TITO LUCREZIO CARO
DELLA NATURA DELLE COSE
LIBRI SEI
TRADOTTI DA ALESSANDRO MARCHETTI
AGGIUNTIVI
GLI ARGOMENTI DEL BLANCHET
LA SCIENZA DI LUCREZIO PER CONSTANT MARTHA
E LE NOTIZIE
INTORNO ALL'AUTORE E AL TRADUTTORE
e guerra con Vincenzo Viviani.
Alfredo Tennyson, lo squisito poeta,
ideò e scrisse un monologo di Lucrezio innanzi al suicidio. Egli
accettò la tradizione che desse in accessi di demenza per un filtro
portogli da una donna che si credeva meno amata, non badando egli alle carezze
di lei.
. . . . . For-his
mind
Haif buried in
some weightier argument,
Or fancy-borne
perhaps upon the rise
And long roll of
the Hexameter-he past
To turn and ponder
those three hundred scrolls
Left by the
Teacher whom he held divine.
Questa tradizione non si fonda che sopra
l'autorità di San Gerolamo, il quale scrisse più di tre secoli
dopo Lucrezio. Questi era della gran famiglia Lucrezia e cavalier romano.
Nacque l'anno 95 avanti Cristo. È probabile che visitasse la Grecia e
udisse Zenone, che in quel torno era capo della setta epicurea. Egli e Cesare
sono i due soli grandi scrittori che Roma abbia prodotti. La sua vita corse tra
i principj di Silla e la morte di Clodio. Secondo la tradizione, egli si
sarebbe ucciso di 44 anni, morendo lo stesso giorno in cui Virgilio prese la
toga virile.
C. Memmio Gemello, al quale è
intitolato il poema, era d'illustre famiglia, figlio e nipote di chiari
oratori. Ebbe presto onori ed uficj. Nominato al governo della Bitinia,
condusse seco Curzio Nicia e il poeta Catullo. Tornato che fu, toccò
un'accusa da Cesare, dalla quale si difese con violenza. Nel difendersi
trascorse a raffacciargli i suoi diffamati costumi. Dicitore facondo; se non
che, a detta di Cicerone, fuggiva la fatica non solo di parlare, ma ancora di
pensare. Accusò parecchi; tra gli altri, L. Lucullo, vincitore di
Mitridate, volendo impedirgli il trionfo. Di che, avendo egli tirato alle sue
voglie la moglie del fratello di lui, M. Lucullo, Cicerone disse argutamente
che si era levato contro Agamennone non che contro Menelao. Tentò
sedurre, ma invano, anche la figlia di Cesare moglie di Pompeo. Dopo la
questura e pretura aspirò al consolato, gareggiando veementemente con
altri tre pretendenti. Fu insieme ad essi accusato di broglio e condannato all'esilio.
Tornò in Atene, dove da giovane avea studiato, e v'ebbe lite con la
setta di Epicuro per essersi fatto cedere dall'Areopago una parte dei Giardini,
ove quella aveva sua stanza. La famiglia Memmia aveva un culto particolare per
Venere, e il Martha crede che anche questo riflesso abbia indotto Lucrezio alla
sua splendida Invocazione.
Dai trecento volumi lasciati dal maestro,
ch'egli reputava divino, secondo dice il Tennyson, Lucrezio trasse la dottrina
esposta nel suo poema. Il Martha la ha considerata assai bene rispetto alla
religione, alla morale ed alla scienza. Egli ha dimostrato che Epicuro e il suo
poeta combattevano piuttosto il paganesimo che lo spiritualismo, intendendo a
liberare l'uomo dai terrori delle false religioni, e a svolgerlo dai riti
feroci onde pretendevano deprecar l'ira od impetrare il favore delle loro
deità. Furono in questo i precursori dei controversisti cristiani; se
non che, non avendo altro lume, esautorando gli Dei, abolirono la Provvidenza.
Ma per tutto il poema spira il sentimento del divino, che, nella pienezza dei
tempi, dovea poi avverarsi nelle più pure credenze; restando quasi armi
imbelli gli argomenti dell'ateismo, che di secolo in secolo alcune sette di
filosofanti riprendono e riforbiscono, ma inutilmente, contro la coscienza del
genere umano. Rispetto alla morale, il Martha fa vedere che la dottrina della
voluttà si riduce ad un quietismo, favorito ai tempi di Epicuro
dallo scadimento e dal servaggio indeclinabile della Grecia, e ai tempi di
Lucrezio fatto desiderabile dagli orrori delle guerre civili. Della scienza
parla il Martha egregiamente in un capitolo che diamo tradotto in fondo a
questo volume, facendo vedere come a puerili fallacie si mescolino intuiti di
veri sublimi accettati ai dì nostri[1].
Del merito poetico di Lucrezio, toccato in
una frase dubbia di Cicerone, passato in silenzio da Virgilio ed Orazio, che
taciti lo imitavano, celebrato altamente da Ovidio e da Stazio, parla il suo
libro, e son piene le storie letterarie e i trattati di estetica. Egli ha
bellezze sì sfolgoranti e sì universalmente ammirate che non
occorre additarle. Il suo ateismo non faceva paura nemmeno al buon Cesari, il
quale per quel suo squisito sentimento del bello e della naturale sublimità,
amava i versi di lui forse non meno che quelli dell'Alighieri.
Alessandro Marchetti nacque nella sua
villa di Pontormo il dì 17 marzo 1632 di Angelo e di Luisa Bonaventuri,
figlia a Filippo celebre professore di ragion civile nell'Università di
Pisa e assai benemerito, per le sue fatiche, della lingua toscana. Aveva appena
di sette giorni oltrepassato i nove mesi di vita, che perdè il padre e
rimase con quattro fratelli sotto la tutela della madre, la quale, rimpatriando,
provvide in Firenze alla loro educazione.
Destinato alla mercatura, già vi si
era introdotto; senonchè, un giorno di minore applicazione, cantando
egli sottovoce il lamento di Armida e dicendogli rampognando il direttore del
negozio: «Voglion esser calcoli, non versi,» egli rispose che nella tregua
delle faccende non sapeva spender meglio il tempo che a ruminare gli aurei
versi del Tasso divino e lasciando il negozio fu posto a studiare l'Instituta
sotto un valente dottore. Nè della legge si appagò gran fatto,
come quella che non gli dava campo di pensar a suo modo e di specolare
liberamente. Ne allentò lo studio e si dette alla lettura dei poeti
latini e toscani[2]. Scrisse allora alcun bel sonetto, e cominciò a tradurre
l'Eneide in ottava rima — parendogli, come scrisse poi al Magliabechi; che quel
sovrano poeta da niuno fosse stato tradotto nel volgar nostro con quella
dignità ch'e' meritava, ma non andò più in là del
quinto libro.
Ottenuto un luogo di scolaro nello studio
di Pisa dal Principe Cardinal Leopoldo, udì i filosofi peripatetici che
v'insegnavano; ma recatosi a noia quella servile filosofia, si sfogò
contro in un capitolo bernesco. Si strinse allora d'amistà con un
giovane dei Galilei[3], ch'era altresì in Sapienza e dando insieme opera allo
studio dei Classici, talvolta per più ricreare lo spirito apersero al
pubblico scena inaspettatamente e talvolta sulla cetra che ciascuno di loro
sapeva maestrevolmente toccare, all'improvviso cantarono versi tali che ne
stupirono gli ascoltanti. Ora abbattutosi a sentirli il gran matematico Gian
Alfonso Borelli, ammirando l'ingegno del nostro Alessandro, s'invaghì
d'introdurlo allo studio delle matematiche e della filosofia esperimentale;
nelle quali discipline fece sì gran progresso, che prima anche di
dottorarsi ebbe la lettura straordinaria di filosofia e nel 1659, anno del suo
dottorato in filosofia e medicina, ebbe una lettura di Logica in
quell'Università. Il Borelli fattoselo commensale, lo diè per
ripetitore ai propri scolari, tra' quali era Lorenzo Bellini[4]. Ebbe la cattedra di filosofia straordinaria che ritenne per anni
otto, ed allora nelle lezioni, nelle dispute, nei circoli, e nei colloqui
promosse lo studio della filosofia sperimentale, e il Malpighi gli scriveva di
Bologna il 4 gennaio 1661: «Dal signor Borelli già intesi che con suo
onore e sommo applauso frammetteva cose nuove nel leggere, e spero che a poco a
poco si potranno addomesticare queste bestie selvaggie.» Partito da Pisa il
Borelli, fu il suo successore nella cattedra di matematiche e la ritenne a
tutta sua vita.
Di 39 anni sposò Anna Lucrezia dei
Cancellieri di Pistoia, bella e saggia, che visse fino a 91 anno. Di lei ebbe
undici figli, sette maschi e quattro femmine. Il maggiore Angelo riuscì
assai bene nelle matematiche e si fece conoscere con le Conclusioni
stampate in Firenze nel 1688 in difesa del padre, bersaglio dei geometri
italiani, con l'opera Della proporzione e proporzionalità, con l'Euclide
riformato, con la sua Introduzione alla Cosmografia e Nautica,
ecc.
Dei letterati della sua età
amò assai il Magliabechi e gli fu caro, e sparsasi la voce della sua
morte scrisse versi affettuosi in compianto. Pianse altresì in versi la
morte del Redi e del Magalotti, due dei più grandi intelletti che la
Toscana avesse prodotto nella sua vecchiaia, vecchiaia di Sara, poco feconda,
ma di Patriarchi delle lettere e delle scienze. Era anch'egli, come tutti i
gentili spiriti di Toscana, amico all'inviato dell'Inghilterra, Neri Newton, e
dettò versi al suo partire. Notevole è come gl'Inglesi ci
tramutassero il loro Hawkwood che amava troppo le nostre terre e le nostre ricchezze
nel Milton, che adorò la nostra lingua e poesia, e in tanti coltissimi
inviati, che favoriscono i nostri studj. La tradizione vive fino al di d'oggi;
e la terra di Toscana che gl'Inglesi predilessero sopra tutte raccolse lo
spirito e copre le ossa di alcuni famosi loro scrittori.
Era giunto all'anno 78 senza che pur
provasse in parte gl'incomodi dell'avanzata vecchiezza, se si eccettui che poco
tempo innanzi aveva cominciato a patire di stillicidio o stranguria, effetto di
pietra.
«Entrato nell'anno ottantadue,
cominciò a provar daddovero gl'incomodi della vecchiezza, in particolare
per lo tormentoso dolore cagionatogli dalla pietra, che non lo lasciava
nè dormire, nè prendere riposo se non brevissimo; dal qual dolore
dopo essersi unto coi miracoloso liquore di San Nicolò di Bari, vescovo
di Mira, o che il santo gli intercedesse la grazia, come a buona ragione creder
si può, se specialmente si considera la devozione da esso avuta per
detto santo, al vivo espressa in varie composizioni da Alessandro composte in
lode del medesimo, o che la pietra prendesse positura tale da non più
impedirgli il passaggio delle orine, l'effetto fu che dopo l'additata unzione,
mai più nei cinque mesi che di poi visse la pietra nessun dolore gli
cagionò.» Colto d'apoplessia morì con tutti i Sacramenti il 6
settembre 1714 d'anni 82, mesi cinque e giorni venti.
Fu Alessandro, continua il figlio
Francesco, di giusta statura, bianco e rosso di carnagione, di capel biondo,
d'occhi assai cilestri, ma vivaci e sì perfetti che mai non ricorse agli
occhiali. Ebbe proporzionatissime tutte le parti del corpo, di volto allegro e
gioviale, dolce e chiara la voce e di complessione gracile anzi che no.
Parrà forse effetto di debolezza
senile e dell'infermità il ricorso del Marchetti al liquore di San
Niccolò di Bari: ma è un fatto che accarezzando del continuo la
sua versione di Lucrezio, dava poi in accessi di devozione e forse non finta. —
Valga di prova il seguente sonetto all'Eccellenza del Sig. Bernardo Trevisani
per la sua opera dell'Immortalità dell'anima.
Taccia Epicuro: entro gli
umani petti
Vive spirto celeste, aura vitale
De' folli ad onta e temerari detti,
Ond'ei tentò provarla inferma e
frale.
I dardi ch'ei
scoccò di morte infetti,
Dall'arco di sua lingua empia e brutale,
Mercè del tuo valor giaccion
negletti,
Mio gran Bernardo, e spennacchiate han
l'ale —
Tu, sovrano dell'Adria
onore e lume,
Dell'eccelsa tua mente erger potesti
Da terra al ciel le non mai stanche piume.
Chiaro ivi le nostr'alme
esser vedesti
Eterne e dive e in nobile volume
Quanto a te fu palese, a noi sponesti[5].
Altra prova è la sua Ode
sopra San Ranieri Pisano, il quale dopo esser vissuto molto lietamente,
perdette gli occhi per piangere i suoi peccati e dopo miracolosamente gli
ricuperò. Fu stimato ipocrita, così l'argomento, e per ciò
invidiosamente perseguitato in Pisa e Gerusalemme; risuscitò una
fanciulla; dopo la sua morte tutte le campane di Pisa da loro stesse sonarono a
festa. Onde il Poeta chiude il componimento così:
Ma qual di
santità segno maggiore
Se il suo terrestre, il suo caduco velo,
Poichè l'anima eletta ascese al
cielo,
L'aria cosparse di soave odore:
E se per additar l'alta
vittoria
Ch'ei contro il rio Satan morendo ottenne
Gli sacrar con miracolo solenne
Fin gl'incensati bronzi inni di gloria?
Prova meno curiosa è un'altra sua
poesia di cui basta citare il titolo. «Liberata Vienna dall'assedio de' Turchi
e riprese loro molte città dall'armi imperiali, polacche e venete,
cacciati di Francia gli Ugonotti e riconosciuto da Giacomo secondo re
d'Inghilterra per capo del Cristianesimo il Romano Pontefice, l'autore, come
principe dell'Accademia dei Disuniti di Pisa, radunatala per celebrare i
trionfi della fede cattolica in pace e in guerra, fece la presente
introduzione.»
Tra l'altre cose dice all'autore della
revoca dell'Editto di Nantes:
E tu gallico Giove...
Tu, tu d'ogni perverso orrido mostro
Che l'empi dogmi il tuo bel regno infette
Fai sí con memorabili vendette,
Che non cede all'erculeo il secol nostro.
Notiamo a suggello che il traduttore di Lucrezio
scrisse in versi sciolti un poemetto sopra il Paradiso, ch'egli descrive punto
per punto, quasi l'avesse veduto con gli occhi del corpo, come Ferondo nel
Boccaccio vide il Purgatorio.
Con miglior consiglio aveva preso a
dettare un poema filosofico in verso sciolto, intitolandolo a Luigi XIV. Il
Giornale dei Letterati[6] ne pubblicò il principio. Il Menzini al quale lo aveva
mandato egli stesso, gli scriveva: «Ho veduto il principio del suo poema,
cioè la sommità della fronte di una bellissima statua;» ma non
andò molto innanzi, e ormava troppo Lucrezio. — Intonava così:
O dell'Eterno Padre, o
dell'Eterno
Figlio, Eterno, ineffabile, infinito,
Vicendevole Amor, Amor fecondo,
Santo Amor, vero Amor, unico Amore,
Unico Amor, che da principio il cielo
Creasti, e l'aureo Sol cinto di raggi,
E delle Stelle erranti a lui d'intorno
Librasti i globi in guisa tal, che puote
Di luce ornarle, e raggirarle in cerchio,
E sì dolce, e sì tremulo, e
sì vivo
Fulgor desti alle fisse, ond'è
trapunto
L'umido manto dell'oscura notte
Che cede appena di bellezza al giorno:
Unico Amor, che a' primi semi infondi
Virtù: che l'aria di canori
augelli,
Di muti pesci le sals'onde, e tutta
D'animai d'ogni specie orni la terra,
Che per sè fôra un vasto orror
solingo,
Qualor deposto il freddo ispido manto
L'anno ringiovenisce e lieto in vista
Zeffiro torna, e 'l bel tempo rimena,
Tu Dio, tu sei, che sugli Alpini monti
Sciogli in tiepido umor le nevi, e 'l
ghiaccio
Che quindi scorre a dar tributo a' fiumi:
Tu di borea il furor, tu del crudele
Austro gli sdegni, e tu di noto, e d'euro
Gl'insani impeti orrendi affreni, e molci,
E i turbini sonori, e le procelle
Scacci, e dai bando alle bufere, a i
nembi,
E tu col ciglio le tempeste acqueti:
Tu di frondi novelle, e di virgulti
Le selve adorni: e le campagne e i prati,
E le rive, e le piagge, e i colli ameni
Fai d'erbette e di fior lieti e ridenti.
Dal tiro divino ardor commosso l'uomo
Desia la donna, e in dolce nodo eterno
Di fede marital con lei si lega.
Squassa l'altera fronte, e guerra indice
Per la grassa giovenca al suo rivale
L'innamorato tauro; il gelo istesso
D'acque infinite ad ammorzar bastante
Non è l'interna fiamma, onde il
delfino
Sovente, e l'orca in mezzo al mare
avvampa.
Lucrezio era un autore in odio alla
Chiesa; tanto più è da tener conto di un letterato che in Roma,
nell'accademia degli Incitati, ne parlò spassionatamente.
Girolamo Frachetta da Rovigo morto in Napoli nel 1620, essendo provigionato dal
re di Spagtra, scrisse, e stampò nel 1581, non compito il 21 anno, un
Dialogo del Furore poetico, ov'egli entra a ragionare con tre giovani,
tutti allora studenti nell'Università di Padova. Nel 1589
pubblicò in Venezia presso i Gioliti la sposizione della tanto vessata Canzone
d'amore di Guido Cavalcanti. Nel 1589 pubblicò pure in Venezia
appresso Pietro Paganini la sua Breve Sposizione di tutta l’opera di
Lucrezio distesa in sei lezioni nella quale si disamina la dottrina di Epicuro,
e si mostra in che sia conforme col vero e con gli insegnamenti di Aristotile e
in che differente, con alcuni discorsi distesi in sette lezioni sopra
l'Invocazione di detta opera. È intitolata con lettera in data di Rovigo
1 Gennaro 1588, al cardinale Scipione Gonzaga, al quale dice tra l'altre cose:
«Lucrezio così grave scrittore, non doveva a partito niuno rimanere
senza sposizione; imperocchè, oltre l'essere oscuro e contenere molte
cose buone, che sono state frantese, ne contiene anco molte di ree, le quali fa
di mestiero, acciocchè altri non vi s'inganni, in iscambio togliendole,
rifiutare; et è un ravvivatore della dottrina, di già per poco
dimenticata, del grande Epicuro, a cui sono apposte a torto molte bugie.»
Il Marchetti si mise a tradurlo. Voleva
dedicarlo a Cosimo III[7], ma non fu accettata la dedica nè gradita la
pubblicazione; onde la versione girò buona pezza inedita, ma dopo
l'invenzione della stampa, dice il figlio Francesco, non vi fu libro che tante
volte si copiasse; e il curioso si è che Cardinali e gran prelati eran
quelli che più desideravano leggerlo.
Constant Martha che
ha tentato la versione poetica di alcuni passi di Lucrezio, dice assai bene: Nous
croyons avoir fait une tentative nouvelle, celle de conserver le mouvement
logique, la trame serrée d'un poète philosophe qui raisonne toujours
même quand il peint. C'est une infidelité que d'offrir la poésie de
Lucréce en images brillantes, mais brisées. L'exactitude consiste ici à
respecter avant tout la suite des pensées; le reste est un agréable surcroît,
qu'il faut donner si l'on peut. E questo
è il pregio del Marchetti; mentre prodiga gli ornamenti poetici, rende
benissimo l'andamento dell'originale.
Come Angelo Firenzuola traducendo l'Asino
d'oro d'Apuleio vi annestò, quasi fosse egli l'autore, alcune
memorie di sè, così fece il Marchetti introducendo nel suo
Lucrezio le lodi del suo maestro Borelli e del Gassendi, grande rinnovatore
della filosofia di Epicuro nel secolo XVII. Del Borelli si veda ai versi
955-960 del I Libro ove l'aggiustò ad Archimede, perciò avevano
comune la patria o la Sicilia, essendo l'uno nato in Messina l'altro in
Siracusa. Del Gassendi si veda ai versi 525-532 del Libro V. Ed altresì,
dolendosi Lucrezio della povertà ed insufficienza della lingua latina a
trattare materie filosofiche, il Marchetti che si valeva della lingua toscana
non meno flessibile della greca e ricca di modi e partiti da esprimere ogni
più astrusa idea, nei versi 181-283 si lodò del felice istromento
che aveva sortito.
Tradusse con garbo Anacreonte, sebbene,
nel gittare gli occhi sul libro e trovando un primo verso che suona:
Unischiam le rose tenere,
ci pare che ne cada di capo la corona e di mano il bicchiere. Se
non che bisogna non isgomentarsi per queste leziosaggini, e continuare,
chè n'avremo in compenso vaghezza di lingua e soavità d'armonia,
pregi sempre vivaci della Toscana e che si riscontrarono fino in un anatomico,
nel Bellini; e il Magalotti, quella gran mente, nelle sue canzoncine e nel Sidro,
non è egli vaghissimo e delizioso?
A questa versione si addirebbero meglio le
lodi che Giuseppe Maria Quirini gli dava pel Lucrezio. «In somma, il
Marchetti, egli scriveva, maneggia il poema della Natura delle cose,
come se fosse un argomento amoroso, ricolmandolo per ogni dove di tutte le
delizie dello stile, di tutti i vezzi della poesia, finalmente di tutte le
lascivie del parlar toscano.» Il che in parte è vero e l'incanto si
ravvalora per le reminiscenze dei nostri poeti classici, che a quando a quando,
come quel purpureo nastro dell'Ariosto, partono la tela d'argento dell'industre
testore.
G. B. Clemente Nelli, l'erede delle ire di
Vincenzo Viviani contro il Marchetti dice: «Non molta pompa crederei doversi
fare di questa benchè per altro bella traduzione, ed in ottimo genere di
verso sciolto condotta... poichè oltre l'essere stata criticata dal
Lazzarini come mal tradotta, è stata censurata dalla Sacra Congregazione
e reputata opera perniziosa al Cristianesimo per le male conseguenze ed effetti
da essa prodotti....
L'Emin. Cantelmo, arcivescovo di Napoli,
per essersi scoperto nella predetta città che Gio. Andrea de Magistris e
Carlo Rosito speziale di medicina insegnavano l'ateismo, prima della pubblica e
solenne abiura degli errori da costoro professati, fece nella sua Chiesa
cattedrale il dì 15 Febbraio 1693 un sermone, in cui tra le altre cose
disse:.... ora si rendono palesi quelle mani sacrileghe, le quali con irritare
l'indignazione divina hanno posto fuoco alle mine de' terremoti scoppiati pochi
giorni sono con tanto spavento ed hanno più recentemente provocato il
flagello della peste estinto miracolosamente per esser prevaluto il merito de'
buoni alla malizia de' cattivi... Seguitò inculcando la necessità
indispensabile di fuggire come mostri velenosi i libri infetti d'eresia, e
dell'infame ateismo e specialmente l'empio Lucrezio traslatato per arte del
Demonio in metro italiano pur troppo applaudito....
