avuta altra mira nell'educarlo, che di renderlo
somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non
aveva quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di soddisfazioni e di
fare stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle
braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani. La madre, ch'era di
un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa
educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta
malattia cagionata dai continui spaventi. Il padre fu ucciso dopo una
brevissima quistione da un suo emolo membro di una famiglia emola della sua da
generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza. La prima
sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una schioppettata nelle
spalle dell'uccisore di suo padre. Questa impresa però lo pose da quel
momento in un continuo pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il
numero de' suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo
padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di
massime e di condotta: Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto
più che aveva bisogno della loro assistenza. Ma i garbugli e il macello
non piacevano a lui, come al padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva
addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve
lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui. La sua
passione predominante era l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle
precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava,
e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare
altrimenti.
L'abbaino
che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto
che visse il padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande.
Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli
osservare che quello era un dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano sui
tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel
picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le
monache si togliessero quella servitù. Egidio divenuto padrone, si
risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più importante che
suo padre non lo aveva creduto.
Un
consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno
spettacolo da non trasandarsi quando lo aveva così a portata; e la
santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro,
tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua
sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati,
ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni. Si affacciava egli
dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà, che non
bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude
non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò
egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce,
si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella,
fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la
tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita. Egidio animato da
quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà
del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i
disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla. Un giorno mentre le
educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore
addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel
cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso
sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia
vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha
disposti. Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore
di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e
macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava
errando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso
donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente
le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la
fece avvertire il punto ch'ella cercava. Guardò ella allora più
fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio
sulla intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella
infelice: qual che fosse fin'allora stata la licenza dei suoi pensieri, il
sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte:
chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse
come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino,
e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi
tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si
avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi
salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante,
fu assalita da una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a
ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e
trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente
ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella
immaginazione per venire più chiaramente a comprendere come, perché
ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in
iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma
più ella esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima,
e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con
quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa
strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava un certa
sicurtà a tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una
curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e guardava
senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. Finalmente dopo
lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in
uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non
esser sola. Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel
cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro le
spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e
così saper meglio come regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che
questo era un sofisma della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e
senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano
le educande: qui, o fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò
ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide
il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la
chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce
commossa: «lavorate da brave»; e se ne andò difilato a passeggiare nel
giardino del chiostro. L'atto repentino, e la commozione della voce non diedero
nulla da pensare né alle educande né alle suore, avvezze le une e le altre agli
sbalzi frequenti dell'umore della Signora. Ma ella stava peggio nel giardino
che già non fosse nelle sue stanze. Le venne un pensiero, che avrebbe
dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità. —
Ma; e se mi fossi ingannata? — Questo dubbio non le veniva che allor quando la
manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come
un dovere. — Prima di parlare — diceva fra sè — voglio esser certa;
troverò il modo di farlo con prudenza. E finalmente — concluse fra
sè in un accesso di passioni diverse — finalmente che colpa ci ho io? questo
monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa. Così non
foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano pensarvi quelle
che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada come sa andare. Io non
voglio pensarci.
Queste
parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro,
che d'allora in poi ella non avrebbe pensato ad altro. Il nostro manoscritto,
segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi
saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è
necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli
orribili eccessi d'un altro genere, ai quali la strascinò la sua caduta.
L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude
cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella
disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni
della disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza,
finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con
quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo
della sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò
per un istante una falsa gioja. Alla noja, alla svogliatezza, al rancore continuo,
succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una occupazione forte, gradita,
continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude
ne fu come inebbriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà
ingegnosa degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il
martirio. L'avvenire gli apparì come pieno e delizioso. Alcuni momenti
della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad
aspettarli, a prepararli gli sembrò una esistenza beata, che, non
lascerebbe né cure, né desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice
il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme
ch'egli tocca dall'usurajo. L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio
s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu
più che di nome.
Già
prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude era accaduto un
gran cangiamento, tutte le inclinazioni viziose che vi erano come addormentate
si risvegliarono più forti e più adulte, e a tutte queste si
aggiunse l'ipocrisia. Cominciò ella nei primi momenti a divenire
più attenta nell'esteriore, più regolare, più tranquilla;
cessò dagli scherni, e dal rammarichio; di modo che le suore si
congratulavano a vicenda della mutazione felice. Ma quando all'effetto naturale
del fallo si aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno
può immaginarsi quali diventassero le idee di Geltrude. Tutto ciò
che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran tempo
associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato
odioso e sospetto: i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò
era una invenzione dell'astuzia, un'arte per godere a spese altrui, accolti dal
cuore e presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e
sinceri. Vi ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di
più profondo, di più verosimile che non appaja nelle massime del
dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto: di modo che il
pervertimento può parere facilmente un progresso di ragione. Ben
è vero che al di là di quelle teorie ve n'ha una più
profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato
trovarla se non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma
Geltrude non aveva né l'uno né l'altro di questi ajuti. Ella fu dunque una
docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali
di perversità a cui l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi
permetteva di arrivare.
Ma
non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi
passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa. Geltrude aveva a poco a poco
trasandate quelle cure di apparente regolarità che si era prescritte; la
licenza a cui si era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni
contegno; e così si rilasciò tanto che negli atti e nei discorsi
divenne più libera e più irregolare di prima. Insieme a quelle
cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni che
aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di
nascondere; e le trascurò tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno
che le due damigelle, che le stavano più vicine avevano qualche
sospetto. Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era
il suo solo consigliere. Questi ne fu pure atterrito, ma a mille miglia meno di
Geltrude, e per la diversità delle circostanze, e perché tanto era
minore il suo pericolo che non quello della donna, e per la diversità
dell'animo: perché quello di Egidio era duro e grossolano; e in Geltrude il
timore della vergogna era una passione furiosa come si è veduto dalla
sua condotta anteriore. Pensò egli quindi più freddamente al modo
di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui una nuova
occasione di soddisfare alle sue passioni. Per riuscirvi, egli coltivò
il terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun
rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio che
fu di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la
sospettavano. Lo scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di
tutto il predominio che aveva sull'animo di Geltrude, adoperò tutte le
dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute. L'albero della
scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la
passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo colse. Con la direzione del
serpente, ella trasfuse prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due
suore il pervertimento che era necessario per renderle sue complici, e
consumò il proprio avvilimento nella loro colpa. Venuta in questo fondo,
la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita
contra ogni pudore si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni attentato; e
l'occasione non tardò a presentarsi.
Una
delle due suore addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche
sospetto, lo confidò ad un'altra suora sua amica, facendosi promettere
il segreto: promessa che le fu tenuta perché la Signora era troppo potente, e
il segreto troppo pericoloso; e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura. Non
era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere
interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e
non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per
vederne, come si dice, l'acqua chiara. Quando però la suora che aveva
ciarlato divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste
della curiosa, ma di disdirsi, e di farle credere che il sospetto era
ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente disingannata.
Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava
sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di
origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde
un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la
trattò con tali termini di villania, che la suora dimenticata ogni
cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva
qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva. La Signora
non ebbe più pace.
Che
orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero
deliberarono sul modo di imporre silenzio alla suora. Il modo fu pensato e
proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con difficoltà,
con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude fece più resistenza
delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire
piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente vinta dalle
istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad
una transazione con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che
sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di
nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi
gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue
l'animo di quella che fu scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla
suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti, in modo
da crescerle la curiosità. E la curiosità era stimolata in essa
dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza, aveva
essa stessa bisogno di esser sicura. La traditrice, mostrando che non le
convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle
sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella
speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla, le
propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella
sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche
cosa. La meschina cadde nel laccio. Venuta la notte ella si trovò nel
corridojo, dove la suora omicida le venne incontro chetamente, e la condusse
nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per
partirsi, promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il
letticciuolo e la mura, raccomandandole di non muoversi finch'ella non la
chiamasse. Uscì quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo
scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile
coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con
la sua compagna. Nella cella non v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza
vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce. La scellerata parlando
con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da
farle credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna,
andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi
rannicchiata, quindi giuntale presso le si avventò, e prima che quella
potesse né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la
lasciò senza vita.
CAPITOLO VI
Accorse
al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le
colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal
loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto. Egidio le fermò,
e chiese premurosamente se la cosa era fatta. «Vedete», rispose tremando
l'omicida. «Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare
il resto»; e dava tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da
farsi per togliere ogni vestigio del delitto. Avvezze, come elle erano, ad
ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su gli animi
loro, a colui che faceva loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate,
e come illuse dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se
si trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora il
silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato. «E la Signora, perché
non viene ad ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi, e
più». «Andate a chiamarla», rispose Egidio: l'omicida che cercava anche
un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da
quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di
Geltrude. Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore del delitto, e lo
vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il colpo, e
fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della
sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il terrore che
non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e disse: «abbiamo fatto
ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in
ordine: venite ad ajutarci». «No no, per amor del cielo», rispose Geltrude.
«Che c'entra il cielo?» disse l'omicida. «Lasciami, lasciami» continuò
Geltrude. «Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?»
«Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai ch'io sono una povera
sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...» Gli
atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile
l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua presenza, e
tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: — non è
nulla —. «Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che
avrebbe voluto essere un sorriso di scherno: «non vuol venire: è una
dappoca». «Non importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che impacciare;
ecco tutto è finito senza di lei». «Resta ancora...» volle cominciare
l'omicida, ma non potè continuare. «Ebbene» disse Egidio, «questa
è mia cura; datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me». Le donne
obbedirono: Egidio carico del terribile peso ascese per una scaletta al solajo:
e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio.
Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata
che toccava il monastero, discese per bugigattoli e per andirivieni dei quali
egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva forse mai
servito; quivi in una buca scavata da lui, il giorno antecedente, depose il
testimonio del delitto; lo ricoperse, e pigliati da un mucchio che ivi era,
cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo, proponendosi
di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se avesse
potuto. Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello
stato di prima; e poi... che avevano a dirsi? L'omicida, ruppe il silenzio,
dicendo: «andiamo a cercare la Signora»; l'altra le tenne dietro senza
rispondere.
Bussarono
sommessamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in agguato, e disse
macchinalmente: «chi è?» «Chi potrebb'essere?» rispose l'omicida: «siam
noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte come jeri». Geltrude
aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza di quell'orrendo
quartiere: volse in giro entrando un'occhiata sospettosa, e disse: «che faremo
qui?» «Quel che faremmo altrove», rispose l'omicida. «Perché non andiamo nella
mia stanza?» replicò Geltrude. «È vero», disse quella che non
aveva mai parlato; «è vero; andiamo nella stanza della Signora». Ognuna
delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far
qualche cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno;
e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi: quando una faceva una
proposta, le altre vi si arrendevano, come ad una risoluzione. Geltrude si
avviò, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza
di Geltrude.
«Accendete
un altro lume», disse questa.
«No,
no», rispose questa volta l'omicida: «ve n'è anche troppo: abbiamo
ristoppate le finestre, è vero, ma se qualche educanda vegliasse...»
«Santissima...!»
proruppe con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò
l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per
uscirle dalle labbra.
«E
perché dunque», continuò rimessa alquanto, «perché avete lasciato il
lume nell'altra stanza?»
«Perché...»
rispose l'omicida: «non si ha testa da far tutto».
«Andate
a prenderlo».
«Andate,
andate... andiamo insieme».
Le
due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta aspettando che
tornassero col lume. Lo deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di
nuovo intorno a quello che ardeva da prima. Stavano così tacite,
guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano
ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un
colpevole. Ma l'omicida più agitata, e agitata in modo diverso dalle altre,
cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e
del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tenere
afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro
pari. Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perché
nei concerti presi antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli
materiali: non avevano pensato che al modo di commettere il delitto
segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il delitto aveva loro
appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel
loro contegno, nel loro volto. Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe
indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe chiusa all'oscuro
nella sua stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla. Ma in questo
concerto stesso, quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto
più terribile era di decidere a quale delle due serventi sarebbe toccato
di avvertire le suore della indisposizione di Geltrude, per evitare che, non
vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a
chiederne novella. Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico.
L'omicida aveva una buona ragione per esimersi; ma questa ragione, poteva ella
parlarne? Dire: — io sarò più confusa, più tremante,
perché... — Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con
più furore. Geltrude indovinò, anzi sentì quella ragione,
e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato facile
e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore
che governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse
romore per non disturbarla.
Egidio
intanto eseguiva gli altri concerti che erano stati presi, o per dir meglio
ch'egli aveva proposti; giacché il disegno era tutto suo. Occultata la vittima,
egli uscì di notte fitta, accompagnato da alcuni suoi scherani, come
soleva non di rado per qualche spedizione. Gli dispose in un luogo distante da
quello a cui aveva disegnato di portarsi, e gli lasciò come a guardia,
lasciando loro credere che andasse ad una delle sue solite avventure. Quindi
per lunghi circuiti si condusse ad un campo disabitato col quale confinava
l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro. Ivi, dopo d'aver ben guardato
intorno se nessuno vi fosse, si trasse di sotto il mantello gli stromenti da
smurare che aveva portati nascosti con le armi; e pian piano in una parte del
muro già intaccata dal tempo, e ch'egli aveva fissata di giorno, aperse un
pertugio, tanto che una persona potesse passarvi. Riprese i suoi ferri, si
ravvolse nel mantello, e camminando non senza terrore minacciato com'era da
più d'un nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi
lieto, s'avviò con essi, gittò per via qualche motto misterioso
di altre avventure, e tornò alla sua casa. Il mattino vegnente una suora
mancò; si corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono
a ricercarla; ed una che andava per frugare nell'orto, vide da lontano... —
Possibile? un pertugio nel muro. — Chiamò le compagne a tutta voce: si
corse al pertugio; «è fuggita; è fuggita». La badessa venne al
romore: lo spavento fu grande; la cosa non poteva nascondersi; la badessa
ordinò tosto che il pertugio fosse guardato dall'ortolano, che si
mandasse per muratori, onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere
la sfuggita. Il lettore sa che pur troppo ogni ricerca doveva riuscire inutile.
L'occupazione che questo affare diede a tutte le monache fece che le tre che
erano la trista cagione di tutto, fossero lasciate in pace, o per meglio dire,
sole.
È
facile supporre che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacché di
essa sola esige la nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più
stravolto. Combattuta continuamente tra il rimorso e la perversità, tra
il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue
tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui che
ella risguardava come l'origine dei suoi più gravi, più veri e
più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso,
l'infelice era nel suo interno ben più conturbata, e confusa che non
apparisse nel suo discorso, per quanto poco ordinato egli fosse. Una immagine
la assediava perpetuamente, e non è mestieri dire quale. Tentava ella di
rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata
di collera e con la minaccia sul labbro quell'ultimo giorno. Ma l'immagine
s'impallidiva sempre nella sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la
testa alta, con l'occhio acceso, con una mano sul fianco; la vedeva
indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere, se la sentiva pesare
addosso. Per togliere ogni sospetto, e nello stesso tempo per dare un altro
corso alle sue idee, procurava ella di toccar materie liete o indifferenti di
discorso; ma ora il rimorso, ora la collera contra tutti quelli che le erano
stata occasione di cadere in tanto profondo, ora una, ora un'altra memoria si
gettavano a traverso alle sue idee, le scompaginavano, e lasciavano nelle sue
parole un indizio del disordine che regnava nella sua mente. E quella regola
nei discorsi, quel contegno nei modi ch'ella non poteva avere naturalmente, e
per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva i mezzi per trovarlo nella esperienza
e per comandarselo. La sua esperienza non era altro che del chiostro, di quel
poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di
ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un
guazzabuglio composto di questi elementi, ed ella non aveva potuto attingere
d'altronde cognizioni per fare almeno una scelta in questi elementi. Le sue
parole e il suo contegno sarebbero state uno scandalo insopportabile in un
secolo meno bestiale di quello; ma allora la stranezza universale non lasciava
spiccare la sua al punto da farne un oggetto di maraviglia singolare.
Due
anni erano già trascorsi da quel giorno funesto al tempo in cui la
nostra Lucia le fu raccomandata dal padre cappuccino, il quale, come pure ogni
altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un cervellino,
ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.
Siamo
stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra
storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l'impressione che ce
n'era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era una
impressione d'orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando
ne produce l'orrore sia non solo innocua ma utile.
Abbiamo
lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola nel parlatorio con la
Signora. Il dialogo fra quelle due così dissimili creature
continuò a questo modo:
«Ora»,
disse la Signora, «parlate con libertà. Qui non c'è né madre né
padre; e ditemi il vero, perché le bugie che mi potreste dire, le ravviserei
tosto come una antica conoscenza: non temete di nulla: qualunque sia il vostro
caso, io vi proteggerò, purché siate sincera con me». Lucia pose la
picciola destra sul cuore, e con quell'accento che toglie ogni dubbio, rispose:
«Signora, la verità è quello che ha detto mia madre, e che ha
scritto il padre Cristoforo: io non ho mai giurato finora, ma se Ella,
reverenda signora vuole ch'io giuri in questa occasione, io son pronta a
farlo».
«Non
dite più, che vi credo», rispose la Signora. «Ma contatemi dunque tutta
questa storia». E qui cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo
sapere tutti i particolari della persecuzione di Don Rodrigo, e delle relazioni
di Lucia con Fermo.
Questa
curiosità era come ognuno può figurarselo assai molesta alla povera
Lucia. All'istinto del pudore ed alla ripugnanza naturale di parlare di se
stessa su questa materia, si aggiungeva il timore anche di dire qualche cosa di
sconvenevole in presenza della reverenda madre. Lucia che aveva parlato con un
uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un
matrimonio clandestino si riguardava come una donna esperta e più forse
che non conveniva, nelle cose del mondo, come una scaltritaccia al paragone di
una monaca, velata, rinchiusa, separata dal consorzio degli uomini, e pigliava
le inchieste della Signora a un di presso come si fa a quelle talvolta
indiscretissime dei ragazzi, dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di
non rispondere direttamente e di mandare in pace l'interrogante.
E
quanto le domande erano più avanzate, Lucia le attribuiva ancor
più ad una pura e santa ignoranza. Rispose dunque sopra Fermo, che quel
giovane l'aveva chiesta a sua madre e che essendo a lei dalla madre proposto il
partito, ella lo aveva accettato volentieri, e che tanto bastava per
conchiudere un matrimonio. Ma per ciò che risguardava Don Rodrigo, per
quanto Lucia ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrare in qualche
particolare, per ispiegare alla Signora la persecuzione ch'ella aveva sofferta,
e contra la quale cercava un ricovero.
«Egli
pativa dunque davvero per voi», domandò la Signora.
«Io
non so di patire», rispose Lucia, «so bene che avrebbe fatto meglio per l'anima
e per il corpo a lasciarmi attendere ai fatti miei, senza curarsi d'una
tapinella che non si curava niente di lui».
«Poveretto!»
sclamò la Signora, con una certa aria di compassione, nella quale pareva
tralucesse quasi un rimprovero a Lucia.
«Poveretto?»
riprese questa, «Poveretto? Oh Madonna del Carmine! Ella lo compatisce,
illustrissima!»
«Sì,
poveretto», rispose la Signora. «Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi
vi volesse male, giacché sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene.
Birbone, cattivo, tiranno! Che parolone, figliuola, per una quietina, come
parete! E la carità del prossimo?... Se gli aveste provati i tiranni
davvero...! Vorrei un po' che mi ripeteste le ingiurie che vi diceva, per
vedere quanta ragione avete di chiamarlo con questi nomi».
«Le
ingiurie dei signori», rispose Lucia con quella sicurezza che non manca mai a
chi comincia un discorso con una persuasione viva ed intima, «le ingiurie dei
signori, sono tremende pei poverelli; ma se gli era pur destino che quel
signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che io sarei ben
contenta che m'avesse detto ogni sorta d'ingiurie piuttosto che quello che mi
è toccato sentire da lui. Io non avrei risposto, le avrei sofferte,
è il destino di noi poverelli; e quando egli si fosse stato stanco,
l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla mia patria, come una
sbandata, a domandare un ricovero per amor di Dio; sarei... pensi, Signora,
s'io posso dir bene di lui. Non ch'io gli desideri del male, no grazie a Dio,
ma quanto al bene ch'egli mi poteva volere... Santissima Vergine, che razza di
bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e, so
ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si trovano sui
libri, ma le cose del mondo non è obbligata a conoscerle, e certe cose
che potrei contare sarà meglio tacerle».
«Vi
ho detto di parlare con sincerità: dite pur tutto»; rispose la Signora
ridendo, e senza quell'imbarazzo che le aveva cagionata una proposizione
somigliante nella bocca del padre guardiano.
«Spero
dunque di poter parlare con prudenza», riprese Lucia, «ma di poterle far
toccare con mano che cosa poteva essere il bene di quel Signore. Sappia che io
non sono stata la prima, a cui per mala sorte egli abbia badato. Eh!... le cose
si sanno purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho potuto a meno di
non saperlo, perché eravamo amiche, e me ne piange il cuore tuttavia. Questa
poveretta — non la nomino — diede retta al bene di quel signore; e sa ella che
ne avvenne? Cominciò a disubbidire ai suoi parenti; quando fu ammonita
si rivoltò; la casa le venne in odio, non ebbe più amiche,
disprezzava tutti, e diceva — puh villani! — come avrebbe potuto fare una gran
dama. Quando i parenti s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e
poi, rispose in modo da fargli tacere per paura. Comparve con un vestito troppo
bello per una ricca sposa, e credeva la poveretta che tutti avrebbero fatte le
maraviglie, e l'avrebbero inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi le
facevano dietro mille visacci. Un fior di giovane, mi compatisca se parlo male,
che voleva ricercarla in matrimonio, non la guardò più; nessuno
le parlava, nessuno voglio dire della gente come si deve, perché i cattivi se
le avvicinavano per la via con una famigliarità come se le fossero
sempre stati amici, e fino, a parlare con poca riverenza, i birri, la
salutavano ridendo, e le gittavano parole da non dire. Poveretta! di tratto in
tratto pareva più lieta che non fosse mai stata, ma le lagrime che
spargeva in segreto! e quante volte la vedevamo da lontano piangente, e si
nascondeva da noi: e io mi ricordava di quando ell'era allegra come un pesce,
di quando ridevamo insieme alla filanda. Basta: la disgraziata non potè
più vivere nel suo paese, e un bel mattino, fece un fagottello, e
finì a girare il mondo».
«Girare!»
interruppe la Signora, «non è poi la peggior disgrazia».
«E
tutto questo», continuò Lucia, «senza parlare dal tetto in su; perché
all'altro mondo, Dio sa come andranno le cose. Ma povera la mia Bettina! oh
poveretta me, ho detto il nome... spero che Dio le farà misericordia;
perché poi finalmente è stata tradita. Ma per me dico davvero, che se
per andare in paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi
parrebbe ancora molto dura».
«Ma
quel signore», riprese la monaca, «era egli di stucco? non la sapeva far
rispettare? lasciava la briglia sul collo a quei tangheri?»
«Fortunata
lei», rispose Lucia, «che non sa come vanno queste cose. Il signore dopo
qualche tempo non si curò più di quella meschina; e si venne a
sapere che un giorno ch'ella si lagnava con lui d'essere disprezzata, egli le
rispose: — si provino un po' a farvi qualche sgarbo in mia presenza, e vedranno
—. Tutto quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non era
niente. Ma tutto questo non bastava a disingannarla: soffriva, ma non sapeva
staccarsi da colui. Finalmente bisognò che fossi tormentata io per farle
conoscere il suo stato. Quando costui, sfacciato!... cominciò a pormi
gli occhi addosso, allora...»
«È
un vile birbante», interruppe la signora, «avete ragione: avete fatto bene a
voltargli le spalle, e io vi proteggerò».
«Dio
gliene renda il merito. Le diceva ben io che se avesse saputo...»
«Sì
sì, è un birbante: son tutti così costoro. Date loro retta
sul principio: voi, voi sola siete la loro vita: che cosa sono le altre? nulla;
voi siete la sola donna di questo mondo, e poi;... Fortunata voi che potete
sbrigarvene. Vi avrebbe voluta vedere amica di Bettina... amica! e sprezzarvi
tutte e due; e vi so dire io come vi avrebbe trattate; peggio che da serve. Se
aveste fatto il primo passo...»
