HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli            

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TITO LUCREZIO CARO

 

DELLA NATURA DELLE COSE

LIBRI SEI

 

TRADOTTI DA ALESSANDRO MARCHETTI

 

AGGIUNTIVI

 

GLI ARGOMENTI DEL BLANCHET

LA SCIENZA DI LUCREZIO PER CONSTANT MARTHA

E LE NOTIZIE

INTORNO ALL'AUTORE E AL TRADUTTORE

 


INDICE

INTRODUZIONE. 5

Lucrezio e Memmio. 5

Alessandro Marchetti. 6

Sua versione di Lucrezio. 10

Critiche e raffronti. 11

Suoi lavori geometrici 14

e guerra con Vincenzo Viviani. 14

Di questa Edizione. 15

 

LIBRO PRIMO.. 16

LIBRO SECONDO.. 46

LIBRO TERZO.. 79

LIBRO QUARTO.. 112

LIBRO QUINTO.. 150

LIBRO SESTO.. 194

 

VARIE LEZIONI 232

LA SCIENZA DI LUCREZIO.. 241

INDICE. 251


 

 

 

INTRODUZIONE

 

Lucrezio e Memmio.

 

Alfredo Tennyson, lo squisito poeta, ideò e scrisse un monologo di Lucrezio innanzi al suicidio. Egli accettò la tradizione che desse in accessi di demenza per un filtro portogli da una donna che si credeva meno amata, non badando egli alle carezze di lei.

 

. . . . . For-his mind

Haif buried in some weightier argument,

Or fancy-borne perhaps upon the rise

And long roll of the Hexameter-he past

To turn and ponder those three hundred scrolls

Left by the Teacher whom he held divine.

 

Questa tradizione non si fonda che sopra l'autorità di San Gerolamo, il quale scrisse più di tre secoli dopo Lucrezio. Questi era della gran famiglia Lucrezia e cavalier romano. Nacque l'anno 95 avanti Cristo. È probabile che visitasse la Grecia e udisse Zenone, che in quel torno era capo della setta epicurea. Egli e Cesare sono i due soli grandi scrittori che Roma abbia prodotti. La sua vita corse tra i principj di Silla e la morte di Clodio. Secondo la tradizione, egli si sarebbe ucciso di 44 anni, morendo lo stesso giorno in cui Virgilio prese la toga virile.

C. Memmio Gemello, al quale è intitolato il poema, era d'illustre famiglia, figlio e nipote di chiari oratori. Ebbe presto onori ed uficj. Nominato al governo della Bitinia, condusse seco Curzio Nicia e il poeta Catullo. Tornato che fu, toccò un'accusa da Cesare, dalla quale si difese con violenza. Nel difendersi trascorse a raffacciargli i suoi diffamati costumi. Dicitore facondo; se non che, a detta di Cicerone, fuggiva la fatica non solo di parlare, ma ancora di pensare. Accusò parecchi; tra gli altri, L. Lucullo, vincitore di Mitridate, volendo impedirgli il trionfo. Di che, avendo egli tirato alle sue voglie la moglie del fratello di lui, M. Lucullo, Cicerone disse argutamente che si era levato contro Agamennone non che contro Menelao. Tentò sedurre, ma invano, anche la figlia di Cesare moglie di Pompeo. Dopo la questura e pretura aspirò al consolato, gareggiando veementemente con altri tre pretendenti. Fu insieme ad essi accusato di broglio e condannato all'esilio. Tornò in Atene, dove da giovane avea studiato, e v'ebbe lite con la setta di Epicuro per essersi fatto cedere dall'Areopago una parte dei Giardini, ove quella aveva sua stanza. La famiglia Memmia aveva un culto particolare per Venere, e il Martha crede che anche questo riflesso abbia indotto Lucrezio alla sua splendida Invocazione.

Dai trecento volumi lasciati dal maestro, ch'egli reputava divino, secondo dice il Tennyson, Lucrezio trasse la dottrina esposta nel suo poema. Il Martha la ha considerata assai bene rispetto alla religione, alla morale ed alla scienza. Egli ha dimostrato che Epicuro e il suo poeta combattevano piuttosto il paganesimo che lo spiritualismo, intendendo a liberare l'uomo dai terrori delle false religioni, e a svolgerlo dai riti feroci onde pretendevano deprecar l'ira od impetrare il favore delle loro deità. Furono in questo i precursori dei controversisti cristiani; se non che, non avendo altro lume, esautorando gli Dei, abolirono la Provvidenza. Ma per tutto il poema spira il sentimento del divino, che, nella pienezza dei tempi, dovea poi avverarsi nelle più pure credenze; restando quasi armi imbelli gli argomenti dell'ateismo, che di secolo in secolo alcune sette di filosofanti riprendono e riforbiscono, ma inutilmente, contro la coscienza del genere umano. Rispetto alla morale, il Martha fa vedere che la dottrina della voluttà si riduce ad un quietismo, favorito ai tempi di Epicuro dallo scadimento e dal servaggio indeclinabile della Grecia, e ai tempi di Lucrezio fatto desiderabile dagli orrori delle guerre civili. Della scienza parla il Martha egregiamente in un capitolo che diamo tradotto in fondo a questo volume, facendo vedere come a puerili fallacie si mescolino intuiti di veri sublimi accettati ai dì nostri[1].

Del merito poetico di Lucrezio, toccato in una frase dubbia di Cicerone, passato in silenzio da Virgilio ed Orazio, che taciti lo imitavano, celebrato altamente da Ovidio e da Stazio, parla il suo libro, e son piene le storie letterarie e i trattati di estetica. Egli ha bellezze sì sfolgoranti e sì universalmente ammirate che non occorre additarle. Il suo ateismo non faceva paura nemmeno al buon Cesari, il quale per quel suo squisito sentimento del bello e della naturale sublimità, amava i versi di lui forse non meno che quelli dell'Alighieri.

 

Alessandro Marchetti.

 

Alessandro Marchetti nacque nella sua villa di Pontormo il dì 17 marzo 1632 di Angelo e di Luisa Bonaventuri, figlia a Filippo celebre professore di ragion civile nell'Università di Pisa e assai benemerito, per le sue fatiche, della lingua toscana. Aveva appena di sette giorni oltrepassato i nove mesi di vita, che perdè il padre e rimase con quattro fratelli sotto la tutela della madre, la quale, rimpatriando, provvide in Firenze alla loro educazione.

Destinato alla mercatura, già vi si era introdotto; senonchè, un giorno di minore applicazione, cantando egli sottovoce il lamento di Armida e dicendogli rampognando il direttore del negozio: «Voglion esser calcoli, non versi,» egli rispose che nella tregua delle faccende non sapeva spender meglio il tempo che a ruminare gli aurei versi del Tasso divino e lasciando il negozio fu posto a studiare l'Instituta sotto un valente dottore. Nè della legge si appagò gran fatto, come quella che non gli dava campo di pensar a suo modo e di specolare liberamente. Ne allentò lo studio e si dette alla lettura dei poeti latini e toscani[2]. Scrisse allora alcun bel sonetto, e cominciò a tradurre l'Eneide in ottava rima — parendogli, come scrisse poi al Magliabechi; che quel sovrano poeta da niuno fosse stato tradotto nel volgar nostro con quella dignità ch'e' meritava, ma non andò più in là del quinto libro.

Ottenuto un luogo di scolaro nello studio di Pisa dal Principe Cardinal Leopoldo, udì i filosofi peripatetici che v'insegnavano; ma recatosi a noia quella servile filosofia, si sfogò contro in un capitolo bernesco. Si strinse allora d'amistà con un giovane dei Galilei[3], ch'era altresì in Sapienza e dando insieme opera allo studio dei Classici, talvolta per più ricreare lo spirito apersero al pubblico scena inaspettatamente e talvolta sulla cetra che ciascuno di loro sapeva maestrevolmente toccare, all'improvviso cantarono versi tali che ne stupirono gli ascoltanti. Ora abbattutosi a sentirli il gran matematico Gian Alfonso Borelli, ammirando l'ingegno del nostro Alessandro, s'invaghì d'introdurlo allo studio delle matematiche e della filosofia esperimentale; nelle quali discipline fece sì gran progresso, che prima anche di dottorarsi ebbe la lettura straordinaria di filosofia e nel 1659, anno del suo dottorato in filosofia e medicina, ebbe una lettura di Logica in quell'Università. Il Borelli fattoselo commensale, lo diè per ripetitore ai propri scolari, tra' quali era Lorenzo Bellini[4]. Ebbe la cattedra di filosofia straordinaria che ritenne per anni otto, ed allora nelle lezioni, nelle dispute, nei circoli, e nei colloqui promosse lo studio della filosofia sperimentale, e il Malpighi gli scriveva di Bologna il 4 gennaio 1661: «Dal signor Borelli già intesi che con suo onore e sommo applauso frammetteva cose nuove nel leggere, e spero che a poco a poco si potranno addomesticare queste bestie selvaggie.» Partito da Pisa il Borelli, fu il suo successore nella cattedra di matematiche e la ritenne a tutta sua vita.

Di 39 anni sposò Anna Lucrezia dei Cancellieri di Pistoia, bella e saggia, che visse fino a 91 anno. Di lei ebbe undici figli, sette maschi e quattro femmine. Il maggiore Angelo riuscì assai bene nelle matematiche e si fece conoscere con le Conclusioni stampate in Firenze nel 1688 in difesa del padre, bersaglio dei geometri italiani, con l'opera Della proporzione e proporzionalità, con l'Euclide riformato, con la sua Introduzione alla Cosmografia e Nautica, ecc.

Dei letterati della sua età amò assai il Magliabechi e gli fu caro, e sparsasi la voce della sua morte scrisse versi affettuosi in compianto. Pianse altresì in versi la morte del Redi e del Magalotti, due dei più grandi intelletti che la Toscana avesse prodotto nella sua vecchiaia, vecchiaia di Sara, poco feconda, ma di Patriarchi delle lettere e delle scienze. Era anch'egli, come tutti i gentili spiriti di Toscana, amico all'inviato dell'Inghilterra, Neri Newton, e dettò versi al suo partire. Notevole è come gl'Inglesi ci tramutassero il loro Hawkwood che amava troppo le nostre terre e le nostre ricchezze nel Milton, che adorò la nostra lingua e poesia, e in tanti coltissimi inviati, che favoriscono i nostri studj. La tradizione vive fino al di d'oggi; e la terra di Toscana che gl'Inglesi predilessero sopra tutte raccolse lo spirito e copre le ossa di alcuni famosi loro scrittori.

Era giunto all'anno 78 senza che pur provasse in parte gl'incomodi dell'avanzata vecchiezza, se si eccettui che poco tempo innanzi aveva cominciato a patire di stillicidio o stranguria, effetto di pietra.

«Entrato nell'anno ottantadue, cominciò a provar daddovero gl'incomodi della vecchiezza, in particolare per lo tormentoso dolore cagionatogli dalla pietra, che non lo lasciava nè dormire, nè prendere riposo se non brevissimo; dal qual dolore dopo essersi unto coi miracoloso liquore di San Nicolò di Bari, vescovo di Mira, o che il santo gli intercedesse la grazia, come a buona ragione creder si può, se specialmente si considera la devozione da esso avuta per detto santo, al vivo espressa in varie composizioni da Alessandro composte in lode del medesimo, o che la pietra prendesse positura tale da non più impedirgli il passaggio delle orine, l'effetto fu che dopo l'additata unzione, mai più nei cinque mesi che di poi visse la pietra nessun dolore gli cagionò.» Colto d'apoplessia morì con tutti i Sacramenti il 6 settembre 1714 d'anni 82, mesi cinque e giorni venti.

Fu Alessandro, continua il figlio Francesco, di giusta statura, bianco e rosso di carnagione, di capel biondo, d'occhi assai cilestri, ma vivaci e sì perfetti che mai non ricorse agli occhiali. Ebbe proporzionatissime tutte le parti del corpo, di volto allegro e gioviale, dolce e chiara la voce e di complessione gracile anzi che no.

Parrà forse effetto di debolezza senile e dell'infermità il ricorso del Marchetti al liquore di San Niccolò di Bari: ma è un fatto che accarezzando del continuo la sua versione di Lucrezio, dava poi in accessi di devozione e forse non finta. — Valga di prova il seguente sonetto all'Eccellenza del Sig. Bernardo Trevisani per la sua opera dell'Immortalità dell'anima.

 

Taccia Epicuro: entro gli umani petti

Vive spirto celeste, aura vitale

De' folli ad onta e temerari detti,

Ond'ei tentò provarla inferma e frale.

I dardi ch'ei scoccò di morte infetti,

Dall'arco di sua lingua empia e brutale,

Mercè del tuo valor giaccion negletti,

Mio gran Bernardo, e spennacchiate han l'ale —

Tu, sovrano dell'Adria onore e lume,

Dell'eccelsa tua mente erger potesti

Da terra al ciel le non mai stanche piume.

Chiaro ivi le nostr'alme esser vedesti

Eterne e dive e in nobile volume

Quanto a te fu palese, a noi sponesti[5].

Altra prova è la sua Ode sopra San Ranieri Pisano, il quale dopo esser vissuto molto lietamente, perdette gli occhi per piangere i suoi peccati e dopo miracolosamente gli ricuperò. Fu stimato ipocrita, così l'argomento, e per ciò invidiosamente perseguitato in Pisa e Gerusalemme; risuscitò una fanciulla; dopo la sua morte tutte le campane di Pisa da loro stesse sonarono a festa. Onde il Poeta chiude il componimento così:

 

Ma qual di santità segno maggiore

Se il suo terrestre, il suo caduco velo,

Poichè l'anima eletta ascese al cielo,

L'aria cosparse di soave odore:

E se per additar l'alta vittoria

Ch'ei contro il rio Satan morendo ottenne

Gli sacrar con miracolo solenne

Fin gl'incensati bronzi inni di gloria?

 

Prova meno curiosa è un'altra sua poesia di cui basta citare il titolo. «Liberata Vienna dall'assedio de' Turchi e riprese loro molte città dall'armi imperiali, polacche e venete, cacciati di Francia gli Ugonotti e riconosciuto da Giacomo secondo re d'Inghilterra per capo del Cristianesimo il Romano Pontefice, l'autore, come principe dell'Accademia dei Disuniti di Pisa, radunatala per celebrare i trionfi della fede cattolica in pace e in guerra, fece la presente introduzione.»

Tra l'altre cose dice all'autore della revoca dell'Editto di Nantes:

 

E tu gallico Giove...

Tu, tu d'ogni perverso orrido mostro

Che l'empi dogmi il tuo bel regno infette

Fai sí con memorabili vendette,

Che non cede all'erculeo il secol nostro.

 

Notiamo a suggello che il traduttore di Lucrezio scrisse in versi sciolti un poemetto sopra il Paradiso, ch'egli descrive punto per punto, quasi l'avesse veduto con gli occhi del corpo, come Ferondo nel Boccaccio vide il Purgatorio.

Con miglior consiglio aveva preso a dettare un poema filosofico in verso sciolto, intitolandolo a Luigi XIV. Il Giornale dei Letterati[6] ne pubblicò il principio. Il Menzini al quale lo aveva mandato egli stesso, gli scriveva: «Ho veduto il principio del suo poema, cioè la sommità della fronte di una bellissima statua;» ma non andò molto innanzi, e ormava troppo Lucrezio. — Intonava così:

O dell'Eterno Padre, o dell'Eterno

Figlio, Eterno, ineffabile, infinito,

Vicendevole Amor, Amor fecondo,

Santo Amor, vero Amor, unico Amore,

Unico Amor, che da principio il cielo

Creasti, e l'aureo Sol cinto di raggi,

E delle Stelle erranti a lui d'intorno

Librasti i globi in guisa tal, che puote

Di luce ornarle, e raggirarle in cerchio,

E sì dolce, e sì tremulo, e sì vivo

Fulgor desti alle fisse, ond'è trapunto

L'umido manto dell'oscura notte

Che cede appena di bellezza al giorno:

Unico Amor, che a' primi semi infondi

Virtù: che l'aria di canori augelli,

Di muti pesci le sals'onde, e tutta

D'animai d'ogni specie orni la terra,

Che per sè fôra un vasto orror solingo,

Qualor deposto il freddo ispido manto

L'anno ringiovenisce e lieto in vista

Zeffiro torna, e 'l bel tempo rimena,

Tu Dio, tu sei, che sugli Alpini monti

Sciogli in tiepido umor le nevi, e 'l ghiaccio

Che quindi scorre a dar tributo a' fiumi:

Tu di borea il furor, tu del crudele

Austro gli sdegni, e tu di noto, e d'euro

Gl'insani impeti orrendi affreni, e molci,

E i turbini sonori, e le procelle

Scacci, e dai bando alle bufere, a i nembi,

E tu col ciglio le tempeste acqueti:

Tu di frondi novelle, e di virgulti

Le selve adorni: e le campagne e i prati,

E le rive, e le piagge, e i colli ameni

Fai d'erbette e di fior lieti e ridenti.

Dal tiro divino ardor commosso l'uomo

Desia la donna, e in dolce nodo eterno

Di fede marital con lei si lega.

Squassa l'altera fronte, e guerra indice

Per la grassa giovenca al suo rivale

L'innamorato tauro; il gelo istesso

D'acque infinite ad ammorzar bastante

Non è l'interna fiamma, onde il delfino

Sovente, e l'orca in mezzo al mare avvampa.

 

Sua versione di Lucrezio.

 

Lucrezio era un autore in odio alla Chiesa; tanto più è da tener conto di un letterato che in Roma, nell'accademia degli Incitati, ne parlò spassionatamente. Girolamo Frachetta da Rovigo morto in Napoli nel 1620, essendo provigionato dal re di Spagtra, scrisse, e stampò nel 1581, non compito il 21 anno, un Dialogo del Furore poetico, ov'egli entra a ragionare con tre giovani, tutti allora studenti nell'Università di Padova. Nel 1589 pubblicò in Venezia presso i Gioliti la sposizione della tanto vessata Canzone d'amore di Guido Cavalcanti. Nel 1589 pubblicò pure in Venezia appresso Pietro Paganini la sua Breve Sposizione di tutta l’opera di Lucrezio distesa in sei lezioni nella quale si disamina la dottrina di Epicuro, e si mostra in che sia conforme col vero e con gli insegnamenti di Aristotile e in che differente, con alcuni discorsi distesi in sette lezioni sopra l'Invocazione di detta opera. È intitolata con lettera in data di Rovigo 1 Gennaro 1588, al cardinale Scipione Gonzaga, al quale dice tra l'altre cose: «Lucrezio così grave scrittore, non doveva a partito niuno rimanere senza sposizione; imperocchè, oltre l'essere oscuro e contenere molte cose buone, che sono state frantese, ne contiene anco molte di ree, le quali fa di mestiero, acciocchè altri non vi s'inganni, in iscambio togliendole, rifiutare; et è un ravvivatore della dottrina, di già per poco dimenticata, del grande Epicuro, a cui sono apposte a torto molte bugie.»

Il Marchetti si mise a tradurlo. Voleva dedicarlo a Cosimo III[7], ma non fu accettata la dedica nè gradita la pubblicazione; onde la versione girò buona pezza inedita, ma dopo l'invenzione della stampa, dice il figlio Francesco, non vi fu libro che tante volte si copiasse; e il curioso si è che Cardinali e gran prelati eran quelli che più desideravano leggerlo.

Constant Martha che ha tentato la versione poetica di alcuni passi di Lucrezio, dice assai bene: Nous croyons avoir fait une tentative nouvelle, celle de conserver le mouvement logique, la trame serrée d'un poète philosophe qui raisonne toujours même quand il peint. C'est une infidelité que d'offrir la poésie de Lucréce en images brillantes, mais brisées. L'exactitude consiste ici à respecter avant tout la suite des pensées; le reste est un agréable surcroît, qu'il faut donner si l'on peut. E questo è il pregio del Marchetti; mentre prodiga gli ornamenti poetici, rende benissimo l'andamento dell'originale.

Come Angelo Firenzuola traducendo l'Asino d'oro d'Apuleio vi annestò, quasi fosse egli l'autore, alcune memorie di sè, così fece il Marchetti introducendo nel suo Lucrezio le lodi del suo maestro Borelli e del Gassendi, grande rinnovatore della filosofia di Epicuro nel secolo XVII. Del Borelli si veda ai versi 955-960 del I Libro ove l'aggiustò ad Archimede, perciò avevano comune la patria o la Sicilia, essendo l'uno nato in Messina l'altro in Siracusa. Del Gassendi si veda ai versi 525-532 del Libro V. Ed altresì, dolendosi Lucrezio della povertà ed insufficienza della lingua latina a trattare materie filosofiche, il Marchetti che si valeva della lingua toscana non meno flessibile della greca e ricca di modi e partiti da esprimere ogni più astrusa idea, nei versi 181-283 si lodò del felice istromento che aveva sortito.

Tradusse con garbo Anacreonte, sebbene, nel gittare gli occhi sul libro e trovando un primo verso che suona:

 

Unischiam le rose tenere,

 

ci pare che ne cada di capo la corona e di mano il bicchiere. Se non che bisogna non isgomentarsi per queste leziosaggini, e continuare, chè n'avremo in compenso vaghezza di lingua e soavità d'armonia, pregi sempre vivaci della Toscana e che si riscontrarono fino in un anatomico, nel Bellini; e il Magalotti, quella gran mente, nelle sue canzoncine e nel Sidro, non è egli vaghissimo e delizioso?

A questa versione si addirebbero meglio le lodi che Giuseppe Maria Quirini gli dava pel Lucrezio. «In somma, il Marchetti, egli scriveva, maneggia il poema della Natura delle cose, come se fosse un argomento amoroso, ricolmandolo per ogni dove di tutte le delizie dello stile, di tutti i vezzi della poesia, finalmente di tutte le lascivie del parlar toscano.» Il che in parte è vero e l'incanto si ravvalora per le reminiscenze dei nostri poeti classici, che a quando a quando, come quel purpureo nastro dell'Ariosto, partono la tela d'argento dell'industre testore.