Il dì 16 novembre 1718, segue il
Nelli, fu fatto dalla Congregazione dell'Indice in Roma il decreto di
proibizione del Lucrezio tradotto dal Marchetti o manoscritto o stampato, che
egli si fosse, a motivo che alcuni fratelli del casato dei Legni, essendo stati
processati dal tribunale dell'Inquisizione confessarono di essere divenuti atei
per aver soltanto letto il Lucrezio dal signor Alessandro Marchetti tradotto.
Gli proibirono anche la versione di
Anacreonte.
Mentre alcuni volevano bandire dal regno
delle lettere la versione di Lucrezio come empia e pervertitrice, Domenico
Lazzarini di Morro, secondo accenna il Nelli, lettone un quattrocento versi e
non più, con dodici osservazioni tentò di annullarne il pregio e
proscriverla come inesatta, e dimostrante poca conoscenza del sistema di
Epicuro, scusando poi ipocritamente l'autore che l'avesse fatta mentre era
assai giovane, nè maturo voluto poi rivederla per non render perfetta
un'opera si perniziosa. L'erudito marchigiano, dimostrato sottilmente i difetti
de' luoghi presi ad esaminare li rifece egli in versi e qui gli cadde l'ago;
perchè poco rniglior saggio di sè avrebbe dato l'Algarotti, se,
dopo le sue critiche del Caro, avesse preso a rifarlo. E sì ch'era uno
dei più famosi versiscioltai del suo tempo. Ora si senta come il
Lazzarini rifece il Sacrifizio di Aulide:
Come già un tempo
in Aulide gli Altari
Della vergine Dea lordar col sangue
D'Ifianassa bruttamente i capi
Dell'Esercito Danao e gli eroi primi.
La qual, mentre che a lei l'infula intorno
Agli ornamenti verginali avvolta
Con le bende ugualmente ricoperse
E l'una gota e l'altra e vide il padre
Starsene e dritto e mesto innanzi l'Ara;
E a lui vicino far misteri e pompa
D'un coltello i ministri; e vide infine
I cittadini suoi guatarla e piangere:
Che di religion piena e di tema
Neppure osando di parlar, chinava
Divotarnente le ginocchia in terra.
Nè all'infelice in quel malvagio
tempo
Poteo punto giovar ch'essa la prima
Al re di padre il nome avesse dato.
Perchè da quegli eroi tolta di
terra
Fu condotta all'altar tremando tutta:
Non perchè terminata la solenne
E pompa e riti, ella potesse poi
Esser seguita dal suo chiaro sposo;
Ma perchè al tempo stesso delle
nozze
Promesse, col dolor d'esser dal suo
Padre scannata, ella a cader venisse
D'un sacrificio impuro ostia innocente.
Qui avrebbe luogo l'Hélas o
piuttosto l'Holà di Boileau a Corneille.
A quel passo:
Non perchè terminato il sacrificio
Fosse legata col soave nodo
D'un illustre Imeneo;
il Lazzarini fa l'arguto e dice: «Le prometto io che dopo che
fosse stata sacrificata, sarebbe stata la bella sposa. Ma Lucrezio di queste
non ne dice. Egli dice non perchè terminato, non il sacrificio,
ma more sacrorum il rito, e quelle cerimonie che si fanno avanti i
sacrificj, dopo le quali poteva ben essere facilmente sposa. Ma dopo che fosse
stata scannata, non credo che senza difficoltà grande avrebbe potuto
essere:» cavillo bello e buono, perchè il traduttore, astraendosi dalla
qualità e dal fine degli apparecchi, non ha l'animo che alla giovane, la
quale già si figurava di esser condotta all'altare per altro e finita la
cerimonia nuziale esser sposa ad Achille.
Paolo Rolli che fu il primo editore del
poema di Lucrezio tradotto dal Marchetti (Londra 1717), lo mette terzo tra l'Eneide
del Caro e le Metamorfosi d'Ovidio dell'Anguillara. Eccede dall'un lato
come il Baretti dall'altro, quando assevera, ch'egli era non solamente
null'affatto poeta, ma verseggiatore molto mediocre, perchè non
c'è pagina nella sua traduzione che non contenga alquanti versi molto
flosci e zoppi. Il Tiraboschi la dichiarò elegantissima e della critica
del Lazzarini dice, che, da qualunque ragione ella movesse, non ha avuto
effetto e nulla ha scemato la stima di cui quella ha sempre goduto. Invano,
ripete altrove, ha preteso di combattere il comun sentimento de' dotti. Il
sommo Leibniz dovendo riferire nella sua Teodicea un passo del secondo libro
ove si descrive il movimento spontaneo attribuito agli atomi da Epicuro, si
vale della versione del Marchetti anzi che dell'originale.
Prenderò dal Martha un tratto
sull'amore, che mostrerà meglio che il rifacimento del Lazzarini con
quale libertà il Marchetti trattasse Lucrezio.
Ces tourments de
l'amour usent le corps et l’âme;
Ta vie est suspendue
au geste d'une femme,
Ton bien croule,
l'usure envahit ta maison,
Dans l'oubli des
devoirs s'évanouit ton nom,
Oui, pour qu'un
brodequin venu de Sicyone,
Rie a des pieds
mignons, qu'à de beaux doigts rayonne
Un grand rubis dans
l'or, que les plus fins tissus
S'abreuvent chaque
jour des sueurs de Venus.
Ton bien, 1'antique
fruit des vertus paternelles,
Flotte en mitre, en
rubans sur la tête des belles,
Traîne sur les pavés
en robes, en manteaux
Teints des molles
couleurs d'Alindie et de Chíos.
Puis le vin coule
à flots; aux festins que tu donnes,
Il faut encor
parfums, tapis moelleux, couronnes.
Vain effort du
plaisir! du fond de ces douceurs
Monte un dégôut amer
qui tue au sein des fleurs.
Soit qu'un remords secret
avertisse ton âme
Qua tu perds tes
beaux ans dans un repos infâme,
Soit que par ta
maîtresse un mot dit au hasard
Ait planté dans ton
cœur un soupçon, comme un dard,
Qui s'y fixe, y
descend, creuse une plaie ardente,
Soit que ton œil
jaloux, épiant sur l'amante
Quelque regard
furtif, surprenne avec effroi
La trace d'un souris
qui ne fut pas pour toi.
Qui veramente il Marchetti traducendo:
O perchè troppo
ha cupidi e vaganti
Gli occhi e troppo gli volge al suo rivale
E con lui troppo parla e troppo ride,
ha guastato la finezza di quel in vultuque
videt vestigia risus, nots, dice benissimo il Martha, qui peignent avec
une si heureuse hardiesse la jalousie dont la perspicacité dèmêle
sur un visage impassible non pas seulement un sourire, mais les traces d'un
sourire infidèle.
Ora sentiamo come il Molière lo
scolare del Gassendi, che s'era provato alla versione di Lucrezio, ne
trasportasse un tratto nel suo Misantropo[8]:
L'amour pour
l'ordinaire est peu fait à ces loís,
Et l'on voit les
amants vanter toujours leur choix,
Jamais leur passion
n'y voit rien de blâmable
Et, dans l'objet
aimé, tout leur devient aimable;
Ils comptent les
défauts pour des perfections
Et savent y donner de
favorables noms.
La pâle est au jasmin
en blancheur comparable;
La noire à
faire peur une brune adorable;
La maigre a de la
taille et de la liberté;
La grasse, est, dans
son port, pleine de majesté
La malpropre sur soi,
de peu d'attraits chargée,
Est mise sous le nom
de beauté négligée;
La géante paraît une
déesse aux yeux;
La naine un abrégé
des merveilles des cieux.
L'orgueilleuse a le
coeur digne d'une couronne;
La fourbe a de
l'esprit; la sotte est toute bonne;
La trop grande
parleuse est d'agréable humeur;
Et la muette garde
une honnête pudeur.
C'est ainsi qu'un
amant dont l'ardeur est extrême
Aíme jusqu'aux
défauts des personnes qu'il aime.
Nella vita scrittane dal suo figlio
Francesco e nel Saggio del Nelli[9] si posson vedere i lavori geometrici del Marchetti e le
controversie che ne nacquero. Il suo libro De resistentia solidorum pareva
al Nelli da principio un buon libro, ma diceva esser erba del Borelli. Poi,
ricreduto per gli errori trovativi dal P. Guido Grandi, lo ridonò al
Marchetti. Il libro in cui il Marchetti volle risolvere alcuni problemi
proposti da un matematico oltramontano parve altresì erroneo.
Michelangelo Ricci, scolare del
Torricelli, scrivea a Vincenzo Viviani da Frascati, 11 giugno 1675: «aver
consigliato al Marchetti, che gli avea mandato quel suo libricciuolo, di
sopprimerlo e non dar materia di ridersi di noi italiani a molti virtuosi
oltramontani emuli rostri.»
Il Viviani scriveva al Marchetti: «Io non
ho voluto pubblicare l'esamina del suo libretto, intorno al quale avevo che
dire pure assai dal principio sino all'ultimo, sì per non mettere alla
berlina la reputazione di V. S., la quale io amo forse più di quello che
ella non si crede, come ancora per non avvilire quella di noi altri Toscani
perchè po' poi finalmente il Castello di Pontormo e pure in Toscana,
quanto vi sia la nobilissima Firenze sua metropoli e patria mia... Ella non
contenta di professare la filosofia, facoltà, che non ha mai chi gli
riveda il conto per la minuta, presumendosi molto più del dovere in
Geometria, si è lasciata portare dal desiderio e dalla soverchia ambizione
di giugnere a qualche palio prima degli altri; come ha creduto e ha goduto in
sè stesso, instigatone anche da chi non è nè amico suo
nè d'uomo che viva (intende del Borelli) di avere usato ogni sforzo di
far comparire d'improvviso alle viste altrui la battaglia, la vittoria e il
trionfo di un'impresa stimata da lei più ardua e più gloriosa di
quella di M. Marcello, quando espugnò Siracusa. Ma, signor dottor mio da
bene, la geometria speculativa non è già quella
Trattabile e benigna disciplina
Che va per tutto i versi e segue franca
Dov'anche l'ignoranza la declina,
e la quale voi chiamate filosofia.» Finisce col dirgli che s'era
fatto scorgere e da diritto e da rovescio e con altre pungentissime beffe.
Il Marchetti all'incontro scriveva al Magliabechi
del livido Geometra e toccando de' suoi sigillamenti (o dell'aver
fatto sigillare le sue Soluzioni dei Problemi detti dal Cardinale
Leopoldo de' Medici) e delle sue cabale... aggiungeva:
«Che il Padre Fabbri lo chiami Apollonio
redivivo e del veramente dottissimo Borelli mio maestro parli, come ella dice,
come se avesse a parlar d'un guattero, non me ne maraviglio, perchè
cotestui non fa altro che sfacciatissimamente adulare i Gesuiti e
particolarmente il medesimo Padre Fabbri; ed il Borelli che all'incontro non
è adulatore, ma filosofo, gli rivede di modo il pelo, che appresso tutti
gl'intendenti lo fa conoscere per quel che egli è. Ma se il padre Fabbri
parla del sig. Borelli, come d'un guattero, non così ne parlano infiniti
altri letterati, che studiano senza livore o passione alcuna le sue dottissime
ed immortali opere. Nè così ne parla Roma, che per quanto a me
è stato scritto da persona degna di fede, con suo grande stupore lo va a
sentire ogni volta che egli discorre nell'Accademia della Regina (Cristina di
Svezia). Mi maraviglio bene infinitamente che codesto geometra sia sì
proclive in lodare i Gesuiti, e particolarmente il Padre Fabbri, mentre
essendo, come egli dice, il Beniamino del Galileo, cioè l'ultimo e
dilettissimo suo scolare, dovrebbe odiarli più della peste, come quelli,
che sono stati e, parlando generalmente, sono tuttavia asprissimi ed irreconciliabili
nemici del suo maestro. Ma in che scienza è egli mai stato il Galileo
maestro di cotestui? Forse in logica? no; perchè per la medesima sua
confessione ebbe in questa per maestro un frate. Forse in geometria? Nemmeno;
perchè, per quanto egli si vanta, glie ne insegnò non so che poca
un altro frate, e nel resto egli l'ha studiata tutta da sè, ed esorta di
più anco gli altri a fare il medesimo, benchè per Dio, se i
giovani pigliassero il suo consiglio, mi creda pure che se pochi geometri sono
al mondo, ce ne sarebbero molto manco. Forse in fisica, in metafisica, in
ottica, in meccanica, in astronomia, o in altra nobile professione? Ma quando
ha egli in alcuna di queste dato mai saggio al mondo di saper nulla? Resta
dunque ch'ei non fosse in nessun modo scolare del Galileo, ma al più al
più lo servisse per guida, quand'era cieco, o per scriverli qualche
lettera o per andare a farli qualche imbasciata.»
Il Nelli avi à ragione sul punto
dell'imperizia del Marchetti in geometria, avendo sì buoni mallevadori
come il Ricci ed il Viviani; ma ha torto nel premer tanto sulla condanna del
volgarizzamento del Lucrezio, e nel lodare la somma saviezza del Viviani, a far
la corte ai Gesuiti, nemici del Galileo, e d'ogni progresso delle scienze,
quando ne portan pericolo le loro dottrine. Il Marchetti mostra essere stato
uno spirito libero, e miglior seguace dell'indirizzo fondamentale della
filosofia del Galileo che il Viviani, il quale coltivava soltanto la parte
scientifica pura, e si peritava di toccar quella che diremo scientifico-morale,
ch'è po’ poi finalmente la più alta e importante, come quella che
tende a liberare da ogni ceppo teologico lo spirito, aprendogli tutta la
distesa de' cieli, e dandogli ali da scorrerli signorevolmente. Ora il
volgarizzamento del Lucrezio era l'ultima conseguenza della libertà di
filosofare propugnata e confessata col suo martirio dal Galileo; e se il
Marchetti non fu un geometra, fu per ventura buon poeta; se no diremmo ch'e'
fosse alla scuola del Galileo quel che il D'Holbach fu alla scuola dei
D'Alembert e dei Diderot.
Abbiamo seguito in questa nostra
l'edizione procurata in Firenze da Giosuè Carducci (Barbèra,
1864) anco a molto giovane, ma già maestro. Egli oltre la prima edizione
di Londra, riscontrò l'altra del 1779, che pregia sopra tutte. Nè
abbiamo tralasciate le Varianti notate da lui diffondendo così
gli studj di un critico valentissimo, non solo intendente, ma creatore di
ottime poesie. Abbiamo aggiunto i begli argomenti che il Blanchet premise alla
traduzione francese del Lagrange (Paris,1861), e il capitolo della Scienza di
Lucrezio di Constant Martha. Così abbiam provveduto alla chiarezza del
poema, e direm con le parole di Lucrezio al lettore:
Nè cieca notte ornai potrà
impedirti
L'incominciata via, che ti conduce
Di natura a mirar gl'intimi arcani:
Sì le cose alle cose accenderanno
Lume che mostri alla tua gente il vero.
Eugenio Camerini.
Argomento.
Il poeta comincia da una splendida
invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio,
2. l'esposizione del subbietto, 3. l'elogio d'Epicuro, 4. la
confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la
dottrina del filosofo greco e contro l'ardimento del poeta latino che si
accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e
pone a primo principio che l'essere non può uscir dal nulla,
nè tornare al nulla. V'ha dunque corpuscoli primitivi, onde
constano tutti i corpi, e ne' quali questi si risolvono; sebbene invisibili,
è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e
neppure esistere senza il vuoto. L'universo pertanto resulta da queste due
cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è
nè l'uno nè l'altro n'è proprietà o accidente
e non già una terza classe d'esseri che faccian parte da sè. I
corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere
perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito
dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l'acqua, l'aria o la
terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l'omeomeria
di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto,
indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v'ha
dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi
è dunque una follia.
Alma figlia di Giove, inclita madre
Del gran
germe d'Enea, Venere bella,
Degli uomini
piacere e degli dèi:
Tu che sotto
i girevoli e lucenti
Segni del
cielo il mar profondo e tutta
D'animai
d'ogni specie orni la terra,
Che per
sè fôra un vasto orror solingo:
Te dea
fuggono i venti: al primo arrivo
Tuo
svaniscon le nubi: a te germoglia
Erbe e fiori
odorosi il suolo industre:
Tu rassereni
i giorni foschi, e rendi
Con dolce
sguardo il mar chiaro e tranquillo,
E splender
fai di maggior lume il cielo.
Qualor
deposto il freddo ispido manto
L'anno
ringiovanisce, e la soave
Aura feconda
di Favonio spira,
Tosto tra fronde
e fronde i vaghi augelli,
Feriti il
cor da' tuoi pungenti dardi,
Cantan
festosi il tuo ritorno, o diva;
Liete
scorron saltando i grassi paschi
Le fiere e
gonfi di nuov'acque i fiumi
Varcano a
nuoto e i rapidi torrenti:
Tal da'
teneri tuoi vezzi lascivi
Dolcemente
allettato ogni animale
Desïoso
ti segue ovunque il guidi.
Insomma tu
per mari e monti e fiumi,
Pe' boschi
ombrosi e per gli aperti campi,
Di piacevole
amore i petti accendi,
E
così fai che si conservi 'l mondo.
Or; se tu
sol della natura il freno
Reggi a tua
voglia, e senza te non vede
Del
dì la luce desïata e bella
Nè
lieta e amabil fassi alcuna cosa;
Te, dea, te
bramo per compagna all'opra,
In cui di
scriver tento in nuovi carmi
Di natura i
segreti e le cagioni
Al gran
Memmo Gemello a te sì caro
In ogni
tempo e d'ogni laude ornato.
Tu dunque, o
diva, ogni mio detto aspergi
D'eterna
grazia; e fa' cessare intanto
E per mare e
per terra il fiero Marte,
Tu che sola
puoi farlo. Egli sovente
D'amorosa
ferita il cuor trafitto
Umil si posa
nel divin tuo grembo.
Or; mentr'ei
pasce il desïoso sguardo
Di tua
beltà ch'ogni beltade avanza,
E che
l'anima sua da te sol pende;
Deh porgi a
lui, vezzosa dea, deh porgi
A lui soavi
preghi, e fa' ch'ei renda
Al popol suo
la desïata pace.
Chè
se la patria nostra è da nemiche
Armi
agitata, io più seguir non posso
Con animo
quïeto il preso stile,
Nè
può di Memmo il generoso figlio
Negar
sè stesso alla comun salute.
Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi
Grate ed
attente orecchie, e ti prepara,
Lungi da te
cacciando ogni altra cura,
Alle vere
ragioni, e non volere
I miei doni
sprezzar pria che gl'intenda.
Io
narrerotti in che maniera il cielo
Con moto
alterno ognor si volga e giri;
Degli
dèi la natura, e delle cose
Gli alti
principii; e come nasca il tutto,
Come poi si
nutrichi, e come cresca,
Ed in che
finalmente ei si risolva.
E ciò
da noi nell'avvenir dirassi
Primo corpo
o materia o primo seme
O corpo
genitale, essendo quello
Onde prima
si forma ogni altro corpo.
Chè
d'uopo è pur che 'n somma eterna pace
Vivan gli
dèi per lor natura e lungi
Stian dal
governo delle cose umane,
Scevri
d'ogni dolor d'ogni periglio,
Ricchi sol
di lor stessi, e di lor fuori
Di nulla
bisognosi, e che nè merto
Nostro gli
alletti o colpa accenda ad ira.
Giacea
l'umana vita oppressa e stanca
Sotto
religïon grave e severa,
Che
mostrando dal ciel l'altero capo
Spaventevole
in vista e minacciante
Ne
soprastava. Un uom d'Atene il primo
Fu, che
d'ergerle incontra ebbe ardimento
Gli occhi
ancor che mortali e le s'oppose
Questi non
paventò nè ciel tonante
Nè
tremoto che 'l mondo empia d'orrore
Nè
fama degli dèi nè fulmin torto:
Ma, qual
acciar su dura alpina cote
Quanto
s'agita più tanto più splende,
Tal
dell'animo suo mai sempre invitto
Nelle
difficoltà crebbe il desio
Di spezzar
pria d'ogni altro i saldi chiostri
E l'ampie
porte di natura aprirne.
Così
vins'egli, e con l'eccelsa mente
Varcando
oltre a' confin del nostro mondo
Fu bastante
a capir spazio infinito.
Quindi
sicuramente egli n'insegna
Ciò
che nasca o non nasca, ed in qual modo
Ciò
che racchiude l'universo in seno
Ha poter
limitato e termin certo.
E, la
religion co' piè calcata,
L'alta
vittoria sua c'erge alle stelle.
Nè
creder già che scelerate ed empie
Sian le cose
ch'io parlo; anzi sovente
L'altrui
religion ne' tempi antichi
Cose
produsse scelerate ed empie.
Questa il
fior degli eroi scelti per duci
Dell'oste
argiva in Aulide indusse
Di
Dïana a macchiar l'ara innocente
Col sangue
d'Ifigènia; allor che, cinto
Di bianca
fascia il bel virgineo crine,
Vid'ella a sè
davanti in mesto volto
Il padre, e
a lui vicini i sacerdoti
Celar
l'aspra bipenne, e 'l popol tutto
Stillar per
gli occhi in larga vena il pianto
Sol per
pietà di lei che muta e mesta
Teneva a
terra le ginocchia inchine.
Nè
giovò punto all'innocente e casta
Povera
verginella in tempo tale
Ch'a nome
della patria il prence avesse
All'esercito
greco un re donato:
Chè
tolta dalle man del suo consorte
Fu condotta
all'altar tutta tremante;
Non
perchè, terminato il sacrifizio,
Legata fosse
col soave nodo
D'un illustre
imeneo; ma per cadere
Nel tempo
stesso delle proprie nozze
A'
piè del genitore, ostia dolente
Per dar
felice e fortunato evento
All'armata
navale. Error sì grave
Persüader la
religion poteo.
Tu stesso, dall'orribili minacce
De' poeti
atterrito, ai detti nostri
Di negar
tenterai la fè dovuta.
Ed oh quanti
potrei fingerti anch'io
Sogni e
chimere, a sovvertir bastanti
Del viver
tuo la pace e col timore
Il sereno
turbar della tua mente.