Lucia
teneva gli occhi sbarrati addosso alla signora, come stupefatta ch'ella ne
sapesse tanto addentro. Geltrude rinvenne e s'avvide che questo suo modo di
disapprovare il seduttore non era più conveniente alla sua condizione di
quello che fosse stato quel primo compatimento, e che invece di togliere il
sospetto o almeno lo stupore che quello poteva aver fatto nascere, lo avrebbe
accresciuto, e si ripigliò dicendo:
«Del
resto, son cose che io non posso conoscere; ma già l'avrete inteso anche
dai predicatori che quelli che seducono le povere figliuole sono i primi a
sprezzarle. E se da principio, io ho mostrato qualche dispiacere per colui,
è perché non vi eravate bene espressa; io credeva che alla fine egli
avesse intenzione di sposarvi».
«Sposarmi!
sposarlo!» esclamò Lucia, maravigliata di questo pensiero che supponeva
l'accordo di due volontà, d'una delle quali ella sentiva, e dell'altra
sapeva che ne erano le mille miglia lontane. Geltrude credette che Lucia non
alludesse ad altro ostacolo che alla differenza delle condizioni. «E perché
no?» rispose, e abbandonandosi alla intemperanza della sua fantasia
continuò: «Perché no, sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo. Sareste
la Signora Donna Lucia: che maraviglia! non sareste la donna più
stranamente nominata di questo mondo. Avete sentito come mi chiamava quel buon
uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? — Reverenda madre.- Io,
vedete, sono la sua reverenda madre. Bel bambino davvero ch'io ho». E a questa
idea si pose a ridere sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi a
passeggiare nel parlatorio... «madre!...» continuò... «avrei dovuto
sentirmelo dire, non da un vecchio calvo e barbato:...
CAPITOLO VII
Come
una troppa di segugi dopo aver tracciata invano una lepre, ritorna sbaldanzita
con le code pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma pronta ad abbajare
e a ringhiare per dispetto contra ogni altro in cui si abbatta per via;
così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli artigli
vuoti al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in
salvo alla meglio la bella fera che quel birbone inseguiva. Don Rodrigo
passeggiava inquieto aspettando il ritorno de' suoi bravi, aprendo di tempo in
tempo la finestra, e guardando al lume della luna e tendendo l'orecchio.
Fremeva d'impazienza, che la spedizione tornasse, ma in questa impazienza misto
al desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più
grossa che Don Rodrigo avesse fatta fino allora. Se allo sparire di Lucia, il
rapitore fosse stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a Milano, l'affare
poteva esser serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un bando contra il
rapitore, come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo
desse vivo o morto nelle mani della giustizia. Veramente Don Rodrigo aveva
veduto passeggiare sicuramente più d'uno colpito da un tal bando; e
sapeva d'aver egli pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da scherani,
e temuto com'era, nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come
quella di attaccarlo, e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era
almeno una seccatura forte.
Dall'altra
parte pensava egli che essendo gli offesi povera gente, nessuno si sarebbe curato
di prendere impegno per essi... Ma c'era di mezzo quel benedetto frate (Don
Rodrigo non diceva veramente benedetto) quel frate che era un brigante, un
ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi nei fatti altrui, e che avrebbe
potuto trovare appoggi, far comparire le cose... Ma anche pel frate v'erano
rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi d'impegni, e di brighe.
— Quel che importa per ora, — continuava Don Rodrigo, — è che il Griso
faccia il suo dovere, e che questa smorfiosetta non mi faccia uno scandalo che
levi a romore il paese. Diavolo! Ho avuto un pensiero molto ardito; ma quel che
è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per bacco! Non
voglio? non posso: coraggio coraggio Don Rodrigo! bisogna ammansarla con le
buone; la madre?... eh quando vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi
un po' far chiasso: vorrei vedere!... Il parroco non fiaterà... ha
già avuta una bella paura, ed ora sarebbe anch'egli in colpa... eh
già colui è un birbone che farebbe di tutto per salvar la pelle...
Non vengono costoro?... Sta a vedere che si saranno ubbriacati... No no il
Griso non è un ragazzo, e avrà condotte le cose con giudizio: non
è mica una bagattella... non vorrei che me la malmenasse: non è
avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha sempre avuto che fare con uomini...
basta gli ho fatta una buona ammonizione. Stà... per bacco, è la
mia gente... — Così pensando corse alla finestra, e vide i segugj venir
quatti quatti, col Griso alla testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la
lepre, ma la lepre non v'era.
—
Diavolo!... diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto.
Aperta
ai bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed entrati e andati
a riposare com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla fatica
tollerata, non all'effetto ottenuto, il Griso come portava la sua carica, che
in quel momento nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a
render conto a Don Rodrigo.
«Ebbene?»
disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor capitano, signor
spaccone...»
«È
dura», rispose il Griso con rispetto, ma non senza rancore, «è dura di
sentir rimproveri dopo aver faticato fedelmente, e cercato di fare il suo
dovere...»
«Ma
dunque?...»
Il
Griso si fece da capo, e raccontò tutti i preparativi, come la
spedizione era ben condotta, e come la casa fu trovata vuota, e come
sonò a stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché, e come si era
tornati senza aver fatto nulla, ma senza aver lasciato traccia.
«Mancomale»
rispose Don Rodrigo; e si posero a far congetture senza potersi fermare ad una
che li accontentasse. «Basta», conchiuse Don Rodrigo: «domani piglia
informazioni; sarà meglio che mandi uno dei contadini fidati, nella
bettola più vicina alla casa di Lucia, tanto che domani io vegga la cosa
chiara». Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a
dormire.
Dormi,
povero Griso, dormi che tu devi averne bisogno. Povero Griso! Correre qua e
là tutto il giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di zotici mal
disciplinati, pigliar sopra di te tutto il pensiero, e tanta parte della
fatica; porti a rischio di aver qualche nuovo disparere con la giustizia, e di
veder questa volta messo a prezzo il tuo capo, per rapto di donna honesta;
stare al caldo e al gelo; e poi, e poi raccoglier rimbrotti. Ma tu non cominci
oggi a vivere, e devi sapere che il mondo è tristo, che gli uomini sono
ingrati. Va a riposarti, povero Griso: un giorno poi, quando ti porrai a letto
per morire, se a letto morrai; forse questa giornata ti verrà in mente;
forse il pensiero di non aver potuto oggi farti onore, e di essere stato
sgridato per ricompensa, sarà quello che ti darà meno di
gravezza. Ma non pensare ora a questo, perché forse non dormiresti.
All'aurora
il Griso fu in campo, tutto desideroso di venire in chiaro di ciò che
fosse avvenuto di Lucia, per soddisfare alla curiosità del padrone e
alla sua propria, e per avvisare i mezzi di riparare alla mala riuscita del
giorno antecedente. Non era la sola vanità né il dispetto che
stimolavano il Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo aveva
posto, e lo teneva sotto le sue ali in salvo dalla giustizia, e che gli dava
facoltà di camminare francamente, e di farsi temere; da questa
riconoscenza era nato nel suo cuore un affetto, un attaccamento per Don
Rodrigo, che i rimproveri, e le asprezze di questo potevano affliggere, ma non
distruggere; né rendere inoperoso. Scelse adunque il Griso gli uomini
più opportuni a raccogliere notizie, e gli spedì attorno, ed egli
stesso andò, per ispiare schiarimenti sui fatti misteriosi della notte
trascorsa.
Ma
gli abitanti del villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non ne
sapevano essi stessi la cagione, e quello che avevano veduto non era per essi
che una sorgente di curiosità, o al più un motivo di congetture e
di fandonie. Quando il mattino rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e
di Fermo, i sospetti divennero ancor più complicati, e la
curiosità più animata: ognuno domandava a tutti quelli in cui si
abbatteva, e se ne formarono come accade molte storie, perché s'ignorava la
vera. Quei pochi che la sapevano o tutta o in parte, e che avrebbero potuto
soddisfare o almeno metter sulla via la curiosità degli altri, quei
pochi se ne stavano zitti, e si facevano più nuovi degli altri. Toni
fece un severo precetto a Gervaso e alle sue donne di non parlare, e fu egli
stesso molto fedele a questo suo precetto di cui sentiva l'importanza; appena
uno sperimentato osservatore avrebbe potuto arguire ch'egli sapeva qualche cosa
più degli altri dal poco chiedere ch'egli faceva, e dal suo ristringersi
nelle spalle protestando di non saper nulla quando altri ne lo chiedeva. «Io
attendo ai fatti miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io sappia?» Don
Abbondio era ricorso al suo ripiego diplomatico di porsi a letto e di sviare
così i curiosi. Se ne stava egli ora cheto cheto, maladicendo la mala
ventura, che negli ultimi suoi giorni gli faceva scontare quel poco di bene che
aveva goduto negli anni passati, e rendeva inutili tutte le cure della sua
prudenza. Di tempo in tempo rimbrottava Perpetua e accagionava della sua
disgrazia la cervellinaggine di quella. Ma Perpetua non penuriava di argomenti
per provare al padrone che la colpa doveva ricadere tutta sopra di lui; e il
combattimento finiva per stanchezza d'ambe le parti. Questi piati però
non uscivano dalle mura di Don Abbondio, perché era interesse troppo evidente
d'ambe le parti di sopire l'affare e di stornare i sospetti dalla
verità. Ma tra coloro che erano stati in parte testimonj ed attori di
tutta quella scena ve n'era uno a cui l'esperienza non aveva potuto ancora dare
le profonde idee di prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a Toni e a
Don Abbondio. Sa il cielo se il lettore si ricorda di quel garzoncello spedito
da Agnese al Padre Cristoforo, e mandato da questo ad avvertire Lucia del
pericolo che le soprastava, di quel picciolo Menico che era stato nelle tenebre
guida dei fuggitivi. Menico il quale era pur dolente della fuga delle sue
parenti, ma che almeno in questa sventura aveva avuta la felice occasione di
far qualche cosa, non ebbe pace finché non confidò quello che aveva
fatto a dei ragazzi suoi coetanei, i quali venivano a contargli le congetture
che avevano intese, e ai quali egli aveva da raccontare qualche cosa di
più fondato. I ragazzi corsero a casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese
e Fermo erano andati la notte al convento. Le congetture divennero allora un
po' più uniformi e più fondate, giacché tutti avevano qualche
sentore della turpe caccia che Don Rodrigo dava a Lucia.
Gli
spioni del Griso riseppero tosto con gli altri queste particolarità; e
il Griso gli spedì tosto a Pescarenico per cavare più sicure
notizie.
I
barcajuoli avevano detto qualche cosa. Povera gente! avevano cooperato ad
un'opera buona, e l'assoluto silenzio era un peso troppo difficile da portarsi.
Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano attraversato il lago, e che avevano
continuato il loro viaggio per terra. Queste cose vennero pure agli orecchi del
Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo che poco mancava a sapere
su che albero l'uccello fosse andato a posarsi.
Don
Rodrigo era uscito quella mattina col conte Attilio e col solito seguito di
bravi, e s'erano aggirati pei campi e per le ville con l'apparenza d'andare a
caccia ma con l'intenzione di scoprire quello che si facesse, e di stornare i
sospetti mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e d'incutere spavento. I
sospetti erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente
rispetto, e sui visi inchinati dei contadini in cui si abbatteva, potè
scorgere qualche cosa di misterioso che annunziava un pensiero celato di
cognizione, e una gioja compressa per la trista riuscita del suo infame
tentativo. Don Rodrigo faceva osservare quelle facce al suo compagno, e si
rodeva; ma non ardiva né poteva fare alcun risentimento perché all'oscurarsi
del suo sguardo gl'inchini diventavano più umili, e gli aspetti
più sommessi, e non ci sarebbe stato verso di appiccare una lite senza
troppo scoprirsi.
Giunti
a casa i due cacciatori leggiadri trovarono il Griso che gli aspettava con le
notizie. Quand'egli ebbe fatta la sua relazione, Don Rodrigo si volse al
cugino, come per chiedergli consiglio. Il Conte Attilio era uno sventato, ma
l'affare era tanto serio ch'egli stesso lo era divenuto, e disse: «Se mi aveste
chiesto parere quando avete cominciato a divagarvi con questa smorfiosa, da
buon amico vi avrei detto di levarne il pensiero, perché era cosa da cavarne
poco costrutto; ma ora l'impegno è contratto, c'entra il vostro onore, e
quello della parentela: ora si direbbe che vi siete lasciato metter paura, e
che non l'avete saputa spuntare. Dal modo con cui vi conterrete in questa
occasione dipenderà la vostra riputazione e il rispetto che vi si
porterà nell'avvenire».
«Avete
ragione».
«E»,
continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra un
buon parente ed amico: non si tratta ora più di scommesse e di scherzi».
«Avete
ragione. Griso, che cosa dicono questi villani?»
«Il
signor padrone può ben credere che in faccia mia nessuno avrebbe osato
proferire una parola poco rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano
contenti».
«Ah!
contenti» rispose Don Rodrigo, «vedranno, vedranno. Il Podestà è
tutto mio... ma nulladimeno... che ne dite cugino?... sarà bene di
prevenirlo favorevolmente».
«Certo»,
rispose il Conte Attilio, «non bisogna tralasciare nessuna precauzione».
«E
poi», continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo in impaccio. Siccome
si parlerà della fuga di costoro, e la giustizia forse non potrà
schivare di far qualche ricerca, bisognerebbe trovare una storia che spiegasse
la fuga, e che rivolgesse i sospetti in tutt'altra parte».
«Si
potrebbe per esempio», disse il Conte Attilio, «sparger voce che quel villano
ha rapita la ragazza e fargli mettere un bando, in modo che non ardisse
più di comparire in paese».
«Non
va male», rispose Don Rodrigo, «ma...»
«Se
mi permettono questi signori», disse umilmente il Griso, «avrei anch'io un
debole parere».
«Sentiamo»,
dissero entrambi.
«Fermo»,
rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e questa è una gran
bella cosa».
«Come
c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio.
«I
lavoratori di seta», continuò il Griso, «non possono abbandonare il
paese, è un criminale grosso. Ecco che il signor Podestà quando
voglia, come è giusto, servire l'illustrissima casa, potrà fare
un ordine di cattura contra Fermo come lavoratore fuggitivo; poi si dirà
che se Fermo ritorna, guai a lui; e Fermo non sarà tanto gonzo da venire
a giustificarsi in prigione».
«Ma
bravo il mio Griso», proruppe Don Rodrigo, mentre lo stesso Conte Attilio
faceva un sorriso di approvazione.
«Ma
bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica. Per bacco, ch'egli
non l'avrebbe trovata più a proposito».
«Eh
Signore», rispose il Griso, con affettata modestia, «ho avuto tanto che fare
con la giustizia, che qualche cosa devo saperne».
«Del
resto», continuò Don Rodrigo, «per quanto grande sia l'abilità
legale del Griso, non voglio ch'egli balzi di scanno il nostro dottore. Fa
ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui. Tu intanto abbi
cura di vedere il bargello e di dirgli che questa volta venga più presto
del solito a ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore,
e avrà un regalo di più... Così si potrà andare
innanzi a fare tutto quello che sarà necessario... Purché la cosa non si
risappia a Milano...»
«Che
diavolo di paura vi nasce ora», interruppe il Conte.
«Caro
cugino, la cosa non è finita; costei la voglio...»
«Va
bene».
«E
non so dove bisognerà andare a cercarla, che passi bisognerà
fare...»
«E
bene, a Milano hanno altro da pensare che a questi pettegolezzi. C'è la
carestia, c'è il passaggio delle truppe, c'è mille diavoli. E poi
quand'anche se ne parlasse a Milano, sarebbe la prima che avremmo spuntata?»
«Va
bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa quali protezioni potrà
avere; e vi assicuro che non istarà quieto fin ché... Quel frate
è il mio demonio, e... non posso farlo ammazzare».
«Il
frate lo piglio sotto alla mia protezione», rispose sorridendo il Conte Attilio.
«Non pensate a lui: me ne incarico io».
«Eh
se sapeste!...»
«Via,
via, che ora non saprò fare stare un cappuccino. Vi dico che, se avete
in me la più picciola fede, non prendiate pensiero di lui, che non ve ne
potrà dare. Domani a sera sono a Milano; e dopo due o tre giorni udrete
novelle del frate».
«Non
mi state a fare un guajo che mi ponga in maggiore impiccio...»
«Quando
vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se volete vi dirò prima il modo
semplicissimo che ho pensato per torvelo d'attorno, modo tanto semplice che
l'avreste immaginato anche voi se non foste un po' conturbato».
Infatti
Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti diversi, e tutti rei, tutti
vili, tutti faticosi, era un oggetto di pietà senza stima agli occhi
stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato orrore e stomaco
nell'animo di chiunque gli avesse meno somigliato che quei due signori. La
passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e cresciuta da poi
dalle ripulse e dal disdegno, era diventata violenta quando conobbe un rivale.
La fantasia ardente e feroce di Don Rodrigo si andava allora raffigurando
quella Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se l'andava raffigurando umana,
soave, affabile con un altro, egli immaginava gli atti e le parole, indovinava
i movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un villano; e la
vanità, la stizza, la gelosia aumentavano in lui quella passione che per
qualche tempo riceve nuova forza da tutte le passioni che non la distruggono, o
ch'ella non distrugge, da tutte quelle che possono vivere con essa. Tutte
queste passioni lo avevano allora spinto ad impedire con minacce il matrimonio
di Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per
impedirlo a buon conto, perché ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo,
per isfogare in qualche modo la rabbia e l'amore, se amore si può dire
quel suo. Quindi allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e
Fermo erano partiti insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono
più acutamente che mai. Egli pensava qual prova Lucia aveva data di
amore per Fermo e di orrore per lui, abbandonando così timida,
così inesperta la sua casa paterna, i luoghi conosciuti, andando forse
alla ventura; pensava che in quel momento essi erano in cerca d'un asilo per
essere riuniti tranquillamente, e risolveva di fare, di sagrificare ogni cosa
per impedirlo. Dall'altra parte avvezzo bensì a non rifiutarsi mai una
soddisfazione quando non gli doveva costare altro che una bricconeria, ma
avvezzo a commetterne in un campo ristretto e conosciuto, si atterriva al
pensiero di uscirne, di dovere intraprendere una ricerca difficile e pericolosa
per porsi poi ad una impresa chi sa quanto vasta, chi sa quanto difficile e
pericolosa. Tanta era l'agitazione di Don Rodrigo, ch'egli pensava in quel
momento non senza terrore alle Gride contra i Tiranni. (Così chiamavano
le Gride coloro che sopraffacevano come che fosse i deboli, quasi con questa
espressione querula e paurosa volessero confessare l'impotenza di contenere
quelli e di difender questi.) Ben è vero che quelle gride erano per lo
più inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come noi lo
sappiamo ora dal trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la dichiarazione
espressa che le antecedenti non avevano prodotto alcun effetto. Ma però
queste gride stesse potevano essere un'arme potente, quando una mano potente le
afferrasse contra chi le avesse violate; e v'era di mezzo un frate, un
personaggio cioè alla influenza ed alla attività del quale nessuno
poteva anticipatamente prevedere un limite: e questo frate pareva risoluto a
proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In
questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza, facendo ad
ogni momento nuove interrogazioni al Griso, e affettando sicurezza dinanzi al
Conte Attilio; finalmente conchiuse col dire: «Per ora non c'è altro da
fare che di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te Griso; e poi, e
poi... non son chi sono se... non è vero cugino?»
«Senza
dubbio», rispose il Conte, al quale alla fine non premeva realmente in tutta
questa faccenda che di far pensare che nello stesso caso egli avrebbe saputo
giungere ai suoi fini senza esitazione e senza fallo. Così fu sciolta la
conferenza, e il Griso partì.
Don
Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe stata cosa molto utile l'avere
il podestà a pranzo, per mostrare sicurezza, e per far vedere ai
malevoli che la giustizia era per lui; e lo fece invitare, pregando il Conte
Attilio di non disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni. Venne il
podestà, e il dottore; si stette allegri, si parlò ancora della
marcia delle truppe, e della carestia: ma degli affari del paese, della campana
a martello, della fuga, né una parola. Soltanto Don Rodrigo accennò
indirettamente questa faccenda nel modo il più gentile ed ingegnoso,
come si vedrà. Fece egli in modo che il podestà lodasse
particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile ad ottenersi, perché
il vino era buono, e il podestà conoscitore. Allora Don Rodrigo: «Oh,
signor podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di suo
aggradimento mi permetterà...»
«Non
mai, non mai, Signor Don Rodrigo, se avessi saputo ch'ella sarebbe venuta a
questi termini, avrei dissimulata la mia ammirazione per questo incomparabile...»
«Bene
bene, signor Podestà, ella non mi farà il torto...»
«Don
Rodrigo conosce la stima...»
Il
Conte Attilio interruppe la gara, la quale era già realmente composta:
Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo, e il podestà tornando
poi a casa, trovò sei tarchiati contadini che erano venuti a deporre
nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo.
Dato
l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato, benché
sembrasse mutarlo affatto, e passare dal vino all'economia politica; ma chi
appena osservi la serie delle sue idee, scorgerà il filo recondito che
le tiene.
«Che
dice», continuò adunque Don Rodrigo, «che dice il signor podestà
di questo spatriare che fanno i nostri operaj?»
«Che
vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da non potersi
comprendere. Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto
più se ne vanno. Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi:
sono pecore, una va dietro all'altra».
«Eppure»,
continuò Don Rodrigo «pare che questa cosa stia molto a cuore di Sua
Eccellenza».
«Capperi!
veda con che sentimento ne parla nelle gride. Ma costoro, parte per ignoranza,
parte per malizia non danno retta, armano mille pretesti, ma la vera ragione si
è la poca volontà di lavorare, e il disprezzo temerario delle leggi
divine ed umane».
«Ma
per buona sorte», disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva detto non
tutto ma quanto bastava a fargli intendere come Don Rodrigo desiderava di esser
servito, «per buona sorte abbiamo un signor podestà che non si
lascerà illudere da pretesti, e saprà tenere mano ferma...»
«Mano
ferma, signor podestà», riprese Don Rodrigo: «mano ferma: il primo che
c'incappa, farne un esempio».
«Io
so», disse con gravità misteriosa il Conte Attilio, «che Sua Eccellenza
tiene gli occhi aperti su questo sviamento degli artefici, e sulla esecuzione
delle gride che lo proibiscono perché il Conte mio zio del Consiglio segreto,
qualche volta in confidenza si è spiegato con me... basta non voglio
ciarlare; ma son certo che quando tornato a Milano andrò a fare il mio
dovere dal Conte mio zio, egli non lascerà di farmi mille
interrogazioni... In verità avere dei parenti in alto è un onore,
ma un onore un po' pesante. Non si può parlare con loro che non vogliano
ricavare qualche notizia: non si sa come sbrigarsene».
«Mi
raccomando ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il Podestà:
«una buona parola trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie tanto
rispettabili...»
«È
pura giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la
parola ha da ottenere il suo effetto, da far colpo, sarà bene che si
vegga qualche dimostrazione esemplare dello zelo del Signor podestà in
questa materia».
«È
mio dovere, e starò sull'avviso».
«Oh
le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché come diceva sapientemente
il signor podestà, è una pazzia universale in costoro». Quindi
prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai fatti ad una idea generale,
continuò: «Vedano un po' le signorie loro come son fatti gli uomini, e
particolarmente la gente meccanica che non sa riflettere. Comincia a mettersi
fra gli artefici questa smania di sviarsi, di cambiar cielo. La sapienza di chi
governa vede il male, e tosto applica il rimedio della proibizione e delle
pene. Si può far di più? eppure costoro, presa una volta quella
dirittura di andarsene a processione, proseguono ad andarsene come se nessuno
avesse parlato. Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi. Ma coi pazzi
come bisogna fare? Castigarli».
È
facile supporre che con questi ragionamenti il signor podestà si
trovò disposto a credere poi, o a fingere di credere alle insinuazioni
incessanti del dottor Duplica, e alle deposizioni degli onorevoli suoi
ministri, che Fermo si era spatriato in contravvenzione alle gride. Il signor
podestà non si lasciò scappare una occasione, che gli si era
tanto raccomandato di afferrare, e nel giorno susseguente fatte fare ricerche
di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo, gli fece
intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo rilasciò
l'ordine di catturarlo s'egli ritornava. Non importa di accordare quei due
ordini: basta che con questi si ottenesse l'effetto desiderato, che era di
toglier la volontà a Fermo di ritornare.