G. B. Clemente Nelli, l'erede delle ire di Vincenzo Viviani contro il Marchetti dice: «Non molta pompa crederei doversi fare di questa benchè per altro bella traduzione, ed in ottimo genere di verso sciolto condotta... poichè oltre l'essere stata criticata dal Lazzarini come mal tradotta, è stata censurata dalla Sacra Congregazione e reputata opera perniziosa al Cristianesimo per le male conseguenze ed effetti da essa prodotti....

L'Emin. Cantelmo, arcivescovo di Napoli, per essersi scoperto nella predetta città che Gio. Andrea de Magistris e Carlo Rosito speziale di medicina insegnavano l'ateismo, prima della pubblica e solenne abiura degli errori da costoro professati, fece nella sua Chiesa cattedrale il dì 15 Febbraio 1693 un sermone, in cui tra le altre cose disse:.... ora si rendono palesi quelle mani sacrileghe, le quali con irritare l'indignazione divina hanno posto fuoco alle mine de' terremoti scoppiati pochi giorni sono con tanto spavento ed hanno più recentemente provocato il flagello della peste estinto miracolosamente per esser prevaluto il merito de' buoni alla malizia de' cattivi... Seguitò inculcando la necessità indispensabile di fuggire come mostri velenosi i libri infetti d'eresia, e dell'infame ateismo e specialmente l'empio Lucrezio traslatato per arte del Demonio in metro italiano pur troppo applaudito....

Il dì 16 novembre 1718, segue il Nelli, fu fatto dalla Congregazione dell'Indice in Roma il decreto di proibizione del Lucrezio tradotto dal Marchetti o manoscritto o stampato, che egli si fosse, a motivo che alcuni fratelli del casato dei Legni, essendo stati processati dal tribunale dell'Inquisizione confessarono di essere divenuti atei per aver soltanto letto il Lucrezio dal signor Alessandro Marchetti tradotto.

Gli proibirono anche la versione di Anacreonte.

 

Critiche e raffronti.

 

Mentre alcuni volevano bandire dal regno delle lettere la versione di Lucrezio come empia e pervertitrice, Domenico Lazzarini di Morro, secondo accenna il Nelli, lettone un quattrocento versi e non più, con dodici osservazioni tentò di annullarne il pregio e proscriverla come inesatta, e dimostrante poca conoscenza del sistema di Epicuro, scusando poi ipocritamente l'autore che l'avesse fatta mentre era assai giovane, nè maturo voluto poi rivederla per non render perfetta un'opera si perniziosa. L'erudito marchigiano, dimostrato sottilmente i difetti de' luoghi presi ad esaminare li rifece egli in versi e qui gli cadde l'ago; perchè poco rniglior saggio di sè avrebbe dato l'Algarotti, se, dopo le sue critiche del Caro, avesse preso a rifarlo. E sì ch'era uno dei più famosi versiscioltai del suo tempo. Ora si senta come il Lazzarini rifece il Sacrifizio di Aulide:

 

Come già un tempo in Aulide gli Altari

Della vergine Dea lordar col sangue

D'Ifianassa bruttamente i capi

Dell'Esercito Danao e gli eroi primi.

La qual, mentre che a lei l'infula intorno

Agli ornamenti verginali avvolta

Con le bende ugualmente ricoperse

E l'una gota e l'altra e vide il padre

Starsene e dritto e mesto innanzi l'Ara;

E a lui vicino far misteri e pompa

D'un coltello i ministri; e vide infine

I cittadini suoi guatarla e piangere:

Che di religion piena e di tema

Neppure osando di parlar, chinava

Divotarnente le ginocchia in terra.

Nè all'infelice in quel malvagio tempo

Poteo punto giovar ch'essa la prima

Al re di padre il nome avesse dato.

Perchè da quegli eroi tolta di terra

Fu condotta all'altar tremando tutta:

Non perchè terminata la solenne

E pompa e riti, ella potesse poi

Esser seguita dal suo chiaro sposo;

Ma perchè al tempo stesso delle nozze

Promesse, col dolor d'esser dal suo

Padre scannata, ella a cader venisse

D'un sacrificio impuro ostia innocente.

 

Qui avrebbe luogo l'Hélas o piuttosto l'Holà di Boileau a Corneille.

A quel passo:

 

Non perchè terminato il sacrificio

Fosse legata col soave nodo

D'un illustre Imeneo;

 

il Lazzarini fa l'arguto e dice: «Le prometto io che dopo che fosse stata sacrificata, sarebbe stata la bella sposa. Ma Lucrezio di queste non ne dice. Egli dice non perchè terminato, non il sacrificio, ma more sacrorum il rito, e quelle cerimonie che si fanno avanti i sacrificj, dopo le quali poteva ben essere facilmente sposa. Ma dopo che fosse stata scannata, non credo che senza difficoltà grande avrebbe potuto essere:» cavillo bello e buono, perchè il traduttore, astraendosi dalla qualità e dal fine degli apparecchi, non ha l'animo che alla giovane, la quale già si figurava di esser condotta all'altare per altro e finita la cerimonia nuziale esser sposa ad Achille.

Paolo Rolli che fu il primo editore del poema di Lucrezio tradotto dal Marchetti (Londra 1717), lo mette terzo tra l'Eneide del Caro e le Metamorfosi d'Ovidio dell'Anguillara. Eccede dall'un lato come il Baretti dall'altro, quando assevera, ch'egli era non solamente null'affatto poeta, ma verseggiatore molto mediocre, perchè non c'è pagina nella sua traduzione che non contenga alquanti versi molto flosci e zoppi. Il Tiraboschi la dichiarò elegantissima e della critica del Lazzarini dice, che, da qualunque ragione ella movesse, non ha avuto effetto e nulla ha scemato la stima di cui quella ha sempre goduto. Invano, ripete altrove, ha preteso di combattere il comun sentimento de' dotti. Il sommo Leibniz dovendo riferire nella sua Teodicea un passo del secondo libro ove si descrive il movimento spontaneo attribuito agli atomi da Epicuro, si vale della versione del Marchetti anzi che dell'originale.

Prenderò dal Martha un tratto sull'amore, che mostrerà meglio che il rifacimento del Lazzarini con quale libertà il Marchetti trattasse Lucrezio.

Ces tourments de l'amour usent le corps et l’âme;

Ta vie est suspendue au geste d'une femme,

Ton bien croule, l'usure envahit ta maison,

Dans l'oubli des devoirs s'évanouit ton nom,

Oui, pour qu'un brodequin venu de Sicyone,

Rie a des pieds mignons, qu'à de beaux doigts rayonne

Un grand rubis dans l'or, que les plus fins tissus

S'abreuvent chaque jour des sueurs de Venus.

Ton bien, 1'antique fruit des vertus paternelles,

Flotte en mitre, en rubans sur la tête des belles,

Traîne sur les pavés en robes, en manteaux

Teints des molles couleurs d'Alindie et de Chíos.

Puis le vin coule à flots; aux festins que tu donnes,

Il faut encor parfums, tapis moelleux, couronnes.

Vain effort du plaisir! du fond de ces douceurs

Monte un dégôut amer qui tue au sein des fleurs.

Soit qu'un remords secret avertisse ton âme

Qua tu perds tes beaux ans dans un repos infâme,

Soit que par ta maîtresse un mot dit au hasard

Ait planté dans ton cœur un soupçon, comme un dard,

Qui s'y fixe, y descend, creuse une plaie ardente,

Soit que ton œil jaloux, épiant sur l'amante

Quelque regard furtif, surprenne avec effroi

La trace d'un souris qui ne fut pas pour toi.

 

Qui veramente il Marchetti traducendo:

 

O perchè troppo ha cupidi e vaganti

Gli occhi e troppo gli volge al suo rivale

E con lui troppo parla e troppo ride,

 

ha guastato la finezza di quel in vultuque videt vestigia risus, nots, dice benissimo il Martha, qui peignent avec une si heureuse hardiesse la jalousie dont la perspicacité dèmêle sur un visage impassible non pas seulement un sourire, mais les traces d'un sourire infidèle.

Ora sentiamo come il Molière lo scolare del Gassendi, che s'era provato alla versione di Lucrezio, ne trasportasse un tratto nel suo Misantropo[8]:

 

L'amour pour l'ordinaire est peu fait à ces loís,

Et l'on voit les amants vanter toujours leur choix,

Jamais leur passion n'y voit rien de blâmable

Et, dans l'objet aimé, tout leur devient aimable;

Ils comptent les défauts pour des perfections

Et savent y donner de favorables noms.

La pâle est au jasmin en blancheur comparable;

La noire à faire peur une brune adorable;

La maigre a de la taille et de la liberté;

La grasse, est, dans son port, pleine de majesté

La malpropre sur soi, de peu d'attraits chargée,

Est mise sous le nom de beauté négligée;

La géante paraît une déesse aux yeux;

La naine un abrégé des merveilles des cieux.

L'orgueilleuse a le coeur digne d'une couronne;

La fourbe a de l'esprit; la sotte est toute bonne;

La trop grande parleuse est d'agréable humeur;

Et la muette garde une honnête pudeur.

C'est ainsi qu'un amant dont l'ardeur est extrême

Aíme jusqu'aux défauts des personnes qu'il aime.

 

Suoi lavori geometrici

e guerra con Vincenzo Viviani.

 

Nella vita scrittane dal suo figlio Francesco e nel Saggio del Nelli[9] si posson vedere i lavori geometrici del Marchetti e le controversie che ne nacquero. Il suo libro De resistentia solidorum pareva al Nelli da principio un buon libro, ma diceva esser erba del Borelli. Poi, ricreduto per gli errori trovativi dal P. Guido Grandi, lo ridonò al Marchetti. Il libro in cui il Marchetti volle risolvere alcuni problemi proposti da un matematico oltramontano parve altresì erroneo.

Michelangelo Ricci, scolare del Torricelli, scrivea a Vincenzo Viviani da Frascati, 11 giugno 1675: «aver consigliato al Marchetti, che gli avea mandato quel suo libricciuolo, di sopprimerlo e non dar materia di ridersi di noi italiani a molti virtuosi oltramontani emuli rostri.»

Il Viviani scriveva al Marchetti: «Io non ho voluto pubblicare l'esamina del suo libretto, intorno al quale avevo che dire pure assai dal principio sino all'ultimo, sì per non mettere alla berlina la reputazione di V. S., la quale io amo forse più di quello che ella non si crede, come ancora per non avvilire quella di noi altri Toscani perchè po' poi finalmente il Castello di Pontormo e pure in Toscana, quanto vi sia la nobilissima Firenze sua metropoli e patria mia... Ella non contenta di professare la filosofia, facoltà, che non ha mai chi gli riveda il conto per la minuta, presumendosi molto più del dovere in Geometria, si è lasciata portare dal desiderio e dalla soverchia ambizione di giugnere a qualche palio prima degli altri; come ha creduto e ha goduto in sè stesso, instigatone anche da chi non è nè amico suo nè d'uomo che viva (intende del Borelli) di avere usato ogni sforzo di far comparire d'improvviso alle viste altrui la battaglia, la vittoria e il trionfo di un'impresa stimata da lei più ardua e più gloriosa di quella di M. Marcello, quando espugnò Siracusa. Ma, signor dottor mio da bene, la geometria speculativa non è già quella

 

Trattabile e benigna disciplina

Che va per tutto i versi e segue franca

Dov'anche l'ignoranza la declina,

 

e la quale voi chiamate filosofia.» Finisce col dirgli che s'era fatto scorgere e da diritto e da rovescio e con altre pungentissime beffe.

Il Marchetti all'incontro scriveva al Magliabechi del livido Geometra e toccando de' suoi sigillamenti (o dell'aver fatto sigillare le sue Soluzioni dei Problemi detti dal Cardinale Leopoldo de' Medici) e delle sue cabale... aggiungeva:

«Che il Padre Fabbri lo chiami Apollonio redivivo e del veramente dottissimo Borelli mio maestro parli, come ella dice, come se avesse a parlar d'un guattero, non me ne maraviglio, perchè cotestui non fa altro che sfacciatissimamente adulare i Gesuiti e particolarmente il medesimo Padre Fabbri; ed il Borelli che all'incontro non è adulatore, ma filosofo, gli rivede di modo il pelo, che appresso tutti gl'intendenti lo fa conoscere per quel che egli è. Ma se il padre Fabbri parla del sig. Borelli, come d'un guattero, non così ne parlano infiniti altri letterati, che studiano senza livore o passione alcuna le sue dottissime ed immortali opere. Nè così ne parla Roma, che per quanto a me è stato scritto da persona degna di fede, con suo grande stupore lo va a sentire ogni volta che egli discorre nell'Accademia della Regina (Cristina di Svezia). Mi maraviglio bene infinitamente che codesto geometra sia sì proclive in lodare i Gesuiti, e particolarmente il Padre Fabbri, mentre essendo, come egli dice, il Beniamino del Galileo, cioè l'ultimo e dilettissimo suo scolare, dovrebbe odiarli più della peste, come quelli, che sono stati e, parlando generalmente, sono tuttavia asprissimi ed irreconciliabili nemici del suo maestro. Ma in che scienza è egli mai stato il Galileo maestro di cotestui? Forse in logica? no; perchè per la medesima sua confessione ebbe in questa per maestro un frate. Forse in geometria? Nemmeno; perchè, per quanto egli si vanta, glie ne insegnò non so che poca un altro frate, e nel resto egli l'ha studiata tutta da sè, ed esorta di più anco gli altri a fare il medesimo, benchè per Dio, se i giovani pigliassero il suo consiglio, mi creda pure che se pochi geometri sono al mondo, ce ne sarebbero molto manco. Forse in fisica, in metafisica, in ottica, in meccanica, in astronomia, o in altra nobile professione? Ma quando ha egli in alcuna di queste dato mai saggio al mondo di saper nulla? Resta dunque ch'ei non fosse in nessun modo scolare del Galileo, ma al più al più lo servisse per guida, quand'era cieco, o per scriverli qualche lettera o per andare a farli qualche imbasciata.»

Il Nelli avi à ragione sul punto dell'imperizia del Marchetti in geometria, avendo sì buoni mallevadori come il Ricci ed il Viviani; ma ha torto nel premer tanto sulla condanna del volgarizzamento del Lucrezio, e nel lodare la somma saviezza del Viviani, a far la corte ai Gesuiti, nemici del Galileo, e d'ogni progresso delle scienze, quando ne portan pericolo le loro dottrine. Il Marchetti mostra essere stato uno spirito libero, e miglior seguace dell'indirizzo fondamentale della filosofia del Galileo che il Viviani, il quale coltivava soltanto la parte scientifica pura, e si peritava di toccar quella che diremo scientifico-morale, ch'è po’ poi finalmente la più alta e importante, come quella che tende a liberare da ogni ceppo teologico lo spirito, aprendogli tutta la distesa de' cieli, e dandogli ali da scorrerli signorevolmente. Ora il volgarizzamento del Lucrezio era l'ultima conseguenza della libertà di filosofare propugnata e confessata col suo martirio dal Galileo; e se il Marchetti non fu un geometra, fu per ventura buon poeta; se no diremmo ch'e' fosse alla scuola del Galileo quel che il D'Holbach fu alla scuola dei D'Alembert e dei Diderot.

 

Di questa Edizione

 

Abbiamo seguito in questa nostra l'edizione procurata in Firenze da Giosuè Carducci (Barbèra, 1864) anco a molto giovane, ma già maestro. Egli oltre la prima edizione di Londra, riscontrò l'altra del 1779, che pregia sopra tutte. Nè abbiamo tralasciate le Varianti notate da lui diffondendo così gli studj di un critico valentissimo, non solo intendente, ma creatore di ottime poesie. Abbiamo aggiunto i begli argomenti che il Blanchet premise alla traduzione francese del Lagrange (Paris,1861), e il capitolo della Scienza di Lucrezio di Constant Martha. Così abbiam provveduto alla chiarezza del poema, e direm con le parole di Lucrezio al lettore:

 

Nè cieca notte ornai potrà impedirti

L'incominciata via, che ti conduce

Di natura a mirar gl'intimi arcani:

Sì le cose alle cose accenderanno

Lume che mostri alla tua gente il vero.

 

Eugenio Camerini.

 

 

 

 


LIBRO PRIMO

 

Argomento.

 

Il poeta comincia da una splendida invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio, 2. l'esposizione del subbietto, 3. l'elogio d'Epicuro, 4. la confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la dottrina del filosofo greco e contro l'ardimento del poeta latino che si accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e pone a primo principio che l'essere non può uscir dal nulla, nè tornare al nulla. V'ha dunque corpuscoli primitivi, onde constano tutti i corpi, e ne' quali questi si risolvono; sebbene invisibili, è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e neppure esistere senza il vuoto. L'universo pertanto resulta da queste due cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è nè l'uno nè l'altro n'è proprietà o accidente e non già una terza classe d'esseri che faccian parte da sè. I corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l'acqua, l'aria o la terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l'omeomeria di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto, indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v'ha dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi è dunque una follia.

 

Alma figlia di Giove, inclita madre

Del gran germe d'Enea, Venere bella,

Degli uomini piacere e degli dèi:

Tu che sotto i girevoli e lucenti

Segni del cielo il mar profondo e tutta

D'animai d'ogni specie orni la terra,

Che per sè fôra un vasto orror solingo:

Te dea fuggono i venti: al primo arrivo

Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia

Erbe e fiori odorosi il suolo industre:

Tu rassereni i giorni foschi, e rendi

Con dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,

E splender fai di maggior lume il cielo.

Qualor deposto il freddo ispido manto

L'anno ringiovanisce, e la soave

Aura feconda di Favonio spira,

Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli,

Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi,

Cantan festosi il tuo ritorno, o diva;

Liete scorron saltando i grassi paschi

Le fiere e gonfi di nuov'acque i fiumi

Varcano a nuoto e i rapidi torrenti:

Tal da' teneri tuoi vezzi lascivi

Dolcemente allettato ogni animale

Desïoso ti segue ovunque il guidi.

Insomma tu per mari e monti e fiumi,

Pe' boschi ombrosi e per gli aperti campi,

Di piacevole amore i petti accendi,

E così fai che si conservi 'l mondo.

Or; se tu sol della natura il freno

Reggi a tua voglia, e senza te non vede

Del dì la luce desïata e bella

Nè lieta e amabil fassi alcuna cosa;

Te, dea, te bramo per compagna all'opra,

In cui di scriver tento in nuovi carmi

Di natura i segreti e le cagioni

Al gran Memmo Gemello a te sì caro

In ogni tempo e d'ogni laude ornato.

Tu dunque, o diva, ogni mio detto aspergi

D'eterna grazia; e fa' cessare intanto

E per mare e per terra il fiero Marte,

Tu che sola puoi farlo. Egli sovente

D'amorosa ferita il cuor trafitto

Umil si posa nel divin tuo grembo.

Or; mentr'ei pasce il desïoso sguardo

Di tua beltà ch'ogni beltade avanza,

E che l'anima sua da te sol pende;

Deh porgi a lui, vezzosa dea, deh porgi

A lui soavi preghi, e fa' ch'ei renda

Al popol suo la desïata pace.

Chè se la patria nostra è da nemiche

Armi agitata, io più seguir non posso

Con animo quïeto il preso stile,

Nè può di Memmo il generoso figlio

Negar sè stesso alla comun salute.

Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi

Grate ed attente orecchie, e ti prepara,

Lungi da te cacciando ogni altra cura,

Alle vere ragioni, e non volere

I miei doni sprezzar pria che gl'intenda.

Io narrerotti in che maniera il cielo

Con moto alterno ognor si volga e giri;

Degli dèi la natura, e delle cose

Gli alti principii; e come nasca il tutto,

Come poi si nutrichi, e come cresca,

Ed in che finalmente ei si risolva.

E ciò da noi nell'avvenir dirassi

Primo corpo o materia o primo seme

O corpo genitale, essendo quello

Onde prima si forma ogni altro corpo.

Chè d'uopo è pur che 'n somma eterna pace

Vivan gli dèi per lor natura e lungi

Stian dal governo delle cose umane,

Scevri d'ogni dolor d'ogni periglio,

Ricchi sol di lor stessi, e di lor fuori

Di nulla bisognosi, e che nè merto

Nostro gli alletti o colpa accenda ad ira.

Giacea l'umana vita oppressa e stanca

Sotto religïon grave e severa,

Che mostrando dal ciel l'altero capo

Spaventevole in vista e minacciante

Ne soprastava. Un uom d'Atene il primo

Fu, che d'ergerle incontra ebbe ardimento

Gli occhi ancor che mortali e le s'oppose

Questi non paventò nè ciel tonante

Nè tremoto che 'l mondo empia d'orrore

Nè fama degli dèi nè fulmin torto:

Ma, qual acciar su dura alpina cote

Quanto s'agita più tanto più splende,

Tal dell'animo suo mai sempre invitto

Nelle difficoltà crebbe il desio

Di spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri

E l'ampie porte di natura aprirne.

Così vins'egli, e con l'eccelsa mente

Varcando oltre a' confin del nostro mondo

Fu bastante a capir spazio infinito.

Quindi sicuramente egli n'insegna

Ciò che nasca o non nasca, ed in qual modo

Ciò che racchiude l'universo in seno

Ha poter limitato e termin certo.

E, la religion co' piè calcata,

L'alta vittoria sua c'erge alle stelle.

Nè creder già che scelerate ed empie

Sian le cose ch'io parlo; anzi sovente

L'altrui religion ne' tempi antichi

Cose produsse scelerate ed empie.