Ed a ragion,
che se prescritto il fine
Vedesse
l'uomo alle miserie sue,
Ben resister
potrebbe alle minacce
Delle
religïoni e de' poeti:
Ma come mai
resister può, s'ei teme
Dopo la
morte aspri tormenti eterni,
Perchè
dell'alma è a lui l'essenza ignota?
S'ella sia
nata od a chi nasce infusa,
E se morendo
il corpo anch'ella muoia?
Se le
tenebre dense e se le vaste
Paludi vegga
del tremendo inferno,
O s'entri ad
informare altri animali
Per divino
voler? Siccome il nostro
Ennio
cantò, che pria d'ogn'altro colse
In riva
d'Elicona eterni allori,
Onde
intrecciossi una ghirlanda al crine
Fra
l'italiche genti illustre e chiara.
Bench'ei ne'
dotti versi affermi ancora
Che sulle
sponde d'Acheronte s'erge
Un tempio
sacro agl'infernali dèi,
Ove non
l'alme o i corpi nostri stanno
Ma certi
simulacri in ammirande
Guise
pallidi in volto; e quivi narra
D'aver visto
l'immagine d'Omero
piangere
amaramente e di natura
Raccontargli
i segreti e le cagioni.
Dunque non
pur de' più sublimi effetti
Cercar le
cause e dichiarar conviensi
Della luna e
del sole i movimenti,
Ma come
possan generarsi in terra
Tutte le
cose, e con ragion sagace
Principalmente
investigar dell'alma
E dell'animo
uman l'occulta essenza,
E ciò
che sia quel che, vegliando infermi
E sepolti
nel sonno, in guisa n'empie
D'alto
terror, che di veder presente
Parne e
d'udir chi già per morte in nude
Ossa
è converso e poca terra asconde.
E so ben io qual malagevol opra
Sia
l'illustrar de' Greci in tóschi carmi
L'oscure
invenzïoni; e quanto spesso
Nuove parole
converrammi usare,
Non per la
povertà della mia lingua
Ch'alla
greca non cede e più d'ogn'altra
Piena
è di proprie e di leggiadre voci.
Ma per la
novità di quei concetti
Ch'esprimer
tento e che null'altro espresse.
Pur nondimen
la tua virtude è tale
E lo sperato
mio dolce conforto
Della
nostr'amistà, ch'ognor mi sprona
A soffrir
volentieri ogni fatica
E m'induce a
vegliar le notti intere,
Sol per
veder con quai parole io possa
Portare
innanzi alla tua mente un lume
Ond'ella
vegga ogni cagione occulta.
Or sì vano terror, sì cieche tenebre
Schiarir
bisogna e via cacciar dall'animo
Non co' be'
rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del
giorno a saettar poc'abili
Fuorchè
l'ombre notturne e i sogni pallidi,
Ma co 'l
mirar della natura e intendere
L'occulte
cause e la velata imagine.
Tu, se di
conseguir ciò brami, ascoltami.
Sappi che nulla per divin volere
Può
dal nulla crearsi: onde il timore
Che quindi
il cor d'ogni mortale ingombra
Vano
è del tutto: e, se tu vedi ognora
Formarsi
molte cose in terra e 'n cielo
Nè
d'esse intendi le cagioni, e pensi
Per
ciò che Dio le faccia, erri e deliri.
Sia dunque
mio principio il dimostrarti
Che nulla
mai si può crear dal nulla:
Quindi assai
meglio intenderemo il resto,
E come possa
generarsi il tutto
Senz'opra
degli dèi. Or, se dal nulla
Si creasser
le cose, esse di seme
Non avrian
d'uopo; e si vedrian produrre
Uomini ed
animai nel sen dell'acque,
Nel grembo
della terra uccelli e pesci.
E nel vano
dell'aria armenti e greggi:
Pe' luoghi
culti e per gl'inculti il parto
D'ogni fera
selvaggia incerto fôra;
Nè
sempre ne darian gl'istessi frutti
Gli alberi,
ma diversi, anzi ciascuno
D'ogni
specie a produrgli atto sarebbe
Poichè
come potrian da certa madre
Nascer le
cose, ove assegnati i propri
Semi non
fosser da natura a tutte?
Ma or,
perchè ciascuna è da principii
Certi
creata, indi ha il natale ed esce
Lieta a godere
i dolci rai del giorno
Ov'è
la sua materia e i corpi primi.
E quindi
nascer d'ogni cosa il tutto
Non
può, perchè fra loro alcune certe
Cose han
l'interna facoltà distinta.
In oltre:
ond'è che primavera adorna
Sempre
è d'erbe e di fior? che di mature
Biade
all'estiv'arsura ondeggia il campo?
E che sol,
quando Febo occupa i segni
O di libra o
di scorpio, allor la vite
Suda il
dolce liquor che inebria i sensi?
Se non
perchè a' lor tempi alcuni certi
Semi in un
concorrendo atti a produrre
Son
ciò che nasce, allor che le stagioni
Opportune il
richieggono, e la terra
Di vigor
genital piena e di succo
Puote
all'aure innalzar sicuramente
Le molli
erbette e l'altre cose tenere?
Che, se pur
generate esser dal nulla
Potessero,
apparir dovrian repente
In contrarie
stagioni e spazio incerto:
Non vi
essendo alcun seme che impedito
Dall'unïon
feconda esser potesse
O per
ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.
Nè,
per crescer, le cose avrian mestiere
Di spazio
alcuno in cui si unisca il seme,
S'elle
fosser del nulla atte a nutrirsi:
Ma nati
appena i pargoletti infanti
Diverrebbero
adulti, e in un momento
Si vedrebber
le piante inverso il cielo
Erger da
terra le robuste braccia:
Il che mai
non succede; anzi ogni cosa
Cresce, come
conviensi, a poco a poco,
E crescendo
conserva e rende eterna
La propria
specie. Or tu confessa adunque
Che della
sua materia e del suo seme
Nasce, si
nutre e divien grande il tutto.
S'arroge a
ciò, che non daría la terra
Il dovuto
alimento ai lieti parti,
Se non
cadesse a fecondarle il seno
Dal ciel
l'umida pioggia, e senza cibo
Propagar non
potrebber gli animali
La propria
specie e conservar la vita.
Ond'è
ben verisimile che molte
Cose molti
fra lor corpi comuni
Abbian, come
le voci han gli elementi,
Anzi che sia
senza principio alcuna.
In somma: ond'è
che non formò natura
Uomini tanto
grandi e sì robusti,
Che potesser
co' piè del mar profondo
Varcar
l'acque sonanti e con la mano
Sveller
dall'imo lor l'alte montagne
E viver
molt'etadi e molti secoli?
Se non
perchè prescritta è la materia
Onde ogni cosa
si produce ed onde
Composto
è ciò che nasce? Or ecco dunque
Che nulla
mai si può crear dal nulla,
Mentre di
seme ha di mestiere il tutto
Per uscire a
goder l'aura vitale.
Al fin:
perchè veggiamo i culti luoghi
Degl'inculti
più fertili, e per l'opra
Di rozze
mani industrïose i loro
Frutti
produr molto più vaghi all'occhio,
Più
soavi al palato e di più sano
Nodrimento
allo stomaco; e' n'è pure
Chiaro che
d'ogni cosa in grembo i semi
Stanno alla
terra e che da noi promossi
Sono a nuovo
natal, mentre, rompendo
Col curvo
aratro e con la vanga il suolo,
Volghiam
sossopra le feconde zolle,
Domandole or
col rastro or con la marra:
Chè,
se questo non fosse, ogni fatica
Sarebbe
indarno sparsa, e per sè stesso
Produrrebbe
il terren cose migliori.
Sappi oltre a ciò che si risolve il tutto
Ne' suoi
principii, e che non può natura
Alcuna cosa
annichilar giammai.
Chè,
se affatto mortali e di caduchi
Semi fosser
conteste, all'improvviso
Tutte a gli
occhi involarnesi e perire
Dovrian le
cose, ove mestier di forza
Non fôra in
partorir discordia e lite
Fra le lor
parti e l'unïon disciorne.
Ma,
perchè seme eterno il tutto forma,
Quindi
è che nulla mai perir si vede
Pria che
forza il percuota e negl'interni
Vôti spazi
penètri e lo dissolva.
In oltre:
ciò che lunga età corrompe
Se
s'annichila in tutto, ond'è che Venere
Rimena della
vita al dolce lume
Generalmente
ogni animale? ed onde
Cibo gli
porge la 'ngegnosa terra
Onde si
nutra, si conservi e cresca?
Onde le
fonti, onde i torrenti e i fiumi
Portan
l'ampio tributo al vasto mare?
Onde alle
fisse, onde all'erranti stelle
Somministra
alimento il ciel profondo?
Poichè
già l'infinita età trascorsa
Ogni corpo
mortale a pien dovrebbe
Col vorace
suo dente aver distrutto.
Ma, se pur
fu nella trascorsa etade
Seme che
basti a riprodurre al mondo
Tutto
ciò che perisce, eterno è certo.
Nulla
può dunque mai ridursi al nulla.
In somma: a
dissipar sarìa bastante
Tutte le
cose una medesma forza,
Se materia
immortal non le tenesse
Più e
men collegate: un tocco solo
Bastevole
cagion della lor morte
Esser
potria, ch'ove d'eterno corpo
Nulla non
fosse, ogni più leve impulso
Sciôr ne
dovrebbe la testura in tutto.
Ma,
perchè vari de' principii sono
I nodi ed
è la lor materia eterna,
Salve restan
le cose infino a tanto
Che forza le
percuota atta a disciorre
Di ciascuna
di loro il proprio laccio.
Nulla
può dunque mai ridursi a nulla;
Ma ne' primi
suoi corpi il tutto riede.
Tosto che
finalmente il padre Giove
Versa nel
grembo alla gran madre Idea
L'umida
pioggia, essa perisce al certo:
Ma ne sorgon
le biade e se n'adorna
Ogni albero
di fior, di frondi e frutti.
Quindi si
pasce poi l'umano germe,
Quindi ogni
altro animale. E lieta quindi
Di vezzosi
fanciulli ogni cittade
Fiorir si
mira, e le fronzute selve
Piene di
nuovi innamorati augelli
Cantan soavi
armonïose note.
Quindi pe'
lieti paschi i grassi armenti
Posan le
membra affaticate e stanche,
E dalle
piene mamme in bianche stille
Gronda
sovente il nutritivo umore,
Onde i nuovi
lor parti ebri e lascivi
Con non ben
fermo piè scherzan per l'erbe.
Dunque affatto
non muor ciò che ne sembra
Morir
quaggiù, se la natura industre
Sempre
dell'un l'altro ristora; e mai
Nascer non
puote alcuna cosa al mondo,
Se non se
prima ne perisce un'altra.
Or; poi che chiaramente io t'ho dimostro
Che nulla
mai si può crear dal nulla
Nè
mai cosa creata annichilarsi,
Acciò
tu non pertanto i detti miei
Non creda
error, perchè non puoi cogli occhi
Delle cose
veder gli alti principii;
Pensa oltre
a ciò quant'altri corpi sono
Invisibili
al mondo, e pur deggiamo
Confessar
ch'e' vi sono a viva forza.
Pria: se vento gagliardo il mare sferza
Con
incredibil vïolenza ignota,
Le smisurate
navi urta e fracassa;
Or ne porta
sull'ali atre tempeste,
Or via le
scaccia e ne fa chiaro il giorno;
Talor pe'
campi infurïato scorre
Con turbo
orrendo, e le gran piante atterra;
Talor col
soffio impetuoso svelle
Le selve
annose in su gli eccelsi monti:
Così
gorgoglia l'Ocean cruccioso,
Geme, freme,
s'infuria e 'l ciel minaccia.
Son dunque i
venti un invisibil corpo,
Che la terra
che 'l mar che 'l ciel profondo
Trae seco a
forza e ne fa strage e scempio;
Nè in
altra guisa il suo furor distende,
Che suol
repente in ampio letto accolta
La molle
acqua cader gonfia e spumante,
Che non pur
delle selve i tronchi busti
Ma ne porta
sul dorso i boschi interi;
Nè
pôn soffrir i ben fondati ponti
La repentina
forza; il fiume abbatte
Ogni eccelso
edifizio e sotto l'acque
Gran sassi
avvolge, onde ruina a terra
Ciò
ch'al rapido corso ardisce opporsi.
Così
dunque del vento il soffio irato,
Se qual
torrente infurïato scorre
Verso
qualunque parte, innanzi caccia
Ciò
ch'egli incontra e lo diveglie e schianta;
Or con
vortice torto alto il rapisce,
E con rapido
turbo il ruota e porta.
È
dunque il vento un invisibil corpo,
Se nell'opre
e nel moto i fiumi imita
Che son
composti di visibil corpo.
Giùngonne
anco alle nari odor diversi,
Che tra via
nondimen l'occhio non vede:
Il caldo il
gelo il canto il suon le voci
Non pôn
mirarsi, e pur son corpo anch'elleno
Poichè
svegliano il senso e lo commuovono:
E null'altro
che il corpo è tocco o tocca.
Le vesti al
fin nel marin lido appese
Umide fansi,
e le medesme poi
Tornan
asciutte a' rai del sole esposte:
Ma nè
come l'umore ivi si fermi,
Nè
com'ei fugga dal calor cacciato
Alcun non
vede. Egli si sparge adunque
In tante e
tante parti e sì minute,
Ch'a poterle
mirare occhio non basta.
Anzi:
portate per molt'anni in dito
S'assottiglian
l'anella; a goccia a goccia
L'acqua
d'alto cadendo i sassi incava;
L'adunco
ferro del ritorto aratro
Rompendo i
campi occultamente scema;
Consuman per
le strade i piè del volgo
Le durissime
lastre; e, per lo spesso
Toccar di
chi saluta e di chi passa,
Le figure di
bronzo entro alle porte
De' templi
sculte la lor forma pèrdono.
E ben tai
cose sminuir veggiamo;
Ma di veder
ciò che ne caschi ogn'ora
La natura ne
toglie invidïosa.
In somma:
ciò che la natura e 'l tempo
Donano a
poco a poco a quel che cresce
Non possono
gli occhi rimirar contenti,
Nè
quel che per l'età langue o vien meno,
Nè
quel che rode con l'edace sale
Ogni momento
il mar dai duri scogli.
Dunque
è pur di mestier che la natura
D'invisibili
corpi il tutto formi.
Ma non creder però che l'universo
Sia pieno
affatto. In ogni cosa il vôto
Misto
è co' corpi. E questo in molte cose
D'util ti
fia; acciò tu meglio intenda
Tutto
ciò ch'io ragiono, e senza errore
E senza
dubbio interamente creda
Alle parole
mie fide e veraci.
Spazio è dunque nel mondo intatto e vôto
E privo
d'ogni corpo, e luogo ha nome
Poichè,
se ciò non fosse, eternamente
Starian
ferme le cose, essendo offizio
Di tutti i
corpi l'impedire il moto:
Muoversi
dunque mai nulla potrebbe,
Ove nulla
cedesse e desse luogo.
Ma noi
miriam co' gli occhi propri ognora
Nella terra
nel mar nel ciel sublime
Muoversi
molte cose in molti modi
Per molte
cause; che, se vôto alcuno
Spazio non
fosse, d'ogni moto prive
Sarìan
non sol ma nè pur nate al mondo;
Poichè
stivati i primi semi affatto
Goduto
avriano una perpetua quiete.
In oltre:
ancor che molte cose e molte
Sembrin dure
del tutto agli occhi nostri,
Son poi di
corpo assai poroso e raro.
Quindi
è che penetrar miri dall'acque
I tufi, i
sassi e le spelonche, e quindi
Piangon le
selci in copïose stille.
Per tutto il
corpo si diffonde il cibo
Degli
animai; crescon le piante e fanno
Nella
propria stagione il fiore e 'l frutto,
Sol
perchè preso il nutrimento loro
Sin dall'infime
barbe egli si sparge
Tutto per
tutto il tronco e tutti i rami.
Passan le
voci entro le chiuse mura:
E scorre
spesso un duro gel per l'ossa.
Il che non
avverrebbe in modo alcuno,
Se non
fosser nel mondo i vôti spazi
Ov'ogni
corpo penetrar potesse.
Al fine:
ond'è che di due cose eguali
Di mole una
sovente ha maggior pondo?
Che s'un
fiocco di lana in sè chiudesse
Tanto di
corpo quanto il piombo e l'oro,
Egli
altrettanto anco pesar dovrebbe;
Chè
proprio è sol di tutt'i corpi il premere
In
giù le cose, ed al contrario il vôto
Di sua
natura è senza peso alcuno.
Dunque, se
di due cose eguali in mole
L'una
più lieve fia, chiaro ne insegna
D'aver manco
di corpo e più di vôto:
Ma,
s'è più grave, pel contrario mostra
D'aver manco
di vôto e più di corpo.
Che sia
dunque fra' corpi il vôto sparso,
Benchè
mal noto a' nostri sensi infermi,
Per
l'addotte ragioni è chiaro e certo.
Nè qui vogl'io che devïar dal vero
Ti possa mai
quel che sognaro alcuni;
E
perciò quant'io parlo ascolta e nota.
Dicon che 'l
mare allo squammoso armento
Apre l'umide
vie, perch'egli a tergo
Spazio si
lascia ove concorran l'onde;
E che in
guisa simìle ogni altra cosa
Mover si
puote e cangiar sito e luogo.
Ma falso
è ciò: ch'ove potranno alfine
I pesci
andar, se non dà luogo il mare?
E dove al fin,
se non dan luogo i pesci,
Il mar
n'andrà, benchè cedente e molle?
Forz'è
dunque o privar di moto i corpi,
O fra le
cose mescolar il vôto
Che sia
cagion de' movimenti loro.
S'al fin due
piastre di lucente acciaio
Si
combaciano insieme, indi in un tratto
L'una
dall'altra si solleva, è d'uopo
Che vôto
resti l'interposto spazio:
Poichè,
quantunque d'ogn'intorno accorra
L'aere per
occuparlo, in un sol punto
Ciò
far non può, ma che riempia è forza
I luoghi
più vicini e poscia gli altri.
E, se per
avventura alcun pensasse
Che si
distinguan l'un dall'altro i corpi
Perchè
l'aere frapposto si condensi,
Erra;
chè il vôto il qual non era innanzi
Fassi per
certo e si riempie dopo
Benchè
velocemente, in qualche tempo;
Nè
l'aere in guisa tal può condensarsi,
Nè,
quand'anco potesse, ei non potrebbe
Sè
stesso in sè raccôrre e in un ridurre
Senz'alcun
vôto le disperse parti.
Dunque
indugia, se vuoi; forz'è ch'al fine
Esser
confessi tra le cose il vôto.
Posso oltre
a ciò molte ragioni addurti
Nulla men
concludenti, onde tu presti
Alle parole
mie fede maggiore:
Ma tanto
basti al tuo sottile ingegno,
Per ben
capir sicuramente il resto.
Chè,
se scopron sovente i bracchi al fiuto
Le lepri i
cervi e l'altre fere in caccia
Pe' covili
appiattate e pe' cespugli
Tosto c'han
di lor via vestigio certo,
Potrai ben
tu per te medesmo intendere
L'una cosa
dall'altra e penetrare
Per tutti i
ripostigli e trarne il vero.
Ma, se tu
pigro fossi o ti scostassi
Dal vero
alquanto, io ti prometto e giuro
Che
può la lingua in così larga vena
Dal ricco
petto mio spargerti, o Memmo,
Più
che mèl dolce d'eloquenza un fiume;
Ch'io temo
pria non la vecchiezza inferma
Per le
membra serpendo il chiostro n'apra
Di nostra
vita e ne disciolga i lacci,
Che mai tu
possa d'ogni cosa a pieno
Da' versi
nostri ogni argomento udire.
Ma tempo
è già di proseguir l'impresa.
Tutte le cose per sè stesse adunque
Consiston
solamente in due nature;
Cio è
nel corpo e nello spazio vôto
Ov'elle han
vari i movimenti e i siti.
Ch'esser
corpi nel mondo il comun senso
Per
sè ne mostra; a cui se fede nieghi,
Non fia
già mai che dell'occulte cose
Possa nulla
provar con la ragione.
E, se non
fosse alcuno spazio o luogo
Che sovente
da noi vôto si chiama,
Non
avrìan sito mai nè luogo i corpi,
Come
già poco innanzi io t'ho dimostro.
Nulla oltr'a
ciò può ritrovarsi mai,
Che tu dir
possa esser diviso affatto
E dal corpo
e dal vôto, onde si dia
Una quasi
fra lor terza natura.
Ch'è
pur qual cosa ciò ch'al mondo trovasi,
Sia di
picciola mole o sia di grande;
Poichè,
s'egli esser tocco o toccar puote,
Benchè
lieve e minuto, è corpo al certo;
Se no, vôto
si chiama o spazio o luogo.
In oltre:
ciò che per sè stesso fia,
O
farà qualche cosa o sarà fatto,
O fia
là dove i corpi han luogo e nascono:
Ma non
può far nè farsi altro che 'l corpo,
Nè
dar luogo alle cose altro che 'l vôto:
Dunque oltre
al vôto e 'l corpo in van si cerca
Una quasi
fra lor terza natura
Che per
sè cresca delle cose il novero,
Essendo il
tutto o d'ambedue congiunto
O loro
evento, ch'accidente io chiamo.
Tu stima poi, che sia congiunto quello
Che non
può senza morte esser disgiunto;
Com'il peso
alle pietre, il caldo al foco,
Ai corpi il
tatto, il non toccarsi al vôto.
Servitude
all'incontro e libertade,
Ricchezza e
povertà, concordia e guerra,
E tutto
ciò che, venga o resti o parta,
Lascia salve
le cose, io soglio poi
Accidente
chiamar, come conviensi.
Il tempo ancor non è per sè in natura:
Ma dalle
sole cose il senso cava
Il passato
il presente ed il futuro;
Nè
può capirsi separato il tempo
Dal moto
delle cose e dalla quiete.
Nè
dica alcun che la tindarea prole
Da Paride
rubata al duce argivo
E 'l superbo
Ilïone arso e consunto
Forse
parrà ch'a confessar ne sforzi
Che tai cose
per sè fossero al mondo;
Mentre
l'età trascorsa irrevocabile
I secoli di
quelli omai n'ha tolto,
Che ad
eventi sì rei furon soggetti.
Poichè,
di ciò che fassi, altro può dirsi
De' paesi
accidente, altro de' corpi
Chè,
se stato non fosse il seme e 'l luogo
Onde si
forma e dove ha vita il tutto,
Non avrebbe
giammai d'amore il foco
Per la rara
beltà d'Elena acceso
Nel frigio
petto suscitar potuto
Il chiaro
incendio di sì cruda guerra,
Nè il
gran destrier del traditor Sinone
Col notturno
suo parto avrìa distrutto
Della nobil
città le mura eccelse.