Intanto
il Griso non ommetteva cura per iscoprire il covo dei fuggitivi; ed ecco come
vi riuscì. Mandava egli esploratori qua e là per le piazze e per
le taverne per raccogliere i discorsi che potevano dar qualche lume su questo
avvenimento. Colui che aveva condotto il baroccio dei profughi, non tacque, e di
confidenza in confidenza, il Griso venne a risapere, e potè riferire a
Don Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza, che Fermo aveva proseguito
il viaggio fino a Milano, che Lucia ed Agnese erano state raccomandate al
guardiano dei cappuccini.
Parve
a Don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com'egli aveva temuto,
e che il bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà. Monza non
era più lontana che venti miglia; Fermo era separato dalle donne; quando
si prendessero buoni alleati, senza dei quali Don Rodrigo sentiva di non poter
far nulla a quattro miglia del suo castellotto, l'impresa non era disperata.
V'era però ancora di mezzo un cappuccino; ma si sarebbe veduto fino a
che segno egli era da temersi.
«Ora
mio bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter tempo in
mezzo. Ho bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte di
Monza costei è andata a posarsi; e tu devi andare sul luogo a pigliarne
informazioni sicure».
«Signore...»
«Che
è, Griso? non ho io parlato chiaro?»
«Signore
illustrissimo,... io son pronto a dar la vita pel mio padrone, ma so anche
ch'ella non vuole arrischiar troppo i suoi sudditi»
«Ebbene,
non sei tu sotto la mia protezione?»
«Qui
sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e tutti mi
portano rispetto; ma in Monza, s'io fossi riconosciuto... Sa Vostra signoria
che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi potesse consegnare alla giustizia,
crederebbe di aver fatto un gran colpo?»
Don
Rodrigo stette un momento sopra pensiero. È una certa consolazione per
chi considera lo stato insopportabile di angoscia e di terrore in cui a quei
tempi gli uomini arditi e perversi tenevano i deboli, il vedere che i perversi
pure erano in continua angoscia, e dovevano starsi sempre come si dice con
l'olio santo in saccoccia. Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con
buone ragioni vergognar il Griso della sua pusillanimità.
«Che
diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora un can da pagliajo, che non sa
che abbajare sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano,
e non ardisce di allontanarsi quattro passi? Ebbene, piglia con te un pajo di
compagni... il Pelato, e... il Saltafossi... e va. Io non ho nimicizia con
nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La faccia di bravo non ti
manca, e cospetto non incontrerai nessuno che non sia contento di lasciarti
passare. Quanto alla giustizia, dovresti vergognarti di avervi pensato un momento.
Bisognerebbe che i birri di Monza fossero bene stanchi di vivere per azzuffarsi
con tre malandrini che vanno tranquillamente pei fatti loro».
«Sia
per non detto, illustrissimo signore: io parto immediatamente».
«Bravo:
hai amici in Monza?»
«Eh
Signore io ho amici e nemici per tutto il mondo. Sono stato in prigione con uno
che sta per bravo dal Signor Egidio... e abbiamo fatta una amicizia da spartire
colle pertiche, conosco...»
«Bene
tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso. Una mano lava l'altra, e le
due il viso. Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare e tornare».
«Vado
e torno; e se osassi...»
«Che?»
«Pregar
Vossignoria illustrissima di non dire ad alcuno che il Griso ha dubitato un
momento. Vede bene, ognuno nel suo mestiere ha a cuore la sua riputazione».
«Va,
va, balocco che sei: credi tu che io abbia bisogno di essere pregato per tenere
in credito la mia gente?»
Il
Griso partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel
monastero, sotto la protezione della Signora, che però la Signora
l'aveva ricevuta per compiacere al padre guardiano, che nessuno pensava che
altrimenti ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda giacché Lucia non
le apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel monastero, ma fuori del chiostro,
che si lasciava poco vedere, e sempre di chiaro giorno: che la madre aveva
disegnato di tornarsene a casa lasciando Lucia così bene appoggiata.
Tutte queste cose riferì il Griso a Don Rodrigo, il quale lodatolo, e
ricompensatolo, si pose seriamente a pensare quale risoluzione fosse da
prendersi.
Tentare
un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli non conosceva bene,
in un monastero, a rischio di tirarsi addosso la signora, e tutto il suo
parentado, del quale Don Rodrigo conosceva molto bene la potenza, e la ferocia
in sostenere le protezioni una volta abbracciate, era impresa da non porvi
nemmeno il pensiero. Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola senza la
madre, e a chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per conoscere
le occasioni e per approfittarsene, per evitare i pericoli, l'impresa poteva
forse essere agevole non che possibile. Bisognava dunque ricorrere ad un
alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre a termine spedizioni di
questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un pensiero, che gli era
passato più volte per la mente, che non aveva mai abbandonato, il
pensiero di raccomandare i suoi affari al Conte del Sagrato.
Le
ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello
che abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose. Al
prudentissimo nostro autore è sembrato di avere ecceduto in
libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome quest'uomo.
Due scrittori contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti,
biografi entrambi del Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel
personaggio misterioso, ma lo dipingono succintamente come uno dei più
sicuri e imperturbabili scellerati che la terra abbia portato, ma non ne danno
il nome, e né meno il soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro
manoscritto insieme con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e
che basterà a dare una idea del carattere di quest'uomo. Abitava egli in
un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; e quivi menava
una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti gli abitatori
del contorno, non riconoscendo superiore a sè, arbitro violento dei
negozj altrui come di quelli nei quali era parte, raccettatore di tutti i
banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a commetterne di
nuovi, appaltatore di delitti per professione. «La sua casa» per servirci della
descrizione che ne fa il Ripamonti «era come una officina di commessioni
d'ammazzamento: servì condannati nella testa, e troncatori di teste: né
cuoco né guattero dispensati dall'omicidio; le mani dei valletti insanguinate».
E
la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una lunga
esperienza d'impunità era venuta a tanto, che dovendo egli un giorno
passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente
bandito, cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba,
passò sulla porta del palazzo ove abitava il governatore, e
lasciò alle guardie una imbasciata di villanie da essergli riferita in
suo nome.
Avvenne
un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate si
presentò un debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui
della molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il negozio a
modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo
altra speranza che nella protezione onnipotente del signor Conte. Il creditore,
un benestante d'un paese vicino, non era sul calendario del Conte, perché senza
provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di
non volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti
suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti. Al Conte fu molto gradita
l'opportunità di dare una scuola a questo signore: trovò irrepugnabili
le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò un servo,
e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in
mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso,
perché io ho riconosciuto che costui non gli deve nulla: ascolterai la sua
risposta: non replicherai nulla quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia,
tornerai tosto a riferirmela». Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal
creditore, al quale il lupo espose l'imbasciata, mentre la volpe stava tutta
modesta a sentire. Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale
intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal
sentimento della sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora
allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli non
riconosceva il signor Conte per suo giudice. Il lupo e la volpe partirono senza
nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola
disse: «benissimo». Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava
il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini,
che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi.
Terminati gli uficj, i più vicini alla porta uscendo i primi e guardando
macchinalmente sul sagrato videro quell'esercito e quel generale, e ognun
d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere si
rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza
darla a gambe. Il Conte, al primo apparire di persone sulla porta si era tolto
dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le due mani in apparecchio di
spianarlo. Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti
archibugj secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo
più armati, ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano
al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita. Tanta era la fede
publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si
curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i
più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un pericolo oscuro,
impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa. I
sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno
al lato che gli era più comodo per uscire, ma alla vista di
quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e la folla usciva come
acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un
canto dell'apertura. Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il
creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli spianò lo schioppo
addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far
largo. Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato,
e la folla non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di
coglierlo separato. Quegli che gli erano più lontani s'avvidero che
quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da cento
bocche. Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta
compresa da quell'amore della vita, da quell'orrore di un pericolo impensato
che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad alcun altro
più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla,
e la folla lo sfuggiva pur troppo s'allontanava da lui per ogni parte, tanto
ch'egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto,
cercando il nascondiglio il più vicino. Il Conte lo prese di mira in
questo spazio, lo colse, e lo stese a terra. Tutto questo fu l'affare di un
momento. La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il
Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col suo accompagnamento.
Se
quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno
aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore,
e di sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al Conte senza che il fatto
non gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea,
che tutti avevano associata alla persona. Il Conte sapeva che lo disegnavano
con questo soprannome, ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che
ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch'egli sapeva fare; o
forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di
Scipione l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome
dal luogo illustrato da una grande impresa.
Teneva
egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato milanese e nel veneto, e dal
suo castello posto a cavaliere ai due confini dirigeva gli uni e gli altri,
facendo ajutare o perseguitare quegli che si rifuggivano da uno Stato
nell'altro, secondo l'occorrenza, tramutandone alcuno talvolta, quando qualche
operazione lo domandasse, o anche quando alcuno avesse in uno stato commessa
qualche iniquità tanto clamorosa che la giustizia per averlo nelle mani
facesse sforzi straordinarj, che esigessero sforzi straordinarj per difenderlo.
Allora la fuga del reo era una buona scusa ai ministri della giustizia del non
far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto che dopo qualche
tempo non se ne parlava più, né meno sommessamente, e il reo ricompariva
con faccia più tosta che mai. Questo maneggio serviva non poco ad agevolare
tutte le operazioni del Conte, perché le si compivano tutte senza molto
impaccio dei ministri della giustizia, i quali potevano sempre allegare
l'impossibilità di porvi un riparo. Quanto alle operazioni che il Conte
eseguiva di propria mano, la giustizia non se ne mostrava accorta; ed era
regola ricevuta di prudenza, che erano di quelle cose in cui ogni dimostrazione
avrebbe prodotti più inconvenienti che non il dissimularle.
Le
sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti. Pochi erano i tiranni
della città, e di una gran parte dello stato che non avessero qualche
volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche vendetta o qualche
soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi, o il fatto da
eseguirsi era nelle sue vicinanze. E non basta, fino ad alcuni principi
stranieri tenevano comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta per
qualche uccisione d'importanza, e quando il caso lo richiedesse gli mandavano
rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano certamente per chi misura la
probabilità degli avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei
suoi tempi; ma fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel
secolo. Nella sua professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli
pieno di affabilità nel contrattare, e nell'eseguire metteva, ed esigeva
una somma puntualità. Accoglieva con molta riserva certamente per non
incorrere nel pericolo al quale era sempre esposto, ma con molta piacevolezza,
quelli che venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il sopracciglio,
stipulava con parole spicce, ma pacate, non andava in furia contra chi non
avesse voluto stare alle sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato,
non volendo né disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i
quali avevano per la scelleragine più inclinazione nella volontà,
che determinazione di coraggio. Ma stretti i patti, colui che non gli avesse
ben fedelmente serbati con lui, doveva esser bene in alto per tenersi sicuro
dalla sua vendetta.
Don
Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di fama?) ma
di persona, per essersi talvolta avvenuto in lui. In tutti questi incontri Don
Rodrigo sentendo la sua inferiorità, aveva deposto ogni orgoglio e aveva
cercato con molte espressioni di rispetto di porsi in grazia al Conte; non
ch'egli pensasse allora che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto
per non farsi un tale nemico.
Confermato
nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia, e convinto che le
sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don Rodrigo di andare in
cerca di chi volesse prestargli le sue; fatta questa risoluzione, non v'era da
titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte era appunto per lui quel
che il diavolo fece.
CAPITOLO VIII
Il
mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito da
caccia, col fedel Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una
quadriglia di bravi, si mosse verso il castello del Conte, come altre volte
Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe l'opera
buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a
Doppie. La via era di cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva
lentamente, e per dare agio alla scorta pedestre di seguirlo; e perché il
cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era piano
obbligava il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la
zampa con sicurezza. I villani che si abbattevano su quella via, al vedere
spuntare il convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, per dare a
Don Rodrigo il comodo d'un libero passaggio; e quando erano giunti al medesimo
punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi
di chiedere scusa a Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino. Don Rodrigo
che già cominciava a godere nella sua mente un'anticipazione della
potenza che gli avrebbe data l'alleanza che andava a contrarre, gli guarda con
un volto fosco e sprezzante, come se dicesse: — vi siete rallegrati troppo
presto a mie spese; lo so; ma vedrete chi sono —. Giunto dinanzi al convento
che si trovava su la sua strada, Don Rodrigo rallentò ancor più
il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre
Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v'era nessuno: la porta della chiesa
era aperta, e si sentivano i frati cantare l'uficio in coro. In mezzo alla sua
ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni
che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da quei frate: pensò
che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla
collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un «ah! ah!» il cui
senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare
la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch'egli era molto
internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e
facendo col volto un cenno che voleva dire: — a quest'ora il frate sarà
servito —.
Pochi
passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che si
gettano nel lago, dai monti che lo ricingono. Questo si chiamava e si chiama
tuttavia il Bione, nome che non si troverà in alcun dizionario
geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di
esser memorato. Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago,
e per un brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo
d'acqua, e dopo le grandi piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo
fiume d'acqua che in un momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che
rimangono. In quel momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in
un deserto di sassi: noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a
questo passaggio qualche incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne
illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la
storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che
d'ogni altra cosa non possiamo dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo
attraversò il letto in retta linea, tenuto pel freno dal Griso il quale
dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così com'era giusto un poco
l'onore di star più vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono
un po' più in giù sur un ponticello stretto a piedi asciutti.
Varcato
il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al luogo
dove allora era il confine dello stato veneto; e quindi presero un viottolo
ripido a sinistra che conduceva al castello del Conte. Appiedi della ultima
salita che dava al castello v'era una rozza e picciola taverna; e sulla porta
della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder gente
armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci
nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come
tegole con le quali stavano giucando; stettero a guardare con sospetto chi
veniva. Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per
rivolgerlo sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli
chiese molto famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella
compagnia?» In altro luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la
superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi così
interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli sapeva di
essere negli stati del Conte, e s'avvedeva che parlava con dipendenti da
quello, onde fingendo di non trovare nulla di strano in quel modo, rispose
umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E
chi è Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più
amichevole ma non meno risoluto.
«Sono
il signor Don Rodrigo...»
«Bene;
ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che quelli del
signor Conte; e s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una
passeggiata con me».
Don
Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di quel
proverbio: si Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e
disse: «avrò molto piacere di far questi pochi passi a piede: e voi
intanto», disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi a
refiziarvi, e a godere della compagnia di questa brava gente». Mentre quivi si
parlamentava, scendevano per l'erta a varie distanze uomini del Conte che
dall'altura avevan veduti armati a fermarsi; ma colui che s'era offerto di
accompagnare Don Rodrigo, accennò loro che erano amici, e quegli
ritornarono. Don Rodrigo sceso, e date le briglie in mano al Griso
cominciò a salire con la sua guida; la quale non volendo forse avere
offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che non si sapesse,
fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere. «Se il Signor
Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato
ordine perch'ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere
quanto il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere del
mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il
nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici
vecchi del signor Conte».
«Certo,
certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e non
pretendo che egli abbia a far complimenti con me».
—
Questi è un signore davvero, — pensava tra sè continuando la sua
salita Don Rodrigo. — Vedete un po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone
in casa sua. S'io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei riuscire:
ma è poi anche vero che fa una vita da romito. A voler godere un po' il
mondo non bisogna star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco. —
Così Don Rodrigo si racconsolava della sua inferiorità; e nel
resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch'egli aveva preparati pel
Conte. Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece
aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del
Conte. Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando Don Rodrigo ad
entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani, lo condusse
a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don
Rodrigo s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può
egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti
affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli
corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di
sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si
potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie,
alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a
qualche distanza.
Era
il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con una
faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato, ma
da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e
indisciplinata.
«Dovrei
scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado
a Vossignoria Illustrissima».
«Lasci
queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non
so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere
stato qualche volta fortunato...»
«Mi
ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A
dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore, in
un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato
quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a
chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo».
«Al
diavolo anche l'amparo», rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste
parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto,
e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si
protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo». E qui avvedendosi che Don
Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì
e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie.
Mi dica schiettamente in che posso servirla».
Don
Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e
finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel
villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il
Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava
più dell'evento. «Non intendo però», continuò titubando,
«che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per
favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...»
«Patti
chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le
labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo...
presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini
di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A
queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a
parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: — l'avresti avuta per
centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo —; e Don
Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie.
— Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho
promesso al mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si
scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò:... frate
indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la voglio... Si
è parlato troppo... non son chi sono... — Fatta così la
risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte,
l'accordo è fatto».
«Cinque
e cinque, dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia
capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una
formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte,
significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell'atto di proferire la
formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le
darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la
persona, e starà agli ordini di Vossignoria...»
«Non
fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui
cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate,
e fattosi dire un'altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo
scrisse, e notò pure il monastero.
«Ma
non vorrei che nascessero abbagli».
«So
quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di
dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo»,
replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile».
«Ad
un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona
sarà consegnata».
«Così
farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte
darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio».
«Al
corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei
uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse
la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani».
«Non
ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto,
e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son
uomo d'onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del
castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò
largamente lo scotto, e si avviò verso casa.
Non
aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi
aveva già dato principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo
una lettera a quell'Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a
venire al Castello per un negozio di somma premura.
È
d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi
quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più
intrinseco e il più riverito. Il giovane Egidio appena rimasto solo
aveva implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il
Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non
ordinarie, e che aveva pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie
parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di denari e d'uomini, e
sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di
mestieri.
Si
formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni
occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa
sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli
obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d'avere in
lui un difensore invincibile. Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli
parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per
esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era
contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise
a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia
non affatto sgombra di diffidenza.
Il
messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e
verso il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due
cavalieri, e con quattro pedoni che l'accompagnavano, distinzione riserbata a
quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata
al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte. In fatti gli uomini di Egidio e
quelli del Conte s'erano trovati insieme in più d'una impresa, ed erano
per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno
scambievole ajuto. Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello,
incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente
inchinato l'amico del padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio,
ed era una ripetuta stretta di mani, e un dare e rendere di saluti a cui si
appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo. «Benvenuto il
Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino
bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh!
Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di Milano, fin
che viene la mia ora!» «Bravo un'altra volta! Ehi! e quel tale che ti faceva
l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza cena», rispose il
Nibbione, stendendo il braccio sinistro e appoggiando orizzontalmente la mano
destra alla guancia. «Bene», rispose lo Spettinato: «così va fatto:
meglio pagare che riscuotere». «Così m'ha insegnato mio padre»,
replicò il Nibbione. Con questi bei ragionamenti giunse la trista
brigata alla vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo
veduto salire l'amico gli si faceva incontro. Quando Egidio lo scorse,
balzò da cavallo, gittò la briglia a uno de' suoi uomini, e corse
a lui: si abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell'uno
e dell'altro seguitarono riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta,
andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo gli ordini dati dal Conte.
Quando
i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava gli
affari più reconditi, scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in
questo modo.
«Mio
caro Egidio, e posso dir figlio. Ho un affare a Monza, pel quale m'è
d'uopo un amico fidato, e un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra
di te».
«Vorrei
vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di
esservi più amico di me».
«La
mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora
mettetemi alla prova».
«Ho
bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva,
o morta?» domandò Egidio.
«Viva,
viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene»,
disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia, né il
feudatario, né il podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih!
ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa gente? Quando io
gli avessi tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli
andare. Non sono buoni da nulla né vivi né morti».
«Che
so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l'arciprete, né
tampoco un prete, né un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare
col Cardinale, che sarebbe uomo da mettere a soqquadro tutta Roma e tutta
Madrid, finché non ne avesse veduta l'acqua chiara: purché non sia nessuno di
questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene»,
disse il Conte «quello ch'io vorrei che tu prendessi non è nessuno di
questi uccellacci che hai nominati: è il più picciolo reatino che
tu possa immaginare. Solamente, è rimpiattato in una certa fratta che ci
vorrà destrezza assai a cavarnelo».
«Vediamo»,
rispose confidentemente Egidio.
Il
Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse:
Lucia Mondella, e continuò: «è una contadina di questi contorni
che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua casa, sotto la protezione
della Signora; protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano
dei cappuccini».
«Ne
ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia molto
più del Conte, ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i
suoi rapporti con la Signora erano un segreto al quale non ammetteva nemmeno
gli amici più intrinseci.
«Prendi
tu l'impegno?» domandò il Conte.
«Senza
dubbio», rispose Egidio.
«E
la Signora?»
«La
Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa
donna; così almeno ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano
con l'ortolano, o con qualche altro mascalzone del monastero. E poi, faremo la
cosa in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo venga».
«Sai
tu ch'ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla
uscire?»
«M'impegno
di trovarlo. E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale
settimana; ma piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà
molto».
«Bravo!
e hai tu bisogno d'uomini in ajuto?»
«Ho
bisogno certo d'uomini, non tanto per compire l'opera, come per distornare i
sospetti. Quando io vi darò avviso, voi mi manderete dei vostri uomini
forestieri, dei più destri e determinati; costoro si lasceranno vedere
qualche tempo prima; si parlerà in paese di loro: quando la donna
sarà scomparsa...»
«Va
bene, si dirà che è stata rapita da forastieri, sconosciuti, da
Bergamaschi».
«Rapita,
o fuggita con essi: quel che si vorrà: o anche l'uno e l'altro perché ho
veduto in più d'un caso che il raccontare una storia in diverse maniere
serve molto a confondere le teste, e a tener lontani i sospetti dalla
verità del fatto».
«Tu
parli come un vecchio, e sai operare da giovane», rispose il Conte. «Io ti
manderò gli uomini che mi richiederai: e non avranno altro ordine che di
ubbidire ai tuoi».
Così
fu conchiuso l'orribile accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani
ripartirebbe di buon mattino, e che appena giunto a casa, avviserebbe ai mezzi
di condurre a buon fine l'impresa.
La
sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia non molto
dissimile da quella che Don Rodrigo aveva presa della sua. Si aspettava bene il
Conte che Egidio avrebbe abbracciata l'impresa, e trovato il modo di compierla,
ma ch'ella dovesse parergli così agevole, non lo avrebbe immaginato. Si
preparava anzi a fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli ostacoli
che Egidio gli avrebbe opposti; e fra questi il primo gli pareva che dovesse
essere la Signora: ma il lettore sa che questo che al Conte sembrava ostacolo
dovette tosto affacciarsi alla mente di Egidio come un mezzo validissimo. Ed
è questo uno dei molti vantaggi dei lettori di storie: il sapere certe
cose ignorate dai personaggi più importanti di esse; il veder chiaro
dove i più accorti ed oculati personaggi camminano all'oscuro: vantaggio
che dovrebbe ispirare ad ogni lettore bennato molta riconoscenza a coloro che
glielo procurano, che alla fin fine sono gli scrittori di quelle storie.
Nel
resto di quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa
però che poteva essere in quel luogo e fra quei due. All'indomani, dopo
molti affettuosi congedi, Egidio partì, promettendo che ben presto
manderebbe al Conte buone novelle dell'affare; discese al lago, entrò
nel battello del Conte, traghettato all'altra riva dell'Adda coi suoi, si
ripose a cavallo, e prese la via di Monza.
In
quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati, di tradimenti, l'uomo che
si allontanava quattro passi da casa sua, camminava sempre con sospetto a guisa
d'un esploratore in vicinanza del nemico; e più d'ogni altro i
facinorosi e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte conti
accesi di offese o di minacce, com'era Egidio. Benché mandasse alcuni passi
innanzi a battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci
fossero insidie, o se giungessero nemici, pure andava egli stesso guardandosi a
destra e a sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni siepe, alzandosi
di tempo in tempo su le staffe per veder dietro i muri dei campi, piegandosi
per vedere dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere
dietro le spalle, e affisando da lontano chiunque veniva, perché poteva essere
un nemico, o il sicario nascosto di un nemico.
Alla
metà circa della via, incontrò egli una caravana di carretti e di
pedoni, e li riconobbe da lontano per quelli che erano veramente cioè
pescivendoli che tornavano da Milano dopo avere smaltita la loro merce, e che
camminavano di conserva per assicurarsi dai masnadieri. Esaminando però
attentamente ogni persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi, gli
parve di riconoscere una donna, che si stava accosciata sur un carretto,
coperta il capo d'un fazzoletto rannodato sotto il mento, la quale veggendo
venire armati guatava con una curiosità mezzo spaventata. Egidio la
mirò più fisamente, s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e
si rallegrò pensando che a Monza troverebbe un impiccio di meno
nell'esecuzione del suo mandato.