Questa il fior degli eroi scelti per duci

Dell'oste argiva in Aulide indusse

Di Dïana a macchiar l'ara innocente

Col sangue d'Ifigènia; allor che, cinto

Di bianca fascia il bel virgineo crine,

Vid'ella a sè davanti in mesto volto

Il padre, e a lui vicini i sacerdoti

Celar l'aspra bipenne, e 'l popol tutto

Stillar per gli occhi in larga vena il pianto

Sol per pietà di lei che muta e mesta

Teneva a terra le ginocchia inchine.

Nè giovò punto all'innocente e casta

Povera verginella in tempo tale

Ch'a nome della patria il prence avesse

All'esercito greco un re donato:

Chè tolta dalle man del suo consorte

Fu condotta all'altar tutta tremante;

Non perchè, terminato il sacrifizio,

Legata fosse col soave nodo

D'un illustre imeneo; ma per cadere

Nel tempo stesso delle proprie nozze

A' piè del genitore, ostia dolente

Per dar felice e fortunato evento

All'armata navale. Error sì grave

Persüader la religion poteo.

Tu stesso, dall'orribili minacce

De' poeti atterrito, ai detti nostri

Di negar tenterai la fè dovuta.

Ed oh quanti potrei fingerti anch'io

Sogni e chimere, a sovvertir bastanti

Del viver tuo la pace e col timore

Il sereno turbar della tua mente.

Ed a ragion, che se prescritto il fine

Vedesse l'uomo alle miserie sue,

Ben resister potrebbe alle minacce

Delle religïoni e de' poeti:

Ma come mai resister può, s'ei teme

Dopo la morte aspri tormenti eterni,

Perchè dell'alma è a lui l'essenza ignota?

S'ella sia nata od a chi nasce infusa,

E se morendo il corpo anch'ella muoia?

Se le tenebre dense e se le vaste

Paludi vegga del tremendo inferno,

O s'entri ad informare altri animali

Per divino voler? Siccome il nostro

Ennio cantò, che pria d'ogn'altro colse

In riva d'Elicona eterni allori,

Onde intrecciossi una ghirlanda al crine

Fra l'italiche genti illustre e chiara.

Bench'ei ne' dotti versi affermi ancora

Che sulle sponde d'Acheronte s'erge

Un tempio sacro agl'infernali dèi,

Ove non l'alme o i corpi nostri stanno

Ma certi simulacri in ammirande

Guise pallidi in volto; e quivi narra

D'aver visto l'immagine d'Omero

piangere amaramente e di natura

Raccontargli i segreti e le cagioni.

Dunque non pur de' più sublimi effetti

Cercar le cause e dichiarar conviensi

Della luna e del sole i movimenti,

Ma come possan generarsi in terra

Tutte le cose, e con ragion sagace

Principalmente investigar dell'alma

E dell'animo uman l'occulta essenza,

E ciò che sia quel che, vegliando infermi

E sepolti nel sonno, in guisa n'empie

D'alto terror, che di veder presente

Parne e d'udir chi già per morte in nude

Ossa è converso e poca terra asconde.

E so ben io qual malagevol opra

Sia l'illustrar de' Greci in tóschi carmi

L'oscure invenzïoni; e quanto spesso

Nuove parole converrammi usare,

Non per la povertà della mia lingua

Ch'alla greca non cede e più d'ogn'altra

Piena è di proprie e di leggiadre voci.

Ma per la novità di quei concetti

Ch'esprimer tento e che null'altro espresse.

Pur nondimen la tua virtude è tale

E lo sperato mio dolce conforto

Della nostr'amistà, ch'ognor mi sprona

A soffrir volentieri ogni fatica

E m'induce a vegliar le notti intere,

Sol per veder con quai parole io possa

Portare innanzi alla tua mente un lume

Ond'ella vegga ogni cagione occulta.

Or sì vano terror, sì cieche tenebre

Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo

Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi

Dardi del giorno a saettar poc'abili

Fuorchè l'ombre notturne e i sogni pallidi,

Ma co 'l mirar della natura e intendere

L'occulte cause e la velata imagine.

Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami.

Sappi che nulla per divin volere

Può dal nulla crearsi: onde il timore

Che quindi il cor d'ogni mortale ingombra

Vano è del tutto: e, se tu vedi ognora

Formarsi molte cose in terra e 'n cielo

Nè d'esse intendi le cagioni, e pensi

Per ciò che Dio le faccia, erri e deliri.

Sia dunque mio principio il dimostrarti

Che nulla mai si può crear dal nulla:

Quindi assai meglio intenderemo il resto,

E come possa generarsi il tutto

Senz'opra degli dèi. Or, se dal nulla

Si creasser le cose, esse di seme

Non avrian d'uopo; e si vedrian produrre

Uomini ed animai nel sen dell'acque,

Nel grembo della terra uccelli e pesci.

E nel vano dell'aria armenti e greggi:

Pe' luoghi culti e per gl'inculti il parto

D'ogni fera selvaggia incerto fôra;

Nè sempre ne darian gl'istessi frutti

Gli alberi, ma diversi, anzi ciascuno

D'ogni specie a produrgli atto sarebbe

Poichè come potrian da certa madre

Nascer le cose, ove assegnati i propri

Semi non fosser da natura a tutte?

Ma or, perchè ciascuna è da principii

Certi creata, indi ha il natale ed esce

Lieta a godere i dolci rai del giorno

Ov'è la sua materia e i corpi primi.

E quindi nascer d'ogni cosa il tutto

Non può, perchè fra loro alcune certe

Cose han l'interna facoltà distinta.

In oltre: ond'è che primavera adorna

Sempre è d'erbe e di fior? che di mature

Biade all'estiv'arsura ondeggia il campo?

E che sol, quando Febo occupa i segni

O di libra o di scorpio, allor la vite

Suda il dolce liquor che inebria i sensi?

Se non perchè a' lor tempi alcuni certi

Semi in un concorrendo atti a produrre

Son ciò che nasce, allor che le stagioni

Opportune il richieggono, e la terra

Di vigor genital piena e di succo

Puote all'aure innalzar sicuramente

Le molli erbette e l'altre cose tenere?

Che, se pur generate esser dal nulla

Potessero, apparir dovrian repente

In contrarie stagioni e spazio incerto:

Non vi essendo alcun seme che impedito

Dall'unïon feconda esser potesse

O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.

Nè, per crescer, le cose avrian mestiere

Di spazio alcuno in cui si unisca il seme,

S'elle fosser del nulla atte a nutrirsi:

Ma nati appena i pargoletti infanti

Diverrebbero adulti, e in un momento

Si vedrebber le piante inverso il cielo

Erger da terra le robuste braccia:

Il che mai non succede; anzi ogni cosa

Cresce, come conviensi, a poco a poco,

E crescendo conserva e rende eterna

La propria specie. Or tu confessa adunque

Che della sua materia e del suo seme

Nasce, si nutre e divien grande il tutto.

S'arroge a ciò, che non daría la terra

Il dovuto alimento ai lieti parti,

Se non cadesse a fecondarle il seno

Dal ciel l'umida pioggia, e senza cibo

Propagar non potrebber gli animali

La propria specie e conservar la vita.

Ond'è ben verisimile che molte

Cose molti fra lor corpi comuni

Abbian, come le voci han gli elementi,

Anzi che sia senza principio alcuna.

In somma: ond'è che non formò natura

Uomini tanto grandi e sì robusti,

Che potesser co' piè del mar profondo

Varcar l'acque sonanti e con la mano

Sveller dall'imo lor l'alte montagne

E viver molt'etadi e molti secoli?

Se non perchè prescritta è la materia

Onde ogni cosa si produce ed onde

Composto è ciò che nasce? Or ecco dunque

Che nulla mai si può crear dal nulla,

Mentre di seme ha di mestiere il tutto

Per uscire a goder l'aura vitale.

Al fin: perchè veggiamo i culti luoghi

Degl'inculti più fertili, e per l'opra

Di rozze mani industrïose i loro

Frutti produr molto più vaghi all'occhio,

Più soavi al palato e di più sano

Nodrimento allo stomaco; e' n'è pure

Chiaro che d'ogni cosa in grembo i semi

Stanno alla terra e che da noi promossi

Sono a nuovo natal, mentre, rompendo

Col curvo aratro e con la vanga il suolo,

Volghiam sossopra le feconde zolle,

Domandole or col rastro or con la marra:

Chè, se questo non fosse, ogni fatica

Sarebbe indarno sparsa, e per sè stesso

Produrrebbe il terren cose migliori.

Sappi oltre a ciò che si risolve il tutto

Ne' suoi principii, e che non può natura

Alcuna cosa annichilar giammai.

Chè, se affatto mortali e di caduchi

Semi fosser conteste, all'improvviso

Tutte a gli occhi involarnesi e perire

Dovrian le cose, ove mestier di forza

Non fôra in partorir discordia e lite

Fra le lor parti e l'unïon disciorne.

Ma, perchè seme eterno il tutto forma,

Quindi è che nulla mai perir si vede

Pria che forza il percuota e negl'interni

Vôti spazi penètri e lo dissolva.

In oltre: ciò che lunga età corrompe

Se s'annichila in tutto, ond'è che Venere

Rimena della vita al dolce lume

Generalmente ogni animale? ed onde

Cibo gli porge la 'ngegnosa terra

Onde si nutra, si conservi e cresca?

Onde le fonti, onde i torrenti e i fiumi

Portan l'ampio tributo al vasto mare?

Onde alle fisse, onde all'erranti stelle

Somministra alimento il ciel profondo?

Poichè già l'infinita età trascorsa

Ogni corpo mortale a pien dovrebbe

Col vorace suo dente aver distrutto.

Ma, se pur fu nella trascorsa etade

Seme che basti a riprodurre al mondo

Tutto ciò che perisce, eterno è certo.

Nulla può dunque mai ridursi al nulla.

In somma: a dissipar sarìa bastante

Tutte le cose una medesma forza,

Se materia immortal non le tenesse

Più e men collegate: un tocco solo

Bastevole cagion della lor morte

Esser potria, ch'ove d'eterno corpo

Nulla non fosse, ogni più leve impulso

Sciôr ne dovrebbe la testura in tutto.

Ma, perchè vari de' principii sono

I nodi ed è la lor materia eterna,

Salve restan le cose infino a tanto

Che forza le percuota atta a disciorre

Di ciascuna di loro il proprio laccio.

Nulla può dunque mai ridursi a nulla;

Ma ne' primi suoi corpi il tutto riede.

Tosto che finalmente il padre Giove

Versa nel grembo alla gran madre Idea

L'umida pioggia, essa perisce al certo:

Ma ne sorgon le biade e se n'adorna

Ogni albero di fior, di frondi e frutti.

Quindi si pasce poi l'umano germe,

Quindi ogni altro animale. E lieta quindi

Di vezzosi fanciulli ogni cittade

Fiorir si mira, e le fronzute selve

Piene di nuovi innamorati augelli

Cantan soavi armonïose note.

Quindi pe' lieti paschi i grassi armenti

Posan le membra affaticate e stanche,

E dalle piene mamme in bianche stille

Gronda sovente il nutritivo umore,

Onde i nuovi lor parti ebri e lascivi

Con non ben fermo piè scherzan per l'erbe.

Dunque affatto non muor ciò che ne sembra

Morir quaggiù, se la natura industre

Sempre dell'un l'altro ristora; e mai

Nascer non puote alcuna cosa al mondo,

Se non se prima ne perisce un'altra.

Or; poi che chiaramente io t'ho dimostro

Che nulla mai si può crear dal nulla

Nè mai cosa creata annichilarsi,

Acciò tu non pertanto i detti miei

Non creda error, perchè non puoi cogli occhi

Delle cose veder gli alti principii;

Pensa oltre a ciò quant'altri corpi sono

Invisibili al mondo, e pur deggiamo

Confessar ch'e' vi sono a viva forza.

Pria: se vento gagliardo il mare sferza

Con incredibil vïolenza ignota,

Le smisurate navi urta e fracassa;

Or ne porta sull'ali atre tempeste,

Or via le scaccia e ne fa chiaro il giorno;

Talor pe' campi infurïato scorre

Con turbo orrendo, e le gran piante atterra;

Talor col soffio impetuoso svelle

Le selve annose in su gli eccelsi monti:

Così gorgoglia l'Ocean cruccioso,

Geme, freme, s'infuria e 'l ciel minaccia.

Son dunque i venti un invisibil corpo,

Che la terra che 'l mar che 'l ciel profondo

Trae seco a forza e ne fa strage e scempio;

Nè in altra guisa il suo furor distende,

Che suol repente in ampio letto accolta

La molle acqua cader gonfia e spumante,

Che non pur delle selve i tronchi busti

Ma ne porta sul dorso i boschi interi;

Nè pôn soffrir i ben fondati ponti

La repentina forza; il fiume abbatte

Ogni eccelso edifizio e sotto l'acque

Gran sassi avvolge, onde ruina a terra

Ciò ch'al rapido corso ardisce opporsi.

Così dunque del vento il soffio irato,

Se qual torrente infurïato scorre

Verso qualunque parte, innanzi caccia

Ciò ch'egli incontra e lo diveglie e schianta;

Or con vortice torto alto il rapisce,

E con rapido turbo il ruota e porta.

È dunque il vento un invisibil corpo,

Se nell'opre e nel moto i fiumi imita

Che son composti di visibil corpo.

Giùngonne anco alle nari odor diversi,

Che tra via nondimen l'occhio non vede:

Il caldo il gelo il canto il suon le voci

Non pôn mirarsi, e pur son corpo anch'elleno

Poichè svegliano il senso e lo commuovono:

E null'altro che il corpo è tocco o tocca.

Le vesti al fin nel marin lido appese

Umide fansi, e le medesme poi

Tornan asciutte a' rai del sole esposte:

Ma nè come l'umore ivi si fermi,

Nè com'ei fugga dal calor cacciato

Alcun non vede. Egli si sparge adunque

In tante e tante parti e sì minute,

Ch'a poterle mirare occhio non basta.

Anzi: portate per molt'anni in dito

S'assottiglian l'anella; a goccia a goccia

L'acqua d'alto cadendo i sassi incava;

L'adunco ferro del ritorto aratro

Rompendo i campi occultamente scema;

Consuman per le strade i piè del volgo

Le durissime lastre; e, per lo spesso

Toccar di chi saluta e di chi passa,

Le figure di bronzo entro alle porte

De' templi sculte la lor forma pèrdono.

E ben tai cose sminuir veggiamo;

Ma di veder ciò che ne caschi ogn'ora

La natura ne toglie invidïosa.

In somma: ciò che la natura e 'l tempo

Donano a poco a poco a quel che cresce

Non possono gli occhi rimirar contenti,

Nè quel che per l'età langue o vien meno,

Nè quel che rode con l'edace sale

Ogni momento il mar dai duri scogli.

Dunque è pur di mestier che la natura

D'invisibili corpi il tutto formi.

Ma non creder però che l'universo

Sia pieno affatto. In ogni cosa il vôto

Misto è co' corpi. E questo in molte cose

D'util ti fia; acciò tu meglio intenda

Tutto ciò ch'io ragiono, e senza errore

E senza dubbio interamente creda

Alle parole mie fide e veraci.

Spazio è dunque nel mondo intatto e vôto

E privo d'ogni corpo, e luogo ha nome

Poichè, se ciò non fosse, eternamente

Starian ferme le cose, essendo offizio

Di tutti i corpi l'impedire il moto:

Muoversi dunque mai nulla potrebbe,

Ove nulla cedesse e desse luogo.

Ma noi miriam co' gli occhi propri ognora

Nella terra nel mar nel ciel sublime

Muoversi molte cose in molti modi

Per molte cause; che, se vôto alcuno

Spazio non fosse, d'ogni moto prive

Sarìan non sol ma nè pur nate al mondo;

Poichè stivati i primi semi affatto

Goduto avriano una perpetua quiete.

In oltre: ancor che molte cose e molte

Sembrin dure del tutto agli occhi nostri,

Son poi di corpo assai poroso e raro.

Quindi è che penetrar miri dall'acque

I tufi, i sassi e le spelonche, e quindi

Piangon le selci in copïose stille.

Per tutto il corpo si diffonde il cibo

Degli animai; crescon le piante e fanno

Nella propria stagione il fiore e 'l frutto,

Sol perchè preso il nutrimento loro

Sin dall'infime barbe egli si sparge

Tutto per tutto il tronco e tutti i rami.

Passan le voci entro le chiuse mura:

E scorre spesso un duro gel per l'ossa.

Il che non avverrebbe in modo alcuno,

Se non fosser nel mondo i vôti spazi

Ov'ogni corpo penetrar potesse.

Al fine: ond'è che di due cose eguali

Di mole una sovente ha maggior pondo?

Che s'un fiocco di lana in sè chiudesse

Tanto di corpo quanto il piombo e l'oro,

Egli altrettanto anco pesar dovrebbe;

Chè proprio è sol di tutt'i corpi il premere

In giù le cose, ed al contrario il vôto

Di sua natura è senza peso alcuno.

Dunque, se di due cose eguali in mole

L'una più lieve fia, chiaro ne insegna

D'aver manco di corpo e più di vôto:

Ma, s'è più grave, pel contrario mostra

D'aver manco di vôto e più di corpo.

Che sia dunque fra' corpi il vôto sparso,

Benchè mal noto a' nostri sensi infermi,

Per l'addotte ragioni è chiaro e certo.

Nè qui vogl'io che devïar dal vero

Ti possa mai quel che sognaro alcuni;

E perciò quant'io parlo ascolta e nota.

Dicon che 'l mare allo squammoso armento

Apre l'umide vie, perch'egli a tergo

Spazio si lascia ove concorran l'onde;

E che in guisa simìle ogni altra cosa

Mover si puote e cangiar sito e luogo.

Ma falso è ciò: ch'ove potranno alfine

I pesci andar, se non dà luogo il mare?

E dove al fin, se non dan luogo i pesci,

Il mar n'andrà, benchè cedente e molle?

Forz'è dunque o privar di moto i corpi,

O fra le cose mescolar il vôto

Che sia cagion de' movimenti loro.

S'al fin due piastre di lucente acciaio

Si combaciano insieme, indi in un tratto

L'una dall'altra si solleva, è d'uopo

Che vôto resti l'interposto spazio:

Poichè, quantunque d'ogn'intorno accorra

L'aere per occuparlo, in un sol punto

Ciò far non può, ma che riempia è forza

I luoghi più vicini e poscia gli altri.

E, se per avventura alcun pensasse

Che si distinguan l'un dall'altro i corpi

Perchè l'aere frapposto si condensi,

Erra; chè il vôto il qual non era innanzi

Fassi per certo e si riempie dopo

Benchè velocemente, in qualche tempo;

Nè l'aere in guisa tal può condensarsi,

Nè, quand'anco potesse, ei non potrebbe

Sè stesso in sè raccôrre e in un ridurre

Senz'alcun vôto le disperse parti.

Dunque indugia, se vuoi; forz'è ch'al fine

Esser confessi tra le cose il vôto.

Posso oltre a ciò molte ragioni addurti

Nulla men concludenti, onde tu presti

Alle parole mie fede maggiore:

Ma tanto basti al tuo sottile ingegno,

Per ben capir sicuramente il resto.

Chè, se scopron sovente i bracchi al fiuto

Le lepri i cervi e l'altre fere in caccia

Pe' covili appiattate e pe' cespugli

Tosto c'han di lor via vestigio certo,

Potrai ben tu per te medesmo intendere

L'una cosa dall'altra e penetrare

Per tutti i ripostigli e trarne il vero.

Ma, se tu pigro fossi o ti scostassi

Dal vero alquanto, io ti prometto e giuro

Che può la lingua in così larga vena

Dal ricco petto mio spargerti, o Memmo,

Più che mèl dolce d'eloquenza un fiume;

Ch'io temo pria non la vecchiezza inferma

Per le membra serpendo il chiostro n'apra

Di nostra vita e ne disciolga i lacci,

Che mai tu possa d'ogni cosa a pieno

Da' versi nostri ogni argomento udire.

Ma tempo è già di proseguir l'impresa.

Tutte le cose per sè stesse adunque

Consiston solamente in due nature;

Cio è nel corpo e nello spazio vôto

Ov'elle han vari i movimenti e i siti.

Ch'esser corpi nel mondo il comun senso

Per sè ne mostra; a cui se fede nieghi,

Non fia già mai che dell'occulte cose

Possa nulla provar con la ragione.

E, se non fosse alcuno spazio o luogo

Che sovente da noi vôto si chiama,

Non avrìan sito mai nè luogo i corpi,

Come già poco innanzi io t'ho dimostro.

Nulla oltr'a ciò può ritrovarsi mai,

Che tu dir possa esser diviso affatto

E dal corpo e dal vôto, onde si dia

Una quasi fra lor terza natura.

Ch'è pur qual cosa ciò ch'al mondo trovasi,

Sia di picciola mole o sia di grande;

Poichè, s'egli esser tocco o toccar puote,

Benchè lieve e minuto, è corpo al certo;

Se no, vôto si chiama o spazio o luogo.

In oltre: ciò che per sè stesso fia,

O farà qualche cosa o sarà fatto,

O fia là dove i corpi han luogo e nascono:

Ma non può far nè farsi altro che 'l corpo,

Nè dar luogo alle cose altro che 'l vôto:

Dunque oltre al vôto e 'l corpo in van si cerca

Una quasi fra lor terza natura

Che per sè cresca delle cose il novero,

Essendo il tutto o d'ambedue congiunto

O loro evento, ch'accidente io chiamo.

Tu stima poi, che sia congiunto quello

Che non può senza morte esser disgiunto;

Com'il peso alle pietre, il caldo al foco,

Ai corpi il tatto, il non toccarsi al vôto.

Servitude all'incontro e libertade,

Ricchezza e povertà, concordia e guerra,

E tutto ciò che, venga o resti o parta,

Lascia salve le cose, io soglio poi

Accidente chiamar, come conviensi.

Il tempo ancor non è per sè in natura:

Ma dalle sole cose il senso cava

Il passato il presente ed il futuro;

Nè può capirsi separato il tempo

Dal moto delle cose e dalla quiete.

Nè dica alcun che la tindarea prole

Da Paride rubata al duce argivo

E 'l superbo Ilïone arso e consunto

Forse parrà ch'a confessar ne sforzi

Che tai cose per sè fossero al mondo;

Mentre l'età trascorsa irrevocabile

I secoli di quelli omai n'ha tolto,

Che ad eventi sì rei furon soggetti.

Poichè, di ciò che fassi, altro può dirsi

De' paesi accidente, altro de' corpi

Chè, se stato non fosse il seme e 'l luogo

Onde si forma e dove ha vita il tutto,

Non avrebbe giammai d'amore il foco

Per la rara beltà d'Elena acceso

Nel frigio petto suscitar potuto

Il chiaro incendio di sì cruda guerra,

Nè il gran destrier del traditor Sinone

Col notturno suo parto avrìa distrutto

Della nobil città le mura eccelse.

Onde conoscer puoi che l'opre altrui

Non son per sè conforme il corpo e 'l vôto,

Ma più tosto a ragion debbon chiamarsi

O de' corpi accidenti o de' paesi.

Sappi poi che de' corpi altri son primi,

Altri si fan per l'unïon di questi.

Ma quei che primi son da forza alcuna

Dissipar non si ponno: ogni grand'urto

Frena la lor sodezza, ancor che paia

Duro a creder che nulla al mondo possa

Trovarsi mai d'impenetrabil corpo.

Passa il fulmin celeste, allor che Giove

Ver noi l'avventa, entro le chiuse mura,

Com'i gridi e le voci: il ferro stesso

S'arroventa nel fuoco: entro il crudele

Bollor fervidi al fin spezzansi i sassi:

Un soverchio calor l'oro dissolve:

Del bronzo il ghiaccio una gran fiamma strugge:

Penetra per l'argento il caldo e 'l freddo;

Poi ch'avvinchiando con la mano il nappo

E versandovi dentro il dolce vino,

L'uno e l'altro da noi tosto si sente.

Sì par che tra le cose ancor che sode

Nulla sia mai d'impenetrabil corpo.

Ma, perchè la ragion della natura

Non pertanto ne sforza, or tu m'ascolta:

Mentre ch'in pochi versi esser ti mostro

Materia impenetrabile ed eterna.

Pria: se varia del corpo è la natura

Dall'essenza del luogo u' fassi il tutto,

Com'i nostri argomenti han già convinto,

Forz'è ch'ambe per sè siano ed immiste;

Poichè, dove lo spazio intatto resta,

Ivi corpo non è: ma dov'è corpo,

Ivi vôto non è; son dunque i primi

Corpi senz'alcun vôto impenetrabili.

In oltre: essendo mescolato il vôto

Fra le cose create, è d'uopo al certo

Ch'impenetrabil corpo intorno il cinga:

Nè mai posso provar che nulla celi

Per entro a sè medesmo il vôto spazio,

Se per cosa già nota io non suppongo

Che impenetrabil sia quel che l'asconde:

Il che poi certamente esser non puote

Se non de' semi l'unïon concorde

Che stringer possa entro a se stessa il vôto:

Può dunque la materia esser eterna,

Benchè sia frale ogni altra cosa al mondo;

Mentr'ella è pur d'impenetrabil corpo.

Aggiungi ancor; che se non fosse il vôto,

Pieno sarebbe il tutto; e se non fossero

Gl'invisibili corpi, il mondo affatto

Vôto sarebbe: egli è composto adunque

Di due cose fra lor molto diverse,

Cioè de' corpi e dello spazio vôto;

Non essendo nè vôto in ogni parte,

Nè pel contrario in ogni parte pieno.

Gl'invisibili corpi adunque sono,

E distinguon dal pieno il vôto spazio.

Questi mai non offende esterna forza:

Per dissipare ogni percossa è vana

La loro indissipabile sostanza:

Poichè nulla che sia di vôto privo

Non par che possa esser urtato in modo

Ch'e' si spezzi in due parti e si divida,

Nè dar luogo all'umore al freddo al caldo

Ond'ogni cosa vien ridotta al fine;

Ma, quanto più di vôto in se racchiude,

Tanto più penetrato agevolmente

Dagli esterni nemici è poi distrutto.

Dunque, se i primi corpi impenetrabili

Sono e senz'alcun vôto è forza al certo,

Com'io già t'insegnai, ch'e' sieno eterni.

S'eterna in oltre la materia prima

Stata non fosse, al nulla omai ridotto

E dal nulla rinato il tutto fôra:

Ma, perchè chiaro io t'ho già mostro avanti

Che nulla mai si può crear dal nulla

Nè mai cosa creata annichilarsi,

Forza è pur confessar che i primi semi

Sian di corpo immortale, in cui si possa

Dissolver finalmente ogni altro corpo,

Acciò che sempre la materia in pronto

Sia per rifar le già disfatte cose.

Per lor simplicità dunque i principii

Son pieni impenetrabili ed eterni:

Nè ponno in altra guisa esser rifatte

Le cose mai per infinito tempo.

Al fin: se la natura alcun prescritto

Termine non avesse allo spezzarsi,

Sariano a tal della materia i corpi

Ridotti omai nella trascorsa etade,

Che non avrebbe mai nessun composto

Da molto tempo in qua passar potuto

Della sua verde età l'ultimo fiore;

Poichè, per quanto è manifesto al senso,

Muor più presto ogni cosa e si dissolve

Che dopo non rinasce e si restaura:

Onde, ancor tuttavia spezzando il tempo

Ciò che già mille volte avesse infranto

La lunga anzi infinita età trascorsa,

Non potrebbe giammai rifarlo appieno.

Or; perchè ristorar vedesi il tutto

E da natura aver prescritto il tempo,

Onde possa toccar l'ultima mèta

Dell'età sua; dunque prefisso è pure

Al romper delle cose un certo fine.

S'arroge a ciò: ch'essendo i corpi primi

Di dura anzi infrangibile sostanza,

Può non pertanto agevolmente farsi

Tenero e molle il ciel la luce il foco

L'aria il vento il vapor l'acqua e la terra

Sol col mischiare entro alle cose il vôto:

Ma; se per lo contrario i primi semi

Fosser teneri e molli; onde potrebbe

Farsi il ferro, il diaspro e l'adamante,

Mentre mancasse alla natura affatto

D'ogni durezza il fondamento primo?

Per lor simplicità dunque i principii

Son pieni, impenetrabili ed eterni;

E per loro unïon posson le cose

Più e più condensarsi e mostrar forza.

Perchè in somma è prescritto un termin certo

A ciò che cresce e si conserva in vita,

E ciò che possa e che non possa oprare

Per naturale invïolabil legge

Incommutabilmente è stabilito,

In guisa tal ch'ogni dipinto augello

Mostra nel corpo suo le stesse macchie

Che ciascun altro di sua specie mostra;

Fie pure d'invarïabile sostanza

Il primo seme suo: perchè, se i corpi

Della prima materia in alcun modo

Si potesser mutare, incerto ancora

Quel che nasca o non nasca omai sarebbe

Ed in qual guisa sia prescritto al tutto

Terminata potenza e certo fine;

Nè men potrian generalmente i secoli

Ricondur mai de' genitori al mondo

La natura, i costumi, il moto e 'l vitto.

In oltre ancor: perchè l'estremo termine

Di qualsivoglia corpo è pur qualcosa,

Benchè più non soggiaccia ai sensi nostri;

Forz'è che senza parti e indivisibile

Sia per natura, e ch'e' non fosse mai

Separato da sè, nè sia per essere

Mentr'egli stesso è prima parte ed ultima,

Onde l'altre e poi l'altre a lui simìli

Per ordine disposte al corpo danno

La dovuta grandezza; or, perchè queste

Star non posson per sè, d'uopo han d'appoggio

Nè diveglier si ponno in alcun modo.

Per lor simplicità dunque i principii

Son pieni, impenetrabili ed eterni

Ed han l'indivisibili lor parti

Con forti lacci collegate e strette;

Nè già per l'unïon d'altri principii

Creati furo; anzi piuttosto è d'uopo

Ch'eterna sia la lor simplicitade:

Talchè mai la natura non consente

Che nulla sia di lor staccato, ond'essi

Scemin di mole; conciossiachè i primi

Semi alle cose dee serbare intatti.

In oltre: se da noi non si concede

Il minimo fra' corpi, egli è mestiero

Dir poi che tutti d'infinite parti

Composti sian, mentrechè sempre il mezzo

Il mezzo avrà nè alcuna cosa mai

Porrà loro alcun termine. Qual dunque

Differenza addurrem fra l'universo

Intero e qual si sia più picciol corpo?

Nïuna al mio parer: poichè, quantunque

Sia l'universo d'ogn'intorno immenso,

Pur quei corpi eziandio, che per natura

Piccolissimi son, di lui non meno

Sarian composti d'infinite parti:

Il che poi riclamando ogni verace

Ragion com'incredibile rifiuta.

Sicchè d'uopo fia pur, che vinto al fine

Tu confessi che al mondo alcuni corpi

Trovansi che di parti affatto privi

E per natura lor minimi sono:

Ond'essendo pur tali, è forza al certo

Che sian pieni, infrangibili ed eterni.

Se la natura alfin che il tutto crea

Non solesse sforzare a dissiparsi

In parti indivisibili le cose,

Già non potria restaurar con esse

Nulla di ciò che si dissolve e muore;

Poi che quel che di parti onde s'accresca

Non è composto aver giammai non puote

Ciò ch'aver dènno i genitali corpi,

Cioè vari fra lor legami e pesi

E percosse e concorsi e movimenti,

Onde nasce ogni cosa e divien grande.

Se fine in somma allo spezzar de' corpi

Stabilito non fosse; or come alcuni

Superando ogn'intoppo avrian potuto

Per infinito tempo omai trascorso

Fino alla nostra età serbarsi intatti?

Chè scorda molto il rimanere illeso

Ciò c'ha frale natura, eterno tempo

Da colpi innumerabili percosso.

Quindi, chi si pensò che delle cose

Fosse prima materia il foco solo

Fu dal vero discorso assai lontano.

Primo duce di questi armato in campo

Eraclito si mostra, ed è piuttosto

Per l'oscuro parlar fra i vani illustre

Che tra chi cerca il vero uom saggio e grave:

Ch'amare ed ammirar soglion gli sciocchi

Più quelle cose che nascoste trovano

Fra più dubbie parole e più stravolte,

E sol prestan credenza a quei concetti

Che titillan l'orecchie e con sonora

E soave armonia lisciati sono.

Ma se, di vero e puro foco il tutto

Creato fosse, onde potrian al mondo

Nascer cose giammai tanto diverse?

Poichè nulla giovar dovria che 'l foco

Divenisse or più denso ed or piu raro,

Se le parti del foco avesser tutte

Di tutto il foco la natura stessa;

Giacch'egli unito avria l'ardor più intenso

E più languido poi disperso e sparso.

Ma nulla in oltre imaginar ti puoi

Che da causa simìl possa formarsi,

Non che si crein da foco denso e raro

Cose al mondo fra lor sì varie e tante.

Oltre che; se costoro il vôto spazio

Mescolasser fra 'l pieno, il foco al certo

Potrebbe rarefarsi e condensarsi:

Ma per non gire a molti dubbi incontra,

Stanno sospesi, e non s'arrischian punto

A conceder fra 'l pieno il vôto spazio;

E, mentre temon le contrarie cose,

Perdon la via d'investigare il vero;

Nè san che, tolto dalle cose il vôto,

D'uopo è che tutte si condensin tosto,

E si formi di tutte un corpo solo

Che nulla mai rapidamente possa

Scacciar da sè, come la fiamma accesa

Lo splendore e l'ardor da sè discaccia:

Onde ognun dee pur confessar che il foco

Non è composto di stivate parti.

Che s'e' credon ch'e' possa in qualche modo

Unito dissiparsi e cangiar forma,

Non veggon poi che, concedendo questo,

Forza è che 'l foco si corrompa in nulla

Tutto e del nulla anco rinasca il tutto:

Poichè, qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Questo è sua morte, e non è più quel desso:

Onde è mestier che qualche parte intatta

Ne resti, acciò che 'l tutto omai non torni

Al nulla e poi del nulla anco rinasca.

Or dunque; perchè sono alcuni corpi

Che serban sempre una medesma essenza,

Per l'entrata de' quai, per la partita

E per l'ordin cangiato il tutto cangia

Natura e si trasforma in nuove forme;

Sappi ch'essi non ponno esser di foco:

Poichè indarno partirsi ire e tornare

Potrìano alcuni, altri venirne ed altri

Varïare il primiero ordine e sito;

Giacchè, se tutti per natura ardessero,

Tutto ciò che si crea foco sarebbe.

Ma cosi va, s'io non m'inganno: alcuni

Corpi sono nel mondo, i cui concorsi,

Gli ordini i moti le figure i siti

Far ponno il foco, e l'ordin poi mutando

Mutan anco natura, e più non sono

O foco o fiamma od altro corpo ardente

Che vibri al senso le sue parti e possa

Toccar con l'accostarsi il nostro tatto.

Il dir poi ch'ogni cosa è foco puro

E che nulla è di vero altro che 'l foco,

Com'Eraclito volle, a me rassembra

Sogno d'infermi o fola di romanzi:

Poich'al senso repugna il senso stesso,

E quello snerva ond'ogni creder pende

E onde egli medesimo conobbe

Quel corpo che da noi foco si chiama;

Già ch'ei crede che 'l senso il foco solo

Veramente conosca e poi null'altro

Di quel che punto è non men chiaro al senso.

Il che falso non pur, ma parmi ancora

Sogno d'infermi o fola di romanzi.

Ch'ove ricorrerem? qual cosa a noi

Fia più certa giammai de' nostri sensi,

Onde il vero dal falso si discerna?

In oltre: ond'è che tu piuttosto ogni altra

Cosa tolga dal mondo, e lasci solo

La natura del caldo, il che poi neghi

Esser il foco, e non pertanto ammetta

La somma delle cose? a me par certo

Tanto l'un quanto l'altro egual pazzia.

Quindi; chi si pensò che delle cose

Fosse il foco materia e che di foco

Potesse al mondo generarsi il tutto,

E chi fe primo seme o l'aria o l'acqua

O pur la terra per sè stessa e volle

Ch'una sol cosa si trasformi in tutte,

Par che lungi dal vero errando gisse.

Aggiungi ancor chi delle cose addoppia

Gli alti principii e l'aria aggiunge al foco

O la terra all'umore, e chi si pensa

Che di quattro principii il tutto possa

Generarsi, di fuoco, aria, acqua e terra.

De' quali il primo Empedocle chiamossi,

Uom greco, e che per patria ebbe Agrigento:

Città ch'è posta entro il paese aprico

Dell'isola triforme intorno cinta

Con ampii anfrati dall'Ionio mare,

Ch'ondeggiando continuo il lido asperge

D'acque cerulee, e per angusta foce

Rapidissimo scorre, e si divide

Dall'italiche spiagge i suoi confini.

È qui Scilla e Cariddi, e qui minaccia

Con orrendo fragor l'etneo gigante

Di risvegliar gli antichi sdegni e l'onte

E di nuovo eruttar dall'ampie fauci

Contro il nemico ciel folgori ardenti.

Oltr'a tai meraviglie, il suol benigno

Di cortesia di gentilezza ornata

Qui produce la gente; e qui cotanto

D'uomini illustri e d'ogni bene abbonda,

Che per cosa mirabile s'addita.

Ma non sembra però che qui nascesse

Cosa mai più mirabil di costui,

Nè più bella e gentil, più cara e santa.

Se non se forse in Siracusa nacque

Il divino Archimede, e nuovamente

Nella nobil Messina il gran Borelli

Pien di filosofia la lingua e 'l petto,

Pregio del mondo e mio sommo e sovrano,

Mio maestro, anzi padre, ah! più che padre.

Dell'eccelsa sua mente i sacri versi

Cantansi d'ogni intorno; e vi s'impara

Sì dotte invenzïoni e sì preclare,

Che credibil non par ch'egli d'umana

Progenie fosse. Ei non pertanto, e gli altri

Che di sopra io contai di lui minori

Molto in molte lor parti; ancor che molti

Ottimi insegnamenti, anzi divini

Dal profondo del cuor quasi responsi

Dessero altrui, molto più santi e certi

Di quei ch'è fama che dal sagro lauro

Di Febo e dalle pitie ampie cortine

Uscisser già; pur, com'io dissi, erraro

Intorno a' primi semi, e gravemente

Fecer quivi inciampando alta caduta.

Pria: perchè, tolto dalle cose il vôto,

Muover le fanno, e lascian rari e molli

Il cielo il foco il sol l'acqua e la terra

Gli uomini gli animai le piante e l'erbe

Senza mischiar entro alle cose il vôto.

Poi: perchè fan ch'allo spezzar de' corpi

Non sia prescritto da natura un fine,

Nè parte alcuna indivisibil danno:

E pur veggiam che d'ogni cosa il termine

È quel ch'al senso indivisibil sembra;

Onde tu possa argomentar da questo

Anco quel che mirar non puoi con gli occhi.

Cioè, che, essendo circoscritte, è forza

Ch'abbian l'indivisibile le cose.

S'arroge a ciò; che la materia prima

Voglion che molle sia: ma quel ch'è molle

Spesso stato cangiando or nasce or muore:

Per la qual cosa omai disfatto il tutto

Sariasi in nulla mille volte e mille,

E mille e mille volte anco rifatto:

Il che ben sai quanto dal ver sia lungi

Per le ragioni mie di sopra addotte.

Senza che; son nemiche in molti modi

Fra lor le cose molli e rio veleno

Esse a sè stesse; onde o perir dovranno

Dopo fiera battaglia o fuggir tosto,

Qual, allor che tempesta in ciel si genera,

Fuggonsi i venti e le bufere e i fulmini.

Al fin: se può di quattro corpi soli

Ogni cosa crearsi, e poi di nuovo

In quegli stessi dissiparsi il tutto;

Dimmi, per qual cagione essi piuttosto

Debbonsi nominar principii primi

D'ogni altra cosa? ch'all'incontro ogni altra

Cosa chiamarsi lor principio primo?

Giacch'essi alternamente in ogni tempo

Puon generarsi e varïar colore

E tutt'anco fra lor l'interna essenza.

Ma se forse dirai che possa il corpo

Della terra e del foco unirsi in modo

Con l'aura aerea e con l'umor dell'acque,

Che di quattro principii alcun non cangi,

Per cotale unïon, forma e natura;

Nulla di lor potrà crearsi mai,

Non l'alme, o ciò che senza mente ha vita,

Com'i bruti e le piante e l'erbe e i fiori;

Conciossiachè ciascuno in tal concorso

Della propria sostanza apertamente

Mostrerà la natura, ivi vedrassi

Starsi l'aria e la terra, il foco e l'acqua

Mescolati fra lor: ma i primi semi

Onde si debbon generar le cose

Mestiero è pur che di natura occulta

E cieca siano, acciò nessun prevaglia

E lite agli altri e cruda guerra muova;

Onde si vieti poi che nulla possa

Mai propriamente generarsi al mondo.

Anzi che questi infin dal cielo immenso

E dalle fiamme sue chiamano il foco;

E voglion pria ch'e' si trasformi in aria,

Quindi in acqua si cangi e quindi in terra;

E poi di nuovo, ritornando indietro

Fan produr dalla terra ogni elemento,

L'acqua pria, dopo l'aria e poscia il foco:

Nè, che cessin giammai di trasmutarsi

Tai cose insieme, alcun di lor concede;

Ma che sempre dal ciel scendano in terra,

Ed ognor dalla terra in ciel sormontino.

Il che far non si debbe in guisa alcuna

Dalla prima materia: anzi è pur d'uopo

Che qualche cosa invarïabil resti,

Acciò che affatto non s'annulli il tutto:

Poichè qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Quest'è sua morte, e non è più quel desso.

Or, se l'aria e la terra il foco e l'acqua

Si trasmutan fra lor, dunque non ponno

Primi semi chiamarsi; anzi conviene

Che sian d'altri principii incommutabili

Composti anch'essi, acciocchè il tutto al nulla

Non torni in un momento. Onde piuttosto

Pensa che siano i genitali corpi

Di tal natura, che, se forse il foco

Prodotto avran, toltine alcuni ed altri

Aggiunti, e varïando ordine e moto,

Possan l'aria crear l'acqua e la terra,

E che nel modo stesso ogni altra cosa

Perda la propria essenza e si trasformi.

Ma forse mi dirai — Chiaro è che 'l tutto

Cresce da terra in aria e vi si nutre:

E s'a' debiti tempi ancor non scende

Pioggia che irrighi alla gran madre il seno,

E se vita e calor non gli comparte

Co' suoi lucidi raggi il sol cortese,

Muoion le biade gli animai le piante. —

Anzi gli uomini stessi, affatto privi

D'arido pane e d'umid'acqua o vino,

Perdono il corpo; e con il corpo ancora

Tutta da tutti i nervi e tutte l'ossa

Gli si scioglie la vita e fugge l'alma.

Essi dunque han ristoro e nutrimento

Da certo cibo: e pur da certo cibo

Altri ed altri animali ed altre cose

Similmente han ristoro e nutrimento.

Che, essendo molti primi semi e molti

Comuni in molti modi a molti corpi

Mescolati fra lor, forza è che 'l vitto

Da varie cose varie cose prendano.

E spesso anco oltre a ciò non poco importa

Con quai sian misti, come posti, e quali

Movimenti fra lor diano e ricevano:

Poichè forman gli stessi il cielo, il mare;

Gli stessi ancor la terra, i fiumi, il sole,

Gli uomini, gli animai, l'erbe e le piante,

Mentre mischiati in varie guise insieme

Si muovon variamente. Anzi tu stesso

Poui sovente veder ne' nostri versi

Esser comuni a molte voci e molte

Molti elementi; e non pertanto è d'uopo

Dir ch'abbia ogni parola ed ogni verso

Vario significato e vario suono;

Chè tanto di possanza han gli elementi

Con la mutazïon dell'ordin solo.

Ma credibil è ben che i primi semi

Abbian più cause onde crear si possa

Tutte le cose di che 'l mondo è adorno.

Ma tempo è di pesar con giusta lance

D'Anassagora ancor l'omeomería

Mentovata da' Greci, e che non puossi

Da noi ridir nella paterna lingua

Con un solo vocabolo, ma pure

Facil sarà che la si spieghi in molti.

Pensa egli adunque che 'l principio primo,

Che da lui vien chiamato omeomería,

Altro non fosse ch'una confusione

Una massa un mescuglio d'ogni corpo,

In guisa tal che il generar le cose

Solamente consista in separarle

Dal comun caos ed accozzarle insieme;

E così l'ossa di minute e piccole

Ossa si creino, e di minute e piccole

Viscere anco le viscere si formino,

Da più gocce di sangue il sangue nasca,

Da più bricioli d'òr l'oro si generi,

Cresca la terra di minute terre,

Di foco il foco, l'acqua d'acqua; e finge

Ch'ogn'altra cosa in guisa tal si faccia;

Nè concede fra 'l pieno il vôto spazio,

Nè termin pone allo spezzar de' corpi.

Onde a me par, quand'io vi penso, ch'egli

E nell'uno e nell'altro erri egualmente,

Come color che poco avanti io dissi.

Aggiungi ch'egli delle cose i semi

Troppo deboli fa; se pure i semi

Per natura fra lor sono uniformi

Anzi son pur le stesse cose; et hanno

Egual travaglio egual periglio, e nulla

Può frenarli giammai nè proibirli

Che non corrano a morte. E qual è d'essi

Che mille e mille colpi, urti e percosse

A soffrir basti, e finalmente anch'egli

Non muoia o si dissolva? il foco o l'acqua

O l'aere? qual di questi? il sangue o l'ossa?

Nessun, cred'io, mentr'egualmente tutti

Sarian mortali, in quella guisa appunto

Che l'altre cose manifeste al senso

Son mortali anche lor, poi che perire

Con gli occhi stessi pur si veggon tutte

Da qualche vïolenza oppresse e vinte.

Ma tu già sai ch'annichilar non puossi

Nulla nè nulla anco crear dal nulla.

In oltre: perchè il cibo accresce e nutre

Il nostro corpo, è da saper ch'abbiamo

E le vene ed i nervi e 'l sangue e l'ossa

Miste e composte di straniere parti.

E, se diranno esser mischiati i cibi

Di più sostanze e corpicciuoli avere

D'ossa e di nervi e di vene e di sangue,

D'uopo sarà che 'l secco cibo e 'l molle

Composto sia di forestiere cose,

Anzi null'altro sia ch'un guazzabuglio

D'ossa e di sangue e di vene e di nervi.

In oltre: tutto ciò che in terra nasce

S'egli quivi si trova, è pur mestieri

Che sia la terra di stranieri corpi

Anch'ella un seminario: e con le stesse

Parole appunto argomentar ne lice

D'ogni altra cosa; onde, se 'l legno occulta

La cenere, il carbon, la fiamma e 'l foco,

Di forestiere parti il legno è fatto.

Or qui parmi che resti un solo scudo

Debile e mal sicuro, onde schermirsi

Anassagora tenta. Ei crede adunque

Che sia mischiato in ogni cosa il tutto

E dentro vi si celi; ma che quello

Un tal corpo apparisca e non un altro,

In cui più misti sono ed al di fuori

Più collocati e nella prima fronte:

Il che pur nondimen lungi è dal vero.

Chè convenia che le minute biade

Sovente ancor da duri sassi infrante

Desser segno di sangue o d'altra cosa

Di cui si nutra il nostro corpo, e sangue

Grondasse dalle pietre allor che l'una

Si stritola con l'altra: e l'erbe ancora

Per la stessa ragione e l'acque insipide

Stillar dovrian di bianco latte e dolce

Soavissime gocce, appunto come

Stillan le mamme dell'irsute pecore;

E della terra le spezzate zolle

Mostrarne erbe diverse e frondi e biade

Minutamente per la terra sparse,

Prima occulte a' nostr'occhi e poi palesi:

Sminuzzando le legna anco vedremmo

Picciole particelle ivi celarsi

E di fumo e di cenere e di foco.

Le quali tutte cose il senso stesso

Esser false n'accerta: onde a me lice

Dedur che misto in ogni cosa il tutto

Esser non può, ma ben convien che i semi

Comuni a molti corpi in molti corpi

Sian mischiati ed occulti in molti modi.

Ma sento un che mi dice — In su gli alpestri

Monti spesso addivien che l'alte piante

Fregan sì le vicine ultime cime

L'una con l'altra, a ciò forzate e spinte

Dal gagliardo soffiar d'austro e di coro,

Che foco n'esce onde s'alluma il bosco. —

Or questo è ver: ma non pertanto innato

Non è l'ardor negli alberi; ma molti

Semi vi son di foco, i quai per quello

Vïolento fregar s'uniscon tosto

Ed accendon le selve: chè, se tanta

Fiamma nascosta entro alle piante fosse,

Non potrebbe giammai celarsi il foco,

Ma serpendo per tutto in un momento

Ogni selva arderebbe ed ogni bosco.

Vedi tu dunque per te stesso omai

Quel che poc'anzi io dissi: importa molto

Come sian misti i primi semi e posti

E quai moti fra lor diano e ricevano;

E puon gli stessi varïati alquanto

Far le legna e le fiamme, appunto come

Puon gli elementi varïati alquanto

Formare et arme et orme e rima e Roma.

Al fin: se ciò ch'è manifesto agli occhi

Credi che non si possa in altra guisa

Crear che di materia a lui simíle,

Perdi 'n tal modo i primi semi affatto;

Poich'è mestier che tremoli e lascivi

Si sganascin di risa, e che di lagrime

Bagnino amaramente ambe le guance.

Su dunque or odi, e viepiù chiaro intendi

Ciò che da dir mi resta. E ben conosco

Quanto sia malagevole ed oscuro:

Ma gran speme di gloria il cor percosso

M'ha già con sì pungente e saldo sprone,

Et insieme ha svegliato entro al mio petto

Un così dolce delle muse amore,

Ch'io stimolato da furor divino

Più di nulla non temo, anzi sicuro

Passeggio delle nove alme sorelle

I luoghi senza strada, e da nessuno

Mai più calcati. A me diletta e giova

Gire a' vergini fonti e inebrïarmi

D'onde non tocche. A me diletta e giova

Coglier novelli fiori, onde ghirlanda

Peregrina ed illustre al crin m'intrecci,

Di cui fin qui non adornâr le muse

Le tempie mai d'alcun poeta tôsco.

Pria, perchè grandi e gravi cose insegno,

E seguo a liberar gli animi altrui

Dagli aspri ceppi e da' tenaci lacci

Della religïon; poi, perchè canto

Di cose oscure in così chiari versi,

E di nèttar febeo tutte le spargo.

Nè questo è, come par, fuor di ragione:

Poichè; qual, se fanciullo a morte langue,

Fisico esperto alla sua cura intento

Suol porgergli in bevanda assenzio tetro,

Ma pria di biondo e dolce mèle asperge

L'orlo del nappo, acciò gustandol poi

La semplicetta età resti delusa

Dalle mal caute labbra e beva intanto

Dell'erba a lei salubre il succo amaro,

Nè si trovi ingannata anzi piuttosto

Sol per suo mezzo abbia salute e vita;

Tal appunto or facc'io, perchè mi sembra

Che le cose ch'io parlo a molti indòtti

Potrian forse parer aspre e malvage,

E so che 'l cieco e sciocco volgo abborre

Da mie ragioni. Io perciò volsi, o Memmo,

Con soave eloquenza il tutto espórti;

E quasi asperso d'apollineo mèle

Te 'l porgo innanzi, per veder s'io posso

In tal guisa allettar l'animo tuo,

Mentre tu vedi in questi versi miei

Quanto dipinta sia l'alma natura

Vaga, adorna, gentil, leggiadra e bella.

Ma; perch'io già mostrai che i primi corpi

Infrangibili sono, e sempre invitti

Volano eternamente; or su veggiamo

Se la somma di tutti abbia prescritto

Termine o no: e; perchè il vôto ancora,

O luogo o spazio ove si forma il tutto,

Parimente trovossi; esaminiamo

S'egli sia circoscritto o pur s'estenda

Profondissimamente in tratto immenso.

Il tutto adunque in infinito è sparso

Per ogni banda: poich'aver dovrebbe

Qualche termine estremo, il qual non puote

Aver nulla giammai s'un'altra cosa

Non è fuori di lui che lo circondi:

Ma, perchè fuor del tutto esser non puote

Niente al certo, ei non ha dunque alcuno

Termine o fine o mèta: e non importa

In qual parte tu sia; qualunque luogo

Che tu possegga, d'ogni intorno lascia

Egualmente altro spazio in infinito.

In oltre: dato che finito fosse

Tutto quant'è lo spazio, io ti domando:

S'alcun giungesse all'ultimo confine

E fuor vibrasse una saetta alata,

Che vuoi piuttosto? ch'ella spinta innanzi

Dalla robusta man volando gisse

Là dove fosse indirizzata? o pensi

Che qualche cosa le impedisse il moto?

Qui d'uopo è pur che l'uno o l'altro accetti

E lo creda per ver: ma l'un e l'altro

Ti racchiude ogni scampo, anzi ti sforza

A confessar l'immensità del mondo:

Poichè, o venga impedita e le sia tolto

Il girne ove fu spinta o fuor se 'n voli,

Esser non può nell'ultimo confine

Dell'universo. E nella stessa guisa

Seguirò l'argomento incominciato,

E, dovunque tu ponga il fine estremo,

Domanderotti ciò che finalmente

Alla freccia avverrà. Confessa dunque

Che incircoscritto è 'l mondo e che non hai

Da sì fatte ragioni onde schermirti.

In oltre ancor: se terminato fosse

D'ogni intorno lo spazio ove la somma

Si genera del tutto, i primi semi

Spinti dal proprio peso all'imo fondo

Già sarebber concorsi, e sotto il cielo

Nulla potria formarsi; anzi non fôra

Più nè cielo nè sole, ove giacesse

Confusa in una massa ogni materia

Fin da tempo infinito in giù caduta.

Ma or non è concesso alcun riposo

A' corpi de' principii, perchè l'imo

Centro dell'universo in van si cerca

Ove concorrer tutti, ove la sede

Possan fermare; e con perpetuo moto

Si genera ogni cosa in ogni parte,

E per tempo infinito omai commossi

Della prima materia i corpi eterni

Son sempre in pronto in questo spazio immenso.

Finalmente abbiam posto innanzi agli occhi

Che l'un corpo dall'altro è circoscritto:

L'aer termina i colli, e l'aura i monti,

La terra il mare, il mar la terra: e nulla

Non è che fuor dell'universo estenda

I suoi propri confini. È la natura

Del luogo adunque e del profondo spazio

Tal, ch'i fiumi più torbidi e più rapidi

Non potrebber correndo eternamente

Giungerne al fin giammai, nè far che meno

Da correr li restasse. Or così grande

Copia di luogo han d'ogn'intorno i corpi

Senza fin, senza mèta e senza termine.

Che poi la somma delle cose un fine

A sè medesma apparecchiar non possa

Ben provide natura. Essa circonda

Sempre col vôto il corpo, ed all'incontro

Col corpo il vôto, e così rende immenso

L'uno e l'altro di lor. Chè, s'un de' due

Fosse termin dell'altro, egli fuor d'esso

Troppo si stenderebbe; e non potria

Durar nell'universo un sol momento,

Nè la terra nè 'l mar nè i templi lucidi

Delle stelle e del sol nè l'uman genere

Nè degli dèi superni i santi corpi:

Conciossiachè, scacciati i primi semi

Dalla propria unïon, liberi e sciolti

Correr dovrian per lo gran vano a volo;

O piuttosto non mai sariansi uniti

Nè generato alcuna cosa al mondo

Avrian; poichè scagliati in mille parti

Non avrebber potuto esser congiunti.

Chè certo è ben ch'i genitali corpi

Con sagace consiglio e scaltramente

Non s'allogâr per ordine nè certo

Seppe ciascun di lor che moti ei desse;

Ma, perchè molti in molti modi e molti

Varïati per tutto e già percossi

Da colpi senza numero, ogni sorte

Di moto e d'unïon provando, al fine

Giunsero ad accozzarsi in quella forma

Che già la somma delle cose mostra

E ch'ella ancor per molti lunghi secoli

Ha già serbato e serba: poichè, tosto

Ch'ell'ebbe una sol volta i movimenti

Confacevoli a lei, potette oprare

Sì, che l'avido mar ritorni intero

Per l'onde che da' fiumi in copia grande

Vi concorrono ognora, e che la terra

Ristorata dal sol rinnovi i parti,

Fertile il suol d'ogni animal fiorisca,

E dell'etere in somma ancor che labili

Vivan l'auree fiammelle: il che per certo

Far non potrian, se la materia prima

Non sorgesse per tutto e ristorasse

Ciò che nel mondo ad or ad or vien meno.

Poichè, qual senza pasto ogni animale

Disperde in varie parti il proprio corpo,

Tal appunto dovrian tutte le cose,

Se gli mancasse il consueto cibo

Della materia, dissiparsi anch'elle.

Nè colpo esterno vi sarebbe alcuno

Bastante a conservarle. I corpi in vero,

Che l'urtan d'ogni intorno, assai sovente

Ponno in parte impedirle infin che giunga

Materia che supplisca a ciò che manca:

Ma pur talvolta ripercossi indietro

Saltano, e insieme a' primi semi danno

Luogo e tempo alla fuga, ond'ognun d'essi

Sciolto da' lacci suoi ratto se 'n vola.

Dunqu'è mestier che d'ogn'intorno germini

Molta prima materia, anzi infinita,

Acciò restauri il tutto e l'urti e 'l cinga.

Or sopra ogni altra cosa avverti, o Memmo,

Di non dar fede a quel che dice alcuno;

Cioè, ch'al centro della somma il tutto

D'andar si sforza, e che in tal guisa il mondo

Privo è di colpi esterni, e mai non ponno

Dissiparsi e fuggirsi in altro luogo

I sommi corpi e gl'imi, avendo tutti

Natia propensïon di gire al centro

(Se credi pur che qualche cosa possa

In sè stessa fermarsi, e che quei pesi

Ch'or sono in terra di poggiar si sforzino

Tutti per aria e poi di nuovo in terra

Ricadendo posarsi, appunto come

Veggiam far delle cose ai simolacri

Per entro alle chiar'onde e negli specchi):

E nella stessa guisa ogni animale

Voglion che vaghi in terra, e che non possa

Quindi altramente sormontare in cielo

Nulla che sia quaggiù, che i corpi nostri

Possan leggieri e snelli a lor talento

Volarne all'etra ed abitar le stelle;

Mentre alcuni di noi mirano il sole,

Altri mirar della trapunta notte

I lucidi carbonchi, e le stagioni

Varie dell'anno e i giorni lunghi e i brevi

Con moto alterno esser fra noi divisi

Dal gran pianeta che distingue l'ore.

Ma tutto questo abbia pur finto ad essi

Un vano error, poi che balordi e ciechi

Per non dritto sentier s'incamminaro.

Chè centro alcuno esser non puote al certo

Ove immenso è lo spazio; e, se pur centro

Vi fosse, per tal causa ei non potrebbe

Ivi piuttosto alcuna cosa starsi

Che in qualsivoglia regïon lontana.

Poi ch'ogni luogo ed ogni vôto spazio

E per lo centro e fuor del centro deve

Egualmente lasciar libero il passo

A peso eguale ovunque il moto ei drizzi:

Nè l'intero universo ha luogo alcuno

Ove giungendo finalmente i corpi

Perdono il peso e si ristian nel vôto:

Nè ciò ch'è vôto resistenza farli

Potrà giammai nè raffrenarli il corso,

Ovunque la natura gli trasporti.

Dunque le cose in guisa tale unite

Star non potranno a ciò forzate e spinte

Dal nativo desio di gire al centro.

In oltre: ancora essi non fan che tutte

Corrano al centro, ma la terra e l'onde

Del mar de' fiumi e delle fonti, e solo

Ciò ch'è composto di terreno corpo.

Ma pel contrario poi voglion che l'aria

Lungi se 'n voli e similmente il foco:

E che per questo d'ogn'intorno in cielo

Scintillino le stelle e 'l sol fiammeggi,

Perchè fuggendo dalla terra il caldo

Al ciel sen poggi e vi raccolga il foco

(Poichè pur della terra anco si pasce

Ogni cosa mortal; nè mai potrebbero

Gli alberi produr frutti o fiori o frondi,

Se a poco a poco la gran madre il cibo

Non gli porgesse). Ma di sopra poi

Credon che un ampio ciel circondi e copra

Tutte le cose; acciò d'augelli in guisa

I recinti di fiamme in un baleno

Non fuggan via per lo gran vano a volo,

E che nel modo stesso ogni altra cosa

Si dissolva in un tratto e del tonante

Cielo il tempio superno in giù rovini,

E che di sotto a' piè ratto s'involi

Il nostro globo ascosamente, e tutti

Fra precipizi in un confusi e misti

Della terra e del cielo i propri corpi

Dissolvano in più parti e corran tosto

Pel vôto immenso; onde in un sol momento

Di tante meraviglie altro non resti

Che lo spazio deserto e i ciechi semi.

Poichè, in qualunque luogo i corpi restino

Privi di freno, in questo luogo appunto

Spalancata una porta avran le cose

Per gire a morte; ed ogni turba quindi

Della prima materia in fuga andranne.

Or; se tu leggerai quest'operetta

Attentissimamente, e tutto quello

Ben capirai ch'io ci ragiono dentro;

L'una causa dall'altra a te fia nota;

Nè cieca notte omai potrà impedirti

L'incominciata via, che ti conduce

Di natura a mirar gl'intimi arcani:

Sì le cose alle cose accenderanno

Lume che mostri alla tua mente il vero.

 

 

LIBRO SECONDO

 

Argomento

 

Il Poeta, dopo le lodi della filosofia, al cui studio eccita Memmo, continua a trattare delle qualità degli atomi e in ispecie del loro movimento. — I mutamenti continui a cui vanno sottoposti i corpi non ci permettono di supporre che la materia sia immobile. Donde: 1. il moto è essenziale agli atomi, perchè non v'ha centro ove possano mai fermarsi; 2. questo moto è rapidissimo sopr'ogni altro, perchè il suo teatro essendo il vôto, non ha alcun ostacolo che lo trattenga; 3. la direzione di questo moto è dall'alto al basso, e se alcuni corpi s'elevano come la fiamma, è uno stato forzato, contrario alla loro tendenza propria e naturale; 4. tuttavia non dee credersi che la caduta degli atomi sia rigorosamente perpendicolare; paralleli tra loro non avrebbero mai potuto unirsi in massa: sottoposti ad una direzione necessaria, non avrebbero potuto mai formare anime libere. Bisogna pertanto che si allontanino un poco, ma il meno possibile dalla direzione perpendicolare. Tali sono i moti che gli atomi ebbero sempre e sempre avranno, perchè la quantità di moto è sempre la stessa nella natura. Ecco quanto la ragione ci scopre; perchè i sensi non possono veder l'atomo, non che discernerne i moti. La ragione altresì ci fa conoscere le figure degli atomi; essa ne dice che i corpi i quali ci attorniano non potrebbero impressionare i nostri sensi in tanti modi diversi, se i loro atomi non fossero diversamente configurati. Ma al medesimo tratto essa c'insegna che, sebbene ci sia una infinità di atomi in ogni classe di figure, il numero di queste classi è limitato; non potrebbe essere infinito senza che l'atomo fosse immenso, e le qualità sensibili dei corpi progressive all'infinito. Questo numero poco considerevole di figure, combinato diversamente in tutti i corpi, basta a mettere fra essi quella varietà che vi si scorge. La solidità, l'indivisibilità, l'eternità, il moto e la figura, sono le sole qualità che convengano a corpi semplici come son gli atomi. Rispetto alle qualità che si riferiscono alla vista, all'udito, al gusto e all'odorato, sono senza più il resultato d'un'associazione; attribuirla agli atomi, è dare una base troppo fragile alla natura. Pertanto gli atomi non sono neppure sensibili, e dalla loro situazione e dai loro moti rispettivi dee ripetersi la sensibilità che posseggono certi accozzamenti. Mercè di queste poche qualità che il poeta assegna agli atomi, essi hanno, al parer suo, prodotto non solo il nostro mondo, ma altresì un'infinità d'altri; perchè egli non vuole che si limiti la potenza della natura. Pretende che potendo disporre d'un numero infinito di atomi, quel ch'ella fa quaggiù per noi, lo fa per altri in altre regioni dello spazio, e che il nostro mondo è senza più un individuo particolare d'una classe numerosa, un grande animale, sottoposto, come gli altri, alla nascita, all'incremento, alla declinazione e alla morte.

 

Dolce è mirar da ben sicuro porto

L'altrui fatiche all'ampio mare in mezzo,

Se turbo il turba o tempestoso nembo;

Non perchè sia nostro piacer giocondo

Il travaglio d'alcun, ma perchè dolce

È se contempli il mal di cui tu manchi:

Nè men dolce è veder schierati in campo

Fanti e cavalli e cavalieri armati

Far tra lor sanguinose aspre battaglie.

Ma nulla mai si può chiamar più dolce

Ch'abitar, che tener ben custoditi

De' saggi i sacri templi onde tu possa,

Quasi da rôcca eccelsa ad umil piano,

Chinar tal volta il guardo, e d'ogn'intorno

Mirar gli altri inquïeti e vagabondi

Cercar la via della lor vita, e sempre

Contender tutti o per sublime ingegno

O per nobile stirpe, e giorno e notte

Durare intollerabili fatiche

Sol per salir delle ricchezze al sommo

E potenza acquistar, scettri e corone.

Povere umane menti, animi privi

Del più bel lume di ragione, oh quanta

Quant'ignoranza è quella che vi offende!

Ed oh fra quanti perigliosi affanni

Passate voi questa volante etade

Che ch'ella siasi! Or non vedete aperto

Che nulla brama la natura e grida

Altro già mai, se non che sano il corpo

Stia sempre e che la mente ognor gioisca

De' piaceri del senso e da sè lungi

Cacci ogni noia ed ogni tema in bando?

Chiaro dunque n'è pur che poco è 'l nostro

Bisogno, onde la vita si conservi,

Onde dal corpo ogni dolor si scacci.

Che s'entro a regio albergo intagli aurati

Di vezzosi fanciulli accese faci

Non tengon nelle destre, ond'abbian lume

Le notturne vivande emulo al giorno;

Se non rifulge ampio palagio e splende

D'argento e d'òr; se di soffitte aurate

Tempio non s'orna e di canore cetre

Risonar non si sente; ah che, distesi

Non lungi al mormorar d'un picciol rio

Che 'l prato irrighi, i pastorelli all'ombra

D'un platano selvaggio, allegri danno

Il dovuto ristoro al proprio corpo;

Massime allor che la stagion novella

Gli arride e l'erbe di be' fior cosperge.

Nè più tosto già mai l'ardente febbre

Si dilegua da te, se d'oro e d'ostro

E d'arazzi superbi orni il tuo letto,

Che se in veste plebea le membra involgi.

Onde, poscia che nulla al corpo giova

Onor ricchezza nobiltade o regno,

Creder anco si dee che nulla importi

Il rimanente all'animo: se forse,

Qualor di guerra in simolacro armate

Miri le squadre tue, non fugge allora

Ogni religïon dalla tua mente

Da tal vista atterrita, e non ti lascia

Il petto allora il rio timor di morte

Libero e sciolto e d'ogni cura scarco.

Che se tai cose esser veggiam di riso

Degne e di scherno, e che i pensier noiosi

Degli uomini seguaci e le paure

Pallide e macilenti il suon dell'armi

Temer non sanno e delle frecce il rombo;

Se fra' regi e potenti han sempre albergo

Audacemente, e non apprezzan punto

Nè dell'oro il fulgor nè delle vesti

Di porpora imbevute i chiari lampi;

Qual dubbio avrai che tutto questo avvenga

Sol per mancanza di ragione, essendo

Massime tutto quanto il viver nostro

Nell'ombra involto di profonda notte?

Poichè, siccome i fanciulletti al buio

Temon fantasmi insussistenti e larve,

Sì noi tal volta paventiamo al sole

Cose che nulla più son da temersi

Di quelle che future i fanciulletti

Soglion fingersi al buio e spaventarsi.

Or sì vano terror sì cieche tenebre

Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo,

Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi

Dardi del giorno a saettar poc'abili

Fuor che l'ombre notturne e i sogni pallidi,

Ma col mirar della natura e intendere

L'occulte cause e la velata imagine.

Su dunque: io prendo a raccontarti, o Memmo,

Come della materia i primi corpi

Generin varie cose, e, generate

Ch'e l'hanno, le dissolvano, e da quale

Vïolenza a far ciò forzati sieno,

E qual abbiano ancor principio innato

Di muoversi mai sempre e correr tutti

Or qua or là per lo gran vano a volo.

Tu ciò ch'io parlo attentamente ascolta.

Chè certo i primi semi esser non ponno

Tutti insieme fra lor stivati affatto;

Veggendo noi diminuirsi ogn'ora

E per soverchia età languir le cose

E sottrar la vecchiezza agli occhi nostri,

Mentre che pur salva rimane in tanto

La somma; con ciò sia che, da qualunque

Cosa il corpo s'involi, ond'ei si parte

Toglie di mole, e dov'ei viene accresce,

E fa che questo invecchia e quel fiorisce,

Nè punto vi si ferma. In cotal guisa

Il mondo si rinnova, et a vicenda

Vivon sempre fra lor tutti i mortali.

S'un popol cresce, uno all'incontro scema;

E si cangian l'etadi in breve spazio

Degli animali, e della vita accese,

Quasi cursori, han le facelle in mano.

Se credi poi che delle cose i semi

Possan fermarsi e nuovi moti dare

In tal guisa alle cose, erri assai lunge

Fuor della dritta via della ragione.

Poi che, vagando per lo spazio vôto

Tutti i principii, è pur mestiero al certo

Che sian portati o dal lor proprio peso

O forse spinti dall'altrui percosse;

Poi che, allor ch'e' s'incontrano e di sopra

S'urtan veloci l'un con l'altro, avviene

Che vari in varie parti si riflettono:

Nè meraviglia è ciò, perchè durissimi

Son tutti e nulla gl'impedisce a tergo.

Et acciò che tu meglio anco comprenda

Che tutti son della materia i corpi

Vibrati eternamente, or ti rammenta

Che non ha centro il mondo ove i principii

Possan fermarsi, et è lo spazio vôto

D'ogn'intorno disteso in ogni parte

Senza fin, senza meta e senza termine,

Conforme innanzi io t'ho mostrato a lungo

Con vive e gagliardissime ragioni.

Il che pur noto essendo, alcuna quiete

Per lo vano profondo i corpi primi

Non han già mai; ma, più e più commossi

Da forza interna irrequïeta e varia,

Una parte di lor s'urta e risalta

Per grande spazio ripercossa e spinta,

Un'altra ancor per piccoli intervalli

Vien per tal colpo a raggrupparsi insieme,

E tutti quei che, d'unïon più densa

Insieme avviluppati ed impediti

Dall'intrigate lor figure, ponno

Sol risaltar per breve spazio indietro,

Formano i cerri e le robuste querce

E del ferro feroce i duri corpi

E i macigni e i dïaspri e gli adamanti:

Quelli che vagan poi pel vôto immenso

E saltan lungi assai veloci e lungi

Corron per grande spazio in varie parti,

Posson l'aere crearne e l'aureo lume

Del sole e delle stelle erranti e fisse.

Ne vanno ancor per lo gran vano errando

Senz'unirsi già mai, senza potere

Accompagnar non ch'altro i propri moti.

Della qual cosa un simulacro vivo

Sempre innanzi a' nostri occhi esposto abbiamo:

Poscia che, rimirando attento e fiso,

Allor che 'l sol co' raggi suoi penétra

Per picciol fôro in una buia stanza,

Vedrai mischiarsi in luminosa riga

Molti minimi corpi in molti modi,

E quasi a schiere esercitar fra loro

Perpetue guerre, or aggrupparsi ed ora

L'un dall'altro fuggirsi e non dar sosta:

Onde ben puoi congetturar da questo

Qual sia l'esser vibrati eternamente

Per lo spazio profondo i primi semi.

Sì le picciole cose a noi dar ponno

Contezza delle grandi e i lor vestigi

Quasi additarne e la perfetta idea.

Tieni a questo, oltr'a ciò, l'animo attento:

Ciò è, che i corpi, che vagar tu miri

Entro a' raggi del sol confusi e misti,

Mostrano ancor che la materia prima

Ha moti impercettibili ed occulti.

Chè molti quivi ne vedrai sovente

Cangiar viaggio, e risospinti indietro

Or qua or là or su or giù tornare

E finalmente in ogni parte. E questo

È sol perchè i principii, i quai per sè

Muovonsi, e quindi poi le cose piccole

E quasi accosto alla virtù de' semi,

Dagli occulti lor colpi urtate, anch'elleno,

Vengon commosse, ed esse stesse poi

Non cessan d'agitar l'altre più grandi.

Così dai primi corpi il moto nasce,

E chiaro fassi a poco a poco al senso;

Sì che si muovon quelle cose al fine

Che noi per entro a' rai del sol veggiamo,

Nè per qual causa il fanno aperto appare.

Or che principio da natura i corpi

Della prima materia abbian di moto

Quindi imparar puoi brevemente, o Memmo.

Pria; quando l'alba di novella luce

Orna la terra e che per l'aer puro

Vari augelli volando in dolci modi

D'armonïose voci empion le selve,

Come ratto allor soglia il sol nascente

Sparger suo lume e rivestirne il mondo,

Veggiam ch'è noto e manifesto a tutti:

Ma quel vapor quello splendor sereno,

Ch'ei da sè vibra, per lo spazio vôto

Non passa; ond'è costretto a gir più tardo,

Quasi dell'aere allor l'onde percuota:

Nè van disgiunti i corpicelli suoi,

Ma stretti ed ammassati; onde fra loro

Insieme si ritirano, e di fuori

Han mille intoppi, in guisa tal che pure

Vengon forzati ad allentare il corso.

Non così fanno i genitali corpi

Per lor simplicitade impenetrabili:

Ma; quando volan per lo spazio vôto,

Nè fuor di loro impedimento alcuno

Trovan che gli trattenga, e, dai lor luoghi

Tosto che mossi son verso una sola

Verso una sola parte il volo indrizzano;

Debbono allor viepiù veloci e snelli

De' rai del sol molto maggiore spazio

Passar di luogo in quel medesmo tempo

Ch'i folgori del sol passano il cielo;

Poscia che da consiglio o da sagace

Ragione i primi semi esser non ponno

Impediti già mai nè ritardati,

Nè vanno ad una ad una investigando

Le cose per conoscere in che modo

Nell'universo si produca il tutto.

Ma sono alcuni che di questo ignari,

Si credon che non possa la natura

Della materia per se stessa e senza

Divin volere in così fatta guisa

Con umane ragioni e moderate

Mutare i tempi e generar le biade,

Nè far null'altro a cui di gire incontra

Persuade i mortali e gli accompagna

Qual gran piacer che della vita è guida,

Acciò le cose i secoli propaghino

Con veneree lusinghe e non perisca

L'umana specie: onde, che fosse il tutto

Per opra degli dèi fatto dal nulla,

Fingono. Ma, per quanto a me rassembra

Essi in tutte le cose han travïato

Molto dal ver: poichè, quantunque ignoti

Mi sian della materia i primi corpi,

Io non per tanto d'affermare ardisco,

Per molte e molte cause e per gli stessi

Movimenti del ciel, che l'universo

Che tanto è difettoso esser non puote

Da Dio creato: e quant'io dico, o Memmo,

Dopo a suo luogo narrerotti a lungo.

Or del moto vo' dir quel che mi resta.

Qui, s'io non erro, di provarti è luogo

Che per se stessa alcuna cosa mai

Non può da terra sormontare in alto.

Nè già vorrei che t'ingannasse il foco

Ch'all'insù si produce e cibo prende.

E le nitide biade e l'erbe e i fiori

E gli alberi all'insù crescono anch'essi,

Benchè per quanto s'appartiene a loro,

Tutti e sempre all'ingiù caschino i pesi.

Nè creder dêi che la vorace fiamma,

Allor che furïosa in alto ascende

E dell'umili case e de' superbi

Palagi i tetti in un momento atterra,

Opri ciò da sè stessa e senza esterna

Forza che l'urti. Il che pur anco accade

Al nostro sangue, se dal corpo spiccia

Per piccola ferita e poggia in aria

E 'l suolo asperge di vermiglie stille.

Forse non vedi ancor con quanta forza

Risospinga all'insù l'umor dell'acqua

Le travi e gli altri legni? poichè, quanto

Più altamente gli attuffiamo in essa

E con gran vïolenza a pena uniti

Molti di noi ve gli spingiam per dritto,

Ella tanto più ratta e desïosa

Da sè gli scaccia e gli rigetta in alto

In guisa tal, che quasi fuori affatto

Sorgon dall'onde ed all'insù risaltano:

Nè per ciò dubitiamo, al parer mio,

Che per sè stesse entro lo spazio vôto

Scendan le travi e gli altri legni al basso.

Ponno dunque in tal guisa anco le fiamme

Dall'aria che le cinge in alto espresse

Girvi quantunque per sè stessi i pesi

Si sforzin sempre di tirarle al basso.

E non vedi tu forse al caldo estivo

Le notturne del ciel faci volanti

Correr sublimi e menar seco un lungo

Tratto di luce in qualsivoglia parte

Gli apra il varco natura? Il sole ancora,

Quando al più alto suo meriggio ascende,

L'ardor diffonde d'ogn'intorno e sparge

Di lume il suol: verso la terra adunque

Vien per natura anco l'ardor del sole.

I fulmini volar miri a traverso

Le grandinose piogge: or quinci or quindi

Dalle nubi squarciate i lampi strisciano,

E caggion spesso anco le fiamme in terra.

Bramo, oltr'a ciò, che tu conosca, o Memmo,

Che, mentre a volo i genitali corpi

Drittamente all'ingiù vanno pel vôto,

D'uopo è ch'in tempo incerto in luogo incerto

Sian fermamente da' lor propri pesi

Tutti sforzati a declinare alquanto

Dal lor dritto vïaggio, onde tu possa

Solo affermar che sia cangiato il nome,

Poichè, se ciò non fosse, il tutto al certo

Per lo vano profondo in giù cadrebbe

Quasi stille di pioggia, e mai non fôra

Nato fra i primi semi urto o percossa,

Onde nulla già mai l'alma natura

Crear potrebbe. Che se pure alcuno

Si pensa forse ch'i più gravi corpi

Scendan più ratti per lo retto spazio

E per di sopra ne' più lievi inciampino,

Generando in tal guisa urti e percosse

Che possan dare i genitali moti;

Erra senz'alcun dubbio, e fuor di strada

Dalla dritta ragion molto si scosta.

Poscia che ben ciò che per l'aria e l'acqua

Cade all'ingiuso il suo cadere affretta

E de' pesi a ragion ratto discende,

Perchè il corpo dell'acqua e la natura

Tenue dell'aria trattener non puote

Ogni cosa egualmente e vie più presto

Convien che vinta alle più gravi ceda:

Ma pel contrario in alcun tempo il vôto

In parte alcuna alcuna cosa mai

Non basta ad impedire, ond'ella il corso

Non segua ove natura la trasporta;

Onde tutte le cose, ancor che mosse

Da pesi disuguali, aver dovranno

Per lo vano quïeto egual prestezza.

Non ponno dunque ne' più lievi corpi

Inciampare i più gravi e per di sopra

Colpi crear per sè medesmi, i quali

Faccian moti diversi, onde natura

Produca il tutto: ed è pur forza al certo

Che dechinino alquanto i primi semi,

Nè più che quasi nulla; acciò non paia

Ch'io finga adesso i movimenti obliqui

E che ciò poi la verità rifiuti.

Poscia ch'a tutti è manifesto e conto

Che mai non ponno per sè stessi i pesi

Fare obliquo viaggio, allor che d'alto

Veder gli puoi precipitare al basso:

Ma che i principii poi non torcan punto

Dalla lor dritta via, chi veder puote?

Se finalmente ogni lor moto sempre

Insieme si raggruppa e dall'antico

Sempre con ordin certo il nuovo nasce,

Nè travïando i primi semi fanno

Di moto un tal principio, il qual poi rompa

I decreti del fato, acciò non segua

L'una causa dall'altra in infinito;

Onde nel mondo gli animali han questa,

Onde han questa, dich'io, dal fato sciolta

Libera volontà, per cui ciascuno

Va dove più gli aggrada? I moti ancora

Si dechinan sovente, e non in certo

Tempo nè certa regïon, ma solo

Quando e dove comanda il nostro arbitrio;

Poichè senz'alcun dubbio a queste cose

Dà sol principio il voler proprio, e quindi

Van poi scorrendo per le membra i moti.

Non vedi ancor che i barbari cavalli

Allor che disserrata in un sol punto

È la prigion, non così tosto il corso

Prendon come la mente avida brama?

Poichè per tutto il corpo ogni materia

Atta a far ciò dee sollevarsi e spinta

Scorrer per ogni membro, acciò con essa

Della mente il desio possa seguire.

Onde conoscer puoi che 'l moto nasce

Dal cuore, e che ciò pria dal voler nostro

Procede e quindi poi per tutto il corpo

E per tutte le membra si diffonde.

Nè ciò avvien come quando a forza siamo

Cacciati innanzi; poi che allora è noto

Ch'è rapita dal corpo ogni materia

Ad onta nostra in fin che per le membra

Un libero voler possa frenarla.

Già veder puoi come, quantunque molti

Da vïolenza esterna a lor mal grado

Sian forzati sovente a gire innanzi

E sospinti e rapiti a precipizio,

Noi non per tanto un non so che nel petto

Nostro portiam che di pugnarle incontra

Ha possanza e d'ostarle, al cui volere

Dalla stessa materia anco la copia

Talor forzata a scorrer per le membra

E cacciata si frena e torna indietro.

Per la qual cosa confessar t'è forza

Che questo stesso a' primi semi accaggia,

E ch'oltre a' pesi alle percosse agli urti

Abbian qualch'altra causa i moti loro;

Onde poscia è con noi questa possanza

Nata; perchè già mai nulla del nulla

Non poter generarsi è manifesto.

Chè vieta il peso che per gli urti il tutto

Formato sia quasi da forza esterna:

Ma, che la mente poi d'uopo non abbia

Di parti interïori ond'ella possa

Far poi tutte le cose e vinta sia

A soffrire, a patir quasi costretta,

Ciò puote cagionar de' primi corpi

Il picciol devïar dal moto retto

Nè mica in luogo certo o certo tempo.

Nè fu già mai della materia prima

Più stivata la copia o da maggiori

Spazi divisa; poichè quindi nulla

S'accresce o scema. Onde quel moto in cui

Son ora i primi corpi in quel medesmo

Furono ancor nella trascorsa etade

E fian nella futura; e tutto quello

Che fin qui s'è prodotto è per prodursi

Anco nell'avvenire, e con le stesse

Condizïoni e nella stessa guisa

Essere e crescer debbe, e tanta possa

Avere in sè medesmo a punto quanta

Per naturale invarïabil legge

Gli fu sempre concessa. Nè la somma

Varïar delle cose alcuna forza

Non può già mai; perchè, nè dove alcuna

Spezie di semi a ricovrar se 'n vada

Lungi dal tutto non si trova al mondo,

Nè meno ond'altra vïolenza esterna

Crear si possa e penetrar nel tutto

Impetuosamente e la natura

Mutarne e volger sottosopra i moti.

Non creder poi che maraviglia apporti

Che, essendo tutti i primi semi in moto

La somma non pertanto in somma quiete

Paia di star, se non se fosse alcuno

Mostra del proprio corpo i movimenti.

Poscia che de' principii ogni natura

Lungi da' nostri sensi occulta giace:

Onde, se quelli mai veder non puoi,

Ti fien anco nascosti i moti loro;

Massime perchè spesso accader suole

Che quelle cose che veder si ponno

Celan mirate da lontana parte

Anch'elle i propri moti agli occhi nostri.

Poichè sovente in un bel colle aprico

Le pecore lanute a passi lenti

Van bramose tosando i lieti paschi,

Ciascuna ove la chiama, ove l'invita

La di fresca rugiada erba gemmante,

E vi scherzan lascivi i grassi agnelli

Vezzosamente saltellando a gara:

E pur tai cose, se da lungi il guardo

Vi s'affissa da noi, sembran confuse

E ferme, quasi allor s'adorni e veli

Di bianca sopravvesta il verde colle.

In oltre; allor che poderose e grandi

Schiere di guerra in simolacro armate

Van con rapido corso i campi empiendo,

E su prodi cavalli i cavalieri

Volan lungi dagli altri e furibondi

Scuoton con urto impetuoso il campo;

Quivi al cielo il fulgor se stesso inalza,

Quivi splende la terra, e l'aria intorno

Arde tutta e lampeggia, e sotto i piedi

De' valorosi eroi s'eccita un suono,

Che misto con le strida e ripercosso

Dai monti in un balen s'erge alle stelle:

E pur luogo è ne' monti onde ci sembra

Starsi nel campo un tal fulgore immoto.

Or via; da quinci innanzi intendi omai

Quali sian delle cose i primi semi,

E quanto l'un dall'altro abbian diverse

E difformi le forme e le figure,

Non perchè sian di poco simil forma

Molti di lor, ma perchè tutti eguali

D'ogn'intorno non han tutte le cose.

Nè maraviglia è ciò; poscia che, essendo

Tanta la copia lor che fine o somma,

Come già dimostrammo, aver non puote,

Ben creder deesi che non tutti in tutto

Possan tutte le parti aver dotate

D'egual profilo o di simil figura.

Oltr'a ciò, l'uman germe e i muti armenti

Degli squammosi pesci e i lieti arbusti

E le fere selvagge e i vari augelli,

O vuoi quei che dell'acque i luoghi ameni

Amano e vansi spazïando intorno

Alle rive de' fiumi ai fonti, ai laghi,

O quei che delle selve abitatori

Volan di ramo in ramo: or tu di questi

Segui pur a pigliar qual più t'aggrada

Generalmente, e troverai che tutti

Han figure diverse e forme varie.

Nè potrebbero i figli in altra guisa

Raffigurar le madri nè le madri

Riconoscere i figli: e pur veggiamo

Che ciò far ponno e senza error, non meno

Che gli uomini fra lor si raffigurano.

Poichè sovente innanzi ai venerandi

Templi de' sommi dèi cade il vitello

Presso a fumante altar d'arabo incenso,

E dal petto piagato un caldo fiume

Sparge di sangue: ma l'afflitta ed orba

Madre pe' boschi errando in terra lascia

Del bipartito piede impresse l'orme;

Cerca con gli occhi ogni riposto luogo

S'ella veder pur una volta possa

Il perduto suo parto, e ferma spesso

Di queruli muggiti empie le selve,

E spesso torna dal desio trafitta

Del caro figlio a riveder la stalla:

Nè rugiadose erbette o salci teneri,

Mormoranti ruscelli o fiumi placidi

Non posson dilettarla o svïar punto

L'animo suo dalla noiosa cura,

Nè degli altri giovenchi altrove trarla

Le mal note bellezze, o i grassi paschi

Allevïarle il duol che la tormenta:

Sì va cercando un certo che di proprio

Ed a lei manifesto. I tenerelli

Capretti inoltre alle lor voci tremole

Et al rauco belar gli agni lascivi

Riconoscono pur l'irsute madri

E le lanose. In cotal guisa ognuno,

Qual natura richiede, il dolce latte

Delle proprie sue mamme a sugger corre.

Di grano al fin qualunque specie osserva;

E vedrai nondimen ch'ei non ha tanta

Somiglianza fra sè, ch'anco non abbia

Qualche difformitade: e per la stessa

Ragion vedrai che della terra il grembo

Dipingon le conchiglie in varie guise

Là dove bagna il mar con l'onde molli

Del curvo lido l'assetata arena.

Onde senz'alcun dubbio è pur mestiero

Che per la stessa causa i primi corpi

Poscia che son dalla natura anch'essi

E non per opra manual formati,

Abbian varie fra lor molte figure.

Già sciôr possiamo agevolmente il dubbio,

Per qual cagione i fulmini cadenti

Molto più penetrante abbiano il foco

Di quel che nasce da terrestri faci:

Con ciò sia che può dirsi che, il celeste

Ardor del fulmin più sottile essendo,

Composto sia di piccole figure,

Onde penétri agevolmente i fóri

Che non può penetrare il foco nostro

Generato da' legni. In oltre; il lume

Passa pe 'l corno, ma la pioggia indietro

Ne vien rispinta; or per qual causa è questo,

Se non perchè del lume assai minori

Gli atomi son di quegli onde si forma

L'almo liquor dell'acque? E perchè tosto

Vegghiam colarsi il vino, ed il restio

Olio all'incontro trattenersi un pezzo?

O perchè gli ha maggiori i propri semi

O più curvi e l'un l'altro in vari modi

A foggia d'ami avviluppati insieme;

Ond'avvien poi che non sì presto ponno

L'un dall'altro strigarsi e penetrare

I fóri ad uno ad uno e fuori uscirne.

S'arroge a ciò; che con soave e dolce

Senso gusta la lingua il biondo mèle

E 'l bianco latte; ed all'incontro il tetro

Amarissimo assenzio e 'l fier centauro

Con orribil sapor crucia il palato;

Ond'apprender tu possa agevolmente

Che son composti di rotondi e lisci

Corpi que' cibi che da noi gustati

Posson toccar soavemente il senso;

Ma quelle cose poi ch'acerbe ed aspre

Ci sembrano i lor semi hanno all'incontro

Vie più adunchi e l'un l'altro a foggia d'ami

Strettamente intrigati, onde le vie

Sogliono risecar de' nostri sensi

E con l'entrata dissiparne il corpo.

Al fin; tutte le cose al senso grate

E l'ingrate al toccar pugnan fra loro

Per le varie figure onde son fatte:

Acciò tu forse non pensassi, o Memmo,

Che l'aspro orror della stridente sega

Formato fosse di rotondi e lisci

Principii anch'egli, in quella guisa stessa

Che la soave melodia si forma

Da musico gentile, allor che sveglia

Con dotta man l'armonïose corde

Di canoro strumento; e non pensassi

Che con la stessa forma i primi corpi

Possano penetrar nelle narici

Dell'uomo, allor che i puzzolenti e tetri

Cadaveri s'abbruciano ed allora

Che tutta è sparsa di cilicio croco

La nuova scena e di panchei profumi

Arde di Giove il sacrosanto altare;

E non credessi che i color leggiadri

E le nostre pupille a pascer atti

Abbian simíli i propri semi a quelli

Che pungon gli occhi a lagrimar forzando

E paion brutti e spaventosi in vista:

Poichè ogni causa che diletta e molce

I sensi ha lisci i suoi principii al certo;

Ma ciò ch'è pel contrario aspro e molesto

Ha la materia sua scabrosa e rozza.

Son poscia alcuni corpi, i quali affatto

Non debbono a ragion lisci stimarsi

Nè con punte ritorte affatto adunchi;

Poi che più tosto han gli angoletti loro

In fuori alquanto, e che più tosto ponno

Solleticar che lacerare il senso,

Qual può dirsi la feccia ed i sapori

Dell'enula campana. E finalmente

Che la gelida brina e 'l caldo foco,

Dentati in varie guise, in varie guise

Pungono il senso, e l'un e l'altro tatto

Chiaro ne porge e manifesto indizio.

Poscia che 'l tatto, il tatto, oh santi numi!,

Senso è del corpo; o quando alcuna cosa

Esterna lo penétra, o quando nuoce

A quel che gli è nativo, o fuori uscendo

Ne dà venereo genital diletto,

O quando offesi entro lui stesso i semi

Ed insieme commossi ed agitati

Turbano i nostri sensi e gli confondono;

Come potrai sperimentar tu stesso,

Se talor con la man percuoti a caso

Del proprio corpo qualsivoglia parte,

Ond'è mestier che de' principii primi

Sian pur molto fra lor varie le forme,

Che vari sensi han di produr possanza.

Al fin; le cose che più dure e dense

Sembrano agli occhi nostri è d'uopo al certo

Ch'abbiano adunchi i propri semi e quasi

Ramosi e l'un con l'altro uniti e stretti;

Tra le quai senza dubbio il primo luogo

Hanno i diamanti a disprezzare avvezzi

Ogni urto esterno, e le robuste selci

E 'l duro ferro e 'l bronzo il qual percosso

Suol altamente rimbombar ne' chiostri.

Ma quel ch'è poi di liquida sostanza

Convien che fatto di rotondi e lisci

Principii sia; poichè fra lor frenarsi

Non ponno i suoi viluppi e verso il basso

Han volubile il corso. In somma tutto

Ciò che fuggirsi in un sol punto scorgi,

Com'il fumo e la nebbia il foco e 'l vento,

Se men degli altri hanno rotondi e lisci

I lor primi principii, è forza al meno

Ch'e' non gli abbian ritorti e strettamente

L'un con l'altro congiunti, acciò sian atti

A punger gli occhi e penetrar ne' sassi

Senza che stiano avviticchiati insieme:

Il che vede ciascuno esser concesso

Di conoscere a' sensi, onde tu possa

Apprender facilmente ch'e' non sono

Fatti d'adunchi, ma d'acuti semi.

Ma che amari tu vegga i corpi stessi

Che son liquidi e molli, a punto come

È del mare il sudor, non dèi per certo

Meraviglia stimar: poichè, quantunque

Sia ciò ch'è molle di rotondi e lisci

Semi composto, nondimen fra loro

Doloriferi corpi anco son misti:

Nè per ciò fa mestier ch'e' siano adunchi

E l'un l'altro intrigati, ma più tosto

Debbon, benchè scabrosi, esser rotondi,

Acciò che insieme agevolmente scorrere

Possano al basso e lacerare i sensi.

Ma; perchè tu più chiaramente intenda

Esser misti co' lisci i rozzi e gli aspri

Principii, onde ha Nettuno amaro il corpo;

Sappi che dolce aver da noi si puote

L'acqua del mar, pur che per lungo tratto

Sia di terra colata e caggia a stille

In qualche pozza e placida diventi;

Poscia che a poco a poco ella depone

Del suo tetro veleno i semi acerbi,

Come quelli che ponno agevolmente,

Stante l'asprezza lor, fermarsi in terra.

Or, ciò mostrato avendo, io vo' seguire

A congiunger con questo un'altra cosa

Che quindi acquista fede: ed è che i corpi

Della materia varïar non ponno

Le lor figure in infinite guise:

Chè, se questo non fosse, alcuni semi

Già dovrebbon di nuovo ai corpi misti

Apportar infinito accrescimento.

Poichè non in qualunque angusta mole

Si posson molto varïare insieme

Le lor figure: con ciò sia che fingi

Ch'e' sian pur quanto vuoi minuti e piccoli

I primi semi, indi di tre gli accresci

O di poc'altri; e troverai per certo

Che, se tu piglierai tutte le parti

Di qualche corpo, e varïando i luoghi

Sommi con gl'imi e co' sinistri i destri,

Dopo ch'in ogni guisa avrai provato

Qual dia specie di forme a tutto il corpo

Ciascun ordine lor, nel rimanente,

Se tu forse vorrai cangiar figure,

Anco altre parti converratti aggiungere:

Quindi avverrà che l'ordine ricerchi

Per la stessa cagion nuove altre parti,

Se tu forme cangiar vorrai di nuovo.

Dunque col varïar delle figure

S'augumentano i corpi: onde non dèi

Creder che i semi abbian tra lor difformi

Le forme in infinito, acciò non forzi

Ad esser cose smisurate al mondo:

Il che già falso io ti provai di sopra.

Già le barbare vesti e le superbe

Lane di Melibea tre volte intinte

Nel sangue di tessaliche conchiglie,

E dell'aureo pavon l'occhiute penne

Di ridente lepor cosperse intorno,

Da novelli colori oppresse e vinte

Giacerebbero omai; nè della mirra

Sarìa grato l'odor nè del soave

Mèle il sapore; e l'armonia de' cigni

Ed i carmi febei sposati al suono

Di cetra tocca con dedalea mano

Fôran già muti; con ciò sia che sempre

Nascer potriano alcune cose al mondo

Più dell'antiche prezïose e care,

Ed alcun'altre più neglette e vili

Al palato agli orecchi al naso agli occhi.

Il che falso è per certo, ed ha la somma

E dell'une e dell'altre un fin prescritto:

Ond'è pur forza confessar che i semi

Forme infinite varïar non ponno.

Dal caldo, al fine, alle pruine algenti

È finito passaggio, ed all'incontro

Per la stessa ragion dal gelo al foco;

Poichè finisce l'un e l'altro, e posti

Sono il tiepido e 'l fresco a loro in mezzo,

Adempiendo per ordine la somma.

Distanti adunque le create cose

Per infinito spazio esser non ponno,

Poscia c'han d'ogni banda acute punte

Quinci infeste alle fiamme e quindi al ghiaccio.

Il che mostrato avendo, io vo' seguire

A congiunger con questa un'altra cosa

Che quindi acquista fede: ed è che i semi

C'han da natura una figura stessa

Sono infiniti. Con ciò sia che, essendo

Finita delle forme ogni distanza,

Forz'è pur che le simili fra loro

Sian infinite o sia finita almeno

La somma: il che già falso esser provammo.

Or, poi che ciò t'è noto, io vo' mostrarti

In pochi, ma soavi e dolci versi,

Che de' primi principii i corpicciuoli

Sono infiniti in qualsivoglia specie

Di forme, e sol così posson la somma

Delle cose occupar, continuando

D'ogn'intorno il tenor delle percosse.

Poichè, se ben tu vedi esser più rari

Certi animali e men feconda in essi

La natura ti par, ben puote un'altra

O terra o luogo o regïon lontana

Esserne piu ferace ed adempirne

In cotal guisa il numero: sì come

Veggiam che fra i quadrupedi succede

Spezialmente agli anguimani elefanti;

De' quai l'India è sì fertile che cinta

Sembra d'eburneo impenetrabil vallo,

Tal di quei bruti immani ivi è la copia;

Benchè fra noi se ne rimiri a pena

Qualch'esempio rarissimo. Ma; posto

Che fosse al mondo per natura un corpo

Cotanto singolar ch'a lui simíle

Null'altro sia nell'universo intero;

Se non per tanto de' principii suoi

Non fia la moltitudine infinita,

Ond'egli concepirsi e generarsi

Possa, non potrà mai nascere al mondo

Nè, benchè nato, alimentarsi e crescere.

Poichè fingi con gli occhi che finiti

Semi d'una sol cosa in varie parti

Vadan pel vano immenso a volo errando:

Onde, dove, in che guisa e con qual forza,

In così vasto pelago e fra tanta

Moltitudine altrui, potranno insieme

Accozzarsi giammai? Per quanto io credo,

Ciò non faranno in alcun modo al certo.

Ma; qual, se nasce in mezzo all'onde insane

Qualche grave naufragio, il mar cruccioso

Sparger sovente in varie parti suole

Banchi, antenne, timoni, alberi e sarte,

Poppe e prore e trinchetti e remi a nuoto.

In guisa che mirar puote ogni spiaggia

Delle navi sommerse i fluttuanti

Arredi, ch'avvertir dovrian ciascuno

Mortale ad ischifar del mare infido

E l'insidie e la forza e i tradimenti

Nè mai fidarsi ancor che alletti e rida

L'ingannatrice sua calma incostante:

Tal, se tu fingi in qualche specie i semi

Da numero compresi, essi dovranno

Per lo vano profondo esser dispersi

In varie parti da diversi flutti

Della prima materia, in guisa tale

Ch'e' non potran congiungersi o congiunti

Trattenersi un sol punto in un sol gruppo

Nè per nuovo concorso augumentarsi.

E pur, che l'un e l'altro apertamente

Si faccia, il fatto stesso a noi ben noto

Ne mostra, e che formarsi e che formate

Posson crescer le cose. È chiaro adunque

Che sono in ogni specie innumerabili

Semi onde vien somministrato il tutto.

Nè superare eternamente ponno

I moti a lor mortiferi nè meno

Seppellir la salute eternamente,

Nè di sempre serbar da morte intatte

Le cose una sol volta al mondo nate

Gli accrescitivi corpi hanno possanza.

Tal con pari certame insieme fanno

Battaglia i semi infra di lor contratta

Fin da tempo infinito. Or quinci or quindi

Vince la vita, ed all'incontro è vinta:

Mista al rogo è la cuna, ed al vagito

De' nascenti fanciulli il funerale:

Nè mai notte seguío giorno nè giorno

Notte, che non sentisse in un confusi

Col vagir di chi nasce il pianto amaro

Della morte compagno e del feretro.

Abbi in oltre per fermo e tieni a mente,

Che nulla al mondo ritrovar si puote

Che d'un genere sol di genitali

Corpi sia generato e che non abbia

Misti più semi entro a se stesso; e quanto

Più varie forze e facoltà possiede,

Tanto in sè stesso esser più specie insegna

D'atomi differenti e varie forme.

Pria la terra contiene i corpi primi,

Onde con moto assiduo il mare immenso

Si rinnovi da' fonti i quai sossopra

Volgono i fiumi; ha d'onde nasca il foco,

Poi ch'acceso in più luoghi il suol terrestre

Arde, ma più d'ogni altro è furibondo

L'incendio d'Etna; ha poi donde le biade

E i lieti arbusti erga per l'uomo, ed onde

Porga alle fere per le selve erranti

E le tenere frondi e i grassi paschi.

Ond'ella sol fu degli dèi gran madre

Detta e madre de' bruti e genitrice

De' nostri corpi. E ne cantaro a prova

Degli antichi poeti i più sovrani

Ch'Argo ne desse; e finser che sublime

Sovr'un carro a seder sempre agitasse

Due leon domi ed accoppiati al giogo,

Affermando oltr'a ciò che pende in aria

La gran macchina sua, nè può la terra

Fermarsi in terra; aggiunsero i leoni,

Sol per mostrar ch'ogni più crudo germe

Dee, la natia sua ferità deposta,

Rendersi a' genitori obbedïente

Vinto da' loro officii; al fin gli ornaro

La sacra testa di mural corona,

Perch'ella regge le città munite

Di luoghi illustri. Or di sì fatta insegna

Cinta per le gran terre orrevolmente

Si porta ognor della divina madre

L'imagin santa. Ella da genti varie

Per antico costume è nominata

Ne' sacrifici la gran madre Idea.

Le aggiungon poscia le troiane turbe

Per sue fide seguaci; essendo fama

Che pria da quei confini incominciasse

A generarsi a propagarsi il grano:

Le danno i Galli, per mostrar che quegli

Ch'avranno offeso di lor madre il nume

O sieno ingrati a' genitor, non sono

Degni d'esporre a' dolci rai del giorno

Delle viscere lor prole vivente.

Dalle palme percossi in suon terribile

Tuonan timpani tesi e cavi cembali,

E con rauco cantar corni minacciano,

E la concava tibia in frigio numero

Suona e le menti altrui risveglia e stimola.

E gli portano innanzi orrendi fulmini

In segno di furore, acciò bastevoli

Siano a frenar con la paura gli animi

Ingrati della plebe e i petti perfidi,

Di cotal dèa la maestà mostrandoli.

Or, tosto ch'ella entro le gran cittadi

Vien portata, di tacita salute

Muta arricchisce gli uomini mortali.

Spianan tutte le vie d'argento e bronzo,

Dan larghe offerte, e nevigando un nembo

Di rose fanno alla gran madre ed anco

De' seguaci alle turbe ombra cortese.

Qui di frigi Coreti armata squadra

(Sì gli chiamano i Greci) insieme a sorte

Suonan catene, ed a tal suon concordi

Muovon saltando i passi ebri di sangue;

E percotendo con divina forza

De' lor elmi i terribili cimieri

Rappresentan di Creta i Coribanti,

Che, siccome la fama al mondo suona,

Già di Giove il vagito ivi celaro,

Allor ch'intorno ad un fanciullo armato

Menâr gli altri fanciulli in cerchio un ballo

Co' bronzi a tempo percotendo i bronzi,

Acciò dal proprio genitor sentito

Divorato non fosse e trafiggesse

Con piaga eterna della madre il petto.

Quindi accompagnan la gran madre armati,

O forse per mostrar che la n'avverte

A difender col senno e con la spada

La patria terra ed a portar mai sempre

E decoro e presidio ai genitori.

Le quali tutte cose, ancor che dette

Con ordin vago a meraviglia e bello,

Son però false senza dubbio alcuno.

Chè d'uopo è pur che 'n somma eterna pace

Vivan gli dèi per lor natura e lungi

Stian dal governo delle cose umane,

D'ogni dolor, d'ogni periglio esenti,

Ricchi sol di sè stessi e di sè fuori

Di nulla bisognosi, e che nè merto

Nostro gli alletti o colpa accenda ad ira.

Ma la terra di senso in ogni tempo

Manca senz'alcun dubbio, e, perchè tiene

Di molte cose entro al suo grembo i semi,

Molti ancor ne produce in molti modi.

Qui; se alcun vuol chiamar Nettuno il mare,

Cerere il grano, et abusar più tosto

Di Bacco il nome che la propria voce

Pronunzïar del più salubre umore;

Concediamogli pur ch'egli a sua voglia

Dica gran madre degli dèi la terra;

Pur che ciò sia veracemente falso.

Sovente adunque, ancor che pascan l'erba

D'un prato stesso sotto un cielo stesso

E pecore lanute e di cavalli

Prole guerriera ed aratori armenti

E bevan l'acqua d'un medesmo fiume,

Vivon però sotto diversa specie,

E de' lor genitori in sè ritengono

Generalmente la natura e sanno

Imitarne i costumi: or tanto vari

I corpi son della materia prima

In ogni specie d'erba in ogni fiume.

Anzi, oltre a questo, ogni animal si forma

Di tutte queste cose, umido sangue,

Ossa, vene, calor, viscere e nervi,

Le quai son pur fra lor diverse e nate

Da principii difformi. E similmente

Ciò ch'arde il foco, se null'altro, almeno

Sol di sè stesso somministra i corpi

Che vibrar il calor, sparger la luce,

Agitar le scintille e largamente

Possono intorno seminar le ceneri.

E se tu con la mente in simil guisa

L'altre cose contempli ad una ad una,

Senz'alcun dubbio troverai che tutte

Celan nel proprio corpo e vi han ristretto

Molti semi diversi e varie forme.

Al fin: tu vedi in molte cose unito

Con l'odore il sapor: dunque è pur d'uopo

Che queste abbian dissimili figure.

Poichè l'odor penétra in quelle membra

Ove non entra il succo, e similmente

Penetra i sensi separato il succo

Dal sapor delle cose; onde s'apprende

Ch'ei le prime figure ha differenti:

Dunque forme difformi in un sol gruppo

Certamente s'uniscono e si forma

Di misto seme il tutto. Anzi tu stesso

Puoi sovente vedere ne' nostri versi

Esser comuni a molte voci e molte

Molti elementi, e non per tanto è d'uopo

Dir che d'altri elementi altre parole

Sian pur composte; non perchè comuni

Si trovin poche lettere o non possano

Formarsi mai delle medesme appunto

Due voci varie, ma perchè non tutte

Hanno ogni cosa in ogni parte eguale.

Or similmente all'altre cose accade,

Che, se ben molte hanno comuni i semi,

Possono ancor di molto vario gruppo

Formarsi al certo: ond'a ragion si dica

Che d'atomi diversi ognor si creino

Gli augelli i pesci gli animai le piante.

Nè creder dèi che non per tanto unirsi

Possan tutti i principii in tutti i modi;

Perchè nascer vedresti in ogni parte

Ognor nuovi portenti; umane forme

Miste a forme di fere, e rami altissimi

Spuntar tal volta da vivente corpo,

E molte membra d'animai terrestri

Con quelle degli acquatici congiungersi,

E le chimere con orribil bocca

Fiamme spirando partorire al mondo

Il tutto e pascer la natura a pieno.

Del che nulla esser vero aperto appare,

Mentre veggiam da genitrice certa

Nascer tutte le cose e crescer poi

Da certi semi e conservar la specie.

E d'uopo è ben che tutto questo accaggia

Per non dubbia ragion: Poichè a ciascuno

Scendon da tutti i cibi entro alle membra

I propri corpi, onde congiunti fanno

Convenevoli moti; ed all'incontro

Veggiam gli altrui dalla natura in terra

Ributtarsi ben tosto, e molti ancora

Fuggon cacciati da percosse occulte

Pe' meati insensibili del corpo,

I quai nè unirsi ad alcun membro o quivi

Produr moti vitali ed animarsi

Non poteron già mai. Ma, perchè forse

Tu non credessi a queste leggi astretti

Solo i viventi, una ragione stessa

Decide il tutto: che, siccome in tutta

L'essenza lor le generate cose

Son fra sè varie, in cotal guisa appunto

Forz'è che di dissimili figure

Abbiano i semi lor; non perchè molte

Sian di forma fra lor poco simili,

Ma sol perchè non tutte in ogni parte

Hanno eguale ogni cosa: or, vari essendo

I semi, è di mestier che differenti

Sian le percosse l'unïoni i pesi

I concorsi le vie gli spazi i moti,

I quai non pur degli animali i corpi

Disgiungon, ma la terra e 'l mar profondo

E 'l cielo immenso dal terrestre globo.

Or porgi in oltre a questi versi orecchio

Da me con soavissima fatica

Composti, acciò tu non pensassi, o Memmo,

Cbe nate sian di candidi principii

Le bianche cose e che di nero seme

Si producan le nere, o pur che quelle

Che son gialle o vermiglie, azzurre o perse

O rancie o di qualunque altro colore,

Sol tali sian perchè il color medesmo

Della prima materia abbiano i corpi:

Poscia ch'i primi semi affatto privi

Son di tutti i colori, e non può dirsi

Ch'in ciò le cose a' lor principii sieno

Simili nè dissimili. E, se forse

Paresse a te che l'animo non possa

Veder corpi cotali, erri per certo

Lungi dal ver: poichè, se i ciechi nati,

Che mai del sol non rimirâr la luce,

Conoscon pur sol per toccarli i corpi,

Benchè fin da fanciulli alcun colore

Non abbian visto, è da saper che ponno

Anco le nostre menti aver notizia

De' corpi affatto d'ogni liscio privi.

Al fin; ciò che da noi nel buio oscuro

Si tocca al senso dimostrar non puote

Colore alcuno. Or, perch'io già convinco

Che ciò succede, io vo' mostrarlo adesso.

Poscia ch'ogni color del tutto in tutti

Si cangia: il che per certo a patto alcuno

Far mai non ponno i genitali corpi

Chè forza è pur ch'invarïabil resti

Di chi muor qualche parte, acciò le cose

Non tornin tutte finalmente al nulla;

Poichè, qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Quest'è sua morte, e non è più quel desso:

Per la qual cosa attribuir non dèi

Colore ai semi, acciò per te non torni

Il tutto in tutto finalmente al nulla.

Se in oltre i primi corpi alcun colore

Non hanno, hanno però forme diverse

Atte a produrli e varïarli tutti.

Con ciò sia che, oltre a questo, importa molto

Come sian misti i primi semi e posti;

Acciò tu possa agevolmente addurre

Pronte ragioni, ond'è che molti corpi

Che poc'anzi eran neri in un momento

Di marmoreo candor se stessi adornino,

Com'il mar, se talvolta irato il turba

Vento che spiri dall'arene maure,

Cangia in bianco alabastro i suoi zaffiri.

Poscia che dir potrai che spesso il nero,

Tosto ch'internamente agita e mesce

La sua prima materia, e varia alquanto

L'ordine de' principii e ch'altri aggiunti

Corpi gli sono, altri da lui sottratti,

Puote agli occhi apparir candido e bianco.

Chè se dell'oceàn l'onde tranquille

Fosser composte di cerulei semi,

Non potrebber già mai cangiarsi in bianche:

Poichè, comunque si commuova un corpo

Di ceruleo color, non puote al certo

Di candidezza alabastrina ornarsi.

Chè: se dipinti di color diverso

Fossero i semi onde si forma un solo

Puro e chiaro nitor del sen di Teti,

Come sovente di diverse forme

Fassi un solo quadrato; era pur d'uopo

Che siccome da noi veggonsi in questo

Forme difformi, anco del mar tranquillo

Si vedesser nell'onde od in qualunque

Altro puro nitor vari colori.

Le figure, oltr'a ciò, benchè diverse,

Non ponno ostar che per di fuori il tutto

Quadro non sia: ma posson bene i vari

Colori delle cose oprar che nulla

D'un sol chiaro nitor s'orni e risplenda.

Senza che, ogni ragion ch'induce altrui

Ad assegnare alla materia prima

Differenti colori è vana affatto:

Poichè di bianchi semi i bianchi corpi

Non si veggon crear, nè men di neri

I neri, ma di vari e differenti:

Con ciò sia ch'è più facile a capirsi

E piu agevole a farsi, che da seme

Privo d'ogni color nascan le cose

Candide, che da nero o da qualunque

Altro che incontra gli combatta e gli osti.

Perchè, in oltre, i colori esser non ponno

Senza luce, e la luce unqua non mostra

La materia svelata agli occhi nostri;

Quindi lice imparar ch'i primi semi

Non son velati da nessun colore;

E qual colore aver potrà già mai

Nelle tenebre cieche, il qual si cangia

Nel lume stesso se percosso splende

Con retta luce o con obliqua o mista?

Come piuma che 'l collo e la cervice

D'innocente colomba orni e colori

Or d'acceso rubin fiammeggia ed ora

Fra cerulei smeraldi i verdi mesce,

E d'altero pavon l'occhiuta coda,

Qualor pomposo ei si vagheggia al sole,

Cangia così mille colori anch'ella.

I quai poscia che pur son generati

Solo allor che la luce urta ne' corpi.

Non dèi stimar che senza questo possa

Ciò farsi. E perchè l'occhio in sè riceve

Una tal sorta di percosse allora

Ch'ei vede il bianco e senza dubbio un'altra

Da quella assai diversa allor ch'ei mira

Il nero e qualsivoglia altro colore,

Nè quale abbian color punto rileva

I corpi che si toccano, ma solo

Qual più atta figura; indi ne lice

Saper che nulla han di mestiere i semi

D'alcun colore, e che producon solo

Con varie forme toccamenti vari.

Perchè incerta, oltre a questo è del colore

L'essenza e pende da figure incerte,

E tutte posson de' principii primi

In qualunque chiarezza esser le forme;

Ond'è che ciò che d'esse è poi formato

Anch'ei non è nel modo stesso asperso

D'ogni sorte color? dal che sovente

Nascer potrà ch'anco i volanti corvi

Vantin con bianche penne il color bianco,

E di nera materia i cigni neri

Sian fatti o di qualunque altro colore

O puro e schietto o fra sè vario e misto.

Anzi che, quanto in più minute parti

Si stritolan le cose, allor succede

Che tu meglio veder possa i colori

Svanir a poco a poco ed annullarsi;

Qual se in piccioli pezzi o l'oro o l'ostro

Si frange e 'l sovr'ogni altro illustre e chiaro

Color cartaginese a filo a filo

Si straccia e tutto si disperde in nulla:

Onde tu possa argomentar che prima

Spiran le parti sue tutto il colore,

Che scendan delle cose ai primi semi.

Perchè, al fin, tu non credi ch'ogni corpo

Mandi alle nari odor, voci all'orecchie,

Quindi avvien poi che non assegni a tutti

Gli odori e 'l suono: or in tal guisa appunto,

Perchè non tutte puoi veder con gli occhi

Le cose, è da saper che sono alcune

Tanto d'ogni color spogliate affatto

Quanto alcune di suon prive e d'odore,

E che non men può l'animo sagace

Intender ciò, ch'ei l'altre cose intende

Prive d'altri accidenti e note ai sensi.

Ma; perchè forse tu non creda ignudi

Sol di colore i primi semi; avverti

Che son disgiunti dal colore in tutto

E dal freddo e dal tiepido vapore,

E sterili di suon magri di succo

Corron per lo gran vano, e non esalano

Dalla propria sostanza odore alcuno,

Come suol esalarne alle narici

Il soave liquor dell'amaraco,

Della mirra l'unguento e il fior del nardo.

E se tu forse esperïenza brami,

Pria convienti cercar, fin che ti lice

E che puoi ritrovar, l'interna essenza

Dell'olio inodorifero che alcuna

Alle nostre narici aura non manda,

Acciò, mischiando e digerendo in esso

Molti odori diversi, egli non possa

Rendergli poi del suo veleno infetti.

Per questo, in somma, i genitali corpi

Nel generar le cose il proprio odore

Non debbon compatirli o 'l proprio suono,

Perchè nulla da lor puote esalare;

Nè 'l sapor finalmente o 'l freddo o 'l caldo,

Per la stessa ragion, nè similmente

Il tiepido vapor. E gli altri corpi;

Che son mortali, e perciò tutti a questa

Legge soggetti, che di molle i teneri,

Di rozza gli aspri, et i porosi in somma

Sian di rara sostanza, è d'uopo al certo

Che tutti sian da' lor principii primi

Diversi; se pur brami ad ogni cosa

Assegnar fondamenti incorruttibili,

Ove possa appoggiarsi ogni salute;

Acciò per te tutte le cose al fine

Non sian costrette a dissiparsi in nulla.

Or ciò che sente non di meno è d'uopo

Che di semi insensibili formato

Si confessi da te. Nè pugna il senso

Contro a questo ch'io dico, anzi egli stesso

Quasi per mano ad affermar ne guida

Che vero è pur che gli animai non ponno

Se non se d'insensibili principii

Nascer già mai. Poichè veder ne lice

Sorger dal tetro sterco i vermi vivi

Allor che per tempeste intempestive

Umido il suolo imputridisce, ed anco

Tutte le cose trasmutar se stesse.

Si trasmutan le frondi i paschi i fiumi

In gregge, il gregge si trasmuta anch'egli

In uomini, e degli uomini sovente

Dell'indomite fere e de' pennuti

Cresce il corpo e la forza: adunque i cibi

Tutti per lor natura in vivi corpi

Si cangiano; e di qui nasce ogni senso

Degli animai, quasi nel modo stesso

Che spiega il foco un secco legno in fiamma

E ciò che tocca in cenere rivolta.

Vedi tu dunque omai di qual momento

Sia l'ordine de' semi e la mistura

E i moti che fra lor danno e ricevono?

In oltre ancor; che cosa esser può quella

Che percuote dell'uom l'animo e 'l muove

E lo sforza a produr sensi diversi,

Se pur non credi i sensitivi corpi

Di materia insensibile formarsi?

Certamente la terra i legni i sassi,

Ancor che siano in un confusi e misti,

Non producon però senso vitale.

Fia dicevole dunque il rammentarsi

Di questa lega de' principii primi;

Cio è; che non di tutti in tutto a un tratto

Fassi 'l corpo sensibile ed il senso;

Ma che molto rileva in primo luogo

Quanto piccioli sian, qual abbian forma

Ordini, moti e positure al fine

Gli atomi che crear denno il sensibile.

Delle quai tutte cose alcun non vede

Nulla ne' rotti legni e nell'infranto

Terreno: e pur, se queste cose sono

Quasi per pioggia putrefatte e guaste,

Generan vermi, perchè, mossi essendo

Della materia i corpi dall'antico

Ordine lor per l'accidente nuovo,

S'uniscon poscia in tal maniera insieme

Che d'uopo è pur che gli animai si formino.

In somma; allor che di sensibil seme

Dicon crearsi il sensitivo, in vero

Dall'altre cose a giudicare avvezzi

Fanno allor molle la materia prima;

Perch'ogni senso è certamente unito

Alle viscere, ai nervi ed alle vene,

Che pur son molli e di mortal sostanza

Tutte create. Ma sia vero omai

Che possan queste cose eternamente

Restare in vita: non per tanto è forza

Ch'elle abbian pure o come parti il senso,

O sian simíli agli animali interi.

Ma non san per sè stesse esser le parti

Non che sentir, nè può la mano od altra

Parte del corpo esser da lui divisa

E per sè stessa conservare il senso,

Poichè tosto ogni senso ella rifiuta

Dell'altre membra. Onde riman che solo

Agl'intieri animali abbian simile

L'essenza, acciò che d'ogni intorno possano

Sentir con vital senso. Or come adunque

Potran chiamarsi genitali corpi

E la morte fuggir, mentre pur sono

Animali ancor essi e co' mortali

Viventi una sol cosa? il che se pure

Esser potesse, non farian giammai

Dall'unïon divisi altro ch'un volgo

Ed una turba d'animai nel mondo:

Come certo non ponno alcuna cosa

Gli uomini generar, le fere, i greggi,

Quando uniti fra lor piglian sollazzo

Venereo, altro che fere, uomini e greggi.

Che se forse, del corpo il proprio senso

Perdendo, altro ne acquistano, a che fine

Assegnar li si dee ciò che gli è tolto?

In oltre ancora; il che scansammo avanti;

Fin che veggiam che de' crestati augelli

Si cangian l'uova in animati polli,

E di piccioli vermi il suol ribolle

Allor che per tempeste intempestive

Divien putrido e marcio, indi ne lice

Saper che fassi di non senso il senso.

Ma; se forse dirai crearsi i sensi

Sol da non sensi, pur che pria che nasca

Abbia di moto un tal principio il parto;

Sol basterà ch'io ti dimostri aperto,

Che mai senza unïon dei corpi primi

Non si genera il parto e non si muta

Nulla senza lor gruppo innanzi fatto.

Poichè per certo la materia sparsa

Per le fiamme pe' fiumi in aria in terra,

Cose innanzi create, e' non s'accozza

In convenevol modo, onde comparta

Fra sè moto vital, per cui s'accenda

Senso che guardi 'l tutto, e gli animali

Difender possa da' contrari insulti.

In oltre; ogni animal, se più gran colpo

Che la natura sua soffrir non puote

Il fere, in un momento anco l'atterra

E s'avaccia a turbar tutti e scomporre

E del corpo e dell'alma i sentimenti:

Poichè si sciolgon de' principii primi

Le positure ed impediti affatto

Sono i moti vitali infino a tanto

Che squassata e scommossa ogni materia

Per ogni membro il vital nodo scioglie

Dell'anima dal corpo e fuor dispersa

D'ogni proprio ricetto alfin la scaccia.

Perchè qual altra cosa oprar può mai

Negli animali un vïolento colpo,

Se non crollarli e dissiparne il tutto?

Succede ancor che per minor percossa

Puon del moto vital gli ultimi avanzi

Vincer sovente; vincere, e del colpo

Acquietare i grandissimi tumulti,

E di nuovo chiamar ne' propri alberghi

Ciò che partissi, e nell'afflitto corpo

Moti produr signoreggianti omai

Di morte, e dentro rivocarvi i sensi

Quasi smarriti. Che per qual cagione

Posson più tosto ripigliar vigore

E dallo stesso limitar di morte

Tornare in vita, che partirsi et ire

Là dove è già quasi finito il corso?

Perchè il duolo, oltre a questo allor si genera

Che per le membra e per le vive viscere

Da qualche vïolenza i primi corpi

Vengono stimolati e nelle proprie

Lor sedi internamente si conturbano;

Ma, quando poscia alla lor prima stanza

Tornano, il lusinghevole piacere

Tosto si crea; quindi saper ne lice

Che mai non posson da dolore alcuno

Essere afflitti i genitali corpi

Nè pigliar per sè stessi alcun diletto;

Con ciò sia che non son d'altri principii

Fatti, per lo cui moto aver travaglio

Debbiano o pur qualche soave frutto

Di dolcezza gustar: non ponno adunque

Esser dotati d'alcun senso i semi.

Se, 'n somma, acciò che senta ogni animale,

Senso a' principii suoi deve assegnarsi,

Dimmi che ne avverrà? Fia d'uopo al certo

Che i semi onde si crea l'umano germe

Si sganascin di risa, e di stillanti

Lacrime amare ambe le gote aspergano,

E ne sappian ridir come sian miste

Le cose, e possan domandar l'un l'altro

Le qualità de' lor principii e l'essere:

Poscia che, essendo assomigliati a tutti

I corpi corruttibili, dovranno

D'altri elementi esser formati anch'essi

E quindi d'altri in infinito gli altri;

E converrà che ciò che ride o parla

O sa, creato sia d'altri principii

Che ridano ancor lor parlino e sappiano.

Che se tai cose esser delire e pazze

Ognun confessa, e rider puote al certo

Chi fatto è pur di non ridenti semi,

Et esser saggio e nel parlar facondo

Chi nato è pur di non facondi e saggi;

Dimmi, per qual cagion ciò che si mira

Aver senso vital non può formarsi

D'atomi affatto d'ogni senso ignudi?

Al fin; ciascuno ha da celeste seme

L'origine primiera; a tutti è padre

Quello stesso onde, allor che in sè riceve

L'alma gran madre terra il molle umore

Della pioggia cadente, i lieti arbusti

Gravida figlia il gran, le biade e gli uomini,

Ed ogni specie d'animai selvaggi,

Mentr'ella a tutti somministra i paschi

Onde nutrirsi, onde menar tranquilla

Possan la vita e propagar la prole;

Ond'a ragione ebbe di madre il nome.

Similmente ritorna indietro in terra

Ciò che di terra fu creato innanzi;

E quel che fu dalle celesti e belle

Regïoni superne in giù mandato

Di nuovo anch'egli riportato in cielo

Trova ne' templi suoi dolce ricetto:

Nè sì la morte uccider può le cose,

Che le annichili affatto. Ella discioglie

Solo il gruppo de' semi, e quindi un altro

D'altri poi ne congiunge, e fa che tutte

Cangin forma le cose, e acquistin senso

Tal volta ed anco in un sol punto il perdano.

Onde apprender si può che molto importa

Come sian misti i primi semi e posti,

E quai moti fra lor diano e ricevano;

Poichè forman gli stessi il cielo il sole,

Gli stessi ancor la terra i fiumi il mare

Gli augelli i pesci gli animai le piante;

E, se non tutti, una gran parte almeno

Son tai corpi fra lor molto simíli,

E solo han vario e differente il sito.

Tal, se dentro alle cose in varie guise

Cangiansi de' principii i colpi i pesi

I concorsi le vie gli spazi i gruppi

Gli ordini i moti le figure i siti,

Debbon le cose varïarsi anch'elle.

Or, mentre il vero io ti ragiono, o Memmo,

Sta' con l'animo attento ai detti nostri,

Perchè nuovi concetti entro all'orecchie

Tentan di penetrarti e nuove forme

Di cose agli occhi tuoi se stesse svelano.

Ma nulla è di sì facile credenza,

Che di molto difficile non paia

Al primo tratto; e similmente nulla

Per sì grande e mirabile s'addita

Mai da principio, che volgare e vile

A poco a poco non diventi anch'egli.

Com'il chiaro e purissimo colore

Del cielo, e quel che le vaganti e fisse

Stelle in sè stesse d'ogn'intorno accolgono.

E della luna or mezza or piena or scema

L'argenteo lume e i vivi rai del sole:

Che s'or primieramente all'improvviso

Rifulgessero a noi quasi ad un tratto

Posti innanzi a' nostr'occhi, e qual potrebbe

Cosa mai più mirabile chiamarsi

Di questa? o che già mai la gente innanzi

Men di credere osasse? quel ch'io stimo,

A nessun più ch'a te parsa sarebbe

Degna di maraviglia una tal vista:

E pur, già sazio non che stanco ognuno

Dal soverchio mirar, non degna ai templi

Risplendenti del cielo alzar pur gli occhi.

Onde non voler tu, solo atterrito

Dalla sua novità, la mia ragione

Correr veloce a disprezzar; ma prendi

Con più fino giudizio a ponderarla:

E, se vera ti par, consenti e taci:

Se no, t'accingi a disputarle incontra.

Poichè sol di ragion l'animo è pago;

Essendo fuor di questo nostro mondo

Somma immensa di spazio, egli ricerca

Ciò che là sia, fin dove può la mente

Penetrare a veder, dove lo stesso

Animo può spiegar libero il volo.

Pria, se ben ti rammenta, in ogni parte,

A destra et a sinistra, e sotto e sopra,

Per tutto è sparso un infinito spazio,

Com'io già t'insegnai, come vocifera

Per sè medesmo il fatto, e manifesta

È del profondo la natura a tutti.

Già pensar non si debbe in guisa alcuna

Ch'essendo in ogni banda un vano immenso

Per cui con moto eterno in varie guise

Numero innumerabile di semi

Per lo vano profondo irrequïeti

Volâr mai sempre ed a crear bastanti

Fûr questa terra e questo ciel che miri,

Nulla fuori di lui faccian que' tanti

Principii; essendo massime anco questi

Fatto dalla natura, e delle cose

Gli stessi semi, in molti modi a caso

Urtandosi l'un l'altro indarno uniti,

Avendo pur fatto que' gruppi al fine,

Che, repentinamente in varie parti

Lanciati, fosser poi sempre principii

E di terra e di mar, di ciel, di stelle,

D'uomini, d'animai, d'erbe e di piante.

Onde voglia o non voglia, è pur mestiero

Che tu confessi esser da noi lontani

Molti altri gruppi di materia prima;

Qual a punto stim'io questo che stringe

L'etere con tenace abbracciamento.

In oltre allor che la materia è pronta,

Il luogo apparecchiato, e nulla manca,

Debbon le cose generarsi al certo.

Or; se dunque de' semi è tanto grande

La copia quanto a numerar bastevole

Non è degli animai l'etade intera,

E la forza medesma e la natura

Ritengono i principii atta a vibrarli

In tutti i luoghi nella stessa guisa

Ch'e' fur lanciati; in questo egli è pur d'uopo

Confessar ch'altre terre in altre parti

Trovinsi, et altre genti ed altre specie

D'uomini e d'animai vivano in esse.

S'arroge a ciò, che non è cosa al mondo

Che si generi sola e sola cresca:

Il che principalmente in ogni specie

D'animai può veder chïunque volge

La mente a contemplarle ad una ad una;

Poscia che sempre troverà che molte

Son simili fra loro e d'una razza.

Così veder potrai che son le fere

Che van pe' monti e per le selve errando,

Così l'umana prole, e finalmente

Così de' pesci gli squammosi greggi