Onde
conoscer puoi che l'opre altrui
Non son per
sè conforme il corpo e 'l vôto,
Ma
più tosto a ragion debbon chiamarsi
O de' corpi
accidenti o de' paesi.
Sappi poi che de' corpi altri son primi,
Altri si fan
per l'unïon di questi.
Ma quei che
primi son da forza alcuna
Dissipar non
si ponno: ogni grand'urto
Frena la lor
sodezza, ancor che paia
Duro a
creder che nulla al mondo possa
Trovarsi mai
d'impenetrabil corpo.
Passa il
fulmin celeste, allor che Giove
Ver noi
l'avventa, entro le chiuse mura,
Com'i gridi
e le voci: il ferro stesso
S'arroventa
nel fuoco: entro il crudele
Bollor
fervidi al fin spezzansi i sassi:
Un soverchio
calor l'oro dissolve:
Del bronzo
il ghiaccio una gran fiamma strugge:
Penetra per
l'argento il caldo e 'l freddo;
Poi
ch'avvinchiando con la mano il nappo
E versandovi
dentro il dolce vino,
L'uno e
l'altro da noi tosto si sente.
Sì
par che tra le cose ancor che sode
Nulla sia
mai d'impenetrabil corpo.
Ma,
perchè la ragion della natura
Non pertanto
ne sforza, or tu m'ascolta:
Mentre ch'in
pochi versi esser ti mostro
Materia
impenetrabile ed eterna.
Pria: se varia del corpo è la natura
Dall'essenza
del luogo u' fassi il tutto,
Com'i nostri
argomenti han già convinto,
Forz'è
ch'ambe per sè siano ed immiste;
Poichè,
dove lo spazio intatto resta,
Ivi corpo
non è: ma dov'è corpo,
Ivi vôto non
è; son dunque i primi
Corpi
senz'alcun vôto impenetrabili.
In oltre:
essendo mescolato il vôto
Fra le cose
create, è d'uopo al certo
Ch'impenetrabil
corpo intorno il cinga:
Nè
mai posso provar che nulla celi
Per entro a
sè medesmo il vôto spazio,
Se per cosa
già nota io non suppongo
Che
impenetrabil sia quel che l'asconde:
Il che poi
certamente esser non puote
Se non de'
semi l'unïon concorde
Che stringer
possa entro a se stessa il vôto:
Può
dunque la materia esser eterna,
Benchè
sia frale ogni altra cosa al mondo;
Mentr'ella
è pur d'impenetrabil corpo.
Aggiungi
ancor; che se non fosse il vôto,
Pieno
sarebbe il tutto; e se non fossero
Gl'invisibili
corpi, il mondo affatto
Vôto
sarebbe: egli è composto adunque
Di due cose
fra lor molto diverse,
Cioè
de' corpi e dello spazio vôto;
Non essendo
nè vôto in ogni parte,
Nè
pel contrario in ogni parte pieno.
Gl'invisibili
corpi adunque sono,
E distinguon
dal pieno il vôto spazio.
Questi mai
non offende esterna forza:
Per
dissipare ogni percossa è vana
La loro
indissipabile sostanza:
Poichè
nulla che sia di vôto privo
Non par che
possa esser urtato in modo
Ch'e' si
spezzi in due parti e si divida,
Nè
dar luogo all'umore al freddo al caldo
Ond'ogni
cosa vien ridotta al fine;
Ma, quanto
più di vôto in se racchiude,
Tanto
più penetrato agevolmente
Dagli
esterni nemici è poi distrutto.
Dunque, se i
primi corpi impenetrabili
Sono e
senz'alcun vôto è forza al certo,
Com'io
già t'insegnai, ch'e' sieno eterni.
S'eterna in
oltre la materia prima
Stata non
fosse, al nulla omai ridotto
E dal nulla
rinato il tutto fôra:
Ma,
perchè chiaro io t'ho già mostro avanti
Che nulla
mai si può crear dal nulla
Nè
mai cosa creata annichilarsi,
Forza
è pur confessar che i primi semi
Sian di
corpo immortale, in cui si possa
Dissolver
finalmente ogni altro corpo,
Acciò
che sempre la materia in pronto
Sia per
rifar le già disfatte cose.
Per lor
simplicità dunque i principii
Son pieni
impenetrabili ed eterni:
Nè
ponno in altra guisa esser rifatte
Le cose mai
per infinito tempo.
Al fin: se la natura alcun prescritto
Termine non
avesse allo spezzarsi,
Sariano a
tal della materia i corpi
Ridotti omai
nella trascorsa etade,
Che non
avrebbe mai nessun composto
Da molto
tempo in qua passar potuto
Della sua
verde età l'ultimo fiore;
Poichè,
per quanto è manifesto al senso,
Muor più
presto ogni cosa e si dissolve
Che dopo non
rinasce e si restaura:
Onde, ancor
tuttavia spezzando il tempo
Ciò
che già mille volte avesse infranto
La lunga
anzi infinita età trascorsa,
Non potrebbe
giammai rifarlo appieno.
Or;
perchè ristorar vedesi il tutto
E da natura
aver prescritto il tempo,
Onde possa
toccar l'ultima mèta
Dell'età
sua; dunque prefisso è pure
Al romper
delle cose un certo fine.
S'arroge a
ciò: ch'essendo i corpi primi
Di dura anzi
infrangibile sostanza,
Può
non pertanto agevolmente farsi
Tenero e
molle il ciel la luce il foco
L'aria il
vento il vapor l'acqua e la terra
Sol col
mischiare entro alle cose il vôto:
Ma; se per
lo contrario i primi semi
Fosser
teneri e molli; onde potrebbe
Farsi il
ferro, il diaspro e l'adamante,
Mentre mancasse
alla natura affatto
D'ogni
durezza il fondamento primo?
Per lor
simplicità dunque i principii
Son pieni,
impenetrabili ed eterni;
E per loro
unïon posson le cose
Più e
più condensarsi e mostrar forza.
Perchè
in somma è prescritto un termin certo
A ciò
che cresce e si conserva in vita,
E ciò
che possa e che non possa oprare
Per naturale
invïolabil legge
Incommutabilmente
è stabilito,
In guisa tal
ch'ogni dipinto augello
Mostra nel
corpo suo le stesse macchie
Che ciascun
altro di sua specie mostra;
Fie pure
d'invarïabile sostanza
Il primo
seme suo: perchè, se i corpi
Della prima
materia in alcun modo
Si potesser
mutare, incerto ancora
Quel che
nasca o non nasca omai sarebbe
Ed in qual
guisa sia prescritto al tutto
Terminata
potenza e certo fine;
Nè
men potrian generalmente i secoli
Ricondur mai
de' genitori al mondo
La natura, i
costumi, il moto e 'l vitto.
In oltre
ancor: perchè l'estremo termine
Di
qualsivoglia corpo è pur qualcosa,
Benchè
più non soggiaccia ai sensi nostri;
Forz'è
che senza parti e indivisibile
Sia per
natura, e ch'e' non fosse mai
Separato da
sè, nè sia per essere
Mentr'egli
stesso è prima parte ed ultima,
Onde l'altre
e poi l'altre a lui simìli
Per ordine
disposte al corpo danno
La dovuta
grandezza; or, perchè queste
Star non
posson per sè, d'uopo han d'appoggio
Nè
diveglier si ponno in alcun modo.
Per lor
simplicità dunque i principii
Son pieni,
impenetrabili ed eterni
Ed han
l'indivisibili lor parti
Con forti
lacci collegate e strette;
Nè
già per l'unïon d'altri principii
Creati furo;
anzi piuttosto è d'uopo
Ch'eterna
sia la lor simplicitade:
Talchè
mai la natura non consente
Che nulla
sia di lor staccato, ond'essi
Scemin di
mole; conciossiachè i primi
Semi alle
cose dee serbare intatti.
In oltre: se
da noi non si concede
Il minimo fra'
corpi, egli è mestiero
Dir poi che
tutti d'infinite parti
Composti
sian, mentrechè sempre il mezzo
Il mezzo
avrà nè alcuna cosa mai
Porrà
loro alcun termine. Qual dunque
Differenza
addurrem fra l'universo
Intero e
qual si sia più picciol corpo?
Nïuna al
mio parer: poichè, quantunque
Sia
l'universo d'ogn'intorno immenso,
Pur quei
corpi eziandio, che per natura
Piccolissimi
son, di lui non meno
Sarian
composti d'infinite parti:
Il che poi
riclamando ogni verace
Ragion
com'incredibile rifiuta.
Sicchè
d'uopo fia pur, che vinto al fine
Tu confessi
che al mondo alcuni corpi
Trovansi che
di parti affatto privi
E per natura
lor minimi sono:
Ond'essendo
pur tali, è forza al certo
Che sian
pieni, infrangibili ed eterni.
Se la natura
alfin che il tutto crea
Non solesse
sforzare a dissiparsi
In parti
indivisibili le cose,
Già
non potria restaurar con esse
Nulla di
ciò che si dissolve e muore;
Poi che quel
che di parti onde s'accresca
Non è
composto aver giammai non puote
Ciò
ch'aver dènno i genitali corpi,
Cioè
vari fra lor legami e pesi
E percosse e
concorsi e movimenti,
Onde nasce
ogni cosa e divien grande.
Se fine in
somma allo spezzar de' corpi
Stabilito
non fosse; or come alcuni
Superando
ogn'intoppo avrian potuto
Per infinito
tempo omai trascorso
Fino alla
nostra età serbarsi intatti?
Chè
scorda molto il rimanere illeso
Ciò
c'ha frale natura, eterno tempo
Da colpi
innumerabili percosso.
Quindi, chi si pensò che delle cose
Fosse prima
materia il foco solo
Fu dal vero
discorso assai lontano.
Primo duce
di questi armato in campo
Eraclito si
mostra, ed è piuttosto
Per l'oscuro
parlar fra i vani illustre
Che tra chi
cerca il vero uom saggio e grave:
Ch'amare ed
ammirar soglion gli sciocchi
Più
quelle cose che nascoste trovano
Fra
più dubbie parole e più stravolte,
E sol
prestan credenza a quei concetti
Che titillan
l'orecchie e con sonora
E soave
armonia lisciati sono.
Ma se, di vero e puro foco il tutto
Creato
fosse, onde potrian al mondo
Nascer cose
giammai tanto diverse?
Poichè
nulla giovar dovria che 'l foco
Divenisse or
più denso ed or piu raro,
Se le parti
del foco avesser tutte
Di tutto il
foco la natura stessa;
Giacch'egli
unito avria l'ardor più intenso
E più
languido poi disperso e sparso.
Ma nulla in
oltre imaginar ti puoi
Che da causa
simìl possa formarsi,
Non che si
crein da foco denso e raro
Cose al
mondo fra lor sì varie e tante.
Oltre che;
se costoro il vôto spazio
Mescolasser
fra 'l pieno, il foco al certo
Potrebbe
rarefarsi e condensarsi:
Ma per non
gire a molti dubbi incontra,
Stanno
sospesi, e non s'arrischian punto
A conceder
fra 'l pieno il vôto spazio;
E, mentre
temon le contrarie cose,
Perdon la
via d'investigare il vero;
Nè
san che, tolto dalle cose il vôto,
D'uopo
è che tutte si condensin tosto,
E si formi
di tutte un corpo solo
Che nulla
mai rapidamente possa
Scacciar da
sè, come la fiamma accesa
Lo splendore
e l'ardor da sè discaccia:
Onde ognun
dee pur confessar che il foco
Non è
composto di stivate parti.
Che s'e'
credon ch'e' possa in qualche modo
Unito
dissiparsi e cangiar forma,
Non veggon poi
che, concedendo questo,
Forza
è che 'l foco si corrompa in nulla
Tutto e del
nulla anco rinasca il tutto:
Poichè,
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Questo
è sua morte, e non è più quel desso:
Onde
è mestier che qualche parte intatta
Ne resti,
acciò che 'l tutto omai non torni
Al nulla e
poi del nulla anco rinasca.
Or dunque;
perchè sono alcuni corpi
Che serban
sempre una medesma essenza,
Per
l'entrata de' quai, per la partita
E per
l'ordin cangiato il tutto cangia
Natura e si
trasforma in nuove forme;
Sappi
ch'essi non ponno esser di foco:
Poichè
indarno partirsi ire e tornare
Potrìano
alcuni, altri venirne ed altri
Varïare
il primiero ordine e sito;
Giacchè,
se tutti per natura ardessero,
Tutto
ciò che si crea foco sarebbe.
Ma cosi va,
s'io non m'inganno: alcuni
Corpi sono
nel mondo, i cui concorsi,
Gli ordini i
moti le figure i siti
Far ponno il
foco, e l'ordin poi mutando
Mutan anco
natura, e più non sono
O foco o
fiamma od altro corpo ardente
Che vibri al
senso le sue parti e possa
Toccar con
l'accostarsi il nostro tatto.
Il dir poi ch'ogni cosa è foco puro
E che nulla
è di vero altro che 'l foco,
Com'Eraclito
volle, a me rassembra
Sogno
d'infermi o fola di romanzi:
Poich'al
senso repugna il senso stesso,
E quello
snerva ond'ogni creder pende
E onde egli
medesimo conobbe
Quel corpo
che da noi foco si chiama;
Già
ch'ei crede che 'l senso il foco solo
Veramente
conosca e poi null'altro
Di quel che
punto è non men chiaro al senso.
Il che falso
non pur, ma parmi ancora
Sogno
d'infermi o fola di romanzi.
Ch'ove
ricorrerem? qual cosa a noi
Fia
più certa giammai de' nostri sensi,
Onde il vero
dal falso si discerna?
In oltre:
ond'è che tu piuttosto ogni altra
Cosa tolga
dal mondo, e lasci solo
La natura
del caldo, il che poi neghi
Esser il
foco, e non pertanto ammetta
La somma
delle cose? a me par certo
Tanto l'un
quanto l'altro egual pazzia.
Quindi; chi si pensò che delle cose
Fosse il
foco materia e che di foco
Potesse al
mondo generarsi il tutto,
E chi fe
primo seme o l'aria o l'acqua
O pur la
terra per sè stessa e volle
Ch'una sol
cosa si trasformi in tutte,
Par che
lungi dal vero errando gisse.
Aggiungi ancor chi delle cose addoppia
Gli alti
principii e l'aria aggiunge al foco
O la terra
all'umore, e chi si pensa
Che di
quattro principii il tutto possa
Generarsi,
di fuoco, aria, acqua e terra.
De' quali il
primo Empedocle chiamossi,
Uom greco, e
che per patria ebbe Agrigento:
Città
ch'è posta entro il paese aprico
Dell'isola
triforme intorno cinta
Con ampii
anfrati dall'Ionio mare,
Ch'ondeggiando
continuo il lido asperge
D'acque
cerulee, e per angusta foce
Rapidissimo
scorre, e si divide
Dall'italiche
spiagge i suoi confini.
È qui
Scilla e Cariddi, e qui minaccia
Con orrendo
fragor l'etneo gigante
Di
risvegliar gli antichi sdegni e l'onte
E di nuovo
eruttar dall'ampie fauci
Contro il
nemico ciel folgori ardenti.
Oltr'a tai
meraviglie, il suol benigno
Di cortesia
di gentilezza ornata
Qui produce
la gente; e qui cotanto
D'uomini
illustri e d'ogni bene abbonda,
Che per cosa
mirabile s'addita.
Ma non
sembra però che qui nascesse
Cosa mai
più mirabil di costui,
Nè
più bella e gentil, più cara e santa.
Se non se
forse in Siracusa nacque
Il divino
Archimede, e nuovamente
Nella nobil
Messina il gran Borelli
Pien di
filosofia la lingua e 'l petto,
Pregio del
mondo e mio sommo e sovrano,
Mio maestro,
anzi padre, ah! più che padre.
Dell'eccelsa
sua mente i sacri versi
Cantansi
d'ogni intorno; e vi s'impara
Sì
dotte invenzïoni e sì preclare,
Che credibil
non par ch'egli d'umana
Progenie
fosse. Ei non pertanto, e gli altri
Che di sopra
io contai di lui minori
Molto in
molte lor parti; ancor che molti
Ottimi
insegnamenti, anzi divini
Dal profondo
del cuor quasi responsi
Dessero
altrui, molto più santi e certi
Di quei
ch'è fama che dal sagro lauro
Di Febo e
dalle pitie ampie cortine
Uscisser
già; pur, com'io dissi, erraro
Intorno a'
primi semi, e gravemente
Fecer quivi
inciampando alta caduta.
Pria: perchè, tolto dalle cose il vôto,
Muover le
fanno, e lascian rari e molli
Il cielo il
foco il sol l'acqua e la terra
Gli uomini
gli animai le piante e l'erbe
Senza
mischiar entro alle cose il vôto.
Poi:
perchè fan ch'allo spezzar de' corpi
Non sia
prescritto da natura un fine,
Nè
parte alcuna indivisibil danno:
E pur
veggiam che d'ogni cosa il termine
È quel
ch'al senso indivisibil sembra;
Onde tu
possa argomentar da questo
Anco quel
che mirar non puoi con gli occhi.
Cioè,
che, essendo circoscritte, è forza
Ch'abbian
l'indivisibile le cose.
S'arroge a
ciò; che la materia prima
Voglion che
molle sia: ma quel ch'è molle
Spesso stato
cangiando or nasce or muore:
Per la qual
cosa omai disfatto il tutto
Sariasi in
nulla mille volte e mille,
E mille e
mille volte anco rifatto:
Il che ben
sai quanto dal ver sia lungi
Per le
ragioni mie di sopra addotte.
Senza che;
son nemiche in molti modi
Fra lor le
cose molli e rio veleno
Esse a
sè stesse; onde o perir dovranno
Dopo fiera
battaglia o fuggir tosto,
Qual, allor
che tempesta in ciel si genera,
Fuggonsi i
venti e le bufere e i fulmini.
Al fin: se può di quattro corpi soli
Ogni cosa
crearsi, e poi di nuovo
In quegli
stessi dissiparsi il tutto;
Dimmi, per
qual cagione essi piuttosto
Debbonsi
nominar principii primi
D'ogni altra
cosa? ch'all'incontro ogni altra
Cosa
chiamarsi lor principio primo?
Giacch'essi
alternamente in ogni tempo
Puon
generarsi e varïar colore
E tutt'anco
fra lor l'interna essenza.
Ma se forse
dirai che possa il corpo
Della terra
e del foco unirsi in modo
Con l'aura
aerea e con l'umor dell'acque,
Che di
quattro principii alcun non cangi,
Per cotale unïon,
forma e natura;
Nulla di lor
potrà crearsi mai,
Non l'alme,
o ciò che senza mente ha vita,
Com'i bruti
e le piante e l'erbe e i fiori;
Conciossiachè
ciascuno in tal concorso
Della
propria sostanza apertamente
Mostrerà
la natura, ivi vedrassi
Starsi l'aria
e la terra, il foco e l'acqua
Mescolati
fra lor: ma i primi semi
Onde si
debbon generar le cose
Mestiero
è pur che di natura occulta
E cieca
siano, acciò nessun prevaglia
E lite agli
altri e cruda guerra muova;
Onde si
vieti poi che nulla possa
Mai propriamente
generarsi al mondo.
Anzi che questi infin dal cielo immenso
E dalle
fiamme sue chiamano il foco;
E voglion
pria ch'e' si trasformi in aria,
Quindi in
acqua si cangi e quindi in terra;
E poi di
nuovo, ritornando indietro
Fan produr
dalla terra ogni elemento,
L'acqua
pria, dopo l'aria e poscia il foco:
Nè,
che cessin giammai di trasmutarsi
Tai cose
insieme, alcun di lor concede;
Ma che
sempre dal ciel scendano in terra,
Ed ognor
dalla terra in ciel sormontino.
Il che far
non si debbe in guisa alcuna
Dalla prima
materia: anzi è pur d'uopo
Che qualche
cosa invarïabil resti,
Acciò
che affatto non s'annulli il tutto:
Poichè
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Quest'è
sua morte, e non è più quel desso.
Or, se
l'aria e la terra il foco e l'acqua
Si trasmutan
fra lor, dunque non ponno
Primi semi
chiamarsi; anzi conviene
Che sian
d'altri principii incommutabili
Composti
anch'essi, acciocchè il tutto al nulla
Non torni in
un momento. Onde piuttosto
Pensa che
siano i genitali corpi
Di tal
natura, che, se forse il foco
Prodotto
avran, toltine alcuni ed altri
Aggiunti, e
varïando ordine e moto,
Possan
l'aria crear l'acqua e la terra,
E che nel
modo stesso ogni altra cosa
Perda la
propria essenza e si trasformi.
Ma forse mi dirai — Chiaro è che 'l tutto
Cresce da
terra in aria e vi si nutre:
E s'a'
debiti tempi ancor non scende
Pioggia che
irrighi alla gran madre il seno,
E se vita e
calor non gli comparte
Co' suoi
lucidi raggi il sol cortese,
Muoion le
biade gli animai le piante. —
Anzi gli
uomini stessi, affatto privi
D'arido pane
e d'umid'acqua o vino,
Perdono il
corpo; e con il corpo ancora
Tutta da
tutti i nervi e tutte l'ossa
Gli si
scioglie la vita e fugge l'alma.
Essi dunque
han ristoro e nutrimento
Da certo
cibo: e pur da certo cibo
Altri ed
altri animali ed altre cose
Similmente
han ristoro e nutrimento.
Che, essendo
molti primi semi e molti
Comuni in
molti modi a molti corpi
Mescolati
fra lor, forza è che 'l vitto
Da varie
cose varie cose prendano.
E spesso
anco oltre a ciò non poco importa
Con quai
sian misti, come posti, e quali
Movimenti
fra lor diano e ricevano:
Poichè
forman gli stessi il cielo, il mare;
Gli stessi
ancor la terra, i fiumi, il sole,
Gli uomini,
gli animai, l'erbe e le piante,
Mentre
mischiati in varie guise insieme
Si muovon
variamente. Anzi tu stesso
Poui sovente
veder ne' nostri versi
Esser comuni
a molte voci e molte
Molti
elementi; e non pertanto è d'uopo
Dir ch'abbia
ogni parola ed ogni verso
Vario
significato e vario suono;
Chè
tanto di possanza han gli elementi
Con la
mutazïon dell'ordin solo.
Ma credibil
è ben che i primi semi
Abbian
più cause onde crear si possa
Tutte le
cose di che 'l mondo è adorno.
Ma tempo è di pesar con giusta lance
D'Anassagora
ancor l'omeomería
Mentovata
da' Greci, e che non puossi
Da noi ridir
nella paterna lingua
Con un solo
vocabolo, ma pure
Facil
sarà che la si spieghi in molti.