Era
la nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno
imbasciate promesse dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del
come andassero le cose, qual partito si dovesse finalmente pigliare; tornava al
paese, per saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo una occhiata alla
casa ed alle masserizie. Lucia alla quale i pericoli passati, la fuga, il
trovarsi come smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo
di peggio avevan restituita quasi tutta la timidezza della infanzia, aveva
più volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla partire,
aveva pianto, e pregato, ma, finalmente stanca essa pure della incertezza, e
più ansiosa di saper qualche cosa di quello che non ne confessasse,
rassicurata dal trovarsi in un asilo così guardato, e così santo,
s'acquetò, e lasciò che la madre ne andasse; e Agnese se n'era
venuta, senza cruccio della figlia che le pareva d'aver lasciata, come si dice,
su l'altare. Noi torneremo indietro con la buona donna verso le nostre
montagne, lasciando andare lo sciagurato Egidio al suo viaggio.
Quando
Agnese si trovò al punto dove la strada che conduceva al suo tugurio si
divideva da quella che dovevan fare i pescivendoli per giungere a casa loro,
cioè quando ebbe passato il ponte dell'Adda, scese di carretto, e preso
il suo fardello cominciò a piedi le due miglia che le restavano di
viaggio, camminando non senza sospetto. Si confortava però pensando che
Don Rodrigo non l'avrebbe voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno stato
tanto scellerato da farle far male alcuno, senza suo profitto. Giunta vicino a
casa, v'andò quanto più celatamente potè per viottoli, e
infatti non fu scorta da veruno; picchiò, le fu aperto da quella sua
cognata che stava a guardare la casa, trovò le cose in ordine; chiese
novelle del Padre Cristoforo alla cognata che non potè rispondergli se
non che da quel primo giorno non lo aveva più veduto comparire; e dopo
d'avere esitato qualche momento, si fece animo, e prese la via del convento.
Tutta ansiosa si fece alla porta, e tirò il campanello, al suono del
quale, ecco venire un occhio ad una picciola grata della porta a spiare chi sia
arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza la porta, e al luogo
dell'apertura un lungo, vecchio, e magro frate portinajo con la barba bianca
sul petto che dice:
«Chi
cercate buona donna?»
«Il
padre Cristoforo».
«Non
c'è».
«Starà
molto a tornare?»
«Mah!»
«Dov'è
andato?»
«A
Palermo».
«A...?»
«A
Palermo», ripetè posatamente il frate portinajo.
«Dov'è
questo luogo?» domandò di nuovo Agnese.
«Eh!
hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e la mano destra e trinciando
l'aria verticalmente per significare una lunga distanza.
«Oh
diavolo!» sclamò Agnese.
«Ohibò,
buona donna», disse pacatamente il frate: «che c'entra colui? non chiamatelo
qui fra di noi, che poniamo ogni cura per tenerlo lontano».
«Ha
ragione, Padre, ma io sto fresca».
«Bisogna
aver pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere la porta.
«Ma»,
disse Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a fare in quel
paese?»
«A
predicare», rispose il cappuccino.
«Ma
perché è andato via così all'improvviso senza dirmi niente?»
«Gli
è venuta l'obbedienza dal padre provinciale».
«E
perché l'hanno mandato lui che aveva da far qui, e non un altro?»
«Se
i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, non vi sarebbe
obbedienza».
«Va
benissimo; ma questa è la mia ruina».
«Ci
vuol pazienza, buona donna. Pensate al contento che proveranno quei di Palermo
a sentirlo predicare: perché, vedete il padre Cristoforo è cima di
predicatori; è un santo padre in pulpito».
«Oh
il bel sollievo per me!»
«Vedete
se v'è qualche altro nostro padre che possa tenervi luogo di lui,
rendervi qualche servizio, nominatelo, e lo andrò a chiamare».
«Oh
Santa Maria!» rispose Agnese con quella riconoscenza mista di stizza che fa
nascere una offerta dove si trovi più di buona volontà che di
convenienza: «chi ho da far chiamare, se non conosco nessuno: quegli sapeva
tutti i fatti miei, mi dava tutti i pareri, aveva amore per noi poveretti».
«Dunque
abbiate pazienza», rispose di nuovo il frate, disponendosi ancora a partire.
«...Ma,
ma...» domandò ancora Agnese, «quando sarà di ritorno?...
così a un dipresso?»
«Mah!»
rispose il frate. «Quando avrà terminato il quaresimale, cioè a
Pasqua, aspetterà un'altra obbedienza per sapere se deve restar
là dove è andato, o tornar qui, o portarsi ad un altro luogo dove
comanderanno i superiori: perché, vedete, noi abbiamo conventi in tutte le
quattro parti del mondo».
«Oh
la bella storia!» sclamò Agnese.
«Questo
è quello che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la
porta sul volto ad Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi un qualche tempo
come smemorata, riprese tristamente la via della sua casa, pensando come
potrebbe riparare una tanta perdita e arzigogolando i motivi di una sì
subitanea disparizione, senza poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente.
Non
così il lettore, il quale quando voglia continuare la sua lettura,
troverà qui tosto la spiegazione di tutto il mistero. Il Conte Attilio,
tornato a Milano, s'era tosto portato ad inchinare il conte suo Zio del
consiglio segreto. Era questi un vecchio ambizioso, geloso della parte di
potere che gli era venuto fatto di afferrare, e geloso non meno dell'onore
della sua famiglia e di tutto il parentado, al modo che s'intendeva l'onore a
quei tempi.
Era
egli per due sorelle, zio dei due cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio
novelle dell'altro nipote Don Rodrigo.
«Che
fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato
come lui, e devi sempre trovarlo irreprensibile».
«Mi
ha imposto di baciare umilmente la mano all'Eccellenza del signor zio, alla
quale è sempre devotissimo».
«Sì
sì... mantiene bravi tuttavia?»
«Oh
Signor zio, bravi... non si può veramente chiamarli bravi: tiene un
corteggio di servitori conveniente alla sua nascita, e al decoro della
parentela».
«Sì
sì... ma Sua Eccellenza il signor Governatore non vuole i corteggi a
questo modo, e si lascia qualche volta intendere che toccherebbe ai Ministri, e
ai loro parenti dare l'esempio».
«Ma
vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore di giorno in giorno...»
«Oh
questo sì; ma non tocca a te il dirlo».
«Ad
ogni modo, il mondo è pieno di gente che non porta rispetto né alla
nascita né al nome, se uno non lo sa far rispettare».
«Anche
questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto e
all'orecchio di Sua Eccellenza non si deve temere di soperchiatori».
«Certo,
che con l'amparo del signor Zio noi potremmo aver soddisfazione di
qualunque offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il Signor Zio che ha
tanta bontà di cuore, avrebbe disturbi ad ogni momento per causa nostra.
Così i temerarj si contengono col solo timore».
«Temerarj,
temerari: io so molto bene che Don Rodrigo non è molestato da nessuno,
se non cerca egli di molestare altrui».
«Eh!
signor Zio ella sa quanti si trovano che presumono di essere superiori ad ogni
autorità, e si fanno arditi contra chicchessia. C'è per esempio
un frate nel convento di Pescarenico, eh! signor Zio, non si può
immaginare che superbia abbia costui».
«Che
c'entra questo frate con Rodrigo?»
«Ci
vuole entrare per forza, signor Zio. Costui è pieno di premura,
probabilmente spirituale, per una foresotta di quei contorni, e la guarda con
un sospetto... guai se alcuno le si avvicina. Che cosa va a mettersi in capo
questo frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua colomba. E
tutto questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta
passando: ma come le dico, la carità di questo frate è molto
permalosa. Ora non può credere le cose che ha dette costui di Rodrigo, i
visacci che gli ha fatti, il tuono di minaccia con cui lo guarda, come se fosse
un ragazzo plebeo».
«E
questo frate sa che Don Rodrigo è mio nipote?»
«E
come lo sa! Si figuri, che non faccio per censurare mio cugino, ma è il
suo debole, lo dice ad ogni occasione, e lo compatisco; quando si ha un onore
di questa sorte, non si vorrebbe tenerlo celato».
«E
non ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo
è mio nipote?»
«Eh
pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno ricordare».
«E
che dice egli?»
«Dice...
dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri della
terra».
«Come
si chiama questo frate?»
«Fra
Cristoforo da Cremona. Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido;
ha sempre voluto cozzare con la gente bennata; in gioventù ha avuti
incontri con cavalieri; ha un bell'omicidio su la coscienza e si è fatto
frate per salvare la pelle: un cervello caldo».
Il
Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra Cristoforo fu registrato sur
una terribile vacchetta, con due righe di commento.
«Sicuramente»,
borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta; «il cordone di San
Francesco! Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo a
proposito, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia».
«Per
uscirne con poco impegno, e con tutto il decoro della parentela», disse il
Conte Attilio, «il mio sottomesso parere sarebbe che V.E. con la sua consumata
politica trovasse il modo di fargli cambiar aria, e di sopire il negozio, senza
entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo frate, e
son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita
a un cavaliere; è un uomo, Signor Zio, da dare uno schiaffo con forza, e
da riceverne uno con umiltà: questi cervelli alla lunga possono
impacciare chi che sia, e mettere in impegni...»
«Chi
domanda pareri a Vossignoria?...» interruppe il Conte Zio annuvolando la
fronte. Il nipote che lo conosceva, perché avendo spesso bisogno di lui lo aveva
esaminato con l'occhio acuto dell'adulatore, aveva benissimo preveduto che quel
personaggio si sarebbe offeso della intenzione di consigliarlo; ma sapeva nello
stesso tempo che il consiglio gli sarebbe rimasto nella memoria, che sarebbe
stato seguito perché era conforme alle idee del personaggio; e quanto
all'offesa sapeva per esperienza che una umile parola di adulazione bastava a
farla dimenticare.
«Ah!
ah!» sclamò egli, come ridendo della sua propria dappocaggine, «È
vero, è vero; sono pure uno sventato; ma: i paperi vogliono menare a ber
l'oche». Il Conte Zio fu contentissimo della riparazione; e disse: «Bene, bene,
i pareri tu gli hai da sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di
non far parola con alcuno di questo impegno». Il nipote promise l'obbedienza, e
si congedò certo e lieto della riuscita.
Il
Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere il nodo prima
che si ravviluppasse a segno che fosse mestieri di tagliarlo. Il grande scopo
di questo signore era di ottenere un po' di potere, il più che fosse
possibile: e uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far credere
che ne avesse molto. Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo
mezzo, e in certi momenti in cui il prurito di far mostra della sua profondità
nella politica, superava nel suo animo la circospezione che gli consigliava a
nasconderla (il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione
a molti furbi di scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro
affari; che è un peccato) in quei momenti dico, egli era solito di fare
intendere la sua teoria con una frase di Virgilio che gli era rimasta in mente
dalla scuola, e che egli interpretava a suo modo: possunt quia posse
videntur. — Chi aveva intese queste parole dalla sua bocca poteva esser
certo di essere ai primi posti della confidenza del Consigliere segreto. Questa
dottrina poi, come accade, era in lui divenuta abito, e passione. In questo
frangente si trattava di non permettere che un cappuccino affrontasse e facesse
stare un parente del Signor consigliere, d'impedirlo senza tirarsi addosso i
cappuccini, e di far credere a chi era informato della inimicizia, e ai
cappuccini stessi, che il frate era stato vinto, e aveva dovuto ritirarsi. —
Giovanastri senza giudizio, — pensava egli fra sè — la darò io ad
intendere a quel Rodrigo. — Ma intanto bisognava andare al riparo, e tutto
pesato il Conte Zio fece pregare con quei rispetti e con quei pretesti di
cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare alla sua casa. Il
Padre Provinciale non si fece aspettare.
Due
potenze, due dignità, due vecchiezze, due esperienze consumate, si
trovavano a fronte. Il Padre provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere
segreto volesse fare di lui né in nome di chi, per quali interessi avesse a
parlargli, stava in guardia; e il Consigliere si proponeva di farlo fare a modo
suo, e di farlo partire contento di aver servito un così potente
signore.
Dopo
le prime accoglienze che furono al solito sviscerate, e dignitosamente umili,
poi che il Cappuccino ebbe espressa magnificamente la sua stima pei
Consiglieri, e il Consigliere pei Cappuccini, il Conte entrò in materia,
cercando pure al solito di tasteggiare il suo interlocutore, e di procedere per
via d'interrogazioni che obbligassero ad una risposta, e di eludere nello stesso
tempo le interrogazioni dell'altro, il tutto con l'apparenza della più
schietta cordialità.
«Mi
sono presa questa sicurtà d'incomodare Vostra Paternità
reverendissima», diss'egli, «per un affare che deve conchiudersi a comune
soddisfazione. E senza più, le dirò sinceramente di che si
tratta, senza raggiri, col cuore in mano, come uso con tutti e specialmente con
le persone che venero particolarmente. Ecco il fatto. Nel loro convento di
Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre Cristoforo da Cremona?»
«Vostra
Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale.
«Mi
dica un po' schiettamente in amicizia, Padre Molto Reverendo, che informazioni
tiene di questo soggetto?» riprese il Consigliere segreto aspettando la
risposta. Ma il Padre Provinciale non era uso di rispondere alla prima
chiamata, e molto meno in un caso simile. S'accorse egli che il Conte voleva
cavare da lui tutte le notizie possibili prima di fargli conoscere il suo
disegno, e propose di condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto.
— Perché — pensava il Padre — chi sa per qual cagione questo signore vuol
essere informato del Padre Cristoforo. Potrebbe forse avergli posto addosso gli
occhi per servirsene in qualche maneggio, e allora non mi converrebbe
screditarlo; potrebbe volergliene per qualche puntiglio, e allora non mi
converrebbe pigliar le parti di fra Cristoforo prima di saper bene di che si
tratta, e fino a che punto lo potrò sostenere. In ogni caso prima di
farmi cantare, dovrà cantare egli più chiaro.
—
Fatte rapidamente queste riflessioni, il Padre rispose: «Se V.E. vuol
compiacersi di dirmi più chiaramente perché le preme il Padre
Cristoforo, spero di poterle dare tutte le cognizioni che posso averne io
medesimo».
—
Sempre politico il Padre Provinciale, — disse in suo cuore, il Conte. — Eh
già gli sanno cavare dal mazzo. — E tosto rispose ad alta voce:
«Ecco
il fatto, Padre molto reverendo. Questo padre Cristoforo non le ha dato
più volte da pensare per cavarlo da impegni in cui s'era posto per poca
prudenza, e per voglia di accattar brighe? Dica liberamente, non è un
cervello un po' caldo?»
—
Ho inteso, — disse fra sè, il Padre — è un impegno: Benedetto
Cristoforo! ma bisognerà sostenerlo. — E rivolgendosi al Conte rispose,
indirettamente al solito:
«Liberamente,
com'Ella desidera le dirò che il nostro Padre Cristoforo, l'ho sempre
conosciuto per buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi doveri di
cappuccino irreprensibile».
—
Ah! Ah! — disse ancora fra sè il Conte — bisogna dunque tirarti con gli
argani! — E con le labbra disse al Padre: «Ella sa pure che siamo amici, e fra
noi non si deve parlare politicamente. Io sono informato molto bene che questo
religioso è un po' inquieto, ama di comprarsi le quistioni, e di cozzare
con le persone di qualità. Cose che non vanno bene, non vanno bene,
Padre molto reverendo: Ella conosce il mondo, e m'insegnerà che queste
cose non vanno bene».
—
È tutta mia colpa, — disse sempre in soliloquio il Padre; — doveva
pensare che quel benedetto Cristoforo con quel suo fuoco mi avrebbe strascinato
in qualche impiccio: lo sapeva che era un uomo da far girare di pulpito in
pulpito, e da non lasciar mai quieto per tre mesi in un convento vicino a case
di signori. Ma vediamo in che stato è la cosa, e come si può
rimediare. — E per pigliar tempo, rispose al Conte:
«Se
Vostra Eccellenza è informata di qualche mancamento di questo padre, Le
sarò grato di farmene partecipe, acciò ch'io possa mettervi
rimedio».
«Pensieri
degni della sua prudenza, padre molto reverendo: principiis obsta. Ecco
il fatto, senza andirivieni. Questo religioso ha preso a cozzare con mio
nipote, e la cosa potrebbe farsi più seria. Senza parlare di me, che ho
troppa venerazione per Vostra paternità e per tutta la compagnia, per
fare nulla senza sua intelligenza in questo proposito; mio nipote ha molte
aderenze. Quand'anche io non me ne volessi impacciare, i parenti di padre e di
madre... sono persone... sono famiglie...»
«Cospicue»
disse il padre.
«E
accreditate», continuò il Conte: «e mio nipote ha il sangue caldo. Io le
parlo da buon amico. Mio nipote è giovane, e questo religioso, da quel
che sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi diede un'occhiata
per lasciar supporre al padre che vi erano notate di gran cose, e
continuò con un'aria misteriosa: «questo religioso ha ancora tutte le
inclinazioni della gioventù. I giovani non hanno giudizio, e tocca a noi
che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh?...»
«Eh!
pur troppo», disse il padre.
Chi
fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel momento una
mutazione curiosa nel volto dei due personaggi, che per la prima volta prendeva
l'espressione d'un sentimento sincero: qui non avea luogo la politica, e il
cuore parlava.
«Ella
è così, padre», continuò il Conte. «Tocca dunque a noi il
rappezzare gli sdruciti che i giovani fanno».
«Tra
me e lei (così disse il signor Conte) tra me e lei si potrà sopir
l'affare».
Queste
parole furono molto gradite al Provinciale. È vero, ed ognuno lo sa, che
a quei tempi i membri d'una congregazione religiosa erano affatto indipendenti
da ogni podestà secolare, e non avevano quindi nulla a temere da essa. E
quando questa si trovava in collisione con alcuno di loro, e voleva prescrivere
qualche cosa, la più forte, la sola minaccia che usasse e che potesse
usare si era che avrebbe richiesto al papa che i renitenti, quelli che avessero
contrafatto agli ordini fossono mandati fuori dello stato come diffidenti di
S.M.; il che si può vedere nelle gride contra gli omicidi, banditi, i bravi,
dove questa minaccia è fatta ai regolari che gli ricoveravano, e
ponendoli così in luogo d'asilo gli involavano dalle mani della forza
secolare. In un'epoca posteriore fu pensato al modo di render più forte
questa minaccia, e di estendere la pena; e questo sforzo merita d'esser
ricordato e come un attestato insigne della impotenza della forza civile a
raggiungere gli ecclesiastici, e come un esempio notabile di stolta e feroce
iniquità. L'onore di questo trovato appartiene al Signor Don Luigi de
Revavides, Marchese di Fromista e Caracena Conte di Pinto. Estese egli questa
minaccia d'esser trattati come diffidenti di S.M. anche ai parenti più
prossimi di quegli ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed
immuni certi banditi. 23 Agosto 1651, ed altre. Ma i modi di nuocere non erano
quegli soli che le grida prescrivevano, e la inimicizia di un uomo, e di una
famiglia potente era un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di disturbi. Il
Provinciale si trovò dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir
l'affare; non si trattava più che del modo di farlo, con la convenienza
delle due parti. E siccome la cosa non aveva fatto grande scandalo, e si
trattava più d'antivenire che di riparare, così la cosa non era
difficile. Dopo che i due sorboni ebbero ancora molto interrogato, poco
risposto, mercanteggiato, e giuocato di scherma, il Padre Provinciale disse al
Conte che per considerazione della persona di Lui, per amor della pace egli
trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in un altro lontano, con la
condizione che nessuno si vantasse di questo come d'una vittoria: e il Conte lo
promise; l'affare fu conchiuso, e i due contraenti si separarono contenti l'uno
dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.
Gran
cura ponevano quei vecchj pensatori in un negozio, di gran parole spendevano,
ci pensavano assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo conveniente;
ma bisogna anche confessare che facevano poi cose grandi. In fatti questo
abboccamento produsse l'effetto di fare trottare il nostro povero Padre
Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio.
Fu
dunque spedita al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e
con l'obbedienza l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della strada da
farsi per non toccare Milano, e l'avviso di dargli un compagno nella missione,
che nello stesso tempo osservasse tutte le sue azioni. Mentre il nostro povero
Frate pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo
chiamò a sè, e con molta consolazione gl'intimò l'obbedienza,
gli comandò di prendere il suo bordone, gli presentò il compagno
che era già avvertito, e gli disse «vade in pace». Cristoforo non
pensò nemmeno a domandare un rispitto che era certo di non ottenere:
pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto si accusò di
aver mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa;
alzò gli occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla
provvidenza; salutò umilmente il guardiano, prese la sua sporta, si
cinse le reni con una correggia di pelle come usavano i cappuccini viaggiatori,
disse una parola cortese al padre compagno, uscì del convento, e si pose
su la via che gli era stata prescritta.
CAPITOLO IX
Quando
Egidio si avvenne nella nostra povera Agnese, andava appunto fantasticando sul
modo di soddisfare al più presto ai desiderj del suo degno amico, e di
dargli con la prontezza del servizio una prova di audacia e di destrezza
singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa Agnese gli si
gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento. Come staccare da essa
Lucia che le stava sempre appiccata alla gonnella? Rapire Lucia quando fosse in
compagnia della madre era esporsi ad un vero scandalo: la resistenza che la
madre avrebbe tentato di opporre poteva render necessaria qualche violenza che
avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe fatto perder tempo,
forse sfuggire l'opportunità; le sue grida potevano attirare dei
guastamestieri, o almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo in Monza
avrebbe sclamato, ricorso, parlato e fatto parlare. Al contrario quando Lucia
non avesse in paese persona a cui calesse di lei particolarmente, i discorsi
sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura
quella spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire.
Si andava dunque Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata
da Monza, ma non sapendo quando ciò fosse per accadere, si rodeva di
dover rimettere ad un tempo non ben determinato l'impresa e l'onore dell'impresa.
Ma alla vista di Agnese che tornava a casa, Egidio si sentì libero d'una
grande incertezza, risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a
Monza, e continuò a maturare il suo disegno: i suoi pensieri camminavano
più spediti, e per mettere del paro ad essi il suo cavallo gli diede una
voce ed un colpo di sprone, dicendo ai seguaci a piedi che erano obbligati di
trottare un po' affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata è
bella». Giunto a Monza, entrato in casa, scavalcato, deposte le armi più
gravi e più lunghe, egli corse tosto per la via da lui solo conosciuta
alla porta abominevole che egli aveva aperta nel solajo, entrò con le
solite precauzioni nel solajo dell'abitazione vicina, fece i soliti segni, la
signora che stava sull'avviso, intese, avvertì le sue complici; le quali
andarono a chiudere le porte del quartiere che comunicavano col chiostro, e la
sciagurata corse incontro ad Egidio tutta ansiosa.
«Sia
lodato il cielo» diss'ella «che vi riveggo! Oh che giorni ho passati! e che
notti! Che paura ho avuta questa volta!» e mentre ella parlava una specie di
consolazione angosciosa, e di rincoramento agitato dipingevano sulle sue guance
come due pezze di rossore che contrastavano tristamente col pallore di tutta la
faccia.
«Le
solite sciocchezze?» disse Egidio con impazienza.
«Oh!
sciocchezze! So io quel che soffro; e fossero anche sciocchezze, a chi tocca
aver compassione di me? Mai mai, non avete voluto compiacermi. Se provaste
un'ora quello ch'io sento tutto il giorno! tutta la notte! Non posso
più, non posso più vivere con colei così vicina. Qua
giù, qua sotto, a pochi passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci
siete...! l'ho veduta sempre, sempre: l'ho veduta smuovere a poco a poco il
mucchio di sassi, e poi metter fuori il capo, e poi venir su... avrei gridato
se non avessi temuto di far correre tutto il monastero... e poi entrare qua
dentro per questo pertugio, senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui...
quello sgabello son ben sicura d'averlo bruciato: e pure quando colei arriva,
si trova sempre a quel posto, ed ella vi si adagia, e non vuol partire. Mi pare
che se fosse lontana dove io non sapessi, non potrebbe venire così a
tormentarmi».
«Donne
indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le accoglienze gioconde
che mi fate».
«Non
andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho io? a chi mi posso
confidare?» e continuò con voce più sommessa, «quelle altre non
mi consoleranno, vedete, se racconterò loro che siete in collera con me,
state in pace, e fatemi questo piacere una volta. Voi sapete far tante cose!
Non sarete più contento, quando mi vedrete tranquilla?»