Pensa egli
adunque che 'l principio primo,
Che da lui
vien chiamato omeomería,
Altro non
fosse ch'una confusione
Una massa un
mescuglio d'ogni corpo,
In guisa tal
che il generar le cose
Solamente
consista in separarle
Dal comun
caos ed accozzarle insieme;
E
così l'ossa di minute e piccole
Ossa si
creino, e di minute e piccole
Viscere anco
le viscere si formino,
Da
più gocce di sangue il sangue nasca,
Da
più bricioli d'òr l'oro si generi,
Cresca la
terra di minute terre,
Di foco il
foco, l'acqua d'acqua; e finge
Ch'ogn'altra
cosa in guisa tal si faccia;
Nè
concede fra 'l pieno il vôto spazio,
Nè
termin pone allo spezzar de' corpi.
Onde a me par, quand'io vi penso, ch'egli
E nell'uno e
nell'altro erri egualmente,
Come color
che poco avanti io dissi.
Aggiungi
ch'egli delle cose i semi
Troppo
deboli fa; se pure i semi
Per natura
fra lor sono uniformi
Anzi son pur
le stesse cose; et hanno
Egual
travaglio egual periglio, e nulla
Può
frenarli giammai nè proibirli
Che non
corrano a morte. E qual è d'essi
Che mille e
mille colpi, urti e percosse
A soffrir
basti, e finalmente anch'egli
Non muoia o
si dissolva? il foco o l'acqua
O l'aere?
qual di questi? il sangue o l'ossa?
Nessun,
cred'io, mentr'egualmente tutti
Sarian
mortali, in quella guisa appunto
Che l'altre
cose manifeste al senso
Son mortali
anche lor, poi che perire
Con gli
occhi stessi pur si veggon tutte
Da qualche
vïolenza oppresse e vinte.
Ma tu già
sai ch'annichilar non puossi
Nulla
nè nulla anco crear dal nulla.
In oltre:
perchè il cibo accresce e nutre
Il nostro
corpo, è da saper ch'abbiamo
E le vene ed
i nervi e 'l sangue e l'ossa
Miste e
composte di straniere parti.
E, se
diranno esser mischiati i cibi
Di
più sostanze e corpicciuoli avere
D'ossa e di
nervi e di vene e di sangue,
D'uopo
sarà che 'l secco cibo e 'l molle
Composto sia
di forestiere cose,
Anzi
null'altro sia ch'un guazzabuglio
D'ossa e di
sangue e di vene e di nervi.
In oltre:
tutto ciò che in terra nasce
S'egli quivi
si trova, è pur mestieri
Che sia la
terra di stranieri corpi
Anch'ella un
seminario: e con le stesse
Parole
appunto argomentar ne lice
D'ogni altra
cosa; onde, se 'l legno occulta
La cenere,
il carbon, la fiamma e 'l foco,
Di
forestiere parti il legno è fatto.
Or qui parmi che resti un solo scudo
Debile e mal
sicuro, onde schermirsi
Anassagora
tenta. Ei crede adunque
Che sia
mischiato in ogni cosa il tutto
E dentro vi
si celi; ma che quello
Un tal corpo
apparisca e non un altro,
In cui
più misti sono ed al di fuori
Più
collocati e nella prima fronte:
Il che pur
nondimen lungi è dal vero.
Chè
convenia che le minute biade
Sovente
ancor da duri sassi infrante
Desser segno
di sangue o d'altra cosa
Di cui si
nutra il nostro corpo, e sangue
Grondasse
dalle pietre allor che l'una
Si stritola
con l'altra: e l'erbe ancora
Per la
stessa ragione e l'acque insipide
Stillar
dovrian di bianco latte e dolce
Soavissime
gocce, appunto come
Stillan le
mamme dell'irsute pecore;
E della
terra le spezzate zolle
Mostrarne
erbe diverse e frondi e biade
Minutamente
per la terra sparse,
Prima
occulte a' nostr'occhi e poi palesi:
Sminuzzando
le legna anco vedremmo
Picciole
particelle ivi celarsi
E di fumo e
di cenere e di foco.
Le quali
tutte cose il senso stesso
Esser false
n'accerta: onde a me lice
Dedur che
misto in ogni cosa il tutto
Esser non
può, ma ben convien che i semi
Comuni a
molti corpi in molti corpi
Sian
mischiati ed occulti in molti modi.
Ma sento un
che mi dice — In su gli alpestri
Monti spesso
addivien che l'alte piante
Fregan
sì le vicine ultime cime
L'una con
l'altra, a ciò forzate e spinte
Dal
gagliardo soffiar d'austro e di coro,
Che foco
n'esce onde s'alluma il bosco. —
Or questo
è ver: ma non pertanto innato
Non è
l'ardor negli alberi; ma molti
Semi vi son
di foco, i quai per quello
Vïolento
fregar s'uniscon tosto
Ed accendon
le selve: chè, se tanta
Fiamma
nascosta entro alle piante fosse,
Non potrebbe
giammai celarsi il foco,
Ma serpendo
per tutto in un momento
Ogni selva
arderebbe ed ogni bosco.
Vedi tu
dunque per te stesso omai
Quel che
poc'anzi io dissi: importa molto
Come sian misti i primi semi e posti
E quai moti
fra lor diano e ricevano;
E puon gli
stessi varïati alquanto
Far le legna
e le fiamme, appunto come
Puon gli elementi
varïati alquanto
Formare et
arme et orme e rima e Roma.
Al fin: se ciò ch'è manifesto agli occhi
Credi che
non si possa in altra guisa
Crear che di
materia a lui simíle,
Perdi 'n tal
modo i primi semi affatto;
Poich'è
mestier che tremoli e lascivi
Si sganascin
di risa, e che di lagrime
Bagnino
amaramente ambe le guance.
Su dunque or odi, e viepiù chiaro intendi
Ciò
che da dir mi resta. E ben conosco
Quanto sia
malagevole ed oscuro:
Ma gran
speme di gloria il cor percosso
M'ha
già con sì pungente e saldo sprone,
Et insieme
ha svegliato entro al mio petto
Un
così dolce delle muse amore,
Ch'io
stimolato da furor divino
Più
di nulla non temo, anzi sicuro
Passeggio
delle nove alme sorelle
I luoghi
senza strada, e da nessuno
Mai
più calcati. A me diletta e giova
Gire a'
vergini fonti e inebrïarmi
D'onde non
tocche. A me diletta e giova
Coglier
novelli fiori, onde ghirlanda
Peregrina ed
illustre al crin m'intrecci,
Di cui fin
qui non adornâr le muse
Le tempie
mai d'alcun poeta tôsco.
Pria,
perchè grandi e gravi cose insegno,
E seguo a
liberar gli animi altrui
Dagli aspri
ceppi e da' tenaci lacci
Della
religïon; poi, perchè canto
Di cose
oscure in così chiari versi,
E di
nèttar febeo tutte le spargo.
Nè
questo è, come par, fuor di ragione:
Poichè;
qual, se fanciullo a morte langue,
Fisico
esperto alla sua cura intento
Suol
porgergli in bevanda assenzio tetro,
Ma pria di
biondo e dolce mèle asperge
L'orlo del
nappo, acciò gustandol poi
La
semplicetta età resti delusa
Dalle mal
caute labbra e beva intanto
Dell'erba a
lei salubre il succo amaro,
Nè si
trovi ingannata anzi piuttosto
Sol per suo
mezzo abbia salute e vita;
Tal appunto
or facc'io, perchè mi sembra
Che le cose
ch'io parlo a molti indòtti
Potrian
forse parer aspre e malvage,
E so che 'l
cieco e sciocco volgo abborre
Da mie
ragioni. Io perciò volsi, o Memmo,
Con soave
eloquenza il tutto espórti;
E quasi
asperso d'apollineo mèle
Te 'l porgo
innanzi, per veder s'io posso
In tal guisa
allettar l'animo tuo,
Mentre tu
vedi in questi versi miei
Quanto
dipinta sia l'alma natura
Vaga,
adorna, gentil, leggiadra e bella.
Ma; perch'io già mostrai che i primi corpi
Infrangibili
sono, e sempre invitti
Volano
eternamente; or su veggiamo
Se la somma
di tutti abbia prescritto
Termine o
no: e; perchè il vôto ancora,
O luogo o
spazio ove si forma il tutto,
Parimente
trovossi; esaminiamo
S'egli sia
circoscritto o pur s'estenda
Profondissimamente
in tratto immenso.
Il tutto adunque in infinito è sparso
Per ogni
banda: poich'aver dovrebbe
Qualche
termine estremo, il qual non puote
Aver nulla
giammai s'un'altra cosa
Non è
fuori di lui che lo circondi:
Ma,
perchè fuor del tutto esser non puote
Niente al
certo, ei non ha dunque alcuno
Termine o
fine o mèta: e non importa
In qual
parte tu sia; qualunque luogo
Che tu
possegga, d'ogni intorno lascia
Egualmente
altro spazio in infinito.
In oltre:
dato che finito fosse
Tutto
quant'è lo spazio, io ti domando:
S'alcun
giungesse all'ultimo confine
E fuor
vibrasse una saetta alata,
Che vuoi
piuttosto? ch'ella spinta innanzi
Dalla
robusta man volando gisse
Là
dove fosse indirizzata? o pensi
Che qualche
cosa le impedisse il moto?
Qui d'uopo
è pur che l'uno o l'altro accetti
E lo creda
per ver: ma l'un e l'altro
Ti racchiude
ogni scampo, anzi ti sforza
A confessar
l'immensità del mondo:
Poichè,
o venga impedita e le sia tolto
Il girne ove
fu spinta o fuor se 'n voli,
Esser non
può nell'ultimo confine
Dell'universo.
E nella stessa guisa
Seguirò
l'argomento incominciato,
E, dovunque
tu ponga il fine estremo,
Domanderotti
ciò che finalmente
Alla freccia
avverrà. Confessa dunque
Che
incircoscritto è 'l mondo e che non hai
Da sì
fatte ragioni onde schermirti.
In oltre ancor: se terminato fosse
D'ogni
intorno lo spazio ove la somma
Si genera
del tutto, i primi semi
Spinti dal
proprio peso all'imo fondo
Già
sarebber concorsi, e sotto il cielo
Nulla potria
formarsi; anzi non fôra
Più
nè cielo nè sole, ove giacesse
Confusa in
una massa ogni materia
Fin da tempo
infinito in giù caduta.
Ma or non
è concesso alcun riposo
A' corpi de'
principii, perchè l'imo
Centro
dell'universo in van si cerca
Ove
concorrer tutti, ove la sede
Possan
fermare; e con perpetuo moto
Si genera
ogni cosa in ogni parte,
E per tempo
infinito omai commossi
Della prima
materia i corpi eterni
Son sempre
in pronto in questo spazio immenso.
Finalmente abbiam posto innanzi agli occhi
Che l'un
corpo dall'altro è circoscritto:
L'aer
termina i colli, e l'aura i monti,
La terra il
mare, il mar la terra: e nulla
Non è
che fuor dell'universo estenda
I suoi
propri confini. È la natura
Del luogo
adunque e del profondo spazio
Tal, ch'i
fiumi più torbidi e più rapidi
Non
potrebber correndo eternamente
Giungerne al
fin giammai, nè far che meno
Da correr li
restasse. Or così grande
Copia di
luogo han d'ogn'intorno i corpi
Senza fin,
senza mèta e senza termine.
Che poi la somma delle cose un fine
A sè
medesma apparecchiar non possa
Ben provide
natura. Essa circonda
Sempre col
vôto il corpo, ed all'incontro
Col corpo il
vôto, e così rende immenso
L'uno e
l'altro di lor. Chè, s'un de' due
Fosse termin
dell'altro, egli fuor d'esso
Troppo si
stenderebbe; e non potria
Durar
nell'universo un sol momento,
Nè la
terra nè 'l mar nè i templi lucidi
Delle stelle
e del sol nè l'uman genere
Nè
degli dèi superni i santi corpi:
Conciossiachè,
scacciati i primi semi
Dalla propria
unïon, liberi e sciolti
Correr
dovrian per lo gran vano a volo;
O piuttosto
non mai sariansi uniti
Nè
generato alcuna cosa al mondo
Avrian;
poichè scagliati in mille parti
Non avrebber
potuto esser congiunti.
Chè
certo è ben ch'i genitali corpi
Con sagace
consiglio e scaltramente
Non
s'allogâr per ordine nè certo
Seppe
ciascun di lor che moti ei desse;
Ma,
perchè molti in molti modi e molti
Varïati
per tutto e già percossi
Da colpi
senza numero, ogni sorte
Di moto e
d'unïon provando, al fine
Giunsero ad accozzarsi
in quella forma
Che
già la somma delle cose mostra
E ch'ella
ancor per molti lunghi secoli
Ha
già serbato e serba: poichè, tosto
Ch'ell'ebbe
una sol volta i movimenti
Confacevoli
a lei, potette oprare
Sì,
che l'avido mar ritorni intero
Per l'onde
che da' fiumi in copia grande
Vi
concorrono ognora, e che la terra
Ristorata
dal sol rinnovi i parti,
Fertile il
suol d'ogni animal fiorisca,
E dell'etere
in somma ancor che labili
Vivan
l'auree fiammelle: il che per certo
Far non
potrian, se la materia prima
Non sorgesse
per tutto e ristorasse
Ciò
che nel mondo ad or ad or vien meno.
Poichè,
qual senza pasto ogni animale
Disperde in
varie parti il proprio corpo,
Tal appunto
dovrian tutte le cose,
Se gli
mancasse il consueto cibo
Della
materia, dissiparsi anch'elle.
Nè
colpo esterno vi sarebbe alcuno
Bastante a
conservarle. I corpi in vero,
Che l'urtan
d'ogni intorno, assai sovente
Ponno in
parte impedirle infin che giunga
Materia che
supplisca a ciò che manca:
Ma pur
talvolta ripercossi indietro
Saltano, e
insieme a' primi semi danno
Luogo e
tempo alla fuga, ond'ognun d'essi
Sciolto da'
lacci suoi ratto se 'n vola.
Dunqu'è
mestier che d'ogn'intorno germini
Molta prima
materia, anzi infinita,
Acciò
restauri il tutto e l'urti e 'l cinga.
Or sopra ogni altra cosa avverti, o Memmo,
Di non dar
fede a quel che dice alcuno;
Cioè,
ch'al centro della somma il tutto
D'andar si
sforza, e che in tal guisa il mondo
Privo
è di colpi esterni, e mai non ponno
Dissiparsi e
fuggirsi in altro luogo
I sommi
corpi e gl'imi, avendo tutti
Natia
propensïon di gire al centro
(Se credi
pur che qualche cosa possa
In sè
stessa fermarsi, e che quei pesi
Ch'or sono
in terra di poggiar si sforzino
Tutti per
aria e poi di nuovo in terra
Ricadendo
posarsi, appunto come
Veggiam far
delle cose ai simolacri
Per entro
alle chiar'onde e negli specchi):
E nella
stessa guisa ogni animale
Voglion che
vaghi in terra, e che non possa
Quindi
altramente sormontare in cielo
Nulla che
sia quaggiù, che i corpi nostri
Possan
leggieri e snelli a lor talento
Volarne
all'etra ed abitar le stelle;
Mentre
alcuni di noi mirano il sole,
Altri mirar
della trapunta notte
I lucidi
carbonchi, e le stagioni
Varie
dell'anno e i giorni lunghi e i brevi
Con moto
alterno esser fra noi divisi
Dal gran
pianeta che distingue l'ore.
Ma tutto questo abbia pur finto ad essi
Un vano
error, poi che balordi e ciechi
Per non
dritto sentier s'incamminaro.
Chè
centro alcuno esser non puote al certo
Ove immenso
è lo spazio; e, se pur centro
Vi fosse,
per tal causa ei non potrebbe
Ivi piuttosto
alcuna cosa starsi
Che in
qualsivoglia regïon lontana.
Poi ch'ogni
luogo ed ogni vôto spazio
E per lo
centro e fuor del centro deve
Egualmente
lasciar libero il passo
A peso
eguale ovunque il moto ei drizzi:
Nè
l'intero universo ha luogo alcuno
Ove giungendo
finalmente i corpi
Perdono il
peso e si ristian nel vôto:
Nè
ciò ch'è vôto resistenza farli
Potrà
giammai nè raffrenarli il corso,
Ovunque la
natura gli trasporti.
Dunque le
cose in guisa tale unite
Star non
potranno a ciò forzate e spinte
Dal nativo
desio di gire al centro.
In oltre: ancora essi non fan che tutte
Corrano al
centro, ma la terra e l'onde
Del mar de'
fiumi e delle fonti, e solo
Ciò
ch'è composto di terreno corpo.
Ma pel
contrario poi voglion che l'aria
Lungi se 'n
voli e similmente il foco:
E che per
questo d'ogn'intorno in cielo
Scintillino
le stelle e 'l sol fiammeggi,
Perchè
fuggendo dalla terra il caldo
Al ciel sen
poggi e vi raccolga il foco
(Poichè
pur della terra anco si pasce
Ogni cosa
mortal; nè mai potrebbero
Gli alberi
produr frutti o fiori o frondi,
Se a poco a
poco la gran madre il cibo
Non gli
porgesse). Ma di sopra poi
Credon che
un ampio ciel circondi e copra
Tutte le
cose; acciò d'augelli in guisa
I recinti di
fiamme in un baleno
Non fuggan
via per lo gran vano a volo,
E che nel
modo stesso ogni altra cosa
Si dissolva
in un tratto e del tonante
Cielo il
tempio superno in giù rovini,
E che di
sotto a' piè ratto s'involi
Il nostro
globo ascosamente, e tutti
Fra
precipizi in un confusi e misti
Della terra
e del cielo i propri corpi
Dissolvano
in più parti e corran tosto
Pel vôto
immenso; onde in un sol momento
Di tante
meraviglie altro non resti
Che lo
spazio deserto e i ciechi semi.
Poichè,
in qualunque luogo i corpi restino
Privi di
freno, in questo luogo appunto
Spalancata
una porta avran le cose
Per gire a
morte; ed ogni turba quindi
Della prima
materia in fuga andranne.
Or; se tu leggerai quest'operetta
Attentissimamente,
e tutto quello
Ben capirai
ch'io ci ragiono dentro;
L'una causa
dall'altra a te fia nota;
Nè
cieca notte omai potrà impedirti
L'incominciata
via, che ti conduce
Di natura a
mirar gl'intimi arcani:
Sì le
cose alle cose accenderanno
Lume che
mostri alla tua mente il vero.
Argomento
Il Poeta, dopo le lodi della filosofia, al
cui studio eccita Memmo, continua a trattare delle qualità degli atomi e
in ispecie del loro movimento. — I mutamenti continui a cui vanno sottoposti i
corpi non ci permettono di supporre che la materia sia immobile. Donde: 1. il
moto è essenziale agli atomi, perchè non v'ha centro ove possano
mai fermarsi; 2. questo moto è rapidissimo sopr'ogni altro,
perchè il suo teatro essendo il vôto, non ha alcun ostacolo che lo
trattenga; 3. la direzione di questo moto è dall'alto al basso, e se
alcuni corpi s'elevano come la fiamma, è uno stato forzato, contrario
alla loro tendenza propria e naturale; 4. tuttavia non dee credersi che la
caduta degli atomi sia rigorosamente perpendicolare; paralleli tra loro non
avrebbero mai potuto unirsi in massa: sottoposti ad una direzione necessaria,
non avrebbero potuto mai formare anime libere. Bisogna pertanto che si
allontanino un poco, ma il meno possibile dalla direzione perpendicolare. Tali
sono i moti che gli atomi ebbero sempre e sempre avranno, perchè la
quantità di moto è sempre la stessa nella natura. Ecco quanto la
ragione ci scopre; perchè i sensi non possono veder l'atomo, non che discernerne
i moti. La ragione altresì ci fa conoscere le figure degli atomi; essa
ne dice che i corpi i quali ci attorniano non potrebbero impressionare i nostri
sensi in tanti modi diversi, se i loro atomi non fossero diversamente
configurati. Ma al medesimo tratto essa c'insegna che, sebbene ci sia una
infinità di atomi in ogni classe di figure, il numero di queste classi
è limitato; non potrebbe essere infinito senza che l'atomo fosse
immenso, e le qualità sensibili dei corpi progressive all'infinito.
Questo numero poco considerevole di figure, combinato diversamente in tutti i
corpi, basta a mettere fra essi quella varietà che vi si scorge. La
solidità, l'indivisibilità, l'eternità, il moto e la
figura, sono le sole qualità che convengano a corpi semplici come son
gli atomi. Rispetto alle qualità che si riferiscono alla vista,
all'udito, al gusto e all'odorato, sono senza più il resultato
d'un'associazione; attribuirla agli atomi, è dare una base troppo
fragile alla natura. Pertanto gli atomi non sono neppure sensibili, e dalla
loro situazione e dai loro moti rispettivi dee ripetersi la sensibilità
che posseggono certi accozzamenti. Mercè di queste poche qualità
che il poeta assegna agli atomi, essi hanno, al parer suo, prodotto non solo il
nostro mondo, ma altresì un'infinità d'altri; perchè egli
non vuole che si limiti la potenza della natura. Pretende che potendo disporre
d'un numero infinito di atomi, quel ch'ella fa quaggiù per noi, lo fa
per altri in altre regioni dello spazio, e che il nostro mondo è senza
più un individuo particolare d'una classe numerosa, un grande animale,
sottoposto, come gli altri, alla nascita, all'incremento, alla declinazione e
alla morte.
Dolce è mirar da ben sicuro porto
L'altrui
fatiche all'ampio mare in mezzo,
Se turbo il
turba o tempestoso nembo;
Non
perchè sia nostro piacer giocondo
Il travaglio
d'alcun, ma perchè dolce
È se
contempli il mal di cui tu manchi:
Nè
men dolce è veder schierati in campo
Fanti e
cavalli e cavalieri armati
Far tra lor
sanguinose aspre battaglie.
Ma nulla mai
si può chiamar più dolce
Ch'abitar,
che tener ben custoditi
De' saggi i
sacri templi onde tu possa,
Quasi da
rôcca eccelsa ad umil piano,
Chinar tal
volta il guardo, e d'ogn'intorno
Mirar gli
altri inquïeti e vagabondi
Cercar la
via della lor vita, e sempre
Contender
tutti o per sublime ingegno
O per nobile
stirpe, e giorno e notte
Durare
intollerabili fatiche
Sol per
salir delle ricchezze al sommo
E potenza
acquistar, scettri e corone.
Povere umane
menti, animi privi
Del
più bel lume di ragione, oh quanta
Quant'ignoranza
è quella che vi offende!
Ed oh fra
quanti perigliosi affanni
Passate voi
questa volante etade
Che ch'ella
siasi! Or non vedete aperto
Che nulla
brama la natura e grida
Altro
già mai, se non che sano il corpo
Stia sempre
e che la mente ognor gioisca
De' piaceri
del senso e da sè lungi
Cacci ogni
noia ed ogni tema in bando?
Chiaro
dunque n'è pur che poco è 'l nostro
Bisogno,
onde la vita si conservi,
Onde dal
corpo ogni dolor si scacci.
Che s'entro
a regio albergo intagli aurati
Di vezzosi
fanciulli accese faci
Non tengon
nelle destre, ond'abbian lume
Le notturne
vivande emulo al giorno;
Se non
rifulge ampio palagio e splende
D'argento e
d'òr; se di soffitte aurate
Tempio non
s'orna e di canore cetre
Risonar non
si sente; ah che, distesi
Non lungi al
mormorar d'un picciol rio
Che 'l prato
irrighi, i pastorelli all'ombra
D'un platano
selvaggio, allegri danno
Il dovuto
ristoro al proprio corpo;
Massime
allor che la stagion novella
Gli arride e
l'erbe di be' fior cosperge.
Nè
più tosto già mai l'ardente febbre
Si dilegua
da te, se d'oro e d'ostro
E d'arazzi
superbi orni il tuo letto,
Che se in
veste plebea le membra involgi.
Onde, poscia
che nulla al corpo giova
Onor
ricchezza nobiltade o regno,
Creder anco
si dee che nulla importi
Il rimanente
all'animo: se forse,
Qualor di
guerra in simolacro armate
Miri le
squadre tue, non fugge allora
Ogni
religïon dalla tua mente
Da tal vista
atterrita, e non ti lascia
Il petto
allora il rio timor di morte
Libero e
sciolto e d'ogni cura scarco.
Che se tai
cose esser veggiam di riso
Degne e di
scherno, e che i pensier noiosi
Degli uomini
seguaci e le paure
Pallide e
macilenti il suon dell'armi
Temer non
sanno e delle frecce il rombo;
Se fra' regi
e potenti han sempre albergo
Audacemente,
e non apprezzan punto
Nè
dell'oro il fulgor nè delle vesti
Di porpora
imbevute i chiari lampi;
Qual dubbio
avrai che tutto questo avvenga
Sol per
mancanza di ragione, essendo
Massime
tutto quanto il viver nostro
Nell'ombra
involto di profonda notte?
Poichè,
siccome i fanciulletti al buio
Temon
fantasmi insussistenti e larve,
Sì
noi tal volta paventiamo al sole
Cose che
nulla più son da temersi
Di quelle
che future i fanciulletti
Soglion
fingersi al buio e spaventarsi.
Or sì
vano terror sì cieche tenebre
Schiarir
bisogna e via cacciar dall'animo,
Non co' be'
rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del
giorno a saettar poc'abili
Fuor che
l'ombre notturne e i sogni pallidi,
Ma col mirar
della natura e intendere
L'occulte
cause e la velata imagine.
Su dunque: io prendo a raccontarti, o Memmo,
Come della
materia i primi corpi
Generin
varie cose, e, generate
Ch'e
l'hanno, le dissolvano, e da quale
Vïolenza
a far ciò forzati sieno,
E qual
abbiano ancor principio innato
Di muoversi
mai sempre e correr tutti
Or qua or
là per lo gran vano a volo.
Tu
ciò ch'io parlo attentamente ascolta.
Chè certo i primi semi esser non ponno
Tutti
insieme fra lor stivati affatto;
Veggendo noi
diminuirsi ogn'ora
E per
soverchia età languir le cose
E sottrar la
vecchiezza agli occhi nostri,
Mentre che
pur salva rimane in tanto
La somma;
con ciò sia che, da qualunque
Cosa il
corpo s'involi, ond'ei si parte
Toglie di
mole, e dov'ei viene accresce,
E fa che
questo invecchia e quel fiorisce,
Nè
punto vi si ferma. In cotal guisa
Il mondo si
rinnova, et a vicenda
Vivon sempre
fra lor tutti i mortali.
S'un popol
cresce, uno all'incontro scema;
E si cangian
l'etadi in breve spazio
Degli
animali, e della vita accese,
Quasi
cursori, han le facelle in mano.
Se credi poi che delle cose i semi
Possan
fermarsi e nuovi moti dare
In tal guisa
alle cose, erri assai lunge
Fuor della
dritta via della ragione.
Poi che,
vagando per lo spazio vôto
Tutti i
principii, è pur mestiero al certo
Che sian
portati o dal lor proprio peso
O forse
spinti dall'altrui percosse;
Poi che,
allor ch'e' s'incontrano e di sopra
S'urtan
veloci l'un con l'altro, avviene
Che vari in
varie parti si riflettono:
Nè
meraviglia è ciò, perchè durissimi
Son tutti e
nulla gl'impedisce a tergo.
Et
acciò che tu meglio anco comprenda
Che tutti
son della materia i corpi
Vibrati
eternamente, or ti rammenta
Che non ha
centro il mondo ove i principii
Possan
fermarsi, et è lo spazio vôto
D'ogn'intorno
disteso in ogni parte
Senza fin,
senza meta e senza termine,
Conforme
innanzi io t'ho mostrato a lungo
Con vive e
gagliardissime ragioni.
Il che pur
noto essendo, alcuna quiete
Per lo vano
profondo i corpi primi
Non han
già mai; ma, più e più commossi
Da forza interna
irrequïeta e varia,
Una parte di
lor s'urta e risalta
Per grande
spazio ripercossa e spinta,
Un'altra
ancor per piccoli intervalli
Vien per tal
colpo a raggrupparsi insieme,
E tutti quei
che, d'unïon più densa
Insieme
avviluppati ed impediti
Dall'intrigate
lor figure, ponno
Sol risaltar
per breve spazio indietro,
Formano i
cerri e le robuste querce
E del ferro
feroce i duri corpi
E i macigni
e i dïaspri e gli adamanti:
Quelli che
vagan poi pel vôto immenso
E saltan
lungi assai veloci e lungi
Corron per
grande spazio in varie parti,
Posson
l'aere crearne e l'aureo lume
Del sole e
delle stelle erranti e fisse.
Ne vanno
ancor per lo gran vano errando
Senz'unirsi
già mai, senza potere
Accompagnar
non ch'altro i propri moti.
Della qual
cosa un simulacro vivo
Sempre
innanzi a' nostri occhi esposto abbiamo:
Poscia che,
rimirando attento e fiso,
Allor che 'l
sol co' raggi suoi penétra
Per picciol
fôro in una buia stanza,
Vedrai
mischiarsi in luminosa riga
Molti minimi
corpi in molti modi,
E quasi a
schiere esercitar fra loro
Perpetue
guerre, or aggrupparsi ed ora
L'un
dall'altro fuggirsi e non dar sosta:
Onde ben
puoi congetturar da questo
Qual sia
l'esser vibrati eternamente
Per lo
spazio profondo i primi semi.
Sì le
picciole cose a noi dar ponno
Contezza
delle grandi e i lor vestigi
Quasi
additarne e la perfetta idea.
Tieni a
questo, oltr'a ciò, l'animo attento:
Ciò
è, che i corpi, che vagar tu miri
Entro a'
raggi del sol confusi e misti,
Mostrano
ancor che la materia prima
Ha moti
impercettibili ed occulti.
Chè
molti quivi ne vedrai sovente
Cangiar
viaggio, e risospinti indietro
Or qua or
là or su or giù tornare
E finalmente
in ogni parte. E questo
È sol
perchè i principii, i quai per sè
Muovonsi, e
quindi poi le cose piccole
E quasi
accosto alla virtù de' semi,
Dagli
occulti lor colpi urtate, anch'elleno,
Vengon
commosse, ed esse stesse poi
Non cessan
d'agitar l'altre più grandi.
Così
dai primi corpi il moto nasce,
E chiaro
fassi a poco a poco al senso;
Sì
che si muovon quelle cose al fine
Che noi per
entro a' rai del sol veggiamo,
Nè
per qual causa il fanno aperto appare.
Or che principio da natura i corpi
Della prima
materia abbian di moto
Quindi
imparar puoi brevemente, o Memmo.
Pria; quando
l'alba di novella luce
Orna la
terra e che per l'aer puro
Vari augelli
volando in dolci modi
D'armonïose
voci empion le selve,
Come ratto
allor soglia il sol nascente
Sparger suo
lume e rivestirne il mondo,
Veggiam
ch'è noto e manifesto a tutti:
Ma quel
vapor quello splendor sereno,
Ch'ei da
sè vibra, per lo spazio vôto
Non passa;
ond'è costretto a gir più tardo,
Quasi
dell'aere allor l'onde percuota:
Nè
van disgiunti i corpicelli suoi,
Ma stretti
ed ammassati; onde fra loro
Insieme si
ritirano, e di fuori
Han mille
intoppi, in guisa tal che pure
Vengon
forzati ad allentare il corso.
Non
così fanno i genitali corpi
Per lor
simplicitade impenetrabili:
Ma; quando
volan per lo spazio vôto,
Nè
fuor di loro impedimento alcuno
Trovan che
gli trattenga, e, dai lor luoghi
Tosto che
mossi son verso una sola
Verso una
sola parte il volo indrizzano;
Debbono
allor viepiù veloci e snelli
De' rai del
sol molto maggiore spazio
Passar di
luogo in quel medesmo tempo
Ch'i folgori
del sol passano il cielo;
Poscia che
da consiglio o da sagace
Ragione i
primi semi esser non ponno
Impediti
già mai nè ritardati,
Nè
vanno ad una ad una investigando
Le cose per
conoscere in che modo
Nell'universo
si produca il tutto.
Ma sono
alcuni che di questo ignari,
Si credon
che non possa la natura
Della
materia per se stessa e senza
Divin volere
in così fatta guisa
Con umane
ragioni e moderate
Mutare i
tempi e generar le biade,
Nè
far null'altro a cui di gire incontra
Persuade i
mortali e gli accompagna
Qual gran
piacer che della vita è guida,
Acciò
le cose i secoli propaghino
Con veneree
lusinghe e non perisca
L'umana
specie: onde, che fosse il tutto
Per opra
degli dèi fatto dal nulla,
Fingono. Ma,
per quanto a me rassembra
Essi in
tutte le cose han travïato
Molto dal
ver: poichè, quantunque ignoti
Mi sian
della materia i primi corpi,
Io non per
tanto d'affermare ardisco,
Per molte e
molte cause e per gli stessi
Movimenti
del ciel, che l'universo
Che tanto
è difettoso esser non puote
Da Dio
creato: e quant'io dico, o Memmo,
Dopo a suo
luogo narrerotti a lungo.
Or del moto
vo' dir quel che mi resta.
Qui, s'io non erro, di provarti è luogo
Che per se
stessa alcuna cosa mai
Non
può da terra sormontare in alto.
Nè
già vorrei che t'ingannasse il foco
Ch'all'insù
si produce e cibo prende.
E le nitide
biade e l'erbe e i fiori
E gli alberi
all'insù crescono anch'essi,
Benchè
per quanto s'appartiene a loro,
Tutti e
sempre all'ingiù caschino i pesi.
Nè
creder dêi che la vorace fiamma,
Allor che
furïosa in alto ascende
E dell'umili
case e de' superbi
Palagi i
tetti in un momento atterra,
Opri
ciò da sè stessa e senza esterna
Forza che
l'urti. Il che pur anco accade
Al nostro
sangue, se dal corpo spiccia
Per piccola
ferita e poggia in aria
E 'l suolo
asperge di vermiglie stille.
Forse non
vedi ancor con quanta forza
Risospinga
all'insù l'umor dell'acqua
Le travi e
gli altri legni? poichè, quanto
Più
altamente gli attuffiamo in essa
E con gran
vïolenza a pena uniti
Molti di noi
ve gli spingiam per dritto,
Ella tanto
più ratta e desïosa
Da sè
gli scaccia e gli rigetta in alto
In guisa
tal, che quasi fuori affatto
Sorgon
dall'onde ed all'insù risaltano:
Nè
per ciò dubitiamo, al parer mio,
Che per
sè stesse entro lo spazio vôto
Scendan le
travi e gli altri legni al basso.
Ponno dunque
in tal guisa anco le fiamme
Dall'aria
che le cinge in alto espresse
Girvi
quantunque per sè stessi i pesi
Si sforzin
sempre di tirarle al basso.
E non vedi
tu forse al caldo estivo
Le notturne
del ciel faci volanti
Correr
sublimi e menar seco un lungo
Tratto di
luce in qualsivoglia parte
Gli apra il
varco natura? Il sole ancora,
Quando al
più alto suo meriggio ascende,
L'ardor
diffonde d'ogn'intorno e sparge
Di lume il
suol: verso la terra adunque
Vien per
natura anco l'ardor del sole.
I fulmini
volar miri a traverso
Le
grandinose piogge: or quinci or quindi
Dalle nubi
squarciate i lampi strisciano,
E caggion
spesso anco le fiamme in terra.
Bramo, oltr'a ciò, che tu conosca, o Memmo,
Che, mentre
a volo i genitali corpi
Drittamente
all'ingiù vanno pel vôto,
D'uopo
è ch'in tempo incerto in luogo incerto
Sian
fermamente da' lor propri pesi
Tutti
sforzati a declinare alquanto
Dal lor
dritto vïaggio, onde tu possa
Solo
affermar che sia cangiato il nome,
Poichè,
se ciò non fosse, il tutto al certo
Per lo vano
profondo in giù cadrebbe
Quasi stille
di pioggia, e mai non fôra
Nato fra i
primi semi urto o percossa,
Onde nulla
già mai l'alma natura
Crear
potrebbe. Che se pure alcuno
Si pensa
forse ch'i più gravi corpi
Scendan
più ratti per lo retto spazio
E per di
sopra ne' più lievi inciampino,
Generando in
tal guisa urti e percosse
Che possan
dare i genitali moti;
Erra
senz'alcun dubbio, e fuor di strada
Dalla dritta
ragion molto si scosta.
Poscia che
ben ciò che per l'aria e l'acqua
Cade
all'ingiuso il suo cadere affretta
E de' pesi a
ragion ratto discende,
Perchè
il corpo dell'acqua e la natura
Tenue
dell'aria trattener non puote
Ogni cosa
egualmente e vie più presto
Convien che
vinta alle più gravi ceda:
Ma pel
contrario in alcun tempo il vôto
In parte
alcuna alcuna cosa mai
Non basta ad
impedire, ond'ella il corso
Non segua
ove natura la trasporta;
Onde tutte
le cose, ancor che mosse
Da pesi
disuguali, aver dovranno
Per lo vano
quïeto egual prestezza.
Non ponno
dunque ne' più lievi corpi
Inciampare i
più gravi e per di sopra
Colpi crear
per sè medesmi, i quali
Faccian moti
diversi, onde natura
Produca il
tutto: ed è pur forza al certo
Che
dechinino alquanto i primi semi,
Nè
più che quasi nulla; acciò non paia
Ch'io finga
adesso i movimenti obliqui
E che
ciò poi la verità rifiuti.
Poscia ch'a
tutti è manifesto e conto
Che mai non
ponno per sè stessi i pesi
Fare obliquo
viaggio, allor che d'alto
Veder gli
puoi precipitare al basso:
Ma che i
principii poi non torcan punto
Dalla lor
dritta via, chi veder puote?
Se finalmente ogni lor moto sempre
Insieme si
raggruppa e dall'antico
Sempre con
ordin certo il nuovo nasce,
Nè travïando
i primi semi fanno
Di moto un
tal principio, il qual poi rompa
I decreti
del fato, acciò non segua
L'una causa
dall'altra in infinito;
Onde nel
mondo gli animali han questa,
Onde han
questa, dich'io, dal fato sciolta
Libera
volontà, per cui ciascuno
Va dove
più gli aggrada? I moti ancora
Si dechinan
sovente, e non in certo
Tempo
nè certa regïon, ma solo
Quando e
dove comanda il nostro arbitrio;
Poichè
senz'alcun dubbio a queste cose
Dà
sol principio il voler proprio, e quindi
Van poi
scorrendo per le membra i moti.
Non vedi
ancor che i barbari cavalli
Allor che
disserrata in un sol punto
È la
prigion, non così tosto il corso
Prendon come
la mente avida brama?
Poichè
per tutto il corpo ogni materia
Atta a far
ciò dee sollevarsi e spinta
Scorrer per
ogni membro, acciò con essa
Della mente
il desio possa seguire.
Onde
conoscer puoi che 'l moto nasce
Dal cuore, e
che ciò pria dal voler nostro
Procede e
quindi poi per tutto il corpo
E per tutte
le membra si diffonde.
Nè
ciò avvien come quando a forza siamo
Cacciati
innanzi; poi che allora è noto
Ch'è
rapita dal corpo ogni materia
Ad onta
nostra in fin che per le membra
Un libero
voler possa frenarla.
Già
veder puoi come, quantunque molti
Da
vïolenza esterna a lor mal grado
Sian forzati
sovente a gire innanzi
E sospinti e
rapiti a precipizio,
Noi non per
tanto un non so che nel petto
Nostro
portiam che di pugnarle incontra
Ha possanza
e d'ostarle, al cui volere
Dalla stessa
materia anco la copia
Talor
forzata a scorrer per le membra
E cacciata
si frena e torna indietro.
Per la qual
cosa confessar t'è forza
Che questo
stesso a' primi semi accaggia,
E ch'oltre
a' pesi alle percosse agli urti
Abbian
qualch'altra causa i moti loro;
Onde poscia
è con noi questa possanza
Nata;
perchè già mai nulla del nulla
Non poter
generarsi è manifesto.
Chè
vieta il peso che per gli urti il tutto
Formato sia
quasi da forza esterna:
Ma, che la
mente poi d'uopo non abbia
Di parti
interïori ond'ella possa
Far poi
tutte le cose e vinta sia
A soffrire,
a patir quasi costretta,
Ciò
puote cagionar de' primi corpi
Il picciol
devïar dal moto retto
Nè
mica in luogo certo o certo tempo.
Nè fu già mai della materia prima
Più
stivata la copia o da maggiori
Spazi
divisa; poichè quindi nulla
S'accresce o
scema. Onde quel moto in cui
Son ora i
primi corpi in quel medesmo
Furono ancor
nella trascorsa etade
E fian nella
futura; e tutto quello
Che fin qui
s'è prodotto è per prodursi
Anco
nell'avvenire, e con le stesse
Condizïoni
e nella stessa guisa
Essere e
crescer debbe, e tanta possa
Avere in
sè medesmo a punto quanta
Per naturale
invarïabil legge
Gli fu
sempre concessa. Nè la somma
Varïar
delle cose alcuna forza
Non
può già mai; perchè, nè dove alcuna
Spezie di
semi a ricovrar se 'n vada
Lungi dal
tutto non si trova al mondo,
Nè
meno ond'altra vïolenza esterna
Crear si
possa e penetrar nel tutto
Impetuosamente
e la natura
Mutarne e
volger sottosopra i moti.
Non creder poi che maraviglia apporti
Che, essendo
tutti i primi semi in moto
La somma non
pertanto in somma quiete
Paia di
star, se non se fosse alcuno
Mostra del
proprio corpo i movimenti.
Poscia che
de' principii ogni natura
Lungi da'
nostri sensi occulta giace:
Onde, se
quelli mai veder non puoi,
Ti fien anco
nascosti i moti loro;
Massime
perchè spesso accader suole
Che quelle
cose che veder si ponno
Celan mirate
da lontana parte
Anch'elle i
propri moti agli occhi nostri.
Poichè
sovente in un bel colle aprico
Le pecore
lanute a passi lenti
Van bramose
tosando i lieti paschi,
Ciascuna ove
la chiama, ove l'invita
La di fresca
rugiada erba gemmante,
E vi
scherzan lascivi i grassi agnelli
Vezzosamente
saltellando a gara:
E pur tai
cose, se da lungi il guardo
Vi s'affissa
da noi, sembran confuse
E ferme,
quasi allor s'adorni e veli
Di bianca
sopravvesta il verde colle.
In oltre;
allor che poderose e grandi
Schiere di
guerra in simolacro armate
Van con
rapido corso i campi empiendo,
E su prodi
cavalli i cavalieri
Volan lungi
dagli altri e furibondi
Scuoton con
urto impetuoso il campo;
Quivi al
cielo il fulgor se stesso inalza,
Quivi
splende la terra, e l'aria intorno
Arde tutta e
lampeggia, e sotto i piedi
De' valorosi
eroi s'eccita un suono,
Che misto
con le strida e ripercosso
Dai monti in
un balen s'erge alle stelle:
E pur luogo
è ne' monti onde ci sembra
Starsi nel
campo un tal fulgore immoto.
Or via; da quinci innanzi intendi omai
Quali sian
delle cose i primi semi,
E quanto
l'un dall'altro abbian diverse
E difformi
le forme e le figure,
Non
perchè sian di poco simil forma
Molti di
lor, ma perchè tutti eguali
D'ogn'intorno
non han tutte le cose.
Nè maraviglia
è ciò; poscia che, essendo
Tanta la
copia lor che fine o somma,
Come
già dimostrammo, aver non puote,
Ben creder
deesi che non tutti in tutto
Possan tutte
le parti aver dotate
D'egual
profilo o di simil figura.
Oltr'a
ciò, l'uman germe e i muti armenti
Degli
squammosi pesci e i lieti arbusti
E le fere
selvagge e i vari augelli,
O vuoi quei
che dell'acque i luoghi ameni
Amano e
vansi spazïando intorno
Alle rive
de' fiumi ai fonti, ai laghi,
O quei che
delle selve abitatori
Volan di
ramo in ramo: or tu di questi
Segui pur a
pigliar qual più t'aggrada
Generalmente,
e troverai che tutti
Han figure
diverse e forme varie.
Nè
potrebbero i figli in altra guisa
Raffigurar
le madri nè le madri
Riconoscere
i figli: e pur veggiamo
Che
ciò far ponno e senza error, non meno
Che gli
uomini fra lor si raffigurano.
Poichè
sovente innanzi ai venerandi
Templi de'
sommi dèi cade il vitello
Presso a
fumante altar d'arabo incenso,
E dal petto
piagato un caldo fiume
Sparge di
sangue: ma l'afflitta ed orba
Madre pe'
boschi errando in terra lascia
Del
bipartito piede impresse l'orme;
Cerca con
gli occhi ogni riposto luogo
S'ella veder
pur una volta possa
Il perduto
suo parto, e ferma spesso
Di queruli
muggiti empie le selve,
E spesso
torna dal desio trafitta
Del caro
figlio a riveder la stalla:
Nè
rugiadose erbette o salci teneri,
Mormoranti
ruscelli o fiumi placidi
Non posson
dilettarla o svïar punto
L'animo suo
dalla noiosa cura,
Nè
degli altri giovenchi altrove trarla
Le mal note
bellezze, o i grassi paschi
Allevïarle
il duol che la tormenta:
Sì va
cercando un certo che di proprio
Ed a lei
manifesto. I tenerelli
Capretti
inoltre alle lor voci tremole
Et al rauco
belar gli agni lascivi
Riconoscono
pur l'irsute madri
E le lanose.