«Ma
sono queste cose da pensare, e da dire?» rispose Egidio. «È un affare
finito, che non dà più impaccio, e volerne andare a cercare uno
di questa sorta? perché? per una pazzia? Che volete ch'io faccia? Ch'io desti
il cane addormentato? Senza una ragione al mondo? come l'ho da portare? dove?»
«Scendete
una notte solo», disse Geltrude, «già voi non avete paura, — fortunati
gli uomini! — prendetela portatela al fiume, gittatela in un pozzo
abbandonato...»
«Bel
divertimento! bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di rabbia e di
scherno «bella commissione che mi date! Pazzie! E tutto per tirar fuori quello
che è ben nascosto! Savio disegno! Sapete voi dirmi un luogo dove possa
star più nascosta che ora non è?»
«È
vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che fare d'un morto!»
«Che
farne?» rispose Egidio, «niente: sta bene dov'è. Dimenticatela, pensate
quello che pensano tutte le vostre suore: è andata alle Indie su una
nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo credono tutti...»
«Ma
non è vero», rispose Geltrude.
«Che
fa questo?» disse bruscamente Egidio.
«Fa
tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io
prima... credeva che purché lo sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non
fosse avvenuta, ma ora...»
«Ora
è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio.
«Oh
ecco come son trattata!» disse con accoramento Geltrude; «mi strapazzate perché
patisco; siete voi quello che mi strapazzate, voi... Che colpa ho io se sono
una poveretta? Vorrei anch'io non curarmi di nulla, esser come voi... voi siete
un uomo, voi mi date animo... ma no no... voi avete troppo coraggio, troppa
presenza di spirito... mi fate quasi... paura... penso... penso che se... mi
odiaste... ah i morti non vi danno travaglio!»
«Che
pazzie! che pazzie!» disse Egidio con istizza sempre crescente.
«Ebbene»,
disse Geltrude in tuono supplichevole, «compiacetemi, levatemi questa spina del
cuore, allontanate colei da questa abitazione; voi vedete ch'io non posso
allontanarmi io».
«Via»,
rispose Egidio, fingendo di acconsentire alla domanda «vi compiacerò;
è un impiccio, è un fastidio, è un pericolo, ma per voi lo
farò».
«Oh
davvero!» disse Geltrude, «non lo dite per acquetarmi, come avete fatto altre
volte... vi ricordate?... promettetelo da vero».
«Possa
essere...!»
«Non
giurate, per amor del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata; «non fate
imprecazioni, perché noi siamo in uno stato che una picciola parola può
bastare... potrebb'essere intesa ed esaudita in quel momento che la
proferiamo».
«Via
ve lo prometto da uomo onorato», rispose Egidio, affettando
tranquillità: «ve lo prometto; e non se ne parli più. Ho bisogno
anch'io che voi mi compiacciate in un affare d'importanza; e non mi si deve
dire di no, non si deve opporre nemmeno un dubbio».
«Che
posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella
villanotta che v'è stata data in guardia», rispose Egidio, «quella
Lucia...»
«Ebbene?...»
«Ho
promesso di consegnarla ad un amico al quale non voglio né posso rifiutar
nulla; e voi dovete darmi ajuto a liberarmi dalla mia parola».
A
questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza, le presse al
petto, si strinse tutta, levò al cielo uno sguardo nel quale brillava
momentaneamente un raggio dell'antica innocenza, e con voce supplichevole e
commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più
per pietà. Chi sa che quel che abbiamo fatto non possa ancora essere
perdonato? V'era, una scusa, ma qui non ve n'è. Perché fare ancora delle
cose, che si vorranno dimenticare e non si potrà? Non ne abbiamo
abbastanza?»
«Ah!
ah!» rispose Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi
nascono gli scrupoli eh! Più conto fate d'una villana, che conoscete
appena da otto o dieci giorni che di me. Questa è quella che voi amate».
«Io
amarla!» rispose Geltrude, «io colei! non la posso soffrire, è una
superba, non fa che parlare della sua innocenza, e quando ne parla mi guarda
con certi occhi come se sapesse qualche cosa, e fingendo rispetto volesse
insultarmi. L'ho accolta, sapete, perché bisogna nel nostro stato farsi
più amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per
carità, questa lasciatemela, mi diventerà cara, e quando un altro
pensiero verrà a tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei,
e dirò fra di me: — ecco, anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed
è qui».
«Pazzie,
pazzie», disse Egidio: «parlate come una bambina sciocca. Lasciate che sul
principio si lamenti e un giorno poi riderà dei suoi terrori, e
sarà contenta».
«No,
non sarà contenta», rispose Geltrude con la rapida risoluzione di chi ha
il vivo sentimento che le parole che ha udite sono menzogne.
«Va
bene, va bene», disse Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte
diabolicamente affettato: «non ne facciamo più: e già vedo che
non possiamo andar d'accordo: è tempo perduto con voi: siamo troppo
differenti nel pensare: ma a tutto si può rimediare; i mattoni son
lì tutti come contati; e ad ogni volta mi dò la briga di riporli
al loro posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro sta come
prima, tutto è finito».
«No,
no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete ch'io faccia?»
«È
vero», continuò l'uomo abbominevole, come se persistesse nel suo
proposito, «è vero che vi sono anche quelle altre...»
«Zitto,
zitto per pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi
diventare il ludibrio di quelle...»
«Quelle,
quelle» riprese Egidio «saranno certamente più pronte a rendermi un
servizio».
«Dite,
dite, che volete ch'io faccia?»
«Chiamatele»,
rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il mezzo di condurre a capo
questa grande impresa».
«Dite...»
«Chiamatele,
dico», riprese Egidio, e Geltrude strascinata ancora una volta un passo
più innanzi nella via della perversità, avvezza ad ubbidire,
ubbidì e andò a chiamare le sue complici. Egidio sapeva quello
che aveva detto; e quelle due sciagurate erano in fatti più tranquillamente
e più risolutamente perverse di Geltrude. Geltrude dei loro discorsi,
del loro contegno sentiva talvolta orrore, disprezzo, ne riceveva una specie di
scandalo; ma questi sentimenti ricadevano terribilmente su la sua coscienza,
perché ad ogni volta Geltrude era costretta a ricordarsi che dessa era quella,
che aveva fatti far loro i primi passi nel cammino dove ora la precorrevano.
Non parlo che di questi sentimenti, perché gli altri tutti orribili e tutti
fastidiosi che dovevano nascere in quegli animi in quella situazione non sono
da descriversi: basti dire che con tante cagioni di vicendevole ripugnanza una
sola cosa le teneva unite, la partecipazione d'un sangue, l'avere una sola
coscienza: vivevano insieme come lo sbigottimento e l'audacia, il desiderio di
rimpiattarsi e il desiderio di assalire, il rimorso e il delitto vivono insieme
nell'anima d'un masnadiero.
Rivisitate
accuratamente le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi che fossero ben
chiusi, le tre sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo più rimoto
del quartiere dove Egidio le stava aspettando. L'orrendo concilio fu ragunato:
le sciagurate aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio avesse a
propor loro, e nello stesso tempo stavano col capo levato all'indietro
origliando se un qualche romore si sentisse, se qualche suora venisse a
bussare, per accorrer tosto, per intrattenerla con qualche pretesto prima di
aprire, e dar così tempo ad Egidio di sparire senza lasciare alcun
sospetto. Egidio espose loro in due parole il suo desiderio: ch'egli aveva bisogno
di tenere Lucia per servire un suo caro amico, che esse dovevano dargli ajuto,
che la cosa doveva esser fatta presto e in modo che il sospetto non cadesse né
sovra di esse né sovra di lui.
In
una brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi, ognuno
diventa più onesto, il sentimento comune rinforza quello d'ogni
individuo che parli, le parole d'ognuno divengono più rigide, più
degne, più scrupolose, suppongono sempre un convincimento profondo della
persuasione della virtù; e così pur troppo, in una brigata di
tristi, ognuno diventa più tristo, perché chi ragiona dinanzi ad un
uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente parlando, non teme nulla
più che di stonare dagli altri. Geltrude che alla prima proposta di quel
fatto, ne aveva conceputo tanto orrore, risoluta ora di obbedire allo spirito
infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri mostrasse più
ardore, più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude
avvezza ad essere strascinata, e a far sempre qualche cosa di più di
ciò che sul principio aveva ricusato di fare, rispose tosto che pigliava
essa l'impegno, che ne aveva i mezzi più di chicchessia. Le altre triste
protestarono tosto che esse erano pronte a secondarla in tutto. Egidio le
chiese se essa avrebbe saputo far andare Lucia sola in una strada solitaria.
«Domani», rispose Geltrude. «Domani è troppo presto», disse Egidio; «la
rete non potrà esser tesa che dopo domani». «Dopo domani», rispose
ancora Geltrude. La congrega si sciolse, ed Egidio corse tosto a spedire un
messo al Conte del Sagrato, per chiedergli i bravi dei quali avevano convenuto.
Il messo partì nella notte stessa, giunse all'alba al castello; il Conte
diede tosto gli ordini ai bravi che dovevano andare all'impresa: impose loro di
obbedire ad Egidio, e di non nominarlo, di aspettare i suoi comandi, e di non
andare a casa sua né di cercarlo in alcun luogo, e i bravi scesero all'Adda, e
s'imbarcarono. Nello stesso tempo spedì egli una carrozza leggiera da
viaggio con un cocchiere quale conveniva a tal signore; gli ordinò di
farsi tragittare su un altro punto del fiume, di non mostrare di avere alcuna
relazione con quegli altri amici che partivano, di appostarsi vicino a Monza
nel luogo che era indicato nella lettera di Egidio, e di aspettare pure gli
ordini di questo.
Quanto
alle ciarle da spargersi per via e alle fermate, onde far stornare dal vero le
congetture dei curiosi, il Conte ne lasciò l'invenzione alla prudenza,
ed alla sagacità dei suoi uomini; perché gli aveva scelti tra i
più provati, e più destri, e tali che sapessero conformare la
condotta e i discorsi alle circostanze che egli non poteva prevedere.
Contemporaneamente, a paro per un'altra via il messo di Egidio tornò al
suo padrone, e gli portò la risposta nella quale il Conte, con un gergo
da loro soli inteso lo avvertiva di ciò ch'egli aveva ordinato. Egidio,
lasciato riposare il messo, lo rispedì alle poste dov'erano giunti gli
uomini del Conte, e li fece istruire di ciò che avevano a fare. Tutta
quella giornata fu spesa in preparativi. Il giorno appresso (la nostra storia
lo registra, ed era il ventuno di novembre) Egidio diede avviso a Geltrude che
tutto era in pronto, e ch'ella dovesse mantenere la sua parola, operar tosto
secondo le istruzioni ch'egli le aveva date.
Geltrude
scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare Lucia. La nostra poveretta
innocente corse volonterosa alla chiamata. Dopo la partenza della madre,
rimasta come smarrita, senza consiglio, senz'altro appoggio che quello della
Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso di lei. Ben è vero
che quel non so che d'inusitato e di strano ch'ella aveva trovato nei discorsi
e nel contegno di essa gli aveva lasciata una impressione d'incertezza e quasi
di timore, ma ella era tanto lontana dal sospettar pure le vere cagioni di
quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre l'avevano rassicurata; e
Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori erano molto
differenti dai poverelli. Si presentò ella dunque a Geltrude con quell'aria
di fiducia affettuosa, con quella gioja riconoscente, che il debole sente alla
presenza del forte che è per lui; le andò incontro, come la
pecora va incontro al pastore che le si avvicina, che allontana le altre e
stende la mano per accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato
fuori del pecorile il beccajo a cui l'ha venduta in quel momento.
La
festa ingenua di Lucia, e la sua aria fiduciale era un rimprovero e una
distrazione terribile per la Signora, la quale tosto interruppe alcune semplici
parole di affetto e di riconoscenza che l'innocente tutta peritosa aveva
incominciate, protestò di non voler ringraziamenti, e postasi in aria di
premura e di mistero le annunziò che l'aveva fatta chiamare per
comunicarle cose molto importanti. Lucia si fece tutta attenta, e Geltrude
ripetendo la lezione del suo infernale maestro cominciò ad
impastocchiarla con una storia misteriosa, di pericoli, e di speranze, di mezzi
posti in opera da lei, di ostacoli, di ajuti, tutto per liberare Lucia dalla
persecuzione di Don Rodrigo, e per farla essere tranquillamente sposa di Fermo:
accennando molto di più che non dicesse, e allegando motivi di prudenza
per non dir tutto, ripetendo ad ogni momento che un po' di coraggio e molta
precauzione poteva tutto salvare, e una picciola indiscrezione perder tutto;
che l'occasione era pronta, e per coglierla non bisognava perder tempo; e
terminò con dire che le bisognava in quel momento un uomo da cui potesse
aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto operoso, che il solo uomo del mondo
che fosse da ciò era quel padre guardiano dal quale Lucia era stata
scorta al monastero; che ella aveva bisogno di parlare con lui ma che le
mancava il mezzo di farlo avvertire con sicurezza, giacché dopo d'aver riandate
tutte le persone, tutti i modi per questa spedizione, trovava in tutti il
pericolo di farsi scorgere, di sventare il segreto, di metter sull'avviso
quelli a cui importava il più di tener tutto nascosto, e di perdere
così l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che insomma
per condurre bene a fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse un
po' di risoluzione, si snighittisse, e facesse tosto, e segretamente e sola
questa commissione. Lucia a questa proposta rimase sopra di sè, poiché
allontanarsi dal monastero, andarsene soletta per un paese che era per lei come
l'America, era un gran pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando
non si vorrebbe aderire ad una proposta: si mise a discuterla, per poter
conchiudere che non era la sola cosa da potersi fare: disse che la Signora
avrebbe potuto trovare altre persone fidate e discrete, domandò
schiarimenti, volle sapere più addentro come la commissione fosse
necessaria, e come essa fosse la sola che la potesse eseguire. Ma la Signora
memore sempre della scuola di Egidio, mostrò prima di offendersi,
rispose ancor più misteriosamente alle domande, lagnandosi di Lucia che
pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non poteva, e che non volesse
fidarsi di chi senza un interesse, per pura pietà si prendeva tanta cura
di lei; e conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io la buona donna a
pigliarmi di questi travagli: si tratta di voi, finalmente; io me ne lavo le
mani: ho fatto ancora più ch'io non dovessi». Lucia commossa in un punto
di vergogna e di timore, stava per piangere; e la signora vedendola arrivata a
quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più
amorevolmente, la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le
sarebbe mai mancata se ella avesse avuta fede in lei; e infervorata com'era
nell'impresa di tradire la poveretta per servire lo scellerato Egidio, con
ipocrisia sfrontata le disse che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un
giorno a se stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il
mezzo della salute, e rovinata se stessa, la madre, e l'uomo a cui ella s'era
promessa. Lucia non seppe più resistere, si accusò di aver
resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando
quello che le era offerto, piena di una novella fiducia disse: «vado tosto».
Geltrude l'accomiatò, lodandola, facendole animo, e ripetendo le
più liete promesse e indicandole la via per andare al convento. Lucia
ritenendo a forza il pianto chiese scusa alla Signora della sua poca fede, e
della sua ingratitudine. «Sono una poveretta senza pratica», diss'ella; «ma
già ella tutte queste brighe non se le deve pigliar per me, ma per
Quello di lassù, che gliele rimeriterà tutte», e abbandonandosi
alla grata, colle braccia tese, continuò: «se non fossero questi ferri,
mi pare che le getterei le braccia al collo, ed ella non se lo avrebbe a male,
perché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore».
«Sì
sì, Lucia, addio, addio», disse Geltrude.
«Dio
la benedica» rispose Lucia, e staccatasi dalla grata, si volse, e si
avviò verso la porta del parlatorio.
—
Che orrenda parola! — disse in suo cuore Geltrude: Dio gliele
rimeriterà tutte, e alzando gli occhi vide Lucia, che stava per
passare la soglia. Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni di
Geltrude, questa, impegnata ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla
disputa stessa non aveva pensato ad altro che a giungere al suo fine, ma quando
vide il cangiamento di Lucia, quando vide la sua fede sicura, intera, amorosa,
e pensò che la tradiva, quando vide la vittima andare così senza
sospetto all'orribile sagrificio, un sentimento improvviso, indistinto,
irresistibile le fece pronunziare quasi macchinalmente queste parole: «Sentite
Lucia». Lucia ristette, si rivolse, ritornò alla grata. Ma, nel momento
che Lucia spese a fare quei pochi passi, l'immaginazione di Geltrude aveva
già veduto Egidio furibondo per essere stato ingannato, aveva già
udite le sue imprecazioni, le sue minacce, s'era già pentita del suo
pentimento, e quando Lucia ristette alla grata per intendere ciò che
Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude confermata nella iniquità:
«senti Lucia», le disse, «ricordati bene di tutte le avvertenze che ti ho date;
procura di tirarti in mente la strada che tu hai fatta venendo qui; se fossi in
dubbio, domanda con indifferenza e con franchezza a qualche buona donna che
passi per via; va in modo di non dar sospetto: fatti animo, ché già non
è il viaggio di Madrid: va e torna presto».
«Oh»,
disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse di nuovo, s'avviò
verso la porta, e passò la soglia. Geltrude corse a chiudersi nella sua
stanza. Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il resto del
manoscritto ne fa più menzione. Noi però, trovando descritti dal
Ripamonti gli ultimi casi di questa sventurata, stimiamo che monti il pregio
d'interrompere un momento la narrazione principale, per accennarli. Ci sembra
anzi una specie di dovere per noi, quando abbiamo raccontati i delitti, di non
tacere il pentimento, di non tacere che l'orrore a noi così facilmente
ispirato da quelli, la religione ha potuto ispirarlo ancor più forte e
più profondo all'anima stessa, che gli aveva acconsentiti e commessi.
Riferiremo quei casi in compendio; chi volesse conoscerli più in
particolare, li troverà esposti in bel latino nella Storia patria
del Ripamonti, al libro sesto della quinta decade. Siccome egli non vi pone
alcuna data, così non possiam dire di quanto sieno posteriori alle cose
già da noi narrate.
La
condotta, il linguaggio, l'aspetto abituale delle tre sciagurate suore, le loro
stesse precauzioni, per distornare i sospetti, ne fecero, com'era naturale,
nascere dei nuovi, che dopo d'aver serpeggiato nel monastero, si diffusero al
di fuori. Due vicini di quello che ebbero la sciagura di ricevere qualche prima
confidenza di quei sospetti, un fabbro ed uno speziale, accennarono
copertamente in qualche discorso, che in un monastero del paese accadevano cose
orrende e turpi: l'uno e l'altro furono trovati uccisi. Un terrore misterioso
invase tutti gli animi nel monastero e fuori; ai susurri che già
cominciavano a farsi sentire nelle brigate, successe un silenzio cupo e
significante, e nelle relazioni più intime, gli sguardi, i cenni, le
parole sospese esprimevano o accennavano un sospetto e uno spavento comune.
Questi romori così vaghi e generali com'erano, furono riferiti al
cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano. Egli dolente e turbato
d'essere così tardi avvertito, si portò a Monza sotto colore
d'una visita generale, e venne a colloquio colla Signora, per esplorare dalle
sue parole lo stato dell'animo suo; e ne uscì con più grave e
più fondato sospetto. D'allora in poi, la Signora, irritata dai sospetti
che vedeva starle sopra, agitata dalle certezze della coscienza; esaltata per
così dire dal suo stesso turbamento, perdè tutta la prudenza
della colpa, le sue azioni divennero affatto indisciplinate, i suoi discorsi
strani, furiosi, inverecondi. La giurisdizione criminale su le persone addette
allo stato religioso era allora esercitata dai vescovi. Il cardinale fece torre
la Signora da quel monastero, e trasportarla in un convento di convertite nella
città. Ivi l'infelice infuriò per qualche tempo: tentò di
fuggire, tentò di uccidersi, ricusò il cibo, diede del capo nelle
muraglie; urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale:
contra il quale tale era l'odio di lei, ch'ella ebbe a dir poscia che tutte le
inimicizie che gli uomini chiamano mortali, erano un giuoco appo di quella
ch'ella sentiva per lui.
Intanto
lo scellerato vicino ripose il piede nel monastero, e parte colla persuasione,
parte colle minacce astrinse le altre due sue vittime a seguirlo, e di notte
con esse fuggì. Ma, o fosse disegno premeditato di quell'animo atroce, o
ebbrezza di scelleraggine, poco distante dal paese, in riva al Lambro, una dopo
l'altra le trafisse con un pugnale, gittando l'una nel Lambro, e l'altra in un
pozzo rasciutto ed abbandonato nei campi. Ma le ferite non furono mortali, ed
entrambe le donne furono salve per diversi eventi e rinvenute, e riposte a
guarire in un altro monastero del borgo.
La
Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si
mutò; rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore
ineffabile, in lagrime inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel
momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno
ciò che non poteva più riparare. Il Cardinale ch'ella
chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch'ella
esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò
sovente. Pagò egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i
parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi da
dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne
parlare. Le due compagne la imitarono nella penitenza. Ma il miserabile
pervertitore di tutte, bandito nella testa, dopo d'avere errato qua e
là, cangiato più volte d'abiti, e di nome, chiese asilo in
città ad un amico, che lo accolse; ma come amico d'un tale uomo, o per
timore, o per ottener grazia di qualche altro delitto, lo fece uccidere in un
sotterraneo della casa, e presentò la sua testa al giudice, come era
prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso dei banditi
costituivano carnefice ogni cittadino, e offerivano o danari, o impunità
per altri delitti in mercede all'assassinio.
---------
Lucia
uscì nella via, e s'incamminò con grande attenzione, con gran
riserbo, con un gran battito al cuore, tutta raccolta in sè, studiando
la strada, con le indicazioni che aveva avute, e con la memoria che le restava
della strada già fatta. Giunse così all'uscita del borgo (perché
il convento dov'ella s'avviava era al di fuori in picciola distanza): riconobbe
la porta per dov'era entrata la prima volta, e prese a sinistra la via che
l'era stata insegnata.
Tutte
le strade del Milanese erano a quel tempo anguste tortuose, e nel pian paese
profonde e come quivi si dice invallate, a guisa di un letto di fiume, fra due
rive di campi alte non di rado un uomo, e orlate di piante che intrecciate al
pedale di rovi, di biancospini, e di pruni riunivano in alto i rami loro in
volta dall'una all'altra parte: e tali sono ancora in gran parte le strade
comunali. Quando Lucia si trovò soletta in una strada simile, si
pentì quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo per
giunger presto, proponendo fermamente di non ritornar dal convento a casa senza
una qualche scorta. Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una carrozza
da viaggio ferma nel mezzo della via, e fuori della carrozza innanzi allo
sportello che era aperto due uomini che guardavano su e giù per la via
come incerti del cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali
vanno in carrozza sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e
le parve d'aver trovata una salvaguardia alla metà appunto del cammino,
nel luogo più lontano dall'abitato, e dove il bisogno era più
grande.
Continuò
adunque più animosamente a camminare; e quando fu presso alla carrozza
tanto che si potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che stavano
al di fuori dire con una pronunzia e con un linguaggio che lo fece conoscere a
Lucia per bergamasco: «Ecco una buona donna che c'insegnerà la strada».
Giunta a paro della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto più
cortese che non fosse la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste voi
insegnarci la strada di Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto
dinanzi a Lucia in modo da sbarrarle la via, ma come un uomo che sta per udire:
«Loro signori», rispose Lucia, «sono voltati a rovescio: Monza è per di
qua» (alzando la mano e stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino
la carrozza, e vadano per questa strada, e saranno a Monza in poco più
d'un miserere». Così detto, voleva continuare il suo cammino, e
s'avvicinava alla riva per passare senza urtare quel forastiero che stava
lì ritto come un termine, e senza dirgli che facesse largo, cosa che
alla nostra povera forese sarebbe sembrata troppo famigliare. «Un momento»,
disse colui che le aveva già parlato, ritenendola dolcemente: «noi siamo
ben impacciati in queste strade dell'altro mondo: non potreste voi farci la
cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci la strada fino a Monza?»