In cotal guisa ognuno,
Qual natura
richiede, il dolce latte
Delle
proprie sue mamme a sugger corre.
Di grano al
fin qualunque specie osserva;
E vedrai
nondimen ch'ei non ha tanta
Somiglianza
fra sè, ch'anco non abbia
Qualche
difformitade: e per la stessa
Ragion
vedrai che della terra il grembo
Dipingon le
conchiglie in varie guise
Là
dove bagna il mar con l'onde molli
Del curvo
lido l'assetata arena.
Onde
senz'alcun dubbio è pur mestiero
Che per la
stessa causa i primi corpi
Poscia che
son dalla natura anch'essi
E non per
opra manual formati,
Abbian varie
fra lor molte figure.
Già sciôr possiamo agevolmente il dubbio,
Per qual
cagione i fulmini cadenti
Molto
più penetrante abbiano il foco
Di quel che
nasce da terrestri faci:
Con
ciò sia che può dirsi che, il celeste
Ardor del
fulmin più sottile essendo,
Composto sia
di piccole figure,
Onde penétri
agevolmente i fóri
Che non
può penetrare il foco nostro
Generato da'
legni. In oltre; il lume
Passa pe 'l
corno, ma la pioggia indietro
Ne vien
rispinta; or per qual causa è questo,
Se non
perchè del lume assai minori
Gli atomi
son di quegli onde si forma
L'almo
liquor dell'acque? E perchè tosto
Vegghiam
colarsi il vino, ed il restio
Olio
all'incontro trattenersi un pezzo?
O
perchè gli ha maggiori i propri semi
O più
curvi e l'un l'altro in vari modi
A foggia d'ami
avviluppati insieme;
Ond'avvien
poi che non sì presto ponno
L'un
dall'altro strigarsi e penetrare
I fóri ad
uno ad uno e fuori uscirne.
S'arroge a ciò; che con soave e dolce
Senso gusta
la lingua il biondo mèle
E 'l bianco
latte; ed all'incontro il tetro
Amarissimo
assenzio e 'l fier centauro
Con orribil
sapor crucia il palato;
Ond'apprender
tu possa agevolmente
Che son
composti di rotondi e lisci
Corpi que'
cibi che da noi gustati
Posson
toccar soavemente il senso;
Ma quelle
cose poi ch'acerbe ed aspre
Ci sembrano
i lor semi hanno all'incontro
Vie
più adunchi e l'un l'altro a foggia d'ami
Strettamente
intrigati, onde le vie
Sogliono
risecar de' nostri sensi
E con
l'entrata dissiparne il corpo.
Al fin;
tutte le cose al senso grate
E l'ingrate
al toccar pugnan fra loro
Per le varie
figure onde son fatte:
Acciò
tu forse non pensassi, o Memmo,
Che l'aspro
orror della stridente sega
Formato
fosse di rotondi e lisci
Principii
anch'egli, in quella guisa stessa
Che la soave
melodia si forma
Da musico
gentile, allor che sveglia
Con dotta
man l'armonïose corde
Di canoro
strumento; e non pensassi
Che con la
stessa forma i primi corpi
Possano
penetrar nelle narici
Dell'uomo,
allor che i puzzolenti e tetri
Cadaveri
s'abbruciano ed allora
Che tutta
è sparsa di cilicio croco
La nuova
scena e di panchei profumi
Arde di
Giove il sacrosanto altare;
E non
credessi che i color leggiadri
E le nostre
pupille a pascer atti
Abbian
simíli i propri semi a quelli
Che pungon
gli occhi a lagrimar forzando
E paion
brutti e spaventosi in vista:
Poichè
ogni causa che diletta e molce
I sensi ha
lisci i suoi principii al certo;
Ma
ciò ch'è pel contrario aspro e molesto
Ha la
materia sua scabrosa e rozza.
Son poscia
alcuni corpi, i quali affatto
Non debbono
a ragion lisci stimarsi
Nè
con punte ritorte affatto adunchi;
Poi che
più tosto han gli angoletti loro
In fuori
alquanto, e che più tosto ponno
Solleticar
che lacerare il senso,
Qual
può dirsi la feccia ed i sapori
Dell'enula
campana. E finalmente
Che la
gelida brina e 'l caldo foco,
Dentati in
varie guise, in varie guise
Pungono il
senso, e l'un e l'altro tatto
Chiaro ne
porge e manifesto indizio.
Poscia che
'l tatto, il tatto, oh santi numi!,
Senso
è del corpo; o quando alcuna cosa
Esterna lo
penétra, o quando nuoce
A quel che
gli è nativo, o fuori uscendo
Ne dà
venereo genital diletto,
O quando
offesi entro lui stesso i semi
Ed insieme
commossi ed agitati
Turbano i
nostri sensi e gli confondono;
Come potrai
sperimentar tu stesso,
Se talor con
la man percuoti a caso
Del proprio
corpo qualsivoglia parte,
Ond'è
mestier che de' principii primi
Sian pur
molto fra lor varie le forme,
Che vari
sensi han di produr possanza.
Al fin; le cose che più dure e dense
Sembrano
agli occhi nostri è d'uopo al certo
Ch'abbiano
adunchi i propri semi e quasi
Ramosi e
l'un con l'altro uniti e stretti;
Tra le quai
senza dubbio il primo luogo
Hanno i
diamanti a disprezzare avvezzi
Ogni urto
esterno, e le robuste selci
E 'l duro
ferro e 'l bronzo il qual percosso
Suol
altamente rimbombar ne' chiostri.
Ma quel
ch'è poi di liquida sostanza
Convien che
fatto di rotondi e lisci
Principii
sia; poichè fra lor frenarsi
Non ponno i
suoi viluppi e verso il basso
Han volubile
il corso. In somma tutto
Ciò
che fuggirsi in un sol punto scorgi,
Com'il fumo
e la nebbia il foco e 'l vento,
Se men degli
altri hanno rotondi e lisci
I lor primi
principii, è forza al meno
Ch'e' non
gli abbian ritorti e strettamente
L'un con
l'altro congiunti, acciò sian atti
A punger gli
occhi e penetrar ne' sassi
Senza che
stiano avviticchiati insieme:
Il che vede
ciascuno esser concesso
Di conoscere
a' sensi, onde tu possa
Apprender
facilmente ch'e' non sono
Fatti
d'adunchi, ma d'acuti semi.
Ma che amari
tu vegga i corpi stessi
Che son
liquidi e molli, a punto come
È del
mare il sudor, non dèi per certo
Meraviglia
stimar: poichè, quantunque
Sia
ciò ch'è molle di rotondi e lisci
Semi
composto, nondimen fra loro
Doloriferi
corpi anco son misti:
Nè
per ciò fa mestier ch'e' siano adunchi
E l'un
l'altro intrigati, ma più tosto
Debbon,
benchè scabrosi, esser rotondi,
Acciò
che insieme agevolmente scorrere
Possano al
basso e lacerare i sensi.
Ma;
perchè tu più chiaramente intenda
Esser misti
co' lisci i rozzi e gli aspri
Principii,
onde ha Nettuno amaro il corpo;
Sappi che
dolce aver da noi si puote
L'acqua del
mar, pur che per lungo tratto
Sia di terra
colata e caggia a stille
In qualche
pozza e placida diventi;
Poscia che a
poco a poco ella depone
Del suo
tetro veleno i semi acerbi,
Come quelli
che ponno agevolmente,
Stante
l'asprezza lor, fermarsi in terra.
Or, ciò mostrato avendo, io vo' seguire
A congiunger
con questo un'altra cosa
Che quindi
acquista fede: ed è che i corpi
Della
materia varïar non ponno
Le lor
figure in infinite guise:
Chè,
se questo non fosse, alcuni semi
Già
dovrebbon di nuovo ai corpi misti
Apportar
infinito accrescimento.
Poichè
non in qualunque angusta mole
Si posson
molto varïare insieme
Le lor
figure: con ciò sia che fingi
Ch'e' sian
pur quanto vuoi minuti e piccoli
I primi
semi, indi di tre gli accresci
O di
poc'altri; e troverai per certo
Che, se tu
piglierai tutte le parti
Di qualche
corpo, e varïando i luoghi
Sommi con
gl'imi e co' sinistri i destri,
Dopo ch'in
ogni guisa avrai provato
Qual dia
specie di forme a tutto il corpo
Ciascun
ordine lor, nel rimanente,
Se tu forse
vorrai cangiar figure,
Anco altre
parti converratti aggiungere:
Quindi
avverrà che l'ordine ricerchi
Per la
stessa cagion nuove altre parti,
Se tu forme
cangiar vorrai di nuovo.
Dunque col
varïar delle figure
S'augumentano
i corpi: onde non dèi
Creder che i
semi abbian tra lor difformi
Le forme in
infinito, acciò non forzi
Ad esser
cose smisurate al mondo:
Il che
già falso io ti provai di sopra.
Già
le barbare vesti e le superbe
Lane di
Melibea tre volte intinte
Nel sangue
di tessaliche conchiglie,
E dell'aureo
pavon l'occhiute penne
Di ridente
lepor cosperse intorno,
Da novelli
colori oppresse e vinte
Giacerebbero
omai; nè della mirra
Sarìa
grato l'odor nè del soave
Mèle
il sapore; e l'armonia de' cigni
Ed i carmi
febei sposati al suono
Di cetra
tocca con dedalea mano
Fôran
già muti; con ciò sia che sempre
Nascer
potriano alcune cose al mondo
Più
dell'antiche prezïose e care,
Ed
alcun'altre più neglette e vili
Al palato
agli orecchi al naso agli occhi.
Il che falso
è per certo, ed ha la somma
E dell'une e
dell'altre un fin prescritto:
Ond'è
pur forza confessar che i semi
Forme
infinite varïar non ponno.
Dal caldo,
al fine, alle pruine algenti
È
finito passaggio, ed all'incontro
Per la
stessa ragion dal gelo al foco;
Poichè
finisce l'un e l'altro, e posti
Sono il tiepido
e 'l fresco a loro in mezzo,
Adempiendo
per ordine la somma.
Distanti
adunque le create cose
Per infinito
spazio esser non ponno,
Poscia c'han
d'ogni banda acute punte
Quinci
infeste alle fiamme e quindi al ghiaccio.
Il che mostrato avendo, io vo' seguire
A congiunger
con questa un'altra cosa
Che quindi
acquista fede: ed è che i semi
C'han da
natura una figura stessa
Sono
infiniti. Con ciò sia che, essendo
Finita delle
forme ogni distanza,
Forz'è
pur che le simili fra loro
Sian
infinite o sia finita almeno
La somma: il
che già falso esser provammo.
Or, poi che ciò t'è noto, io vo' mostrarti
In pochi, ma
soavi e dolci versi,
Che de'
primi principii i corpicciuoli
Sono
infiniti in qualsivoglia specie
Di forme, e
sol così posson la somma
Delle cose
occupar, continuando
D'ogn'intorno
il tenor delle percosse.
Poichè,
se ben tu vedi esser più rari
Certi
animali e men feconda in essi
La natura ti
par, ben puote un'altra
O terra o
luogo o regïon lontana
Esserne piu
ferace ed adempirne
In cotal
guisa il numero: sì come
Veggiam che
fra i quadrupedi succede
Spezialmente
agli anguimani elefanti;
De' quai
l'India è sì fertile che cinta
Sembra
d'eburneo impenetrabil vallo,
Tal di quei
bruti immani ivi è la copia;
Benchè
fra noi se ne rimiri a pena
Qualch'esempio
rarissimo. Ma; posto
Che fosse al
mondo per natura un corpo
Cotanto
singolar ch'a lui simíle
Null'altro
sia nell'universo intero;
Se non per
tanto de' principii suoi
Non fia la
moltitudine infinita,
Ond'egli
concepirsi e generarsi
Possa, non
potrà mai nascere al mondo
Nè,
benchè nato, alimentarsi e crescere.
Poichè
fingi con gli occhi che finiti
Semi d'una
sol cosa in varie parti
Vadan pel
vano immenso a volo errando:
Onde, dove,
in che guisa e con qual forza,
In
così vasto pelago e fra tanta
Moltitudine
altrui, potranno insieme
Accozzarsi
giammai? Per quanto io credo,
Ciò
non faranno in alcun modo al certo.
Ma; qual, se
nasce in mezzo all'onde insane
Qualche
grave naufragio, il mar cruccioso
Sparger
sovente in varie parti suole
Banchi,
antenne, timoni, alberi e sarte,
Poppe e
prore e trinchetti e remi a nuoto.
In guisa che
mirar puote ogni spiaggia
Delle navi
sommerse i fluttuanti
Arredi,
ch'avvertir dovrian ciascuno
Mortale ad
ischifar del mare infido
E l'insidie
e la forza e i tradimenti
Nè
mai fidarsi ancor che alletti e rida
L'ingannatrice
sua calma incostante:
Tal, se tu
fingi in qualche specie i semi
Da numero
compresi, essi dovranno
Per lo vano
profondo esser dispersi
In varie
parti da diversi flutti
Della prima
materia, in guisa tale
Ch'e' non
potran congiungersi o congiunti
Trattenersi
un sol punto in un sol gruppo
Nè
per nuovo concorso augumentarsi.
E pur, che
l'un e l'altro apertamente
Si faccia,
il fatto stesso a noi ben noto
Ne mostra, e
che formarsi e che formate
Posson
crescer le cose. È chiaro adunque
Che sono in
ogni specie innumerabili
Semi onde
vien somministrato il tutto.
Nè
superare eternamente ponno
I moti a lor
mortiferi nè meno
Seppellir la
salute eternamente,
Nè di
sempre serbar da morte intatte
Le cose una
sol volta al mondo nate
Gli accrescitivi
corpi hanno possanza.
Tal con pari
certame insieme fanno
Battaglia i
semi infra di lor contratta
Fin da tempo
infinito. Or quinci or quindi
Vince la
vita, ed all'incontro è vinta:
Mista al
rogo è la cuna, ed al vagito
De' nascenti
fanciulli il funerale:
Nè
mai notte seguío giorno nè giorno
Notte, che
non sentisse in un confusi
Col vagir di
chi nasce il pianto amaro
Della morte
compagno e del feretro.
Abbi in oltre per fermo e tieni a mente,
Che nulla al
mondo ritrovar si puote
Che d'un
genere sol di genitali
Corpi sia
generato e che non abbia
Misti
più semi entro a se stesso; e quanto
Più
varie forze e facoltà possiede,
Tanto in
sè stesso esser più specie insegna
D'atomi
differenti e varie forme.
Pria la terra contiene i corpi primi,
Onde con
moto assiduo il mare immenso
Si rinnovi
da' fonti i quai sossopra
Volgono i
fiumi; ha d'onde nasca il foco,
Poi
ch'acceso in più luoghi il suol terrestre
Arde, ma
più d'ogni altro è furibondo
L'incendio
d'Etna; ha poi donde le biade
E i lieti
arbusti erga per l'uomo, ed onde
Porga alle
fere per le selve erranti
E le tenere
frondi e i grassi paschi.
Ond'ella sol
fu degli dèi gran madre
Detta e
madre de' bruti e genitrice
De' nostri
corpi. E ne cantaro a prova
Degli
antichi poeti i più sovrani
Ch'Argo ne
desse; e finser che sublime
Sovr'un
carro a seder sempre agitasse
Due leon
domi ed accoppiati al giogo,
Affermando
oltr'a ciò che pende in aria
La gran
macchina sua, nè può la terra
Fermarsi in
terra; aggiunsero i leoni,
Sol per
mostrar ch'ogni più crudo germe
Dee, la natia
sua ferità deposta,
Rendersi a'
genitori obbedïente
Vinto da'
loro officii; al fin gli ornaro
La sacra
testa di mural corona,
Perch'ella
regge le città munite
Di luoghi
illustri. Or di sì fatta insegna
Cinta per le
gran terre orrevolmente
Si porta ognor
della divina madre
L'imagin
santa. Ella da genti varie
Per antico
costume è nominata
Ne'
sacrifici la gran madre Idea.
Le aggiungon
poscia le troiane turbe
Per sue fide
seguaci; essendo fama
Che pria da
quei confini incominciasse
A generarsi
a propagarsi il grano:
Le danno i
Galli, per mostrar che quegli
Ch'avranno
offeso di lor madre il nume
O sieno
ingrati a' genitor, non sono
Degni
d'esporre a' dolci rai del giorno
Delle
viscere lor prole vivente.
Dalle palme
percossi in suon terribile
Tuonan
timpani tesi e cavi cembali,
E con rauco
cantar corni minacciano,
E la concava
tibia in frigio numero
Suona e le
menti altrui risveglia e stimola.
E gli
portano innanzi orrendi fulmini
In segno di
furore, acciò bastevoli
Siano a
frenar con la paura gli animi
Ingrati
della plebe e i petti perfidi,
Di cotal
dèa la maestà mostrandoli.
Or, tosto
ch'ella entro le gran cittadi
Vien
portata, di tacita salute
Muta
arricchisce gli uomini mortali.
Spianan
tutte le vie d'argento e bronzo,
Dan larghe
offerte, e nevigando un nembo
Di rose
fanno alla gran madre ed anco
De' seguaci
alle turbe ombra cortese.
Qui di frigi
Coreti armata squadra
(Sì
gli chiamano i Greci) insieme a sorte
Suonan
catene, ed a tal suon concordi
Muovon
saltando i passi ebri di sangue;
E percotendo
con divina forza
De' lor elmi
i terribili cimieri
Rappresentan
di Creta i Coribanti,
Che, siccome
la fama al mondo suona,
Già
di Giove il vagito ivi celaro,
Allor
ch'intorno ad un fanciullo armato
Menâr gli
altri fanciulli in cerchio un ballo
Co' bronzi a
tempo percotendo i bronzi,
Acciò
dal proprio genitor sentito
Divorato non
fosse e trafiggesse
Con piaga
eterna della madre il petto.
Quindi
accompagnan la gran madre armati,
O forse per
mostrar che la n'avverte
A difender
col senno e con la spada
La patria
terra ed a portar mai sempre
E decoro e
presidio ai genitori.
Le quali
tutte cose, ancor che dette
Con ordin
vago a meraviglia e bello,
Son
però false senza dubbio alcuno.
Chè
d'uopo è pur che 'n somma eterna pace
Vivan gli
dèi per lor natura e lungi
Stian dal governo
delle cose umane,
D'ogni
dolor, d'ogni periglio esenti,
Ricchi sol
di sè stessi e di sè fuori
Di nulla
bisognosi, e che nè merto
Nostro gli
alletti o colpa accenda ad ira.
Ma la terra
di senso in ogni tempo
Manca
senz'alcun dubbio, e, perchè tiene
Di molte
cose entro al suo grembo i semi,
Molti ancor
ne produce in molti modi.
Qui; se
alcun vuol chiamar Nettuno il mare,
Cerere il
grano, et abusar più tosto
Di Bacco il
nome che la propria voce
Pronunzïar
del più salubre umore;
Concediamogli
pur ch'egli a sua voglia
Dica gran
madre degli dèi la terra;
Pur che
ciò sia veracemente falso.
Sovente adunque, ancor che pascan l'erba
D'un prato
stesso sotto un cielo stesso
E pecore
lanute e di cavalli
Prole
guerriera ed aratori armenti
E bevan
l'acqua d'un medesmo fiume,
Vivon
però sotto diversa specie,
E de' lor
genitori in sè ritengono
Generalmente
la natura e sanno
Imitarne i
costumi: or tanto vari
I corpi son
della materia prima
In ogni
specie d'erba in ogni fiume.
Anzi, oltre
a questo, ogni animal si forma
Di tutte
queste cose, umido sangue,
Ossa, vene,
calor, viscere e nervi,
Le quai son
pur fra lor diverse e nate
Da principii
difformi. E similmente
Ciò
ch'arde il foco, se null'altro, almeno
Sol di
sè stesso somministra i corpi
Che vibrar
il calor, sparger la luce,
Agitar le
scintille e largamente
Possono
intorno seminar le ceneri.
E se tu con
la mente in simil guisa
L'altre cose
contempli ad una ad una,
Senz'alcun
dubbio troverai che tutte
Celan nel
proprio corpo e vi han ristretto
Molti semi
diversi e varie forme.
Al fin: tu
vedi in molte cose unito
Con l'odore
il sapor: dunque è pur d'uopo
Che queste
abbian dissimili figure.
Poichè
l'odor penétra in quelle membra
Ove non
entra il succo, e similmente
Penetra i
sensi separato il succo
Dal sapor
delle cose; onde s'apprende
Ch'ei le
prime figure ha differenti:
Dunque forme
difformi in un sol gruppo
Certamente
s'uniscono e si forma
Di misto
seme il tutto. Anzi tu stesso
Puoi sovente
vedere ne' nostri versi
Esser comuni
a molte voci e molte
Molti
elementi, e non per tanto è d'uopo
Dir che
d'altri elementi altre parole
Sian pur
composte; non perchè comuni
Si trovin
poche lettere o non possano
Formarsi mai
delle medesme appunto
Due voci
varie, ma perchè non tutte
Hanno ogni
cosa in ogni parte eguale.
Or
similmente all'altre cose accade,
Che, se ben
molte hanno comuni i semi,
Possono
ancor di molto vario gruppo
Formarsi al
certo: ond'a ragion si dica
Che d'atomi
diversi ognor si creino
Gli augelli
i pesci gli animai le piante.
Nè creder dèi che non per tanto unirsi
Possan tutti
i principii in tutti i modi;
Perchè
nascer vedresti in ogni parte
Ognor nuovi
portenti; umane forme
Miste a
forme di fere, e rami altissimi
Spuntar tal
volta da vivente corpo,
E molte
membra d'animai terrestri
Con quelle
degli acquatici congiungersi,
E le chimere
con orribil bocca
Fiamme
spirando partorire al mondo
Il tutto e
pascer la natura a pieno.
Del che
nulla esser vero aperto appare,
Mentre
veggiam da genitrice certa
Nascer tutte
le cose e crescer poi
Da certi
semi e conservar la specie.
E d'uopo
è ben che tutto questo accaggia
Per non
dubbia ragion: Poichè a ciascuno
Scendon da
tutti i cibi entro alle membra
I propri
corpi, onde congiunti fanno
Convenevoli
moti; ed all'incontro
Veggiam gli
altrui dalla natura in terra
Ributtarsi
ben tosto, e molti ancora
Fuggon
cacciati da percosse occulte
Pe' meati
insensibili del corpo,
I quai
nè unirsi ad alcun membro o quivi
Produr moti
vitali ed animarsi
Non poteron
già mai. Ma, perchè forse
Tu non
credessi a queste leggi astretti
Solo i
viventi, una ragione stessa
Decide il
tutto: che, siccome in tutta
L'essenza
lor le generate cose
Son fra
sè varie, in cotal guisa appunto
Forz'è
che di dissimili figure
Abbiano i
semi lor; non perchè molte
Sian di
forma fra lor poco simili,
Ma sol
perchè non tutte in ogni parte
Hanno eguale
ogni cosa: or, vari essendo
I semi,
è di mestier che differenti
Sian le
percosse l'unïoni i pesi
I concorsi
le vie gli spazi i moti,
I quai non
pur degli animali i corpi
Disgiungon,
ma la terra e 'l mar profondo
E 'l cielo
immenso dal terrestre globo.
Or porgi in oltre a questi versi orecchio
Da me con
soavissima fatica
Composti,
acciò tu non pensassi, o Memmo,
Cbe nate
sian di candidi principii
Le bianche
cose e che di nero seme
Si producan
le nere, o pur che quelle
Che son
gialle o vermiglie, azzurre o perse
O rancie o
di qualunque altro colore,
Sol tali
sian perchè il color medesmo
Della prima
materia abbiano i corpi:
Poscia ch'i
primi semi affatto privi
Son di tutti
i colori, e non può dirsi
Ch'in
ciò le cose a' lor principii sieno
Simili
nè dissimili. E, se forse
Paresse a te
che l'animo non possa
Veder corpi
cotali, erri per certo
Lungi dal
ver: poichè, se i ciechi nati,
Che mai del
sol non rimirâr la luce,
Conoscon pur
sol per toccarli i corpi,
Benchè
fin da fanciulli alcun colore
Non abbian
visto, è da saper che ponno
Anco le
nostre menti aver notizia
De' corpi
affatto d'ogni liscio privi.
Al fin;
ciò che da noi nel buio oscuro
Si tocca al
senso dimostrar non puote
Colore
alcuno. Or, perch'io già convinco
Che
ciò succede, io vo' mostrarlo adesso.
Poscia
ch'ogni color del tutto in tutti
Si cangia:
il che per certo a patto alcuno
Far mai non
ponno i genitali corpi
Chè
forza è pur ch'invarïabil resti
Di chi muor
qualche parte, acciò le cose
Non tornin
tutte finalmente al nulla;
Poichè,
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Quest'è
sua morte, e non è più quel desso:
Per la qual
cosa attribuir non dèi
Colore ai
semi, acciò per te non torni
Il tutto in
tutto finalmente al nulla.
Se in oltre i primi corpi alcun colore
Non hanno,
hanno però forme diverse
Atte a
produrli e varïarli tutti.
Con
ciò sia che, oltre a questo, importa molto
Come sian
misti i primi semi e posti;
Acciò
tu possa agevolmente addurre
Pronte
ragioni, ond'è che molti corpi
Che poc'anzi
eran neri in un momento
Di marmoreo
candor se stessi adornino,
Com'il mar,
se talvolta irato il turba
Vento che
spiri dall'arene maure,
Cangia in
bianco alabastro i suoi zaffiri.
Poscia che
dir potrai che spesso il nero,
Tosto
ch'internamente agita e mesce
La sua prima
materia, e varia alquanto
L'ordine de'
principii e ch'altri aggiunti
Corpi gli
sono, altri da lui sottratti,
Puote agli
occhi apparir candido e bianco.
Chè se dell'oceàn l'onde tranquille
Fosser
composte di cerulei semi,
Non
potrebber già mai cangiarsi in bianche:
Poichè,
comunque si commuova un corpo
Di ceruleo
color, non puote al certo
Di
candidezza alabastrina ornarsi.
Chè:
se dipinti di color diverso
Fossero i
semi onde si forma un solo
Puro e
chiaro nitor del sen di Teti,
Come sovente
di diverse forme
Fassi un
solo quadrato; era pur d'uopo
Che siccome
da noi veggonsi in questo
Forme
difformi, anco del mar tranquillo
Si vedesser
nell'onde od in qualunque
Altro puro
nitor vari colori.
Le figure,
oltr'a ciò, benchè diverse,
Non ponno
ostar che per di fuori il tutto
Quadro non
sia: ma posson bene i vari
Colori delle
cose oprar che nulla
D'un sol
chiaro nitor s'orni e risplenda.
Senza che,
ogni ragion ch'induce altrui
Ad assegnare
alla materia prima
Differenti
colori è vana affatto:
Poichè
di bianchi semi i bianchi corpi
Non si
veggon crear, nè men di neri
I neri, ma
di vari e differenti:
Con
ciò sia ch'è più facile a capirsi
E piu
agevole a farsi, che da seme
Privo d'ogni
color nascan le cose
Candide, che
da nero o da qualunque
Altro che
incontra gli combatta e gli osti.
Perchè, in oltre, i colori esser non ponno
Senza luce,
e la luce unqua non mostra
La materia
svelata agli occhi nostri;
Quindi lice
imparar ch'i primi semi
Non son
velati da nessun colore;
E qual
colore aver potrà già mai
Nelle
tenebre cieche, il qual si cangia
Nel lume
stesso se percosso splende
Con retta
luce o con obliqua o mista?
Come piuma
che 'l collo e la cervice
D'innocente
colomba orni e colori
Or d'acceso
rubin fiammeggia ed ora
Fra cerulei
smeraldi i verdi mesce,
E d'altero
pavon l'occhiuta coda,
Qualor
pomposo ei si vagheggia al sole,
Cangia
così mille colori anch'ella.
I quai
poscia che pur son generati
Solo allor
che la luce urta ne' corpi.
Non
dèi stimar che senza questo possa
Ciò
farsi. E perchè l'occhio in sè riceve
Una tal
sorta di percosse allora
Ch'ei vede
il bianco e senza dubbio un'altra
Da quella
assai diversa allor ch'ei mira
Il nero e
qualsivoglia altro colore,
Nè
quale abbian color punto rileva
I corpi che
si toccano, ma solo
Qual
più atta figura; indi ne lice
Saper che
nulla han di mestiere i semi
D'alcun
colore, e che producon solo
Con varie
forme toccamenti vari.
Perchè incerta, oltre a questo
è del colore
L'essenza e
pende da figure incerte,
E tutte
posson de' principii primi
In qualunque
chiarezza esser le forme;
Ond'è
che ciò che d'esse è poi formato
Anch'ei non
è nel modo stesso asperso
D'ogni sorte
color? dal che sovente
Nascer
potrà ch'anco i volanti corvi
Vantin con
bianche penne il color bianco,
E di nera
materia i cigni neri
Sian fatti o
di qualunque altro colore
O puro e
schietto o fra sè vario e misto.
Anzi che,
quanto in più minute parti
Si stritolan
le cose, allor succede
Che tu
meglio veder possa i colori
Svanir a
poco a poco ed annullarsi;
Qual se in
piccioli pezzi o l'oro o l'ostro
Si frange e
'l sovr'ogni altro illustre e chiaro
Color
cartaginese a filo a filo
Si straccia
e tutto si disperde in nulla:
Onde tu
possa argomentar che prima
Spiran le
parti sue tutto il colore,
Che scendan
delle cose ai primi semi.
Perchè, al fin, tu non credi ch'ogni corpo
Mandi alle
nari odor, voci all'orecchie,
Quindi
avvien poi che non assegni a tutti
Gli odori e
'l suono: or in tal guisa appunto,
Perchè
non tutte puoi veder con gli occhi
Le cose,
è da saper che sono alcune
Tanto d'ogni
color spogliate affatto
Quanto alcune
di suon prive e d'odore,
E che non
men può l'animo sagace
Intender
ciò, ch'ei l'altre cose intende
Prive
d'altri accidenti e note ai sensi.
Ma; perchè forse tu non creda ignudi
Sol di
colore i primi semi; avverti
Che son
disgiunti dal colore in tutto
E dal freddo
e dal tiepido vapore,
E sterili di
suon magri di succo
Corron per
lo gran vano, e non esalano
Dalla
propria sostanza odore alcuno,
Come suol
esalarne alle narici
Il soave
liquor dell'amaraco,
Della mirra
l'unguento e il fior del nardo.
E se tu
forse esperïenza brami,
Pria
convienti cercar, fin che ti lice
E che puoi
ritrovar, l'interna essenza
Dell'olio
inodorifero che alcuna
Alle nostre
narici aura non manda,
Acciò,
mischiando e digerendo in esso
Molti odori
diversi, egli non possa
Rendergli
poi del suo veleno infetti.
Per questo,
in somma, i genitali corpi
Nel generar
le cose il proprio odore
Non debbon
compatirli o 'l proprio suono,
Perchè
nulla da lor puote esalare;
Nè 'l
sapor finalmente o 'l freddo o 'l caldo,
Per la
stessa ragion, nè similmente
Il tiepido
vapor. E gli altri corpi;
Che son
mortali, e perciò tutti a questa
Legge
soggetti, che di molle i teneri,
Di rozza gli
aspri, et i porosi in somma
Sian di rara
sostanza, è d'uopo al certo
Che tutti
sian da' lor principii primi
Diversi; se
pur brami ad ogni cosa
Assegnar
fondamenti incorruttibili,
Ove possa
appoggiarsi ogni salute;
Acciò
per te tutte le cose al fine
Non sian
costrette a dissiparsi in nulla.
Or ciò che sente non di meno è d'uopo
Che di semi
insensibili formato
Si confessi da
te. Nè pugna il senso
Contro a
questo ch'io dico, anzi egli stesso
Quasi per
mano ad affermar ne guida
Che vero
è pur che gli animai non ponno
Se non se
d'insensibili principii
Nascer
già mai. Poichè veder ne lice
Sorger dal
tetro sterco i vermi vivi
Allor che
per tempeste intempestive
Umido il
suolo imputridisce, ed anco
Tutte le
cose trasmutar se stesse.
Si trasmutan
le frondi i paschi i fiumi
In gregge,
il gregge si trasmuta anch'egli
In uomini, e
degli uomini sovente
Dell'indomite
fere e de' pennuti
Cresce il
corpo e la forza: adunque i cibi
Tutti per
lor natura in vivi corpi
Si cangiano;
e di qui nasce ogni senso
Degli
animai, quasi nel modo stesso
Che spiega
il foco un secco legno in fiamma
E ciò
che tocca in cenere rivolta.
Vedi tu
dunque omai di qual momento
Sia l'ordine
de' semi e la mistura
E i moti che
fra lor danno e ricevono?
In oltre ancor; che cosa esser può quella
Che percuote
dell'uom l'animo e 'l muove
E lo sforza
a produr sensi diversi,
Se pur non
credi i sensitivi corpi
Di materia
insensibile formarsi?
Certamente
la terra i legni i sassi,
Ancor che
siano in un confusi e misti,
Non producon
però senso vitale.
Fia dicevole
dunque il rammentarsi
Di questa
lega de' principii primi;
Cio
è; che non di tutti in tutto a un tratto
Fassi 'l
corpo sensibile ed il senso;
Ma che molto
rileva in primo luogo
Quanto
piccioli sian, qual abbian forma
Ordini, moti
e positure al fine
Gli atomi
che crear denno il sensibile.
Delle quai
tutte cose alcun non vede
Nulla ne'
rotti legni e nell'infranto
Terreno: e pur,
se queste cose sono
Quasi per
pioggia putrefatte e guaste,
Generan
vermi, perchè, mossi essendo
Della
materia i corpi dall'antico
Ordine lor
per l'accidente nuovo,
S'uniscon
poscia in tal maniera insieme
Che d'uopo
è pur che gli animai si formino.
In somma;
allor che di sensibil seme
Dicon
crearsi il sensitivo, in vero
Dall'altre
cose a giudicare avvezzi
Fanno allor
molle la materia prima;
Perch'ogni
senso è certamente unito
Alle
viscere, ai nervi ed alle vene,
Che pur son
molli e di mortal sostanza
Tutte
create. Ma sia vero omai
Che possan
queste cose eternamente
Restare in
vita: non per tanto è forza
Ch'elle
abbian pure o come parti il senso,
O sian
simíli agli animali interi.
Ma non san
per sè stesse esser le parti
Non che
sentir, nè può la mano od altra
Parte del
corpo esser da lui divisa
E per
sè stessa conservare il senso,
Poichè
tosto ogni senso ella rifiuta
Dell'altre
membra. Onde riman che solo
Agl'intieri
animali abbian simile
L'essenza,
acciò che d'ogni intorno possano
Sentir con
vital senso. Or come adunque
Potran
chiamarsi genitali corpi
E la morte
fuggir, mentre pur sono
Animali
ancor essi e co' mortali
Viventi una
sol cosa? il che se pure
Esser
potesse, non farian giammai
Dall'unïon
divisi altro ch'un volgo
Ed una turba
d'animai nel mondo:
Come certo
non ponno alcuna cosa
Gli uomini
generar, le fere, i greggi,
Quando uniti
fra lor piglian sollazzo
Venereo,
altro che fere, uomini e greggi.
Che se
forse, del corpo il proprio senso
Perdendo,
altro ne acquistano, a che fine
Assegnar li
si dee ciò che gli è tolto?
In oltre
ancora; il che scansammo avanti;
Fin che
veggiam che de' crestati augelli
Si cangian
l'uova in animati polli,
E di
piccioli vermi il suol ribolle
Allor che
per tempeste intempestive
Divien
putrido e marcio, indi ne lice
Saper che
fassi di non senso il senso.
Ma; se forse dirai crearsi i sensi
Sol da non
sensi, pur che pria che nasca
Abbia di
moto un tal principio il parto;
Sol
basterà ch'io ti dimostri aperto,
Che mai
senza unïon dei corpi primi
Non si
genera il parto e non si muta
Nulla senza
lor gruppo innanzi fatto.
Poichè
per certo la materia sparsa
Per le
fiamme pe' fiumi in aria in terra,
Cose innanzi
create, e' non s'accozza
In
convenevol modo, onde comparta
Fra
sè moto vital, per cui s'accenda
Senso che
guardi 'l tutto, e gli animali
Difender
possa da' contrari insulti.
In oltre; ogni animal, se più gran colpo
Che la
natura sua soffrir non puote
Il fere, in
un momento anco l'atterra
E s'avaccia
a turbar tutti e scomporre
E del corpo
e dell'alma i sentimenti:
Poichè
si sciolgon de' principii primi
Le positure
ed impediti affatto
Sono i moti
vitali infino a tanto
Che
squassata e scommossa ogni materia
Per ogni
membro il vital nodo scioglie
Dell'anima
dal corpo e fuor dispersa
D'ogni
proprio ricetto alfin la scaccia.
Perchè
qual altra cosa oprar può mai
Negli
animali un vïolento colpo,
Se non
crollarli e dissiparne il tutto?
Succede
ancor che per minor percossa
Puon del
moto vital gli ultimi avanzi
Vincer
sovente; vincere, e del colpo
Acquietare i
grandissimi tumulti,
E di nuovo
chiamar ne' propri alberghi
Ciò
che partissi, e nell'afflitto corpo
Moti produr
signoreggianti omai
Di morte, e
dentro rivocarvi i sensi
Quasi
smarriti. Che per qual cagione
Posson
più tosto ripigliar vigore
E dallo
stesso limitar di morte
Tornare in
vita, che partirsi et ire
Là
dove è già quasi finito il corso?
Perchè il duolo, oltre a questo allor si genera
Che per le
membra e per le vive viscere
Da qualche
vïolenza i primi corpi
Vengono
stimolati e nelle proprie
Lor sedi
internamente si conturbano;
Ma, quando
poscia alla lor prima stanza
Tornano, il
lusinghevole piacere
Tosto si
crea; quindi saper ne lice
Che mai non
posson da dolore alcuno
Essere
afflitti i genitali corpi
Nè
pigliar per sè stessi alcun diletto;
Con
ciò sia che non son d'altri principii
Fatti, per
lo cui moto aver travaglio
Debbiano o
pur qualche soave frutto
Di dolcezza
gustar: non ponno adunque
Esser dotati
d'alcun senso i semi.
Se, 'n
somma, acciò che senta ogni animale,
Senso a'
principii suoi deve assegnarsi,
Dimmi che ne
avverrà? Fia d'uopo al certo
Che i semi
onde si crea l'umano germe
Si sganascin
di risa, e di stillanti
Lacrime
amare ambe le gote aspergano,
E ne sappian
ridir come sian miste
Le cose, e
possan domandar l'un l'altro
Le
qualità de' lor principii e l'essere:
Poscia che,
essendo assomigliati a tutti
I corpi
corruttibili, dovranno
D'altri
elementi esser formati anch'essi
E quindi
d'altri in infinito gli altri;
E
converrà che ciò che ride o parla
O sa, creato
sia d'altri principii
Che ridano
ancor lor parlino e sappiano.
Che se tai
cose esser delire e pazze
Ognun
confessa, e rider puote al certo
Chi fatto
è pur di non ridenti semi,
Et esser
saggio e nel parlar facondo
Chi nato
è pur di non facondi e saggi;
Dimmi, per
qual cagion ciò che si mira
Aver senso
vital non può formarsi
D'atomi
affatto d'ogni senso ignudi?
Al fin; ciascuno ha da celeste seme
L'origine
primiera; a tutti è padre
Quello
stesso onde, allor che in sè riceve
L'alma gran
madre terra il molle umore
Della
pioggia cadente, i lieti arbusti
Gravida
figlia il gran, le biade e gli uomini,
Ed ogni
specie d'animai selvaggi,
Mentr'ella a
tutti somministra i paschi
Onde
nutrirsi, onde menar tranquilla
Possan la
vita e propagar la prole;
Ond'a
ragione ebbe di madre il nome.
Similmente
ritorna indietro in terra
Ciò
che di terra fu creato innanzi;
E quel che
fu dalle celesti e belle
Regïoni
superne in giù mandato
Di nuovo
anch'egli riportato in cielo
Trova ne'
templi suoi dolce ricetto:
Nè
sì la morte uccider può le cose,
Che le
annichili affatto. Ella discioglie
Solo il gruppo
de' semi, e quindi un altro
D'altri poi
ne congiunge, e fa che tutte
Cangin forma
le cose, e acquistin senso
Tal volta ed
anco in un sol punto il perdano.
Onde
apprender si può che molto importa
Come sian
misti i primi semi e posti,
E quai moti
fra lor diano e ricevano;
Poichè
forman gli stessi il cielo il sole,
Gli stessi
ancor la terra i fiumi il mare
Gli augelli
i pesci gli animai le piante;
E, se non
tutti, una gran parte almeno
Son tai
corpi fra lor molto simíli,
E solo han
vario e differente il sito.
Tal, se
dentro alle cose in varie guise
Cangiansi
de' principii i colpi i pesi
I concorsi
le vie gli spazi i gruppi
Gli ordini i
moti le figure i siti,
Debbon le
cose varïarsi anch'elle.
Or, mentre il vero io ti ragiono, o Memmo,
Sta' con
l'animo attento ai detti nostri,
Perchè
nuovi concetti entro all'orecchie
Tentan di
penetrarti e nuove forme
Di cose agli
occhi tuoi se stesse svelano.
Ma nulla
è di sì facile credenza,
Che di molto
difficile non paia
Al primo
tratto; e similmente nulla
Per
sì grande e mirabile s'addita
Mai da
principio, che volgare e vile
A poco a
poco non diventi anch'egli.
Com'il
chiaro e purissimo colore
Del cielo, e
quel che le vaganti e fisse
Stelle in
sè stesse d'ogn'intorno accolgono.
E della luna
or mezza or piena or scema
L'argenteo
lume e i vivi rai del sole:
Che s'or
primieramente all'improvviso
Rifulgessero
a noi quasi ad un tratto
Posti
innanzi a' nostr'occhi, e qual potrebbe
Cosa mai
più mirabile chiamarsi
Di questa? o
che già mai la gente innanzi
Men di
credere osasse? quel ch'io stimo,
A nessun
più ch'a te parsa sarebbe
Degna di
maraviglia una tal vista:
E pur,
già sazio non che stanco ognuno
Dal
soverchio mirar, non degna ai templi
Risplendenti
del cielo alzar pur gli occhi.
Onde non
voler tu, solo atterrito
Dalla sua
novità, la mia ragione
Correr
veloce a disprezzar; ma prendi
Con
più fino giudizio a ponderarla:
E, se vera
ti par, consenti e taci:
Se no,
t'accingi a disputarle incontra.
Poichè
sol di ragion l'animo è pago;
Essendo fuor
di questo nostro mondo
Somma immensa
di spazio, egli ricerca
Ciò
che là sia, fin dove può la mente
Penetrare a
veder, dove lo stesso
Animo
può spiegar libero il volo.
Pria, se ben ti rammenta, in ogni parte,
A destra et
a sinistra, e sotto e sopra,
Per tutto
è sparso un infinito spazio,
Com'io
già t'insegnai, come vocifera
Per
sè medesmo il fatto, e manifesta
È del
profondo la natura a tutti.
Già
pensar non si debbe in guisa alcuna
Ch'essendo
in ogni banda un vano immenso
Per cui con
moto eterno in varie guise
Numero
innumerabile di semi
Per lo vano
profondo irrequïeti
Volâr mai
sempre ed a crear bastanti
Fûr
questa terra e questo ciel che miri,
Nulla fuori
di lui faccian que' tanti
Principii;
essendo massime anco questi
Fatto dalla
natura, e delle cose
Gli stessi
semi, in molti modi a caso
Urtandosi
l'un l'altro indarno uniti,
Avendo pur
fatto que' gruppi al fine,
Che,
repentinamente in varie parti
Lanciati,
fosser poi sempre principii
E di terra e
di mar, di ciel, di stelle,
D'uomini,
d'animai, d'erbe e di piante.
Onde voglia
o non voglia, è pur mestiero
Che tu
confessi esser da noi lontani
Molti altri
gruppi di materia prima;
Qual a punto
stim'io questo che stringe
L'etere con
tenace abbracciamento.
In oltre allor che la materia è pronta,
Il luogo
apparecchiato, e nulla manca,
Debbon le cose
generarsi al certo.
Or; se
dunque de' semi è tanto grande
La copia
quanto a numerar bastevole
Non è
degli animai l'etade intera,
E la forza
medesma e la natura
Ritengono i
principii atta a vibrarli
In tutti i
luoghi nella stessa guisa
Ch'e' fur
lanciati; in questo egli è pur d'uopo
Confessar
ch'altre terre in altre parti
Trovinsi, et
altre genti ed altre specie
D'uomini e
d'animai vivano in esse.
S'arroge a ciò, che non è cosa al mondo
Che si
generi sola e sola cresca:
Il che
principalmente in ogni specie
D'animai
può veder chïunque volge
La mente a
contemplarle ad una ad una;
Poscia che
sempre troverà che molte
Son simili
fra loro e d'una razza.
Così
veder potrai che son le fere
Che van pe'
monti e per le selve errando,
Così
l'umana prole, e finalmente
Così
de' pesci gli squammosi greggi