«Signori
miei», disse Lucia arrossando, e maravigliandosi della proposta, «io ho fretta
d'andare pei fatti miei; vadano per di qua, e non possono fallire». «Voi siete
bene schifa», rispose il malandrino, e mentre egli proferiva queste poche
parole, l'altro che era nella via, afferrò d'improvviso Lucia pei
fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza nella
carrozza, dove fu tosto presa, ritenuta, posta a sedere da due che vi erano: il
malandrino che aveva parlato la seguì, l'altro chiuse lo sportello, e il
cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo. Lucia
al sentirsi presa levò un grido, lo raddoppiò quando si
sentì alzata e ficcata nella carrozza, ma quando vi fu, una manaccia
villana le cacciò un fazzoletto sulla bocca, e le soffocò il
grido nella gola: Lucia si divincolava ma era tenuta da tutte le parti, faceva
forza per pingersi verso lo sportello, per farsi vedere alla strada, ai campi,
ma due braccia nerborute la tenevano per di dietro come conficcata al fondo
della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano per dinanzi, mentre
tre bocche d'inferno dicevano con la voce più dolce che era lor concesso
di formare: «Zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi male; non
è niente, non è niente». Lucia tra per la sorpresa, tra per lo
terrore che andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti
orrendi che le passavano in furia per la mente, tra per lo sforzo che faceva e
quello che pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue idee si abbujarono,
cominciò a veder come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le
stavano dinanzi, un sudore freddo le coperse il volto, allentò le
braccia, lasciò cadere indietro la testa, abbandonò la persona al
fondo della carrozza, e svenne.
«Coraggio,
coraggio» dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più nulla.
«Diavolo!»
disse uno dei malandrini; «par morta».
«Niente,
niente», disse un altro, «ci vorrebbe un po' d'aceto da mettergli sotto il
naso».
«È
lì covato l'aceto...» disse il terzo: «se potesse servire quel fiasco di
vino che è riposto lì sotto il sedile».
«Che
vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere».
«Vedete
che mala ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi arso di sete in una
osteria disabitata, a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto ci
vorrebbe...»
«Taci
gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo.
«Ohe!»
disse il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero avremmo
fatta una bella spedizione».
«Noi
abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo; «se fosse
accaduta una disgrazia non è nostra colpa».
«Che
morta?» disse il terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto:
eh! le donne ne hanno per meno d'assai: or ora tornerà in sè».
Mentre
quegli sciagurati tenevano questo consiglio, ed esprimevano la loro
inquietudine in uno stile degno del loro animo, la carrozza era uscita dalla
via più battuta, aveva imboccata una stradella di traverso pei campi, e
continuava rapidamente il suo cammino.
Intanto
colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio rimasto nella strada
quando la carrozza partì, si guardò intorno, e certo che nessuno
lo aveva scorto spiccò un salto sul pendio d'una riva, abbrancò
un ramo della siepe, con un altro salto fu sull'alto della riva, e si
appiattò in un polloneto di castagni che conservavano ancora tanto delle
lor foglie da nascondere un birbone. Il primo grido di Lucia era stato inteso
nei campi di qua e di là da pochi lavoratori che v'erano, e questi
accorsero alla riva per guardare nella strada che fosse, ma cercando di
adocchiare nascosti dalla siepe per non entrare in qualche impiccio, per non
toccarne, per non essere citati come testimonj, per non arrischiarsi in somma,
che è il pensiero il più comune nei tempi in cui i violenti fanno
la legge. Mettevano la faccia ai fori della siepe e guatavano: altri vide una
carrozza che si allontanava di galoppo, e stette lì qualche tempo a seguirla
col guardo a bocca aperta; altri non vide nulla e si fermò pure qualche
tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui la carrozza non era
ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca d'arcobugio che
usciva dallo sportello, e si ritirò tosto, fingendo di non aver nemmeno
badato. Tornati poi a casa, raccontarono quello che avevano veduto, e si sparse
la voce che qualche cosa era accaduta. Il bravo d'Egidio quando sentì
tutto quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava
su una via diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità
se ne andò a render conto al padrone dell'esito felice della spedizione.
Egidio lo ricompensò di quattrini e di lodi, e lo mandò tosto
attorno per raccontare la novella nel modo che ad entrambi e ai loro amici
conveniva che fosse creduta, o almeno per confondere il giudizio pubblico e
stornarlo dalle congetture che potevano condurlo alla verità. Il bravo
tolse con sè, senza saperlo, quella dea che ha tanti occhi quante penne,
e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere una bella dea) e si avviò.
Il campo più opportuno ad un tal uomo e ad un tale ufficio, la taverna,
era allora deserto a cagione della carestia che di giorno in giorno cresceva e
si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e bere non era
più per nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per tutti un
bisogno difficile da soddisfare. Andò dunque in su la piazza, luogo
sempre popolato di oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in
cui erano forzati all'ozio anche i più operosi. Quella piazza di Monza
come tutte le piazze, tutte le vie, tutti i campi della Lombardia presentava il
più tristo spettacolo. Poveri di professione che dopo d'avere invano
domandato un soccorso ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila
l'uno appresso dell'altro appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di
tempo in tempo nelle spalle, aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella
destra, e tenendo stretta tra il braccio sinistro e le costole una arida
scodella di legno, aspettando l'ora d'andare a ricevere quel poco nutrimento
che si poteva distribuire alle porte dei conventi, dei monasteri, di qualche
facoltoso caritatevole. Qua e là crocchj di artigiani senza lavoro, di
contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati ma che in
quell'anno sapevano di dover combattere con la fame, tutti tristi, sparuti,
scorati: i più rubesti, i meglio pasciuti che si vedessero erano qualche
bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a cui servivano, e ai quali
nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un pronto
pagamento. I discorsi abituali di quei crocchj erano miseria e disperazione:
vociferazioni contra i fornaj e contra gli accapparratori, imprecazioni
mormorate sommessamente contro i potenti, contra i magistrati, racconti di
grano partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti
in altre terre dello stato. Pochi giorni prima una gran parte del popolo si era
sollevata in Milano; e dopo quel sollevamento estinto con le promesse, e
seppellito coi supplizj, si erano pubblicate leggi quali il popolo le
desiderava. Questo fatto era stato in tutta la Lombardia ed era ancora il
soggetto dei discorsi; e il fatto come le conseguenze era narrato diversamente,
come suole accadere: ognuno arrecava qualche nuova circostanza che dava luogo a
qualche nuova riflessione. Ma in quel momento in Monza l'avvenimento locale
occupava tutti i pensieri, e tutte le bocche: in tutti i crocchj si parlava di
Lucia. Il bravo si avvicinò ad uno di quelli, come uno sfaccendato, e
stette ascoltando. «Erano due carrozze di signori bergamaschi» diceva un
barbassoro, «accompagnate da uomini a cavallo: la giovane si mise a fuggire pel
campo di Martino Stoppa, ma fu raggiunta, e portata via di peso». E continuò
con voce più sommessa in aria misteriosa: «debb'essere qualche gran
tiranno bergamasco». «Io ho inteso da chi l'ha inteso da uno che v'era», disse
un altro, «che le carrozze erano tre, e che la gente le fece fermare; ma quei
signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi capite, i galantuomini hanno
dovuto dar luogo». «Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come le cose si
contano. A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la
giovane era daccordo, che si era trovata lì per andarsene, e che quegli
che l'ha portata via era un suo innamorato». «Oh», disse uno, «se la cosa fosse
così, se ne sarebbe andata senza schiammazzo». «No», rispose il bravo,
«perché aveva promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva
far credere di esser rapita. Così dicono quelli che pretendono d'essere
informati». «Ohe!» disse un altro barbassoro, «che la fosse una mostra per
ingannare i merlotti!» Questa opinione dopo un breve dibattimento prevalse;
perché essendo quella che supponeva nel fatto una malizia più raffinata,
veniva a supporre più fino accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse
rifiutata poteva passare per un semplicione da lasciarsi ingannare alle
più grossolane apparenze di virtù.
Quando
il degno servitore di Egidio vide che la sementa non era gittata in terreno
sterile e che avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo: «Oh
avete il buon tempo voi altri: per me m'accontenterei che sparissero tutte le
giovani purché venissero pagnotte abbastanza». Quegli altri ad uno ad uno se n'andarono
chi qua chi là a riferire la storia; si disputò assai; le
opinioni rimasero divise, ma la più preponderante fu quella che dava
occasione di ragionare profondamente sulle astuzie delle donne che fanno la
semplice, sulla dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta quella mozzina.
Il tiro della povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si riferirono
di lei mille altre astuzie. Il romore giunse ben presto al monastero:
già la fattora tornata a casa, non trovando Lucia, sulle prime pensò
ch'ella fosse andata alla Chiesa del monastero; non vedendola poi ricomparire,
stava per andarne in cerca, quando s'intese che Lucia era stata rapita, o si
era fatta rapire. Il monastero fu sottosopra. La Signora (quando ci siamo
rallegrati di non aver più a parlarne ci era uscito di mente che avremmo
dovuto far qui menzione di essa: ma ce ne sbrigheremo in due parole) la Signora
a tutto addottrinata fece le maraviglie, mandò gente in cerca, non volle
credere che Lucia le avesse fatto un tiro di questa sorta, disse che era pronta
a metter la mano nel fuoco per quella ragazza. Mandò finalmente a
chiamare il padre guardiano che gliel'aveva raccomandata. Ma il padre guardiano
al quale pure erano giunti i diversi romori del fatto era in istrada, per udire
dalla Signora come la faccenda fosse. La Signora si mostrò con lui come
con gli altri tutta maravigliata: disse che sperava ancora che Lucia verrebbe,
che sarebbe una di quelle tante ciarle che mettono attorno gli scioperati. «Se
m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non lo posso credere di quella ragazza. Ad
ogni modo io sono tanto più afflitta di questo tristo accidente, in
quanto io aveva pensato seriamente ad ajutare questa povera giovane, e credeva
di aver trovato ajuti nelle mie aderenze per metterla al sicuro dal suo
persecutore. Aveva anzi molto desiderio di sentire il parere del padre
guardiano, ma ora questi disegni non servono più a nulla».
È
chiaro che la Signora gittò queste poche parole, per potere in caso
spiegare la commissione da lei data a Lucia, se mai questa potesse un giorno
rivelarla; per potere allora far vedere che non era stato un pretesto per
allontanarla, e darla in mano ai rapitori. Ma della commissione la Signora non
ne parlò al guardiano; probabilmente perché non voleva che si dicesse
che Lucia si era posta su quella strada per suo ordine, e ne nascesse qualche
sospetto. Se questa fosse una storia inventata, non mancherebbe certamente
qualche lettore il quale troverebbe un gran difetto di previdenza nella
perfidia ordita da Egidio e dalla Signora, poiché se Lucia avesse un giorno
potuto parlare, se si fosse risaputo che quando fu presa ella andava per ordine
di Geltrude, quanto maggior sospetto non sarebbe caduto sopra di questa, per
avere essa taciuta al guardiano una circostanza tanto importante, della quale
doveva così ben ricordarsi, che non avrebbe certo dissimulata se avesse
operato schiettamente. Quei lettori i quali vorrebbero che in una storia anche
le insidie fossero fatte perfettamente, se la prenderebbero coll'inventore: ma
questa critica non può aver luogo perché noi raccontiamo una storia
quale è avvenuta. Del resto questo stesso difetto ci dà il campo
di porre qui una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo
racconto: che è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice
del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai
tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre qualche traccia
della mano che le ha ordite. L'uomo che intraprende una buona azione, quando
sia un po' avvezzo a riflettere prevede sovente che non sarà senza
inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo buona nelle cose di questo
mondo se dovessero nelle loro birberie essere esenti da ogni
perplessità.
CAPITOLO X
La
carrozza correva tuttavia velocemente, gl'indegni guardiani di Lucia,
consultavano non senza sollecitudine su lo stato di essa, guardandola
fisamente, cercando nel suo volto pallido e immobile le apparenze della vita,
aspettando ansiosamente ch'ella ne desse alcun segno; quando la poveretta
cominciò a rinvenire come da un sonno profondo, diede un sospiro, e
aperse gli occhi. Penò qualche tempo a distinguere i luridi oggetti che
la circondavano, e a raccappezzare le idee già confuse, e incerte che
avevano preceduto il suo deliquio, a confrontarle con le prime, che si
affacciavano alla sua mente ritornata: finalmente a poco a poco riprendendo le
forze riprese tutto il pensiero, e comprese la sua orribile situazione. I
bravi, senza ardire di porle le mani addosso, e guardandola con un certo
rispetto le andavano facendo animo, e ripetendo: «coraggio, non è
niente, non vogliamo farvi male: siamo galantuomini». Il primo uso che fece
Lucia della vita fu di gittarsi con forza verso lo sportello per vedere dove
fosse, se gente passasse, se potesse lanciarsi al di fuori ad ogni pericolo: ma
appena potè scorgere che il luogo ch'ella attraversava rapidamente era
un bosco, che anima vivente non v'era: che le braccia villane che l'avevano
già conficcata la prima volta al fondo della carrozza, ve la
conficcarono di nuovo. Levò ella allora un altro grido, ma la stessa
manaccia tornò in furia con lo stesso fazzoletto, e il padrone di quella
manaccia disse nello stesso momento: «Facciamo i nostri patti: noi non vi
faremo male, non vi toccheremo, ma voi non cercherete né di fuggire né di
gridare: già è inutile, ma pure se voleste tentarlo, noi siamo
qui, amici o nemici, come vorrete».
«Lasciatemi
andare», disse Lucia con voce soffocata dallo sdegno e dallo spavento:
«lasciatemi andare subito, subito: io non son vostra, lasciatemi andare».
«Non
possiamo», rispose il malandrino.
«Dove
mi conducete? dove sono? voglio andare al convento dei cappuccini».
«Ohibò
ohibò», disse sogghignando colui, «che le ragazze non istanno bene coi
cappuccini. Venite con noi di buona voglia».
«No
no», rispose Lucia alzando la voce; ma il fazzoletto fu alzato.
«Lasciatemi
andare per amor di Dio», ripigliò ella con voce più fioca. «Dove
mi conducete?»
«In
casa di galantuomini, vicino a casa vostra», rispose il malandrino.
«No
no», disse ancora Lucia: «lasciatemi andare».
«Ma
se questo è contra i nostri ordini», rispose un altro.
«Chi
vi può dare questi ordini?» domandò Lucia: «ricordatevi della
giustizia, ricordatevi dell'inferno, ricordatevi della morte».
«Pensieri
tristi», replicò quello dal fazzoletto: «voi ci volete far malinconia, e
noi vi conduciamo a stare allegra».
«Santissima
Vergine ajuto!» gridò Lucia, ma il malandrino con volto iracondo le
protestò che s'ella gridava un'altra volta, il fazzoletto sarebbe
rimasto sulla sua bocca fino a ch'ella fosse giunta al luogo destinato. E
sforzandosi d'esser garbato aggiunse: «già siamo vicini: parlerete con
chi può comandare: noi siamo servitori che facciamo il nostro dovere:
è inutile che ci diciate le vostre ragioni».
«Oh
per amore di Dio, della Madonna», riprese Lucia in tuono supplichevole, con
voce interrotta da singulti, e senza pur pensare ad asciugare le lagrime, che
le rigavano tutta la faccia: «per amore di Dio, lasciatemi andare: io sono una
povera creatura, che non vi ha mai fatto male: vi perdono quello che mi avete
fatto, e pregherò Dio per voi: se avete anche voi una figlia, una
moglie, una madre, qualche persona cara a questo mondo, pensate quello che
patirebbero se fossero in questo stato: pensate all'anima vostra; fate una
buona opera che vi può salvare: fatemi questa carità, acciocché
Dio vi usi misericordia, lasciatemi qui».
«Non
possiamo» risposero tutti e tre; commossi alquanto da quel lamento. «Non
possiamo», ripetè il capo; «ma non abbiate paura, fatevi animo; già
non vi conduciamo in un deserto: state tranquilla: se volete parlare noi vi
risponderemo; se volete tacere, noi non parleremo: non temete, nessuno vi
toccherà»; e così dicendo si ristringeva contra la carrozza
lasciando più spazio a Lucia perché stesse meno disagiata, perché non
fosse oppressa da una vicinanza ch'egli stesso sentiva in quel momento quanto
dovesse essere incomoda e ributtante. Gli altri due, si andavano pure
ristringendo dal loro lato, facendo luogo a Lucia, e tenendosi come in distanza,
stornando gli occhi da quel volto accorato, ma fermi nel loro atroce proposito
di eseguire la commissione: come il villanello che a fatica si è
arrampicato all'albero per togliere un uccelletto dal nido, e lo tiene nelle
mani, e lo sente dibattersi e tremare, e sente il cuore della povera bestiola
battere affannosamente contra la palma che lo stringe; prova pure qualche
pietà: allenta le dita alquanto per non affogare la povera bestiola, per
non farle male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no! il
figlio del padrone gli ha chiesto l'uccelletto, gli ha promessa una bella
moneta s'egli sapeva snidarlo e portarglielo vivo. Lucia dopo avere ancora
indarno pregato; «ditemi dove mi conducete», richiese di nuovo.
«In
casa di galantuomini, e non vi possiamo dire altro», rispose quegli che le
stava vicino. Lucia vedendo che le preghiere riuscivano inutili come la
resistenza, e stanca dell'ambascia, e dello stento, incrocicchiò le
braccia sul petto, si strinse nell'angolo della carrozza, in silenzio: e
perduta ogni speranza di soccorso umano, si rivolse a Dio da cui tutto sperava;
e pregò fervidamente da prima col cuore; indi cavato di tasca il rosario
che teneva sempre con sè, cominciò a recitarlo con voce sommessa.
I bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva, e
sospirando tutti il fine di quella spedizione: e Lucia di tempo in tempo
fermandosi nella sua preghiera a Dio, per voltarsi a coloro in forza dei quali
ella si trovava, e ricominciava a supplicarli: ma non udiva rispondersi altro
che: «non possiamo». La sua preghiera era esaudita, ma il momento non era
venuto.
Erano
già due ore che la carrozza correva, sempre per istrade deserte,
attraversando boscaglie, e campi abbandonati alla felce ed alla scopa (una gran
parte del territorio milanese era allora ridotta a quello stato dalle guerre,
dalle gravezze insopportabili, dall'ignoranza, dalla specie di barbarie insomma
in cui erano gli abitanti, e i legislatori). Il sole declinava verso
l'orizzonte quando Lucia sentì un romore continuo sempre crescente, come
di un'acqua rapidamente corrente. Era l'Adda infatti a cui la carrozza si
avvicinava: il bravo che stava sulla serpe accanto al cocchiere urtò col
gomito chiamando quelli di dentro; uno di essi pose la testa fuori dello sportello,
e l'altro gli disse: «il battello c'è». «Ah! bravo» dissero tutti e tre
quei di dentro. Lucia, vedendo che si stava per fare qualche cosa da cui doveva
decidersi il suo destino, ricominciò le sue preghiere, ma il vicino
lieto di essere alla fine della sua incombenza, e di non aver più a
combattere con le istanze di quella infelice, le impose silenzio dicendo:
«Zitto zitto; abbiamo altro in capo che di darvi retta ora: siamo occupati». La
carrozza si fermò presso la riva, quel della serpe fece un segno a cui
fu risposto dal battello, e tosto ne uscirono tre bravi con una vecchia, e si
avviarono verso la carrozza. Lucia strillava, i bravi le comandavano di tacere
replicando: «non abbiate paura, e già tutto è inutile; son tutti
nostri amici». Lucia allora si rannicchiò tutta alla carrozza invocando
la Vergine nel cuore, e proponendo di lasciarsi piuttosto uccidere che di
uscire volontariamente da quel luogo, il quale per quanto orrendo le fosse le
pareva un asilo poiché vi aveva passate due ore, e non sapeva dove, a che
sarebbe strascinata quando ne fosse fuori. Mentre si stava così tutta
rannicchiata, udì chiamarsi da una voce femminile, aperse gli occhi e
vide allo sportello la vecchia rivolta verso di lei. Una donna parve in quel
momento a Lucia un angiolo del paradiso: si sollevò, e con volto
supplichevole, e con una certa fiducia le disse: «Oh brava donna, che fate voi
qui? ajutatemi, se questi sono vostri amici pregateli che mi lascino venire con
voi; salvatemi, salvatemi».
«Scendete
e venite con me», rispose la vecchia; indi rivolta ai bravi raggrinzando la
fronte e scontorcendo la bocca: «Maladetti», disse, «le avete fatto paura?»
«Ma
la vedete sana e salva...?» rispondeva il capo; quando Lucia, chinandosi e
sporgendosi dalla carrozza a prendere con le mani le braccia della vecchia:
«non dite niente», interruppe, «quel che è stato è stato, purché
mi lascino venire con voi».
«Scendete,
venite», disse la vecchia.
«Ma
con voi sola», rispose Lucia.
«Andiamo
andiamo», disse ancora la vecchia, e presa Lucia la strascinava, mentre i bravi
della carrozza l'ajutavano a scendere quasi portandola.
«No
no», disse Lucia.
«Zitto,
zitto», disse la vecchia, «venite colle buone».
«Ma
voi siete d'accordo con questi scellerati», gridava Lucia.
«Zitto
zitto», continuava a dire la vecchia, e così Lucia fu portata al
battello.
Guardò
intorno e non vide altro che la boscaglia la riva e il fiume e il battello;
alzò gli occhi, e vide al di sopra delle cime dei monti la cima tagliata
a sega del Resegone, alle falde del quale era la sua casa, dov'era sua
madre, dove aveva passati i primi suoi anni nella pace; e l'accoramento le
tolse anco la forza di gridare; tutta grondante di lagrime, affannata, quasi
fuor di sè, fu posta a sedere nel battello sotto la tenda: la vecchia le
si pose accanto: il capo di quelli che erano venuti in carrozza saltò
pure nel battello, stette al di fuori coi bravi venuti per acqua; i quali tosto
puntati i remi alla riva ne fecero allontanare il battello, pigliarono l'alto
del fiume, diedero dei remi nell'acqua, e il battello partì. Appena
Lucia ebbe ripreso un po' di fiato, si pose ginocchioni dinanzi la vecchia,
domandandole dov'era condotta, pregandola di farla deporre su qualche riva,
pregandola pei nomi i più temuti ed amati dai cristiani; ma la vecchia
inflessibile, immobile, non rispose altro che «zitto, zitto». Lucia
ricominciò a pregare Colui che ode anche quando non risponde, si
abbandonò alla sua provvidenza. Dopo forse due altre ore di viaggio, il
battello approdò: la notte precipitava, e Lucia sbigottita, tremante,
non sapeva più in che mondo si fosse: fu tolta in questo stato dal
battello, posta in una lettiga, e portata al castello del Conte del Sagrato.
La
vecchia accompagnava la lettiga, entrò insieme in casa, la fece deporre
in una stanza, dove rimase sola con Lucia, dicendo a coloro che l'avevano
portata, che andassero ad avvertire il Signor Conte. Ma il Signor Conte aveva
già intesa dal Tanabuso la relazione del rapimento, del viaggio e
dell'arrivo. «Ebbene», aveva egli detto al Tanabuso, «fatto?»
«Fatto»,
rispose Tanabuso.
«A
dovere?»
«A
dovere».
«Non
c'è stato bisogno di spiegar le unghie?»
«Tutto
è andato quietamente»; e qui fece il Tanabuso la sua narrazione. E
aggiunse: «Tutto è corso a verso, com'ella vede, signor padrone; ma una
sola cosa ci ha dato un po' di disturbo».
«Che
è?» chiese il Conte.
«Quella
ragazza», rispose il Tanabuso... «quella povera ragazza... un tal guaire, un
tal piangere, un tal pregare... restar lì come morta..., guardarci un
po' come diavoli, un po' con gli occhi pietosi... che... che...»
«Che?»
disse il Conte; «sentiamo un po' questa che vuol essere nuova, ribaldonaccio».
«Che
mi ha fatto compassione».
«Ohe!»
disse il Conte, «bisognerà che ti dia doppia mancia per quello che ha
patito il tuo povero cuore».
«Possa
io diventare un birro se non è così», rispose il Tanabuso; «mi ha
fatto compassione. Dico la verità Signor padrone, avrei avuto più
caro che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata, alla lontana, prima
di sentirla discorrere».
«Ora»,
riprese il Conte, «lascia da parte la compassione, cacciati la via tra le
gambe, vanne diritto al castello di quel Don Rodrigo... Sai dov'è
posto?». Il Tanabuso accennò di sì: «fagli dire che sei mandato
da me, dagli questo segno nelle mani, e torna a casa. La giornata è
stata faticosa, ma tu sai che il tuo padrone vuole esser servito ma sa anche
pagare...»
«Oh
illustrissimo!...»
«Taci,
e vanne tosto... ma no, aspetta: dimmi un poco come ha fatto costei per moverti
a compassione. Che abbia un patto col demonio?»
«Niente,
niente, signor padrone, era proprio il crepacuore che aveva quella povera
ragazza. Se non avessi avuto un comando del mio padrone...»
«Ebbene?...»
«L'avrei
lasciata andare».
«Oh!
andiamo a vederla costei; e tu aspetta, partirai domattina... dopo aver
ricevuto i miei ordini... tanto fa che quello inspagnolato aspetti qualche ora
di più... Domattina sii all'erta per tempo».
Il
Tanabuso partì, facendo un inchino, e il Conte s'avviò alla
stanza dove Lucia stava in guardia della vecchia.
Bussò,
disse: «son io», e tosto il chiavistello di dentro corse romoreggiando negli
anelli, e la porta fu spalancata. Lucia si stava seduta sul pavimento,
acquattata, accosciata nell'angolo della stanza il più lontano dalla
porta, nel luogo che entrando le era sembrato il più nascosto, si stava
quivi aggomitolata, con la faccia occultata, e compressa nelle palme, tutta
tremante di spavento, e quasi fuor di sè: al romore che fece la porta,
alla pedata del Conte che entrava trasalì, ma non levò la faccia,
non mosse membro, anzi fece uno sforzo per ristringersi ancor più tutta
insieme; e stette con un battito sempre crescente aspettando e paventando
quello che avvenisse.
«Dov'è
questa ragazza?» disse il Conte alla vecchia.
«Eccola»,
rispose umilmente la malnata.
«Come?»
disse il Conte, «l'avete gettata là come un sacco di cenci».
«Oh
s'è posta dove ha voluto».
«Ehi!
quella giovane», disse il Conte avvicinandosi a Lucia: «dove diavolo vi siete
posta a sedere? alzatevi; non voglio farvi male... lasciatevi vedere».
Lucia
non si mosse.
«Peggio
per voi», disse il Conte; «se volete fare il bell'umore. Ah! ah! non sapete
dove siete. Pretendereste voi di resistermi? Abbassate subito quelle mani ch'io
voglio vedervi».
Queste
parole furono dette con un tuono così minaccioso, che le mani di Lucia
obbedirono quasi senza il comando della volontà: e Lucia lasciò
vedere la sua faccia spaventata e dolente. Alzò ella allora gli occhi al
volto del Conte che la stava guardando attentamente; e dopo un momento, gli
disse con una voce, in cui al tremito dello sgomento era mista la sicurezza
d'una indignazione disperata: «Che male gli ho fatto io?»
«E
che male voglio io fare a voi, scioccherella?» rispose il Conte, con voce
più mite. «Credete forse d'essere condotta al macello? Verrà un giorno
che riderete di tutto questo vostro spavento, e riderete forse anche di me, che
vi rispondo ora così sul serio».
«Ridere!
oh Dio!» rispose Lucia «ridere!» e guardando un momento come smemorata, diede
in un nuovo scoppio di pianto.
«Sì
sì, tutte voi altre fate così», replicò il Conte.
«Ma
perché», riprese Lucia, «mi fa ella patire le pene dell'inferno? Mi dica che
cosa le ho fatto? Oh non mi faccia più patire così: Dio glielo
potrebbe rendere un giorno...»
«Dio:
Dio: sempre Dio coloro, che non hanno niente altro: sempre rinfacciar questo
Dio, come se gli avessero parlato. Dov'è questo vostro Dio?»
«È
da per tutto, è qui», rispose Lucia: «è qui a vedere s'ella si
muove a pietà di me, per usarle pietà in ricambio un giorno. Oh
abbia misericordia d'una poveretta, mi lasci andare, lasci ch'io mi ricoveri in
qualche Chiesa, su le montagne, in un bosco. Oh lo vedo; tutto dipende da lei:
con una parola ella mi può salvare: dica questa parola. Non so dove
sono, ma troverò la strada per andare da mia madre. Oh Dio! non è
forse lontana: ho visto i miei monti: oh s'ella sentisse quel ch'io patisco!
non conviene ad un uomo che ha da morire, far tanto patire una creatura
innocente: mi lasci andare; oh se pregherò Dio per lei! la
benedirò sempre». E animata nel suo discorso si levò da sedere,
si pose in ginocchio, giunse le mani al petto, e continuò: «Che cosa le
costa dire una parola? Non iscacci una buona ispirazione, un sentimento di
pietà. Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!»
—
Che pazza curiosità ho avuto di venirla a vedere — pensava tra sè
il Conte. — Dugento doppie! ne ho bisogno. Costoro vogliono esser ben pagati;
eh! hanno ragione: espongono la loro vita: ma vorrei piuttosto toglierne
cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro.
«Non
mi dica di no», continuava Lucia, sempre singhiozzando, «sono una povera
figlia. S'ella provasse a pregare, a pregare, a cercar misericordia senza
poterla ottenere! E se le accadesse una disgrazia!... ma no, no io
pregherò per lei il Signore e la Vergine... mi lasci andare...»
«State
di buon animo», rispose il Conte, senza intenzione di nulla promettere, senza
sapere egli stesso che senso avessero le sue parole, ma spinto da un bisogno di
far cessare quell'angoscia e quel lamento, di consolare quella creatura.
«Oh»,
disse Lucia, «Dio la benedica, ella mi lascia andare».
«State
di buon animo», ripetè il Conte, «cercate di riposare... domani...
parleremo...»
«E
voi», rivolto alla vecchia, «voi», disse, «fate ch'ella non abbia da lagnarsi
pure di una parola torta. Ora vi si allestirà la cena... ristoratevi, e
dormite tranquilla».
«No,
no», rispose Lucia, «mi lasci andar subito...»
«Domani...
domani ci parleremo», replicò il Conte, e con un rapido movimento
andò verso la porta, ed uscì.
Lucia,
tutta piena della speranza di ottenere la sua liberazione si alzò, e
volle correr dietro al Conte, ma quando si trovò sull'uscio non
ardì movere un passo più in là, né chiamare: tornò
indietro come spaventata, e si raccosciò di nuovo nel suo angolo.
«Volete
dunque cenare?» le disse la vecchia.
«No
no; badate bene a non partire di qua» rispose Lucia, «ricordatevi di quello che
vi ha detto il vostro padrone: chiudete la porta». La vecchia obbedì, e
tornata: «mettetevi a letto e dormite dunque», disse.
«No:
io non mi voglio movere di qui» replicò Lucia.
«Che
pazzie?...»
«Non
voglio», replicò di nuovo Lucia, risolutamente: quel coraggio di
disperazione ch'ella si sentiva da quando a quando era stato accresciuto e
corroborato da quella compassione ch'ella aveva veduta nel Conte, dalle parole
di speranza che egli le aveva date, e dagli ordini ch'egli aveva lasciati con
impero alla vecchia.
—
Ih! ih! che fummo ha costei, — disse tra sè la mala vecchia. — Maladette
le giovani che hanno sempre ragione e quando sono svergognate e quando fanno le
smorfiose.
«Badate
a non ispegnere quella lucerna», disse Lucia.
«Sì
sì», rispose la vecchia, e senza più rivolger la parola a Lucia
si coricò brontolando.
Lucia
rimase nel suo angolo. Era questo per lei, in quella orrenda giornata il primo
momento di riposo; ma quale riposo. I pensieri che l'avevano assalita
tumultuosamente, ad intervalli nel giorno, tornarono tutti in una volta ad
assediare la povera sua mente. Le memorie così recenti, così
vive, così atroci di quelle ore, di quel viaggio, di quell'arrivo, si
affollavano alla sua fantasia; l'avrebbero oppressa se fossero state memorie
d'un pericolo trascorso: e che dovevano fare, nel mezzo del pericolo stesso,
nella durata, nella orribile incertezza dell'avvenimento! Qual passato! e qual
presente! quel silenzio, quella compagnia, quel luogo. Qual notte! e per
giungere a qual domani! L'infelice intravedeva ben qualche cosa della orditura
spaventosa del laccio dove era stata tirata, ma rifuggiva dal pensiero di
scoprirne più in là. Di quando in quando le parole di speranza
del Conte la rincoravano: le andava ripetendo fra sè, s'immaginava di
essere l'indomani fuori di quell'antro con sua madre, ma un altro avvenire
possibile rispingeva questa immaginazione, e a tutta forza veniva a collocarsi
nella sua mente. Tremava, si faceva animo, sperava, disperava, pregava: le
forze del corpo finalmente cedettero ad un tale combattimento dell'animo, e
Lucia fu presa da una febbre violenta. Le sue idee divennero più vive,
più forti, ma più interrotte, più mescolate, più
varie, si urtarono più rapidamente, e la confusione togliendole una
parte della coscienza, rese sofferibile una angoscia che altrimenti ella non
avrebbe potuto sofferire e vivere. Nel calore della febbre, le parve ad un
tratto che la preghiera sarebbe stata più accetta, certamente esaudita,
se con la preghiera ella avesse offerte in sagrificio quelle che altre volte
erano state le sue più liete speranze. L'unica speranza di quel momento,
quella di uscire da quel pericolo, le parve con questo divenire più
fondata, più ferma: aperse gli occhj, li girò con sospetto e con
ansietà nel barlume di quella stanza; tese l'orecchio, e non udì
altro che il russare della vecchia; si levò chetamente, stette ginocchioni;
e votò alla Vergine di viver casta, senza nozze terrene, s'ella poteva
uscire intatta da quel pericolo. Proferito il voto, o, quello che a Lucia parve
tale, ella si sentì come racconsolata; si raccosciò nel suo
angolo, e passò il resto della notte in un letargo febbrile, interrotto
da sussulti, e da vaneggiamenti.
Il
Conte partito da quella stanza andò secondo il suo costume a visitare i
posti del suo castello, a vedere se le guardie erano poste ai luoghi stabiliti,
se tutto era in ordine, e si chiuse nella sua stanza. Ma l'immagine di Lucia
non l'aveva mai abbandonato nel suo giro; ma quando egli si trovò solo
nella sua stanza, senza più nulla da fare che d'ascoltare i suoi
pensieri, e di dormire se avesse potuto, quella immagine più viva,
più potente si pose a sedere nella sua mente, e vi stette.
—
Che sciocca curiosità da femminetta, m'è venuta, — andava egli
pensando, — di andare a vedere questa giovane? Ho dovuto sentire dalla sua
bocca di quelle cose che nessun uomo vivente avrebbe ardito dirmi sul volto. Le
ho sentite, e mi seccano. Perché non è figlia d'uno spagnuolo? o di
qualcuno di quei sozzi birbanti che m'hanno bandito: che avrei goduto di
sentirla guaire, di vederla tremante ai miei piedi. Ma costei non mi ha mai fatto
male... Ecco, lo andava ripetendo... pareva sapesse che questa era la corda da
toccare per farmi compassione... Compassione!... ma certo io ho avuto
compassione: la sento ancora... e qualche cosa di peggio... Che diavolo ho io
addosso questa notte?... Ha fatto compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva
ragione quella bestia, quando disse che sarebbe stato men male averle data una
schiopettata... Poveretta! una schiopettata... no credo che mi avrebbe fatto
compassione anche morta. Eh sciocchezza! i morti almeno non si stanno a
guardare, non si sentono, non vi si mettono ginocchioni davanti... è un
conto saldato. Dicono mo' i preti che un giorno hanno a risuscitar tutti
quanti! Poh! imposture! imposture, non è vero, non è vero.
Vorrebb'essere una bella processione.
E
qui cominciarono a schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli
aveva cacciati o fatti cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor
giovanetto aveva passato con una stoccata per una rivalità d'amore, fino
all'ultimo che aveva fatto scannare per servire alla vendetta di un suo
corrispondente; tutti coi loro volti, nell'atto del morire, e quelli che egli
non aveva veduti, ma uccisi soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i
volti e gli atti.
—
Via, via, sciocchezze, — diceva: — sono io diventato un ragazzo? domani a
giorno chiaro riderò di me. E se domani a sera costoro mi tornassero in
mente? che dovessi passar sempre la notte così? Diavolo! comincio ad
invecchiare: vorrebb'essere un tristo vivere, e un tristo... morire. Che cosa
m'ha detto quella poveretta? «Oh Dio perdona tante cose per un'opera di
misericordia...» Che sa mai quella contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo
ha creduto. Imposture. Ho sempre detto imposture, e quando aveva proferita
questa parola, bastava... ma adesso non serve... tornano sempre quei pensieri.
Sono io quello? Sono stato tanto tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto
l'animo di farne tante, tante... Ebbene! ne ho fatte troppe... se non le avessi
fatte... in verità sarebbe meglio. A buon conto l'opera di misericordia
sono in tempo di farla. Poniamo che appena fatto il giorno io entri nella sua
stanza: la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito, subito: «vi
lascio in libertà, vi farò condurre a casa». Oh come si cangerà
in volto! che cose mi dirà! mi darà delle benedizioni che mi
faranno bene. Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà. e
ricordarmene per pensarvi la notte. Oh! sono fanciullaggini... ma a buon conto
io non posso dormire. Ma quando verrà giorno! Che notte eterna! Mi pare
quella notte ch'io passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario di
Vercellino che doveva tornare dal festino di corte... Ecco, io stava lì
cheto, cheto; quando sentiva una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli, ed
io ritto e cheto nel mio angolo: sento una pedata che mi par quella, sporgo il
capo, guardo, è colui: fuori, addosso col mio stocco: mandò un
gemito, e mi cadde sulle gambe, gli diedi una spinta, e me ne andai... Oh che
coraggio aveva allora! era un uomo! e in un momento sono diventato... che cosa
son diventato? che è accaduto? non son sempre quello? Ecco anche quel
Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva pensare così un
giorno, era meglio che avessi pensato così sempre. Vieni o luce
maledetta, ch'io possa uscire da questo covaccio di triboli, e andare a vedere
quella ragazza. Ma devo lasciarla andare? Vedremo: vedremo come mi
sentirò. Se potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei
coll'animo di questa mattina!
In
questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato quasi tutta la
notte; finalmente, non essendo il giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si
assopì. Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua veglia, trasmutati
ora alquanto e rivestiti di forme più strane e più terribili lo
accompagnarono nel sonno. Era già levato il sole, e il Conte stava
affannoso sotto il giogo di quei sogni rammentatori, quando a poco a poco egli
cominciò a risentirsi scosso come e quasi chiamato da un romore
monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il sonno e la veglia, e finalmente
tutto desto, e gettato un gran sospiro, riconobbe un suono festoso di campane,
e pensò che potesse essere, né gli sovvenne di cosa che potesse essere
allora cagione di festa. Si alzò, si vestì rapidamente, e prima
d'andare alla stanza di Lucia (che la risoluzione gliene era rimasta) si fece
alla finestra della sua stanza che dominava il pendio, prima rapido, poi
più lento e quasi piano fino al lago; e qua e là villaggi sparsi,
e case solitarie. Guardò intorno, e vide contadini e contadine in abito
da festa per tutti i viottoli avviarsi verso la strada che conduceva al
Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi quelli che s'incontravano in
aria di premura e di festa. — Che diavolo hanno in corpo costoro? — diss'egli
fra sè, e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione
di quel movimento e di quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera
antecedente che il Cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto
improvvisamente a Lecco per visitare le parrocchie di quei contorni; che quella
mattina doveva trovarsi ad una chiesa (che nominò, ed era alla
metà della via, distante circa due miglia dal castello) e che tutti
accorrevano a vedere quell'uomo il quale dovunque si portasse attraeva sempre
folla.
Il
Conte congedò con un cenno del capo il fidato, e rimase ancora un
momento alla finestra a guardare, dicendo fra sè: — Come sono contenti
costoro! E perché? Perché è arrivato un uomo che si porrà un
bell'abito, e darà loro delle parole, e alzerà le mani tagliando
l'aria in croce. Oh! come saltano: sembrano cavriuoli: eh! avranno forse...,
certo, dormito meglio di me! Tanto contenta questa canaglia... ed io... Voglio
andare anch'io; voglio veder quest'uomo, che li fa esser tanto vogliosi, tanto
contenti. Andrò, andrò. Voglio parlargli; voglio un po' sentire
se ha qualche cosa anche per me! vedere quel volto, sentire queste sue parole
che fanno sparire le afflizioni. Voglio vedere se ha ancora quegli occhj che
hanno fatto abbassare i miei... cospetto... cinquant'anni sono. Era uno strano
giovanetto! E ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio
d'allora certamente! Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che
fare? che dirgli? Certo mi mostrerà due occhj più arrovellati di
quel giorno... Non importa: voglio andare a sentire che parole ha costui, per
render la gente così allegra.
L'occhiata
che aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di
rimembranza nella mente del Conte era stata data nella occasione che
ricorderemo brevemente. Federigo Borromeo, giovanetto allora di 15 anni si
trovava nella chiesa di Giovanni in Conca nel giorno solenne di quel santo; e
aveva pregato e invitato poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e
quivi assisteva pensoso e riverente al rito che si celebrava. Quando una
brigata di giovanetti, di adolescenti delle principali famiglie della
città, entrata a turba nella Chiesa per curiosità, e visto in
quel luogo il giovane Federigo, che sempre con l'esempio, e talvolta con le
parole gli faceva vergognare del loro vivere superbo scioperato molle e
violento, s'accordarono di fargli fare una trista figura, di vendicarsi, e di
divertirsi un momento a sue spese. Rotta la folla s'avvicinarono all'altare, e
appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare i più strani e beffardi
atti del mondo, storcer le bocche, torcere il collo come chi irride un
ipocrita, cacciare un palmo di lingua, sghignazzare. Il Conte che fu poi del
Sagrato era tra essi, anzi queglino erano con lui; perché egli non era mai
stato secondo in nessun luogo, e in nessun fatto. Federigo, contristato e mosso
a pietà ed a sdegno nello stesso tempo, ma non confuso, girò su
quella turba un'occhiata che esprimeva tutti questi affetti con una
gravità tranquilla, ma più potente dell'impeto indisciplinato di
quei provocatori; quindi piegate le ginocchia dinanzi all'altare, pregò
per essi, i quali partirono col miserabile contegno di chi è stato vinto
in una impresa in cui il vincere stesso sarebbe vergognoso.
Torniamo
al Conte vecchio: il quale stette in fra due, se doveva prima andare alla
stanza di Lucia. Dopo aver pensato qualche tempo: — no — diss'egli fra
sè —: non la vedrò: non voglio obbligarmi a nulla; voglio venirne
all'acqua chiara con questo Federigo. Potrei lasciarla andare, e pentirmi. Se comincio
a fuggire da uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita, non
son più un uomo. Parlato che avrò con costui, mi
convincerò che sono sciocchezze, e sarò più forte di
prima... o se... costui... mi facesse... cangiare... son sempre a tempo.
Andiamo, sarà quel che sarà.
Chiamò
un'altra donna alla quale in presenza del Tanabuso impose che si portasse sola
alla stanza di Lucia, che vedesse che nulla le mancasse, e che sopratutto
ordinasse alla vecchia guardiana di trattarla con dolcezza e con rispetto: e
che nessun uomo ardisse avvicinarsi a quella stanza.
Dato
quest'ordine, pensò se dovesse pigliar seco una scorta; e — oh! via, —
disse, — per dei preti e per dei contadini? Vergogna! Se vi sarà alcuno
che non mi conosca non avrà nulla da dirmi: per quelli che mi conoscono...!
Così
il Conte solo, ma tutto armato uscì dal castello, scese l'erta e giunse
nella via pubblica, la quale brulicava di viandanti: la turba cresceva ad ogni
istante: a misura che la fama del Cardinale arrivato si diffondeva di terra in
terra, tutti accorrevano. Ma in quella via affollata il Conte camminava solo:
quegli che se lo vedevano arrivare al fianco, s'inchinavano umilmente, e si
scostavano come per rispetto, e allentavano il passo per restargli addietro:
taluno di quelli che lo precedevano, rivolgendosi a caso a guardarsi dietro le
spalle, lo scorgeva, lo annunziava sotto voce ai compagni, e tutti studiavano
il passo, per non trovarglisi in paro. Giunto al villaggio, sulla piazzetta
dov'era la Chiesa, e la casa del Parroco, trovò il Conte una turba dei
già arrivati, che aspettavano il momento in cui il Cardinale entrasse
nella Chiesa per celebrare gli uficj divini. E qui pure tutti quelli a cui si
avvicinava, svignavano pian piano. Il Conte affrontò uno di questi
prudenti, in modo che non gli potesse sfuggire e gli chiese bruscamente come
annojato che era di quel troppo rispetto, dove fosse il Cardinale Borromeo.
«È lì nella casa del curato», rispose riverentemente
l'interrogato. Il Conte si avviò alla casa fra la turba, che si divideva
come le acque del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei, ed entrò
sicuramente nella casa. Quivi un bisbiglio, una curiosità timida,
un'ansia, un non saper come accoglierlo. Egli, rivolto ad un prete gli disse
che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di essergli tosto annunziato. Il
prete che era del paese, fu contento d'avere una commissione del Conte per
allontanarsi da lui, e riferì l'imbasciata ad un altro prete del seguito
del Cardinale. Quegli si ritirò a consultare coi suoi compagni; e
finalmente di mala voglia entrò per dire a Federigo quale visita si
presentava.
CAPITOLO XI
Giunti
a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche momento con
gioja, come il viaggiatore del deserto s'indugia a diletto alla frescura
ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli abbia trovata una sorgente di acqua
viva. Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del quale apporta
una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla
mente che già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i più
eletti che abbiano lasciato ricordo di sè sulla terra: or quanto
più un po' di riposo nella considerazione di lui debb'essere giocondo a
noi che da tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude,
stolida, schifosa perversità, dalla quale certamente avremmo da lungo
tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a
forza intento!
Federigo
Borromeo fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali adoperarono
una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca «di
ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di
ciò che è santo, di ciò che è amabile, di
ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e
lode di disciplina». Nato coi più bei doni dell'animo, il primo uso che
egli fece della sua ragione fu di coltivarli con ardore e con costanza, di
custodirli con una attenzione sospettosa, come se fino d'allora egli ponesse
cura a conservare tutta bella, tutta irreprensibile una vita, che in progresso
di tempo avrebbe avute età così splendide: e infatti la vita di
lui è come un ruscello che esce limpido dalla roccia, e limpido va a
sboccare nel fiume: tutto ciò che si sa di lui è gentilezza, e
sapienza: e gli errori stessi che la prepotenza dell'universale consenso aveva
imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati e quasi scusati da una
intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della vita è stata
per lui un esercizio di tutte le virtù. Fanciullo grave e sobrio,
giovane pensoso e pudico, uomo operoso quant'altri mai fosse, senza mai nulla
intraprendere, né maneggiare, né condurre a fine per un interesse privato di
qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le
virtù più difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo
che escludessero i pregi più comuni in quella età a tutti gli
uomini. Nutrito tra le pompe e lo splendore delle ricchezze, fra quel basso
corteggio che coglie i fortunati del secolo alle prime porte della vita, per
corromperli, per cattivarli, per farli fruttare, egli scorse dai primi suoi
giorni che l'umiltà, e la staccatezza sono verità, bellezza, e le
prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste cugino San Carlo, in
presenza di quella virtù severa, e malinconica, l'animo puerile di
Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì l'ammirazione
e la docilità volonterosa per la virtù. Si diede ardentemente
allo studio dalla fanciullezza: ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la
confusione e la stoltezza delle cose insegnate, il sopracciglio comicamente
grave dei maestri lo svogliarono dall'apprendere; e fu questo, o doveva essere
il primo segno della eccellenza del suo ingegno. Stomacato dei libri e delle
lezioni si diede tutto all'armi e ai cavalli; ma durò in quegli esercizj
sol tanto quanto bastasse a mostrarlo disposto ad ogni esercizio che domandi
una prontezza di qualunque genere. Il fanciullo voleva sapere, e andava
interrogando tutti quegli che egli credeva sapienti; e da tutti gli veniva
risposto, che i libri e la scuola soltanto potevano condurlo alla scienza. Sospinto
da questa uniformità di consenso, egli tornò voglioso ai libri ed
ai maestri; e finì a stare con quelli perseverantemente, vincendo con la
volontà le ripugnanze delle quali egli non poteva allora comprendere la
ragione profonda. Giovanetto fra i giovanetti nello studio di Pavia, egli
trovò quivi stabilite consuetudini, massime, opinioni che distribuivano
lode e biasimo alla differente condotta; e non ne fece alcun conto:
regolò la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe fatto in un
eremo, senza esitazione, senza braveria; e solo da prima, opposto quasi in
tutto al tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che davano la
gloria, facendo quelle che rendevano ludibrio, fu in poco tempo oggetto della
venerazione dei suoi condiscepoli. Uomo fatto poi, cardinale, arcivescovo,
sempre continuò in quella disciplina, di meditare ciò che fosse
il comandato, e il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli
uomini se non ciò che potesse essere una vera ed utile correzione per
lui, o il segno di una irritazione e di una resistenza dannosa ai resistenti, e
che potesse essere impedimento al bene ch'egli intendeva di operare. Fu quindi
moderato ed umile tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i
contrasti, non avendo di mira che la cosa da farsi, e il perché, e l'effetto.
Veduta la bellezza, l'utilità, e la possibilità d'un disegno,
egli lo intraprendeva, ne curava attentamente il complesso e i minimi
particolari con quella unità di attenzione che non sorprende chi
rifletta alla unità ch'egli aveva del fine. Edificò dai
fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome di Ambrosiana, la dotò
di libri, di manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse
professori, e nello stesso tempo poneva cura che le reliquie della sua mensa
piuttosto povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e date ai
poverelli; tutto era per lui benevolenza, e cura degli altri. Così egli
chiamò da lontano professori di lingue orientali per introdurre se
avesse potuto, ogni coltura in quella rozza, ostinata, e presuntuosa barbarie
nella quale egli sentiva di vivere; spedì uomini dotti quanto allora si
poteva per l'Italia, per la Francia, per la Germania, per la Spagna, per la
Grecia, nella Siria, a fare incetta di libri, di manoscritti, di ogni cosa che
potesse essere stromento di studio e di coltura: e diede ad essi istruzioni,
avviamenti, consigli: e per la medesima accuratezza di ben fare, in questa
stessa carestia di cui abbiamo già toccato qualche cosa in questa
storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva, alla sua casa, alle case dei
poverelli, pensò anche di mandare attorno sacerdoti, che raccogliessero
i poverelli che mancanti di soccorso cadevano sfiniti per le vie, e dessero
loro i conforti della religione: e insieme coi sacerdoti mandò facchini
che portassero pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto, per
nutrire, per confortare coloro che cadessero per inedia; e tutti questi
particolari erano meditati da lui, perché tutto quello che fosse utile era per
lui importante, e l'idea grande e generale della carità era dal suo
cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari. Così amava
egli oltre ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre
nell'esercizio delle sue più nobili facoltà. E da tanta operosità,
da tante cure del suo ministero, da tanti impicci in cui era tirato dalla
confusione che in quelle cure stesse avevano introdotta la confusione delle
idee, e le passioni degli uomini, egli sapeva togliere ancora assai tempo per
impiegarlo nello studio degli scritti i più stimati di qualunque tempo e
di qualunque nazione, e nel lavoro dei molti scritti ch'egli ha lasciati.
Noi
non vogliamo qui esaminare tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire ch'egli
ebbe principalmente le virtù più difficili, cioè le
più opposte ai vizj che signoreggiavano la generazione dei suoi
contemporanei. Già forse l'amore dell'argomento ci ha trasportati ad una
prolissità nojosa; ma non possiamo a meno di non avvertire una di queste
virtù, perché è quella che non certo per la sua importanza ma per
la rarità ci sembra degna di osservazione; ed è la
tranquillità e il contegno mirabile di Federigo. In un tempo in cui
opinioni, fatti, discussioni, odj, amicizie, delitti, giudizj, tutto era
avventato e precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per
dir così di spiritato, e di fantastico, Federigo fu temperato,
aspettatore, ponderato, lento nel credere, nell'operare, nell'affermare, tutto
condì con una temperanza, che raddolcì in parte quell'impeto
indisciplinato, e fu se non altro ammirata da quegli stessi che ne erano
incapaci.
È
cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo,
già ai nostri tempi, in una posterità così poco remota,
sia non dirò dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come
si fa degli uomini più illustri, che a questo nome sia appena associata
una idea languida d'un merito incerto, d'una eccellenza indeterminata, che
questo nome pronunziato fuori della patria di Federigo, e della società
di quelli che più particolarmente si applicano alle cose nelle quali
egli fu attore, o passi inavvertito, o riesca anche nuovo, e invece di
risvegliare la memoria di una rara preminenza faccia nascere la
curiosità di sapere che abbia fatto colui che lo portava, e che l'elogio
che noi vi abbiamo unito abbia avuto bisogno di schiarimento e di prove. E
forse ancor più stupore deve nascere al pensare che un uomo dotato di
nobilissimo ingegno, avido di cognizioni, e perseverante nello studio,
sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società
più varie degli uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni
cura nel comporre opere d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone
tra i più fecondi e i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo
che aveva tutti i doni per farne d'immortali, non sieno ora quasi conosciute
che dai loro titoli, nei cataloghi di quegli scrittori che tengono memoria di
tutto ciò che è stato scritto in un tempo, in un paese. Ma la
spiegazione di questo fenomeno si può forse trovare nella condizione dei
tempi in cui scrisse Federigo. A produrre quelle parole o quei fatti che
rimangono presso ai posteri oggetto di una ammirazione popolare non basta la
potenza di un ingegno né la costanza di una volontà: è duopo che
queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da
sè qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le
età rimasti insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da una
folla d'uomini non insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro studj, curiosi
delle stesse cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o almeno
combattendo contra errori, abitudini, idee, che avessero qualche cosa
d'importante, di problematico, in quelle dottrine che sono un esercizio
perpetuo dell'intelletto umano, trovarono in somma una massa di notizie e di
opinioni, un complesso di coltura, sul quale fondarsi, dal quale progredire, al
quale applicare gli aumenti e le correzioni per cui la memoria del genio
rimane.
Che
se pure è viva tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi
rozzissimi, lo è perché quei tempi erano sommamente originali, e quelle
opere ne conservano il carattere, e mostrano ai posteri un ritratto osservabile
d'una età che nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci. Ma Federigo Borromeo
visse in tempi di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad
un tratto, fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria scolastica, in
tempi nei quali l'ingegno che per darsi alle lettere, a qualunque studio di
scienza morale, cominciava (ed è questa la sola via) ad informarsi di
ciò che era creduto, insegnato, disputato, a porsi a livello della
scienza corrente, si trovava ingolfato, confuso in un mare tempestoso di
assiomi assurdi, di teorie sofistiche, di questioni alle quali mancava per prima
cosa il punto logico, di dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze. Non
v'è ingegno esente dal giogo delle opinioni universali, e già una
parte di queste miserie diventava il fondamento della scienza degli uomini i
più pensatori. Che se anche i più acuti, profondi fra essi,
avessero veduta e detestata tutta la falsità e la cognizione, di quel
sapere, avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove si trovano
le idee e le formole potenti, solenni, perpetue; a chi avrebbero eglino parlato?
E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è verecondo,
delicato, e se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il
clamore, l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè, e tace.
O per dir meglio prima di parlare, prima di sentire in sè le alte cose
da rivelarsi, egli ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui
saranno rivelate, di trovare un campo dove sia tosto raccolta la sementa delle
idee ch'egli vorrebbe far germogliare: la sua fiducia, il suo ardimento, la sua
fecondità nasce in gran parte dalla certezza di un assenso, o almeno di
una comprensione, o almeno di una resistenza ragionata. Veggansi per esempio le
opere di eloquenza di due sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse
nella età posteriore a quella di Federigo, Segneri e Bossuet. Veggasi
quali idee, quale abitudine di linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano le
orazioni funebri di questo negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche
del Segneri che opinioni egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli
doveva attignere i suoi mezzi, le sue prove per persuadere quegli ingegni, a
quali costumanze egli doveva alludere; nella differenza dei due popoli
ascoltanti è certamente in gran parte la spiegazione della somma
distanza fra le opere di due ingegni ognuno dei quali era grande. Prima che un
popolo il quale si trova in questo grado d'ignoranza possa produrre uomini per
sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a poco a poco da quella
universale abiezione, che riportino su gli errori, su la inerzia comune molte
vittorie d'ingegno difficili, e che saranno dimenticate; che attirino con
grandi sforzi le menti a riconoscere verità che sembrano dover essere
volgari, che preparino agli intelletti venturi una congerie d'idee delle quali
o contra le quali si possano fare lavori degni di osservazione; e che
finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza e
perspicuità delle idee migliorino a poco a poco il linguaggio comune,
dimodoché i sommi ingegni possano avere uno stromento che renderanno perfetto,
ma che pure hanno trovato adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia che
ad essi soli è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare,
ardite, ma sommamente ragionevoli, nelle quali sole possono vivere i grandi
pensieri. Questo fa d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più
perfezionata d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo parlato.
Allora gl'ingegni singolari attirati dalla luce del vero da qual parte ella si
mostri, si levano dalla moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto
che essi scorgono il più alto. Cominciano allora le ire di molti, e i
lamenti di altri contra l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza
delle cose patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento
del linguaggio e del gusto; e non si può negare che queste ire e questi
lamenti non atterriscano alcuni, e non gli contristino a segno di far loro
abbandonare la via di studio intrapresa; giacché fargli ritornare al falso
conosciuto è cosa impossibile. Ma v'ha pure di quegli ingegni ai quali
è per così dire comandato di fare; e questi tenendosi in
comunicazione con un'altra età o con un'altra società d'uomini,
dicono ai loro contemporanei cose che questi ascoltano da prima con disprezzo e
con indifferenza, quindi in parte pure con qualche curiosità quando la
fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno scrittore,
imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti concordi sul merito
dello scrittore quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così,
un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia un po' di
coltura, e fra quella a sovrastare alcuni scrittori dei quali vivono le opere e
la memoria; ma i principj di quel risorgimento non furono un progresso, un
perfezionamento delle idee allora dominanti; fu una nuova coltura introdotta in
opposizione alle idee predominanti; sul che tutti concordano. Ma intorno alla
sorgente di questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate.
Alcuni, anzi moltissimi, hanno creduto, e detto che dal fondo della ricchezza
letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi scrittori più
antichi sieno state tolte le idee le quali hanno rinovellato lo spirito della
letteratura, e ricondotto il colto pubblico al senso comune; e che
principalmente dai canzonieri del Petrarca e del Costanzo sia stata tolta la
luce che dissipò le tenebre del seicento. Infatti i primi riformatori,
si posero, come alla faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime che
l'immortale Costanzo vergò, per placare, se fosse stato possibile,
quell'empia tigre in volto umano, su la quale è così diviso e
combattuto il sentimento della posterità. Poiché, quando si pensa ai
dolori intimi, incessanti, cocenti che quella tigre fece tollerare a quel
celebre sventurato, non si può a meno di non sentire per essa, voglio
dire per la tigre, un certo orrore, un rancore vendicativo. Ma quando poi si
venga a riflettere che senza quei dolori non sarebbero stati partoriti quei
sonetti e quelle canzoni, che senza quei sonetti e senza quelle canzoni, l'Italia
si rimarrebbe forse forse tuttavia nell'abisso del gusto perverso, allora si
prova una certa non solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua
crudeltà fu occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto, si
vede allora quanto sia vero che le grandi cognizioni non vengono all'intelletto
degli uomini che per mezzo di grandi dolori. Questo è detto nell'ipotesi
di coloro i quali tengono che la rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un
certo qual senso comune, che ebbe luogo nel principio del secolo decimottavo,
abbia cominciato dalla poesia, e sia venuto nella poesia dallo studio ripreso
dei cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma
non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i quali
tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi, che fiorirono
appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e
più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro
idea d'una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di
discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e
di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione
ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di
scienza, di sentimento a cui erano giunti alcuni con una meditazione
particolare. Scorgono costoro che questi italiani cominciarono ad imparare
dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei
giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la
letteratura italiana di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro
scritti una cura più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero
con una mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca,
e diffusero a poco a poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che
avevano attinto. Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma la
principale, la prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto
letterario degli italiani. I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano
in un bell'impiccio; perché mettendola fuori, sono certi di acquistarsi il
titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione; perché è doloroso il
trovarsi tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di
acquistarsi un titolo brutto e odioso. E in verità noi vorremmo avere
qualche autorità, qualche appicco, qualche entratura coi loro avversari,
per poterli pregare di provare soltanto con ragioni di fatto che quella
opinione è falsa, e di lasciare da banda quel titolo affatto estraneo
alla questione, e fuori di proposito. E infatti, se fosse a proposito, dovrebbe
applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione sieno, i quali riconoscano
che la loro possa essere stata coltivata con gli studj d'un'altra: ora noi non
applichiamo generalmente questa misura; poiché quando troviamo negli scritti
d'un francese quella opinione che la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta
la luce delle lettere per mezzo dei grandi scrittori d'Italia; noi non
chiamiamo quella opinione una ingiuria fatta da quegli scrittori alla loro
patria, ma una generosa confessione del vero; non gli chiamiamo cattivi
cittadini, ma uomini veggenti, candidi, imparziali. Ricordiamoci adunque che
l'adoprar peso e peso, misura e misura, è cosa abbominevole; e siamo coi
nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli stranieri; senza
pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che si potranno
dire quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano un
granchio.
Per
vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più ragionevole,
bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti. La prima; in che
consistesse principalmente la corruttela delle lettere nel seicento, se questa
corruttela sia stata una deviazione forzata dalla via tenuta nel cinquecento,
quali idee si siano perdute, quali pervertite da un secolo all'altro; giacché
la corruttela delle lettere non può essere altro che smarrimento, o
pervertimento d'idee, a meno che non si voglia ammettere una letteratura che
non sia composta d'idee. L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento
siano state le idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno
riprodotta una letteratura ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa
che le lettere in Italia non erano più come lo erano state per un
secolo, una buffoneria, un mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi
con attenzione a questa parte per udire con la speranza di una istruzione, d'un
diletto razionale, quali siano le idee uscite dall'Italia e ricevute in parte
del patrimonio comune della coltura Europea. Raccolti i sommi capi di queste
idee della letteratura italiana risorta, bisognerà ancora cercarne la
sorgente; vedere se sieno state riprese, svolte dagli scritti del cinquecento,
o da che altra parte sieno venute a fare impeto nella letteratura italiana.
Quanto alla prima questione... ma qui una buona ispirazione ci avverte che
siamo fuori di strada; che musando così in ciarle di discussione mentre
si tratta di raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse
già perduti i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una
trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta
appunto a gettarsi nella storia nel momento il più critico, sulla fine
d'un volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un pretesto, una
tentazione fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove è
mestieri di una nuova risoluzione, d'un generoso proposito per riprendere e
quasi ricominciare il penoso mestiere del leggere. Noi tronchiamo dunque
subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali l'avessero letta
fin qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a
mezzo di questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il
capitolo avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in nostro
nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a piè pari al principio del
prossimo volume, che la continueremo senza interruzione, seguendo fedelmente il
manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.
TOMO TERZO
CAPITOLO I
Il
Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in
quell'ora ritirato in una stanza, dove dopo aver recitate le ore mattutine,
impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che il popolo fosse
ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e le altre
funzioni del suo ministero. Entrò con un passo concitato ed inquieto il
cappellano crocifero, e con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso,
disse al Cardinale: «Una strana visita, Monsignore illustrissimo».
«Quale?»
richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza. «Quel famoso
bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti... il Conte del
Sagrato... è qui... qui fuori, e chiede con istanza d'essere ammesso».
«Egli!»
rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare».
«Ma...»
replicò il cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe
conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze...»
«E
non è egli una buona ventura», disse il Cardinale, «che ad un tal uomo
venga voglia di presentarsi ad un vescovo?»
«È
un uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano.
«E
anche di mutar vita», disse il Cardinale.
«Monsignore
illustrissimo», insistette il cappellano «lo zelo fa dei nemici, sono arrivate
più volte fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono
vantati...»
«E
che hanno fatto?» interruppe Federigo.
«Ma
se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi,
costui che non si spaventa di nulla, venisse ora... fosse mandato, Dio sa da
chi per fare quello che gli altri...»
«Oh!
che disciplina è questa», interruppe ancora sorridendo serenamente il
vecchio, «che un officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete
voi che la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede
qualche cosa, domanda qualche cosa di più? e che a questo modo, di
cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri
d'un vescovo?»
«Ma
questo è un caso straordinario», continuò il cappellano caparbio
per premura: «Vostra Signoria non può così esporre la sua vita.
Costui è un disperato, Monsignore illustrissimo; lo rimandi; troveremo
qualche onesta scusa...»
«Ch'io
lo rimandi?» rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale. «Per farmene
un rimprovero per tutta la vita, e renderne poi conto a Dio? Via via.
Già egli ha troppo aspettato. Fatelo entrar tosto, e lasciatemi solo con
lui».
Il
cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino
partì per obbedire, dicendo in cuor suo: — non c'è rimedio: tutti
i santi sono ostinati —, epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il
più sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.
Uscito
nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli
altri presenti si stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare
sommessamente, il cappellano gli si accostò, e gli disse che Monsignore
lo aspettava; facendo nello istesso tempo, in modo da non essere veduto dal
Conte, un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: —
Quell'uomo benedetto; accoglierebbe Satanasso in persona.
Il
Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso l'archibugio, e
facendolosi passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura
dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e fatto un fascio di
tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli
consegnò quel fascio dicendo: «sotto la vostra custodia». «Signor
sì», disse il prete, e, non senza impaccio, allargando ben bene le mani,
e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza come avrebbe
fatto d'un bambino da portarsi al Fonte. Restava ancora un pugnale, di cui il
manico d'avorio intarsiato d'oro sporgeva tra il farsetto e la veste: e gli
occhi erano rivolti sul Conte, per osservare se egli compisse la buona opera di
disarmarsi e desse anche questo al curato: ma il Conte non n'ebbe pure
l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui:
gli sarebbe sembrato di andar nudo.
Il
cappellano aperse la portiera, ed introdusse il Conte; il Cardinale si
alzò, gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e
accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì.
Il Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale,
abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto.
Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni
avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di
questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli
toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio, avevano tramutate ed
offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio,
l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una
lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i
patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza,
una per così dire bellezza senile, la quale spiccava ancor più in
quella semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti ambiziosi
tutto ravvolgeva il vecchio. Stava questi aspettando che il Conte parlasse,
onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacché Federigo
benché non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva
voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio
personaggio avesse dinanzi; e avendo presa di questa venuta una speranza
indeterminata di qualche bene, non avrebbe voluto dire né far cosa che potesse
guastare. Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare con la
serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella
espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i
dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate; ma il Conte stava
sopra di sè, perché era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da
una inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse
dire ed udire dal Cardinale. Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio
con queste parole: «Monsignore illustrissimo... dico bene? In verità
sono da tanto tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che
si convengono... che si usano».
«Voi
non potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un
uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile».
«Sì?»
rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune...
dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che
per servire altrui. Ma per voi... tutti dicono che non è un semplice
linguaggio di cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere
se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente,
così inalterabilmente umile? Se fossi venuto, per soddisfare ad una mia
curiosità?»
«No,
no», replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto
il buon vescovo, «non è curiosità in voi di vedere
quest'uomiciattolo che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che
una cagione più importante vi conduce».
«Lo
sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete
discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per... via mi fareste
piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga:
parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare».
«E
che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una
buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una
buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una
buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che io son
venuto qui strascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi,
che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia,
una vergogna di essere dinanzi a voi... così, come una pinzochera... Oh
ditemi un po'; quale è questa buona nuova».
«Che
Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo»; rispose
tranquillamente il Cardinale.
«Dio?
ci siamo», replicò il Conte. «Dio! quella parola che termina tutte le
quistioni. Dov'è questo Dio?»
«Voi
me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi?
Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che
v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una
speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo
riconosciate, che lo confessiate?»
«Certo!
certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi tormenta, che
mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto
quello che dicono, non ho altra consolazione che di pensare che nemmeno il
diavolo non mi vorrebbe».
Il
Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da
spiritato, ma Federigo con una calma solenne, che comandava il silenzio e
l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi? Quello che
d'altri non farebbe. Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe
dare. Fare di voi un gran testimonio della sua forza... e della sua
bontà. Poiché finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete oggetto
di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si
lamenta, è un giudizio facile, poiché è sopra altrui, fors'anche
in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perché vorrebbe far
terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio
sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato. Questo
può far Dio di voi; e salvarvi».
«No:
Dio non vuol salvarmi», replicò il Conte, con un dolore disperato.
«Non
vuole?» disse il Cardinale. «Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del desiderio
della vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità
che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio che ci ha redento, non
sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La
faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si
ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non
conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente.
«Dio
grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo:
«che ho mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi facessi
degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo,
egli stese la mano per prendere quella del Conte. «No», gridò questi,
«no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica.
Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella che volete stringere?»
«Lasciate»,
disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, «lasciate ch'io
stringa con tenerezza — e con rispetto — questa mano che riparerà tanti
torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti
poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici».
«È
troppo!» disse il Conte singhiozzando. «Lasciatemi, Monsignore... buon
Federigo: un popolo affollato vi aspetta... tanti innocenti, tante anime
buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi
trattenete... con chi!»
«Lasciamo
le novantanove pecorelle», rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro,
sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita. Quella buona
gente, sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il
suo vescovo. Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il prodigio della
misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono
ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone
nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera, ch'egli
esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non
ancor conosciuto».
Al
fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo
aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come
strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il
Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui. Le lagrime
ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani
incolpevoli di questo cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da
gran tempo non avevano posato che le armi della violenza e del tradimento.
Sciolti
da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte:
«parlate: parlate; apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più
vi tormentano; quello che hanno di più amaro si perderà passando
su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di
giocondità, sarà una giocondità esso medesimo: non vi
lasceranno altra puntura che il desiderio di riparare al già fatto.
Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora:...»
«Ah
sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui si può
riparare tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma non è
compiuto. Lodato Dio, che non lo è. Per farvelo conoscere è
d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia confessione, quello ch'io sono: uno
scellerato... e un vile birbone; ma non importa: quello che importa, è
di cessare una crudele iniquità». Federigo stava ansioso attendendo, e
il Conte narrò dell'infame contratto di Lucia, del rapimento,
dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei primi pensieri
che a cagione di queste gli erano venuti. Il buon vescovo impallidì alla
storia dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando intese
ch'ella si trovava ancora al castello: «Ah!» disse «è salva, è
intatta: togliamola tosto da quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le
ore dell'angoscia! abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?»
«Dio!»
sclamò il Conte; «che uomo son io, se mi si richiede come un dono
ciò ch'io non ho in poter mio che per la più vile prepotenza! se
mi si chiede per misericordia di non essere più un infame!»
«Il
male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è
il bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi benedica. Dio vi ha benedetto.
D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù, e di
beneficenza. Sapete voi di che paese sia questa poveretta?»
Il
Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata
entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto quel tempo era
stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata, umile, commossa del
Conte, e su quella del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella
sua tranquilla compostezza; restò colla bocca aperta, girando gli occhi
dall'uno all'altro; ma il Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione
mezzo estatica e mezzo stordita dicendogli: «Fra i parrochi qui radunati vi
sarebbe mai quello di...?»
«V'è,
Monsignore illustrissimo», rispose il cappellano.
«Lodato
Dio!» disse il Cardinale: «chiamatelo, e con lui il curato di questa chiesa».
Il
cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano
il suo ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un colloquio che gli
teneva tutti sospesi. Tutti gli occhi furono rivolti sopra di lui: egli
alzò le mani, e movendole l'una contro l'altra con un gesto come
involontario, tutto trafelato come se avesse corso due miglia, disse: «Signori,
signori: haec mutatio dexterae Excelsi. Il signor curato della chiesa e
il signor curato di... sono chiamati da Monsignore».
Il
curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria
illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini.
Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue
opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale:
la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto
il bene possibile: credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era
profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la
carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch'egli
possedeva in un grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare. Se
ogni uomo fosse nella propria condizione quale era egli nella sua, la bellezza
del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più
confidenti. I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo
celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi
accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo
dovess'esser commosso, poiché un gran giusto ne era partito. Ma dieci miglia lontano
di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai:
e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù
che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di
fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso.
All'udirsi
chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava pregando
tacitamente, e si mosse senz'altra premura che di obbedire, senz'altra
curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche opera utile e pia da
intraprendere.
L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio era stato in gran parte cagione di tutto questo guazzabuglio: egli non poteva sapere, né avrebbe mai pensato che questa chiamata avesse la menoma relazione con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre. Si avanzò anch'egli incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi con quel famoso Conte: