HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli             

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Pietro Colletta

 

STORIA

DEL

REAME DI NAPOLI

 


INDICE

CAPITOLO I       INTRODUZIONE AL REGNO DI CARLO BORBONE. 2

CAPITOLO II      CONQUISTA DELLE SICILIE DALL'INFANTE CARLO BORBONE. 12

CAPITOLO III     GOVERNO DI CARLO DOPO ASSICURATA LA CONQUISTA SINO ALLA VITTORIA DI VELLETRI 21

CAPITOLO IV     SEGUITO E FINE DEL REGNO DI CARLO. 33

CAPITOLO V      MINORITA’ DEL RE. 41

CAPITOLO VI     IL RE, DIVENUTO MAGGIORE, GOVERNA IL REGNO. 45

CAPITOLO VII    RIVOLUZIONE DI FRANCIA E I SUOI PRIMI EFFETTI NEL REGNO DI NAPOLI 64

CAPITOLO VIII   PROVVEDIMENTI DI GUERRA E INTERNI, A SECONDA DE' CASI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. 71

CAPITOLO IX     GUERRE APERTE CO' FRANCESI; E PACI; E MANCAMENTI. SOSPETTI DI REGNO; CAUSE DI MAESTA CASI VARII DI STATO E DI FORTUNA. 78

CAPITOLO X      GUERRA SVENTURATA CONTRO LA REPUBBLICA FRANCESE. MOTI NEL REGNO. FUGA DEL RE. VITTORIA E TRIONFO DELL'ESERCITODI FRANCIA. 96

CAPITOLO XI     LEGGI E PROVVEDIMENTI PER ORDINARE LO STATO A REPUBBLICA. 112

CAPITOLO XII    SOLLEVAZIONE DE BORBONIANI NELLE PROVINCE. GESTE DEL REDI SICILIA E DEGL'INGLESI CONTRO LA REPUBBLICA. GESTE IN DIFESA DI LEI. 120

CAPITOLO XIII   DOPO LA RITIRATA DELL'ESERCITO FRANCESE PRECIPIZI DELLA REPUBBLICA. 133

 

 


 

 

 

CAPITOLO I   INTRODUZIONE AL REGNO DI CARLO BORBONE

 

I. Il fiume Tronto, il Liri, il piccolo fiume di s. Magno presso Portella, i monti Appennini dove nascono le fonti di que' fiumi, i liti del Mediterraneo, correndo i tre mari Tirreno, Ionio, Adriatico, dallo sbocco del lago di Fondi alla foce del Tronto, confinano le terre che nell'XI secolo ubbidivano all'imperio greco ed alle signorie longobarde di Capua, di Salerno e di Benevento. Tanti separati dominii, la virtù del Normanno Roberto Guiscardo tramandò al nipote Ruggiero, già fattosi re della Sicilia, da lui conquistata sopra i Saraceni ed i Greci (1150). Passò il regno a Guglielmo il Malo, a Guglielmo il Buono, a Tancredi, e fugacemente a Guglielmo III. Quando il secondo Guglielmo perdè speranza di figli, maritò la principessa Costanza (sola che restava del sangue di Ruggiero) all'imperatore Enrico, della casa sveva; il quale succedè, morto Tancredi, nella corona della Sicilia e della Puglia.

Così dalla stirpe normanna, chiara per virtù guerriere, andò il regno l'anno 1189 negli Svevi. Ad Enrico succedè Federico II, gran re, ed a lui brevemente Corrado suo figlio, e poi Manfredi altro figlio, ma d'illegittimo congiungimento. I pontefici di Roma, che pretendevano all'imperio del mondo e viepiù a quello delle Sicilie, dopo aver travagliata la casa normanna, volsero le armi sacre e le guerriere contro la sveva. Sempre perdenti, benché combattessero in età d'ignoranza, ma incapaci per la stessa ignoranza de' tempi ad essere oppressi e disfatti, risorgevano dopo le perdite più adirati e nemici.

Clemente IV papa, nell'anno 1265, poi che tre papi che io precedettero avevano tentata vanamente l'ambizione di Enrico III re d'Inghilterra, instigò contro Manfredi il fratello di Luigi re di Francia, Carlo di Angiò, famoso in armi; che, viepiù spinto dalle irrequiete brame della moglie, venne con esercito all'impresa. Coronato in Roma re delle Sicilie (1266), passò nel regno e combattè Manfredi accampato presso Benevento. La virtù dello Svevo non bastò contro la fortuna del Franco e l'infame tradimento de' Pugliesi: mori Manfredi nella battaglia. Carlo stava contento sul trono quando Corradino, figlio di Corrado, venne a combatterlo (1268). Il giovinetto, vinte in Italia le città guelfe, vincitore in Tagliacozzo dove gli eserciti si affrontarono, godevasi nel campo le gioie della vittoria e le speranze dell'avvenire, allor che il re gli spinse contro la fresca legione, tenuta in serbo; così che Corradino, disfatto, fuggitivo, e poi tradito, fu prigioniero del felice Carlo: e un anno appresso, per crudeltà di quel re o spietati consigli del pontefice, ebbe (quell'ultimo figlio della casa sveva) troncato il capo. La stirpe degli Angioini si stabili nel regno delle Sicilie.

Ella diede sei re, due regine; dominarono 175 anni tra guerre esteriori ed interne. Per opera di quei re angioini furono morti Manfredi e Corradino, re svevi; poi Andrea e Giovanna I, della propria stirpe: l'altro re, Carlo da Durazzo, sorpreso negl'inganni che ordiva alle due regine di Ungheria, fu ucciso: Ladislao morì di veleni oscenamente prestati. Ai tempi loro per il vespro di Giovan di Procida furono uccisi ottomila Francesi, tiranni della Sicilia: de' tempi loro fu il parteggiare continuo de' baroni del regno: per opra loro, nato lo scisma nella Chiesa, due o tre papi contemporanei divisero le spoglie della Sede apostolica e le coscienze de' popoli cristiani. Ma quei re, che ne' penetrali della reggia nascondevano enormi delitti, erano sulla scena del trono riverenti alla Chiesa; ergevano ed arricchivano tempii e monasteri, davano dominio ai papi, concedevano privilegi agli ecclesiastici. Carlo I e Ladislao avevano virtù guerriere; aveva Roberto prudenza di regno; questa e quelle oscurate dai vizii del sangue. Gli altri re della stirpe furono flagelli del regno.

Alfonso I di Aragona, dopo che fugò Renato, ultimo degli Angioini, stabilì nell'anno 1441 la dominazione degli Aragonesi, che finì nel 1501 con la fuga di Federico. Dominarono in manco di 60 anni cinque re di quella casa, quattro dei quali, Ferdinando I, Alfondo II, Ferdinando II e Federico, s'ingomberarono sul trono nel breve spazio di tre anni, anche interrotto il regnare dalle felicità e dal dominio di Carlo VIII. Quella stirpe aragonese, superba e crudele, mosse o respinse molte guerre, abbattè le case più nobili e più potenti del regno, impeverì l'erario, suscitò tra' baroni gli umori di parte. Le quali divisioni ed universale fiacchezza causarono che lo Stato, da potente regno, cadesse a povera provincia di lontano impero. Della quale caduta io toccherò le miserie: ma ritenga frattanto la memoria degli uomini che in poco più di tre secoli e mezzo regnarono quattro case, ventidue re, senza contare i transitorii domini di Lodovico re d'Ungheria, del papa Innocenzo IV, di Giacomo di Aragona e di Carlo VII: ritenga che per pochi tempi di pace si tollerarono lunghi anni di guerra; che per travagli sì grandi avanzò la civiltà; che in tanti mutamenti fu osservato essere vizio dei Napoletani la incostanza politica, ossia l'odio continuo del presente, e 'l continuo desiderio di nuovo stato; cagioni ed effetti delle sue miserie.

II. Quando Federico, ultimo degli Aragonesi, combattuto dal re di Francia, tradito dal re di Spagna suo zio, fuggì d'Italia, i due re fortunati, nel dividere l'usurpato regno, per luogotenenti ed eserciti combatterono: Consalvo il gran capitano restò vincitore; il regno intero cadde a Ferdinando il Cattolico e sotto forma di provincia fu dal vicerè governato. Cominciò il governo vicereale che per due secoli e trent'anni afflisse i nostri popoli. Primo de' vicerè fu lo stesso Consalvo.

Mutarono gli ordini politici. Per magistrato novello, detto Consiglio Collaterale, gli antichi magistrati decaddero di autorità e di grido; la grandezza dei ministri dello Stato scemò; gli ufiziali della reggia restarono di solo nome, l'esercito sciolto; l'armata serva dell'armata e del commercio spagnuolo; la finanza esattrice risiedeva nel regno, e fuori la dispensiera di danaro e di benefizi. I feudatari abbassati da che senz'armi, i nobili avviliti nel consorzio di nuovi principi e duchi per titoli comprati. I seguaci di parte angioina, benché tornati per accordo di pace agli antichi possessi, ricevevano poco o tardi; erano spogliate le parti sveva e aragonese; Ghibellini e Guelfi al modo stesso travagliati. La superbia di Roma rinvigoriva; tutto andò al peggio.

E così passarono, ora più ora meno infelici, due secoli di servitù provinciale sino a Filippo V e Carlo VI, dei quali dirò tra poco. Imperarono in quel tempo sette re della casa di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Carlo II; e travagliarono in vario modo e principi e regno trenta romani pontefici, da Alessandro VI a Clemente XI. Si ebbe gran numero di vicerè, de' quali alcuno buono, molti tristi, parecchi pessimi. Il dominio della casa austriaca spagnuola finì per la morte di Carlo II nell'anno 1700; ed in quello ha termine la storia di Pietro Giannone, uomo egregio, molto laudato, e pur maggiore di merito che di fama. Ed io non che presuma di paragonarmi a quell'alto e sfortunato ingegno, come nemmeno raccomandarmi per simiglianza di sventure, ma solamente per congiungere ai termini di quella istoria i principii della mia fatica, dirò più largamente le cose del vicereale governo dal 1700 al 54, cominciamento al regno di Carlo: desiderandomi lettori già dotti ne' libri del Giannone, così che mi basti rammentare talvolta de' vecchi tempi quanto sia necessario alla intelligenza dei fatti che descriverò.

III. Al finire del 1700 Filippo V ascese al trono di Spagna e a' dominii di quella corona per testamento del morto re Carlo II. Ma contrastando il trono a Filippo l'imperatore Leopoldo, si apprestavano gli eserciti a decidere la gran lite. Il vicerè di Napoli Medianaceli gridò re Filippo V: il popolo vi fu indifferente; i nobili, amanti dell'Austria, avversi alla casa di Francia, un figlio della quale, duca di Angiò, era Filippo, si addolorarono. Ma venne a consolarli di speranze la guerra di Lombardia, dove gli eserciti imperiali erano più fortunati, e il capitano principe Eugenio riempiva  del suo nome e delle sue geste i discorsi d'Italia. Fu quindi spedito all'imperatore Leopoldo don Giuseppe Capece, ambasciatore secreto della nobiltà napoletana; la quale promettendo levare il popolo, esigeva da Cesare per patti: spedir solleciti aiuti d'armi, mutare lo Stato da provincia a regno libero, dargli re Carlo arciduca, mantenere i privilegi acconsentiti da' passati principi, fondare un senato di cittadini, consigliero negli affari del regno, sostenere le antiche ragioni della nobiltà, concedere nuovi titoli e terre a' congiurati. E ciò concordato, tornò in Napoli a riferire quelle pratiche e ad ordire la non facile impresa.

IV. Vennero nel tempo stesso, fingendo cagioni oneste, don Girolamo Capece e 'l signor Sassinet da Roma, don lacopo Gambacorta principe di Macchia da Barcellona; il Capece colonnello nelle milizie di Cesare, il Sassinet segretario dell'ambasciata imperiale presso il papa, il Gambacorta giovine pronto, loquace, povero, ambizioso, con le qualità più eminenti di congiurato, per lo che fu capo e diede alla congiura il suo nome di Macchia (1701). Era il mezzo di settembre quando, computate le opere e i tempi, si prefisse primo giorno dell'impresa il dì 6 di ottobre. Uccidere il vicerè, occupare i castelli della città, gridar re il principe Carlo figlio dell'imperatore Leopoldo, opprimere le poche spensierate milizie spagnuole, reggere lo Stato sino all'arrivo dei promessi da Cesare soccorsi d'armi, furono i disegni della congiura. I congiurati (quasi tutta la nobiltà del regno) divisero le cure e i pericoli della impresa.

Ma nuovi avvenimenti ruppero le dimore. Lettere del cardinal Grimani ambasciatore di Cesare a Roma, scritte ad un congiurato, e per avviso del duca di Uzeda, ivi ministro di Filippo V, intercette dal vicerè, gli rivelarono esservi congiura, lasciandone oscure le fila e lo stato. Perciò, di ogni cosa sospettoso, vegliava l'interno della casa, mutava le usanze di vita, radunava le sue poche milizie, spargeva esploratori tra' nobili e nel popolo: compose e concitò la Giunta degl'Inconfidenti a punire, fece imprigionare il padre Vigliena teatino; fuggì il padre Torres gesuita: trepidavano d'ambe le parti i ministri del governo e i congiurati.

Questi alfine, o confidenti nella propria potenza, o sforzati dalle male venture a precipitare le mosse, levaronsi a tumulto il 23 di settembre. Non poterono uccidere il vicerè (morte concertata col cocchiere di lui e due schiavi) perché quegli non uscì come soleva in carrozza; investirono il Castelnuovo e lo trovarono chiuso e guardato: le prime speranze della congiura fallarono. Ma dopo quelle mosse irrevocabili, trascinati dalle necessità del presente, confidando nella immensa forza di popolo sfrenato, andarono con bandiera d ' i Cesare gridando il nuovo re, accrescendo il tumulto, atterrando le immagini di Filippo, ergendo quelle di Carlo, aringando la plebe nelle piazze, promettendo abbondanza e, secondo gli usi

dispotici del tempo, impunità, favori e privilegi. Ne' quali moti que' nobili congiurati, per accrescersi potenza o per giovanile superbia, si chiamavano de' nuovi titoli di principi e duchi patteggiati con Cesare.

Il dottore Saverio Pansuti, altiero, dotto, facondo, congiurato e nella congiura eletto del popolo, salito sopra poggiuolo della piazza del mercato, popolosa e facile alle novità, chiamò col cenno le genti ad ascoltarlo; disse ch'egli era il nuovo eletto, rammentò i mali del governo di Spagna, ingrandiva le speranze dell'impero di Cesare, magnificava le forze della congiura, prometteva doni e mercedi, pregava il popolo si unisse a' nobili. Finita l'aringa, un uomo tra quelle genti, canuto di vecchiezza e plebeo, con voce alta parlò in questi sensi:

«Voi, Eletto, e voi, popolo, ascoltate. Sono molti anni che il mal governo spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano. Stettero i nobili o contra noi o in disparte, e spesso vennero ad aringare (come ora il nuovo Eletto) per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete. Io, giovinetto, seguitai le parti del popolo; vidi le fraudi dei signori, letradigioni del governo, le morti date a' miei parenti ed amici. Io, vecchio ora che parlo, e assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba il popolo abbandonarli, come nella congiura di Masaniello fu da' nobili abbandonato. Udite già gli assunti nomi di principe di Piombino, principe di Salerno, conte di Nola, e aspettatevi tanti altri ancora ignoti, ma che tutti sarebbero sopra noi nuovi tiranni, lo mi parto da questo luogo; mi seguirà chi presta fede ai miei detti». Restò vòta la piazza; il primo oratore tornò confuso.

Ma pure molti della più bassa plebe e del contado, non per amore di fazione, ma per avidità di guadagni, rinforzarono i congiurati; e nel tumulto andavano spogliando le case ed uccidendo alla cieca uomini d'ogni parte; alle quali opere malvage, parecchi uomini della nobiltà, cospiratori ancor essi, o aderenti, ma non palesi, ripararonsi ai castelli da milizie spagnuole guardati; altri fuggirono la sconvolta città; altri munirono le case di sbarre e armigeri. Scemavano la potenza dell'impresa le sfrenatezze della plebe e l'avvilimento de' grandi; tal che il principe di Macchia per editto minacciò pena di morte così a' predoni quanto a coloro tra' nobili che indugiassero oltra un giorno ad aiutare le parti del re Carlo. L'editto, disperante agli uni, estremo agli altri, nacque in doppio modo alla congiura.

Così che il vicerè, vedendo freddo il popolo, i nobili divisi, i congiurati pochi e ormai timidi, fece sbarcare nel terzo di le ciurme delle galere spagnuole ancorate nel porto; e formate a schiera con le milizie, le spinse dal Castelnuovo contro i ribelli, accampati dietro certe sbarre in alcuni posti della città: mentre i castelli, ad offendere e spaventare, facevano romore continuo di artiglieria. La torre di Santa Chiara occupata dai congiurati per inalzarvi la bandiera d'Austria, spiare dall'alto nella città, e sonare a doppio le campane, fu subito espugnata; gli altri posti assaltati e presi. Si dispersero i difensori: il Macchia ed altri fuggirono; Sassinet e Sangro furono prigioni; abbassata e vilipesa la bandiera di Carlo, si rialzarono le immagini e le insegne di Filippo. Nulla rimase della tentata ribellione, fuorché la memoria, il danno e i soprastanti pericoli.

Di fatti, richiamato il Medinaceli, venne da Sicilia vicerè il duca di Ascalona. A don Carlo di Sangro colonnello di Cesare fu mozzato il capo nella piazza di Castelnuovo; altri congiurati finirono della stessa morte; altri spietatamente uccisi nelle carceri: Sassinet, però che segretario di ambasciata, fu mandato in Francia prigione; molti languivano nelle catene, i beni di tutti furono incamerati; crebbero i rigori, le pene, i supplizi per tutte le colpe, sopra tutte le classi de' cittadini. Al quale spettacolo e terrore il popolo si sdegnò del governo, e sentì pentimento d'essere mancato alla congiura de' nobili: come suole agli uomini, fallire e pentirsi.

V. (1702) Saputa dal re Filippo quella congiura, misurata la mole de' corsi pericoli, incerte ancora le guerre d'Italia e di Spagna, volle per liberalità e clemenza calmare gli odii della ribellione e de' castighi. Imbarcato perciò a Barcellona, venne in Napoli nel giugno del 1702, e fu ricevuto con le festevoli accoglienze che usano le genti oppresse a coloro in cui sperano. Il popolo non ottenne quel che più bramava, ritenere il suo re, da maggiori destini chiamato nelle Spagne; ma consegui la larga mercede alle amorevoli dimostrazioni, però che il re abolì molte taglie, donò molti milioni di ducati dovuti al fisco, rimise le passate colpe di maestà, diede titoli ai nobili di sua parte sempre mostrandosi co' soggetti benigno e piacevole. Si assembrarono il clero, i baroni, gli Eletti, per decretare in segno di universale gratitudine un dono al re di trecentomila ducati, e lo innalzamento della sua statua equestre in bronzo nella piazza maggiore della città. Ma i progressi dell'esercito d'Austria in Lombardia obbligarono Filippo, dopo due mesi di gradevole soggiorno, a partire di Napoli per pigliare il freno degli eserciti gallispani che fronteggiavano il fortunato Eugenio di Savoia. Lasciò vicerè lo stesso Ascalona.

VI. Nell'anno 1705 trapassò l'imperatore Leopoldo, e gli successe Giuseppe suo primo figlio. Non perciò rallentarono i furori della doppia guerra in Alemagna e in Italia: sì che l'Ascalona spediva soldati, navi e danaro in aiuto di Spagna, straziando per leve d'uomini e di tributi gli afflitti popoli. L'amore per Filippo dechinava, e n'era cagione l'acerbità dei suoi ministri. Così stando le cose del 1707, il principe Eugenio, disfatti nella Lombardia gli eserciti gallispani, spedi sopra Napoli, per le vie di Tivoli e Palestrina, cinquemila fanti e tremila cavalieri tedeschi sotto l'impero del conte Daun. Il vicerè Ascalona, scarso di proprie forze, concitò i regnicoli, che trovò, per avversione alla guerra e per tendenza alle novità di governo, schivi all'invito. Solamente il principe di Castiglione don Tommaso d'Aquino, e 'l duca di Bisaccia don Niccolò Pignatelli, con poche migliaia di armati accamparono dietro al Garigliano, ed all'avanzarsi del Daun tornarono in Napoli. Capua ed Aversa si diedero al vincitore; il duca di Ascalona riparò a Gaeta. L'avanguardo tedesco, retto dal conte di Martiniz, nominato da Cesare vicerè di Napoli, era in punto di marciare ostilmente; quando legati di pace gli andarono incontro a presentare le chiavi della città, non vinta ma vogliosa del nuovo impero. L'ingresso delle schiere cesaree fu trionfale; il popolo alzò voci di plauso al vincitore, e furioso qual suole nelle allegrezze, atterrata la statua poco innanzi eretta di Filippo V, rotta in pezzi, la gettò nel mare. Pochi giorni appresso cederono i tre castelli della città; il presidio di Castelnuovo, ufiziali e soldati, spagnuoli e napoletani, passò agli stipendi del nuovo principe, non vergognando della incostanza.

Il principe di Castiglione, o non ancora sentisse morte le speranze, o (che più l'onora) si conservasse fedele alle sventure della sua bandiera, con mille cavalli riparavasi nelle Puglie; ma trovato munito dal nemico il passo di Avellino, deviò per Salerno. Più numerosa cavalleria tedesca lo inseguiva; le sue genti lo abbandonavano; con pochi resti dei mille fu prigione. Potendo quegli esempi su tutto il regno, si arresero al general Vetzeel gli Abruzzi, che il duca d'Atri vanamente incitava alla guerra; ed indi a poco la fortezza di Pescara: la sola Gaeta, rinforzata delle galere del duca di Tursi, faceva mostra di resistere lungamente.

Stretta di assedio che il conte Daun dirigeva, e aperta, non finito il settembre, una breccia, gli assalitori vi montavano, e gli assediati andavano fuggendo in mal ordine dietro un argine alzato giorni innanzi per compenso de' rotti muri: la debilità del luogo, la paura de' difensori, l'impero degli assalti, la fortuna portando i Tedeschi oltre la fossa e la trinciera, entrarono nella costernata città e vi fecero stragi e rapine. L'Ascalona e pochi altri riparati nella piccola torre di Orlando, la cederono il dì seguente per solo patto di vita, e vennero a Napoli prigioni; erano tra i più chiari, oltre il vicerè, il duca di Bisaccia e 'l principe di Cellamare, uomini poco innanzi autorevoli e primi nel regno, valorosi nelle battaglie, nobilissimi di sangue, favoriti sempre dalla fortuna; oggi avviliti e prigioni di barbaro straniero. La plebe, dietro quella misera turba di cattivi, offendeva l'Ascalona rammentando le esercitate crudeltà nella congiura di Macchia; e, più spietata e codarda, volgeva le ingiurie a' due nobili napoletani che soli o tra pochi mantennero nelle sventure la giurata fede a Filippo. Il dominio di Cesare si stabilì nel regno; e chiamato in Germania il conte di Martiniz, restò vicerè il conte Daun.

VII. Subito. attese a ricuperare le fortezze (dette Presidii) della Toscana, che soldati spagnuoli guardavano. Al general Vetzeel, colà spedito con buona schiera, si renderono santo Stefano ed Orbitello: indi, per più gravi travagli di guerra, Porto Longone; e finalmente, nel 1712, Portercole. Chiamato il Daun a guerreggiare in Lombardia, gli succedè nel viceregno il cardinale Vincenzo Grimani, veneto.

Era finita per Napoli la guerra: ma l'occupazione di Comacchio da' soldati cesarei, la intimazione di Cesare al duca parmigiano di tenersi feudatario non più del papa ma dell'imperio, e infine il divieto al regno di pagare le tasse consuete al pontefice, mossero Clemente XI ad assoldare ventimila uomini d'arme sotto il conte Ferdinando Marsili bolognese, ed accamparli nelle terre di Bologna, Ferrara e Comacchio. Ciò visto, il Daun partivasi dalla Lombardia verso quella schiera, ed in Napoli si adunavano altre forze contro Roma. L'imperatore Giuseppe non voleva contese col papa, ma intendeva per quegli atti di guerra forzarlo a riconoscere sovrano di Spagna Carlo suo fratello. Perciò il Daun, procedendo contro que' campi, proponeva accordi al pontefice, il quale, alle risposte audace e saldo, mostrava confidare nella guerra. Strano perciò vedere un felice capo di eserciti invocar la pace, ed un papa le armi.

Alle ostinate ripulse procedendo le genti tedesche, presero con poca guerra Bondeno e Cento, circondarono Ferrara e Forte‑Urbano; e imprigio­nata parte delle milizie papali, fugati i resti, stanziarono ad Imola e Faenza.

Clemente, sotto quelle sventure, e alle peggiori che minacciava l'esercito mosso da Napoli, piegò lo sdegno e, non più pregato, pregando accordi, accettò patti e pubblici  e secreti, per i quali tutte le voglie del vincitore si appagavano. Fu vera pace negli atti scritti e nella mente degli uomini, ma tregua e inganno nell'animo del pontefice; il quale aspettava opportunità di rompere quegli accordi, che, non ratificati dalla coscienza, parevano a lui leggi di forza, durabili quanto la necessità.

VIII. Morto in Napoli nel 1710 il cardinal Grimani, venne vicerè il conte Carlo Borromeo, milanese. E nel seguente anno trapassò l'imperatore Giuseppe, al quale succedè Carlo, fratello di lui, terzo di quel nome nelle contrastate Spagne, sesto nella Germania e nel reame di Napoli. Durò altri due anni la guerra che fu detta di successione; ma dipoi la pace di Utrecht venne a rallegrare le travagliate genti (1715), Ciò che importò di quegli accordi alla nostra istoria fu il mantenimento del regno di Napoli a Carlo VI, e la cessione del regno della Sicilia al duca di Savoia Vittorio Amedeo. E pure importa sapere, per i futuri destini di questi due regni, che la corona delle spagne si fermo in Filippo V.

Poco appresso alla pace di Utrecht, il re Vittorio andò a Palermo per entrare al possesso del regno, e godere gli omaggi e 'l nome nuovo di re. Giunto nell'ottobre, e lietamente accolto dai popoli, ebbe il dominio dei regno dal marchese de Los Balbases, vicerè per Filippo V: e coronati con la moglie nel seguente dicembre, tornarono in Piemonte, lasciando l'isola, presidiata e obbediente, a governo del vicerè Annibale Maffei, mirandolese.

Ma nella pace di Utrecht, non essendo chiamato l'imperatore Carlo VI (così che in tutto l'anno 1715 durò la guerra in Spagna, in Italia, nelle Fiandre) abbisognò nuova pace che si fermò in Rastadt l'anno 1714; per la quale l'imperatore teneva la Fiandra, lo stato di Milano, la Sardegna, il regno di Napoli e i presidii della Toscana. Il conte Daun ritornò in Napoli vicerè. Pareva stabile qualle quiete; però che le ambizioni de' re potenti erano soddisfatte, quelle de' deboli principi disperate, quando tre anni appresso, nel 1717 senza motivo di guerra senza cartello senza contrasto, poderosa armata spagnuola occupò la Sardegna. Dopo la universale maraviglia si apprestavano armi nuove in Germania ed in Francia; ma lo stesso naviglio di Spagna improvvisamente assaltando la Sicilia prese Palermo, fugatone il vicerè di Amedeo, espugnò Catania, bloccò Messina, Tràpani, Melazzo. Reggeva tanta guerra il marchese di Leede, nato fiammingo, generale di Filippo V.

Si collegarono in Londra nel 1718, contro la Spagna, infida e ingorda di reami, l'impero, il Piemonte, la Francia e l'Inghilterra; e per patti, allora secreti, assalirono gli eserciti e le armate spagnuole in varie parti. Molte navi inglesi con soldati di Cesare ancorarono nel porto di Messina; oltre dieci migliaie di Napoletani e Tedeschi accamparono a Reggio; intendendo a liberare la cittadella di Messina e 'l forte di San Salvatore dell'assedio che stringeva l'intrepido Leede. In due battaglie navali ebbe piena vittoria l'ammiraglio inglese Bing su lo spagnuolo Castagnedo, così che molte navi furono prese, altre affondate, poche fugate o disperse. La città di Messina, benché dagli Spagnuoli posseduta, era investita; i campi spagnuoli minacciati; ma quel Fiammingo, assediato ed assediatore, provvedendo quando alle offese quando al difendersi, espugna le due fortezze, e innanzi agli occhi del vincitore Bing e de' campi cesarei, avventuroso innalza sopra quelle ròcche la bandiera di Spagna. Lasciata la città ben munita, corre all'assedio di Melazzo.

(1720) Altre armate, altre schiere nemiche alla Spagna arrivano in Sicilia: è presa per esse Palermo, liberata Melazzo, ricuperata Messina: i popoli che parteggiavano per il fortunato Leede, oggi, mutata sorte, parteggiano per Cesare: tutto va in peggio. Il generale spagnuolo, sospettando le sventure estreme, preparava l'abbandono dell'isola. La Spagna, travagliata in altre guerre, ormai non eguale a' potentissimi suoi contrari, accetta per pace i secreti accordi dell'alleanza nemica, e riceve piccolo e futuro premio contro i danni gravi e presenti della guerra. La Sicilia per quella pace fu data a Cesare: il re Amedeo n'ebbe, ricompensa povera, la Sardegna: ebbe Filippo V la successione a' ducati di Parma, Piacenza e Toscana. I principi ancora viventi di quei paesi, il papa pretendente al dominio di Parma, e 'l re Amedeo restarono scontenti di que' patti: ma in povertà di stato null'altro poterono che lamenti e proteste. Il generale Leede imbarcò per la Spagna le sue genti e cinquecento dell'isola, che volontari si spatriarono; però che, rimasti fedeli alla parte spagnuola, temevano lo sdegno e la vendetta del vincitore. Misera sorte di chi s'intrigò nelle contese dei re, e meritata se lo fece, non a sostegno di massime civili, ma per ambizione o guadagno.

Le due Sicilie si unirono sotto l'impero di Carlo VI, che nominò vicerè nell'isola il duca di Monteleone, ed in Napoli il conte Gallas, dopo il conte Daun richiamato. Morto il Gallas gli succedè il cardinale di Scotembach. E poiché nell'anno 1721 mori Clemente XI e fu eletto Innocenzo XIII, il nuovo papa, vedendo dechinata la fortuna e la potenza di Filippo V, non dubitò di concedere al felice Carlo VI la domandata investitura de' due regni. A questo Innocenzo, nell'anno 1724, Benedetto XIII successe.

XI. In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l'anno 1724, fatto atroce apportò tanto spavento al Regno, che io credo mio debito il narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla inquisizione; oggidì che per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione dell'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere in non pochi luoghi d'Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto né tristi secoli di universale ignoranza.

Andarono soggetti al Santo‑Uffizio, l'anno 1699, fra Romualdo laico, Agostiniano, e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per quietismo, molinismo, eresia; questa per orgoglio, vanità, temerità, ipocrisia. Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggieri da Dio, parlare con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, avere inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo‑Uffizio avevano disputato più volte con quel miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano delirii ed eresie. Chiusi nelle prigioni, la donna per 25 anni, il frate per 18 (attesochè gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martorii più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla per fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnachè gl'inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracin, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con ' la pompa dell'Atto‑di‑Fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la dolcezza, la mansuetudine, la benignità de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, e spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.

Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di sant’ Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gl'inquisitori; le altre logge per il vicerè, l'arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che, traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza sin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.

Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra' quali tripudii giunse prima la misera Geltrude, legata sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno. Convoiavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro,' cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domeniicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gl'inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.

Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento de' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì al palco, e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; e scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata. Così fra Rornualdo mori nell'altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna. Tra gli spettatori notavasi un drappello sordido, mesto, di 26 prigioni del Santo‑Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocchè gli altri, sia viltà, o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnuoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nipoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati; che raramente le pubbliche virtù, più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del Santo‑Uffizio: egli, lodato per altre opere e soprattutto per la biblioteca sicialiana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.

X. L'anno 1730 nuovi moti di guerra si palesarono; giacché per le segrete pratiche di Hannover, la Francia, la Spagna e la Inghilterra apprestavano eserciti ed armate, e l'imperatore Carlo VI, avvisato di quei disegni, spediva nuove milizie ad afforzare gli Stati di Milano e delle Sicilie. In quell'anno istesso, per la morte di Benedetto XIII, ascese al papato Clemente XII. E si udì il famoso re Vittorio Amedeo rinunziare il regno a suo figlio Carlo Emanuele per andare privato nel castello di Chambery. Anni avanti, maggiore re, Filippo V, aveva pur fatta cessione del regno per vivere divotamente, ci diceva, nel castello di sant'Idelfonso; ma dopo otto mesi, per la morte del figlio Luigi, ripigliata la corona, regnò come prima infingardo e doppio. Così Amedeo, presto fastidito del ritiro di Chambery, volea tornare all'impero; ma il figlio re gli si oppose, ed indi a poco lo mandò prigione al castello di Rivoli, poscia a quello di Moncalieri, dove, guardato, mori miseramente, negatogli di vedere gli amici, il figlio istesso, la moglie.

XI. (1732‑35) Dopo due anni di pratiche ed apparecchi venne in Italia l'infante di Spagna don Carlo, per mostrarsi a' popoli di Toscana, Parma e Piacenza, suoi futuri soggetti, facendosi nella reggia spagnuola memorabili cerimonie di congedo; avvegnachè nel giorno della partita, stando il re Filippo e la regina Elisabetta seduti in trono, e tutta la corte assistente, l'infante don Carlo, com'era costume di quella casa e come voleva figliale rispetto, s'inginocchiò innanzi al padre, il quale con la destra gli segnò ampia croce sul capo, e messolo in piede, gli cinse spada ricchissima d'oro e di gemme, dicendo: «E' la stessa che Luigi XIV, mio avo, mi pose al fianco quando m'inviò a conquistare questi regni di Spagna: porti a te, senza i lunghi travagli della guerra, fortuna intera». E baciato su la gota lo accomiatò. Poco di poi eserciti poderosi di Francia scesero per cinque strade in Italia, condotti dal vecchio maresciallo di Villa's; e rinnovando guerra nella Lombardia ebbero successi felici. Ciò visto, molte navi spagnuole sciolte dai porti di Livorno e Longone, ed un esercito radunato negli Stati di Parma e di Toscana, guidato dall'infante per nome o impero, e dal conte di Montemar per consiglio, si avviarono nemichevolmente verso Napoli. La quale impresa, come origine del novello Stato, narrerò nel seguente capo, qui bastando accennare che, non ancora finito il mezzo dell'anno 1755, tutte le terre e tutti i popoli delle due Sicilie stavano sotto il re Carlo Borbone.

XII. Le cose riferite de' passati tempi risguardano al dominio di questi regni, palleggiati di casa in casa regnante per guerre e conquiste. E se qui fermassi il racconto, null'altro avrei rappresentato che violenze de' grandi, sofferenze di popoli, vicissitudini di fortuna; cose note sazievolmente a' lettori. Sarà miglior pregio descrivere fra tanti scambiamenti d'impero il cammino della civiltà ovvero le leggi, i magistrati, la finanza, l'amministrazione, la milizia, le condizioni dei feudi, lo stato della Chiesa: né già da principio al fine, materia che soperchierebbe lo scopo dell'opera e le forze dello scrittore, ma quali erano l'anno 1754 quando Carlo Borbone venne al trono delle Sicilie.

Nella caduta dell'imperio di Roma decaddero le sue leggi, si ebbero leggi scritte da Longobardi, Vinti costoro da' Normanni, rimasero quelle leggi più autorevoli perché durate sotto stirpe nemica e vincitrice. Prima sparse, furono poi composte in libro; ma non isperi chi legge in esso (una copia se ne conserva negli archivi della Trinità della Cava) trovarvi distinte le materie legislative, essendo l'ordinare de' codici scienza moderna. Le leggi di Roma restate in quella età valide per il clero, sapienza e tradizione per i dotti, non avevano forza nello Stato, perciocchè il re comandava, sentenziavano i giudici, le ragioni de' cittadini si dispensavano secondo il libro longobardo.

E benché di credito scemasse quel codice poi che le Pandette di Giustiniano furono lette e disputate nelle scuole d'Italia, reggeva pur sempre accresciuto dalle leggi normanne; trentanove di Ruggero, ventuna di Guglielmo I tre del II, tutte col nome di Costituzioni. Passato il regno agli Svevi, Federico volle che le sue leggi con le normanne, disposte in libro e chiamate dal suo nome costituzioni di. Federico II, si promulagassero. E quindi crebbe la mole delle leggi scritte coi capitoli della stirpe angioina, con le Prammatiche degli Aragonesi. Divenuto il regno provincia spagnuola e poi tedesca, molte leggi col nome istesso di Prammatiche furono date dai re di Spagna, dagl'imperatori di Germania, e da' loro vicerè. Fra tanto scambiarsi di dominii e di codici, alcune città si governavano per consuetudini.

E perciò cominciando a regnare Carlo Borbone, undici legislazioni, o da decreti di principe, o da leggi non rivocate, o da autorità di uso reggevano il Regno; ed erano: l'antica Romana, la Longobarda, la Normanna, la Sveva, l'Angioina, l'Aragonese, l'Austriaca spagnuola, l'Austriaca tedesca, la Feudale, la Ecclesiastica, la quale governava le moltissime persone e gli sterminati possessi della Chiesa, la Greca nelle consuetudini di Napoli, Amalfi, Gaeta, ed altre città un tempo rette da uffiziali dell'impero di Oriente; così come le consuetudini di Bari e di altre terre traevano principio dalle concessioni longobarde. Le molte legislazioni s'impedivano, mancava guida o imperio alla ragione de' cittadini, al giudizio dei magistrati.

Un giudice in ogni comunità, un tribunale in ogni provincia, tre nelle città, un consiglio detto collaterale presso il vicerè, altro consiglio chiamato d'Italia o supremo presso del re in Ispagna quando i re spagnuoli dominavano, o in Germania quando imperavano i Tedeschi, erano i magistrati del Regno. Non bastando alla procedura i riti di Giovanna II, suppliva l'uso, e più spesso l'arbitrio del vicerè: non essendo ben definito il potere de' magistrati, la dubbietà delle competenze si risolveva dal comando regio: e le materie giudiziarie avviluppandosi alle amministrative, il diritto e 'l potere, il magistrato e 'l governo soventi volte si confondevano. Finalmente, per la ignoranza di quella età, i soggetti credendosi legittimi servi, e i reggitori stimandosi non ingiusti a soperchiare, ne derivava doppio eccesso di servitù e d'impero: con deformità più manifesta né processi e né giudizi. Crearono gli enunciati disordini curia disordinata e malvagia. Qualunque della plebe con toga in dosso dicevasi avvocato ed era ammesso a difendere i diritti e le persone de' cittadini: e però che all'esercizio di quel mestiere pieno di guadagni non si richiedevano studii, esami, pratiche, lauree moltiplicava tuttodì la infesta gente de' curiali.

XIII. Ora dirò della finanza, parte assai principale di governo, che oggi vorrebbe sottoporsi a regole e guidarsi con filosofiche dottrine, tal che mantenesse la potenza allo Stato e la prosperità del vivere civile: ma ne' tempi de' quali compongo le istorie, era uso cieco e violento di forza, senza ordine, o misura, o giustizia; rovinoso a' privati, non profittevole all'universale. S'imponevano tributi a tutte le proprietà, a tutte le consumazioni, a qualunque segno di possesso, alle vesti, al vitto, alla vita, senza misura o senno, solamente mirando all'effetto maggiore delle imposte. Sotto i Nor­manni e gli Svevi (rammento cose note, ma necessarie), né regni meno rei di Guglielmo il Buono, di Federico II e di Manfredi congregandosi a parlamen­to la baronia, il clero, i maggiori di ogni città, si statuivano le somme da

pagarsi al fisco; ma quelle pratiche civili, già decadute sotto gli Angioini ed Aragonesi, cessarono affatto nell'avaro governo vicereale, che a ragione temeva le adunanze degli uomini e de' pensieri: o se talvolta i reggitori commettevano a' Seggi della città di proporre le nuove taglie, era scaltrezza per evitare i pericoli e l'onta dell'odiosa legge. Poste tutte le gravezze, né però satollata l'avidità o provveduto a' bisogni, si venne a' partiti estremi, sperdendo i beni del demanio regio, dando a prezzo i titoli di nobiltà e le magistrature, infeudando le città più cospicue, ipotecando le future entrate

del fisco, e alienandole come quelle dette c ' on voce spagnuola arrendamenti.

XIV. Non meno della finanza era mal provvista l'amministrazione de' beni e delle entrate comunali, che per le costituzioni di Federico II, perciò sin da tempi antichissimi, affidavasi ad un sindaco e due Eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento, che non altri erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i debitori della comunità, gl'infami per condanna o per mestiero. Si adunava in certo giorno di estate nella piazza, e si facevano le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito. Libertà, che non eguale alle altre regole di governo e superiore a' costumi del popolo, trasmodava in licenza e tumulti. Due sole amministrazioni si conoscevano, di municipio e di regno: le innumerevoli relazioni di municipio, a municipio, a circondario, a distretto, a provincia, erano trasandate o provvedute per singolari arbitrarie ordinanze. L'amministrazione del regno non avendo codice che desse moto, norma o ritegno alla suprema volontà, mancava quell'andar necessario per leggi che è certo cammino e progresso alla civiltà. Perciò le opere pubbliche erano poche, volgendosi a profitto dell'erario il denaro, che ben regolato regno spende per comune utilità: le sole nuove fondazioni erano di conventi, di chiese, di altri edifizi religiosi, ovvero monumenti di regio fasto. Quindi le arti, poche e meschine; una la strada, quella di Roma; piccolo e servo il traffico di mare cogli esterni, nullo quello di terra, i fiumi traboccanti, i boschi cresciuti a selvatiche foreste, l'agricoltura come primitiva, la pastorizia vagante, il popolo misero e dicrescente.

Solamente per circolo inesplicabile dell'umano intelletto risorgevano fra tanta civile miseria le lettere e le scienze, né già per cura del governo, che in questa come nelle altre utili opere stava ozioso ed avverso, ma per accidentale (se non da Dio provveduto) simultaneo vivere d'uomini ingegnosissimi. Domenico Aulisio, Pietro Giannone, Gaetano Argento, Giovan Vincenzo Gravina, Nicola Capasso, Niccolò Cirillo e tanti che saria lungo a nominarli, nati al finire del secolo XVII, vivevano né primi decenni del secolo seguente come luce della loro età e dell'avvenire. E viveva Giovan Battista Vico, miracolo di sapienza e di fama postuma, però che, da nessuno pienamente inteso, da tutti ammirato, e coll'andar degli anni meglio scoperto e più accresciuto di onore, dimostra che in lui era forse volontaria l'oscurità, o che le sentenze del suo libro aspettano per palesarsi altri tempi ed ordine di studii‑più confacente alle dottrine di quello ingegno.

XV. Assai peggiori delle istituzioni civili erano le militari. Si usavano per levar soldati tutti i modi illegittimi: i gaggi, la seduzione, la scelta de' condannati o de' prigionieri, la presa de' vagabondi, l'arbitrario comando de' baroni; il solo mezzo giusto della sorte non era usato. I pessimi delle città erano quindi eletti al più nobile uffizio dei cittadini, e si mandavano per guerre lontane in Italia, o più sovente in Ispagna, dove con abito spagnuolo, sotto non propria insegna, per nome e gloria d'altri combattevano. Napoli intorpidiva in servitù scioperata, i Napoletani stavano in guerra continua ed ingloriosa. Non erano nell'interno ordini di milizia; milizie straniere guardavano il paese, e le nostre in terra straniera obbedivano alle non proprie ordinanze: le arti di guerra imparate altrove non erano utili a noi; e 'l sangue e i sudori delle nostre genti non facevano la gloria nostra. Così che mancavano ordini, usi, esercizi, tradizione, fama, sentimento di milizia: e questo nome onorevole negli altri Stati era per Napoli doloroso ed abborrito.

XVI. La stessa feudalità era caduta di onore. Lo dirò in miglior luogo come ella venne a noi, quanto crebbe; come per le consuetudini feudali e le costituzioni de' principi disposte in libro, la servitù de' vassalli si legittimò; quali furono le venture della feudalità ne' regni angioini e svevi, e quanta la superbia di lei contro i re aragonesi: qui basta rammentare che precipitò di tanta altezza nel governo de' vicerè; né già per leggi o studio di abbassarla, ma per propria corruzione e per esiziale natura di que' governi. I baroni, non più guerrieri né sostegni o pericolo de' loro re, non curanti le opere ammirate di generosa nobiltà, oziosi e prepotenti ne' castelli, si godevano tirannide sopra vassalli avviliti. E i vicerè vendevano feudi, titoli, preminenze; innalzavano al baronaggio i plebei purché ricchi; involgavano la dignità feudale. Perciò, all'arrivo del re Carlo Borbone, i feudatari, potenti quanto innanzi per leggi, erano per sé stessi, vili, corrotti, odiati e temuti: non come si temono le grandezze, ma le malvagità.

XVII. Rimane a dire della Chiesa. Chi scrivesse con verità ed ampiezza le vite ed opere de' pontefici, distenderebbe la storia civile dell'Italia; tanto si legano al pontificato le guerre, le paci, gli sconvolgimenti e mutamenti di Stato, la civiltà rattenuta o retrospinta. E, per dir solamente del nostro regno, le brighe de' pontefici arrestarono, poi spensero, il bene civile che faceva la stirpe sveva: i pontefici doppiarono i mali della stirpe angioina: i pontefici alimentarono le guerre domestiche sotto i re aragonesi. Niccolò III congiurò nel vespro siciliano: Innocenzo VIII concertava la ribellione e la guerra baronale contro Ferdinando ed Alfonso: Alessandro VI non disdegnava di praticare con Bajazet, imperatore dei Turchi, per dar travagli ai regni cristiani delle Sicilie: i pontefici, nel lungo corso del viceregno, concitavano a discordia ora i reggitori ora i soggetti, come giovasse meglio alle pretensioni sterminate della Chiesa.

E poiché natura delle cose o provvedimento divino è il precipitare ai mali che ad altri si arrecano, furono que' pontefici, quanto più malevoli, tanto più tribolati ed infelici. Grandi sventure tollerò il papato in que' secoli: appena ristoravasi dalle divisioni e scandali dello scisma, che seguirono le dottrine di Lutero e la riforma; le guerre infelici, la prigionia di Clemente VII, gli atti del concilio di Trento non in tutto accettati dai re cristiani; la bolla di Coena Domini rifiutata, la così detta monarchia di Sicilia rinvigorita, le rivoluzioni di Napoli per la inquisizione, il discacciamento de' nunzi, l'abolizione della nunziaturà: ed in breve la scoperta ribellione delle podestà civili e delle opinioni all'imperio della Chiesa.

E più scendeva la pontificale alterigia se nuovi frati e smisurate ricchezze non si facevano sostegni al declinare. Mancando di que' tempi perfino il catasto, rimangono ignote molte notizie importanti all'istoria: gioverebbe conoscere il numero degli ecclesiastici e la quantità de' loro possessi, per misurare quanto il sacerdozio potesse in quel popolo; ma le praticate ricerche ed il lungo studio non sono bastate al bisogno, perciocché gli scrittori del tempo, se divoti alla Chiesa, mentivano, per vergogna, le mal tolte ricchezze; o, se contrari, per accrescere lo scandalo, le accrescevano. Tra le opposte sentenze, io dirò le conghietture più probabili. Nel solo Stato di Napoli erano gli ecclesiastici intorno a centododicimila, cioè, arcivescovi 22 vescovi 116, preti 56,500, frati 31,800, monache 23,600. E perciò in uno Stato di quattro milioni d'abitanti erano gli ecclesiastici nella popolazione come il 28 nel 1,000: eccesso dannevole alla morale perché di celibi, alla umanità perché troppi, alla industria e ricchezza pubblica perché oziosi. Nella sola città di Napoli se ne alimentavano 16,500.

In quanto ai beni, gli autori più circospetti gli estimarono, escluso il demanio regio, due terze parti dei beni del paese; ed altri scrittori, che pur si dicevano meglio informati, affermano che delle cinque parti quattro ne godeva la Chiesa, sentenze l'una e l'altra maggiori del vero.

All'arrivo del re Carlo Borbone la sede apostolica pretendeva sopra i re ed i regni arrogantemente, come a' tempi di Gregorio VII: ma, scema di moral potenza, sostenevasi, come ho detto, per gran numero di ecclesiastici e smisurate ricchezze; appoggi mondani, solamente saldi tra viziose generazioni.

XVIII. Stringerò in poche sentenze le materie discorse in questo capo. Era la Chiesa tuttavia potente di forze temporali; le credenze de' popoli alla religione, ferme o accresciute; a' ministri di lei ed al pontefice, addebolite. La feudalità intera, i feudatari spregevoli, la milizia nulla, l'amministrazione insidiosa ed erronea. La finanza spacciata, povera nel presente, peggio per l'avvenire; i codici confusi, la curia vasta, intrigante, corrotta; il popolo schiavo di molti errori, avverso al caduto governo, bramoso di meglio. Perciò, bisogni, opinioni, speranze, novità d'impero, interesse di nuovo re, genio di secolo, tutto invitava alle riforme.


 

 

 

CAPITOLO II     CONQUISTA DELLE SICILIE DALL'INFANTE CARLO BORBONE

 

XIX. Carlo nacque di Filippo V e di Elisabetta Farnese, l'anno 1716, nella reggia di Spagna, fortunata e superba, in secolo di guerre e di conquiste. Primo nato ma di nozze seconde, non avea regno. L'altiera genitrice, che mal pativa la minor fortuna de' figli suoi, potente per ingegno sopra lo Stato ed il re, ardita nelle sventure, pieghevole alla mala sorte, ottenne al suo infante per pronte guerre ed opportune paci la ducal corona di Toscana e di Parma. E nel 1733, a motivo o pretesto di dare un re alla Polonia, sollevate le speranze di lei, mosse gli eserciti e le armate per conquistar le Sicilie. Il giovine Carlo godeva in Parma i piaceri di regno, quando lettere patenti di Filippo, segrete della regina, lo avvisarono di nuovi disegni, e de' nuovi mezzi potenti di successo. La Spagna, la Francia, il re di Sardegna erano collegati contro l'Impero: poderoso esercito francese, retto da Bervick, passava il Reno; altri franco‑sardi sotto Villars scendevano in Lombardia; fanti spagnuoli sbarcavano in Genova, e cavalieri e cavalli andavano per terra ad Antibo; forte armata e numerosa dominava i mari dell'Italia; le forze spagnuole sarebbero dirette dal conte di Mantemar, ma, per fama e dignità del nome, sotto il supremo impero dell'Infante don Carlo. Erano speranze di quella impresa vincere i cesarei oltre il Reno, cacciarli di Lombardia, conquistar le Sicilie: «le quali, alzate a regno libero (scriveva la madre al figlio), saran tue. Va dunque, e vinci; la più bella corona d'Italia ti attende».

Era Carlo in quell'età (17 anni) che più possono le ambizioni innocenti: figlio di re proclive alla guerra e di regina insaziabile d'imperii e di grandezze, avido di maggior signoria che i ducati di Toscana e di Parma, aiutato all'impresa, ma copertamente, da papa Clemente XII, non dubitava delle sue ragioni sopra le Sicilie per lo antico dominio de' re di Spagna, e 'l più recente del padre; impietosiva de' popoli siciliani, che nella reggia di Filippo si dicevano più del vero travagliati dal governo di Cesare. Perciò ragioni, religione, pietà, proprio interesse lo spingevano a quella impresa. Il buono ingegno, ch'ebbe nascendo, gli era stato tarpato dagli errori della corte: aveva per natura cuor buono, senno maggiore dell'età, sentimento di giustizia e di carità verso i soggetti, temperanza, desiderio di grandezza, cortesia nei discorsi: piacevole di viso, robusto e grande di persona, inclinato agli esercizi di forza ed alle arti della milizia.

XX. Mentre le schiere spagnuole si adunavano ne' campi di Siena e di Arezzo, ed il naviglio di Spagna trasportava soldati, cavalli, artiglierie, l'infante convocò in Parma i generali più illustri per fermare i consiglio alla spedizione di Napoli. Poscia, nominata una reggenza, e promulgate le ordinanze per buon governo di quegli Stati, si partì secondato da' voti del popolo e da tutte le specie della felicità. Rivide Firenze, visitò a cadente ed ultimo gran duca mediceo Gian Gastone, traversò Siena ed Arezzo, rassegnò in Perugia, nel marzo di quell'anno 1734, tutte le forze che gli obbedivano; sedicimila fanti e cinquemila cavalieri, genti de' regni della Spagna, di Italia e di Francia; le reggeva in guerra Montemar; e militavano, fra i più chiari, un duca di Bervick del sangue dei re britanni, il conte di Marsillac francese, molti grandi della Spagna, e'l duca d'Eboli, il principe Caracciolo Torella, don Niccolò di Sangro, napoletani. L'Infante don Carlo in quella rassegna, seduto, intorno era circondato di numerosa corte ' splendida per ricche vesti ed insegne: vi si notavano il conte di Santo‑Stefano, già precettore, ora consigliero dell'Infante, il principe Corsini, nipote al papa, il conte di Charny, di sangue regio, cento altri, almeno, duchi e baroni: e fra loro, con semplice vestimento e modestia toscana, Bernardo Tanucci, l'anno innanzi avvocato in Pisa e professore di gius pubblico, ingraziatosi a Carlo per la eccellenza nelle arti sue, nominato auditore dell'esercito spagnuolo, e negli affari civili di regno consigliero gradito. I suoi futuri successi mi traggono a dire ch'egli nacque in Stia, piccola terra del Casentino, da poveri genitori, l'anno 1698; donato d'ingegno da natura e dagli studii accresciuto, libero pensatore dei tempi suoi, quando era libertà contrastare alle pretensioni papali. Così egli in Pisa; e quale poi fosse in Napoli, sollevato a primo dei ministri di Carlo, dirò a suo luogo.

Dopo la rassegna di Perugia, l'esercito mandato verso Napoli fu negli Stati pontifici accolto, mantenuto ed onorato: legati del papa lo precedevano, altri stavano ne' campi, altri presso di Carlo: ma la Corte romana, sebbene inchinasse alle felicità di Spagna, conoscendo le mutabilità della sorte, velava que' favori co' ministri di Cesare. L'istesso Montemar, sospettando che squadre imperiali venissero improvvise dietro alle sue colonne, fermò retroguardo fortissimo, e procedeva in tale ordinanza da volgere sopra ogni fronte le maggiori sue forze.

XXI. Al grido che l'esercito di Spagna si avanzava contro Napoli, le ' nuove speranze del popolo, i timori de' ministri di Cesare, gli apparati, le provvidenze agitarono il regno. Era vicerè Giulio Visconti, e comandava le milizie il conte Traun; i quali non potendo dissimulare il pericolo, sperarono di attenuarne gli effetti, palesandolo: il vicerè con editto bandi la guerra; e convocando nella reggia gli Eletti delle piazze, rivelò del nemico le speranze, i mezzi, il disegno; quindi il disegno, i mezzi, le speranze proprie; le fortezze munite, i presidii poderosi, le schiere attese da Sicilia, schiere maggior da Alemagna, un esercito di ventimila imperiali guidati dall'animoso maresciallo Mercy alle spalle dell'oste spagnuola, l'amore de' popoli per Cesare, gli aiuti divini per giusta causa: e poi pregava gli Eletti operassero col governo, accrescendo l'annona, mantenendo fida la plebe, pagando al fisco il promesso donativo di ducati seicentomila. Furono le risposte umili, confidenti; e, come è costume de' rappresentanti di popolo scontento, promettitrici nei pericoli presenti di soccorsi lontani.

Altro consiglio convocò il vicerè per la guerra. Diferrivano le opinioni del conte di Traun e del generale Caraffa, napoletano agli stipendii di Cesare. Voleva il Traun spartire le milizie nelle fortezze, obbligare il nemico a molti assedii, e, contrastando per parti di esercito e per luoghi divisi, allungare la guerra e aspettare gli aiuti di Alemagna. Voleva più animosamente il Caraffa memorare i presidii di Pescara, Capua, Gaeta, Sant'Elmo; vuotare ed abbattere le altre fortezze o castelli, comporre esercito che bastasse a fronteggiare il nemico, ed aspettare il tempo de' soccorsi volteggiando all'aperto e scansando le diffinitive battaglie, se non quando per argomenti di guerra fosse certa la vittoria. Vinse il parere del Traun: presidiate copiosamente le fortezze, i castelli, alzato campo forte per trinciere e batterie nelle strette di Mignano, pregato a Cesare di sollecitare i soccorsi. Venticinquemila tedeschi nelle due Sicilie si spicciolarono contro all'esercito unito di Carlo, men poderoso per numero, e senza gli aiuti de' luoghi e de' munimenti.

Nel tempo stesso il vicerè mandò vicari nelle province per levar genti d'armi, accumular denari e vettovaglie, provvedere alla difesa del regno facendo guerra in ogni città o borgo: furono vicari i primi tra i nobili. Compose oltraciò la guardia civile nella città capo, e nelle maggiori del reame; formò un reggimento di Napoletani volontari o ingaggiati per cura e spese del duca di Monteleone Pignatelli; e alla fine chiamando alla milizia i prigioni e i fuggiaschi rei di delitti, pose le armi in mano a' regnicoli o buoni o tristi.

Continua prosunzione delle tirannidi! volere i soggetti, schiavi a servirle, eroi a difenderle; scordando che la natura eterna delle cose, presto o tardi, nella persona o nella discendenza, a prezzo di dominii o di sangue, fa scontare ai tiranni le praticate crudeltà sopra i popoli.

Le cose fin qui comandate dal Visconti erano inopportune o non bastevoli, ma oneste: seguirono le peggiori. Alcuni tra' nobili, che nei consigli avevano parlato liberamente a pro dello Stato, furono per suo volere, senza giudizio, senza esame, come ad innocenti si usa, confinati nella Germania: molto denaro privato deposto ne' banchi o nei tribunali per liti civili, fu incamerato dal fisco: la città, minacciata, sborsò ducati centocinquantamila. E fra tante violenze pubbliche riuscivano più odiose le cortesie agli ecclesiastici: pregati a soccorrere il governo, chi poco diede, chi tutto negò senza patir forza o rimprovero. La viceregina, ed era inferma, si partì con la famiglia cercando ricovero in Roma. Gli archivi della monarchia furono mandati per sicurezza in Gaeta e Terracina. Il vicerè, egli stesso, faceva segreti apparecchi di lasciar la città. Fra tante sollecitudini passavano i giorni.

XXII. L'esercito spagnuolo procedendo traversò gli Stati di Roma senza che l'Infante entrasse in città, pregato dal pontefice ad evitargli contese cogli ambasciatori di Cesare: e per la via di Valmontone e Frosinone toccava quasi la frontiera del Regno. Ma prima ch'ei giungesse, altre armi sue posero il piede nelle terre di Napoli. Il conte Clavico, ammiraglio dell'armata spagnuola, salpata da' porti di Longone e di Livorno, arrivò con mostra potentissima di navi avanti alle isole di Procida e d'Ischia, le quali si arresero; però che poco innanzi, per provvido consiglio del governo, erano state quelle isole, impossibili a difendere, sguarnite di presidii. Gli isolani, accolto lietamente il vincitore, giurarono fede all'Infante. Le navi spagnuole, scorrendo e combattendo lungo i liti della città, accrebbero, secondo il variar delle parti, le speranze o i timori.

Cominciando le pratiche fra i Napoletani e gli uffiziali di quelle navi, si sparsero in gran copia nella città gli editti di Filippo V e di Carlo. Diceva Filippo aver prefissa la impresa delle Sicilie per amor de' popoli oppressi dalla durezza ed avarizia tedesca; ricordare gli antichi festevoli accoglimenti; credere (fra le contrarie apparenze o le necessità del governarsi) stabile a lui la fedeltà de' soggetti, e, se mutata, perdonare i falli e i tradimenti; confermare i privilegi alla città ed al reame, promettere d'ingrandirli; abolire le gravezze del governo tedesco, scemar le altre; reggere lo Stato da padre; sperare né popoli ubbidienza ed amore di figli. Nelle promesse di Filippo giurava Carlo, e soggiungeva che le discipline ecclesiastiche durerebbero con le stesse buone regole di governo, e che nessun altro tribunale sarebbe stato aggiunto a' presenti. Così svaniva i sospetti dell'abborrita inquisizione, e secondava gl'interessi della numerosa classe dei curiali. L'editto di Filippo era del 7 ‑di febbraio dal Pardo, quello del figlio del 14 di marzo da Civita‑Castellana.

L'esercito spagnuolo, passata senza contrasto la frontiera del Liri, stette un giorno ad Aquino, tre a San Germano. Gli Alemanni, fermate le idee della guerra, attendevano alle sole fortezze o castelli, accrescendone le armi, le

vettovaglie, i presidii: il conte Traun con cinquemila soldati teneva le trinciere di Mignano: il vicerè, tirando dallo Stato nuovi denari, aspettava con tormentosa pazienza gli avvenimenti futuri. Quello che segui nella notte dei 30 di marzo accelerò la fortuna dell'esercito spagnuolo; i precipizi dell'altro. Montanari di Sesto, piccola terra, esperti delle foreste soprastanti a  ‑ Mignano, offrirono al duca d'Eboli, capo di quattromila Spagnuoli, di condurli sicuri e inosservati al fianco ed alle spalle delle linee tedesche.

Accettata l'offerta, promesse le mercedi, minacciate le pene, giunsero gli Spagnuoli al disegnato luogo; e ne avvisarono il conte di Montemar, acciò ad ora prestabilita fosse assalito il campo nemico alla fronte, al fianco, alle spalle: il cannone di Montemar darebbe segno di muovere al duca d'Eboli. Ma una vedetta di Alemanni, scoprendo quelle genti, nunzia frettolosa, riferì al Traun i luoghi, i campi e il numero dei nemici maggiore del vero. Il generale tedesco, che credeva inaccessibili quei monti, ora, per nuovi esploratori, accertato delle narrate cose, disfece il campo, chiodò le gravi artiglierie, bruciò i carretti, e nella notte trasse le schiere dentro la fortezza di Capua, abbandonando, né disordini del fuggire, altri cannoni, bagagli ed attrezzi, che furono preda del duca d'Eboli, il quale, ai primi albori, viste le trincee deserte, discese dal colle e mandò al duce supremo il lieto avviso. Al vedere il conte di Traun fortificarsi a Mignano, senza rendere impenetrabili le soprastanti foreste, e lasciar libera la via degli Abruzzi per Venafro, poco guardata Sessa, nulla Mondragone: e nell'opposta parte, al vedere il conte Montemar trasandare le quattro facili strade, e disporre l'esercito ad assaltare la fronte del campo, convien dire che il nome di buon capitano era più facile ne' tempi addietro che ne' presenti.

Divulgate in Napoli, ed accresciute dalla fama e dall'amor di parte, le venture di Mignano, e rassicurata la insolenza plebea, stando l'armata spagnuola sempre a mostra della città, e le piazze delle navi piene di soldati e d'insegne, il vicerè, conoscendo ch'era pericolo il più restare, si partì al declinare del giorno 3 di aprile con gli Alemanni suoi soldati e ministri; da fuggitivi però, ché senza i consueti onori e senza editto, per le vie meno popolose della città, verso Avellino, e di là, verso Puglia. Alla città, senza capo e senza difesa, provvidero i magistrati e le milizie civili.

XXIII. L'Infante, dopo sei giornate di cammino, pervenne a Maddaloni con tardità ch'era consiglio per dare alla fama spazio di pubblicare la buona disciplina dell'esercito, le liberalità del nuovo principe. La regina Elisabetta, ricca dei freschi tesori venuti dal Messico, ne aveva data parte all'Infante per l'acquisto di Napoli; ed egli, magnifico, gli spargeva largamente nei popoli, pagava le vettovaglie, faceva doni, limosine, benignità frequenti; e, come usava quel tempo, dava spesso a gettare nella moltitudine monete a pugni.

Entrando nella città di Maddaloni, fu incontrato da numeroso drappello di nobili napoletani, concorsi a fargli guardia di onore. Sopraggiunsero gli Eletti di Napoli, deputati a presentare le chiavi, sperargli felicità, promettere

fede ed obbedienza: conchiudendo l'aringa col dimandare confermazione de' privilegi della città. Carlo in idioma spagnuolo, per sè e per il padre, re delle Spagne, li confermò. Non poco diversi da' presenti erano que' tempi:

oggi, a signor nuovo, si chiederebbe leggi, giustizia, eguaglianza civile; il nome di privilegio faria spavento, la primazia di una città o di un ceto produrrebbe tumulti: la storia che scrivo spiegherà le cagion ' i de' mutati desiderii. L'Infante, nel resto del giorno, in presenza del popolo, attese ad uccidere colombi, che nelle torri del magnifico ducal palagio nidificavano: come in Alife e in San Germano passò giorni alla caccia; non potendo le sollecitudini della guerra o le cure di regno distorlo da quel passionato diletto, il quale, invecchiato, gl'indurò il cuore, macchiò parecchie fiate le virtù di buon principe, e pur talvolta lo espose a pericolo della vita.

Il dì seguente, 10 di aprile, trasferì le stanze da Maddaloni ad Aversa, e, per consiglio, provvide alla guerra ed al regno. Fece suo luogotenente il conte di Charny per gli ordini civili della città e delle province; volle che i tribunali, per le agitazioni della guerra inoperosi, tornassero alle cure della giustizia. Mandò, con seimila soldati, A conte Marsillac ad occupar la città, disbarcare le artiglierie per gli assedii, assediare Baia e tre forti della città, stando il quarto (il Carmine) senza presidio, a porte schiuse. Altre squadre accampò nelle pianure di Sessa, per impedire a' presidii di Capua e Gaeta di comunicare insieme, e, correndo il paese, vettovagliarsi. E finalmente mosse contro le Puglie la scelta dell'esercito a combattere il vicerè, che, avendo unite alle proprie schiere quelle del generale Caraffa e del principe Pignatelli, ed altre venute da Sicilia, altre da Trieste, campeggiava le province con ottomila soldati. Ma il duca d'Eboli, capo degli Spagnuoli, procedeva lentamente, per aspettare la espugnazione de' castelli della città, e così, minorati gl'impacci, aver pronte altre squadre ai suoi bisogni.

Il forte di Baia, dopo breve assedio aperta la breccia, si arrese il 23 di aprile; il castello Santelmo, il 25; il castello dell'Ovo, il 2 di maggio; il Nuovo (sol perché gli assalitori, nel mezzo dell'assedio, mutata idea, investirono altra fronte) resistè più lungamente; ma pure, il 6 di maggio, abbassò le porte. I presidii de' quattro castelli furono prigioni: poche morti soffrì l'esercito spagnuolo e poco danno, ricompensato largamente dalle abbondanti provvigioni quivi trovate e dalle valide artiglierie, che subito volse agli assedii delle maggiori fortezze. Cotesti castelli, quando furono edificati, utili secondo il tempo, avevano le condizioni convenienti alle armi di quella antichità, ed alla scienza comune di guerra. Oggi sono a perdita d'uomini e di provvigioni, cittadelle contro del popolo, ricovero ed ardire alla tirannide. Ingrandire il piccolo castello di Santelmo tanto che alloggiasse forte presidio di tremila soldati, e demolire i tre castelli della città, sol che restassero batterie difenditrici del porto, sarà il senno di futuro governo, quando, in altra età, i reggitori di Napoli non temeranno le ribellioni, guardati da leggi, giustizia e discipline.

XXIV. Resa libera la città di ogni segno del passato dominio, l'Infante, il 10 di maggio, vi si portò con pompa regia, tra esultanze straordinarie del popolo, però ch'erano grandi le universali speranze, e 'l tesoriere spargeva nelle vie della città monete in copia di argento e d'oro. Egli entrava nel mattino per la porta Capuana; ma, volendo prima a Dio rendere grazie de' successi, scese nella chiesa suburbana di San Francesco, e restò in quel monistero di frati sino alle quattro ore dopo il mezzodì: quando, montato sopra destriero, con abiti e gioielli ricchissimi, venne in città, e furono prime cure sue visitare il duomo, ricevere dalla mano del cardinal Pignatelli la ecclesiastica benedizione, assistere divotamente alle sacre usate cerimonie, e fregiar la statua di San Gennaro con preziosa collana di rubini e diamanti. Compiuto nel duomo il sacro rito, continuò il cammino sino alla reggia; e passando innanzi alle carceri della vicaria e di San Giacomo, ricevute le chiavi in segno di sovranità, comandò aprir le porte per mandar liberi i prigioni: insensata grandezza! La città fu in festa; le milizie schierate nelle strade, o poste in guardia della reggia, erano urbane: i fuochi di allegrezza e le luminarie durarono tutta la notte.

Ma il giubilo de' cittadini non dissipava i timori di guerra. Si combatteva nella Lombardia, la vicina e ricca Sicilia fruttava a Cesare, un esercito d'imperiali campeggiava le Puglie, le maggiori fortezze del regno guardate da numerosi presidii e da capitani onorati difendevano la bandiera e il dominio dell'Impero: abbondanti rinforzi sperava il vicerè, e già seimila croati si dicevano in punto di arrivare a Manfredonia: i popoli, ora partigiani de' Borboni, muterebbero con la fortuna. Erano prospere a Carlo le condizioni di regno, non certe. Perciò il conte Montemar, visitatori e stretti i blocchi di Capua e di Gaeta, marciò con nuove schiere verso Puglia, ed unendosi al duca d'Eboli compose un esercito di dodicimila soldati, fanti e cavalieri, aiutati da molte navi che radevano i liti, ora più lente ora più celeri come in terra l'esercito. E l'Infante, nel tempo stesso, adoperando arti civili, chiamò con editto tutti i baroni del regno a giurar fede al nuovo impero; prefisse i tempi, minacciò le pene a' trasgressori. E giorni appresso, il 15 di giugno dell'anno 1734, fece pubblico il decreto di Filippo V che cedeva le sue ragioni antiche e nuove su le Sicilie, unite in regno libero, a Carlo suo figliuolo, nato dalle felici nozze con Elisabetta Farnese. Il quale nuovo re si fece chiamare Carlo per la grazia di Dio re delle due Sicilie e di Gerusalemme, Infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza, e Castro, gran principe ereditario della Toscana. E disegnò le armi, annestando alle nazionali delle due Sicilie tre gigli d'oro per la casa di Spagna, sei di azzurro per la Farnese, e sei palle rosse per quella de' Medici. Si ripeterono le feste civili, le ecclesiastiche, e il re ne aggiunse altra popolare, la coccagna, macchina vasta raffigurante gli Orti Esperidi, abbondanti di grasce donate alla avidità e destrezza di popolari; perciocchè i luoghi erano aperti, ma intrigati, e la presa difficile. Carlo dall'alto della reggia giovenilmente godeva i piacevoli accidenti della festa, quando la macchina, mal congegnata, caricata di genti, ripentinamente in una parte precipitò, tirando nelle rovine i soprastanti e opprimendo i sottoposti. Molti morirono, furono i feriti a centinaia; la piazza si spopolò: Carlo con decreto vietò simili feste all'avvenire.

XXV. Primo atto del sovrano potere fu il creare Bernardo Tanucci ministro per la giustizia. All'arrivo in Puglia dell'esercito spagnuolo, il vicerè intimidito e veramente inutile alla guerra montò in navi e partì, seco traendo il general Caraffa, accusato dal conte Traun, e chiamato a Vienna dall'imperatore per patir biasimo e pene; mercede indegna al buon consiglio dato o non accolto. Il principe Belmonte restò capo degli Alemanni, ottomila soldati, avventicci più che ordinati, varii di patria e di lingua, nuovi la più parte alla disciplina e alla guerra. Il quale Belmonte, dopo aver campeggiate la Basilicata e le Puglie, pose le stanze in Bari per più comodo vivere, non per avvedimento di guerra; avvegnaché nessuna opera forte aggiunse alle mura di quella città, ed all'apparire de' contrari, lasciato in Bari piccolo presidio, accampò l'esercito in Bitonto, città più forte per più saldi ripari e per munito castello e lunghe linee di fossi e muri nella campagna; lavoro di agricoltura, utile nondimeno alle difese. Pose nella città milacinquecento soldati, manco atti alle battaglie; schierò le altre genti dietro i muri e i fossi della campagna, accampò la cavalleria su la diritta dell’esercito, ridusse a castelli due monasteri collocati acconciamente alle ali estreme della sua linea. E ciò fatto, attese gli assalti del nemico.

Il quale volse anch'egli le sue colonne da Bari a Bitonto, avendo schiere maggiori usate alla guerra, cavalleria doppia della contraria ed artiglierie copiose. Giunto a vista degli Alemanni, accampò; e nel, seguente mattino, 25 maggio di quell'anno 1734, spiegò le ordinanze, soperchiando la fronte nemica, e ponendo fanti contro fanti, cavalli contro cavalli, ed altra cavalleria, di che abbondava, su l'ala diritta per correre la campagna e per gli eventi. Tentò gli Alemanni con poche genti; e trovata resistenza, retrocedè confusamente sperando che il nemico, fatto ardito, uscisse dai ripari ad inseguirlo: ma poi che le simulazioni non ingannarono il Belmonte, Montemar sperò vittoria dall'aperta forza; e movendo i fanti, spingendo i cavalli, accendendo le artiglierie, fece suonare ad assalto i tamburi e le trombe. Alle quali viste trepidarono i cavalieri alemanni; e dopo breve ondeggiare ruppero in fuga disordinatamente verso Bari, fuorché il colonnello Villani con duecento usseri che, pure fuggendo ma ordinato, prese il cammino degli Abruzzi e si ricoverò in Pescara. La partenza de' cavalieri non attesa e così celere parve diserzione e non fuga, sbalordì le altre schiere; e perfino il generale Belmonte ed il principe Strongoli, altro generale agli stipendi di Cesare, lasciato il campo seguirono i fuggitivi. La vittoria di Montemar fu certa e chiara; ché se la guerra due altre ore durò per combattimenti singolari, inutili ed ingloriosi, fu solamente perché mancava nel campo di Cesare chi ordinasse di arrendersi. Furono espugnati i due conventi, si diedero nello stesso giorno la città e il castello di Bitonto, si diede al dì vegnente la città di Bari: mille degli Alemanni morti o feriti, prigione il resto; preda del vincitore armi, attrezzi, bagagli; e suo trofeo ventitrè stendardi. Perdè l'esercito spagnuolo trecento morti o feriti, e furono prezzo della conquista di un regno e della gloria che ne colse il conte di Montemar, meno per sua virtù che per gli errori del nemico.

Doveva il Belmonte far sua base gli Abruzzi, liberi di Spagnuoli, con la ben munita fortezza di Pescara ed i forti castelli d'Aquila e Civitella: doveva ne due mesi che oziosamente vagò per le Puglie, preparare i campi a combattere: doveva, così indugiando, istruire e agguerrire i soldati venuti di Croazia, per dar tempo a' promessi aiuti di Alemagna; o, quando in tutto fosse stata avversa la sorte, doveva combattere sotto le mura di Pescara, sostenuto da una fortezza, da un presidio e dal fiume. Se a' maestri di guerra fosse dato lo scegliere le parti del Montemar o del Belmonte, nessuno forse prenderebbe quelle che furono vincitrici: e perciò venne al Belmonte mala fama, non meritata, d'infedeltà, come calunnia spargeva, ben dovuta d'ignoranza. Caddero senza guerra, per il solo rumore della battaglia di Bitonto, i castelli delle Puglie, eccetto Brindisi e Lecce. Buona schiera di Spagnuoli si avviò per gli Abruzzi; Montemar con le altre squadre tornò in Napoli; dei prigionieri alemanni tremilacinquecento passarono agli stipendi di Carlo; nuovi soccorsi d'uomini, di navi e d'armi venivano di Spagna e di Toscana. I principii di regno erano tuttodì più felici, e perciò nuove feste nella città. Giunto il Montemar, andò alla reggia, ed il re, sedendo a tavola di Stato pubblica, siccome era costume, fece col piglio liete accoglienze al vincitore, il quale, decoroso e modesto, rispondeva con gl'inchini alle grazie. Ed allora Carlo in idioma spagnuolo dimandò (come si usa quando manca subietto al discorso). «Che nuove abbiamo, Montemar?» E quegli: «Che i vostri nemici han dovuto cedere alle vostre armi; che tutti, o estinti o prigioni, onorano la vittoria; che le vostre schiere combatterono con egual valore, ma furono più invidiate le Vallone». I circostanti, maravigliando il debole richiedere del re, ammirarono il bel rispondere del conte. Al quale nel seguente giorno il re diede premii, onori, titolo di duca, e comando perpetuo del Castelnuovo. Dipoi fece alzare nel campo di Bitonto salda piramide, scrivendo nel marmo la felicità della battaglia, sotto qual re, con quali armi, per qual capitano: monumento che, dopo i racconti della istoria, rimane segno di superbia non di virtù.

Cederono alle armi spagnuole, l'un dietro l'altro, tutti i castelli del regno; e le piccole guernigioni alemanne passarono a servir Carlo. L'isola di Lipari, minacciata da navi spagnuole, accettò lieta il nuovo dominio. Le sole maggior fortezze, Pescara, Capua, Gaeta, resistevano. Ma il dì 29 di luglio Pescara capitolò: le sue fortificazioni, benché del genere moderno, difettano nella giacitura, nel rilievo, nella mancanza di opere esteriori; e sebben tali, resisterono a lungo assedio; né il generale Torres abbassò la bandiera imperiale prima che fosse aperta larga breccia e tanto agevole da uscir per essa con la guernigione: onore che ottenne in mercede di virtù, sempre dal mondo, e viepiù da nemici ammirata in guerra. Oltre alle riferite cose, nessun'altra di quello assedio è memorabile.

XXVI. E quasi né medesimi giorni, a' 6 di agosto, la fortezza di Gaeta si arrese. Giova nelle storie presenti andar ripigliando alcune vecchie memorie, che senza tai ricordi rimarrebbero peregrine erudizioni di poche menti. Le prime mura di quella citta furono alzate, come dice antica tradizione, da Trojani; ed Enea le diede nome dal nome della sua nutrice ivi sepolta. Subito crebbe d'uomini e di ricchezze, e non capendo nelle prime mura, si allargò in altre più vaste. Alfonso di Aragona vi alzò un castello. Carlo V, veduta la forza del luogo e l'ampio porto, sicuro a' legni di commercio e di guerra, fece chiudere la città di muri a fortezza; e nei succedenti tempi ogni nuovo re volle aggiungervi opera o nome: tal che nel 1734, quando l'assediarono gli Spagnuoli ' era poco men d'oggi e tale qual io la descrivo. Siede su di un promontorio che finisce in un istmo, nel mar Tirreno: il promontorio per tre lati s'immerge in mare, il quarto scende e rapida e stretta pendice, che poi si allarga, fra i due lati dell'istmo, sempre in pianura finché non convalli co' monti di Castellona e d'Itri. Nella cima del promontorio ètorre antichissima, detta di Orlando: le mura della fortezza seguono la china del terreno, e però vanno a serra ed a scaglioni a toccare d'ambe le parti l'ultime sponde, formando bastioni, cortine, angoli sporgenti, angoli entranti, così che ogni punto è difeso: vi ha la scienza moderna, non le regole, però che le impediva la natura del luogo. Non direi perfette quelle opere, né spregevoli, e si richiede buono ingegno a difenderle o ad espugnarle. Nella fronte di terra una seconda cinta sta innanzi della prima, e due fossi, due cammini coperti, varie piazze d'armi la muniscono. In due soli punti sono più facili le rovine; nella così detta cittadella (il castello di Alfonso) e nel bastione della breccia, che ha preso nome dalle sue sventure: la cinta, quanta ne resta, è tagliata nel duro sasso calcare.

Allorché il blocco della fortezza mutò in assedio erano in essa mille alemanni e cinquecento napoletani del battaglione che il duca di Monteleone formò: nessuni o pochi artiglieri, così che i Napoletani, per natura destri, furono esercitati a maneggiare il cannone: abbondavano armi, attrezzi, provvigioni di guerra e vettovaglie. E dall'o posta parte il duca di Liria dirigeva le offese con sedicimila spagnuoli, navi da guerra, armi, macchine, mezzi soperchianti; e però, aperta in breve tempo la trinciera di assedio, procedendo per cammini coperti verso le mura, alzò parecchie batterie di cannoni e mortari da percuotere in breccia la cittadella, e controbattere i cannoni della fortezza. Avanzavano gli approcci quando il duca Montemar venne ad accelerarne il fine ed a godere della vittoria; e poco più tardi, per le ragioni medesime e per fama di guerra, vi andò il re Carlo. Dopo il suo arrivo, moltiplicati i fuochi, cominciata la breccia e arrecato per le bombe danno e spavento alla città, il conte di Tattembach, governatore della fortezza, in consiglio de' capi del presidio propose di arrenderla, ma fu dai minori contrastato. Misera ed umile condizione di un comandante di fortezza vedere alcun altro degli assediati di sé più lento a desiderare gli accordi. Contrastanti le opinioni, e aggiunte al dechinare delle difese le discordie, sopravvenne la necessità di darsi prigionieri al nemico, e tutto cedere della fortezza. Pochi d'ambe le parti vi morirono: nulla si operò che fosse degno d'istoria. E dopo ciò, in tutto il reame, la sola fortezza di Capua, strettamente bloccata, alzava la bandiera di Cesare, stando su gli Alemanni il conte di Traun, su gli Spagnuoli il conte Marsillac, tra loro amici e in altre guerre compagni o contrari, prigioniero l'uno dell'altro, sbattuti dalla fortuna in varii casi, ma sempre in petto benevoglienti.

XXVII. Le presenti felicità di Carlo crescevano per le vittorie de' Gallo‑Sardi nella Lombardia, e per la rara costanza de' potentati europei agli accordi contro l'Austria. La battaglia di Parma quasi disfece l'esercito alemanno in Italia; il principe Eugenio non bastava con poche genti a fronteggiare sul Reno gli eserciti potenti di Bervick e d'Asfeld; l'Inghilterra e la Olanda duravano nella neutralità; il corpo Germanico dava pochi e mal sicuri aiuti all'Impero; la Russia, benché amica, terminava i pensieri e la guerra nella Polonia. Il re Carlo, vistosi potente e sicuro, preparando l'impresa di Sicilia, si volse a ' Ile cure interne dello Stato; prese giuramento dagli Eletti della città; raffermò per editti e religioni i giuramenti della baronia, e compose il ministero, il consiglio e la corte de' più grandi per nome, nobiltà e ricchezze. Provvide le magistrature: accolse benignamente quei vicari di Cesare spediti dal vicerè nelle province, mandò vicari suoi, nobili anch'essi e venerati: rimise molte colpe; consultò i Seggi circa le gravezze da togliere. Favoriva la nobiltà per naturale propensione d'animo regio, e perché, non ancora surto il terzo stato, nobili e plebe componevano il popolo. Dal qual favore proveniva pubblico bene, perciocchè i baroni, grati a que' benefizi, o allettati dalle grandezze della reggia, o lusingati dalle ambizioni, venivano in città, alleggerendo di loro i vassalli ed imparando costumi e forme di miglior civiltà. Ma vennero a bruttare le beneficenze di Carlo il sospetto e la intemperanza. Erano nella città pochi partigiani di Cesare (come ne ingenera qualunque impero), deboli, spregevoli, desideranti le vittorie di quella parte, ed ingannando, più che altri, le speranze proprie con falsi racconti di guerra e di politica. Scherniti per lungo tempo dalla fortuna, scemando di numero e di audacia, perdevansi nelle disperazioni e nel nulla; ma dalle felicità reso più molle l'orecchio de' governanti e più superbo il cuore, formarono parecchie giunte, una nella città, altre nelle provincie, chiamate d'inconfidenza, destinate a punire per processi secreti e giudizi arbitrari i nemici del trono; disegnando con quell'alto nome alcuni miseri, e facendo di vòte speranze o sterili sospiri nemicizia e reità di Stato.

Della giunta di Napoli era giudice tra molti Bernardo Tanucci, sconvenevole officio al grado e al nome; ma le prime ambizioni sono cieche.

I Seggi della città, invitati, come indietro ho detto, e adunati a consiglio per proporre l'abolizione di alcune imposte, grati a Carlo ed ambiziosi, pur confessando il non soffribile peso delle presenti taglie, pregavano a mantenerle; e di più a gradire gli universali sforzi nel donativo che offrivano di un milioni di ducati. Così veniva frodato il comun bene dagli affetti ed interessi di quel solo ceto che mal rappresentava l'intero reame: avvegnaché il re, per i bisogni della vicina spedizione di Sicilia, rendè grazie al consiglio, confermò le taglie, accettò il dono; e poco appresso quei medesimi Seggi imposero alla nazione gravezze nuove. I quali falli, troppo volte ripetuti, ora da' senati, ora da' consigli dei re, ora da' ministri, generarono nel popolo il desiderio di tal cosa che fosse efficace nell'avvenire ad impedirli. E questo mi è piaciuto accennare su gli inizii della mia fatica per far procedere insieme co' fatti la dimostrazione che i sociali sconvolgimenti sempre muovono da remote cagioni, crescono inosservati, e si palesano quando sono irrevocabili. Dimostrerà questa istoria (se la vita e le forze basteranno a' concetti) che le opinioni, i bisogni, le opere, le rivoluzioni dei Napoletani furono effetti necessari delle presenti vicissitudini; e che la sapienza di governo consiste nel discernere in ogni tempo il vero stato di un popolo, non confidando in certe false specie di libertà o di obbedienza.

XXVIII. L'impresa di Sicilia fu stabilita e apprestata. Era in quell'isola vicerè per lo Impero il marchese Rubbi; e però che l'idea della guerra (contrastare al nemico per assedii) era comune ai due regni, reggeva la cittadella e i forti di Messina il principe di Lobkowitz, la fortezza di Siracusa il marchese Orsini di Roma, quella di Trapani il generale Carrara: pochi Alemanni guardavano il castello di Palermo e gli altri dell'isola. Il popolo, ubbidiente a Cesare, desiderava Carlo per consueta voglia di novità e perchè l'odio a' Tedeschi è antico e giusto nelle genti d'Italia. Era l'esercitò spagnuolo, pronto a muovere, di quattordicimila soldati, fornito di artiglierie e di altri strumenti di campo e di assedio; molte navi correrebbero i mari dell'isola; duce supremo e vicerè per Carlo sarebbe il duca Montemar; duci minori, il conte di Marsillac ed il marchese di Grazia Reale; i popoli si speravano amici, la fortuna seconda. L'armata salpò dai porti di Napoli e Baia il 23 di agosto di quell'anno 1734. A mezzo corso divisa, Montemar volse le prue a Palermo, Marsillac a Messina. Quando in Palermo si scoperse il naviglio di Spagna, il vicerè imbarcò per Malta: i Tedeschi si chiusero nel castello; e 'l popolo, sciolto da' freni della fedeltà e del timore, tumultuava: ma gli amici della quiete correvano armati per la sicurezza della città, ed il comune inviò deputati al Montemar, nunci di obbedienza e di allegrezza. Egli, preceduto dagli editti di Carlo, sbarcato il dì 29 al porto di Sòlanto, entrò in Palermo nel vegnente giorno trionfalmente. Così a Messina, viste le navi spagnuole, il principe di Lobkowitz desertò due castelli per accrescere le forze de  Da cittadella e del castello di Gonzaga, che soli volea difendere. La città, liberata del presidio tedesco, si diede vogliosa alla Spagna. Furono poco appresso le principali fortezze assediate o bloccate, gli altri forti per minacce o con poca guerra ceduti, tutta l'isola occupata per armi o per editti. E pubblicando la fama gl'irreparabili danni patiti dall'Impero in Napoli, in Lombardia, in Germania, i Siciliani piegando alla certa fortuna, il dominio di Carlo si stabili sollecito ed universale.

Mentre in Sicilia si guerreggiava, cadde la fortezza di Capua. Gli Spagnuoli sempre minacciando assediarla, stringevano solamente il blocco; certi che presto mancherebbero le vettovaglie al numeroso presidio. Il conte Traun, più volte uscito da' muri alla campagna, uccisi molti nemici, molti presi, guastò parte delle linee che circondavano la fortezza; ma, non potendo predar viveri, le sue condizioni peggioravano; e le valorose geste, belle in campo, tornavano inutili alle difese. E però, il di 24 di novembre, Capua cedè, per patti onorevoli al vinto: i commissari spagnuoli trovarono nella fortezza armi, macchine, polveri abbondantissime; i magazzini di vettovaglie affatto vóti, gli ospedali pieni; sì che al conte Traun, per quelle perdite, crebbe nome di buon guerriero. Andava il presidio, cinquemila e cento soldati, ai porti dell'Adriatico, indi a Trieste, ma, nell'uscire dalla fortezza e nel cammino, più che duemila tedeschi passarono a Carlo, però che, di tutti gli eserciti europei, sono quelli più facili a mutare bandiera; indizio di domestica servitù, effetto di milizie levate non per coscrizione o sorte, ma per comando ed arbitrio.

Il duca Montemar, chiamato alla guerra di Lombardia, parti di Sicilia, lasciando per le sue veci il marchese di Grazia Reale. Caddero indi a poco la cittadella di Messina (era caduto il forte Gonzaga) e le fortezze di Siracusa e di Trapani. Nulla fu memorabile in quegli assedii per arte né per valore: due soli fatti nella espugnazione di Siracúsa attestano la semplicità de' tempi. Ferveva l'assedio; il generale della fortezza, bramando un giorno di tregua per ristaurare nell'interno le trincere e rinfrancare i soldati, mandò allo Spagnuolo dicendo: «Il generale Orsini, ammirato delle arti e della eccellenza spagnuola nel condurre gli assedi, aver brama di vedere, per istudio, le opere loro; dimandarne il permesso. Se gliel concederete, sospenderemo le offese per quel poco d'ora che il generale sarà fuori della fortezza». Que' detti lusingarono l'alterezza spagnuola, tanto che la prudenza mancò; e, fatta tregua, l'Orsini, uscito, vide e lodò la grandezza delle opere; poi convitato dal generale contrario, lodandolo e rallegrandolo, protrasse la dimora fino alla notte. Ricominciate le offese, continuavano ne' seguenti giorni: una bomba dei campo spagnuolo, caduta e fermatasi nella stanza dove il generale Orsini riposato desinava, fu cagione che, vista imminente la morte, egli in animo votasse alla santa protettrice della città, se dal pericolo campava, rendere la fortezza. La bomba non iscoppiò; la fortezza fu resa. L'ultimo della guerra fu in Trapani. E poiché le rocche de' Presidii della Toscana erano passate alle armi di Spagna, la conquista de' due regni, al cominciare del luglio del 1735, fu compiuta. Nelle descritte guerre, molti Napoletani e Siciliani seguirono le parti di Cesare o di Carlo, gli uni agli altri nemici; miseria di genti serve, divise di interessi e di voglie.

XXIX. Quando non ancora era compiuta la guerra di Sicilia, Carlo si avviò per quell'isola, e traversando il Principato Ulteriore, le Puglie, parte di Basilicata e le Calabrie, spargeva regalmente le ricchezze di America, mandate a lui dalla madre. Più che due mesi e mezzo, aspettando che la cittadella di Messina si arrendesse, viaggiò nel regno, troppo dedito alla caccia, per la quale i boschi si preparavano con grandi spese. Cacciando una volta presso a Rosarno, cólto da stemperata pioggia, si riparò in povero tugurio, e trovando giovine donna or ora sgravata, volle che il bambino portasse il nome di Carlo; si fece suo patrino; donò di cento doppie d'oro la madre; assegnò al fanciullo ducati venticinque al mese finché in età di sette anni venisse alla reggia. Lo scrittore che ciò narra, e che pur di mine vanità empiè le sue memorie, trovò meno degno di ricordanza il nome, il seguito e la fine dell'avventuroso fanciullo. Nella marina di Palmi sopra splendida nave Carlo imbarcò per Messina, e'l principe Ruffo, che per baronale ambizione lo sperava in Scilla, suo feudo, deluso in quella speranza, compose altra specie di corteggio. Innumerevoli barche ornate de' segni di festa e di pace andarono incontro alla nave del re, e disposte a semicerchio lo accompagnavano. In cinque gondole meglio adornate non vedevi che donne le più belle di quella città, dove le donne son belle, gaiamente vestite, quale di loro affaticandosi liete a' remi, quali governando il timone, e le altre suonando istromenti e cantando a cadenze versi di allegrezza e presagi di comun bene. Lusinghe imitatrici della favola, che non però guastavano il cuore di Carlo, in tanta giovinezza temperato e severo. Con quel corteggio arrivò a Messina dove altre feste si fecero.

Due mesi appresso andò a Palermo per via di mare, giacchè il proponimento di andar per terra fu distolto dall'asprezza de' luoghi, deserti di abitatori e selvaggi. Dopo magnifica entrata, Carlo, l'ultimo giorno di maggio, convocò nel duomo i tre Bracci o ceti del parlamento (il baronale, l'ecclesiastico, il demaniale), e tutti i notabili per nobiltà o grado: ed egli venuto in chiesa, e compiuti divotamente i riti sacri, montò sul trono, e ad alta voce (tenendo ferma la mano su i libri del Vangelo) giurò di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento, i privilegi delle città: e, soddisfatto al debito di re, invitò i presenti a giurare obbedienza e fede al suo imperio. Tutti giurarono; il sacro patto fra i soggetti ed il re fu statuito in presenza del popolo e di Dio. Finita la cerimonia, si preparò per a terzo giorno nella chiesa istessa l'unzione e coronazione di Carlo, che fu simile alle precedenti di altri diciotto re coronati in quel tempio, ma più magnifica per pompa e ricchezza, perciocché la corona, pesante diciannove once (cinque di gemme, quattordici d'oro e di argento), costava un milione e quattrocentoquarantamila ducati. Fece coniare in abbondanza monete d'oro, le onze, e di argento, le mezze‑pezze, col motto: Fausto coronationis anno; che i tesorieri per tutto il cammino dalla chiesa alla reggia gettavano a pioggia nel popolo. Ciò fu il 3 di giugno dell'anno 1735. Quattro giorni diede ancora alle pubbliche feste, e nel quinto il re, sopra ricchissima nave, seguitato da gran numero di altri legni, fece spiegar le vele per Napoli, dove approdò il giorno 12 tra le accoglienze universali e feste tanto prolungate, che volsero in sazietà e fastidio. Quelle finite, cominciarono al re le cure di pace.

 


 

 

 

CAPITOLO III     GOVERNO DI CARLO DOPO ASSICURATA LA CONQUISTA SINO ALLA VITTORIA DI VELLETRI

 

XXX. Non potrò esporre il governo di Carlo per successione di tempi e di cagioni, sì che la narrazione trapassi continuata di cosa in cosa; però che le leggi di lui, dipendendo talora da intenzione di pubblico bene, più spesso da occasioni o dal volere de' suoi genitori, o dall'esempio di Spagna, non erano simiglianti le cause, non unico e permanente il consiglio: ogni parte dello Stato fu mossa, nel corso intero del suo regnare, per infinite prammatiche o dispacci, senza legamento e senz'altra mira che ' di reggere secondo i casi e d'imperare Mi sarà dunque necessità rappresentare in complesso le sue riforme, onde apparisca nelle condizioni o nella civiltà de' soggetti quanta parte si dovesse alla scienza e alla mente de' reggitori.

Essendo il disordine maggiore ne' codici e nei magistrati, doveva essere prima opera di Carlo comporre novello codice che togliesse dalla napoletana giurisprudenza l'ingombro di undici legislazioni: ma facendo alla spicciolata, ei ne diede una dodicesima, più adatta invero alle circostanze del popolo, ma imperfetta e incompiuta quanto le precedenti. Non osò abbattere i trovati errori: la feudalità, la nobiltà, le pretensioni del clero, i privilegi della città, erano intoppi attorno ai quali si aggiravano i provvedimenti per restringere o confinare i mali pubblici, che maggior sapienza o ardire avrebbe distrutti. Vero è che l'ingegno della nostra età, usato alle sovversioni degl'imperii ed ai maravigliosi fatti della civiltà, misurando il passato con le ampiezze del presente, dice mediocri le geste, ch'erano grandi, de' secoli decorsi: così, come la posterità, leggendo le nostre istorie, e vedendo facili a lei i successi contro ai quali questa età vanamente cozzò, dirà infingardi e timidi noi, che pure, in politica, peccammo di volere e osar troppo.

La giurisprudenza civile non mutò. Le leggi criminali variarono, ma, dettate ad occasioni e nello sdegno, per delitti più frequenti o più crudeli, non serbavano le convenienti proporzioni, così che mancava la giusta e sapiente scala delle pene. Il procedimento civile di poco migliorò; erano sempre confuse le competenze; e sempre necessaria a sciorre i dubbi l'autorità del principe: i ministri aggiunti, i rimedii legali, tutti gli arbitrii del vicereale governo duravano. Il supremo consiglio d'Italia fu abolito: il collegio collaterale cangiò in consiglio di Stato, gli altri magistrati rimasero come innanzi, perché il re aveva giurato non mutarli. Di nulla migliorò il procedimento criminale; restando in uso il processo inquisitorio, gli scrivani, la tortura, la tassazione degli indizi, le sentenze arbitrarie, il comando del principe.

I difetti che ho toccato, e che in più opportuno luogo descriverò, cagionarono che i delitti, nel regno di Carlo, fossero molti ed atroci: nella sola città di Napoli numerava il censo giudiziario trentamila ladri; gli omicidii, le scorrerie, i furti violenti abbandonavano nelle province, gli avvelenamenti nella città, tanto che il re creò un magistrato, la Giunta de' Veleni, per discoprirli e punirli. Prevalevano in quel delitto le donne, bastandovi la malvagità de' deboli, come piace alla nequizia de' forti l'atrocità scoperta.

XXXI. Tali erano i codici. Carlo per paci e trattati con lontani regni ben provvide al commercio. Fermò concordia con l'impero ottomano; e per essa e per la riputazione del re cessarono le nemicizie coi Barbareschi. Fece nuovi patti di commercio e navigazione con la Svezia, la Danimarca, la Olanda: e gli antichi rinnovò con la Spagna, la Francia, la Inghilterra. Nominò tanti consoli quante erano le vie del nostro commercio; raccogliendo in una legge le regole del consolato, cioè podestà e diritti verso i nazionali, obblighi e ragioni verso gli esteri. Formò un tribunale di commercio, di otto giudici, (tre magistrati, tre baroni esercitati alle materie commerciali, due commercianti) e di un presidente scelto tra i primi della nobiltà: il qual tribunale rivedeva in appello le sentenze de' consoli, decideva le gravi questioni di commercio, e perché inappellabile, era detto supremo. Fece legge per i fallimenti, tanto severe che si direbbero tiranniche, se non attestassero le fraudi enormi e la corruzione dei commercianti. Altro magistrato col nome di Deputazione di Sanità vegliava a' contagi, a' lazzaretti, a' pericoli della salute pubblica, per leggi tanto sagge quanto dava la scienza di quei tempi. Se dunque in un libro fossero state con ordine registrate le disposizioni legislative che sparsamente si leggono in molti dispacci e prammatiche, avremmo avuto un codice di commercio pieno, finito, e il vanto di precorrere di mezzo secolo gli Stati d'Europa. Carlo fondò anche un collegio detto Nautico; e per esso fu migliorata e prescritta la costruzione delle navi, formato il corpo de' piloti, istruiti gli artefici e i marinari. E, come altro mezzo di commercio e d'industria, chiamò gli Ebrei, tollerati ne' passati secoli, poi molestati dalla ignoranza della plebe, indi scacciati per decreto di Carlo V. L'editto di Carlo Borbone era umano ed esemplare; concedeva sicurtà, libero commercio, diritti di cittadini, domicilio prefisso nella città, non ad oltraggio come in altri regni cristiani ma per più comoda e libera dimora. Né vennero in gran numero, con grandi ricchezze: poi dirà questa istoria quali sorti ebbero e qual fine.

L'effetto delle riferite leggi fu sollecito; però che i nostri porti si frequentavano da navi straniere, e i nostri mercati da merci, ma la bandiera napoletana poco navigava nei mari altrui, per gli errori della nostra interna amministrazione. Le mercanzie nostre erano i frutti della terra, che l'annona serrava e marciva nelle cànove, ogni vento, ogni mèteora facevano temere scarsezza di alcun prodotto; e s'impediva uscire le biade, gli olii, il vino, sole materie che ci abbondino. Era dunque necessità sostenere il nostro commercio col danaro; ed il governo, ciò visto, e credendo alle fallacie della bilancia commerciale, giudicò dannoso il traffico esterno, e valevole a ristorarsene gravar la entrata delle merci con dazi esorbitanti, che registrò in alcune ordinanze, dette tariffe doganali. Ignorava che tali dazi si pagano da', consumatori; ma presto vide crescere il prezzo delle cose, venir più caro il vivere, scemare i valori produttivi, declinare l'industria, scadere le ricchezze.

XXXII. Fra le descritte cure, Carlo, nell'anno 1738, strinse matrimonio con Amalia Walburga, figlia di Federico Augusto re di Polonia; giovinetta che non compiva quindici anni, modesta, e di costumi pura e devota. Riverita nel viaggio per la Germania, venerata dalle corti d'Italia, giunse a Portella, nostro confine, dove incontrossi al re sotto magnifico padiglione, fra pompe a lei nuove. Rallegrava i due sposi gioventù di entrambo, regno felice, cuor pio, sacro nodo, piaceri vicini ed innocenti: ella riverente e lieta, inchinò il re, che sollecito a rilevarla, col nome di sposa e di regina la strinse al seno. Venuti nella città A 22 di giugno, differirono la cerimonia dell' ingresso al 2 di luglio. Nel qual giorno Carlo instituì l'ordine cavalleresco di San Gennaro, che ha per insegna la croce terminata nelle punte da gigli, e in mezzo di essa la immagine del santo, in abito vescovile, col libro del vangelo, le ampolle del martirio, e il motto, In sanguine foedus: pende la croce da una fascia di color rosso. Il re è gran maestro; sessanta i cavalieri, scelti per antica nobiltà o presente grandezza. Sono statuti dell'Ordine: Portar fede alla cristiana cattolica religione; serbare al re inviolabile fedeltà; udir la messa ogni dì comunicarsi nel giorno del precetto e nel festivo del santo, far celebrare, alla morte di un cavaliere dell'Ordine, solenne messa, e recitare l'uffizio de' morti, e prendere la comunione; frequentare la cappella del santo; non fare, non accettare disfide a duello. E dipoi Benedetto XIV aggiunse per ogni cavaliere l'assoluzione piena de' peccati, la successiva continua remissione nei dì miracolosi del santo, tre volte l'anno, le plenarie indulgenze alla visita di tre chiese o altari; qualche dispensa dalle discipline del magro. Statuti e concessioni più convenienti a congreghe devote che ad ordine cavalleresco.

Poco prima dell'ordine di San Gennaro era stato fondato l'ordine militare di San Carlo, designando la stella, gli statuti, le vesti, gli ufficii. Non però furono eletti cavalieri, né allora, né mai più; e non si vide l'ordine figurato nello scudo della corona. Io non ho saputo se la dimenticanza nascesse da ragione di Stato o da incostanza, veramente insolita, di Carlo.

Questo re, pio di coscienza e di pratiche, inchinava in quel tempo alla Chiesa così per suo talento, come per arte di governo, E poiché le ecclesiastiche riforme sono le opere più onorevoli e sorprendenti di lui, uopo è che io le descriva dal principio alla fine. Non è già incredulo re, o re largo di coscienza, che abbassi la pontificale superbia, ma l'infante don Carlo, che nella chiesa di Bari, vestendo abito canonicale, offizia tra canonici nel coro; che vestito d'umile sacco, lava nella chiesa de' pellegrini i piedi al povero; che serve a messa per acquistarne le indulgenze, che ogni anno modella e compone di sue mani le figure e la capanna del natale di Cristo; che crede alla santità vivente del padre Pepe gesuita e del padre Rocco domenicano, frati scaltri ed ambiziosi.

XXXIII. Ho detto innanzi, che il pontefice Clemente XII temporeggiò fra le parti spagnuola ed alemanna, finché incerta pendeva la fortuna aspettando per favorire il favorito da lei. L'anno 1735, nel dì solenne di san Pietro, Carlo, già conquistatore sicuro e possessore delle due Sicilie, tutte le fortezze espugnate, spartite le insegne dell'impero, preparata la sua coronazione nella metropoli di Palermo, spedì ambasciatore al pontefice il duca Sforza Cesarini con la chinea e la somma di settemila ducati d'oro, tributo de' re di Napoli. Il giorno stesso il principe di Santa Croce ministro imperiale, offrì al pontefice il medesimo censo. La quale gara di obbedienza era finezza de' due re per ottenere, in argomento delle proprie ragioni sul contrastato regno, il suffragio del papa. Ma la guerra d'Italia era viva e dubbiosa; la chinea dell'Infante una novità, quella di Cesare un uso: non potevasi accettar la prima senza pontificale manifesto, bastava per la seconda il silenzio, e fu accettata. Carlo ne sentì sdegno.

E poco appresso scoppiò in Roma tumulto contro gli uffiziali spagnuoli e napoletani, che,‑ mandati ad ingaggiar uomini per la milizia, e caduti in odio, furono minacciati, offesi, percossi, forzati a nascondersi, dalla inferocita plebe. Il tumulto si estese a Velletri, dove altri ingaggiatori e soldati di Napoli stanziavano, e a tal si giunse nelle due città, che in Roma, sbarrate cinque porte, si custodirono le altre con doppie guardie popolari; ed in Velletri, munita la città, barricate le strade, armata sotto sedici capitani la milizia urbana, si disposero gli animi alla guerra. Delle quali cose informato Carlo, rivocò da Roma i suoi ministri, scacciò di Napoli i ministri del papa: il ministro di Spagna uscì di Roma; il nunzio, poco prima partito per le Spagne, avvisato che non sarebbe ricevuto in quegli Stati, si fermò a Baiona. Tutte le apparenze furono di nemicizia. E frattanto i soldati cacciati da Velletri si formarono in ordinanza, ed assaltata e presa la mai guardata città, uccisero alcuni del popolo, imprigionarono maggior numero, disarmarono tutti, ed imposero taglia, come a città vinta, di scudi quarantamila. Passano ad Ostia, saccheggiano le botteghe, incendiano le capanne de' miseri fabbricatori di sale: e subito prorompendo a Palestrina, le perdonano, per sedicimila scudi, il saccheggio. E peggio facevano se Carlo, non per arrestare quelle licenze, ma per segno di maggiore nemicizia verso Roma, non avesse comandato a quelle schiere di abbandonare le terre del papa, traendo seco i prigionieri di Velletri e le, armi tolte.

Il pontefice ricorse a' sovrani della Francia e dell'Austria: ma il primo schermì all'inchiesta; il secondo, rammentati al papa i mancamenti fatti all'Impero, pure offriva di spedire a Roma numerose forze a difesa dell'apostolica Sede. Clemente rifiutò l'offerta, e chinandosi all'umiltà delle preghiere, mitigò gli animi de' Borboni: i prigionieri di Velletri e tre Romani trasteverini, capi del tumulto, chiesti dal governo di Napoli e qua venuti, dopo non breve pena di carcere e pubblica mostra di pentimento, furono, per grazia del re, lasciati liberi; ma le armi ritenute. Lo sdegno in Carlo rimase piuttosto ammorzato che spento.

E però il ministro Tanucci e parecchi Napoletani di alto ingegno crederono acconcio il tempo a ravvivare le ragioni dello Stato e del re: l'abate Genovesi, benché in molta giovinezza, chiaro per lettere e per virtù, dopo aver dimostrato quanta ricchezza le persone della Chiesa, povere per voti, consumavano, propose riforme giuste, pie, generose. Altri altro proposero; e la stessa città, per suppliche al re, pregava d'imporre sopra i beni e sudditi ecclesiastici le taglie comuni, e convertire in moneta i preziosi metalli che soperchiavano al culto di nostra santa ed umile religione. Mosso da tante voci ed argomenti, Carlo mandò a Roma suo legato monsignor Galliani, uomo di nobile ingegno e libero quanto i tempi comportavano, il quale esponesse al pontefice le richieste o pretensioni del re: Nominare a' vescovadi e benefizi dei suoi regni; dare anch'egli, come i re potenti della cristianità, esclusione di un nome nel conclave; ridurre a minor numero i conventi di frati e monache; imporre alcuno impedimento agli acquisti, ed alcuna libertà a' beni, chiamati delle manimorte; cessasse la giurdisdizione dei nunzi, il tribunale della nunziatura si chiudesse.

Il papa, dubbioso e addolorato delle dimande, chiamò congregazione di cardinali, che tutte le rigettò come contrarie alle antiche ragioni ‑della Santa Sede. L'ambasciatore non chetò; ma crescendo in pretensioni, chiese l'adempimento del decreto di Onorio II a pro di Ruggiero, però che da Ruggiero discendeva Carlo, e da Onorio Clemente. Rammentò altre concessioni di antichi pontefici ad antichi re del‑le Sicilie: mentre al bel dire del Galliani assistevano la potenza dei Borboni, la fortuna di Carlo, la decrepitezza di Clemente e '1 desiderio di giovare al suo nipote Corsini, ch'era in corte di Napoli, vago di andare vicerè nella Sicilia, e forse pieno di più alte speranze. Per i quali rispetti promise la investitura de' conquistati regni al re Carlo, e concesse la berretta cardinalizia all'Infante di Spagna don Luigi. Lo sdegno de' due re fu placato; monsignor Gonzaga, nunzio trattenuto a Baiona, andò accetto a Madrid; e per la investitura di Carlo fu prefisso il 12 di maggio di quell'anno 1738.

XXXIV. Nel qual giorno il cardinale Troiano Acquaviva, ambasciatore del re, con seguito di feudatari napoletani e spagnuoli, andò al Quirinale, dove il pontefice nella maggior pompa, circondata da cardinali, arcivescovi e vescovi, fece leggere la bolla d'investitura conforme alle antiche, dicendolo Carlo VII, perché settimo re di Napoli con quel nome. Ma, fosse politica o vaghezza, Carlo non appose il numero, e si chiamò negli editti e ne' trattati come innanzi della investitura. Quietati gli sdegni col pontefice, monsignor Simonetti, ritirato in Noia, Tornò nunzio nella città: ed i ministri di Vienna fecero delle avvenute cose rimostranze al pontefice; Che, accorto, non diede orecchio, vedendo inchinare la fortuna all'altra parte; e, volendo distogliere il re dalle pretensioni esposte dal Galliani, pericolose alla dominazione ed alle ricchezze del papato, concedette in dono al re la bolla della crociata, precetto che per danari assolve da' precetti del magro.

XXXV. Scordate col passar del tempo le scambievoli blandizie della concordia, Carlo, dicendo che i trattati ed usi antichi non più convenivano al suo popolo, propose al papa novello concordato; e Clemente il concedeva, quando, lui morto nel 1739, successe al pontificato Benedetto XIV, cardinale Lambertini. Si sospesero le pratiche, ed alla fine, per dimande ripetute di Carlo, il papa nominò suo legato il cardinale Gonzaga; il re, il cardinale Acquaviva e lo stesso monsignor Galliani, arcivescovo di Tessalonica, i quali, convenuti il 2 di giugno del 1741, fermarono i patti del concordato, che poco appresso, ratificati da' due principi, divennero leggi e regole di Stato e di coscienza. Il reame di Napoli era veramente sconcertato da' diritti baronali e dalle immunità della Chiesa: quanto Carlo provvedesse a' primi, dirò a suo luogo; furono le seconde principal motivo al concordato. Si tolleravano tre specie d'immunità, reali, locali, personali. Per le reali, le proprietà della Chiesa nulla pagavano de' pesi pubblici: altre proprietà di natura laicale andavano confuse alle ecclesiastiche, e molte franchigie, ‑molti favori godevano le terre e le case dei ministri e delle persone della Chiesa: cosicché le ricchezze, l'avarizia, il numero, l'ardimento della Chiesa: cosicché le ricchezze, l'avarizia, il numero, l'ardimento del clero secolare e regolare facevano che la finanza, solamente sostenuta da poche terre e pochi cittadini, fosse stretta e cadente. Finché durò la guerra, ora la prudenza de' baroni, più spesso i doni della regina di Spagna, e sempre i consigli estremi e i prodotti della necessità coprivano la povertà del fisco: ma finite le sollecitudini e le venture della conquista, languiva lo Stato, e le stesse vicereali gravezze non bastavano; tanto più che sopravvennero le spese di numerosa splendida corte e i cresciuti bisogni pubblici per l'avanzata civiltà.

Le immunità locali erano degli asili. Dava asilo a' rei ogni chiesa, ogni cappella, i conventi, gli orti loro e i giardini, le case, le botteghe, i forni che avevano muro comune o toccanti con la chiesa, le case de' parrochi. Così che, in tanta copia di protettori edifizi, trovavansi gli asili sempre a fianco al delitto, guardati da vescovi o cherici, e dal furore della plebe, che difendeva quelle ribalderie come religioni. Ugual danno veniva alla giustizia dalle immunità personali; però che, al numero già troppo de' cherici, si univano le squadre armate de' vescovi, gl'infimi impiegati alle giurisdizioni ecclesiastiche gli esattori delle decime, i servi, i coabitanti, le stesse (un tempo) concubine de' preti.

La corte di Roma, per amore di Carlo e per buon consiglio di serbarsi amico re fortunato e vicino, concordò che scemassero le tre specie di immunità. Gli antichi beni della Chiesa, d'allore innanzi, pagassero la metà de' tributi comuni; i nuovi acquisti, l'intero: il censo dello Stato separasse dal patrimonio del clero le proprietà laicali confuse in esso per malizia o errore: le franchigie fossero ridotte; i favori d'uso rivocati. Si ristringesse alle chiese l'asilo, che rimarrà per pochi falli e leggieri. Definito lo stato ecclesiastico e ridotte le immunità personali, la giurdisdizione vescovile fosse circoscritta; la secolare di altrettanto ampliata: accresciute le difficoltà per le ordinazioni e le discipline de' cherici, a restrignere il numero de' preti. Un tribunale chiamato misto (perché di giudici ecclesiastici e laici), decidesse le controversie che nascessero dal concordato.

Le speranze de' sapienti e de' liberi pensatori furono in parte appagate, in parte deluse. Della investitura, della chinea, de' donativi, de' benefizi sul patrimonio ecclesiastico, dei vescovadi da ridurre dei preti e frati da minorare, della piena abolizione degli asili, come del foro ecclesiastico e delle immunità, e, per dirla in breve, de' maggiori interessi della monarchia non si fece parola nei patti o nelle conferenze del trattato. Abbondava l'animo a' negoziatori napolitani; mancava la speranza del successo. Lo stesso popolo, lo stesso Carlo re, que' medesimi che traevano benefizio dell'assoluta libertà, ignoranti o divoti, non la bramavano.

XXXVI. Il concordato diede motivo e principio a più grandi riforme: il governo interpretando, estendendo, e talora soprausando que' patti, ordinò la giurisdizione laicale; restrinse le ordinazioni dei preti a dieci per mille anime; negò effetto alle bolle papali non accettate dal re; impedì nuovi acquisti, bandi impotenti le censure dei vescovi, se i regnicoli v'incorressero per adempimento di leggi o di comandi del principe. Tutte o presso che tutte le contese erano decise a pro de' laici; tutte le licenze del clero, punite. Due Padri di alto grado nell'Ordine loro si opposero in causa di asilo al giudice del luogo; Carlo, fatti estrarre per forza dalla chiesa e rifugiati, sfrattò dalla provincia ignominiosamente i due frati. Devota famiglia di Abruzzo ergè chiesa in voto al santo patrono della città; e poiché legge di Carlo vietava fondar nuove chiese senza regia permissione, comandò che quella fosse data ad uso civile o abbattuta: ma zelo di religione non permettendo alla pia famiglia mutar destino all'edifizio, fu per pubblico esempio demolita. Negò licenza di fondar nuovi collegi di gesuiti, e, per le troppe insistenze e superbia dell'Ordine, rammentando il voto di povertà, gli proibì con legge i nuovi acquisti. Simili providenze erano continue: e però debbe dirsi, a pregio di Carlo, che nelle relazioni con la Chiesa, egli, prima per trattati o per leggi, tolse gl'impedimenti alla civiltà, e poi per opere agevolò il sentiero a novelli progressi.

XXXVII. Per trarre giovamento de' patti del concordato sulle immunità reali, bisognava conoscere appunto i possessi della Chiesa, e similmente de' feudi, delle comunità, de' pii luoghi laicali, delle pubbliche fondazioni. La statistica, oggi sì chiara, era ignota in que' tempi; ma una specie di lei (che necessariamente sorge, benché informe, nei principii di ogni civiltà) si offre alla mente de' reggitori tostoché vogliano governare un popolo, non più co' modi della prepotente ignoranza, cioè segreto ed arbitrio, ma con le regole della giustizia e la coscienza di bene operare. Tal era l'animo del re Carlo e del suo ministro: i benefizi del loro governo, poiché mancavano la scienza e le dottrine, nascevano da istinto e da amore; siccome i mali, dagli errori del tempo e dalla strettezza del loro intendimento. Era Carlo ignorante, poco meno il Tanucci; entrambi, insufficienti ad anticipare la futura civiltà, coltivavano la presente e ne spandevano i doni e le regole. Oggi tal re, tal ministro, posti a governare nazioni, le farebbero grandi o felici. E però che la scienza amministrativa di allora era il catasto, essi l'ordinarono, introducendovi molte parti di statistica universale.

Posando l'opera su le volontarie rivelazioni, i semplici, gli onesti palesavano il vero; gli scaltri mentivano: fu mirabile sincerità ne' migliori dello Stato e negli ultimi del popolo; come le discordanze e le menzogne ne' curiali, ne' cherici, nei baroni. I privilegi di alcune città, mantenuti per gli editti di Filippo V e dello stesso Carlo; le terre feudali soggette alle proprie leggi; alcune immunità della Chiesa, riconosciute nel concordato, impedivano la celerità del lavoro: ma essendo salda e continua l'opera del governo, il catasto fu compiuto, e' comunque imperfetto, triplicò la entrata pubblica; diede alcun ristoro alla classe più misera de' cittadini; molte passate fraudi rivelò, molte per lo avvenire impedì. E più sarebbe stato il benefizio, se il Tanucci o Carlo Intendevano le regole della finanza. Fu mantenuto il testatico, la sola vita era cagion di tributo; si tolleravano gravezze alle spese ed all'entrate; molte rendite di doppio aspetto doppiamente pagavano al fisco, molte altre sfuggivano alle imposte; pagavano le arti e i mestieri, non pagavano le professioni dette nobili, come di medico, di avvocato, di giudice, per astuzia e brighe di costoro. Gli arrendamenti, specie di dazi indiretti, disordinavano le private industrie; quello del tabacco, vietando la coltivazione libera della pianta, per piccolo finanziero guadagno distruggeva gran frutto delle nostre terre. E non fa maraviglia che la finanza fosse mal regolata nel 1740, se a' di nostri in nessuno Stato dei più civili si vede ordinata del tutto con le regole della scienza e dell'utile universale. Frattanto il concordato, il catasto, il senno di ' Carlo, la parsimonia del Tanucci, fecero contento il popolo e così copioso l'erario, che, soperchiando ai bisogni, bastasse a' monumenti di grandezza.

XXXVIII. Ma però che breve o interrotta suole essere la felicità di un regno, sorse nuova guerra, e per essa nuovi pericoli e maggiori spese. Sin dall'anno 1737 era morto Gian Gastone gran duca di Toscana, ultimo della casa medicea, e spenta in lui la invilita famiglia. Filippo V e Carlo re di Napoli si chiamarono eredi al trono di Toscana, nudo titolo, che non mosse alla guerra gli altri re pretendenti. Ma tre anni appresso, nel 1740, morto l'imperatore Carlo VI, si ridestò la sopita ambizione di Filippo V agli Stati di Milano, Parma e Piacenza. Elisabetta sua moglie accendeva gl'impeti del re per insazietà d'impero e per dare un trono al secondo figlio don Filippo. Era quel re di Spagna infingardo, crudelmente divoto, trascurante di governo, vario, timido, sospettoso; ma cupido di trattar la guerra per ministri. Perciò collegarsi co' nemici della regina d'Ungheria Maria Teresa, figlia del morto imperatore Carlo VI, apprestare eserciti, spedirne in Italia, comandare al figlio re di Napoli di unire alle schiere spagnuole quanto più potesse de' suoi reami, armare e muovere numerose naviglio, spandere editti, empire del grido di guerra l'Italia e l'Europa, furono concetti di un giorno, opere di breve tempo.

Gli eserciti spagnuoli, retti dal duca di Montemar, e dodicimila Napoletani, dal duca di Castropignano, si unirono a Pesaro sotto il sommo impero del Montemar. Alemanni e Savoiardi, tumultuariamente radunati nella Lombardia, comandati dal conte di Lobkowitz, andarono incontro al nemico. Benché uguali le forze, uguali le speranze, incerte le fortune delle due parti, pure gli Alemanni andavano arditamente, gli Spagnuoli si arrestarono a Castelfranco. E però che il duca di Modena si era accostato alle parti di Spagna, fu presa da Lobkowitz la sua città, occupata Reggio, espugnata Mirandola, ridotte Sesto e Monte‑Alfonso: poco restava del ducato; e '1 Montemar, timido e lento, non soccorreva l'infelice alleato, e quasi in presenza numerando i colpi del nemico stava come spettatore delle rovine. Alfin mosse come fuggitivo d'innanzi a Lobkowitz.

XXXIX. In quel tempo naviglio inglese che il commodoro Marteen dirigeva, entrò nel golfo di Napoli, e non facendo i consueti saluti a porto amico, spedì ambasciatore, che ad un ministro di Carlo disse: «La gran Brettagna, confederata dell'Austria, nemica della Spagna, propone al governo delle Sicilie neutralità nelle guerre d'Italia: se il re l'accetta, richiami le squadre napoletane dall'esercito di Montemar: se la rifiuta, si apparecchi a pronta guerra, però che l'armata bordeggiante nel golfo al primo segno bombarderà la città. Due ore si danno al re per iscegliere». E, per la esatta misura del tempo, cavò di tasca l'oriuolo e disse l'ora.

Era la città senza difese di trinciere o di presidio; il porto, la dàrsena. la reggia, non muniti, non guardati; il popolo costernato. Mancava il tempo alle opere ed al consiglio; non era militare la corte, erano timidi i ministri; e perciò turbato il senno de' consiglieri tumultuariamente chiamati da Carlo, fu accettata la neutralità; e per lettere che il superbo araldo legger volle, fu comandato al duca di Castropignano di tornare con l'esercito nel Regno. Altre lettere segrete narravano al Montemar i dolenti fatti di Napoli; e fogli e ambasciatori ne informarono le corti di Francia e di Spagna, e l'Infante don Filippo, che guerreggiava nel Milanese contro gli eserciti savoiardi e tedeschi.

Scomparve nel giorno istesso della fermata neutralità il naviglio inglese. Carlo, tardi provvedendo alla difesa della città, fortificò il porto, alzò trinciere e batterie intorno al golfo, le munì di cannoni e soldati. E ripensando alla patita ingiuria, vedendo suscitate contro Italia le ambizioni di tutti i principi, dubbio il fine della guerra, vacillante la fede, non mai certo il sacramento di alcun re, sperò assicurare la sua corona e la quiete del regno col volgere all'armi le proprie ricchezze, le nuove entrate del fisco, le passioni e gl'interessi del popolo. Ristaurò molte navi, altre fece di nuovo; fondò fabbrica di cannoni, archibugi, macchine di guerra; coscrisse novello esercito per province, affidandone i primi offici a' suoi soggetti; radunò armi e munizioni. Così preparato, mirando alle cose d'Italia, modesto e giusto reggeva lo Stato.

Il duca di Montemar, menomato degli aiuti di Napoli, divenne più timoroso verso il nemico, più veloce a ritirarsi; e '1 suo re incolpandogli le sventure di quella guerra, lo rivocò e il tenne disfavorito e lontano venti leghe dalla reggia e dalla città. Il conte di Gages, di maggior fama ed animo, venne capitano agli Spagnuoli: gli animò, li mosse, combattè più volte o vincente o perdente; ma, non pari di numero al nemico, si ridusse nel territorio di Napoli dietro al Tronto. Il fortunato Lobkowitz accampò sull'altra sponda, minaccioso così per le ordinanze dell'esercito, come per gli editti della sua regina.

La quale, ambiziosa come donna, credeva certa la conquista del reame per la novità del re, le poche milizie non usate alla guerra, ed il mobile ingegno de' Napoletani; mentre dalle sue parti esercito grosso e vincitore, capitano felice, gran numero di partigiani nel popolo. Più incitavano l'animo regio e femminile i ministri di lei nella corte di Roma, e alquanti Napoletani esuli volontari o discacciati dal governo di Carlo, uomini (conforme vuole il loro stato) poveri, speranzosi, promettitori di larghi aiuti e di congiure; instigatori alla guerra contro la patria per brama di ritorno e di vendetta. Maria Teresa, i regina di Ungheria, imperatrice dei Romani, prometteva per editto a' popoli delle Sicilie disgravare i tributi, confermare gli antichi privilegi, altri conferirne, discacciare l'avara riprovata setta degli Ebrei, disserrare le prigioni, concedere impunità, premii, mercedi, accrescere l'annona, scemare i prezzi del vitto: e dopo ciò, vantando gli affetti del popolo alla casa (ti Cesare, veniva tentando le ambizioni de' grandi, la incostanza della plebe, e simulando secreti accordi per inanimare le sue parti e insospettire il governo.

XL. E sì che il re, informato di que' fatti, adunò congresso nella reggia, ed esponendo la naturale alleanza con la Spagna, ma la fermata neutralità con l'Inghilterra; il desiderio e '1 bisogno di pace, ma le presenti necessità di guerra; il pericolo di muovere l'esercito, il pericolo di tenerlo ozioso, la scarsezza dell'erario ma il danno certo di alimentare due eserciti stranieri e veder le province devastate per accampamenti e per battaglie; la fedeltà de' popoli e la incostanza dell'umano ingegno e della fortuna: tali cose ed altre, rammentando e contrapponendo, dimandava consiglio. Raro avviene nelle numerose adunanze la uniformità dei voti, e più raro che qualche sentenza vile o timida non trovi chi la dica e chi la secondi. La guerra era meno dannosa della pace; lo starsi ozioso aspettando gli eventi era certa servitù della Spagna o dell'Impero: e frattanto le opinioni del congresso pendevano per non so quale religiosa osservanza della neutralità; e 'l buon Carlo, per amor di quiete, aspettando favori dal tempo e dalla sorte, irresoluto ed incerto sperdeva i giorni. Quando lettere di Filippo e ‑di Elisabetta, suoi genitori, rimproveratolo di quella incertezza e tardanza, numerati i pericoli, mostrato ad esempio l'animo dell'Infante Filippo nelle ostinate guerre di Lombardia, ricordate le geste della casa, lo in‑citavano all'armi ed alla, guerra. E allora Carlo, rimosse le dubbiezze, né più attesi i paurosi consigli del duca Montallegre (cortigiano piacevole nella reggia, sennato e valente ai negozi di pace, non atto e non inchinato alle milizie, buon consigliero nella quiete, pessimo ne' pericoli de' regni) adunò e mosse le schiere, prima promulgando un editto che diceva: «la neutralità promessa all'Inghilterra offendeva gl'interessi della mia casa, gli affetti della mia famiglia, il bene del mio popolo, il debito e la dignità di re, ed io la promisi per evitare all'amata ed allora sprovvista città il bombardamento e i danni minacciati da un'armata inglese venuta nel golfo e nel porto improvvisamente nemica. Ma comunque acerba quella promessa, e comunque data, perché di re, fu mantenuta: rivocai l'esercito combattente sul Po; gli eserciti di mio padre, menomati di quello aiuto, pericolarono: i porti furono chiusi alle navi spagnuole, il commercio impedito, negati i soccorsi, e per la opposta parte tutto concesso alla bandiera dell'Inghilterra. Mercede a tanti danni e dolori, ricompensa di tanta fede, poderoso esercito tedesco secondato da navi inglesi, fingendo d'inseguire poche schiere spagnuole, sta per valicare il Tronto, portar guerra negli Stati di Napoli, e, se vincesse, scacciarne il re. La neutralità è dunque rotta, e rotta per essi. lo, con le forze dei miei regni, con la giustizia della nostra causa, e co' soccorsi che prego da Dio, andrò a confondere quegl'iniqui disegni».

Il re medesimo volea guidare in Abruzzo ventimila soldati per unirli a que' di Spagna, costituire una reggenza per governo dello Stato, ricoverare in Gaeta la giovine sposa e la bambina di poco nata. Pubblicati gli editi e gli apparati, fu grande spavento e dolore nel popolo: cinque Eletti della città, mentre la moltitudine stava mesta ed affollata nella piazza della reggia, pregarono a Carlo non disertasse il regal palagio del nome de' Borboni; lasciasse la regina e la Infanta alla fede del popolo, custoditrice più valida che i muri di Gaeta. Ma quegli, riferite le grazie, non mutò consiglio, dicendo che in aperta città il solo timore di nemico assalto, e lo zelo medesimo delle guardie e de' cittadini farebbero pericolo a donna incinta. Confidava nella fedeltà universale; e tanto che in quel giorno farebbe liberi tutti quei tristi e miseri tenuti prigioni per delitti di inconfidenza, partigiani di que' Tedeschi ch'egli andava a combattere con l'armi. Usano i re tiranni imprigionare nei pericoli fino gl'innocenti: Carlo libera i rei. Le quali magnanimità divolgate produssero nel popolo tanto amore e tanto zelo che pareva famiglia, non Stato. La nobiltà, dopo di aver manifestato il suo disdegno all'editto della imperatrice regina, perché osava tentare la sua fedeltà, con foglio scritto e per deputati rinovò a Carlo i giuramenti: i rappresentanti della città, dando al re trecentomila ducati per sostegno della guerra, promisero vettovaglie quante bisognassero agli eserciti, finché la guerra durava: e la plebe a crocchi, a moltitudini, andava gridando per la città voci ed augurii di felicità e di onore. Tra i quali fortunati presagi la regal famiglia partì, la regina con la Infanta per Gaeta, il re per gli Abruzzi, dove raggiungerebbe le sue schiere.

XLI. Prima ch'elle si unissero all'esercito spagnuolo, il generale tedesco Broun con potente mano di fanti e cavalieri, passato il Tronto, campeggiava quelle estreme parti degli Abruzzi, e tuttodì le schiere combattevano: ma temporeggiando, però che Broun aspettava l'esercito di Lobkowitz, e 'l conte di Gages quello di Carlo. Avvenne in quel tempo fatto singolare e memorabile. Un Napoletano, soldato agli stipendi spagnuoli nel reggimento dragoni, lasciato solo dai suoi compagni fuggitivi, cadde in mezzo a' nemici, piccolo drappello di cavalieri ungheresi: veduto il suo peggio se restava a cavallo, discese, e snudata la spada, scitica per ordinanza di quel reggimento, combattè con tanta felicità e valore che uccise sette de' nemici, altri ferì, altri fugò, sì che rimasto vincitore nel campo, raccolse le spoglie ostili, e bagnato di sangue proprio e di altrui tornò al campo spagnuolo, dove, deponendo ai piedi del conte di Gages sette armi vinte, n'ebbe dalle squadre alta lode, e dal conte duecento monete d'oro che l'ornatissimo soldato spartì a' commilitoni, null'altro serbando della impresa che la memoria.

Avanzavano sul Tronto per opposte strade Lobkowitz e Carlo. Vi giunsero, ed ognuno d'essi rassegnò le sue schiere. Lobkowitz, già chiaro per le geste di Boemia, reggeva ventimila fanti, seimila cavalieri: succedevano gli stormi di Transilvani, Illirici, Croati, usciti dalle loro foreste per comando della regina, e, sotto specie di guerrieri, predatori e ladroni; quindi altre truppe di fuggitivi, disertori e ladroni che, guerreggiando a modo libero e leggero, erano chiamate centurie sciolte: compievano quell'esercito duemila cavalieri ungheresi che, volontari ed arditi, a modo de' Parti, campeggiavano vasto paese, infestavano le strade, predavano viveri, armi ed uomini, esploravano i campi e le mosse. Era dunque l'esercito tedesco forte almeno di trentacinquemila combattenti, ma la fama o la prudenza de' capi aggrandiva il numero e la possanza. Carlo teneva il sommo impero sopra Spagnuoli e Napoletani. Erano i primi undici reggimenti di fanti, tre squadre di cavalieri, cinquecento cavalleggieri, trecento guardie a cavallo del duca di Modena, che, profugo da' suoi Stati e fedele alla causa di Spagna, militava sotto il conte di Gages; erano quelle guardie Ungheri la più parte, passati per diserzione agli stipendi spagnuoli; messi perciò dalla mala fortuna o dal malo ingegno nella disperata vicenda di vincere o morire. Compiva l'esercito spagnuolo (ventimila soldati) un reggimento di fanti catalani, leggieri di vesti e d'armi, atti alle imboscate, celeri a' movimenti, sprezzatori del nemico e della morte. Il conte di Gages guidava le dette schiere, usate alla guerra ma stanche. I Napoletani rassegnavano ventidue reggimenti di fanti, cinque squadroni di cavalleria (diecinovemila soldati); il duca di Castropignano n'era il capo. Cinque reggimenti erano nuovi; tutto il resto agguerrito, sia in Italia sotto Montemar e l'Infante Filippo, sia negli assedii delle fortezze delle due Sicilie, o per fino in Africa presso Orano contro le ferocissime nazioni dei Mori.

Le artiglierie d'ambe le parti abbondavano; soperchiavano nell'esercito di Carlo le macchine di guerra dirette dal conte Gazòla piacentino, chiaro per matematiche dottrine e per ingegno; molte navi inglesi obbedivano a Lobkowitz, le proprie navi a Carlo. Prevaleva per numero l'esercito borboniano, per grido l'alemanno. Questo accampava in due linee lungo la sinistra riva del Tronto, ed aveva innanzi, come ho detto altrove, ardita mano di cavalieri e fanti che, menati dal generale Broun, campeggiavano pazzamente la diritta del fiume. Qui stavano in prima linea le squadre spagnuole, ed in seconda ed in riserva le napoletane. Il re aveva poste le sue stanze in Castel‑di‑Sangro. Era il verno al declinare. Lobkowitz aspettava i tumulti del Regno, e Carlo i benefizi del tempo, cioè scarsezza di viveri nel campo nemico, malattie, discordie. Stavano gli eserciti come in riposo.

XLII. Ma Lobkowitz, spinto dalle persuasioni del conte Thun, ambasciatore di Cesare in Roma (vescovo caldo di guerra, capo delle infelici trame del regno), e necessitato da' comandi della sua regina, ruppe le dimore e si apprestò agli assalti. L'entrata per gli Abruzzi era difficile perché rotte le vie, i monti coperti di neve, povero il paese, il nemico in presenza. Preferendo le strade per Ceperano e Valmontone, memorabili nelle passate conquiste di Napoli, chiamò a sè il Broun, e, abbandonate le regioni del Tronto, si avviò verso Roma. Carlo il sapeva innanzi per lettere del cardinale Acquaviva, suo legato presso l'apostolica Sede; il quale, scaltro e largo ne' doni, era informato de' disegni de' Cesarei, depoi che trovò nella casa del Thun chi gli tradisse i segreti del suo signore. Partito l'esercito alemanno, mosse quello del re, il primo per le molte vie dell'Umbria, il secondo per Celano e Venafro. Le apparenze della guerra mutarono, però che sembrando fuggitivi gli Alemanni, tanto animo si alzò nei contrari, che allegri e tumultuanti dimandavano a Carlo di combattere. Procedendo gli eserciti secondo i propri disegni, il conte di Lobkowitz, fece in Roma ingresso ambizioso, quasi trionfale, perciocchè il papa e la plebe lo accolsero come felice in Italia, e come già incontrastabile conquistatore dei vicini reami delle Sicilie; tanto l'aspetto grande e feroce dei suoi Germani, il vestito barbarico, il parlar nuovo, parevano segni e promesse di vittoria. Ma non così certo era il capitano, che lento e cauto s'inoltrava così che potè Carlo giungere alla frontiera, e, trasandando i rispetti di pusillanime coscienza e le domande o preghiere del pontefice, guidar le schiere nelle terre papali. Alcuni drappelli ungheresi, altri borboniani esplorando il cammino volteggiavano; raramente o non mai combattevano.

Stando il re con buona parte dell'esercito su la strada di Valmontone, seppe dalle sue vedette vicino e potente il nemico: non erano gli ordini disposti a battaglia; non arrivate le artiglierie, le strade per recente pioggia difficili, il terreno impraticabile. Ma più potendo la necessità del presente, apprestata una fronte a trattenere gli Alemanni, sollecitava le altre schiere e le artiglierie; quando impetuoso temporale arrestò gli uni; e Carlo, in quel mezzo, volgendo cammino, ridusse gli altri tumultuariamente a Velletri, contento di accampare in luogo forte, e al nuovo giorno prender consiglio dalle posizioni del nemico e dagli eventi. Ed agli albòri del nuovo dì, mandate intorno le scolte, collocò l'esercito in ordinanza; e udito che il nemico avanzava, dispose l'animo suo e de' suoi a combattere. Apparvero sopra i monti le prime armi alemanne; ed altre ad altre succedendo, l'oste intera si spiegò in linea. Ma Lobkowitz, numerate dall'alto le schiere nemiche, vista l'asprezza del terreno, pensando che la cavalleria, suo maggior nerbo‑, non potrebbe operare fra quelle valli, sentì venir manco l'ardire e pose le sue genti a campo, munito di artiglierie, impedimenti e trincere. Il re seguì l'esempio. Quella terra poco innanzi designata per dar battaglia, videsi coperta di accampamenti; e tornò lenta la guerra, sperando, come da principio, Lobkowitz né tumulti, Carlo nel tempo.

XLIII. La città di Velletri siede in cima di un colle, intorno al quale scende il terreno in ripide pendici, coltivate ad oliveti e vigne. Nel fondo di ogni valle, che sono tre, scorre piccolo torrente; e poi le convalli verso il settentrione e l'occidente, salendo più ardite per succedenti rupi e montagne, hanno termine al monte Artemisio, quattro miglia, o più, lontano da Velletri. Il campo di Carlo aveva il corno destro incontro al detto monte, il sinistro verso la porta che dicono Romana, il centro nella città: la fronte del campo era guardata più che munita: poco indietro a lei, sul colle de' Cappuccini, stavano disposte a parco militare macchine, artiglierie; ed accampate molte squadre per soccorso e sostegno della prima fronte: campi minori succedevano, sia per guardia di alcun luogo, sia per comoda stanza dei soldati; così ordinate le cose che in breve tempo e per segni tutto l'esercito sarebbe in armi. Una fonte perenne che abbelliva la piazza della città e rallegrava gli abitanti mancò, perché il nemico, rompendo i canali, deviò l'acqua: ed il campo scarsamente ne aveva, con fatica e per guerra, da piccola vena scavata nel fondo di una valle, tre miglia lontano dalla città. Le vettovaglie abbondavano, provvedendole a Carlo largamente l'amore de' soggetti.

L'esercito contrario accampato negli opposti monti spiava tutta l'oste del re, numerava gli uomini, le armi, stava coperto dalle montuosità del terreno: abbondava d'acqua, scarseggiava di viveri, benché Roma ed altre città fruttassero a lui. Le posizioni più valide non vantaggiavano Lobkowitz, che per assaltare il campo nemico, dovea portar le schiere nel fondo delle valli dominate da esercito più forte. Scelse altri modi: avanzando, come negli assedii, stringeva il nemico, e lo molestava per colpi vicini di moschetto e cannone: scacciò da un colle, distante cinquecento passi dalla città, un reggimento spagnuolo che vi stava a campo; e munì quel luogo di trinciere e di guardie. Continui ad improvvisi assalti nel giorno, nella notte, toglievano riposo alle nostre genti. Sperava Lobkowitz che il re, vedendo i suoi travagliati da presso, pazienti alle offese, inabili ad offendere, levasse il campo; e antivedeva lietamente tutti i mali che al nemico avverrebbero, ritirandosi dinanzi ad esercito vicino e soprastante.

XLIV. Gli stessi pericoli vide Carlo; e radunato sollecito consiglio, il conte di Gages propose ed eseguì fatto ardito e memorabile. Nella notte con quattromila soldati, per vie deserte cautamente marciò, così che giunse a' primi albòri sopra il monte Artemisio. Mille soldati lo guardavano; ma per vino, per sonno e per natural negligenza, dopo lunga sicurità, giacendo sprovveduti, un sol momento gli scoperse al nemico e gli oppresse: il capo fu preso nella tenda, altro uffiziale maggiore, desto e sollecito, resistè; ma vinto dal numero e spossato dalle ferite fu prigione, e morì: pochi nel tumulto fuggendo andarono nunzi a Lobkowitz degl'infelici successi. Si levò in armi tutto il campo alemanno; ma già dal campo di Carlo altre schiere muovevano; ed il de Gages discendendo dall'Artemisio espugnava Monte‑Spino, faceva nuovi prigioni, predava artiglierie e vettovaglie. Tanta paura e disordine, e mancar di consiglio ne' capi, di obbedienza ne' soggetti, entrò nel campo de' Cesariani, che a stormi e a truppe fuggivano verso Roma; e in Roma istessa, sentite le agitazioni, chiuse le porte, si credeva certo e vicino l'arrivo de' due eserciti, il vinto e il vincitore.

Ma i pensieri del conte di Gages si limitavano all'Artemisio, e però preso, munito, lasciatolo in guardia di buon presidio, tornò a' suoi pago e gonfio della impresa, superbo di prigioni, ricco di prede. In quella età più faceva l'ingegno che la scienza di guerra; i vasti ordinamenti erano rari ai capitani di esercito, fuorchè a pochi privilegiati da natura ai quali è istinto il sapere. Se il Gages era a dì nostri, per sole imparate regole facea succedere alla prima schiera la seconda, che fosse aiuto nelle sventure e rinforzo ne' successi della battaglia: a segni convenuti, tutto l'esercito di Carlo attaccava la fronte del campo alemanno: scendeva il Gages dai monti, ed assalendo a rovescio i posti nemici, gl'incalzava e spingeva gli uni su gli altri: quello era l'ultimo giorno della guerra. Ma poiché la vittoria si arrestò a mezzo corso. Potè Lobkowitz raffrenare le paure, contenere i fuggitivi, ripigliare a MonteSpino, riordinarsi. E per avere perduto il monte Artemisio, tutte le posizioni degli Alemanni piegarono verso l'ala diritta del campo; il qual movimento fu cagione ed appoggio e maggior fatto.

Tornato l'uno e l'altro esercito all'usata lentezza, gli Alemanni per l'estranio clima infermavano, per penurie scontentavansi, per ingenita ribalderia desertavano; si assotigliava l'esercito. Premevano il cuore al conte Lobkowitz i danni dell'Artemisio, la mala fama che ne correva tra le sue genti e in Italia, i recenti fatti che svergognavano i vanti: ma in quel tempo il vescovo Thun accertava pronta nel regno la ribellione, sol che l'aiutassero poche forze; e la imperatrice mandava da Vienna comandi audaci ed altieri. Sì che Lobkowitz scrisse all'ammiraglio inglese, minacciasse Gaeta, e, incitando i popoli, corresse le marine del regno: spedì nuovamente negli Abruzzi alcuna sua schiera, piccola di numero, ardita, che alzasse grido di' vittoria, animasse i ribelli, devastasse le terre, uccidesse i fedeli a Carlo: mezzi nefandi. Sperava che il re alle mosse del Regno accorrendo con buona parte dell'esercito, indebolisse il campo di Velletri; ma svanì quelle speranze l'amor de' soggetti, che si tenne saldo e più crebbe.

XLV. Fece Lobkowitz altra pruova. Il campo di Carlo aveva debole l'ala sinistra; nella quale, come lontana dal nemico e non mai turbata in quella guerra per assalti o timori, stavano i presidii, quasi in pace, negligenti: e, benché i Cesariani, dopo i fatti dell'Artemisio, si fossero avvicinati a quella parte, non erano però cresciute le guardie, nè la vigilanza. Surse voce, come spesso in guerra, senz'autore, senza principio, che gli Alemanni attaccherebbero per sorpresa la sinistra del campo: non fu creduta. Ma Lobkowitz, il dì 8 di agosto dell'anno 1744, chiamati a consiglio i primi e più animosi dell'esercito, disse: «Invano sperammo tumulti né reami di Carlo, e scoramento, diserzioni, penurie ne' suoi campi. Noi abbiamo incontro esercito forte e felice; scemano i nostri soldati per morte, infermità e fughe. L'indugio è contro noi: a noi non resta che impresa egregia o vergognoso ritorno in Lombardia. Tenendo certa la vostra scelta, io vi espongo la impresa. Il nemico mal custodisce la sinistra del campo il luogo, debole per natura, non è munito dall'arte; pochi lo guardano, e, per lungo non mai turbato riposo, giacciono nella notte spensierati e ubbriachi. Molte vie nella pendice della valle menano a quel punto, ed altrettante guide, non compre, amiche, ho già in pronto. Per vecchia rovinata muraglia è facile ingresso; e, appena entrati, libero cammino alla città agli accampamenti, alla casa del re. Udite. Una colonna de' migliori soldati, taciti, dietro le guide, marciando nella notte, entrando per il rotto muro, trafitte nel sonno le guardie, proceda nella città, uccidendo nel silenzio soldati e cittadini. E quando i vigili o i fuggenti abbiano destata l'oste nemica, i nostri facendo subita mutazione, con grida, incendii, distruzioni e spavento, non lascino agli assalti né tempo né consiglio. Una mano più eletta entri in casa dei re, e lo prenda; vadano gli altri ai campi, a' parchi, distruggendo e fugando. Schiere nostre maggiori assaltino al tempo stesso il destro lato delle nemiche linee; i rimanenti si tengan pronti a' soccorsi o alla vittoria. Se va felice l'impresa, noi compiremo in una notte i travagli della guerra: se manca, tornando alle trinciere, saremo al dì seguente, come oggi siamo, presti agli eventi ed a' consigli. Questo io volgeva in mente (bramoso di vendetta) da quel giorno in cui perdemmo l'Artemisio; oggi lo propongo a voi: risolvete».

Tutti applaudirono; gli uni, come forti, gli altri per apparire. Furono assegnate le parti: a' generali Novati e Broun, assalire con seimila soldati la sinistra del campo; al generale Lobkowitz, con novemila, là diritta; al generale maggiore del campo, tenere in armi e pronte le rimanenti forze: i segni, i motti di riconoscenza e d'incontro furon fermati. Giunge la notte del 10 all'11 di agosto, che in sè chiudeva i destini del regno; e partono con le preparate colonne (pena la morte a chi alzasse grido, voce o romor d'armi) Novati e Lobkowitz: il resto dell'esercito sta vegliante: Novati arriva, entra nel campo di Velletri, uccide, opprime, e inavvertito prosiegue. Un reggimento irlandese, militante per la Spagna, poco indietro accampato, è sorpreso, in parte ucciso, ma quel che rimane, destatosi, combatte: il romor della pugna e i fuggitivi avvisano il campo, e allora gli Alemanni, udendo i tamburi de' nemici e le trombe sonare all'arme, si manifestano con le grida, e, com'era già comandato, fracassano, ardono, abbattono una porta (quella chiamata di Napoli), entrano e corrono la città. Appena l'alba chiariva il cielo.

Carlo, che in casa Ginetti dormiva, è desto dalle guardie: si cuopre in fretta di vesti, cinge la spada, e, per gli orti della casa, riparasi nel campo dei Cappuccini. Fuggono il duca di Modena, l'ambasciatore di Francia, il conte Mariani sopra cavallo (però che giaceva in letto d'infermità), il duca d'Atri, nudo, tra gl'incendii della casa: tutto è scompiglio in quella prim'ora. I paesani, piangenti, pregano pietà dal vincitore, che, spietato, gli uccide e ruba. Molti soldati della nostra parte combattono dalle finestre, dai tetti; altri si accolgono in qualche piazza della città, e, facendo mano, resistono; altri con l'armi aprono un varco: molte particolari o sventure o virtù restano ignote: cade morbidono, combattendo tra' primi, Niccolò Sanseverino, fratello al principe di Bisignano: H colonnello Macdonal, chiaro nelle passate guerre, montato sopra un cavallo, grande egli stesso della persona, fermatosi nella piazza maggiore della città, alzato il braccio e la spada, grida ai soldati, che disordinatamente fuggivano: «Compagni, a me; unitevi, seguitemi». E, in questo dire, una palla di archibugio tedesco troncò di lui la vita, a comando e l'esempio. Altri uffiziali maggiori, altri capitani, tutti da prodi, morirono: ma infine, per tante morti, prigionia e fughe, la città rimase deserta de' nostri, in potere al nemico.

XLVI Lobkowitz, avvisato da' segni e dal romore di guerra dei venturosi assalti dei Novati, attacca il monte Artemisio e lo espugna; poscia il secondo e 'l terzo campo, e li fuga: combatteva la fortuna cogli Alemanni. Ma Carlo nel monte de' Cappuccini, schierando in fretta i soldati e passandoli a rassegna, va tra le file dicendo: «Ricordate il vostro re e la vostra virtù: se voi sarete costanti all'onore ed all'obbedienza, vinceremo». Manda il conte di Gages incontro a Lobkowitz; pone il duca di Castropignano contro al Novati; tiene in serbo altre squadre. Il Gages, più forte del nemico, lo trattiene su i monti, Castropignano avanza verso Velletri, e non incontra, come credeva, le colonne nemiche, perché andavano spicciolate nella città, mosse da cupidigia e di libidine. I Borboniani si rincorarono; la legione Càmpana, or ora coscritta, è prima sotto del Gages alla vendetta ed alle venture; Castropignano, che lentamente avanzava, riceve nuovi stimoli e nuove forze dal re che in quel giorno tutte le laudi meritò di esperto e prode capitano. Ognuna delle nostre colonne procede e vince, sono ripigliati i campi e l'Artemisio, entra Castropignano in città, lo sbigottimento già nostroscende in cuore al nemico, il disordine e la fortuna mutano luogo, tornano i vinti vincitori. Degli Alemanni il Duca Andreassi, capitano di forte e numerosa schiera, fu gravemente ferito; il generale Novati fu preso mentre nelle stanze del duca di Modena stavasi a ragunare fogli ed argenti: duemila Tedeschi furono uccisi; il generale Broun, in riserva fuora della città, veduta la sconfitta, saputa da' fuggiti la prigionia del Novati, la strage, le rovine delle proprie genti, non attese il nemico e si riparò nelle antiche trinciere. Così Lobkowitz, lasciati sul terreno uomini, bandiere, artiglierie, tornò al campo e se la incertezza delle strade o dell'animo non avesse rallentato il cammino del conte di Gages, e nel vallo fossero entrati co' fuggitivi i vincenti, poco esercito restava a Lobkowitz, e nessuna speranza di futura guerra.

Il nemico era già in ordinanza dietro a' ripari, e molti de' suoi reggimenti non avevano combattutto. Tutti i soldati di Carlo erano stanchi dal difendersi, dall'assalire, dalle tempeste del mattino, dalle incertezze del giorno, dalle stesse fatiche della vittoria. Sonava l'ora nona, e dalla prima luce si combatteva; e benché gli eserciti tornassero a' campi medesimi, i Borboniani avean vinto. Pertanto il re fece suonare a raccolta, e comandò che le schiere della prima fronte attendassero nelle antiche posizioni. Si compu­tarono i danni, gli acquisti; tremila soldati di Borboniani, poco manco degli Alemanni, morti o feriti; di bandiere e di artiglierie, la perdita eguale d'ambe le parti; il grido e '1 sentimento della vittoria per Carlo. Il quale al dì seguente rendè grazie all'esercito, lodando gli Spagnuoli del valor pari all'antico, e i Napoletani di avere agguagliato i forti della guerra. Distribuì onori e danari, chiese a' soggetti, ed ottenne assai più della  inchiesta, uomini, cavalli, vesti ed argento. Richiamò dall'Abruzzo il duca di Lavello con la sua schiera, giacchè

gli Alemanni n'erano stati scacciati; sentì arrivati nel porto di Gaeta nuovi reggimenti spagnuoli, che, favoriti dal vento e dalla fortuna, traversando inavvertiti la flotta inglese, venivano in pochi giorni da Barcellona. Frattanto istruito dai passati pericoli, munì più fortemente l'ala sinistra ed ogni altra parte del campo, sì che dopo la battaglia tornò Carlo più potente nella forza degli eserciti, nella mente degli uomini.

XLVII. Di altrettanto indebolì la possanza, l'animo e la fama di Lobkowitz; l'ultima pruova infelice; i capi dell'esercito, come suole nelle avversità, contumaci; le penurie accresciute, i cavalli cadenti, gli uomini infermi o svagliati, imminente l'autunno; e per la guerra sventurata o varia di Lombardia, mancate le speranze di soccorso. Pur non moveva per non dar mostra di timidezza  per aspettare dal tempo e dal caso non preveduti favori. Così restò tutto l'ottobre; ma nella prima notte del novembre, tacito ed ordinato, avendo simulate nel giorno le apparenze di ferma dimora, e nella notte istessa i fuochi, le ascolte, le pattuglie, le voci de' campi, celeremente ritrasse l'esercito verso il Tevere, e lo valicò sopra due ponti, il Milvio ed un altro di barche, in breve tempo costrutto. Nel vegnente mattino il re, veduta la fuga del nemico, lo inseguì; ma il timore, sempre più celere della speranza, fece giungere i Borboniani al fiume quando gli Alemanni, già su l'altra sponda, rompevano i ponti con tanta prestezza e tanta guardia, che furono compiute le rovine sotto gli occhi dell'esercito nemico. Lobkowitz proseguì la ritirata. Carlo si fermò a Roma per rendere culto al pontefice, vedere le grandezze della città santa, e partire l'esercito in due: l'uno che, sotto del Gages, infestasse gli Alemanni, l'altro che seco tornasse nel reame. I Romani applaudirono al re con più giusti onori che prima a Lobkowitz.

Il re, partito di Roma, incontrò sul confine l'amata regina, e rimasti un giorno a Gaeta, entrarono in Napoli, dove la vera gioia e gli affetti scambievoli stavano in petto e sul viso al re ed a' soggetti. Quegli sapeva di avere adempiute le parti di capitano e di principe; sentivano i popoli di aver fornito a' doveri di cittadini e di sudditi, ne' quali sentimenti (sconosciuti agli schiavi e a' tiranni) risiede la felicità dell'impero e perfino qualche dolcezza della obbedienza. Non dirò le feste, perché il re ne vietò la pompa; era festa lo spettacolo e '1 contento di un regno salvato non tanto alla possanza degli eserciti, che dall'amore de' popoli.


 

 

 

CAPITOLO IV       SEGUITO E FINE DEL REGNO DI CARLO

 

XLVIII. Dopo i fatti di Velletri e di Lombardia parve a Carlo ed al mondo assicurata la casa dei Borboni nel regno delle Sicilie. Il re, tornando alle cure di pace, volle far pago il naturale desiderio di grandezza ne' pubblici monumenti; alcuni, anche fra le incertezze della fortuna e le angustie dell'erario, ne aveva cominciati o compiuti; altri ne fece nelle maggiori felicità; e più ne immaginava quando passò al trono delle Spagne. Io dirò i più degni. Sono opera di Carlo il Molo, la strada Marinella, quella di Mergellina, e tra l'una e l'altra l'edifizio della Immacolata. Tutto quel lido, sovente rotto dal mare, abitato da misera gente, lordo, insalubre, fu trasformato in istrada e passeggio bellissimo; delizia degli abitanti, ornamento della città.

Andando il re con la regina a Castellamare sopra gondola, e ritornando per terra, nell'iterata vista s'invaghirono dell'amena contrada di Portici; e Carlo, udendo che l'aria vi era salubre, la caccia (di quaglie) due volte l'anno abbondantissima, il vicino mare pescoso, comandò farvisi una villa e ad uno di corte che rammentava essere quella contrada soggiacente `al Vesuvio, con animo sereno replicò: «Ci penseranno Iddio, Maria Immacolata e san Gennaro». L'architetto Canovari diede il disegno e l'esegui.

Quasi nel tempo stesso volle il re che si alzasse altra villa sul colle vicino alla città, detto Capodimonte, sol dal sentire che in quel luogo abbondano nell'agosto i piccoli‑ uccelli beccafichi. Parecchie opere di quel monarca ebbero principio dalla soperchia passione della caccia; ma se più nobili obbietti lo avessero mosso, le arti, la custodia delle frontiere, il commercio, quelle immense spese sarebbero state più degne di buon principe, più benedette da' popoli. Del palazzo di Capodimonte diede l'idea l'architetto Medrano. A mezzo dell'opera, trovandosi fondato l'edifizio sopra grotte vastissime, scavate in antico per tirarne pietre di tufo e lapillo, furon necessarie ad impedir la rovina immense moli sotterranee. La spesa ivi sepolta, fu tre volte doppia dell'apparente; il re ne prese tedio; non vi erastrada rotabile che menasse a quel luogo, ed il pensiero di aprirla fu trasandato; lo stesso palagio restò incompiuto. A chi lo vede dalla città pare monumento antico, però che le fabbriche interrotte rendono aspetti di rovine. Venne poi tempo, come narrerò, che l'incompiuto edifizio piacque ad altri re.

XLIX. E volle Carlo che si ergesse un teatro, avendone allora la città pochi e sconci; e, per aggiungere alla magnificenza la maraviglia, comandò che fosse il più ampio teatro di Europa, fabbricato nel minor tempo possibile all'arte. Avutone il disegno dal Medrano, diede carico della esecuzione ad un tal Angelo Carasale, nato di plebe, alzato in fama per ingegno di architettura e per opere ardite e stupende. Egli scelse il luogo presso alla reggia, abbatté molte case, aggiunse vasto terreno, acciò, aperto il palco scenico, si vedessero in distanza le maravigliose rappresentazioni di battaglie, cocchi e cavalli. Cominciò l'opera nel marzo, fidi nell'ottobre dei 1737; e il dì 4 di novembre, giorno del nome di Carlo, fu data la prima scenica rappresentanza. L'interno del teatro era coperto di cristalli a specchio, e gl'infiniti lumi ripercossi rendevano tanta luce quanta la favola ne finge dell'Olimpo. Un palco vasto ed ornatissimo era per la casa regia; il re, entrando nella sala, maravigliando l'opera grande e bellissima, battè le mani all'architetto, mentre plausi del popolo onoravano il re, cagione prima di quella magnificenza.

In mezzo all'universale allegrezza il re fece chiamare il Carasale, e pubblicamente lodandolo dell'opera, gli appoggiò la mano su la spalla come segno di protezione e di benevolenza; e quegli, non per natura modesto, ma riverente, con gli atti e con le parole rendeva grazie alle grazie del re. Dopo le quali cose il re disse che le mura del teatro toccando alle mura della reggia sarebbe stato maggior comodo della regal famiglia passare dall'un all'altro edifizio per cammino interno. L'architetto abbassò gli occhi; e Carlo soggiungendo: «ci penseremo» lo accommiatò. Finita la rappresentanza, il re, su l'escire del palco, trovò il Carasale che lo pregava di rendersi alla reggia per interno passaggio da lui bramato. In tre ore, abbattendo mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni, coprendo di tappeti ed arazzi le ruvidezze del lavoro, con panneggi, cristalli e lumi, l'architetto fece bello e scenico quel cammino, spettacolo quasi direi più del primo lieto e magico per il re.

Il teatro ch'ebbe nome di San Carlo, il passaggio interiore, il merito, la fortuna del Carasale furono subbietto per molti giorni a' racconti della reggia e della città. Laudi funeste; però che l'invidiato architetto, richiesto de' conti, non soddisfacendo ai ragionieri, fu minacciato di carcere. Andò a corte, parlò al re, rammentò le grazie sovrane, il plauso del popolo, la bellezza dell'opera; rappresentò nella sua povertà le prove di onesta vita, e partì lieto scorgendo nel viso del re alcun segno di benevolenza. Ma così non era, perciocché doppiarono le inchieste del magistrato; e poco appresso il Carasale, menato nella fortezza di Santelmo, fu chiuso in prigione, dove campò ne primi mesi per li stentati aiuti della famiglia, e poi dell'amaro pane dei fisco. Restò nel carcere alcuni anni e vi mori; i suoi figli si perderono nella povertà; e nulla rimarrebbe del nome Carasale ai di nostri, se la eccellenza e le meraviglie dell'opera non riavvivassero nella memoria l'artefice infelice.

E’ Carlo fece costruire parecchie strade ed un bel ponte sul Volturno presso a Venafro; le quali opere, sebben fatte per Io‑ stesso amore della caccia, si ch'ebbero nome di strade di caccia, pure apportavano alcun benefizio a' paesi e alle terre circostanti. Frattanto mancavano le strade più utili al regno; era difficile e pericoloso andare (e a cavallo) in Calabria, poco manco in Abruzzo; la strada di Puglia, fatta sino a Bovino, luogo di regia caccia, fu trascurata nel resto delle tre province; non vi erano vie provinciali o comunali, tanto per difetto di strade regie, quanto per fraudi ed errori delle interne amministrazioni. Tutto il bello, il grande, il magnifico delle opere di Carlo stava intorno alla città.

Migliorò l'edifizio ,de' regi studii. Alzò da' fondamenti con disegno dell'architetto cavaliere Fuga il reale albergo de' poveri, aperto a tutti i poveri del regno. Carlo non vide l'opera finita; m‑ a già vi si adunavano poveri e migliaia di ambo i sessi, giovanetti sperduti, o miseri, o vagabondi, e molte arti utili e nuove. Dirò ne' succedenti libri quanto fossero migliorate le discipline del luogo, e come l'edifizio fu compiuto; ma la prima e maggior gloria è di Carlo.

Il quale poco appresso, volendo emulare il fasto degli avi ne' castelli di Versailles e Santo Ildefonso, ed alzare palagio magnifico, più sicuro che la reggia dal Vesuvio e dalle offese di nemico potente in mare, elesse il piano di Caserta, quattordici miglia lontano dalla città. Un'antica terra dello stesso nome, Casa‑Erta, fondata da' Longobardi, serba sul vicino monte, tra vaste rovine, pochi edifizi, abitati da piccolo numero d'uomini, i quali antepongono a' comodi ed alle grandezze della nuova città, i rottami dell'antica patria. Morti od invecchiati i maggiori architetti, Carasale in carcere, e nel reame nessun altro pari al concetto, Carlo fece venire di Roma Luigi Vanvitelli, napoletano, chiaro e primo in Italia per altre opere. Fu il palagio fondato sopra base di 415,939 piedi parigini quadrati, si alzò di 106 piedi; colonne magnifiche, archi massicci, statue colossali, marinai intagliati adornano le facce dell'edifizio; in cima del quale, sopra il timpano del frontispizio, mirasi la statua di Carlo, equestre, in bronzo.

L'interno di quella reggia racchiude marmi preziosi, statue e dipinture de' più famosi scultori e pittori di quella età, legni intagliati, lavori di stucco, cristalli, vernici, pavimenti di marmo, di mosaico, e di altre rare o pietre o terre. E dirò in breve che quel solo edifizio rappresenta l'ingegno di tutte le arti del suo tempo. Piazze o parchi lo circondano per tre lati; innanzi al quarto si stende giardino vastissimo, magnifico per obelischi, statue, scale di marmo, fontane copiosissime e figurate. Un fiume cadente a precipizio, quindi a scaglioni, e infine dilatato in lago, e disperso in ruscelli, si vede scendere dal contrapposto monte; il monte istesso è un giardino a modo inglese, che accoppia alle grandezze veramente regie dell'arte i favori di tiepido clima, terra ubertosa, primavera continua.

L'acqua raccolta in fiume viene dal monte Taburno, per acquidotto di 27 miglia, traversando le montagne Tifatine e tre larghe valli; così che soccorre per canali scavati nel seno delle rupi, o sospesi sopra ponti altissimi e saldi; il ponte nella valle di Maddaloni, lungo 1618 piedi, sopra pilastri grossi 32 piedi, per tre ordini arcati s'innalza piedi 178. E perciò, se non parlassero le scolpite pietre e le memorie, quell'opera sarebbe creduta della grandezza e dell'ardimento di Roma. Le acque di Caserta, dopo che hanno irrigato quelle terre, abbelliti gli orti e la reggia, corrono coperte e si congiungono alle acque di Carmignano per venire in Napoli, copiose a' bisogni di tanta città.

LI. Annovero fra le opere più fortunate di Carlo gli scavi di Ercolano e di Pompei; e poiché dovrò dire di città distrutte dal vicino volcano, accennerò prima le due più grandi eruzioni avvenute sotto quel re, e le magnanime sue provvidenze a soccorrere le travagliate genti. La prima eruzione fu nell'anno 1738, disastrosa per abbondanti ceneri vomitate dal monte, alzate in forma di pino sino alle nuvole, trasportate dal vento in paesi lontani, là discese, e per piogge e propria natura assodate e impietrite. La fertilità di ampie regioni fu mutata in diserti; e più devastate le città delle Due Torri, Sarno, Palma, Ottaiano, Nola, Avellino, Ariano. L'altra eruzione, dell'anno 1750, più fiera per tremuoti e distruggimenti, coprì di lava borghi, villaggi, terreni feracissimi e colti. Il re, l'una e l'altra volta, rimise i tributi delle terre danneggiate o gli scemò, diede soccorsi, fece doni. Nel tempo della eruzione del 38, agitandosi le quistioni giurisdizionali tra '1 re e '1 papa, i frati e i preti della città sussurravano agli orecchi del popolo, quel flagello esser messaggio di Dio ai ministri di Carlo, acciò desistessero da tribolare la Chiesa e i sacerdoti. Ma il volcano quietò, serenò il cielo, i timori svanirono, le contese col papa seguitarono.

LII. Di Ercolano sono favolose le origini, di Pompei oscure, due città della Campania floridissime a' tempi di Tito Vespasiano, quando per tremenda eruzione (descritta dal giovine Plinio) Ercolano fu coperta da lava, Pompei oppressa da vomitate ceneri e lapilli, poi sotterrata dalle materie che le acque a torrente vi trasportarono; furono però varie le cagioni, ma una rovina in un giorno disfece le due città. Spenta con gli uomini viventi la memoria de' luoghi, si cercava indarno dov'erano poste quelle moli superbe; così che dall'anno 79 dell'era di Cristo restò ignota la città di Ercolano sino al 1738, quella di Pompei sino al 1750.

Fu causale lo scoprimento, avvegnachè scavando pozzi o fossi, traendone marmi finissimi e lavorati, e giungendo in sotterranei, chiamati allora caverne, poi conosciuti per fóri, tempii e teatri, si dubitò che fossero in que' luoghi città sepolte. Il re disse di pubblica ragione quelle rovine; e facendo in esse scavare, ne trasse tanta ricchezza di anticaglie, che oggi il museo borbonico è dei primi di Europa. Fra le rarità ercolanesi sono i papiri avvolti a rotolo, ne' quali erano scritte dottrine greche, incarbonati dal volcano; ma l'arte ha trovato modo di svolgere in piano quelle carte, e leggere in alcuna parte lo scritto. Poco di quella prima città fu disseppellito, trovandosi coperta di basalto massiccio e della bella città di Resina; così che bisognerebbe abbattere questa vivente per mettere in luce l'altra già morta. Pompei, coperta di terre vegetabili e di lapillo, si andava largamente scoprendo, e ne uscivano cose preziose di antico. Carlo, che spesso vi assisteva, vide una volta un globo di forma ovale (lapilli e ceneri addensati), duro come pietra e di peso maggiore delle apparenti materie che lo componevano. Lavorò egli stesso parecchi giorni ad aprirlo, trandone monete di vario metallo; ed infine, quasi al centro del globo, un anello d'oro, figurato di maschere, che, in mercede della durata fatica, si pose al dito. Dirò altrove, ad onore di lui, qua] uso facesse dell'anello. Non è della presente istoria descrivere le cose mirabili delle due città: altri scritti dimostrano quanto abbiano accresciuto alla finezza delle arti ed alla cognizione dell'antichità.

In molte camere del nuovo palazzo di Portici furono disposte quelle anticaglie; e nel tempo stesso fu instituita un'accademia ercolanese, che per filosofia e per istoria le illustrasse. Altre accademie sursero a' tempi di quel re. La università degli studi migliorò per lezioni utili aggiunte alle troppe di materie forense e teologica le quali ingomberavano l'insegnamento. Avvantaggiarono i collegi; rimasero i seminari con le discipline medesime, sconoscendo i vescovi ogni autorità civile, amanti di non mutare dal vecchio. Ma per quanto Carlo facesse a pro delle scienze o lettere, la istruzione non era comune; sorgevano uomini egregi di mezzo all'ignoranza pubblica.

LIII. Altri provvedimenti di Carlo degni di lode o di biasimo non sono da tacere. Minacciò ed offese di gravi pene i contraventori alle ordinanze per le regie cacce. Introdusse ne' suoi regni il giuoco del lotto, invenzione di talento avaro e prepotente. Confinò, poi spense la peste di Messina. Restrinse in un quartiere della città le meretrici, ordinando che fossero vegliate, visitate nella persona, punite delle colpe inseparabili da quella turpe condizione. Prima permise per il lucro di quarantamila ducati all'anno i giuochi pubblici di carte o dadi; poi gli abolì. Riprovò e proscrisse la setta dei Liberi Muratori per impulsi delle corti di Francia e di Roma; ma nessuno de' soggetti fu castigato, perocché governo saggio e giusto vieta le società secrete, le impedisce, le scioglie e le dispregia. Scacciò gli Ebrei, que' medesimi sette anni prima venuti in Napoli per sua chiamata e con sue promesse; il popolo mal tollerava quelle genti; il gesuita padre Pepe sosteneva la popolare ignoranza e pregava il re, al quale aveva facile accesso, di cacciar dal suo regno cristiano i discendenti de' crocifissori di Cristo; un altro frate di san Francesco venerato per opinione di santità dalla regina, le disse un giorno con voce sicura da profeta, ch'ella non avrebbe prole maschile finché gli Ebrei istessero in regno. Furono espulsi. La bassezza di quella nazione si nobilita dalla sua combattuta costanza alle sue fedi, virtù d'ogni civiltà; ma la intolleranza ne' cristiani non ha scusa, non ha sembianza di alcun pregio; è avanzo ed argomento di barbarie antica, più vituperevole per noi che osiamo chiamarci i più civili della terra. La plebe di Napoli fu allegra del bando dei Giudei.

LIV. La qual plebe, mesi avanti, tumultuò per sospetto che segretamente s'introducesse l'abborrito tribunale della inquisizione, e dirò come. La potenza del papa rinvigoriva per le guerre d'Italia, varie di fortuna, incerte di successo, e per la desiderata amicizia de' re combattenti. Egli in quell'anno canonizzò cinque santi, fondò nuov'ordine monastico, i cherici‑scalzi, ed invitò il cardinale Spinelli, arcivescovo di Napoli, ad introdurre inosservata­ mente il tribunale del Santo‑Uffizio; il pontefice era Benedetto XIV, uno de' più lodati. L'arcivescovo nominò i consultori, i notai; formò sigillo proprio per i processi; preparò carceri; vi chiuse parecchi per materia di fede, e a due di loro fece eseguire la cerimonia dell'abjura. Imbaldanzito da que' primi passi, dal silenzio del popolo, dagli elogi del pontefice e dalla religione di Carlo, fece scrivere in pietra ed esporre all'ingresso della casa: «SantoUffizio».

E' noto per le nostre istorie quanto i Napoletani abominassero quel nome; e le guerre intestine perciò mosse o sostenute, e le spedite ambascerie ai re lontani, e l'ottenuta o pattovita franchigia, comunque a prezzo di ubbidienza e di tributi. Miracolo a dire! il popolo credente, superstizioso, ignorante, al semplice sospetto d'inquisizione levasi a tumulto, sconosce e minaccia l'autorità del principe, assedia e vince nelle proprie stanze numerose milizie; né già l'infima plebe per cieca insania, come suole, o per amor di tumulti; né il solo miglior ceto per sapienza e libertà; ma tutti i ceti, tutte le condizioni, gli uomini molli della città, gli uomini semplici delle campagne, unanimi e solleciti come instinto comune li movesse. Ed oggi quello istesso popolo che voleva il bando degli Ebrei, che accoglieva ed arricchiva i nuovi cherici scalzi, che a gran prezzo comprava gli ossi e le reliquie de' cinque nuovi santi, veduto il cartello nel palazzo arcivescovile, mormora, si commove, minaccia morte due cardinali; e prorompeva in disordini maggiori, se il re (veramente per le querele dell'Eletto del popolo, e '1 ricordo delle violate antiche leggi e de' recenti patti e giuramenti) non avesse con editto riprovato il procedere dell'arcivescovo, abbassato e spezzato il cartello, rivocato la segreta ecclesiastica giurisdizione, e tornata, com'era innanzi, manifesta e legale. Il cardinal Landi, spedito dal pontefice a pregare il re che moderasse i rigori dell'editto, nulla ottenne; e minacciato dalla plebe, affrettò il ritorno. L'arcivescovo Spinelli fu costretto dall'odio pubblico a rinunziare il seggio arcivescovile e lasciar la città. L'editto di Carlo, tutto scritto in marmo, fu solennemente murato in San Lorenzo, casa del comune. Il popolo assistente, soddisfatto e lieto, con gridi e schiamazzi da plebe, donò al re trentamila ducati.

LV. Durava frattanto la guerra di Lombardia, e buona schiera di Napoli, fin dopo i fatti di Velletri accompagnava l'esercito spagnuolo. Per tutto l'anno 1745 la fortuna fu varia; ma nel seguente si fece avversa ai Borboniani, che, investiti e scacciati, si ritiravano verso Genova, ricca ed amica. La Magra, ingrossata per distemperate pioggie, ritardava la formazione di un ponte, e, formato, lo ruppe e trasportò. Il nemico avanzava, i Borboniani tra lui e il fiume raddoppiando fatica, siccome il caso voleva, congegnarono altro ponte e lo passavano in fretta, quando sopraggiunti gli Alemanni, impedivano ed uccidevano le ultime file. Finalmente i nostri, pugnando, giunsero all'altra sponda; ed allora degli eserciti mutate le speranze e le cure, gli Spagnuoli volendo rompere il ponte, gli Alemanni serbarlo per passar all'altra riva, si combatteva dalle due parti con incerta fortuna. Nel qual mezzo un sergente napoletano, gigante di persona e di forza, con quattro de' suoi avanza baldanzosamente sul ponte, e rompono con le scuri, sotto gli occhi e le offese del nemico, il mezzo della macchina; ma perciò che operavano a precipizio, e quella si apri alquanto prima delle. speranze, restarono i cinque guastatori verso A nemico, sì che certa appariva la prigionia loro o la morte. Ma il sergente, lanciando sull'amica sponda la scure e l'armi, si gettò nel fiume; gli altri quattro imitarono l'esempio, e tutti nuotando tornarono salvi ed onorati al proprio campo. Ebbero i soldati larga mercede; il sergente fu alzato da Carlo a capitano. Simil valore ad Orazio, soldato di repubblica, diede eterna rinomanza; i moderni storici di monarchia trascurarono il nome del generoso campione.

Continuando la ritirata de' Borboniani e la prosperità de' contrari, Genova, da' primi abbandonata, fu presa dagli altri; e peggiori sorti si preparavano, quando il disperato ardire della città mutò le condizioni della guerra d'Italia. A me non spetta, e me ne duole, discorrere i maravigliosi fatti del popolo genovese contro le agguerrite schiere alemanne; ché raro avviene, a chi scrive istorie d'Italia, narrare il trionfo degli oppressi sopra i tiranni; come di ordinario sono le parti de' suoi mesti racconti, la miseria de' vinti, la felicità degli oppressori. Non cosi nella città di Genova l'anno 1746, allorché, tollerate tutte le ingiurie, tutti i danni, e non però satollata la feroce avarizia e l'arroganza de' Tedeschi, per leggero caso, e per un sasso vibrato da mano di fanciullo, prima la plebe, poscia il popolo, ed infine il senato si alzarono a vendetta ed a guerra con tanto ardore e felicità, che scacciarono, vinti ed avviliti, il general Botta (per cordoglio d'Italia, Italiano) e molte migliaia di Tedeschi. Genova si chiuse ed armò; mancarono agli Alemanni gli aiuti di ricca e forte città; crebbe a loro il numero de' nemici: mutarono i disegni della guerra. La Francia, la Spagna, il re di Napoli mandarono ambasciatori, soldati e danaro alla eroica città; la quale ordinò molte schiere, per sua difesa, ed aiuto a' collegati. La guerra del seguente anno si sperava felice a' Borboni.

LVI. Se non che la improvvisa morte di Filippo V, e la mente ancora non palese del successore Ferdinando VI, tenevano sospesi gli animi e gli apparati. Ma il nuovo re delle Spagne, comunque desiderasse la pace, disse che seguirebbe le imprese del padre; spedi nell'Italia. nuove milizie, confermò la guerra. Scrisse a Carlo lettere affettuose. La regina madrigna, nulla perdendo di ricchezze o rispetto, scese di potenza, ed andò a vivere privatamente in un castello distante dalla reggia.

Con varia sorte durò la guerra ancora due anni, così che per sette anni si tollerarono morti e danni infiniti, senza veruna di quelle estremità che menano alla pace volontaria o forzata; si scontravano i nemici e combatteva­no. Era ignorata, nel tempo del quale scrivo, la scienza che oggi chiamano Strategia, ossia muovere l'esercito lontano dalle offese e dal guardo del nemico, per giugnere a certo punto determinato dalle ragioni della guerra, e debellare senza contrasto schiere, fortezze o città, conservare le proprie basi e linee, occupare le linee e le basi dell'oste contraria. Ché se i maggiori capitani de' secoli scorsi, e '1 contemporaneo principe Eugenio di Savoia ne usarono alcune parti, venne da genio naturale e sublime, non da sapere.

Avvegnachè Federico Il di Prussia fu primo ad ampliare quelle pratiche, le quali, compiute ed ordinate da Buonaparte, esposte dal generale Iòmini e dal principe d'Austria, divennero dottrina e talento delle scuole; ma l'usarle ne' campi e raro ingegno di capitano. Per la strategìa, sono più rare le battaglie, meno importanti le fortezze, corte le guerre.

Ma nel 1748 altre necessità costringevano a finire la guerra; la stanchezza de' governi, la diminuita forza degli eserciti, la spacciata finanza, e pur direi la misera condizione de' popoli, se di questa si tenesse conto ne' consigli de' re e nei computamenti della politica: mezzo milione di uomini avea consumati la guerra; settemila navi mercantili predate; mezza Germania, mezza Italia, e molto delle Fiandre, campeggiate e spogliate; innumerevoli fortezze conquassate, città distrutte. I re contrari bramarono la pace, e, adunato congresso di ministri in Aquisgrana, se ne fermarono i preliminari, che, a' 18 di ottobre di quell'anno, per le retificazioni de' re guerreggianti, divennero patti di pace durevole. lo riferirò le sole cose che riguardavano a' permanenti dominii dell'Italia. Tutti gli Stati tornassero come innanzi la guerra: il re di Sardegna possedesse Vigevano, e parte del Pavese e del contado di Anghiera, secondo i trattati di Vormazia: il duca di Modena riavesse gli Stati suoi d'Italia, e '1 prezzo dei feudi per la guerra perduti in Ungheria; don Filippo, Infante di Spagna, secondo nato di Filippo V da Elisabetta Farnese, avesse i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla; ma da rendere a' presenti possessori quando mai don Filippo morisse senza figli e '1 re di Napoli ascendesse al trono delle Spagne: la repubblica di Genova rimanesse qual era. Delle Sicilie non facendo parola, restavano confermate al re Carlo. Di guerra così lunga e sanguinosa due sole geste rimangono perpetuate nella storia: e non sono battaglie vinte, o valore o felicità de' capitani, ma virtù civili de' popoli, cioè la fedeltà e gli sforzi dei Napoletani a sostegno del proprio re, e l'impeto mirabile de' Genovesi ad abbattere la tirannide di gente inumana e straniera.

Rimanendo in Italia non leggero sospetto di future contese per il dominio della Toscana tra l'imperatore Francesco e '1 re di Napoli, prevenne le guerre il pensiero di doppio matrimonio, che facesse col tempo regina delle due Sicilie una figliuola della casa d'Austria, e gran duchessa di Toscana una principessa di Napoli; allora semplici proposte, più tardi effettuate. Altra controversia per l'isola di Malta surse e cadde, come brevemente dirò. Dopo la perdita di Rodi Carlo V diede a' cavalieri rodiani l'isola di Malta in feudo del regno delle due Sicilie, al cui re dovesse l'ordine in ogni anno, per segno di tributo, mandare un falco; ed alle vaganze della sede vescovile proporre, per la scelta di uno, tre candidati. Quelle mostre di vassallaggio, per duecento e più anni trasandate, volle Carlo rinvigorire; ma opponendosi il gran maestro dell'Ordine, fu rotto il commercio con Malta, le comende sequestrate nelle due Sicilie. Il gran maestro invocò l'autorità e l'opera del papa, che scrisse lettere preghevoli al re, il quale per esse concedette il rinovamento del commercio, la liberazione delle commende, tutti gli atti di pace; ma ritenne ed autenticò a sè ed a' successori le antiche ragioni sull'isola.

LVII. Si confortarono per tante pacificazioni le genti di Europa, ed il re più intese alle nazionali riforme. Stando nell'anno di lui e nella mente del suo ministro Tanucci l'abbassamento della feudalità, con prammatica del 1738 aveva tolte a' baroni molte podestà, che poi riconcedè nel 1744 a ricompensa de' servigi nella guerra di quell'anno. Col passare del tempo intiepidiva la improvvida gratitudine, ma sino alla pace di Aquisgrana non si arrischiava di scontentare la parte più potente dello Stato. Ed oltraciò i redditi baronali, benché di non giusta o di strana origine, erano sì tenacemente intrinsecati nelle consuetudini, che annientarli sarebbe apparsa ingiustizia per fino a coloro che ne avrebbero goduto. Perciò il re e il Tanucci, non toccando agli'interessi dei baroni, terre, entrate, diritti e proventi, ne depressero l'autorità; e rivocando molte giurisdizioni, soggettando ad appello le sentenze de' giudici baronali, diminuendo il numero degli armigeri, prescrivendo regole a punirli, snervarono il mero e misto imperio, principale istromento, della baronale tirannide. Poco appresso furono abolite parecchie servitù personali, quindi per legge stabilito di non mai concedere nelle nuove o rinovate investiture de' feudi la criminale giurisdizione. Si dichiararono con altra legge incancellabili dal tempo le ragioni delle comunità sopra le terre feudali, si concitarono i litigi; e i giudici, stando nella città sotto gli occhi del re, lontani della potenza de' baroni, in mezzo a secolo di franchigie, sentenziavano raro o non mai a danno de' comuni. Alle quali giustizie Carlo unì le arti di governo, invitando i maggiori baroni alla corte, e trattenendoli per lusso e vanità. E poiché i maggiori dimoravano nella città, i minori seguivano per ambizione l'esempio. 1 feudi restarono sgomberati de' suoi baroni; le squadre di armigeri, di custodia e potenza de' signori; divenute peso e fastidio, sminuirono; respiravano le province; la città capo del regno, assai popolosa, più cresceva; le case de' grandi, per soperchio lusso e l'abbandono delle proprie terre, impoverivano; danni non però eguali al beneficio della depressa feudalità. Mutando in parte i sentimenti del popolo, furono i baroni meno riveriti, la feudalità meno legittima, e a poco a poco si aprirono le strade ai maggiori successi. Era immensa quella mole, che sebbene cadde (come dirò a suo luogo), nell'anno 1810 per opera de' succedenti re'. a merito della prima scossa è di Carlo.

Era tempo felice a' sudditi ed al re; le oppressioni vice‑reali dimenticate, le baronali alleggerite, certa la pace, avventurosa di molta prole la reggia, il vivere abbondante, le opinioni de' reggitori e del popolo concordi. Piccolo numero di sapienti, amanti di patria e di novità, era unito al governo, però che le riforme di Carlo giovavano alle libertà universali; ed il passaggio della monarchia da feudale ad assoluta, vedevasi come età necessaria della vita delle nazioni. Lo studio perciò de' re, l'interesse de' popoli, le speranze dei novatori miravano e correvano al punto istesso. Solo il clero e i baroni avevano scopo diverso; ma quello mordeva segretamente il freno aspettando l'opportunità di spezzarlo, e questi, per ignavia e vóta superbia, si rallegravano de' titoli e fregi di nobiltà che il re largamente dispensava.

LVIII. Ma le sollecitudini di lui, come degli altri re del passato secolo, creavano nella società un nuovo ceto, quello che raccogliendo le spoglie de' ceti depressi, ne acquistava le ragioni o le ricchezze, e lo chiamerò Terzo‑Stato, come si chiamava in Francia dove più presto ebbe nome, e dove interposto tra gli ottimati e la plebe divenne popolo, parte potentissima delle nazioni, operatrice in Europa de' rivolgimenti dell'età nostra, fondatrice delle costituzioni de' regni. Prima delle riforme, baroni e preti avevano ricchezze, e comando, giurisdizione, amministrazione de' beni comuni e della giustizia, tutte le membra del potere; l'infima condizione non aveva altro che pesi ed obbedienza. Dopo le riforme, i grandi radunati nella città e nella reggia, pervenuti al grado che vedevano più alto nella fortuna, desiderosi di mantenersi in quella eminenza, sperando titoli, onori, aura di corte, tenevano a gloria l'ozio superbo, ed a vile l'ambizione dello operare. Ed il popolo, che prima spensierato e solamente bramoso di vita facile, nulla pretendeva al governo dello Stato, vide possibilità d'innalzarsi. Coloro tra i grandi che per male venture scendevano, o per amor di guadagno o per indole operosa abbandonavano gli ozii del primo stato, e coloro del popolo che per industria e virtù salivano, gli uni e gli altri ingrossavano il terzo‑stato. Il quale perciò, sempre attivo e crescente, possedeva gli elementi veri della forza politica: numero e movimento. Così il terzo‑stato viene, per la natura della società, compagno e strumento della monarchia nel passaggio di lei da feudale ad assoluta.

Essendo il terzo‑stato possente quanto ho descritto, importa investigare qual genere di persone raccogliesse in Napoli le spoglie baronali ed ecclesiastiche; perciocchè la natura e gl'interessi degli uomini che lo composero si vedranno divenire a poco a poco natura ed interessi del governo. Qui rammento che le ricchezze di quei due ceti furono tocche leggermente dalla finanza, e che le riforme di Carlo risguardavano le giurisdizioni: il foro ecclesiastico scemò di autorità e di credito; furono gli asili presso che tolti; molti giudizi criminali o civili de' cherici passarono alla curia secolare; le liti ne' feudi, le liti feudali erano giudicate da magistrati regii; il foro di corte, il foro della nobiltà ebbero minore potenza. Tutte le perdite de' due ceti divennero altrettanti acquisti della curia comune; e però che in essa, come ho detto innanzi, entrava facilmente la plebe, la composizione del terzo­stato fu di curiali. Gli offizii, l'autorità, i guadagni vennero in loro mani; il re pigliava dalla curia i consiglieri, i ministri; l'ingegno forense diventò arte politica; le opere del governo nelle vicissitudini di regno presero indole e sembianze curiali.

Sono i curiali timidi ne' pericoli, vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde, fortunati nelle discordie, emuli tra loro per mestiere, spesso contrari, sempre amici. Il genere della costoro eloquenza è tra noi cagione di altri disordini: le difese sono parlate, lo scritto raramente accompagna la parola; persuadere i giudici, convincerli o commuoverli, trarre alla sua parte gli ascoltatori, creare a suo pro la opinione del maggior numero, momentanea quanto basti a vincere, sono i pregi del discorso; finito il quale si obliano le cose dette, e sol rimane il guadagno ed il vanto della vittoria, tanto maggiori quanto più ingiusti. Da ciò veniva che della esagerazione o della menzogna, fuggenti con la voce, non vergognavano gli avvocati; e che i ragionamenti semplici e puri della giurisprudenza si mutavano in aringhe popolari e seduttrici, ed il foro in tribuna. Mali al certo per la giustizia e per i costumi, ma rovina e peste nelle politiche trattazioni e ne' rivolgimenti civili, quando bisognerebbe cagione, verità, freno alla plebe, temperanza di parti; ed invece prevalgono la briga, il mendacio, la licenza, indi l'origine de' mali pubblici.

Se le riforme di Carlo, più vaste, avessero inteso non solamente alla Chiesa ed a' feudi, ma ben anche alle milizie, al commercio, alla divisione de' possessi, così che fossero entrati nel terzo‑stato militari, commercianti e possidenti, le condizioni del regno sarebbero state diverse. Ma quelle riforme partivano dal Tanucci, spinto da due sole comunque generose passioni: contro la feudalità, contro il papismo. Gretto d'animo e curiale egli stesso, trascurava le milizie, credendole nella pace inutile peso allo Stato, e confidando la corona del suo signore alle parentele di Spagna, e di Francia, ed alle nuove che andava rannodando con la casa d'Austria e co' principi della Italia; ignorante di economia politica, di finanza, di amministrazione, avido di potere, e, come straniero, più amante del re che dello Stato. La buona fama che egli ebbe gli derivò dalle resistenze a' pontefici; dallo scuotere la feudalità, dall'onesto vivere, da' piacevoli costumi; e sopra tutto dalla lunga pace del regno, benigna velatrice degli errori de' governanti.

I vizi del terzo‑stato passarono nel governo, e divennero artifiziata natura del popolo; quindi leggi dispotiche, finte paci, promesse menzognere, e certo gergo di argomenti o parole sostituito alle sentenze immutabili del dovere e della giustizia. Sonodottrine curiali que' trattati nulli perché di necessità; que' giuramenti mancati perché non assentiti dalla coscienza; que' patti concordati co' soggetti e non tenuti perché il re non patteggia co' vassalli; quel chiamare occupazione la conquista, ribellione quella che fu legittima obbedienza de' popoli: e le tante altre sovversioni del vero e del giusto udite e patite a' di nostri. E qui, anticipando i tempi, accennerò com'anche per fatti susseguenti si manifesti la verità del mio discorso. Dall'anno 1806 al 1845, per le buone leggi de'due re francesi e le divise proprietà della Chiesa e de' feudi, crescendo il terzo‑stato dei nuovi possidenti, l'autorità de' curiali minorò. E dopo quel tempo i moti della nazione napoletana hanno secondato i meglio appresi interessi del popolo, che sono: sicurtà de' possessi e delle persone, leggi, consulte pubbliche, adunanze nazionali, stabilità del presente, guarentigia dell'avvenire. Questi medesimi, ora che scrivo, desiderii segreti e sfortunati, saranno, col maturare del tempo, manifesti e felici; se non so quale rivoltamento politico non cangia in altro il terzo‑stato del regno. Ritorno alla storia di Carlo.

LIX. A' tempi del quale i curiali, non appieno esperti delle nuove loro forze, arrecavano piccolo e non avvertito danno. Godeva il re, godevano i soggetti regno di pace, allorché venne a rompere le speranze di maggiore felicità la morte di Ferdinando VI re di Spagna, che, senza prole, lasciò il trono vacuo a Carlo di Napoli. Appena saputo l'avvenimento, i ministri spagnuoli gridarono Carlo re di quel reame, ed in suo nome reggevano. Delle quali cose per celeri messi avvisato il re, nominò reggente per la Spagna la regina Elisabetta sua madre, che stavasi, come ho detto, ritirata in un suo castello, ma non deposto il regio ingegno e le vaste speranze di gloria e comando. Per la successione a' suoi reami, essendo per lui necessità di provveder subito a quella di Napoli e trasmetterla, sentivasi agitato da doppio affetto, avvegnaché numerosa prole, sei maschi e due femmine, moglie ancora giovine rallegravano la reggia; ma il primo nato, già in età di dodici anni, era infermo di corpo, scemo di mente, inetto a' negozi, e per fino a' diletti della vita, disperato di guarigione. Contendevano perciò nell'animo del padre rompere la successione di natura, pubblicare al mondo le imbecillità del figliuolo, ovvero affidare la maggior corona e la discendenza ad uomo stolido e cadente. Vinse la ragione di Stato. Chiamò i baroni, i magistrati, i ministri, gli ambasciatori delle corti, i medici più dotti, questi esaminatori del principe Filippo, gli altri assistenti o testimonii. La imbecillità del povero Infante fu descritta ed autenticata in solenne foglio, che il re, quasi piangente, comandò si leggesse al congresso.

Escluso Filippo, succedeva nella Spagna il secondo nato Carlo Antonio, e nelle Sicilie il terzo, Ferdinando; il quale, robusto di persona, facile d'ingegno aveva scorsi otto anni di vita, così che il re fissò in mente una reggenza per il governo del regno, e nel di 6 di ottobre di quell'anno 1759, tenendo intorno a sè la moglie e i figli, presenti gli ambasciatori, i ministri, i destinati alla reggenza, gli eletti della città, i primi tra' baroni, fece leggere un atto che diceva: Lui, appellato dalla provvidenza, al trono della Spagna e delle Indie, rinunziare la corona di Napoli ad uno de' figli, dovendo le due monarchie, per gli accordi europei, restar divise ed indipendenti. Aver destinato (poiché Filippo suo primo figlio era inabile al regno) Carlo, il secondo, a succedergli nella Spagna, e il terzo nato, Ferdinando, a' reami delle Sicilie. Emancipar questo, cedergli le sue ragioni al trono, comandare a' popoli di obbedirlo come re. Dare un consiglio di reggenza al re fanciullo sino all'età maggiore; ch'ei prefiniva sedici anni compiuti. La successione al trono delle Sicilie dovere andare per maschi primogeniti; tutti i casi previsti, tutte le regole stabilite. Spenta la linea maschile, sì diretta e si collaterale, dover succedere le femmine con l'ordine dell'età; spenta la linea femminile, tornare la corona al re di Spagna, perché la cedesse libera e indipendente al secondo nato dei suoi figli. Pregare da Dio prosperità a questi popoli, sperare durabili le provvidenze di quell'atto, e premiate le sue fatiche di re da pace lunghissima. Ciò detto, si volse al fiugliolo Ferdinando, lo benedisse, gl'insinuò l'amore de' soggetti, la fede alla religione, la giustizia, la mansuetudine, e snudando la spada (quell'istessa che Luigi XIV diede a Filippo V, e questi a Carlo), ponendola in mano del nuovo re, e dandogli per la prima volta nome di maestà, tienla, disse, per difesa della tua religione e de' tuoi soggetti. Segnarono l'atto riferito di sopra, Carlo, poi Ferdinando. Gli stranieri presenti riconobbero il novello re, e que' del regno di giurarono fede. Carlo, nominata la reggenza, prescrisse ch'ella governerebbe, partito lui per le Spagne. Ripetè i voti di comune felicità, e usci lodato e benedetto.

LX. Si apprestò nel giorno medesimo a partire. Aveva registrato i conti del suo regno, e lasciati al figlio precetti e ricordi, non invero ingegnosi, ma prudenti e benigni. Nulla portò seco della corona di Napoli, volendo descritte e consegnate al ministro del nuovo re le gemme, le ricchezze, i fregi della sovranità, e per fino l'anello che portava in dito da lui trovato negli scavi di Pompei, di nessun pregio per materia o lavoro, ma proprietà, egli diceva, dello Stato; così che oggi lo mostrano nel museo, non per meraviglia di antichità, ma in documento della modestia di Carlo. Nominò il precettore del giovine re; e gli raccomandò la vita dell'Infante Filippo che lasciava nella reggia di Napoli. Dispensò gradi, onori, doni, per mercede di fedeltà o di servigi. Nel giorno medesimo, prima che il sole declinasse, entrò in nave con la moglie, due figliuole e quattro infanti, sopra un navilio spagnuolo di 16 vascelli da guerra e molte fregate, salpato da' porti del Ferol e di Cadice, arrivato in Napoli sul finire del settembre per servizio del re. La corte di Spagna in quel tempo era delle regnanti di Europa la più pomposa.

Assisterono al partire di Carlo tutti gli abitanti della città, però che le nostre case, sotto cielo benigno, essendo coperte non da tetti acuti o da piombi, ma da piani terrazzi donde si scuopre l'amenissimo lido che stringe il golfo, quei che non capevano nel molo e ne' du bracci del porto, miravano dall'alto delle case, addolorati ed auguranti al non più loro invidiato monarca. Le memorie del buon re, la sua grandezza e gli edifizi da lui fondati, visibili dalla città, la folta e '1 silenzio dei riguardanti, erano cagioni e documenti della giusta universale mestizia: la quale (benché durassero leggi, magistrati, natura e nome del governo) per lungo tempo non cessava nel popolo quasi presago della tristezza de' futuri regni.


 

 

 

CAPITOLO V          MINORITA’ DEL RE

 

I. Al finire dell'anno 1759 essendo re, come ho riferito nel primo libro, Ferdinando Borbone, nella età che non compiva gli otto anni, furono reggenti Domenico Cattaneo principe di San Nicandro, Giuseppe Pappacoda principe di Gentola, Pietro Bologna principe di Camporeale, Michele Reggio bali, di Malta e generale di armata, Domenico Sangro capitangenerale dell'esercito, Iacopo Milano principe di Ardore, Lelio Caraffa capitano delle guardie, e Bernardo Tanucci. Il re ebbe titolo di Ferdinando IV, re delle due Sicilie e di Gerusalemme, Infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario di Toscana. I reggenti, allevati nelle pazienze del vice‑regno, quindi usati alle servitù della corte, oggi cadenti per vecchiezza, tra loro il solo Tanucci prendeva il carico degli affari ed era tenuto la mente della reggenza, del quale onore non ingelosivano gli altri perché inesperti, scevri delle ambizioni di governo, soliti obbedir lui, che per natura e non contrastata podestà si mostrava mansueto e riverente. Aio del re lo stesso principe di San Nicandro, onesto di costume, ignorante delle scienze o lettere, unicamente voglioso di piacere all'allievo; e persuaso dal Tanucci a non alzare l'ingegno del giovine principe, meglio convenendo a re di piccolo Stato godere in mediocrità di concetti le delizie della signoria.

Alla mestizia vera della reggia e della città per la partenza di Carlo succederono i segni di allegrezza per lo innalzamento del successore; il quale, rimettendo le pene a parecchi delitti, fece liberi molti prigioni, assicurò più rei, e, dopo ciò, con fasto e cerimonie regali, assisté nel duomo agl'inni di grazie cantati nella cappella di San Gennaro. Quindi la reggenza comandò che la baronia, i magistrati, i deputati della comunità fossero in certi giorni a palazzo per riconoscere il nuovo re, e giurargli fede ed obbedienza. Tutti accorsero; e, confidando ne' ricordi del padre, nel consiglio del buon ministro, e nel prospetto di lunga pace, speravano regno mansueto e felice. Poscia il re, seguendo l'esempio de' predecessori, chiese al pontefice la investitura del Regno; e, concordata, prestò, il dì 3 febbraio del 1760, in iscritto e con la voce del cardinale Orsini suo legato, il giuramento chiamato «di omaggio e di vassallaggio al sommo pontefice; e di non procurare di essere eletto in re imperatore de' Romani, oppure re di Germania, signore della Lombardia e della Toscana; e nel caso vi fosse eletto, non vi presterebbe alcun consenso».

II. La reggenza governava co' precetti di Carlo antichi e nuovi, perciocché da Spagna venivano comunicati al Tanucci, sotto forma di suggerimenti, e pur talvolta di comando. Il quale privato carteggio agevolò i disegni del ministro con fare i reggenti viepiù arrendevoli al suo giudizio in certe imprese disapprovate dalla coscienza; erano le libertà dalla curia romana, ossia l'affrancare l'impero dal sacerdozio, e soggettare all'impero i sacerdoti del regno; le quali ragioni di Stato si tenevano a peccato dalle anime plebee di que' reggenti: ma una servitù vincendo l'altra, prevaleva il vero o supposto comando di Carlo al tacito consiglio della coscienza. E così lo scorto Tanucci, per dispacci, ordinamenti, decisioni della reggenza, tanto mutò dall'antico, e tante novelle relazioni e bisogni civili compose, che il re, divenuto maggiore in libera sovranità, non poteva disfare le cose fatte senza produrre all'universale danni e disordini. Fu perciò necessario a Ferdinando durare e procedere nello irrevocabile cammino; cosicché io, raccogliendo ciò che in materie giurisdizionali fu operato ne' trent'anni descritti in questo libro, avrò rappresentato il senno di un sol uomo, il Tanucci.

Dirò per sommi capi le prammatiche della reggenza e del re su le quistioni con la curia romana. 1 ministri regii provvidero agli spogli ed ai beni de' trapassati vescovi, abati, benefiziati; le entrate delle sedi vacanti furono addette ad opere di civile utilità.

Furono soppressi parecchi conventi; due in Calabria, ricettacoli di malviventi, uno in Basilicata, quattro in Puglia, tre in Abruzzo, ventotto nella Sicilia, per motivi diversi o per esercizio di sovranità. I beni di que' conventi andarono al comune.

Le decime ecclesiastiche, prima ristrette, poi contrastate, finalmente abolite.

E dipoi, rimossi gli ostacoli e preparate le coscienze a legge di maggior momento, furono interdetti gli acquisti alle mani‑morte, dichiarati manimorte i conventi, le chiese, i luoghi pii, le confraternite, i seminari, i collegi; ed acquisti, ogni nuova proprietà, l'accrescimento delle case o de' conventi, la fondazione di nuove chiese o cappelle, i patrimoni dei preti e le doti delle monache oltre i limiti della legge, le limosine per feste, per processioni, per messe. La provvida legge vietò ai nostri di scrivere testamenti che apportassero nuovi acquisti a quelle mani; impedì le permute; agguagliò a censi le enfiteusi a tempo, i lunghi affitti, e gli affitti rinovati a' locatori medesimi; talché le mani‑morte conservassero il canone, perdessero la proprietà.

I quali provvedimenti, superiori alla civiltà comune, erano contrastati dalla ignoranza del popolo, dalla scaltrezza de' cherici. Donna divota nominò nel testamento sola erede l'anima sua. Trapassato di subita morte Giovan Battista Latilli di Bitonto, il vescovo e '1 parroco fecero insieme il testamento dell'anima, legando buona parte del patrimonio a celebrazione di messe; testamento simile fece il vescovo di Bisceglia per l'anima di Francesco Pascullo, ucciso; ed altro ne fece in Pisticce il vicario della diocesi per l'anima del sacerdote Lisanti, morto intestato. Tutti furono dal governo rivocati, biasimati i vescovi, e con legge i testamenti all'anima e dell'anima proibiti. Succederono gli eredi legittimi; e poiché al Pascullo mancavano, ereditò la comunità di Bisceglia.

III. Così provvisti a scemare le soperchie ricchezze della Chiesa, altre leggi abbattevano le pretensioni chiamate dai pontefici diritti, e di queste leggi riferirò gli effetti. Fu allargata la giurisdizione laicale, e altrettanto ristretta la ecclesiastica, ed al tribunale misto, ed al delegato della giurisdizione regia (magistrati noti per il primo libro) si aggiunse un avvocato della corona, vigilatore alle ragioni della sovranità.

Fu minuito A numero de' preti, il dieci per mille anime praticato da Carlo diventò legge dello Stato; dipoi annoverarono fra i dieci i frati sacerdoti, e finalmente il dieci si ridusse a cinque.

Non si ordinavano preti o diaconi se mancavano del patrimonio, né il patrimonio potevasi accrescere o stabilire a danno delle famiglie.

Vietavasi al figlio unico il chiericato; ed alla casa che aveva un prete, secondo.

Si dichiarò cassa qualunque bolla o carta del pontefice, nuova, antica, antichissima, non fusse validata dal regio assenso: né basterebbe a legittimarla (sono parole dell'editto) l'uso, la pazienza, o il sonno de' passati' monarchi. Il

regio assenso fu difinito: Regalia inalienabile che non ma si prescri  ve o si  presume. E in altri editti, le concessioni di natura ecclesiastica, fatte o assentite dal re, si sciolgono a piacimento dello stesso re, o de' re successori. Le volontà

de'fondatori si sopprimono, si commutano a beneplacito del re. Gli ecclesiastici dipendere dal re e da' suoi magistrati, e non essere su la terra dignità che abbia diritto o possanza di derogare alle sentenze sopradette.

Le quali, applicate a molti casi, e ripetute negli atti del governo, stabilirono a poco a poco le pratiche e le opinioni ne' giudizi de' magistrati, e nell'animo de' popoli. Quindi il divieto di ricorrere a Roma senza il regio permesso; quindi le provviste de' benefiziati fatte dalla cancelleria romana, annullate dal re; impedite le concessioni de' pontefici sopra le rendite de' vescovi; impedito al papa congiungere, separare, mutar confini alle diocesi; abolite le regole della cancelleria romana, non accettar nunzi se non approvati dal re. Il matrimonio difinito contratto civile per natura, sacramento per accessione; le cause matrimoniali, di competenza laicale; o, se de' vescovi, per facoltà delegata dal principe. E se n'ebbe prova nel matrimonio del duca di Maddaloni, che voleva risolversi per caso preveduto dal concilio di Trento. Il nome, il grado, la ricchezza degli sposi fecero quella causa la più famosa del tempo, così che il nunzio voleva trattarla nel tribunale della nunziatura; ma il re, nominato il magistrato a deciderne, confermò essere i matrimonii patti civili.

IV. Crebbero per le cose dette le facoltà dei vescovi, ma in danno di Roma; perciocché nello interno l'autorità vescovile fu ristretta e abbassata. Venne a' vescovi proibito d'ingerirsi nella istruzione pubblica, e di stampare scritti non sottomessi alla censura comune ed approvati dal re. Vietate le censure de' vescovi, vietati i processi per lascivie, interdette le carceri. Dipoi soppresse le immunità personali, proibite le questue, soggettate a tariffa le sportule ecclesiastiche, francati i luoghi pii dalle prestazioni a' vescovi, rivocate per sempre certe esazioni che i vescovi facevano da origine tanto vetusta che dimenticata; e si diceva nel decreto: Il vescovo come prepotente non prescrive.

Qui rammento che nel 1746, tentata dal papa e dal cardinale Spinelli la introduzione del tribunale del Santo‑Uffizio, mosso il popolo a tumulto, non si ebbe quiete prima che scomparissero le cose e i segni del tribunale abborrito, e non fossero eletti (a sicurtà dell'avvenire) quattro del popolo col nome e '1 carico di deputati avverso al Santo‑Uffizio. Questi medesimi, dopo la partenza di Carlo, dimandarono al re successore la conferma di que' privilegi accordati con gli antichi re, per le preghiere, i tributi e i tumulti del popolo. E la reggenza, sollecita di contentare la onesta dimanda, riprodusse ella gli editti medesimi di Carlo confermati e giurati dal successore. Così stessa, poco innanzi la maggiorità del principe (dicendo a' magistrati che vegliassero alle ragioni della sovranità, affine d'impedire che le male usanze della corte romana, svelte a stento dalla sapienza de' due regni borbonici, si rallignassero), impose l'obbligo alla regal camera di Santa Chiara, al delegato della giurisdizione regia, all'avvocato della corona d'instruire per dotte popolari scritture i reggitori e i soggetti ne' veraci dogmi della religione di Cristo, e tornare in concordia l'impero, il sacerdozio, il giudizio de' magistrati, la coscienza de' popoli.

V. Si operavano le dette cose mentre il principe di San Nicandro provvedeva alla sanità ed agli studii del re, il quale, nato con felicità di robustezza, e dedito agli esercizi della persona, acquistando tuttodì gagliardia, inchinava alle pruove di forza; secondato dal precettore, che andava superbo di quella corporale valetudine. Furono ravvivate le ordinanze per la caccia, rammentate le pene, anche i tratti di corda ai trasgressori, popolati i boschi di fiere, moltiplicati i custodi, e, avanzando lo stesso genio smodato di Carlo, aggiunte altre foreste alle antiche. Aveva il re dodici anni. Gli esercizi e i diletti consumavano molte ore del giorno, e svagavano la mente dagli studii. Gli uomini di più fama e dottrina erano suoi maestri; ma ora il tempo, ora mancando il volere, nessuno o raro l'insegnamento, si vedevano crescere del re la forza e l'ignoranza, pericoli dello Stato nell'avvenire.

Fanciullo, non soffriva conversare co' sapienti, e fatto adulto, ne vergognava. Godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cignali o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, esser sagacissimo alla pesca, primo alla corsa; talenti e millanterie da Barbaro tenute a pregio da genti del popolo educate a costume spagnuolo. Coll'andare degli anni avanzava il gusto incivile del re; e adulto appena (a sedici anni) divenuto libero sovrano di ricca e grande monarchia, sperdeva il tempo ne' piaceri della giovinezza e del comando tra giovani, come lui, atleti e ignoranti. L'attitudine a quegli esercizi, la forza, il viver dissipato, i gusti plebei, divennero ambizioni de' soggetti, e tanto più de' nobili, compagni al re o da lui ammirati nella corte. E tanto si appresero all'animo di lui quelle barbare costumanze, che non bastò a sbandirle lunga età, e regno pieno di varie fortune. Era già marito e padre quando in Portici, dopo ammaestrati al maneggio dell'armi certi soldati che nominò Liparotti, alzava bettola nel campo, e con vesti ed arnesi da bettoliere ne faceva le veci, dispensando cibo e vino a poco prezzo, mentre i cortigiani, e talvolta la moglie simulavano della bettola i garzoni e la ostessa. Altra volta giuocando a pallone, vedendo tra' spettatori giovine macro e stentato, bianco il capo di polvere, con veste lucida e nera di abate, volle, per ingiurioso diletto, farne spettacolo di riso; e, piegatosi all'orecchio di un cortigiano, fu veduto questi partirsi e tornare con coperta di lana, che, quattro de' giuocatori più gagliardi (A re tra loro) distesero, tirandola per le punte: e subito l'abate preso da servi o manigoldi, trasportato nell'arena del giuoco, messo per forza su la coperta, balestrato in aria più volte, ricadeva sconciamente tra le risa e le grida di plebaccia e di re, che presagivano altre feste popolari e feroci. Essendo quell'abate il signor Mazzinghi, nobile fiorentino, la corte di Toscana fece lamentanze alle corti di Napoli e di Spagna; ma non potendo ragion privata disturbare la concordia de' regnanti spettava alla istoria vendicare il Mazzinghi. Il quale, fuggendo la inospitale città, e vergognando di tornare in patria, fermato a Roma, dopo alcuni mesi di melanconia si morì.

Più volte all'anno, dopo la pesca ne' laghi di Patria e del Fusàro, il re vendeva il pesce serbando pratiche, aspetto ed avarizia di pescivendolo. Le malattie o le morti nella famiglia, le guerre infelici, le sventure di regno, la perdita di una corona, nol distoglievano dalla caccia né da' giuochi villani, siccome andrò narrando nel corso della istoria. I quali esercizi, e la conseguente stanchezza, e l'ozio, e '1 molto cibo, e il sonno prolungato, riempiendo tutte le ore del giorno, toglievano il tempo a coltivare la mente o a governare lo Stato. Non mai per vaghezza di studii o per pubblici negozi leggeva libro o scrittura; e come nella minorità la reggenza guidava il regno, così quando ei fu libero lo guidavano i ministri o la moglie. Apportandogli tedio sottoscrivere del suo, nome gli atti d'impero, li faceva in sua presenza segnare con sigillo e stampa che gelosamente custodiva. Impaziente alle funzioni della mente, fastidiva i consigli di Stato: raro li chiamava, presto li discioglieva: vietando i calamai per ischivare la tardità dello scrivere. Nelle quali particolarità essendo le cagioni di molti fatti, ho voluto trattenermi ne' l'editto) gli usurai nemici de' poveri. Capo de' commissari con suprema potestà era il marchese Pallanti, che, a mostra di rigorosa giustizia, faceva alzare le forche ne' paesi dove principii del libro, acciò i racconti non tornino incredibili o meravigliosi. VI. Nell'anno 1763, per iscarso ricolto di biade, i reggitori si affrettarono a provvedere l'annona pubblica, i cittadini la privata: ma volse in danno il rimedio, però che il molto grano messo in serbo, soccorrendo i bisogni avvenire, trasandando i presenti, fece la penuria nel cominciar dell'anno 1764 certa ed universale. Le inquietudini e i lamenti del popolo, i falli del governo, l'avidità dei commercianti, e i guadagni che vanno congiunti ad ogni pubblica sventura, produssero danni maggiori e pericoli: si vedevano poveri morir di stento: si udivano vuotati magazzini o forni: poi furti, delitti, rapine innumerevoli. La reggenza, prefiggendo alle biade piccolo prezzo in ogni terra o città, desertò i mercati: dicendo non vera la penuria ma prodotta da monopolisti, concitò turbolenze: e disegnando a nome certi usurai, furono uccisi. Spedi nelle province commissari regii e squadre di armigeri a scoprire i depositi di frumento, metterlo a vendita ne' mercati, e punire (diceva poco appresso ei giugneva con seguito numeroso ed infame di birri e carnefice. Nessun deposito fu scoperto, però che tutti i magazzini erano stati innanzi vuotati dal popolo, nessun uomo restò punito perché non mai vero il monopolio: quelle provvidenze valsero a palesare la stultizia del governo, e accrescere nella plebe la disperazione e il disordine. S'ignora quanti morissero di fame, e quanti ne' tumulti; gli uni e gli altri non computati per negligenza, o non palesati per senno del governo. Finalmente, saputa ne' mercati stranieri la fame di Napoli, vennero con gara di celerità molte barche di grano, e la penuria cessò. Allora nuova prammatica sciolse i contratti della carestia, riducendo a prezzi bassi ed a condizioni prescritte le cose innanzi pattovite per comune volontà e interesse; ed altra prammaticà rimise le colpe (furti, spogli, omicidii) commesse per causa di penuria. Tutte le dottrine di Stato, tutte le giustizie furono conculcate.

Né i riferiti avvenimenti ammaestrarono la reggenza: per lo contrario, divenuta più timida, accrebbe negli anni seguenti le provvigioni dell'annona , vietò l'uscita a' prodotti nativi del regno, doppiò la povertà. E però i cittadini, migrando a stuoli non che a famiglie, fecero necessario nell'aprile del 1766 che il governo li ritenesse per leggi e pene.

 

 


 

 

 

CAPITOLO VI           IL RE, DIVENUTO MAGGIORE, GOVERNA IL REGNO

 

VII. Il 12 di gennaio del 1767 usci di minore il re Ferdinando, tacitamente, però che nessuno atto di governo, né cerimonia nella reggia, né festa nella città celebrò quel giorno; i reggenti divennero consiglieri o ministri, la sostanza o l'aspetto del politico reggimento non mutò. E poiché per le cose dette sono assai note le condizioni domestiche del regno, importa discorrere brevemente le esteriori. 1 potentati del settentrione, che per la bilancia politica del tempo non istendevano sino a noi la cupidigia e la potenza, mantennero i trattati di commercio fermati con Carlo; la Spagna e la Francia avevano con Napoli amicizie, non alleanza, perciocché gli accordi tra quei due regni del 1761, chiamati Patto di famiglia, non per anco erano stati accetti (a ciò consentendo secretamente il re di Spagna) da' Borboni delle Sicilie e di Parma. La casa d'Austria negoziava nuovo parentado col re di Napoli. Essendo finita sin dal 1763 la guerra de' sette anni, riposava la Germania e stava in pace l'Italia. Era morto don Filippo duca di Parma, e appresso a lui la vecchia regina Elisabetta Farnese, l'uno e l'altra per ambiziose voglie concitatori alla guerra. Il papa Clemente XIII contendeva contro Napoli ma inerme, perché sprovvisto d'armi profane, e per le sacre non temuto.

VIII. Primo atto del re maggiore fu la cacciata de' gesuiti, che importa esporre dal capo al fine; perciocché il're medesimo riappellando, tempo dopo, la espulsa compagnia, ed altri re mutando in favore di lei le già praticate ostilità, giova conoscere le cagioni così dello sdegno che dell'affetto. t noto per altre istorie come nell'anno 1540, sotto il pontificato di Paolo III fu instituita la compagnia di Gesù a insegnare e convertire, professando per voti la povertà, la castità, l'obbedienza; come si sparse in varie parti del mondo e nelle reggie; come divenne di povera, opulenta; d'infima, prima; di modesta, ambiziosa; e quante querele ella mosse o respinse.

Nell'anno 1758 Giuseppe I re di Portogallo, tornando dopo notturne lascivie dalla città alla reggia, fu leggermente ferito da colpo di moschetto; e ricercati gli autori e le cagioni, si scoprì che molti nobili e frati gesuiti avevano congiurato di uccidere il re per mutare padrone, corte e ministri. Parecchi nobili, di condanna. furono morti; due frati gesuiti de' meglio rinomati finirono nelle carceri, e si disse per comando del marchese di Pombal, ministro potentissimo di Giuseppe: altro gesuita, Malagrida, accusato nel tribunale del Santo‑Uffizio, dichiarato seduttore, del popolo, perdé la vita sul palco nella città di Lisbona; e tutti dell'ordine in un giorno imbarcati, approdarono a Civitavecchia negli Stati del papa. Fu questo il primo bando a' gesuiti; venne seconda la Francia, perciocché Luigi XV, dopo brighe di corte e allettamenti della Pompadour e decreti de' Parlamenti, scacciò la compagnia nel 1764; e tre anni appresso la sbandì dalle Spagne Carlo III, prescrivendo a' sovrani di Napoli suo figlio e di Parma suo nipote, d'imitare l'esempio.

Nel mezzo della notte, che fu del 3 di novembre del 1767, tutte le case gesuitiche del regno napoletano (monasteri o collegi) furono investite da uffiziali del re e da genti d'arme; gli usci aperti o atterrati, ogni cella sorpresa e custodita; i frati, i serventi, i discepoli adunati in una stanza dell'edifizio; i mobili sequestrati, lasciando ad ogni uomo le sole vesti; e ciò fatto, tutti in truppa scortati al porto o spiaggia più vicina ed imbarcati sopra nave che subito salpò. Né fu permesso il restare a' vecchissimi o agl'infermi; tutti partendo con moti tanto solleciti che, per dire della sola città, i gesuiti navigavano per Terracina e non ancora la prima luce del giorno 4 spuntava.

Quelle sollecitudini e quel rigore vennero dall'esempio di Madrid, o per nascondere al popolo con la sorpresa e le tenebre spettacolo pietoso e inriverente. Gli editti che nel giorno si lessero, dicevano:

«Noi il re, facendo uso della suprema indipendente potestà che riconosciamo immediatamente da Dio, unita dalla sua onnipotenza inseparabilmente alla nostra sovranità, per il governo e regolamento de' nostri sudditi, vogliamo e comandiamo che la compagnia detta di Gesù sia per sempre abolita ed esclusa perpetuamente da' nostri regni delle Sicilie>>.

Seguivano altre ordinanze per accertare il popolo che i beni dei gesuiti, comunque incamerati, anderebbero in opere di pietà e giovamento comune; che i debiti di quei frati, le limosi n‑‑e, i ‑pesi, e opere meritorie, sarebbero mantenuti; che si provvederebbe al mancato servizio delle chiese; e dalle scuole riordinate uscirebbe più vasto e sapiente il pubblico insegnamento.

Non fu noto quante ricchezze incamerasse la finanza, perché il governo pose studio a non palesarle; ma già quei frati, forse intesi e certamente sospettosi di loro sventura, avevano involate molte cose preziose per valore di materia o eccellenza di arte. Le opinioni su la cacciata de' gesuiti furono varie; apportando mestizia a' balordi ed agli ipocriti, contentezza a' sapienti, incuriosità alle moltitudini; ne godevano gli altri frati e cherici per insita malevolenza o invidia alle passate felicità e grandezze de' gesuiti; il ministro Tanucci ne fu allegro; il re indifferente, ma l'animo giovanile si educava alle opere ardimentose verso la Chiesa, e a tener separate nella coscienza l'umiltà cristiana e l'alterezza di re.

Per molti mesi fu dato adempimento alle promesse; e poi che i fatti ebbero mostrata la fedeltà del governo, comparve altro editto, che, ad onore del re, qui trascrivo. «Dalle nostre cure paterne, dopo la giusta e necessaria espulsione da' nostri dominii della compagnia che dicevasi di Gesù (spiegando noi e commutando, con quella sovrana potestà che riconosciamo dirittamente da Dio, la volontà di coloro i quali, nel lasciare i loro beni alla compagnia suddetta, intesero destinarli all'utilità spirituale dei loro concittadini, per mezzo di quelle opere che la medesima professava di fare), sono nate le pubbliche scuole e i collegi gratuiti per educare la gioventù povera nella pietà e nelle lettere; i conservatori per alimentare ed ammaestrare ne' mestieri gli orfani e le orfane della povera plebe; i reclusorii per i poveri invalidi o per i validi vagabondi, che, togliendosi all'ozio ond'erano gravosi e perniciosi allo Stato, si rendono utili con istruirsi delle arti necessarie alla società; il sollievo alle comunità col rilascio delle annue prestazioni che facevano agli espulsi per le scuole; l'aiuto alle genti di campagna con la divisione dei vasti territorii a piccoli censi; il soccorso alle persone oneste e bisognose con le fisse quotidiane limosine; e le tante altre opere pubbliche, fatte o che si van disponendo dopo le prime del culto divino e degli esercizi della religione. Quindi, essendosi co' beni della espulsa compagnia abbondantemente provveduto alla pietà pubblica, e quanto al santuario sapendosi che ormai è tempo di quello avvertimento che fece, inspirato da Dio, Mosé condottiero del popolo ebreo, di non più portare donativi all'arca; perciò noi, rivolgendo lo sguardo al sostentamento delle famiglie de' nostri sudditi ed al riposo loro su i beni che possedono, siamo venuti col presente editto a risolvere e dichiarare caducate tutte le sostituzioni o chiamare a favore degli espulsi gesuiti non ancora avverate; essendo nostra regal volontà che i beni compresi nelle sostituzioni o chiamate restino alla libera disposizione dell'ultimo secolar possessore, dopo il quale sarebbero chiamati i gesuiti. Napoli, 28 luglio 1769 Ferdinando re».

IX. Tra mezzo alle riferite cose corsero per l'Europa lettere del papa, in forma di Breve, contro il duca di Parma, che, ad esempio di altri re, come ho detto innanzi, aveva discacciata la compagnia di Gesù; e perciò Clemente XIII, minacciando anatemi e censure a principe debole e fanciullo, non ne temeva lo sdegno, e sperimentava l'efficacia delle armi sacre per coglier sovrani di maggior potenza. Il Breve, dicendo essere lo Stato di Parma feudo della Chiesa, e contrarii alle ragioni e podestà di lei gli atti avverso la compagnia di Gesù fatti a dispregio degli avvisi, della indulgenza, della mansuetudine del sommo pontefice, conchiudeva: «Siccome è notorio e incontrastabile (per la bolla in coena Domini) che gli autori o partecipanti alla pubblicazione degli atti suddetti sono incorsi nelle censure ecclesiastiche, così i medesimi non potranno ricevere l'assoluzione se non da noi o dai nostri successori».

Reggeva il ducato di Parma, per l'adolescenza del principe, il ministro Guglielmo du Tillot, francese, il quale, nulla mutando alle amministrazioni dello Stato, ebbe ricorso a' re di Spagna, Francia, Napoli e Portogallo contro il papa che avea offeso nel sovrano di Parma tutti i sovrani cattolici. Il re di Portogallo, pronto ed usato ai litigi, riprovò il Breve; il re di Spagna lo confutò riproducendo le querele e le proteste contro alla citata bolla in coena Domini; Luigi re di Francia fece occupare gli Stati di Avignone e '1 Venesino posseduti dal papa. Ed in Napoli la regal camera di santa Chiara è '1 delegato della giuridizione regia, intenti a sostenere le ragioni della sovranità, dimostrando la fallacia delle pretendenze di Roma, pregarono il re, provvedesse ai diritti suoi e dello Stato; e il re, disapprovato il Breve, e vietatolo ne' suoi regni, comandò che gli Stati di Benevento e Pontecorso ritornassero all'antico dominio dei re delle Sicilie. Per lo che nel possesso, facendo da sovrano legittimo e durevole, confermò a que' cittadini, le presenti franchigie, ravvivò le antiche de' passati re, cominciando da Ruggero, e ne promise altre nuove in premio di fedeltà. 1 popoli giurarono al nuovo impero, vogliosi di lasciar l'antico per usata incostanza, e perché a governo sacerdotale, quando anche apporti agiatezza e quiete, sdegna obbedienza l'indole generosa degli uomini. Il pontefice, a quelle viste, pregò la imperatrice Maria Teresa di portar pace con la sua potenza alla religione, alla Chiesa, a' monarchi. Ma colei, simulando modestia e debilità, schivò gli uffici, interdisse ne'suoi Stati d'Italia la Bolla t'n coena Domini, e comandò le copie introdotte bruciarsi. Tante ripulse premevano la insazietà del papato l'anno 1768.

X. Quando il re Ferdinando, giunto ad età virile, trattò matrimonio con Maria Giuseppa arciduchessa d'Austria, figliuola dell'imperatore Francesco I. Stabilite le nozze, cambiati i doni, prefissa la partenza della giovine sposa e preparate le feste del viaggio, ella infermò, e morì; si videro nello impero e nella casa mutate a lutto le vesti e le apparenze dell'allegrezza. Altra principessa, Maria Carolina, sorella della estinta, fu eletta in moglie a Ferdinando, e nello aprile del 1768 si partì di Vienna per Napoli. Ella, onorata nel viaggio da principi d'Italia e vie più in Firenze, dove regnava Pietro Leopoldo suo fratello, giunse il 12 di maggio a Portella, e sotto padiglione magnifico incontrata dallo sposo, ricambiarono gli atti e i segni, di riverenza e di affetto. La reggia di Caserta prima gli accolse, poi passarono a Napoli privatamente il 19 dello stesso mese, e con pompa regale il 22. Le feste e la gioia nella città e nella casa durarono parecchi mesi, inchinandovi per godimento il re, per fasto la regina, per servitù la corte, e per ispettacoli e guadagni la plebe.

Una principessa della casa austriaca, regina del maggiore Stato d'Italia, e moglie di re trascurante, variava la politica del governo, serva sino a quel giorno della mente di Carlo re di Spagna; e tanto più che la giovine donna entrerebbe ne' consigli dello Stato, non per legge o usanza della monarchia, ma per patto fermato ne' capitoli del matrimonio. Il ministro Tanucci, potente per la corte di Madrid, non fu gradito alla regina, ed egli stesso non gradì lei: tardi attristandosi dall'aver prodotta o nutrita la ignoranza del re. La regina, benché non finisse ancora i sedici anni, aveva senno maturo; e poiché bella, ingegnosa, auguratrice di prosperità al regno, attraeva gli sguardi e le speranze de' soggetti. Il fratello di lei Pietro Leopoldo, gran duca di Toscana, l'aveva seguita a Napoli per le nozze, e l'anno appresso vi giunse l'altro fratello Giuseppe, imperatore, i quali, ne' discorsi coi più dotti personaggi del regno, palesavano il proponimento di riformare i loro Stati come volevano secolo e sapienza. Così che a noi tutti la prole di Maria Teresa parve famiglia di filosofi potenti mandati da Dio a ristorare l'umanità.

XI. Morto in. quell'anno 1769 Clemente XIII, ascese al papato frà Lorenzo Ganganelli col nome di Clemente XIV. Il quale ammaestrato da' travagli del predecessore, meglio esperto de' tempi, voglioso di quiete, propose accomodamenti a' sovrani adirati; e questi, per la mansuetudine di lui e i profferti pegni di amicizia, deponendo lo sdegno, accettarono i nunzi, mandarono ambasciatori, restituirono gli occupati dominii. Poscia il pontefice, mantenendo le date promesse, e ripensando che l'appena sopita discordia nacque o fu inasprita da' casi della compagnia di Gesù, cedette alle continuate istanze de' principi, e pubblicò un Breve che ne confermava la cacciata. Il qual Breve era dello stile ingannevole di Roma, quasi mostrando che il pontefice, per evitare il peggio, piegasse alla prepotenza de' principi; ma cotesti principi dissimularono quella pontificale scaltrezza, ora superbi per la potenza, ora paurosi de' preti per coscienza. Godeva di quella pace Clemente, quando occupato da malattia miseramente fini, e gli accidenti del morbo e della morte, o certi presi antidoti, accreditarono la voce ch'ei morisse avvelenato da' frati della compagnia, per vendetta del Breve che toglieva a que' briganti le ragioni e la speranza di risalire alle antiche ricchezze. Se pure bugiarda la voce, non fu maligno il sospetto.

XII. Divenne pontefice Pio VI, già cardinale Braschi; e avvegnaché il re di Napoli aveva per ministri contrastata la elezione di lui, si fecero i due sovrani, dalle contese di Stato e di persona, doppiamente avversi. Vacò l'arcivescovato di Napoli, e'1 re lo provvide, benché a provvederlo pretendesse il pontefice; e comandò al prescelto di sopprimere nelle sue lettere le parole solenni: «Per grazia della Sede apostolica» a fin di evitare il dubbio che la Sede romana avesse partecipato alla scelta. Da tre secoli almeno gli arcivescovi di Napoli ottenevano la porpora cardinalizia, ma al nuovo arcivescovo la negò Pio VI, al quale fece il re scrivere che la ripulsa lo incitava a compiere la già meditata instituzione di un ordine ecclesiastico ne' suoi regni, spettabile per dignità e ricchezze, decorato anch'esso di color di porpora, nel fatto e alle apparenze più magnifico del collegio dei cardinali, soperchianza nella gerarchia. Ma non perciò l'arcivescovo ebbe il cappello, né il re fondò l'ordine. Poco dipoi il re nominò vescovo di Potenza Francesco Serao, dotto autore di molti scritti a pro delle giurisdizioni laicali, e notato giansenista dal pontefice, che rifiutò di sacrarlo; e non consigli, non minacce né preghiere bastarono a muoverlo dal proponimento; insino a tanto che a re scrisse farebbe in ciascuna provincia consecrare i vescovi nuovi da tre degli antichi, sì come prescrivono le sante e prime discipline della Chiesa.

XIII. L'anno 1776 leggero accidente partorì cosa memorabile. Usavano i re di Napoli, come è noto per le nostre istorie, presentare al papa in ogni anno la chinea (cavallo bianco riccamente bardato) e settemila ducati d'oro.

La cerimonia era pomposa, perciocché un ambasciatore, nel 29 di giugno, giorno di san Pietro, offeriva quel dono in nome del re al pontefice, che, negli atrii della basilica vaticana ricevendolo diceva: «essere il censo a lui dovuto per diretto dominio sul regno delle due Sicilie». In quell'anno, mentre il principe Colonna, gran contestabile del regno e ambasciatore del re, cavalcava alla basilica, disputazione di precedenza tra i servi dell'ambasciatore di Spagna e del governatore di Roma produsse nel  popolo ivi adunato moti di calca e romori di voci, che subito quietarono. Pure, terminata la cerimonia, l'ambiasciatore riferii le popolari turbolenze al re che, per dispaccio del suo ministro, rispose:

«Le controversie alla occasione della chinea, hanno afflitto l'animo divoto del re, perché, a cagione de' luoghi, del tempo, delle circostanze potevano apportare disgustose conseguenze da turbare la quiete dei due sovrani e de' due Stati. E poiché l'esempio ha dimostrato che un atto di sua mera divozione, qual è il presente della chinea, può essere motivo a scandalo ed a discordie, egli ha deliberato e risoluto che la cerimonia cessi per lo avvenire, e che a quell'atto di sua divozione verso i santi apostoli egli adempisca quando gliene venga desiderio per mezzo del suo agente o ministro. Gli esempi, la ragione, le riflessioni, le cautele, la umanità, la rettitudine, hanno concorso a muovere il regio animo a tale deliberazione, di quell'atto dipendendo unicamente la forma dalla sovrana volontà, e dall'impulso di sua pietà, e della religiosa compiacenza. Questi sensi di figliale venerazione verso il capo supremo della Chiesa sieno comunicati alla corte di Roma. Da Napoli 29 di luglio del 1776».

Il pontefice, dimandata la rivocazione del foglio, e non ottenuta, protestò in contrario. E sebbene da quel giorno fosse cessato il vergognoso tributo, egli nella festa di san Pietro ne faceva lamentanza e protestazione al governo di Napoli. Anni appresso il re privatamente offerse settemila ducati d'oro senza chinea o cerimonia, come dono di principe divoto alla Chiesa; e il papa, rifiutandoli, dichiarò più che mai solennemente le sue ragioni, e la disobbedienza (così la diceva) della corte di Napoli.

XIV. Le buone leggi di Giuseppe e di Leopoldo a pro dei popoli, narrate dalla fama, commendate da' sapienti, lodatissime dalla regina di Napoli, sorella di que' principi, stimolando ‑a certa gloria per fin l'animo, svagato del re, agevolarono al ministro Tanucci e ad altri egregi del tempo l'erto cammino della civiltà. Erano in officio il Palmieri, il Caracciolo, e de Gennaro, e Galliani, ed altri dottissimi che ministri o magistrati diffondevano con l'autorità e l'esempio le dottrine della politica; mentre alle buone riforme preparavano la mente de' reggitori e l'animo de' soggetti, gli scritti del Filangieri, del Pagano, del Galanti, del Conforti, le lezioni (poco innanzi dettate) da Antonio Genovesi, maraviglia d'ingegno e di virtù, dottissimo e povero, e le accademie, le adunanze e per fino il semplice conversare. Perciocché il bene dello Stato essendo allora il tema della sapienza comune, l'aura di società circondava chi meglio ne ragionasse.

Il discacciamento de' gesuiti diede materia e gara ad ordinare la istruzione pubblica; essendo impegno e debito del governo superare il bene che i discacciati erano creduti fare. Ogni comunità salariò i maestri di leggere, di scrivere, d'abbaco. In ogni provincia fu eretto convitto per i nobili, con dodici letture, due sole di argomenti ecclesiastici, dieci di scienze o lettere; altrettante nelle città maggiori del regno; ed altre, ma in minor numero, nelle città più ristrette. Era pubblico l'insegnamento; i professori eletti per pubblico esame. I vescovi, solamente direttori de' seminari sotto l'autorità del re, non avevano nella comune istruzione voce o ingerenza; e quando vi s'impacciavano (confidando nella pietà del principe, o per memoria degli usi antichi, o perché ardimentosi) erano severamente respinti e biasimati. A denunzia di un vescovo che certi maestri non osservavano le regole della fede cattolica, fu risposto, che l'essere solamente cristiano era la condizione richiesta per i maestri delle scuole pubbliche; e chiedendo altro vescovo che alcune cattedre nella diocesi, fondate (contro le bolle pontificie) senza suo permesso, si sopprimessero, il re dichiarò inutile il permesso vescovile, colpevole il domandarlo, e casse per sempre le bolle che si allegavano a sostegno della temeraria dimanda.

L'università degli studii fondata da Federico II, mutata (spesso in peggio) da' re successori, quasi morta nel tempo lunghissimo del viceregno, ravvivata da Carlo, ebbe compimento da Ferdinando che vi raccolse tutto l'intelletto di quel secolo. I professori‑ ottennero maggiori stipendii, migliori speranze; e tolte le cattedre inutili, se ne posero sette nuove che io qui diviserò per mostrare come già il tempo volgeva alle utili instituzioni; erano, di eloquenza italiana, di arte critica nella storia del regno, di agricoltura, di architettura, di geodesia, di storia naturale, di meccanica. L'università ebbe stanza nel convento che fu de' gesuiti, vastissimo, detto il Salvatore; con ivi le accademie di pittura, scultura, architettura, le biblioteche Farnesiana e Palatina, i musei Ercolanese e Farnesiano, un museo di storia naturale, un orto botanico, un lavoratorio chimico, un osservatorio astronomico, un teatro di anatomia; cose tutte o affatto nuove, o dall'antico migliorate. Quella biblioteca e quel museo Farnese erano parte delle ricchezze che il re Carlo portò seco a Napoli, spogliatane la reggia di Parma.

L'accademia delle scienze e delle lettere mutò ordini e migliorò, perciocché abbandonate le ciance o le pompe dei trascorsi tempi, e mirando alle utilità nazionali, fu prescritto che le scienze si applicassero alle arti, a' mestieri, alla medicina, a trovare novelli veri; e le lettere chiarissero le oscurità della storia patria così, da giovare alla sapienza comune, e all'arte del governarsi. Ma è notabile che il presidente dell'accademia era per legge il maggiordomo di corte, e che gli accademici onorari venivano eletti dal. supremo arbitrio del re (sono parole dello statuto) nella sublime nobiltà; tanto era impossibile affrancare qualunque sociale instituzione dell'arbitrio regio e dalla potenza de' nobili. Fu ricomposta l'accademia Ercolanese, principiata da Carlo nel 1755, poi abbandonata; così che di diciasette accademici, quattro soli per ventura di longevità restavano. Parlerò in miglior luogo de' collegi militari pure in quel tempo fondati.

In tante scuole e accademie convenivano, maestri e soci, gli uomini più dotti del regno; altri pari a questi sorgevano; e gli uni e gli altri, venuti a cognizione e riverenza della Italia, illustravano la patria ed il secolo. Qui vorrei registrare gli onorati nomi e le opere, e forse il tempo mi verrebbe meno prima che la materia de' racconti; ma, impedito dalla proposta brevità, ricorderò que' soli che alla storia più importano; tra' nobili, Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Francesco Spinelli principe di Scalèa, Paolo Doria principe d'Angri; de' magistrati, il marchese Vargas Macciucca, Giuseppe Aurelio de Gennaro, Pasquale Cirillo, Biagio Troise; degli ecclesiastici, oltre il Galliani e '1 Genovesi, il padre della Torre, uno de' tre fratelli Martini, il padre Càrcani, l'arcivescovo Rossi; e finalmente delle donne, Faustina Pignatelli, Giuseppa Barbapiccola, Eleonora Pimentel, e sopra tutte Mariangiola Ardinghelli. Così le classi per lo innanzi meno pazienti degli studii, allora gelosamente li coltivavano.

Pubblicavansi libri pregiatissimi; de' quali citerò due soli di maggior grido; i Saggi politici di Mario Pagano, e la Scienza della legislazione di Gaetano Filangeri. Per essi, fatta chiara la costituzione sociale, s'intesero le ragioni dei soggetti e del principe, si sperò fine al comandar cieco e alla cieca obbedienza. Lo stile rettorico di quelle opere, comeché sconvenevole alla gravità dell'argomento, piacque e giovò, perché le querele si addicono agli oppressi e speranti; gli autori trassero lodi dall'universale, premii dal governo, così che il Pagano ebbe cattedra nella università degli studii, e il Filangeri alta magistratura nella finanza e pensione di che soccorrere all'onorata povertà della famiglia,

Queste che brevemente ho corse erano le imprese dell'ingegno napoletano per migliorare lo Stato, avanzando nelle buone opere gli altri regni d'Italia. Notiamo cosa vera e dolente; che i primi germi del bene politico, nella età nostra e de' padri, spuntarono dal suolo di Napoli; ma sempre fu visto trasformato il merito in delitto, la buona fama in infamia; e quelle ingiustizie uscire più spesso dagli amici che da' contrarii. Vedremo in giorni non lontani da quelli che descrivo quale fosse degli uomini che ho citati la misera fine, decretata dal governo, applaudita dal popolo. Avvegnaché i buoni concetti e le savie leggi non essendo ingenerate nella mente del re, né sentite dalla moltitudine (l'una e l'altra più basse di quella civiltà), piccolo numero di sapienti le immaginava, numero poco maggiore le aveva in pregio; la plebe se ne sdegnava qual suole delle novità; e dipoi il governo le punì come colpe.

XV. Le altre parti della economia pubblica maneggiava minor senno; Napoli, che aveva preceduto la Toscscana nello affrancarsi dalla Chiesa videsi da Pietro Leopoldo sopravanzata negli statuti dell'amministrazione. Benché lasciato libero alle comunità il modo di amministrarsi, e prescritto il sindacato, punite le infedeltà, ed eletti dal popolo ne' parlamenti di amministratori, i sindacatori, i giudici del conto; non di meno questi benefizi poco profittavano, confusi dalle stesse libertà, e però dall'ingegno vario, e dalle passioni fugaci degli amministratori e de' comuni; altri vivevano a catasto, altri a gabelle, altri a testatico; dove si preferivano le opere civili, e dove di pietà; là prevaleva il poco spendere, qua il troppo; le virtù di un anno parevano vizi l'anno appresso, e i disegni degli uni erano disfatti dagli altri; alla amministrazione mancava uniformità e perseveranza, quindi grandezza e durata. Il re prestò al comune di Pescocostanzo i danari onde ricomprarsi dall'avaro barone Pietro Enrico Piccolòmini, dicendo nella concessione del prestito: «acciò sottraggasi dalla servitù e dal giogo baronale»; ma quell'atto unico, transitorio, era segno non sustanza di prosperità.

Le arti stavano soggette alle fratrìe ed a' consoli; il traffico interno alle annone, alle assise, a' privilegi baronali, ad alcuni resti di franchigie o immunità de' cherici, e soprattutto alla mano continua del governo su le imprese o interessi de' privati. Ritornò libera la coltivazione del tabacco, ma per altre gravezze al vino, al sale, alla carta, a' libri. L'industria della seta, ingrandita nel regno di Carlo, eccitò l'avidità del successore; e messa tra gli arrendamenti del fisco; patì le condizioni della servitù: poco prodotto, estirpazione dei gelsi, decadenza delle fabbriche nazionali di seta e drappi. Pena il capo al barcaiuolo che portasse controbando di sete, e le più leggiere mancanze spesso punite dalla tortura con tratti di corda.

XVI. Altro danno patì la ricca industria dei corali. La Torre del Greco, bella città sulla riva del mare, a' pié del monte Vesuvio, alberga dodicimila abitatori, la più parte marinari o mercatanti, perché le terre, coperte o minacciate dal soprastante vulcano, apportano scarsi e mal sicuri alimenti al bifolco. Alcuni tra marinari, fin dal secolo XVI, andavano alla pesca del corallo nei mari di Corsica e di Sardegna; ma più arrischiandosi nel 1780, bene armati e pronti a guerra, corsero le coste d'Africa, ed occuparono piccolo scoglio deserto e innominato, lontano ventiquattro miglia dall'isola di Gàlita, e quarantatre dalle terre di Barberia: lo chiamarono Summo dal nome del marinaro che primo vi pose il piede; e trovato il lido ricco di coralli, costruirono su lo scoglio frascati, ricoveri e difese. Cosi per due anni; dipoi audacissimi tentando lidi più lontani, pericolosi di guerra e di schiavitù dalle genti africane, pescarono fortunatamente oltre capo Negro, capo Rosa e capo di Bona. Per le quali prosperità montò l'industria tanto, che andavano ogni anno seicento barche grandi ed alte da resistere a tempeste con più di quattromila marinari, salpando nell'aprile e ritornando prima che invernasse. La città perciò arricchita ergeva superbi edifizi, non curando i pericoli dei vicino monte, e (riferisco portenti che ho veduti) s'ella per tremuoti cadeva, o coperta di lava scompariva, fabbricavano in meno di un anno altra città più ornata e bella, su l'aia istessa per amore del suolo e religione della casa.

Furono tanti e sì grandi e nuovi gl'interessi generati dalla pesca del corallo, che non bastava il codice universale a regolarne i modi e la giustizia: formavano per occasione piccole congreghe o le scioglievano, mossi da privato benefizio: ché il pensiero di comun bene mancava a quelle genti, e spesso vedèvi l'un pescatore arricchire della povertà del vicino. Le quali deformità in negozii di sì gran momento diedero motivo a comporre società più vasta, ma volontaria, che, scema di pubblica forza, non bastò al bisogno; e allora il governo vi pose mano, e per leggi e ordinamenti, chiamando compagnia la società, regolò la partenza, il ritorno, la pesca, la vendita del corallo, i magistrati, i custodi, il foro, i giudizi; tante leggi dettò, che al libro di esse diede il nome di Codice Corallino. Ebbe le compagnia bandiera propria; sopra scudo azzurro una torre tra due rami di corallo, e in cima tre gigli d'oro. Quando la società fu libera, benché tra querele e ingiustizie, prosperava: e quando, ridotta in compagnia, ebbe codice, finite le ingiustizie e le querele, decadde la ricchezza: la società era spinta da instancabile zelo di privato guadagno; la compagnia movea lentamente per guadagno comune. Oggi dura la pesca del corallo, ma sfortunata.

XVII Buona legge prescrisse che le terre incolte ridotte a campo non pagassero tributo prediale per venti anni, piantate ad ulivi per quaranta. Per altre leggi si popolarono le isole deserte di Ustica e Ventotene, poi di Tremiti e Lampadusa. A' coloni delle due prime, presi tra i poveri di famiglie oneste, fu concesso terre, vitto per certo tempo, ed istrumenti di agricoltura e di pesca. Prosperarono. Furono coloni delle altre, ladri e vagabondi del regno, a giudizio precipitato di magistrati eletti dal re; e quelle perivano: il governo vi spediva nuovi coloni e troppi, che, per crescer numero, peggioravano di costumi e di arti. Quelle istesse sollecitudini per la quiete pubblica diedero motivo a dividere la città in dodici rioni, e in ognuno stabilir magistrato vigilatore, che per giudizi abbreviati condannasse alla prigionia, e più spesso al confino su le isole di pena. Colpivano quegli arbitrii gente di plebe e disonesta; il regno si sgravò di molti tristi; la città migliorata ne godeva; ma poco appresso, per sospetti di maestà e per le usate licenze di sfrenato potere mandati alle isole cittadini non giudicati né rei, solo spiacenti al dispotismo, tornò dogliosa e atterrita la città e il regno.

Un camposanto fu murato nel luogo prima detto Pichiopi, poi Santa Maria del Pianto; di tante fosse quanti sono i giorni dell'anno. Vi erano trapassati i corpi della povera gente, perciocché i ceti maggiori, vergognandosi di quel luogo, interravano i loro morti nelle chiese della città. L'architetto cavalier Fuga diede il disegno del cimitero, che per danari provveduti dalla pietà fu compiuto in un anno.

Utilissima delle istituzioni fu il regio archivio; di che il primo Ferdinando di Aragona, sin dal 1477, ebbe il pensiero; l'ebbero Carlo V nel 1533, Filippo III nel 1609; ma la incostanza de' principi o le contrarietà di fortuna impedirono l'effetto sino a Ferdinando Borbone, che nel 1786 compié l'opera. E comandato che gli atti generanti azione ipotecaria serbassero nell'archivio memoria e registro, resa chiara la proprietà, certa la ipoteca, pronta la vendita de' beni ascritti, assicurò i creditori, costrinse i debitori a rispondere del promesso pagamento. Il sistema ipotecario, meritamente lodato nel codice Napoleone, era in gran parte raffigurato, trent'anni prima, nell'archivio regio di Ferdinando; questo invero fu meno vasto, poco precettivo, niente avaro; il francese, ampio, forzante, fiscale. L'archivio manifestava il patrimonio di ogni casa, impediva le frodi, scemava i litigi; perciò gli si opponevano i curiali, potenti già, come ho riferito nel regno di Carlo, più potenti al tempo del quale scrivo. E questi, o ministri del re, o magistrati, o capi ed uffiziali dello stesso archivio, turbavano l'effetto della provvida legge, comunque dalle cure incessanti del governo mantenuta. E così toglievano gran bene alla società, tornando i debiti e le ragioni all'antico scompiglio.

XVIII. E dirò p'iù gravi errori della finanza. Regnante Carlo, i denari della Spagna, i guadagni della conquista, poi la pace e sempre la parsimonia de' reggitori e la contentezza de' popoli francati dalla dogliosa servitù di provincia, ristoravano o nascondevano la scarsezza dell'erario. Il concordato con Roma del 1741 fruttò qualche tributo da' beni ecclesiastici; e '1 catasto negli anni appresso fece palesi e sottopose al fisco assai terre, per innanzi franche, perché tenute feudali o della Chiesa; ricchezze di Carlo, consumate dal nuovo regno. Tre fonti sorgevano nell'erario; i donativi, le taglie dirette, le indirette. I donativi abusati nelle età scorse, perché più adatti alla brevità del comando, furono rari sotto Carlo, e due soli nel regnare di Ferdinando.

Le taglie dirette, poste per comunità, si pagavano per fuochi (dicevasi fuoco la famiglia), parecchie comunità, feudi originari o presenti della Chiesa, ed altre assai favorite dalle concessioni dei passati dominatori, godevano franchigia piena o parziale da' pesi comuni. La partizione tra le comunità paganti non misuravasi dalla estensione o fertilità della terra, dalle arti o dalla industria de' cittadini, dalle felicità del commercio, e, per dirla con la parola moderna, dalla proporzione de' valori; ma seguiva certa norma di popolazione più supposta che numerata nel 1737. Per i quali errori spesso vedevi di due città confinanti, l'una ricca di terre, piena di arti, copiosa di fortune; l'altra povera d'ogni cosa, pagar la seconda più della prima.

Non erano meno fallaci i mezzi di esigere, chiamati di capitazione, di arti‑febbrili, di possessi. Da' due primi andavano esenti gli ecclesiastici, i baroni, coloro che nobilmente vivevano, i dottori, i medici, i notai, e tutti gli altri senza mestiero, dicendosi che accrescevano la classe ragguardevole de' nobili: perciò que' tributi solam  ente premevano la testa e le braccia, ossia la vita e la fatica de' poveri. In quanto a' possedimenti, restando franche (dove in tutto, dove in parte) le terre feudali, quelle del re o del fisco, le ecclesiastiche, i patrimoni de' cherici, i beni de' seminari, delle parrocchie," degli ospedali, sostenevano pochi sfortunati possessi tutto il peso delle taglie dirette, le quali montavano a due milioni ottocentodiciannovemila e cinque­cento ducati all'anno, accresciuti di altri duecento nonantamila ducati, sotto colore di aprir nuove strade.

Erano taglie indirette tutte quelle che il sottile ingegno pubblicano seppe inventare in ogni età, sopra ogni popolo a pro del fisco: le arti, le industrie, le consumazioni per il vivere, i godimenti, i vizi, le meretrici, il giuoco, profittavano alla finanza. Si chiamavano, come ho detto, dallo spagnuolo, arrendamenti; e furono la più parte venduti o impegnati per novelli debiti, o dati a sicurtà degli antichi; ed allora curavano la esazione i compratori o creditori, che mdesimamente punivano le contravvenzioni che severe prammatiche del fisco. Esercitata perciò la vigilanza con lo zelo dell'avarizia privata, e con la potenza della forza pubblica, l'arrendamento fruttava al compratore il doppio che all'erario, e costava triplicato ai tributari.

Il re abolì parecchi arrendamenti, quello detto del minuto, l'altro del capitano della grascia, e sul tabacco, la manna, l'acquavite, il zafferano, i pedaggi, e, in certe provincie, la seta; ma per non privare l'erario di quell'entrare, né mancare agli obblighi fermati con gli acquirenti, furono messe nuove taglie, altre accresciute, meno gravi al popolo, meglio profittevoli alla finanza. Questo è il luogo di riferire fatto memorabile per documento del tempo. Visto il danno che gli arrendamenti portavano allo Stato, voleva il governo ricomparne alcuno, e poiché gli assegnatari (era il nome dei possessori) nol consentivano, il re decretò che i tribunali ne giudicassero con forme uguali e libere. Si trattava se il fisco potesse riscattare a condizioni giuste gli arredamenti trasferiti ad altrui dominio; e così muovere o migliorare, secondo i bisogni dello Stato, la finanza pubblica. Era tra' giudici Ferdinando d'Ambrosio, per fama scaltro ed avaro, il quale nell'atto della sentenza, udendo i giudici compagni sostenere le ragioni del fisco, pregò silenzio, e tirato da' sviluppi della toga grosso crocifisso, in positura e con voce da missionario, disse: «Ricordatevi, o signori, che dobbiamo morire, che solamente l'anima è immortale, che questo Iddio (indicando la croce) vorrà punirci dell'avere anteposto alla giustizia l'ambizione. In quanto a me, io proferisco per. gli assegnatori». Ma il voto non fu seguito perché ingiusto, e sapevasi che un congiunto del divoto oratore stava nelle parti contrarie al fisco; così l'arrendamento del sale fu ricomprato. E, pure l'azienda pubblica, disordinata, come ho detto, traeva in ogni anno quattordici milioni e quattrocentomila ducati, e di tanta somma la baronia, benché possedesse più che metà delle terre del regno, ne pagava solamente duecento sessantottomi.la.

XIX. Imperciocché la feudalità poco depressa nel regno di Carlo, acquistava tutto di maggiori dovizie sotto Ferdinando per opera de' curiali, i quali, intendendo a scemare le giurisdizioni feudali per ammontarle alla curia, e ad accrescere le ricchezze de' feudatari per esserne a parte, trovavano potenti aiuti, quando dal governo, inteso pur esso a spegnere il mero e misto imperio, e quando dal re, che per abitudini, affetti ed istinto regio, favoriva i baroni. Perciò si leggono di quel rempo molte prammatiche o dispacci repressivi della giurisdizione baronale; e, a costo ad essi, altri ne mantengono le franchigie e scemano le taglie; così che per Adoa e Rilevio (sono i loro nomi) pagavano i baroni più gravati il sette per cento di rendita, mentre i cittadini più favoriti il venti, la comune il trenta, altri il quaranta o il cinquanta, e alcuni miserrimi il sessanta; si vedevano sostenute le decime feudali, le angarie, tutta la congerie degli abusi che dicevano diritti. Di modo che i paesi feudali si palesavano al primo vederli per la povertà delle case, lo squallore degli abitanti, la scarsità de' comodi e delle bellezze cittadine: ivi mancavano tutti i segni della civiltà, casa di pubblici negozii, foro, teatro; ed abbandonavano le note della tirannide e della servitù, castelli, carceri massicce, monasteri e case vescovili sterminate, altri pochi palagi vasti e fortificati tra numero infinito di tuguri e di capanne. Lo storico meritissimo Giuseppe Maria Galanti temeva dir cosa non credibile che nel feudo San Gennaro di Palma, distante quindici sole miglia (cinque leghe) da Napoli, visitato da lui nel 1789, abitassero in case i soli ministri del barone, e che il popolo, duemila uomini, si riparasse come bestie dalla incelemenza delle stagioni sotto graticci o pagliaie, e nelle grotte. Tal era la condizione dei feudi: e frattanto in un reame che numera duemila settecento sessantacinque città, terre, o luoghi abitati, soli cinquanta nel 1734, e non più di duecento nel 1789, non erano feudali. Ventura che i feudatari, inciviliti dal secolo, vergognavano delle peggiori pratiche di padronaggio.

XX. Le riferite leggi su l'economia dello Stato furono le sole in trent'anni degne di memoria. L'amministrazione e la finanza durarono, come a' tempi di Carlo, rozze o servili; non giovando a noi gli esempi di altri regni e della vicina Toscana, patria del Tanucci, dove Pietro Leopoldo promulgava l'affrancazione de' possessi, la divisione delle terre, lo scioglimento della servitù prediali, e (sua vera gloria) la libertà del commercio. Meglio in Napoli fu provvisto a' giudizi ed a' magistrati, parte di governo che appelliamo giustizia. Ristretta per nuovi provvedimenti la giurisdizione de' baroni e '1 numero degli armigeri baronali, cresceva di altrettanto la potestà regia e comune; ma con essa l'autorità della curia, ormai sfrontatamente disonesta e pericolosa. Parecchie ordinanze intesero a frenare que' vizi, soggettando i curiali a studii, ad esami, a discipline; moderandone l'avidità per tariffe, li malvagità per minacce; svegognandoli de' nomi di cavillosi, ignoranti, scostumati. Ma non ostante valevano gli usi antichi, e la curia ingrandiva d'uomini d'ogni specie, anche di plebe, togati.

Furono i matrimoni spientemente regolati da nuove leggi, le quali afforzando l'autorità paterna, vietando le querele di stupro per seduzione, invalidando le promesse e i giuramenti innanzi al sacerdote o all'altare, svanivano le insidie delle donne, le fughe degli sposi, i parentadi ineguali, con vantaggio de' costumi e della quiete delle famiglie.

Statuto di maggior grido regolò i giudizi. Da che tra noi le magistrature sederono prime o più possenti tra gli ordini dello Stato, elle, sdegnando il dire comune e semplice de' ragionamenti, presero lo stile dell'autorità e del comando; la quale superbia velando la ignoranza di alcuni giudici, l'abitrio degli altri, grata quindi a tutti, fece che le sentenze altro non fossero che intimate dichiarazioni di volontà e d'imperio. E poiché ad uomini avviliti nella servitù più costa il pensiero che l'obbedienza, il popolo restò cheto sino a quando dal miglior governo de' due Borboni e dall'avanzato universale ingegno dirozzate le menti, mal soffriva que' giudizi; dicendo che mascheravano con la brevità del comando le ingiustizie, la venalità, le ambizioni de' giudici. Nuova legge venne a quietare le sollecitudini del popolo: prescrivendo a' magistrati, ragionassero le sentenze, dimandassero al re nuova legge se mancava nei codici, o il vero senso di alcun'altra, se dubbio. E allora i magistrati del regno ammutinarono, dicendo offesa la dignità, la indipendenza dei giudici: opporsi, disobbedire, rassegnare gli officii, furono i primi tumultuosi consigli; ma dipoi, sperando che i richiami e le brighe bastassero a rivocare la ingrata legge, riserbando per la estremità de' casi gli estremi partiti, attesero a far chiare le loro ragioni. L'immenso numero de' curiali, per ignoranza o adulazione o amore alle discordie, accompagnava e accresceva il grido de' giudici.

Il supremo consiglio, primo de' magistrati, era ordinato in quattro sezioni chiamate Ruote; e quando mai, per gravezza o dubbietà di alcuna lite, tutte in una si raccoglievano, tanta sapienza era creduta in quel consesso che i suoi giudizi avevano forza di legge. E nel caso presente il consiglio, nelle quattro ruote congregato, espose al principe gli errori e i danni dei nuovo statuto, con audace ragionamento; e pubblicò lo scritto. Gli uomini più dotti sostenevano la sapienza del decreto; ed allora Gaetano Filangeri, della età che non compiva ventidue anni, venne la prima volta al cospetto dei pubblico per un'opera che intitolò: Riflessioni politiche su la legge del 23 di settembre del 1774, e dimostrò che la libertà dei cittadini e la sovranità dell'imperio consistendo nella piena esecuzione delle leggi, l'arbitrio dei magistrati era tirannide sopra il popolo, ribellione al sovrano: piacque lo scritto e presagì la futura gloria del giovine. Il re con editto rispondendo al consiglio dichiarò: essere decoro del magistrato la certezza della giustizia, e, non, come pretenderebbe il supremo consiglio, il velo degli oracoli; spettare alla sovranità far nuove leggi, o chiarire i sensi oscuri delle antiche; spettare a' giudici eseguirle; i responsi de' dottori e gli articoli de' commentatori essere studii a' giudici, non leggi, stando le leggi nelle prammatiche.

Quindi l'editto rigettava le eccezioni proposte, biasimava i ritardi all'adempimento del decreto, e chiudeva il dire come appresso: «Il re perdona nella umana fragilità e nelle assuefazioni del supremo consiglio i sofismi escogitati ed esposti nel suo foglio; spera che la obbedienza dei magistrati prevenga e disarmi la giustizia indivisibile dalla sovranità». Per lo stile minaccevole dell'editto la curia chetò, e i curiali impauriti si dissero persuasi; nessuno de' magistrati rassegnò l'uffizio; nessun partito estremo, che nella sconfitta onora l'umana dignità, fu praticato. E così da quel giorno, dimostrate le sentenze, la comune ragione migliorò.

XXI. Antica prammatica de' principi aragonesi aveva stabilito nel regno il sindacato per gli amministratori del denaro pubblico e pe' magistrati; erano sindacatori nella città capitale gli Eletti delle piazze; nelle altre città e terre i cittadini scelti dal popolo in parlamento: durava per ogni anno il cimento quaranta giorni, venti a ricevere, venti a discutere le accuse, nel qual tempo l'uffiziale messo ad esperimento restava privo d'impiego e di autorità; a ciascuno, fin della plebe, era concesso accusarlo di fatta ingiustizia o di giustizia negata; se andava immune, lettere patenti commendavano la sua virtù, e se in contrario, aprivasi giudizio a suo danno. I re che succederono agli aragonesi, trasandarono quegli ordinamenti, che poi Carlo Borbone richiamò, Ferdinando accrebbe, ma senza pro, giacché le altre parti di governo ed i costumi universali non toccavano a quell'altezza; spesso il timore della vicina rinascente autorità chiudeva il labbro degli offesi da giudici disonesti, e spesso privata vendetta dava travagli al giusto giudice sol perché fu punitore di alcun prepotente. La buona legge produceva frutti non buoni, come libertà che sta sola in mezzo a moltiplici servitù.

XXII. Le cose di giustizia fin qui descritte sono degne di lode; dirò le contrarie. Duravano, come a tempi di Carlo, i giudizi criminali; e però lo stesso processo inquisitorio, gli stessi scrivani inquisitori, tortura e supplizi agli accusati; il criterio de' giudici arbitario; e le sospensioni contro loro, innanzi ammesse, oggi da nuova legge rivocate. Mantenuto il giudizio del truglio, anzi fatto più frequente, e peggiorato, perché non interrogata la volontà del condannato, né il suo consentimento necessario. Legge barbara puniva i ladri, detti saccolari dal rubar nelle tasche, con la tortura, per prove benché indiziarie, con processo inquisitorio ancorché non compiuto, e non inteso l'accusato, né difeso: riferisco le parole della prammatica. Legge più superba prescrisse il rispetto alla reggia; così appellando tutte le case del re, le ville, le abitazioni di campagna o di caccia, gli atrii, le corti, le officine de' suddetti edifizi, comunque dal re non abitati: chi brandisse un'arma in que' ‑luoghi, pena la morte. Altra legge punì i Franco‑massoni, chiamati così all'editto, agguagliandoli a' rei di maestà giudicabili dal tribunale di Stato con forma ad modum belli; e la pena, benché non espressa, era, per la qualità del definito delitto, la morte. Poco appresso nuova legge agguagliò a' Franco‑massoni altre secrete adunanze, pericolose (dicevasi) alla quiete dello Stato, all'autorità del sovrano; cominciarono i sospetti di regno. Leggere i libri del Voltaire portava a pena di galera per tre anni, e leggere la gazzetta di Firenze a sei mesi di carcere. 1 tratti di corda, più rari come sperimenti di procedura, si frequentavano come pene.

Composto novello magistrato col nome d'Udienza Generale di Guerra e Casa Reale per giudicare le liti criminali e civili de' militari e di altri favoriti del privilegio del foro, divenne più estesa, piena e continua la giurisdizione militare. Un generale dell'esercito era il capo, quattro magistrati erano i giudici; le forme brevi, le sentenze inappellabili. E dalle persone passando a' luoghi, altra prammatica stabili che le colpe o le civili controversie degli abitatori di certe case, o in certe strade della città, fossero trattate presso l'Udienza Generale di Guerra. Lo spazio privilegiato nella sola Napoli era un buon vigesirno della città, e gli abitatori non meno di trentamila. L'esempio spandendosi nel regno, qualunque fortezza, o castello, o edifizio militare aveva intorno a sé terreno e cittadini liberi dalla giurisdizione comune. Più crebbe la intemperanza, prescrivendo che nessun tribunale potesse giudicare i misfatti e i civili negozii degli uffiziali delle segreterie di Stato, perché il re, secondo i casi, provvederebbe. La qual dispotica legge fu proposta dal marchese Tanucci, a giovamento di un uffiziale del suo ministero in causa civile.

Per tanti errori di governo crescevano di numero e di gravezza i delitti. Un bando del re contro‑ i malfattori, diceva: «Sono continui i furti di strada e di campagna, i ricatti (persone cadute in preda degli assassini), le rapine, le scelleratezze; è perduta la sicurezza del traffico; sono impedite le raccolte». Quindi comandava a' magistrati ed alle milizie di arrestare o spegnere i turbatori della quiete pubblica; e consigliava ai mercatanti e ai viaggiatori (avvisandosi che il bando non bastasse) di andare a carovana ed armati. Spedi nelle province un brigadiere di esercito, Selaylos, con genti d'armi ed assoluto imperio per la distruzione de' malfattori: e intanto invitandoli a tornare obbedienti, ‑prometteva de' passati misfatti dimenticanza e perdono: blandizie non agguerrite da pietà, e non accettate per ravvedimento, ma la necessità le persuadeva al governo ed a' malfattori, come tregue domestiche e passeggiere. Concorrevano a peggiorare i costumi le remissioni di colpa e pena alle occasioni delle felicità della reggia, matrimoni, natali; tanto frequenti che se ne contano diciannove nei trent'anni di questo libro: cosicché il popolo quasi aggiravasi in cerchio perpetuo di delitti, di barbare pene, d'impunità e delitti peggiori.

XXIII. Ma buoni furono i provvedimenti per il commercio; e dopo che Ferdinando ebbe aggiunti nuovi statuti agli statuti del padre, comandò che disposti a libro componessero il codice di commercio. La qual opera, compiuta per fatica di Michele Iorio, ed in quattro volumi pubblicata, non autenticata dal re, e negletta poco appresso per domestiche agitazioni e per la guerra, si tenne a documento di buon volere, o come studio e regola nelle cause commerciali. Fu istituito il tribunale dell'ammiragliato, speciale a decidere le cause commerciali e le civili degli addetti alla mercatura ed al mare, sotto l'autorità del magistrato supremo di commercio eretto da Carlo. Furono rammentate le pene contro i fallimenti dolosi, tanto inacerbite , che leggo nelle prammatiche, raccapricciando, la mutilazione di membra.

Un duca di famiglia nobilissima e tra i primi nella corte, debitore per polizza di cambio, schivando il pagamento e le punizioni sotto l'ombra del nome, accusato al re, fu sottoposto alle discipline comuni: il re, dicendo, che non altezza di grado, né chiarezza di natali, né autorità di magistratura basterebbe ad assicurare il debitore quando fosse obbligato per lettere cambiali. Altra legge instituì la Borsa di commercio, e provide che i cambii con le nazioni oltre mari ed oltre monti si facessero direttamente, e non più come innanzi per le città mezzane di Roma, Livorno e Venezia. Dopo le regole date al commercio, A re confermò gli antichi trattati di navigazione con altre genti, e novelli ne strinse; l. con la reggenza di Tripoli nell'agosto del 1785, a condizioni eguali per i negozii, ma più onorevoli al re per dignità e potenza; essendo serbata da' cieli ad età più misera per la napoletana monarchia fin la vergogna di restar vinta da' Tripolini. 2. Con la Sardegna nel giugno del 1786. 5. Con la repubblica di Genova nell'anno e mese istesso. 4. Con la Russia nel maggio del 1787; concordando, non solamente quanto al commercio, ma (per casi di guerra) ne' doveri scambievoli di neutralità, secondo il giure delle nazioni.

XXIV. In ogni parte dell'amministrazione vedevi statuti buoni appresso ai contrari, ed i primi superare i secondi; la sola milizia, per naturale decadimento delle cose che si abbandonano' da peggio in peggio discendeva; la guerra obliata, da che l'ultima fu del 1744; la pace gustata e naturata; il cielo di Napoli benigno e lascivo; il terreno ubertoso, gli uomini come il clima; il re dedito a' piaceri; i suoi ministri desiderosi di successi civili e di comodi; la curia nemica degli ordini militari; la regina istessa cupida di fama e d'impero, ma trascurante di milizie, perché allora inutili alle ambizioni di regno; i reggimenti formati da Carlo già infraliti da vecchiezza; i muri delle fortezze sdruciti; vuoti gli arsenali; la scienza, le arti, gli ordini, gli usi della milizia si obliarono.

Il re, quando era fanciullo, compose un battaglione che appellò de' Liparotti; e insieme si esercitavano per giovanile diletto al maneggio dell'armi. Quindi fondò il collegio militare dei cadetti per ordinanze compilate da uffiziali né dotti né esperti della guerra. E poi coscrisse quattordici migliaia di militi civili nel solo regno di Napoli, delle classi più abbiette della società, bastando dire che la baronia, la nobiltà, il dottorato, il possedimento di beni stabili, l'esercizio delle professioni o delle arti esentavano da' ruoli; vi entravano gl'infimi cittadini; e meritamente, da che la milizia era lo stato più basso della nazione. Spesso i rei, e di misfatti più infami, si condannavano al militare servizio; e più spesso mutavano in soldati i galeotti e i prigioni. Tale era lo stato militare nell'anno 1780, quando, per avvenimenti che tra poco dirò, fu levato un esercito.

XXV. La regina, sgravatasi di un principe, pretese l'ingresso e il voto ne' consigli dello Stato, come stabilivano i capitoli delle sue nozze. E re non faceva contrasto al desiderio, ma il ministro Tanucci, che temeva l'ingegno, l'alterigia e '1 casato di lei, si opponeva con segreti maneggi e quindi arditamente alla scoperta; ella, rimasta vincitrice, discacciò il ministro. Re sbandito dal regno non è della perdita querulo e doloroso quanto fu il Tanucci poi che lasciò la sedia ministeriale; l'abbandono de' creduti amici, la irreverenza de' sottoposti, le sale deserte, la mutata scena del caduto potere, antichi vizi, comparivano al Tanucci maravigliosi effetti di corruttela presente; cosi che, per fuggire l'odiosa vista degli uomini, si riparò alla campagna, dove fini la vita. Ministro del re in Napoli l'anno 1734, licenziato dall'ufficio ,l'anno 1777, governò lo Stato con potenza di principe 43 anni, morì l'anno 1783 senza figliuoli: e lasciò vecchia consorte, quasi povertà, e buona fama.

La caduta del Tanucci afforzò nelle opinioni de' sudditi e ne' consigli dello Stato la potenza della regina: la quale, nella valida età di 25 anni, avventurosa di molti figli, bella, superba per natura e per grandezza di sua casa, poté di facile assoggettare il marito, solamente inteso a' corporali diletti. Mutò le relazioni straniere, rompendo i legami con la Spagna, ed inchinando più all'Inghilterra che alla Francia. Per opera di lei fu ministro in luogo del Tanucci il marchese della Sambuca, ambasciatore gradito alla corte dii Vienna. 19 quale venuto in Napoli secondo le voglie di lei, onorevoli; perché, ad esempio dei fratelli bramando ancor essa il plauso de' sapienti, attendeva a riformare in meglio il reame. Divenuta così la speranza de' grandi, degli ambiziosi, degli onesti, del popolo, sentì la sua possanza e ne fu lieta.

La politica nuova faceva il regnante più libero e più altiero; ma più all'ombra di re stranieri e potenti, bisognava ch'ei provvedesse alle proprie sorti: reame invidiato e ricco, scemo qual era di esercito e di armata, rimaneva esposto ai pericoli della prima guerra; estese marine non avevano difesa, e ormai vasto commercio riposava su la fede cangiante dei trattati e le fallaci promesse de' Barbareschi. Bisognavano vascelli e milizia, ma non trovando fra i soggetti chi sapesse abbastanza di cose militari, piaceva cercare tra gli Austriaci un generale di esercito, e altrove un ammiraglio che non fosse Spagnuolo né Francese. Tali cose agitavano ne' privati circoli della regina uomini alti di autorità e d'ingegno; ammessi, chi per afforzare il segreto voto di lei nel consiglio del re o proporlo come fosse loro proprio, e chi per dar corso e credito agli editti ed alle opere del governo. In uno dei circoli il principe di Caramanico, grato e forse caro alla regina, propose di chiamare ammiraglio del navilio napoletano il cavaliere Giovanni Acton, nato inglese, agli stipendii, in quel tempo, della Toscana, ornato di fresca gloria nell'impresa di Algeri, con fama di esperto in arti marinaresche e guerriere, imprendente, operoso. Il marchese della Sambuca secondò la proposta perché, assetato di ricchezza e di subiti guadagni, già dechinando dal favore dei due sovrani, adulava le opinioni de' potenti. E perciò, non contrastato il parere del Caramanico, ed acconsentito dalla regina e poco appresso dal re, fu mandato a Firenze il cavaliere Gatti per avere al nuovo ammiraglio licenza del granduca Leopoldo. Così Acton, venuto in Napoli del 1779, bene accolto dalla regina, svagatamente dal re, lodato dai grandi, fu direttore del ministero di marina.

La finanza dello Stato decadeva per quel che innanzi ho detto; e perché, accresciute le spese nella reggia, non bastavano le gravezze antiche, e sembravano le nuove, oltraché sconvenienti a tempi di pace, insopportabili dai popoli. Il marchese Caràcciolo ambasciatore in Francia, avea riputazione di dottrina nelle materie di economia; e perciò, chiamato al ministero in luogo del Sambuca, fu creduto che ristorerebbe l'azienda pubblica senza la increscevole minorazione delle spese che pure ne' consigli di Stato timidamente si proferiva; e per quella fidanza duravano lo spendere del re, le prodigalità della regina, il lusso della casa, le difficoltà dell'erario. Il marchese Caràcciolo, dotto e filosofo dei tempi suoi, ma per troppa età indebolito d'animo e di mente, vide gli errori dell'amministrazione, senti che a lui mancavano i giorni e le forze a correggerli; il favore del Caramanico, la nascente podestà dell'Acton non concitavano in lui né gelosie né disdegno; già scorsa l'età delle passioni, egli volea godere nel riposo gli onori passati e i comodi presenti. La debilità del ministro, appigliata come avviene in dispotiche signorie a tutte le membra dello Stato, agevolò le speranze dell'Acton.

XXVI. La corte di Roma quando vide Napoli governato da ministro debole alle contese, propose novello concordato; ed accettata l'offerta, inviò per le sue parti monsignor Caleppi a riferire pretensioni ardite e sterminate; ma pure si concordarono ventidue punti, rimanendo controversia su la nunziatura e per la elezione dei vescovi. Voleva il papa che avessero i nunzi giurisdizione, uomini armati, carceri; e in quanto a' prelati, che, proposti dal re, fossero da Roma riconosciuti degni ed accettabili per giudizio o almeno in coscienza del pontefice; formule tra le usate, con le quali era stata per secoli esercitata la tirannide pontificale; perciò non accette. E tirando a lungo e a fastidio le contese, rotto il congresso, fu il Caleppi, nunzio e negoziatore, discacciato dal regno. L'ultima gloria del* ministro Tanucci era stata l'abolizione della Chinea; l'ultima del Caràcciolo fu la descritta resistenza alla corte di Roma; quelle erano le libertà, l'ardire, il talento del tempo. Mentre duravano le discordie, si andava rammentando ad onore del  ministro ch'egli da viceré in Sicilia sbandi il Santo‑Uffizio, ed applaudi al popolo palermita­no, che, impedito a distruggere il palazzo della inquisizione, ruppe in pezzi e disperse la statua di marmo di san Domenico, bruciò gli archivi, ed atterrando le porte delle carceri condusse liberi e trionfanti gl'infelici che vi stavano chiusi. Ne' quali tumulti furono visti audacissimi ed implacabili i più anziani, canuti e curvi sotto il peso degli anni, ma che, ricordando l'Atto‑di‑fede del 1724, raccontavano ai giovani, per più accenderli, le sventure di Geltrude e di frà Romualdo, riferite nel primo libro di queste istorie. Così laudato dal mondo il ministro Caràcciolo pieno d'anni Mori.

La fortuna agevolava le ambizioni al cavalier Acton, il quale, vivente il Caràcciolo, fu ministro per la marina; e piacendo alla regina, e secondando il genio del tempo e del governo, facevasi ammirare dalla corte. FU, indi a poco, ministro per la guerra; e, morto il Caràcciolo, ebbe carico degli affari esteriori. Scaltro per natura e pratico degli affetti umani, temeva il favore non appieno caduto del Caramanico, e la vicinanza nella reggia, le abitudini, le memorie; ma ottenne che il rivale fusse mandato ambasciatore a Londra, indi a Parigi, e infine viceré nella Sicilia. Pur sospettava il giudizio del Pubblico e a farselo benigno lusingava i migliori del regno: mostravasi avverso alla feudalità; dileggiava gli ozii dei nobili; introdusse le scuole normali e le diffuse, soccorreva il commercio ristaurando i porti di Miseno, Brindisi e Baia; disegnando molte strade regie o provinciali; pubblicando per bandi la tolleranza religiosa in Brindisi e Messina.. La condizione di straniero non gli toglieva rispetto dai Napoletani, troppo usati a quella pazienza; e la scarsezza di personaggi adatti o ambiziosi di ministeri lo scampava da nemicizie gravi e da intoppi. Egli, schivando per sé la cura pericolosa del denaro pubblico, ma sospettando che alcun ministro, ingrandito dalla grandezza dei bisogni, potesse vincerlo in potenza e in favore, fece abolire il ministero per la finanza, e affidarne il carico ad un consiglio; perché spartendo sopra tredici consiglieri il merito e le lodi del successo, nessun uomo salirebbe in fama. Gli altri carichi di governo, la giustizia, il sacro culto, le amministrazioni erano affidati ad uomini della curia, Carlo da Marco, Ferdinando Corradini, Saverio Simonetti, appellati ministri, ma invero soggetti al cavaliere Acton, il quale, per uffizio, per favore; per servitù degli altri, era nelle opinioni e nel fatto ministro primo e solo, potente quanto re; ma più venerato e temuto dei re Ferdinando, che spensierato imbestiava nei grossi diletti della vita.

Il cavaliere Acton, nominato maresciallo di campo prese da quel giorno titolo di generale, e lo serbò sino a morte; poi tenente‑ generale, capitangenerale; decorato di tutti gli ordini cavallereschi del regno e di parecchi stranieri, elevato al grado di lord per servigi resi da ministro di Napoli alla Inghilterra, fatto ricco strabocchevolmente, sano e bello della persona, nessun dono della fortuna invidiava. Ma spesso addolorato (come taluno di sua famiglia mi diceva) sfogava per vane afflizioni quella mestizia che in contrapposto della contentezza mette natura in ogni uomo; così che vediamo piangere nelle felicità, ridere nelle miserie; e scomparendo i beni e i mali della sorte, attristarsi e rallegrarsi quanto vuole, nella eguaglianza dataci da Dio, l'umana vita.

Egli prese a formare il navilio e l'esercito. Bisognando tante navi che difendessero le marine e intimorissero i piccoli potentati Barbareschi, il meno od il troppo nuoce in vario modo; ma per ambizioni vaste della regina e per grandigia del ministro si fabbricarono molti vascelli, fregate, altri legni, che, superiori allo stato del commercio, lo peggioravano; tenendo al servizio delle navi da guerra i marinai addetti al traffico. Ed oltraciò l'erario per la inutile spesa impoveriva, e nuova cagioni di alleanze o di nemicizie straniere ne sorgevano; come difatti assai presto per l'acquistata potenza in mare fummo forzati a ingrate necessità. Essendo la nostra milizia in nome di trentamila soldati, ma in fatto di quattordicimila, fu primo pensiero dei ministro ricomporre i reggimenti, cosi che tornasse intero l'esercito: e per quello effetto con legge nuova impose alle comunità buon numero di fanti, ed alla baronia cavalieri e cavalli: poscia i volontari, gl'ingaggiati, i vagabondi, i tratti dalle prigioni e dalle galere aggiungevano al contingente. Chiamarono ad instruire le nuove schiere il barone Salis dei Grigioni; e per l'artiglieria il colonnello Pommereul, francese, noto in patria per ingegno e servigi. Molti uffiziali e sergenti stranieri vennero invitati o condotti dal Salis e dal Pommereul; e tra loro (sergente) Pietro Augereau, quell'istesso che, anni dopo, generale della repubblica francese, maresciallo dell'impero e duca di Castiglione, empié molte carte della storia: e (tenente) Giovambattista Eblè, poi primo generale dell'artiglieria di Francia, istromento di molte vittorie, morto dalla guerra nel 1812: avventuroso che non vide le mutate bandiere.

La leva degli uomini increbbe agli avviliti popoli napoletani; e le discipline, gli usi, le voci forestiere a' soldati, e tanto più agli uffiziali maggiori, che velavano col nome di onor di patria l'ambizione di comandare l'esercito: stolta superbia, perché ad essi mancava l'uso delle milizie, perduto nelle corruttele di oziosa città. Si alzò tanto grido, che il governo, pigliandone sospetto di pericolosa scontentezza, congedò il Salis ed altri uffiziali stranieri; non già il Pommereul, che, avendo affare con poca parte dell'ercito e con uffiziali meno della comune ignoranti, non aveva concitate le opposizioni della moltitudine e della invidia. Ne ‑ derivò. che l'esercito decadde, l'artiglieria migliorò: cominciarono gli odii del popolo contro l'Acton e la regina; crebbe l'amore per il re, tenuto (ed era) avverso a quelle novità, benché si espedissero in suo nome, per sua pazienza ai desiderii della moglie e del ministro.

La fama della ingrandita potenza del regno diede a' Borboni di Francia e di Spagna brama di legami più stretti coi re delle Sicilie; ma gli affetti e i disegni di questa corte essendo mutati, ebbero risposte fredde ed in fine ripulse; e però Carlo III con lo stile di re, di padre, di benefattore, scrisse al figlio di cacciare dal ministero e dal regno il mal favorito Giovanni Acton: ma non fu ascoltato. Indi a poco propose di unire alle flotte spagnuole per l'America due vascelli napoletani e quanti legni mercantili ei volesse; e pure quella offerta, in tanti modi giovevole, fu ricusata. Si negarono alla Francia i legnami per costruzioni navali, dati ab antico a largo prezzo, e soperchianti nei boschi delle Calabrie. Tutte le asprezze a' que' re congiunti, tutte le cortesie ai sovrani dell'Austria e della Inghilterra. Per le quali cose Luigi XV fu avverso alla corte di Napoli; Luigi XVI, dopo speranze di amicizia fallite, tornò contrario: lo stesso Carlo III morì scontento del figlio.

XXVII. L'ordine de' tempi mi ha condotto all'anno 1735, quando tremuoto violentissimo abbatté molte città, scompose molti terreni della Calabria e della Sicilia, con uccisione di uomini e greggi, e universale spavento nei due regni: della quale sventura dirò le parti più memorabili. Il 5 di febbraio, mercoledì, quasi un'ora dopo il mezzogiorno, si sconvolse il terreno in quella parte della Calabria ch'è confinata da' fiumi Gallico e Métramo, da' monti Ieio, Sagra, Caulone e dal lido, tra que' fiumi, del mar Tirreno. Lo chiamano Piana, perché il paese sotto gli ultimi Apermini si stende in pianura per ventotto miglia italiane e diciotto in larghezza. Durò il tremuoto cento secondi: sentito sino ad Otranto, Palermo, Lipari e le altre isole Eolie; ma poco nella Puglia e in Terra‑di‑lavoro; nella città di Napoli e negli Abruzzi, nulla. Sorgevano nella Piana centonove città e villaggi, stanze di centosessantasei mila abitatori: e in meno di due minuti tutte quelle moli subissarono, con la morte di trentaduemila uomini, di ogni sesso ed età, ricchi e nobili più che poveri o plebei: alcuna potenza non valendo a scampare da que' subiti precipizi.

Il suolo della Piana, di sasso granito dove le radici del monte si prolungano, o di terre diverse trasportate dalle acque che scendono dagli Appennini, varia di luogo in luogo per saldezza, resistenza, peso e forma. E perciò, qualunque fossero i principii di quel tremuoto, vulcanici secondo gli uni, elettrici secondo gli altri, ebbe il movimento direzioni d'ogni maniera, verticali, oscillatorie, orizzontali, vorticose, pulsanti; ed osservaronsi cagioni differenti ed opposte di rovina: una parte di città o di casa sprofondata, altra parte emersa; alberi sino alle cime ingoiati presso ad alberi sbarbicati e capovolti; e un monte aprirsi e precipitare mezzo a dritta, mezzo a sinistra dell'antica positura; e la cresta, scomparsa, perdersi nel fondo della formata valle. Si videro certe colline avvallarsi, altre correre in frana, e gli edifizi sopraposti andar con esse, più spesso rovinando, ma pur talvolta conservandosi illesi, e non turbando nemmeno il sonno degli abitatori; il terreno, fesso in più parti, formare voragini, e poco presso alzarsi a poggio. L'acqua, o raccolta in bacini o fuggente, mutare corso e stato; i fiumi adunarsi a lago o distendersi a paduli, o, scomparendo, sgorgare a fiumi nuovi tra nuovi borri, e correre senz'argini a nudare e insterilire fertilissimi campi. Nulla restò delle antiche forme; le terre, le città, le strade, i segni svanirono; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina e deserta. Tante opere degli uomini e della natura, nel cammino de' secoli composte, e forse qualche fiume, o rupe eterna quanto a mondo, un sol istante disfece. La Piana fu dunque il centro del primo tremuoto; ma, per la descritta difformità del suolo, vedèvi talora paesi lontani da quel mezzo più guasti de' vicini.

Alla mezzanotte del medesimo dì vi fu nuova scossa, forte pur essa, ma non crudele quanto la prima; perciocché le genti, avvisate del pericolo e già prive di casa e di ricovero, stavano attonite ed affannose allo scoperto. Solamente più soffersero dal secondo moto che dal primo le nobili città di Messina e Reggio, e tutta la contrada della Sicilia che dicono Valdémone. Messina in quell'anno 1783, non aveva appieno ristorato i danni del tremuoto del 1744, così che, scuotendo palagi e terre già conquassati, tutto precipitò; si accumularono nuove a vecchie ruine. Duravano i tremuoti, sovvertendo le terre medesime, e tomando spesso allo scoperto materie ed uomini giorni avanti sotterrati. L'alta catena degli Appennini e i grossi monti sopra i quali siedono Nicòtera e Monteleone resisterono lungo tempo, e vi si vedevano fessi gli edifizi, non atterrati, e mossa, non già sconvolta, la terra. Ma il dì 28 di marzo di quell'anno medesimo, alla seconda ora della notte, fu inteso rumor cupo come rombo pieno e prolungato: e quindi appresso moto grande di terra, nello spazio tra i capi Vaticano, Sùvero, Stilo, Colonna, 1200 almeno miglia quadrate, che fu solamente il mezzo dello scotimento, perciocché la forza pervenne a' più lontani confini della prima Calabria, e fu sentita per tutto il Regno e nella Sicilia. Durò novanta secondi, spense duemila e più uomini: diciassette città, come le centonove della Piana, furono interamente abbattute; altre ventuna rovinate in parte ed in parte cadenti; i piccoli villaggi, subissati o crollanti, più che cento: e quel che un giomo stava ancora in sublime, nel vegnente precipitava; imperocché i moti durarono sempre forti e distruggitori, sino all'agosto di quell'anno, sette mesi: tempo infinito, perché misurato per secondi.

talo XXVIII. I turbini, le tempeste, i fuochi de' vulcani e degli incendii, le pioggie, i venti, i fulmini accompagnavano i tremuoti; tutte le forze della natura erano commosse: pareva che, spezzati i legami di lei, quella fosse l'ora novissima delle cose ordinate. Nella notte del 5 di febbraio, mentre scoteva la terra, l'aeremoto rompeva e balestrava le parti elevate degli edifizi; un campanile in Messina fu scapezzato, un'antica torre in Radicena fu mozzata sopra la base, ed un rottame (tanto massiccio che tiene mi seno parte della scala) sta nella piazza dove fu lanciato, e lo mostrano per maraviglia al forestiero; molti tetti o comici non caddero su le rovine del proprio edifizio, ma scagliati dal turbine andarono a colpire luoghi lontani. Intanto che il mare tra Cariddi, Scilla e le piaggie di Reggio e di Messina, sollevato di molte braccia, invadeva le sponde, e ritomando al proprio letto trascinava greggi ed uomini. Così morirono intorno a duemila della sola Scilla. i quali stavano sulla rena o nelle barche per campare da' pericoli della terra; il principe della città, ch'era tra quelli, scomparve in un istante; né i servi, o i parenti, o le promesse di larghissimi premii poterono far trovare il cadavere per onorarlo di alcuna tomba. Etna e Stròmboli più del solito vomitarono lava e materie, disastri poco avvertiti perché ‑assai men gravi degli altri che si pativano; il Vesuvio durò nella quiete. Fuoco peggiore de' vulcani veniva dagli accidenti del tremuoto, avvegnaché ne' precipizi delle case, le travi cadute su i focolari bruciavano, e le fiamme dilatate dal vento apprendevano incendii tanto vasti, che parevano fuochi uscenti dal seno della terra; donde le false voci e le credenze di ardori sotterranei. Tanto più che udivano fremito e rombo comé di tuono, talora precedere gli scuotimenti, ra accompagnarli, ma più sovente andar solo e terribile. Il cielo nubiloso, sereno. piovoso, vario, nessun segno dava del vicino tremuoto; le note di un giorno fallavano al vegnente, ed altre si citavano fino a che fu visto che sotto qualunque cielo scuoteva la terra. Comparve nuova tristezza; nebbia folta che offuscava la luce del giorno e addensava le tenebre della notte, pungente agli occhi, grave al respiro, fetida, immobile, ingomberante per venti e più giorni l'aere delle Calabrie; indi melanconie, morbi, ambasce agli uomini ed a' bruti.

XXIX. Incomincio racconto più mesto: la miseria degli abitanti. Al primo tremuoto del 5 di febbraio quanti erano dentro le case della Piana morirono, fuorché i rimasti mal vivi sotto casuali ripari di travi o di altre moli che nelle cadute inarcarono: fortunati, se in tempo dissepolti; ma tristissimi se consumarono per digiuno l'ultima vita. Coloro che per caso stavano allo scoperto furono salvi, e nemmen tutti; altri rapiti nelle voragini che sotto ai piedi si aprivano, altri nel mare dalle onde che tornavano, altri colti dalle materie proiettate dal turbine, infelicissimi i rimanenti, che miravano rovinate le case, e soggiacenti la moglie, il padre, i figliuoli. E poiché, anni dopo, io stesso ragionai co' testimoni della catastrofe e con uomini e donne tratte dalle rovine, potrò, quanto comporta l'animo e l'ingegno, rappresentare le cose morali de' tremuoti delle Calabrie, come finora ho descritto più facilmente le parti fisiche e materiali.

Alla prima scossa nessun segnale in terra o in cielo dava timore o sospetto; ma nel moto ed alla vista dei precipizi, lo sbalordimento invase tutti gli animi, così che, smarrita la ragione e perfino sospeso l'istinto di salvezza, restarono gli uomini attoniti ed immoti. Ritornata la ragione, fu primo sentimento de' campati certa gioia di parziale ventura, ma gioia fugace perché subito la oppresse il pensiero della famiglia perduta, della casa distrutta, e fra tante specie presenti di morire, e il timore di giorno estremo e vicino, più gli straziava il sospetto che i parenti stessero ancora vivi sotto le rovine, sì che, vista l'impossibilità di soccorrerli, dovevano sperare (consolazione misera e tremenda) che fossero estinti. Quanti si vedevano padri e mariti aggirarsi fra i rottami che coprivano le care persone, non bastare a muovere quelle moli, cercare invano aiuto ai passeggieri; e alfine disperati gemere di e notte sopra quei sassi. Nel quale abbandono de' mortali rifuggendo alla fede, votarono sacre offerte alla divinità, e vita futura di contrizione e di penitenza; fu santificato nella settimana il mercoledì, e nell'anno il 5 di febbraio; ne' quali giorni, per volontari martori e per solenni feste di chiesa speravano placare l'ira di Dio.

Ma la più trista fortuna (maggiore di ogni stile, d'ogni intelletto) fu dì coloro che, viventi sotto alle rovine, aspettavano con affannosa e dubbia speranza di essere soccorsi; ed incusavano la tardità, e poi l'avarizia e l'ingratitudine dei più cari nella' vita e degli amici; e quando, oppressi dal digiuno e dal dolore, perduto il senno e la memoria, mancavano, gli ultimi sentimenti che cedessero erano sdegno a' parenti, odio al genere umano. Molti furono dissotterrati per lo amore dei congiunti, ed alcuni altri dal tremoto stesso, che, sconvolgendo le prime rovine, li rendeva alla luce. Quando tutti i cadaveri si scopersero fu visto che la quarta parte di que' miseri sarebbe rimasta in vita se gli aiuti non tardavano; e che gli uomini morivano in attitudine di sgomberarsi d'attorno i rottami; ma le donne, con le mani sul viso o disperatamente alle chiome; anche fu veduto le madri, non curanti di sé, coprire i figliuoli fecendo sopr'essi arco del proprio corpo, o tenere le braccia distese verso que' loro amori, benché, impedite dalle rovine, non giungessero. Molti nuovi argomenti si raccolsero della fierezza virile e della passione delle donne. Un bambino da latte fu dissotterrato morente al terzo giorno, né poi mori. Una donna gravida restò trenta ore sotto i sassi, e dalla tenerezza del marito liberata, si sgravò giorni appresso di un bambino col quale vissero sani e lungamente; ella, richiesta di che pensasse sotto alle rovine, rispose: «io aspettava». Una fanciulla di undici anni fu estratta al sesto giorno e visse; altra di sedici anni, Eloisa Basili, restò sotterra undici giorni tenendo nelle braccia un fanciullo, che al quarto morii, così che all'uscirne era guasto e putrefatto; ella non poté liberarsi dell'imbracciato cadavere, perché stavano serrati fra i rottami, e numerava i giorni da fosca luce che giungeva sino alla fossa.

Più meravigliosi per la vita furono certi casi di animali; due mule vissero sotto un monte di rovine, l'una ventidue giorni, l'altra ventitre; un pollo visse pur esso ventidue giorni; due maiali sotterrati restarono viventi trentadue giorni. E cotesti bruti e gli uomini portavano, tornando alla luce, una stupida fiacchezza, nessuno desiderio di cibo, sete inestinguibile e quasi cecità, ordinario effetto del prolungato digiuno. Degli uomini campati alcuni tornarono sani e lieti, altri rimasero infermicci e melanconici; la qual differenza veniva dall'essere stati soccorsi prima di perdere la speranza o già perduta; la giovinetta Basili, benché bella, tenuta comodamente nella casa del suo padrone, ricercata ed ammirata per le sue venture, non apri mai nella vita che le restò il labbro al riso. Ed infine que' dissepolti, dimandati de' loro pensieri mentre stavano sotterra, rispondevano le cose che ho riferite, e ciascuno terminava col dire: «finqui mi ricordo, poi mi addormii». Non ebbero lunga vita; l'afflitta Basili mori giovane che non compiva i venticinque anni, non volle marito, non velo di monaca; si piaceva star sola, seduta sotto un albero, donde non si vedessero città o case; volgeva altrove lo sguardo all'apparir di un bambino.

XXX. Furono lenti gli aiuti a' sepolti, ma non per empietà dei congiunti o del popolo; ché pure ne' tremuoti di Calabria gli uomini furono, come sempre, più buoni che tristi; e fra tutti alcuni profondamente malvagi, altri eroicamente virtuosi. Un uomo ricco faceva cavare ne' rottami della casa; e quando scoprì e prese il denaro ed altre dovizie intermise l'opera, benché lasciasse sotto alla rovine, forse ancora non morti, lo zio, il fratello, la moglie. Contendevano il possesso di ampio patrimonio due fratelli; ed erano, come avviene tra congiunti, l'uno dell'altro adirati e nemici: Andrea cadde con la casa; Vincenzo ereditava il contrastato dominio, ma sollecito, irrequieto, solamente intese a dissotterrare il fratello, e, fortunato, lo trasse vivo. Appena appena si ristabilirono i magistrati, l'ingrato Andrea, sordo alle proposte di accomodamento, ridestò il litigio e 'l perdé. Se tutti gli esempi di pietà o di fierezza, di riconoscenza o d'ingratitudine io narrassi, empirei molte pagine per dimostrare la già vieta sentenza essere l'uomo l'ottimo, il pessimo delle cose create. Ma la tardità negli scavi dipendeva dalla cura della propria salvezza, e dallo sbalordimento che ne' primi giorni oppresse ogni altro pensiero, ogni altro affetto. Privi di casa nel più rigido mese dell'inverno, sotto pioggie stemperate, e turbini, e vento; distrutte le canove, sperduta l'annona, paurose le vicine genti di portar vettovaglie là dove continua e facile era la morte; tutti spandevano l'opera e il danaro a comporre rozza baracca, e procacciare poco cibo a sostegno di vita. Era secondo e debole il pensiero de' congiunti.

Quelle sventure divennero per lungo uso comportabili; le baracche di rozzissime si fecero migliori, poi belle; gli abitanti de' lontani paesi, allettati dal guadagno, portavano vittovaglie ed arnesi di comodità e di lusso; e, obbliati i danni e le afflizioni, tornavano i godimenti della vita, gli amori, i matrimoni; si ricompose la società, ma in peggio. Avvegnaché, l'universale sentimento de' primi giorni essendo stato il terrore, quietarono con gli altri affetti l'odio, la cupidigia, la vendetta; e mancando stimolo a' delitti, fu quel maligno popolo in que' giorni divoto ed innocente; se non se andava ripetendo, a vedere i grandi a capo chino ed abbietto: «eh si che tutti, signori e poveri, siamo eguali! » con malevola contentezza scusabile in vassalli di superbiosi baroni. Poscia i terrazzani, i servi, i tristi e i già prigioni (perciocché agli orribili scuotimenti del 5 di febbraio senso di umanità fece dischiudere le carceri) venivano a frugare nelle rovine, rubare nelle mai custodite baracche, rapire, uccidere; fu grande il numero de' misfatti. E cotesti uomini guadagnavano largamente per l'opera delle braccia in ergere le capanne, o scavare nelle rovine, o andar lontano a comprar viveri; così che molte agiate famiglie impoverivano, e più che altrettanta salirono a ricchezza. I beni mobili furono la più parte distrutti; il nuovo corso delle acque tolse terre o ne donò; terreni già fertilissimi sterilirono; agnati lontani di famiglie spente accolsero eredità non sperate; per terreni gli uni agli altri sopraposti, e per altri casi di dominio, nei quali mancavano i precetti del codice o la guida dell'umano giudizio, generandosi quantità di transazioni, la proprietà fu divisa e spicciolata; distrutti i processi con gli archivi, i fogli e i documenti con le case, si sperdevano le private ragioni o si confondevano. Le ricchezze furono dunque sconvolte quanto la terra; e que' mutamenti di fortuna, rapidi, non pensati, peggiorarono i costumi del popolo.

XXXI. Velocissime giunsero in Napoli le prime nuove, ma per la stessa celerità non credute, e perché le verità che avanzano l'intelletto comune danno le apparenze della fallacia. Altre voci di fama, altri fuggiaschi, e nunci, e lettere avvisarono il governo de' troppo veri disastri; e subito, quanto puote umana debilità contro le forze sterminate della natura, fu provvisto al soccorso di que' popoli. Vesti, vettovaglie, danari, medici, artefici, architetti; e poi dotti accademici, e archeologi, e pittori andarono nella Calabria; capo di tutti, rappresentante il principato, il maresciallo di campo Francesco Pignatelli: una giunta di magistrati reggeva le amministrazioni: una cassa detta sacra raccoglieva le entrate pubbliche o della Chiesa, e manteneva gli ordini dello Stato: le taglie che i possessi ecclesiastici pagavano per metà, come nel concordato del 1741, furono agguagliate nelle Calabrie alla sorte comune: s'impose, per soccorrere le due rovinate provincie, alle altre dieci del regno tassa straordinaria d'un milione e duecentomila ducati. Si andava ristorando quell'afflitta società.

Quando nella estate, per fetore de' cadaveri (bruciati ma non tutti e tardi) ed acque stagnanti, meteore insalutari, penurie, dolori, sofferenze, si manifestò ed estese nelle due Calabrie morbo epidemico, il quale aggiunse morti alle morti, e travagli ai travagli di quel popolo. Tanto miseramente procedé quell'anno; ed al cominciare del 1784, fermata la terra, spenta la epidemia, scordati i mali o gli animi rassegnati alle sventure, si volse indietro il pensiero a misurare con freddo calcolo i patiti disastri. In dieci mesi precipitarono duecento tra città e villaggi, trapassarono di molte specie di morte sessantamila Calabresi; e in quanto a' danni, non bastando l'arte o l'ingegno a sommarli, si dissero meritamente incalcolabili: furono al giusto i nati, non pochi e maravigliosi i matrimoni, i delitti molti ed atroci; i travagli, le lacrime infiniti.

XXXII. Ne' primi giorni dell'anno 1784 venne in Napoli, sotto nome privato, l'imperatore Giuseppe Il; il quale, rifiutati gli onori debiti al grado, e le feste che la reggia preparava, dimandò chi gli fosse guida e maestro ad osservare le cose notabili della città, e dalla regina ebbe Luigi Serio, cultore delle lettere, dotto, ameno, eloquente, Giuseppe bramò visitare le recenti rovine delle Calabrie, ma lo ritennero i disagi del cammino, la stagione del verno, e '1 mancar di strade regie o buone. Rividde que' Napoletani (più conti per sapienza e per civili virtù) che aveva altra volta conosciuti; e, rammentando loro i disegni filosofici e arditi che egli faceva per il governo dell'impero, si partì, lasciando fama egregia e benedetta.

Agli esempi di lui e di Leopoldo granduca della Toscana, desiderò la regina di Napoli, ed invogliò il re di correre la Italia; ma la superbia de' Borboni non tollerando nomi privati, piccolo corteggio, fasto civile, viaggiarono con pompa regia: e il di 30 di aprile dell'anno 1785 imbarcarono sopra vascello riccamente ornato, che, seguito da altre dodici navi da guerra, volse a Livorno; non tocchi gli stati di Roma per disdegno di riverire il pontefice, allora nemico. Arrivati in porto, furono subito visitati da' principi della Toscana, coi quali passarono a Pisa e Firenze. Fu rinnovato in Pisa il vecchio arringo del ponte, ma senza gli usi guerrieri di età più maschia; sì che a' molli giostratori e riguardanti fu scena e festa. Altri onori, altri diletti ebbero in Firenze. Si narra che il gran duca Leopoldo, pieno delle riforme praticate nella sua Toscana, dimandasse al re quante e quali ne aveva fatte nel suo regno, e quegli rispondesse: «nessuna». E dopo momentaneo silenzio: Molti Toscani, ripigliò il re, mi supplicano di avere impiego nel mio regno; quanti Napoletani lo chiedono a V. A. in Toscana?» Né altro rispose, perché la scórta regina ruppe il discorso. Da Firenze passarono i due sovrani a Milano, indi a Torino e Genova, dove s'imbarcarono su la flotta medesima, accresciuta di legni inglesi, olandesi e di Malta, che, insieme ai legni del re (ventitre navi da guerra d'ogni grandezza) lo convoiarono per onore sino al porto di Napoli. Quattro mesi viaggiarono con tanta splendidezza e liberalità, che Ferdinando acquistò nome (ripetuto anni appresso ed accresciuto in Germania) di re d'oro. La città di Napoli fece grandi feste come a sovrani che tornassero dalla vittoria. Più di un milione di ducati costò all'erario il viaggio: bastava a risarcire i freschi danni del terremoto.

Il fine dell'anno 1788 lasciò mesta la reggia. Languivano infermi di vaiuolo due infanti, Gennaro di nove anni, Carlo di sei mesi, allorchè celere nunzio recò la morte di Carlo III re delle Spagne, avvenuta il 14 del dicembre di quell'anno: e sebbene fosse succeduto Carlo IV, fratello del nostro re, mancava alla potenza della casa il senno e il nome del defunto monarca. Indi a pochi giorni mori l'infante Gennaro, e poco appresso l'infantino Carlo: gli stessi funerali, nella reale cappella celebrati, mostravano le immagini e i nomi del padre e di due figliuoli del re; cumolo di dolori che in casa privata cagionerebbe interminabile mestizia. Ma otto figliuoli viventi consolavano la reggia; era pregnante la regina; e quegl'infortuni avvenivano in famiglia di re, ne' quali, per gli usi della vita e le distrazioni delle corti, sono deboli gli affetti che diciamo del sangue.

Più compianta dall'universale, in quell'anno medesimo 1788, fu la fine di Gaetano Filangeri, in età di anni trentasei; lasciando incompiuta, ma per secoli durevole, l'opera che intitolò: Scienza della Legislazione. Amaramente lo piansero gli amici e i sapienti; ma venne tempo crudelissimo (né lontano) che, vedendo morti per condanna o ne' martorii altri uomini quanto il Filangeri egregi in dottrina e in virtù, si consolarono di quella morte che per immaturità precedette alla tirannide.

XXXIII. La mente del re non migliorò dalla vista di altri paesi e governi; non curando le costituzioni, le leggi, gli avanzamenti o decadenza degl'imperii, poiché in nessun luogo aveva veduto le bellissime apparenze della sua Napoli, tornò più amante del proprio regno, più spregiatore degli altrui; il quale o sentimento o errore ch'egli aveva comune co' soggetti, ne' popoli civilissimi o negli ancora barbari, va confuso con l'amore di patria. Ma, comunque fosse il re, egli doveva alle usanze di quella età qualche regia grandezza; i palagi e i monumenti con gravi spese da lui compiuti, principiati dal padre, stavano a gloria di Carlo; i due teatri del Fondo e di san Ferdinando alzati nel suo regno, davano a lui poca fama, in confronto della magnifica derivata al precessore dal teatro grandissimo di san Carlo; e l'altro edifizio detto i Granili, al ponte della Maddalena, gli apportava biasimo, non laude; le buone leggi, la mantenuta giurisdizione incontro al papa, non generate dalla sua mente, e cominciate prima del suo regno, onoravano i consiglieri e i ministri. E perciò, ripetendo gli applauditi esempi delle colonie da lui mandate alle isole deserte della Sicilia, immaginò di fondare da lui mandate alle isole deserte della Sicilia, immaginò di fondare miglior colonia per le arti, in luogo poco lontano della reggia di Caserta. Scelse il colle detto di san Leucio, dove alzò molte case per abitazione de' coloni, altre più vaste per le arti della seta, e poi l'ospedale, la chiesa e piccola villa per proprio albergo. Artefici forestieri, macchine nuove, ingegnosi artifizi con grandi spese provide, e, ciò fatto, vi raccolse per inviti e libera concorrenza trentuno famiglie, che formavano un popolo di dugentoquattordici. Date le regole alle arti ed all'amministrazione della nascente società, egli scrisse la legislazione, della quale toccherò brevemente le migliori parti, giacché quella fu vera gloria del re, documento del secolo e impulso non leggiero alle opinioni civili. Or dunque, l'anno 1789, un editto regio così diceva:

«Nella magnifica abitazione di Caserta, cominciata dal mio augusto padre, proseguita da me, io non trovava il silenzio e la solitudine atta alla meditazione ed al riposo dello spirito; ma un'altra città in mezzo alle campagne, con le stesse idee di lusso e di magnificenza della capitale; cosi che, cercando luogo più appartato che fosse quasi un romitorio, trovai adatto il colle di san Leucio. Di qua le origini della colonia».

E, dopo di aver palesato l'intendimento e narrato le cose fatte, diede sue leggi e discorse i doveri di quel popolo verso Dio, verso lo Stato, nella colonia, nella famiglia. Sono da notare gli ordinamenti che seguono:

«Il solo merito distingue tra loro i coloni di san Leucio; perfetta uguaglianza nel vestire, assoluto divieto nel lusso..

«I matrimoni saranno celebrati in una festa religiosa e civile. La scelta sarà libera de' giovani, né potranno contraddirla i genitori degli sposi. Ed essendo spirito ed anima della società di san Leucio l'uguaglianza fra i coloni, sono abolite le doti. lo, il re, darò la casa con gli arredi dell'arte e gli aiuti necessari alla nuova famiglia.

«Voglio e comando che tra voi non sieno testamenti, né veruna di quelle conseguenze legali che da essi provengono. La sola giustizia naturale guidi le vostre correlazioni; i figli maschi e femmine succedano per parti eguali a' genitori; i genitori a' figli; poscia i collaterali nel solo primo grado; ed in mancanza, la moglie nell'usufrutto, se mancheranno gli eredi (e sono eredi solamente i sopradetti) andranno i beni del defunto al monte ed alla cassa degli orfani.

«Le esequie, semplici, devote, senz'alcuna distinzione, saran fatte dal parroco a spese della casa. E' vietato il bruno: per i soli genitori o sposi, e non più lungamente di due mesi, potrà portarsi al braccio segno di lutto.

«E' prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s'interponga autorità o tenerezza de' genitori.

«Tutti i fanciulli, tutte le fanciulle impareranno alle scuole normali il leggere, lo scrivere, l'abbaco, i doveri; e in altre scuole, le arti. I magistrati del popolo risponderanno a noi dell'adempimento.

«I quali magistrati, detti Seniori, verranno eletti in solenne adunanza civile da' capi famiglia, per bossolo secreto e maggioranze di voti. Concorderanno le contese civili, o le giudicheranno; le sentenze, in quanto alle materie delle arti della colonia, saranno inappellabili; puniranno correzionalmente le colpe leggiere; veglieranno all'adempimento delle leggi e degli statuti. L'uffizio di Seniore dura un anno.

«I cittadini di san Leucio, per cause d'interesse superiore alla competenza de' seniori o per misfatti, saranno soggetti a' magistrati ed alle leggi comuni del regno. Un cittadino, dato come reo a' tribunali ordinari, sarà prima spogliato secretamente degli abiti della colonia; ed allora, sino a che giudizio d'innocenza nol purghi, avrà perdute le ragioni e i benefizi di colono.

«Ne' giorni festivi, dopo santificata la festa e presentato il lavoro della settimana, gli adatti alle armi andranno agli esercizi militari; perciocché il vostro primo dovere è verso la patria: voi col sangue e con le opere dovrete difenderla ed onorarla.

«Queste leggi io vi do, cittadini e coloni di san Leucio. Voi osservatele, e sarete felici».

Per leggi tanto buone prosperò la colonia ed arricchì. Nata di 214 coloni, è oggi, dopo quarant'anni, di 823. Le opere d'arte sono eccellenti; gli operai furono felici sino a che le pesti delle opinioni politiche e de' sospetti non penetrarono in quel recinto d'industria e di pace. Ma quando n codice apparve, genero maraviglia nel mondo, contentezza ne' Napoletani, i quali, benché sapessero non essere del re que' concetti, ne desumevano speranza di vedere allargati nel regno i principii governativi della colonia.

XXXIV. Due figlie del re, Maria Teresa e Luigia Amalia, erano pervenute ad età da marito; ed il figlio erede, Francesco, aveva dodici anni, allorché la casa pensava di annodare con tre matrimoni nuove parentele. Sparita per la morte di Carlo III fin l'ombra dell'autorità spagnuola su la corte di Napoli. e niente, pregiata la casa Borbonica di Francia, la regina, libera di esterni riguardi e potente su la volontà del marito, strinse per tre legami una sola amicizia; maritando le due principesse a due arciduchi austriaci (Francesco e Ferdinando), e l'arciduchessa Maria Clementina di quella casa al principe Francesco di Napoli. Ma intervenne la morte acerba di Giuseppe H, nel febbraio del 1790.

Succedutogli Leopoldo, gran‑duca, il suo primo figlio Francesco restò a Vienna speranza dell'Impero, e Ferdinando, secondo nato, venne in Toscana gran‑duca. Megliorate perciò le sorti delle due spose principesse, furono gli apparecchi accelerati; e nell'anno medesimo 1790 i sovrani di Napoli con le figlie andarono a Vienna, dove si celebrarono i due sponsali; e si fermò il terzo, aspettando ne' due sposi la maturità degli anni. La regina fu paga da que' più stretti legami con la sua casa; le feste nella reggia de' Cesari furono grandi; e, ad accrescerle. il nuovo imperatore Leopoldo andò a coronarsi re di Ungheria, corteggiato nella cerimonia da Ferdinando e Carolina di Napoli; a' quali gli Ungheresi, poi ch'ebbero onorato il proprio re, fecero allocuzione in latino, laudandoli delle eseguite riforme a pro de' popoli, e facendo udire il nome di san Leucio. Tanto lunge si spande la buona fama o la infamia dei principi!

 


 

 

 

CAPITOLO VII            RIVOLUZIONE DI FRANCIA E I SUOI PRIMI EFFETTI NEL REGNO DI NAPOLI

 

XXXV. Già turbava, nell'anno 1790, la quiete de' principi e delle genti la cominciata rivoluzione di Francia, per la quale tanto mutarono le regole del governo, che avresti detto in Napoli altro re, altro Stato; e perciò in due libri ho distribuito il regnare di Ferdinando IV, come che procedesse continuo sino all'anno 1799. Le varietà della politica napoletana tornerebbero incredibili, disgiunte dalle cose di Francia; a raccontar le quali, benché a di nostri per altri libri e racconti conosciute, io (sperandomi alcun lettore nella posterità) credo far lavoro non disgrato a' presenti, giovevole agli avvenire. E ciò premesso, imprendo a dire con quanta potrò brevità e pienezza i principii di quel rivolgimento, e '1 suo stato al finire dell'anno 1790 quando in Napoli si pervertirono l'impero e l'obbedienza.

I disordini dell'azienda francese cominciati nei tempi di Luigi XIV, cresciuti sotto i re successori, erano sentiti gravissimi nel regno di Luigi XVI l'anno 1786, e bisognando a riparo d'imminente rovina scemar le spese, abolire o stringere i privilegi, accrescere le taglie comuni, si opponevano ora gli usi ed il lusso della reggia, ora la baldanza dei clero e della nobiltà, ora il timore del popolo. Tutto dì, come suole nello scompiglio di uno Stato, mutavano i ministri, e la novità, sollevando il credito e le speranze, ristorava il tesoro pubblico: ma poco appresso cadevano più basso il tesoro, il credito, le speranze, il ministro. Il re chiamò a consiglio i Notabili: sette principi o regali, cinque ministri, dodici consiglieri di Stato, trentanove nobili, undici ecclesiastici, settantasei magistrati ed uffiziali, in tutto centocinquanta consiglieri. Convennero in Versailles al cominciare dell'anno 1787: il re, dicendo egli stesso voler seguire in quella adunanza l'esempio di parecchi re francesi, ed essere suoi disegni accrescere le entrate dello Stato, renderle sicure e libere, affrancare il commercio, sollevare la povertà de' sudditi, chiedeva a' Notabili consiglio ed aiuto. Parlarono appresso, il guarda‑sigilli, laudando il re; e con diceria più altiera il controlloro del fisco Carlo Alessandro Calonne, inteso a discorrere i pregi e le opere del principe, le miserie dell'azienda nel 1783, la prosperità di lei nel 1787, e le proprie geste. Poi, minaccioso, rispondendo alle divulgate accuse del pubblico, tacciava di mentitori Terray e Necker, suoi predecessori nell'azienda, e conchiudeva proponendo inusate gravezze a' beni ecclesiastici e feudali. Spiacquero i discorsi e la tracotanza, sconvenevoli a' tempi, e peggio a' bisogni del re e dell'erario.

Furono quindi oneste le opposizioni; e tanto grido si alzò contro il Calone, che il re per prudenza lo scacciò, e scelse successore il vescovo di Tolosa, tra' notabili caldo parlatore, grato a' compagni. E l'assemblea, secondando i voleri del re, propose gravezze nuove a' beni del clero e de' nobili, rivocò molti privilegi, scrisse l'atto de' decreti, e si sciolse.

XXXVI. Mentre le riferite cose agitavano in Versailles l'assemblea de' notabili e la corte, i sapienti novatori della Francia, disputando le stesse materie di governo con libertà popolana, concitavano gli animi e i desiderii a riforme assai più vaste delle profferte dal re. Le quali mandate secondo l'uso al parlamento di Parigi, questi, ambizioso di pubblica lode, negò apertamente di registrarle. Un giovine consigliero denunziò le prodigalità della reggia, altro consigliero espose il bisogno di convocare gli stati‑generali; e poiché questi promettevano grande utilità, così dalla propria possanza, come dal desiderio compreso e universale, fu la voce lietamente udita e ripetuta. Gli stati‑generali, principio della rivoluzione francese, ebbero veramente il primo grido nel parlamento di Parigi.

Il qual grido sdegnò il re, che chiamato il parlamento a Versailles, in adunanza comandata (detta nelle costituzioni di Francia Letto di Giustizia) fece compiere gli atti rifiutati a Parigi. Ma il congresso, tornato libero, protestò contro la patita violenza; e '1 re, per castigo ed esempio, lo confinò a Troyes. Gli altri parlamenti della Francia denunziavano al popolo i fatti del parlamento di Parigi: e gli editti o leggi, però che non registrati, mancavano di effetto; e cresceva fuor di misura il bisogno del fisco. Il re, costretto a simulare accordi, dicendo il parlamento ravveduto e supplichevole, lo richiamò a Parigi per adunarlo il dì 20 di settembre.

Quando egli, con fasto inopportuno e trasandando i discorsi di convenienza e d'uso. lesse decreto che imponeva il prestito di quattrocentoquaranta milioni, e prometteva di convocare al quinto anno gli stati‑generali. Si notava nell'adunanza silenzio e sbigottimento, allorchè il duca d'Orleans con atti sommessi dimandò, se quello era Letto di Giustizia o libero congresso; e il re «è seduta regale». Dopo la prima voce, altre più ardite si snodarono; ed esiliati dall'assemblea e dalla città l'Orleans e gli oratori, la nuova legge fu registrata per comando. Ne' consigli regali, essendo deciso fiaccare ne' parlamenti le cagioni e gl'inizii della disobbedienza, menomare le facoltà giudiziarie di que' magistrati; e cassar le Politiche. H re creò nuova corte, della Plenaria, di pari, prelati e capi militari; ed aspettava per pubblicar l'editto che le milizie giungessero nelle sedi de' parlamenti, e i ministri dell'autorità regia preparassero le sorprese e le pene a' contumaci.

Pratiche oscure; ma palesate al parlamento di Parigi, che spiando, e comprando i custodi del segreto, contrapose all'editto con pubblico manifesto le instituzioni della Francia, i diritti del popolo e del parlamento, e gli obblighi del re. Si levarono voci minaccevoli. Scompigli peggiori agitavano le province, dove la scontentezza non era frenata dal timore, o ingannata dalle arti, o corrotta da' doni della corte; ed in quel mezzo, negate le nuove imposte, mancato il prestito, cresciute le spese, disordinate le amministrazioni, era vóto l'erario, né più bastando gli artifizi, il re, alla metà dell'anno 1788, tratto da ingrata necessità, convocò gli stati‑generali per il primo di maggio dell'anno seguente, e richiamò Necker ministro. Un grande avvenimento in prospetto arrestò le brighe del presente; ogni fazione pose speranza in quella vasta assemblea; lo stesso re vi confidava per il dispotismo.

Tra la chiamata e l'adunanza i giorni scorrevano per ogni setta solleciti ed operosi; ma più poté la setta de' sapienti che, disputando le quistioni di Stato, palesavano ciò che è popolo e ch'è monarca; dove risiede la sovranità; che sono nella nazione clero, nobiltà, terzo­ stato; che sono nella signoria magistrati e tributi; qual'è il cittadino, i suoi debiti, i suoi diritti; quanto debba valere nelle intenzioni delle leggi e nelle opere de' reggitori la dignità dell'uomo. Per le quali dottrine la Francia conobbe il suo meglio civile, e lo bramò. La libertà di quel tempo non procedeva oltre la monarchia; gli uomini medesimi che un anno poi furono caldi seguaci di repubblica, terminavano i ragionamenti e le speranze ad una camera rappresentante, ad altre forme che nulla offendevano le ragioni e la grandezza del monarca.

Gli stati‑generali rammentavano tempi difficili ma onorati. Di quattordici assemblee numerate dalla storia, cominciando dall'anno 1302 sotto Filippo il Bello, sino al 1614 sotto Luigi XIII, una sola, quella del 1560, fu rumorosa ed inutile; le altre tredici apportarono al re quando soccorso avverso al pontefice, quando quiete nelle discordie della famiglia, e talora forza contro i nemici, e spesso danari al fisco impoverito; ma non mai tra gl'infiniti moti di tante affollate congreghe; la pace del regno fu sconvolta. De' quali esempi il re incorava, ed attendeva ad introdurre nell'assemblea personaggi che sostenessero le prerogative del dispotismo.

XXXVII. I deputati nel prefisso giorno adunaronsi a Versailles, divisi d'animo, perciocché la nobiltà ed il clero, prevedendo ne' precipizi dell'impero assoluto i propri danni, ormai dolenti della palesata resistenza nell'assemblea de' Notabili e ne' parlamenti, si avvicinavano al trono, come che timidi e sconfidati, ma risoluti di sostenere i propri diritti (così chiamando i privilegi) contro gl'impeti e la baldanza del terzo‑stato, che veniva orgoglioso e potente di numero e di ragione. Durando le discordie non si poté ridurre ad una le tre assemblee; e all'ultima, sconvenendo il nome di terzo‑stato, si chiamò assemblea dei comuni, poi nazionale. Lesse i mandati, e trovò che i commettenti dimandavano: Il governo della Francia regio; la corona ereditaria in linea mascolina; la persona del re sacra, inviolabile; il re depositario del potere esecutivo; gli agenti dell'autorità responsabili; le leggi solamente valide quando fatte dalla nazione, confermate dal re; necessario a' tributi l'assentimento nazionale; sacra la proprietà, sacra la libertà de' cittadini. E tutti chiedevano che i presenti stati­generali dessero legge durevole al regno,

• che le succedenti convocazioni fossero certe e prefisse.

Questi erano i mandati e le speranze de' Francesi l'anno 1789: documento

• gloria di quell'età e di quel popolo. Fu vista irreparabile la riforma dello Stato, fuorché dal re, da' nobili, dal clero, accecati da' diletti del dispotismo. Il 20 giugno, impedita dalle guardie del re all'assemblea nazionale la entrata nella sala delle sue adunanze, ella, dopo inutile pregare, si ricoverò in un vasto edifizio destinato a giuochi di palla; e là in piede (anche i vecchi e gl'infermi, un giorno intero) assunsero lo Stato, si dissero permanenti sino a che avessero dato alla Francia durevole statuto; e giurarono. L'adunanza, a luogo, la dichiarazione, il giuramento, erano primi atti di certa rivoluzione. Forza e mente a que' moti fu Gabriele Onorato Ricchetti conte di Mirabeau, di seme italiano, nobile, ma deputato nel terzo‑stato della Provenza, egregio per eloquenza e per i trovati della politica, passionato e campione di libertà, ma di quella che volevano i bisogni e i costumi della Francia. Altri uomini eccellenti si palesarono, ma le glorie più grandi che succedettero, coprirono i loro onori; e di quel tempo restò solo in sublime, a spettacolo degli avvenire, il Mirabeau.

L'adunanza del 20 di giugno agitò il re e la corte. Il re annunziò per messaggio che il posdomani parlerebbe a' tre stati uniti ad assemblea generale; e nel giorno seguente, chiamate numerose squadre di fanti e di cavalli, le accampò a modo di guerra intorno a Versailles e Parigi. Andò nel dì prefisso tra gli evviva del popolo al congresso; e, parlando superbamente, rivocati i decreti e per fino il nome dell'assemblea nazionale, comandò la unione de' tre stati. Fu notato che disse: «Nessun provvedimento degli stati‑generali aver forza senza il suo beneplacito. Giammai re quanto lui aver tanto fatto a pro del popolo. Egli solo saper fare il bene de' Francesi, sol egli (se abbandonato dagli altri) compirebbe l'opera cominciata; però ch'egli era il vero e il solo rappresentante de' suoi popoli». In mezzo al qual discorso il guardasigilli lesse diceria nella quale si udiva spesso, a re vuole, il re comanda, ed altre frasi che la condizione de' tempi disdegnava. Poscia il re, dicendo fornite le bisogne di quell'adunanza, si partì; seguito da' plausi e dalle persone de' due primi stati, dal silenzio del terzo che restò nella sala a consultare; licenziato, resisté; ed in quelle angustie di animo e di tempo decretò inviolabili le persone de' rappresentanti del popolo.

Crescevano il sospetto e '1 tumulto. Il re, fastidito dei tiepidi consigli del Necker, lo mandò in esilio; altre milizie adunava intorno a Versailles; feste militari nella reggia concitavano le guardie; la regina irritava gli sdegni; l'annona, scarsa in quell'anno, più scemava; i moti civili turbavano la Francia intera. Pure bramavano pace l'assemblea ed il re; ma pace per l'una erano le nuove leggi, e un libero stato; pace per l'altro, la sommissione del popolo e l'antica pazienza; e però dal desiderio comune di quiete sorgevano le discordie. Gli animi, pronti a gran fatto, si mossero a Parigi appena udita la cacciata del Necker, tenuto sostegno della finanza, oppugnatore a' partiti estremi della tirannide, paciero tra l'assemblea e la corte. I popolani, alzati a tumulto, portando ad onore per la città il busto in marmo del disgraziato ministro, gridavano voci onorevoli a lui, minacciose al monarca; e le guardie svizzere, non sopportando lo spettacolo, fiaccata con l'armi la calca, ruppero il busto ed il trionfo. Trionfo indebito quanto l'esilio; avvegnaché il Necker, buono di animo, mezzano d'ingegno vanitoso, non uguale all'altezza de' tempi, ebbe ‑ fama o patì sventure dalle necessità del presente: tre volte chiamato in Francia onorevolmente, e tre scacciato; ogni caduta compianta; Pultima, come dirò, inavvertita.

Le tre assemblee, sino allora discordi, amicò il timore, sì che formate in una, mandarono al re pregando di allontanare i campi dalle due città, e armare le milizie cittadine a sostegno dello Stato. Rispose che i fatti di Parigi obbligavano anziché allontanare quelle schiere, avvicinarle ed accrescerle; che le milizie civili in quel momento farebbero pericolo, ch'egli saprebbe reprimere i popolari tumulti; egli solo potendo giudicare la gravezza de' casi. Le quali sentenze animose non risponderebbero al cuor debole di Luigi, se già gran tempo, per istinto di re, per deferenza a' voleri dell'amata e superba regina, e per malvagi consigli, non avesse in sua mente stabilito spegnere per la forza dell'esercito i desiderii di novità; aspettare gli avvenimenti estremi per onestare l'eccesso di volgere l'armi contro i soggetti, cosicché le dissensioni delle assemblee, i tumulti, gli azzuffamenti civili, agevolavano il mal disegno.

XXXVIII. Ma in Parigi la truppa urbana, tumultuariamente composta, elesse capo il marchese di La‑Fayette, chiaro per la gloria meritata in America da soldato di quella istessa libertà che sospirava la Francia. Sorge ad un tratto in città voce «Alla Bastiglia»: i più arditi del popolo, forti delle armi involate a' depositi ed alla casa degl'invalidi, accresciuti da' disertori de' vicini accampamenti, furibondi e diresti dissennati, andarono ad assaltare la fortezza, valida per grosse mura, molte armi, e fedele presidio, comandato dal marchese di Launais, caldo per le regie parti, spregiatore del popolo e di civile libertà. Quelle torme di plebe, innanzi alle porte del castello, per grida e per ambasciate dimandavano la resa; che, negata, accrebbe lo sdegno, il moto, il numero e gli apparecchi.

Giorno spaventevole, che vedeva da una banda sei principi, cinquantamila soldati, cento cannoni, otto campi attorno a Parigi ed a Versailles, altre schiere dentro le due città, una fortezza armata; e quegli strumenti di rovina pronti al cenno di un sol uomo, sdegnato e re. E dall'apposta banda briganti armati, soldati disertori, popolo, plebe infinita. Si presagivano tra le due parti scontri feroci, e la vittoria segnare i destini della Francia. Ma il re, impaurito da quegli aspetti, o irresoluto, fece solamente avvicinare i campi alla città; la quale, a quelle viste, sbarrò in fretta le porte, guerni di armati le mura, scompose i lastricati, preparava la guerra. Le milizie urbane, centocinquantamila in vario modo armati, pendevano dal cenno della civile autorità, che stava in atto di offizio mirabilmente serena.

Ma la plebe intorno alla Bastiglia andava ciecamente furiosa cercando le entrate, tentando le porte e le mura, minacciando il presidio. Del quale il comandante, fastidito di quella turba, sicuro nella fortezza contro genti avventicce, e certo di aiuti da' vicini campi, comandò scaricare le armi sul popolo e vide parecchi cader morti, altri feriti. Le torme si allontanarono; ma subito successe allo spavento il furore, tante genti nemiche intorno la fortezza, che la prima cinta fu presa, e stava il popolo sotto la seconda quando il comandante, insino allora sordo agli accordi, mostrò bandiera di pace; e fu stipulato a' cittadini la fortezza, al presidio la vita. Ma plebe furibonda non tiene i patti, l'infelice Launais, uscito dalle mura, fu trucidato, e '1 capo, conficcato ad una lancia, menato per la città con orribile festa. Molti fatti seguirono d'ambo gli estremi, eroici ed orribili; si trassero a pubblica vista gl'istromenti di martòro, e uscirono alla luce sette miseri, uno de' quali mentecatto, cadente per ultima vecchiezza, abitatore immemorabile della Bastiglia, sconosciuto, né mai più saputone il nome o la patria; un altro vi stava da 30 anni; e cinque vi entrarono regnante il decimosesto Luigi. Il popolo il giorno istesso (14 di luglio del 1789) cominciò ad abbattere le mura, e l'assemblea nazionale decretò che la Bastiglia scomparisse. Scomparve; il luogo infame per tirannide chiamarono piazza della Libertà.

Procedeva la rivoluzione per fatti rapidi; manifesta già negli atti e nei giuramenti dell'assemblea, nella Bastiglia espugnata fu, per sangue cittadino, irrevocabile. Sollevò quella gesta tutte le menti, e sì che fu la corte compresa di timore, la plebe di arroganza; il popolo di sicurezza, il mondo di maraviglia. Il re, nel seguente giorno, senza guardie, senza corteggio, accompagnato da' soli fratelli, andò all'assemblea, e rimasto in piede, disse che veniva a consultare degli affari più gravi allo Stato e più penosi al suo cuore, i disordini della città. Il capo della nazione chiede all'assemblea nazionale i mezzi d'ordine pubblico e di quiete. Sapeva le voci malvage contro di lui, ma sperava che le smentisse il sentimento universale della sua rettitudine. Sempre unito alla nazione, confidando a' rappresentanti ed alla fede di lei, aveva allontanate le milizie da Versailles e da Parigi.

Dopo gli applausi e i segni di riverenza e di gioia, fu pregato a re scieglier ministri meglio adatti al tempo, e mostrar se stesso al popolo di Parigi. Tutto concesse o promise; e si parti a piede, accompagnato per corteggio da' tre Stati sino alla reggia; dove in pubblico luogo la regina aspettava, tenendo per mano il Delfino; e sì che la intera casa del re ed il popolo parevano uniti da legami concordi per la felicità della Francia. Mutato il ministero tornò ministro Necker; molti della corte per comando o per mala coscienza si allontanarono; il re, il seguente giorno andò a Parigi con pompa cittadina, perché scortato da milizie civili, corteggiato dall'assemblea nazionale, incontrato dai magistrati della città, accompagnato da popolo innumerabile e plaudente. E confermate per discorsi le universali speranze, fa giuoco di fortuna contraporre, nel corso di un giorno, al tremendo spettacolo della Bastiglia spettacolo di pace magnifico.

XXXIX. Due mesi, o più, passarono le lusinghiere apparenze di concordia; faceva l'assemblea buone leggi, prometteva il re di approvarle; il clero, i nobili risegnavano gli antichi privilegi; i doni chiamati patriottici soccorrevano a' poveri ed all'erario; fu dato al re titolo gradito di Restauratore della pubblica libertà; e mentre le forze buone dello Stato cosi crescevano, di altrettanto scemavano i misfatti. Ma sotto la scorza di felicità due germi contrari celatamente fecondavano, di repubblica e di tirannide. Imperciocché, scosso e poi spezzato il freno delle leggi, cadute le antiche autorità, quella del re dechinata, agevolato il salire alle ambizioni ed alle fortune, molti tristi, molti audaci congegnavano governo più largo, la repubblica. E, per la opposta parte, gli usi e i diletti del dispotismo, non mai scordati dai principi e da' grandi, suggerivano disegni di tirannide. Erano mezzi alle speranze de' primi le colpe e i disordini del popolo; e de' secondi, le trame occulte e gl'inganni della reggia: ambe le parti per parecchi indizi si palesarono.

Avvegnaché le guardie regali ne' due primi giorni di ottobre chiamarono a convitto i reggimenti stanziati a Versailles, e nella ebbrezza si udirono saluti per il re e la regal famiglia, ingiurie o minacce per l'assemblea nazionale e per i deputati più chiari, indicati a nome. Comparve il re, tornando da caccia; indi la regina e '1 Delfino; e allora crebbero le voci, gli augurii, lo scandalo, la gioia. La regina ne' circoli, rammentando quelle allegrezze, premiava di doni e di laudi gli uffiziali più caldi a' voti, o più arditi ai disegni; le dame della sua corte dispensavano coccarde bianche (segnale della parte regia); le guardie impedivano a chi portasse le tricolorate (le nazionali) ingresso al palazzo; e alcuni cittadini fregiati di quel nastro a tre colori erano stati nelle vie di Versailles e di Parigi dalle guardie del corpo battuti e uccisi. L'assemblea, insospettita, mandò al re alcune leggi, pregando approvarle; e il re, che avea ripigliate le maniere di libera signoria, rispose non esser ancor tempi di approvar leggi. Correvano la Francia quelle nuove, peggiorate dalla fama e dal malevolo spirito di parte.

Quindi cresceva l'animo a' repubblicani. La mattina del 5 di ottobre numero di femmine (quattromila o più) plebee e parigine, simulando i lamenti e l'ardire disperato della fame, andarono alla casa dei Comune a cercar pane; e quindi con grida e gesti furibondi, saccheggiando e rubando nella città, si avviarono a Versailles. Le guidavano alcuni del popolo, notati ne' fatti della Bastiglia; e quando quella torma. incontravasi ad altre donne, a sé le univa o forzate o vogliose; erano l'armi picche, mazze e clamori. Le truppe urbane sedarono i tumulti della città; e parte seguì le donne, insospettita di quella non usata milizia, e del mobile ingegno delle militanti. Quando all'improvviso i soldati stanziati a Parigi chiesero di andare ancor essi; e, non bastando a distoglierli l'autorità e il consiglio del comandante supremo La Fayette, ventimila soldati, portando il nome di esercito di Parigi, mossero per Versailles: La‑Fayette li seguiva. Giunsero alla mezza notte poco appresso alle donne, e mentre quelle a gruppi o a folla scompigliavano la città, questi si accamparono nelle piazze.

Molte brighe accaddero la notte; maggiori al dì vegnente. Le donne comunicarono per deputazioni con l'assemblea e col re; ed esprimendo a fascio bisogni e desiderii, con preghi o minacce, e pianto ed ira, avute risposte consolatrici e benigne, si univano alle compagne, riferivano le cose dette e le intese, contendevano, strepitavano; e già, stanche dalla fatica de' nuovi officii e delle pioggie che stemperate cadevano, si ricoverarono dopo molta notte nelle chiese e negli atrii dell'assemblea. Ma non prendeva riposo una masnada di ribaldi (cinquecento almeno) venuti con le donne a Versailles, prevedendo tumulti o a suscitarne; i quali, entrando spicciolati ne' giardini e nelle corti mal guardate del palazzo, e quindi apertamente forzando ed uccidendo le guardie, occuparono la reggia. 1 principi (erano il re, la regina, una principessa e due figli bambini) desti dal rumore delle armi e dai servi, rifuggirono ai più secreti penetrali della casa; ed in quel tempo gli spietati manigoldi, con l'armi nude, cercando, giunsero nella stanza dove poco innanzi dormiva la regina; e trovando il letto vóto, ancora tiepido della persona, lo trapassarono di molti colpi di pugnale o di lancia, niente offensivi, più atroci. E fu provvedere divino che non sapessero gli ordini interni della casa, per lo che non pervennero al luogo dove stava la misera famiglia, sbigottita, e tacita gemendo, per sospetto che il pianto la denunziásse. Molte guardie del re, molti servi furono uccisi; accorsero le milizie civili di Versailles e l'esercito di Parigi; e, spuntato alfine il giorno, i deputati dell'assemblea e i cittadini amanti giustizia si assembrarono; e, guardata la reggia, scomparvero gli empi carnefici della notte.

Orrenda notte, non mai cancellata dalla mente del re, cagione di alto sdegno e di domestica strage. I repubblicani, bramando che il re stesse a Parigi dov'era grande numero di loro, andavano strillando come plebe «il re a Parigi». L'assemblea non discordava, sperando in quella città maggior sicurezza; e lo bramava La‑Fayette per meglio custodire il re, serbare in lui la monarchia, e farlo ostacolo alle già palesi pratiche de' faziosi. Il re, dal terrore della notte indocilito, sempre dicendo volere quel che a suo popolo volesse, stabilii nel giorno medesimo andare a Parigi colla famiglia; l'assemblea nazionale seguirebbe.

Divulgata la nuova, si apprestò il partire, il ricevimento. I manigoldi, usciti da Parigi due giorni avanti, vi tornavano superbi come vincitori; portando a trionfo in punta delle lance due teschi che attestavano la morte di due guardie del corpo, fedeli al re, uccise combattendo nelle camere della reggia; sì che la barbara pompa era pietà ed onore agli oppressi, infamia a' trionfanti. Succedevano i battaglioni delle donne, le quali, avendo trasandato per i crudeli offizii di quei giorni le mondizie e le dolcezze del sesso, parevano in furie o mostri trasformate; indi marciavano con ordine le schiere, guidate da La‑Fayette, e, dietro a tante moltitudini, le carrozze del re, della regina e della famiglia; i quali (benché alle voci festive con festivo sembiante rispondessero) portavano in fronte la mestizia, il sospetto, la fatica e '1 terrore della scorsa notte. Mutarono da quello istante le regole di governo; il re confermava le nuove leggi dell'assemblea; dava la cura delle città a' magistrati municipali; la custodia del regno e sin anche della reggia alle milizie nazionali. Stavano per forma di monarchia i ministri; reggevano lo Stato le municipalità, gli elettori e l'assemblea. Il re faceva le mostre del prigioniero, ma si diceva libero per compiacere alla contraria fazione, che in lui ad un punto voleva modestia di cattivo acciò non opponesse a' novelli statuti, e possanza di re per legittimarli. Egli perciò, sconfidato di tornare in signoria per le proprie forze o per favore delle sue partì, volse l'animo e i maneggi a' potentati stranieri; e sperò fuggirsi di Francia e rientrare con Prussiani e Tedeschi. Ma il gran cimento abbisognava di tempo e di fortuna.

Nel qual mezzo la Francia, sciolta da' freni dell'usato imperio, si governava a ventura, seguendo il vario senno dei potenti del luogo. Gl'impeti primi del popolo si voltarono ai castelli e terreni baronali, dove ardendo e rapinando in nome della libertà e per odio alle feudali memorie, infiniti misfatti commettevano. Uomini oscuri, per diventar potenti, si adunavano in secrete combriccole; e i nobili, fuggendo la infausta terra, andavano allo straniero, aristocratici e nemici fu un nome istesso. L'alta nobiltà migrando a Coblentz, e la nobiltà provinciale al Piemonte, sotto il conte d'Artois, fratello del re, per armi e trame combattevano la rivoluzione. In tante guise il cammino alla repubblica si agevolava. Sola, fra disegni discordanti o perversi, un'adunanza discuteva le dottrine di Stato, e poneva la sperata monarchia sopra fondamenti di ragione. Dichiarata la uguaglianza tra gli uomini, venivano uguali le leggi, certa di ognuno la proprietà, sicure le parsone, facile il cammino alla giustizia, le ingiustizie impedite o castigate; lasciati al re gli onori, le ricchezze, l'imperio, la felicità di far grazia; non più il clero arricchito da superstizioni, ma dotato dallo Stato; e però la Chiesa impotente al male, cresciuta in dignità. Altre leggi sapienti e benefiche l'assemblea nazionale maturava.

XL. Tali erano in Francia le cose al finire dell'anno 1790; ma variamente raccontate nel mondo, e producendo, come l'animo degli ascoltatori, opinioni differenti, spaventavano i re, i cortigiani, i ministri, concitavano il clero, allegravano i filosofi e i novatori. I due sovrani di Napoli con più odio e sdegno le sentivano, perché parenti, dei Borboni di Francia, e sorelle le due regine; ed essi, stando in quel tempo nella reggia di Vienna, conoscevano i disegni dell'imperatore Leopoldo. Il quale, già mosso ad ira dalle ribellioni del suo Belgio, quantunque inchinato al bene de' soggetti, voleva che lo ricevessero da libere concessioni di sovranità; e perciò apprestava un esercito a soccorrere il re Luigi, quando superasse con la fuga i confini della Francia.

Ma degli altri re non era concorde il consiglio; ché, sebbene le sentenze della rivoluzione francese si appropriassero a tutti i popoli, differivano le ragioni di Stato, le nature dei governanti. Godeva la Inghilterra ne' travagli della sua rivale; impigriva la Spagna sotto re inesperto ed imbelle; la Prussia patteggiava con l'Impero il prezzo di maggior dominii nella Polonia; intendeva il Russo alla guerra col Turco; e la Italia, in povero stato, preparava interminabili sventure per vane colpe di desiderii e di speranze. Vero è che il Piemonte, agitato da vicini moti della Francia, visti alcuni paesi dell'ultima Savoia ribellanti, accresceva ed ordinava le sue milizie; e Napoli, ardendo delle passioni della sua regina, divisava guerra e vendette.

In mal punto, perciocché le forze dello Stato dechinavano. Il censo numerava quattro milioni ed ottocentomila Napoletani, ma niente armigeri per natura o per uso. I baroni scordatisi delle armi, devoti al re ma per amore di piaceri e di fasto, snervati, che schivavano qualunque sforzo magnanimo. Il clero avverso al governo, nemico alla rivoluzione di Francia, indifferente agli affanni del re, ma compagno ne' comuni pericoli. La curia irresoluta perché non certa dei futuri eventi; i curiali uniti a' dominatori, da partigiani in segreto, da sottomessi in aperto, per essere preferiti ne' benefizi del presente, e non esposti a' pericoli dell'avvenire. I sapienti, gli amanti di patria e di meglio vagheggiavano le sentenze della rivoluzione; ma usati a vedere le utili riforme procedere dal monarca, abborrivano le violenze sovvertitrici della monarchia. Il popolo che rimane, era amante del re; sapeva della rivoluzione di Francia quanto ne udiva da' signori ne' circoli, e da' preti ne' confessionali e ne' pergami; teneva i Francesi irreligiosi, crudeli, incenditori di case e di città, uccisori d'uomini, oppressori delle nazioni.

L'esercito napoletano era di ventiquattromila fanti e cavalieri, metà stranieri e regnicoli, ma composto, peggio disciplinato; e non poteva crescere se non per le usate leve di doppio dispotismo, regio, feudale; né divenire ammaestrato ed obbediente, perché mancavano istruttori ed animo di guerra: la pace lunga, l'ingegno abbietto dei reggitori, la scarsezza dell'erario avevano fatto trasandare, come innanzi ho detto, il numero e '1 nerbo delle milizie. L'artiglieria, per le cure del Pommereul, era la meglio composta, ma nascente; gli arsenali, le armerie non bastanti; l'amministrazione pessima; le fortezze cadenti, le tradizioni, le memorie, gli usi di guerra, nessuni. Il navilio era ordinato: tre vascelli, più fregate, altri legni minori, insieme trenta; diretto e maneggiato da uffiziali, parecchi buoni, qualcuni ottimi, e da marinari destri ed arditi.

La finanza, stretta già da dieci anni, e più angustiata per le spese del tremuoto della Calabria, per due viaggi fastosi de' principi, e per tre maritaggi della casa, stentava, non che a' bisogni della guerra, al mantenimento pacifico dello Stato. Né poteva migliorare, da che le gravezze antiche premevano appena i ricchi, troppo i poveri; e dalle nuove andrebbero sicuri i primi per privilegi e possanza, i secondi per impotenza. Quindi le arti poche, minori le industrie, il commercio povero e servo; l'agricoltura, favorita dal cielo, trattenuta dalla ignoranza de' tempi, smagrita dalle male regole del governo; tutte le vene delle private ricchezze, rivoli del tesoro pubblico, aduste o scarse.

La Sicilia, che obbediva e fruttava allo stesso re, e non era meno che quarta parte del rearne, poco valeva per uomini e per tributi, negando i soldati, e disperdendo le imposte fra gl'intricati giri della finanza e della corte.

XLI. Sopra tali uomini e tali cose regnava Ferdinando IV fiacco d'animo e di mente, inesperto al governo de' popoli, propenso a' comodi ed a' piaceri, spassionato di gloria e di regno, e perciò inchinevole a vita torpida e allegra. La regina, che più del re governava, pativa diversi affetti; nata di Maria Teresa, cresciuta nella reggia austriaca tra le sollecitudini dì lunghe guerre, sorella di Antonietta regina di Francia, sorella dei due Cesari (Giuseppe e Leopoldo) gloriosi, vaga di ugual rinomanza, avida di vendetta, superba, ardimentosa più che femmina. Le secondava il generale Acton, ministro potentissimo, straniero così di patria e così di affetto a' popoli che gli obbedivano; ignorante ma scorto, e assai fornito delle arti che menano a fortuna. Gli altri ministri o consiglieri servivano muti e obbedienti. Cosicché tre menti, una del re, debole: l'altra della regina, femminile e annebbiata da bollenti passioni; la terza dell'Acton, corrotta da cupidigie private, dovranno guidare il regno per mezzo alle vicine tempeste.


 

 

CAPITOLO VIII       PROVVEDIMENTI DI GUERRA E INTERNI, A SECONDA DE' CASI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

 

I. I due sovrani di Napoli, partendosi da Vienna l'anno 1791, speravano stringere in Italia confederazione di‑guerra contro la Francia: ma trovato neo altri principi ugual timore, non uguale sdegno, serbarono a più maturi tempi l'utile intendimento, e tanto più ch'ei sapevano quanto l'Austria riprovasse la congiunzione dell'armi italiane. Proseguirono il cammino verso Roma, dove il pontefice E attendeva: Pio VI bello della persona, piacevole di maniere, amante e vanitoso di ornamenti come femmina. Que' sovrani, nel primo viaggio l'anno 1785, fervendo allora gli sdegni contro di Roma, scansarono quel territorio, schivi per fino delle apparenti cortesie. debite fra principi. Ma dalla rivoluzione di Francia e dal comune pericolo ammonito il cruccio, avevano composto, per ministri, patti di amicizia, che furono: abbolire per sempre il dono della Chinea e la cerimonia; cessare ne' re delle due Sicilie il nome di vassallo della Santa Sede; concedere nella incoronazione del re largo dono a' santi apostoli per pietosa offerta; il papa nominare ai benefizi ecclesiastici tra i soggetti del re; eleggere i vescovi, nella terna proposta dal re; dispensare negli impedimenti di matrimoni, confermare le dispense già concesse dai vescovi.

E dopo ciò, i monarchi di Napoli si avvicinavano amici e riverenti al pontefice, preparato ad accoglierli con fasto e grazie. Giunti il dì 20 di aprile, nel giorno istesso andarono al tempio di san Pietro; e di là, per secreto accesso, agli appartamenti di Pio. Non attesi, ed imposto silenzio dal re alle guardie ed ai servi pontificii, penetrarono sino alle stanze dove Pio con vesti magnifiche sacerdotali giaceva sopra seggia in riposo. Piacque a lui quel confidente procedere di re superbi; e, scordate appieno le passate ingiurie, fu d'allora innanzi sincero amico. Le feste durarono molti dii; i doni, ricchi e scambievoli. Stavano in Roma le due principesse di Francia, Adelaide e Vittoria, zie del re Luigi, fuggitive dai rivolgimenti della patria; le quali, narrando i travagli della casa, più concitavano l'ira de' principi.

Così sdegnosi vennero in Napoli, tra feste popolari e sontuose quanto non comportava la povertà dell'erario. Il re e la regina mostravano piglio severo, nunzio degli imminenti rigori: e gli spettatori, o avversi o inclinevoli alle nuove dottrine della Francia, non vedevano in quelle feste ragionevole argomento di piacere; fu dunque gioia per la sola plebe, la quale non disturba per antiveder di sventura le presenti allegrezze. Dopo alquanti dì, nella reggia si consultarono materie di Stato; benché i consiglieri fossero parecchi, una fu la sentenza, quella medesima che stava in animo alla regina: guerra alla Francia ed austera disciplina de' sudditi. 1 ministri partirono le cure. Subito negli arsenali si congegnarono altre navi da guerra; provveduti nell'interno e dall'estero legnami, canapi, metalli infiniti; e fonder cannoni, fabbricar carretti, cassoni, altri edifizi di campo; le armerie accresciute formar di e notti arme nuove: i fochisti, ordinati a compagnie militari, fabbricar polveri ed artifizi: venivano di ogni parte del regno vesti, arnesi, calzari, e molti fanti coscritti dalle comunità, molti cavalieri da' feudi, molti volontari per grosso ingaggio; andavano i vagabondi alle milizie, passavano i prigionieri dalle carceri e dalle galere alle armi; accorsero agli stipendi altri Svizzeri e Dàlmati nuovi; e forestieri di grado, come i principi d'Hassia Philipstad, di Wittemberg, di Sassonia, tutti e tre di sangue regio; i preti, i frati, i missionari predicavano gli odii contro la Francia dai pergami, li persuadevano da' confessionali. E perciò tutte le arti, tutte le menti, le braccia, le persone, servivano al proponimento di guerra; studii inusitati e molesti.

II. E ciò fatto, provide il governo alla sicurezza dell'imperio per modi palesi e celati. La polizia ebbe commissario vigilatore e giudice, con seguaci e guardie, in ogni rione della città, e sopra tutti, col nome antico di reggente della Vicaria, il cavaliere Luigi de' Medici, giovine scaltro, ardito, ambizioso di autorità e di favore. Altri ministri spiavano in secreto le opere o i pensieri dei soggetti, chi ne' pubblici luoghi, e chi nel secreto delle case. La regina guidava que' maneggi, conferendo con le spie a notte piena, nella sala, chiamata Oscura, della reggia, ed onestando l'arte infame col nome di fedeltà, non la disdegnavano i magistrati, i sacerdoti, i nobili, tra quali fu sospettato la prima volta Fabrizio Ruffo, principe di Castelcicala, non bisognoso di opere malvage perché ricco del proprio, e agevolato alle ambizioni dal grado di principe; ma vi era spinto (dicevano) da rea natura, Il clero, viste le sventure della Chiesa di Francia, sperando il riacquisto della perduta potenza, si fece sostegno e compagno al dispotismo. Il re, a sessantadue vescovati vacanti nominò uomini caldi e zelosi; restituì la pubblica istruzione ai cherici; fece mostra di sincera amicizia a' preti, ai frati. Esposti più d'ogni altro all'ira del governo ed alle trame delle spie erano i dotti ed i sapienti, per la fallace opinione che il rivolgimento francese fosse opera della filosofia e dei libri, più che de' bisogni e del secolo. Esiziale credenza, che, durata e durante, ha recato gravi sventure ai migliori, ed ha spogliato l'impero e il sacerdozio de' potenti aiuti dell'ingegno. I libri del Filangeri furono sbanditi, e in Sicilia bruciati: il Pagano, il Cirillo, il Délfico, il Conforti erano mal visti e spiati; cessarono ad un tratto le riforme di Stato, avuto pentimento delle già fatte; i libri stranieri, le gazzette, impedite; i circoli della regina disciolti; le adunanze di sapienti vietate; negavasi ricovero ai fuggitivi francesi, che, sebbene contrarii alla rivoluzione, apportavano per 3 racconto dei fatti scandalo e fastidio. Mutata la faccia della città, l'universale mestizia successe alla serenità della quiete.

III. Per tal modo ordinate le cose pubbliche, aspettava il governo gli avvenimenti di Europa. Inghilterra, Olanda, Prussia chiedevano fine della guerra d'Oriente all'Austria, che prometteva di accordarsi; e la Russia e la Porta, egualmente pregate, dechinavano dagli sdegni. Venne allora in Italia l'imperatore Leopoldo, il più adirato contro la Francia, e conferendo con secreti ambasciatori, scrisse a Luigi, il 20 di maggio, essere preparata la invasione della Francia: per le Fiandre con trentacinquemila Tedeschi; per l'Alsazia con quindicimila; altrettanti Svizzeri per Lione; più che tanti Piemontesi per H Delfinato; ventimila Spagnuoli da' Pirenei. La Prussia sarebbe collegata all'Austria, la Inghilterra neutrale. Un manifesto delle case borboniche regnanti a Napoli, in Ispagna ed a Parma, sottoscritto per la Francia da' regali della famiglia fuggitivi, dimostrerebbe la giustizia di quella guerra. Stesse il re Luigi aspettando le mosse, per aiutarle delle proprie forze, manifeste o secrete. Ma Luigi, temendo che a quegli assalti le fazioni di libertà infuriassero, prese partito più cauto; fuggir di Parigi per ricoverare in Montmedy, dove il generale Bouillé aveva radunate le schiere più fedeli; e di colà, sicuro il re, assaltar la Francia con gli eserciti stranieri, secondati dalle proprie squadre, e da ‑ fuorusciti e partigiani, ch'egli credeva più del vero numerosi ed arditi. Stabilite alla fuga le strade, il tempo, i segnali, uscirono travestiti da porta secreta il re, la regina, la principessa Elisabetta e i principi infanti, menati per mano da madama de Tourzel, che, sotto finto nome della signora di Korff, figurava che viaggiasse co' suoi figliuoli, e fossero sue cameriere la regina e la principessa, servo il re, corrieri o pur servi tre guardie del corpo travestiti. Nel tempo stesso per altra strada fugge il fratello del re con la moglie; e celeri messi avvisano quelle fughe a' re stranieri. Saputa in Parigi nel mattino seguente la partita del re, l'Assemblea, fingendo ch'ei fosse stato rapito da' nemici della Francia, decretò trattenerlo: ma godendo vedersi libera del maggiore intoppo, desiderò che fuggisse. Meglio provvide­ro i cieli, avvegnaché forze straniere ed interne, natural debolezza degli stati nuovi, varietà di parti e dispotismo, forse avrebbero distrutte in breve le opere maravigliose di due anni, le speranze di un secolo, e sottomesso il popolo della Francia alla tirannide. Le rivoluzioni danno apparenza inganne­vole, perché immense a vederle, minori in fatto, sono audaci e caduche.

Rallegrava la regina ed il re di Napoli la fuga della famiglia di Francia, quando seppero per altre lettere che scoperta a Varennes, ricondotta prigioniera a Parigi, era tenuta in custodia dalle milizie. Né però cadendo la speranza de' re collegati d'invadere la Francia, convenuti a Pilnitz l'imperatore Leopoldo, il re di Prussia, l'elettore di Sassonia e 'l conte d'Artois, pubblicarono, a nome de'due primi, editto che diceva: «Sconvolti affatto gli ordini della Francia, invilita la monarchia, imprigionato il re; necessaria l'opera de' re stranieri a render la pace a quel regno, la libertà a quel principe; squadre poderose prussiane ed austriache adunarsi ad esercito; invitare alla impresa gli altri re della terra, per tener sicuri i propri regni, e vendicare la dignità della corona». Gustavo III, re di Svezia, ardente di sdegno, bramoso di gloria, dicendosi pronto e sollecito all'invito, s'impazientava de' ritardi. Avvegnaché, fornito in Francia, nel settembre del 1791, il novello statuto, il re, fatto libero, venuto in assemblea, udito il grido de' popoli come ne' tempi di sua prosperità, e per li poteri che aveva dallo statuto ritornato re dopo le abbiezioni della prigionia, sperando meglio dal tempo, dalla incostanza de' popoli, e da una novella assemblea, tratteneva le mosse degli eserciti stranieri. Ma crescevano le parti per la repubblica, tanto da impaurire que' medesimi caldissimi, nella Constituente, di libertà. Morì nel fiore degli anni e del consiglio il conte di Mirabeau che, libero quanto comportava la ragione de' tempi, viste le sfrenatezze de' giacobini, erasi unito al re, per opporsi alle imprese di repubblica, sconvenevole a popolo invecchiato nella obbedienza, cui manchino così le virtù della giovinezza, come il senno di matura civiltà. Quel Mirabeau che, dotto degli uomini e dei secolo, bramava libertà possibili alla Francia, era morto. E le ambizioni destate nel popolo in due anni di rivolgimenti, non capendo nell'assemblea legislativa, sfogavano ne' clubs, principalmente in quello de' giacobini, dove si vedevano tutte le parti di congrega nazionale; elezione di membri, divisioni per provincie, presidenza, altri offizii, esame di materie civili, tribuna, decisioni per voti, pubblicità. A lui non mancava per aver forza di rappresentanza che la legalità, ma la compensavano a numero, la veemenza degli associati, l'assentimento del pubblico. Volevano i giacobini popolare governo; poco manco altre adunanze: e incontro a tanti stavano debole assemblea legislativa, re tante volte soperchiato, statuto nuovo e non difeso.

IV. Alle circolari del re Luigi, portanti l'assenso al nuovo statuto della Francia, il re di Napoli rispose che a credergli attenderebbe di sentirlo libero; e gli altri monarchi variamente, come voleva diversità di politica e di affetti. Solo il re del Piemonte, spaventato del vicino incendio, già volta in paura la stolta speranza di conquistar su la Francia, propose a' principi d'Italia lega italiana, che impedisse la entrata delle armi francesi e delle dottrine rivoluzionarie. Tutti aderivano, fuorché Venezia e gli Stati imperiali di Lombardia; essendo casa d'Austria più sospettosa della Italia unita che della Francia sconvolta. Così svanita la proposta, ogni Stato italiano si affidò al proprio senno e, direi meglio, alla ventura. Frattanto l'imperatore Leopoldo, per natura schivo di guerra, armigero insino allora per primo sdegno, inchinevole più di altro re, o solo tra i re, al bene dei popoli, rinviò alle antiche stanze il radunato esercito; la imperatrice di Russia, pacificata con la Porta Ottomana, non mirava ad altre guerre; la Prussia si acchetò; la Spagna impigriva col suo re; durava in pace la Inghilterra; l'ira della regina di Napoli e gl'impeti guerrieri del re Gustavo nulla potevano contro la Francia. La quale avrebbe forse invalidate le opinioni di repubblica e provveduto al suo governo, se due fazioni civili, più fiere del giaccobinismo, non l'agitavano: fuorusciti e clero. I primi (che dirò emigrati, pigliando il nome come i fatti dalle istorie di Francia), in gran numero adunati ed ordinati a guerra su le due frontiere del Reno e del Piemonte, minacciavano la sicurtà della patria. Nobili la più parte, non veri cittadini della Francia, né servi fidi al re, punto guerrieri, punto animosi, assetati di privilegi e di favore, fuggivano la nuova eguaglianza civile, e col mal tolto nome di fedeltà sospiravano il ritorno di monarchia prodiga e sfrenata. Furono inavvertite o tollerate le prime fughe; ma quando crebbero da comporre due eserciti, con armi, danaro, uffiziali esperti e principi della casa, l'assemblea legislativa senti sdegno e sospetto; gl'invitò a tornare in patria; gravò di taglie i beni de' contumaci; minacciò di pena le persone; ma nulla potendo gl'inviti o le minacce, essi stavano a' confini, segnale e principio d'incendio onde si affidavano che tutta la Francia bruciasse. Accusavano le intenzioni meglio cittadine; incitavano i potentati stranieri alla guerra; arrischiavano la vita del re, il cui nome serviva di onorato pretesto a brighe infami. Il clero stava diviso tra i ripugnanti a giurare per lo statuto e i giuranti, i primi di maggior numero e più intatta fama; sequestrate le terre della Chiesa, poi confiscate; due Brevi di Roma e l'immagine del pontefice bruciati a scherno; ingiuriate ed offese le persone de'preti. 1 quali, per la opposta parte, andavano suscitando le coscienze e le armi dei credenti. Il re teneva dagli emigrati perché re, e da' preti perché divoto.

V. Così stavano le cose di Europa l'anno 1791. Nel principio dell'anno seguente morto l'imperatore Leopoldo, successe Francesco suo figlio. Nel mese istesso fu morto Gustavo 111 re della Svezia da' nobili, che opprimeva; ma, finché ignote le trame, si disse dalle parti giacobine. La morte di Leopoldo apportò dolore; quella di Gustavo, sospetti; e si andavano ricordando il club francese, la propaganda, la legione dei tirannicidi, il motto dell'assemblea «a' re che ci mandano la guerra, noi rimanderemo la libertà»; ed altri o fatti o dicerie che atterrivano i principi. Fu quindi in Napoli più vigilante la polizia, che per meglio spiare, fece scrivere le strade, numerare le case in cartelli di marmo; diligenza e fornimento di città grande. Facendo sospetto diecimila condannati e dodicimila prigioni nelle carceri e galere di Napoli e Castellamare, ne andò gran parte alle isole di pena, Lampedusa e Trémiti. Il giovine reggente di Vicaria tornò in uso la frusta, e il deposito dei creduti colpevoli nelle galere: alle quali condanne erano pruova le delazioni delle spie, gli atti inquisitorii degli scrivani, il proprio giudizio del reggente.

Tollerarono primi quel supplicio uomini della plebe, infami e tristi; e grattanto l'aspetto e l'esercizio del dispotismo avendo ingenerato nel popolo servitù e pazienza, la polizia non temé di punire con eguale licenza uomini di buona fama. Dal sospetto di colpe false, le vere nacquero. I Napoletani amanti delle dottrine francesi, consultati poco innanzi come sapienti su le riforme dello Stato, al presente spiati e mal visti, si adunavano in secreto per conferire delle cose di Francia; né già con isperanza di bene vicino e preparato, ma per esercizio d'ingegno e felicità ideale dell'avvenire; le quali onestà praticavano con le arti e '1 mistero del delitto. E poscia, invaghiti dello statuto francese dell'anno 1791, e della dichiarazione dei diritti dell'uomo, e di tutti gli ornamenti filosofici di quella carta, tanto da credere che leggendoli verrebbe universal desiderio di egual governo, ne fecero improntare con grande spesa e caratteri nuovi da stampatore fidatissimo, due migliaia o più. Ma non li divolgarono perché, all'ardimento succeduto il timore, solamente sparsero alcune copie nella notte per le vie della città, due altre copie per giovanile contumacia negli appartamenti della regina; e le molte, sparite in sacchi di farina, gettarono in mare tra gli scogli del Chiatamone. Due nobili giovani, con vesti plebee, al primo tramonto, per iscansare la luce del giorno o le guardie della notte, indossarono i sacchi, e per le vie più popolose della città, simulando l'uffizio di facchino, li trasportarono e deposero nel disegnato luogo. N'ebbero plauso dai compagni come di salvata repubblica; e intanto quella stampa e quello ardire accrebbero l'ombra e il dispetto de' dominatori. Queste furono le prime faville di un incendio civile non mai più spento.

VI. Peggiorando per le male opere degli emigrati, del clero e dei giacobini le cose di Francia, imperversarono le parti, i maneggi del re, i sospetti del popolo. Fra tanti moti civili erano surti uomini da grandi imprese; ma, discordi tra loro, dividevano a brani le forze dello Stato: Dumouriez, contraddetto ed affaticato, aveva deposto il carico di ministro con virtù facile e volgare; La‑Fayette, soldato di libertà e cavaliero francese, dopo i tumulti del 20 di giugno venuto a Parigi con proponimento di salvare la monarchia, erasi fermato a mezzo corso; Bailly, Condorcet, altri uomini egregi, seguivano le norme, deboli allora, delle dottrine; Pethion ed altri moltissimi, atti a suscitare, impotenti a dirigere i tumulti; il re sofferente più che intrepido, con virtù passiva, ammirata ma inerme; la regina, querula e leggiera, agitata da bramosia di vendetta; le parole, già venerate come sacre, di leggi, trono, popolo, religione, non avevano perduto appieno l'antico prestigio; e mancava tanto uomo che sapesse avvincerle alla condizione ‑de' tempi, da che Mirabeau era morto, e non ancora su la scena del mondo Bonaparte appariva. Di là i mali e gli errori. Il re, sospettoso di veleni, mangiava in secreto con la famiglia poveri cibi ma sicuri; tollerando per molti mesi la più stretta penuria. Mandò privati ambasciatori a' campi degli emigrati ed a' monarchi d'Austria e di Prussia per sollecitare gli eserciti a liberarlo. Fu Allora intimata la guerra alla Francia. Oste prussiano‑austriaca procedeva; e la regina, misurando il cammino, presagiva il giorno dell'arrivo a Parigi con mal celata allegrezza.

Nella città e nella casa del re moti e pericoli continui ed opposti; quindi stanchezza e jattura di tempo e di consiglio. La Fayette ripeté l'offerta di salvare il re con la fuga; e '1 maresciallo Lukner, forestiero agli stipendii francesi, veniva ostilmente a Parigi per far sicura la partenza del re. Questi &deriva; la regina alla vergogna di vivere obbligati al costituzionale La‑Fayette preferiva la morte; e allora il re, prono a desiderii di lei, scortesemente ributtò il benefizio. Quella superbia serbò fose la vita, certamente la fama, al generale; imperciocché tali erano le condizioni del tempo, che la monarchia o la Francia precipitasse. Tra quali ardori comparve editto del prussiano Brunswick, il quale, protestando la già vieta modestia de' suoi principi, chiamando fazione la Francia intera e solamente il re saggio a conoscere, legittimo a concedere le riforme di Stato, annientava le cose fatte in tre anni; poscia imponeva, come se fosse certo vincitore, sciorre gli eserciti rivoluzionari, le assemblee, le congreghe; accogliere gli Austro‑Prussi amichevolmente, unirsi a loro gli amici del re, fuggire o dimandar perdono i nemici. E intanto numerose truppe di emigrati seguivano le colonne alemanne, ultimi al campo, primi allo sdegno, instigatori a guerra domestica e sanguinosa. L'editto nemmen grato al re, che vide i pericoli della casa e trapassati i termini della sua dimanda, spinse il popolo a fatti estremi: de' cittadini, altri timorosi della regia vendetta, altri disperati di perdono, altri dolenti per carità di patria, trepidavano ed agitavansi; ma pure alcuni d'ingegno acuto ed altiero, sperando salute dal ridurre ad una le passioni, ad uno gli impeti del popolo, indicarono a segno di comune odio il re.

Non risguarda le napoletane istorie tutto il racconto dei fatti di Francia; qui bastando che io rammenti essere stato, ai 10 di agosto di quell'anno 1792, il re assalito nella reggia, e la reggia presa e bruciata da battaglioni di popolo; andati a scampo il re, la moglie, i figli, la sorella nell'assemblea legislativa, dove in abbietto penetrale restar nascosti e sentir comporre e legger il decreto che dichiarava il re Luigi decaduto dal trono. Quale spettacolo al mondo! veder la reggia de' re di Francia assediata e presa, non da genti nemiche in buona guerra, ma da sudditi sollevati per foga di libertà, ed arse le immagini e le insegne di re potenti e rispettati. E fuggir tra le fiamme il re, poi la regina, portante in braccio il piccolo Delfino, e la principessa Elisabetta, traendo tenera infanta figliuola del re, senza corteggio, a fronte china per il dolore e per celare le lagrime a' riguardanti. Affretto la fine dei racconti. Andò la regal famiglia prigioniera al Luxembourg, quindi al Tempio; lo Stato, senza ordini certi, si governava per fazioni; il generale La Fayette, dopo di aver resistito agl'impeti nuovi di sfrenata libertà, dichiarato nemico della patria, disobbedito dalle schiere, fuggì nel Belgio, e dagli Austriaci fu chiuso in carcere. Altri sostenitori della prima libertà, venuti a sospetto de' nuovi, fuggirono, minacciati di morte, avvegnaché ad essi erano succeduti Danton, Marat, Robespierre ed altre furie che ne' civili sconvolgimenti scaturisce lezzo plebeo. Dumouriez, tornato in favore perché nemico al nemico del popolo La Fayette, reggeva, incontro a centotrentaduemila Alemanni, oste francese che numerava centoventi migliaia di soldati spartiti sopra lunghe frontiere, e per le infermate religioni ritrosi e contumaci all'obbedienza. La fortuna secondava l'armi alemanne; cadde la fortezza di Longwy, poco appresso Verdun; esercito austriaco stava incontro alle fortezze del nord; sessantamila Prussiani e torme di emigrati camminavano sopra Parigi. Tra le quali agitazioni, e timori e sospetti di popolo si eseguirono tali e tante atrocità nella Francia, che di non esserne il narratore io ringrazio la sorte. La misera famiglia de' Borboni, stando al Tempio, vedeva parte delle stragi, udiva gli ultimi lamenti degli uccisi nelle prigioni vicine; raggio di speranza le rimaneva ne' soccorsi stranieri. Ma Brunswick ponderato e lento, il suo re focoso, gli emigrati menzogneri nelle promesse, le due collegate monarchie varie di politica e di speranze, producevano sconcordia e languore nel campo alemanno; mentre nel campo francese l'ingegno di Dumouriez, la gioventù delle sue schiere, l'allegrezza di libertà compensavano i difetti di numero e di fortuna. Pure i Prussiani giunsero a Chàlons; ma poi travagliati da' morbi, dalla battaglia di Walmy, e da stagione inclemente, sgomberarono la Francia; gli altri eserciti austriaci o prussiani che battevano diversi punti della frontiera, affrettarono il ritorno; Francesco e Federico Guglielmo, con disegni mutati, ritornarono a Vienna e Berlino. Si sciolse la prima lega contro la Francia; la rivoluzione fu certa e confermata.

Cadute le ultime speranze della casa infelice, il giacobinismo, già potentissimo, ordiva gli atti del processo contro Luigi. Difendevano il re l'antico rispetto, la presente pietà, e '1 contegno di lui sereno che pareva serenità di coscienza; lo accusavano i fatti ed il nome. Confuse le ragioni, sparita la giustizia delle leggi, scordata la qualità dell'accusato, a tal si giunse che la vita o la morte del re stava nello esame: «che più giovasse, che più nuocesse alla Francia». Decisero, per maggioranza di un solo voto, che più giovasse la morte; e Luigi sopra palco infame perdé la vita. Fu poi morta la regina, indi la principessa Elisabetta per condanne inique di tribunale feroce; fini di stento nel carcere il Delfino; la sorella di lui servi di riscatto ad alcuni francesi prigionieri in Alemagna. Per le quali miserevoli nuove la corte di Napoli, vietando nel carnovale ogni festa pubblica o privata, dopo molti giorni di duomo, usci a bruno per andare nel duono a pregare e piangere pe' defunti; le stesse cacce del re furono rare e secrete. Era intanto la Francia ordinata a repubblica, ed il sovrano di Napoli negava di riconoscerla nel cittadino Makau, venuto ambasciatore; ed aveva operato che il cittadino Semonville non fosse ricevuto ambiasciatore dalla corte ottomana.

VII. E più fece. Comunicò a' due governi di Sardegna e Venezia nota in questi sensi: «Comunque essere le fortune degli Alemanni sul Reno, importare alla Italia far barriera d'armi su le Alpi, e impedire che i Francesi, per disperato conforto, se vinti, o per vendetta e conquiste, se vincitori, venissero a turbare la quiete dei governi italiani. Se perciò si collegassero le Sicilie, la Sardegna e Venezia, concorrerebbe il sommo pontefice alla santa impresa; i più piccoli potentati che stanno tra mezzo seguiterebbero, vogliosi o no, il moto comune; e si farebbe cumulo di forze capace a difendere l'Italia, e a darle peso ed autorità nelle guerre e ne' congressi di Europa. Essere obbietto di quella nota proporre e stringere confederazione, nella quale il re delle Sicilie, ultimo al pericolo, offrivasi primo a' cimenti; ricordando ad ogni principe italiano che la speranza di campar solo era stata mai sempre la rovina d'Italia». Saggio ed animoso partito, accettato dal re di Sardegna, rifiutato dal senato di Venezia, e subito negletto dallo stesso re delle Sicilie; perché, in quel mezzo, grosso naviglio francese a vele e bandiere spiegate giunse al golfo di Napoli. Sapeva il governo che molti vascelli della Repubblica navigavano il Tirreno, ed aveva perciò riparato le antiche batterie delle marine, altre nuove inalzate, e meglio munito d'armi e d'uomini il porto. E frattanto l'ammiraglio La Touche condusse la flotta, quattordici vascelli da guerra, come in porto amico o disarmato; gettò le ancore del maggior vascello a mezzo tiro dal castello dell'Ovo; gli altri vascelli. in linea di battaglia ed ancorati, spiegaronsi nel porto. Popolo immenso guardava; e le milizie e i legni armati di Napoli erano in punto di guerra, quando il re mandò per dimandare all'ammiraglio il motivo di quello arrivo e di quelle mostre; e rammentare l'antico patto, onde a sei vascelli solamente era libero entrare in porto. La Touche, dicendo risponderebbe, inviò legato (di alto grado, però che onorato nel tragitto dagli spari continui della flotta), il quale, con lo scritto che recava e col discorso chiedendo ragione della rifiutata accoglienza dell'ambasciatore, e delle pratiche ostili presso la Porta, proponeva la emenda di quei falli, o la guerra.

Il re unì consiglio; e sebbene gli apparati di resistenza fossero maggiori delle minacce, si che la Touche sarebbe stato perdente o fuggitivo, pure la regina, dicendo pieno di giacobini e nemici il regno, pregava pace; la secondavano i timidi consiglieri; aderiva il re. E subito fu manifestato per detti e lettere accettar ministro Makau, riprovare le pratiche con la Porta, richiamare a castigo il legato di Napoli presso quella corte, spedire ambasciatore a Parigi, promettere neutralità ne e guerre  Europa, essere amici alla Francia. La prima codardia, suggerita da mal nati sospetti, fu stipulata in quel giorno. E nel giorno istesso La Touche salpò; ma poco appresso, colpito da tempesta, si riparò nello stesso golfo di Napoli, dove chiese ristaurare le sdrucite navi, rinnovar l'acqua, mutare i viveri, praticare nel porto; prieghi onesti a re amico, spiacenti al governo di Napoli, ma innegabili. Molti giovani napoletani, ardenti nelle nuove dottrine, comunicarono con gli ufficiali del navilio, con Makau, con La Touche; e però che in quel tempo era scaltrezza del governo francese incitare i popoli a libertà per averli compagni ai pericoli ed alla guerra, La Touche più infiammò quelle giovani menti, consigliò secrete adunanze; e, in una cena, tra le allegrezze de' desiderii e delle speranze, i convitati appesero al petto piccolo berretto rosso, simbolo allora de' giacobini di Francia. Sapeva il governo di Napoli quelle colpe, ma ritardava il castigo per aspettar la partenza dell'ospite importuno; accelerò il raddobbo delle navi, diede viveri, condusse l'acqua purissima di Carmignano a' bisogni della flotta sino alla punta del molo.

VIII. La flotta salpò; il trattenuto sdegno sfogò in vendette o le preparava. Presi nella notte e menati in carcere molti di coloro che praticarono co' Francesi, ed altri per sospetto di maestà; tenute secrete le sorti loro, così che i parenti, gli amici, le voci popolari, li dicevano uccisi nelle cave delle fortezze, o mandati ne' castelli delle isole più lontane della Sicilia: tardi si udì che stavano chiusi ne' sotterranei di Santermo, mangiando il pane del fisco, dormendo a terra ed isolati, ognuno in una fossa. Erano dotti o nobili, usati agli agi del proprio stato ed alla tranquillità degli studii. Custodi spietati, che dovrò nominare quando i tempi si faranno peggiori, eseguivano que' feroci comandamenti con zelo ferocissimo. E la regina, sospettando che presso all'ambasciatore di Francia fossero le fila. e i nomi della creduta congiura, fece involargli le carte da Luigi Custode, che usava nella casa di Makau; accusato del furto, tradotto in giudizio, fu assoluto dai giudici, premiato dalla corte. Non furono trovati fra quelle' carte o nomi o documenti della congiura; bensì le note de' mancamenti del governo napoletano alla fermata neutralità. Ma, non ostante, il re creò tribunale per i colpevoli di maestà, detto Giunta di Stato, di sette giudici ed un procurator fiscale, Basilio Palmieri, noto per pratiche rigorose; e tra' giudici, il cavalier de' Medici, il marchese Vanni, e 'l caporuota Giaquinto, poi chiari per patite o esercitate iniquità. Crebbe il numero de' prigioni; la Giunta e la Polizia formavano in secreto i processi; stava la città spaventata. E vendette più vaste meditava la regina su la Francia co' modi generosi di buona guerra. Per i provvedimenti poco innanzi descritti le milizie assoldate montavano a trentasei migliaia ed il navilio a centodue legni di varia grandezza, portanti seicento diciotto cannoni e ottomila. seicento marinari di ciurma. Non riposavano le armerie e gli arsenali, e continuavano le nuove leve, agevolate dalla fame, poco men dura in quell'anno 1793 dell'altra che nel precedente libro ho descritta, correndo l'anno 1764; né furono migliori le provvidenze; non essendo bastato il lungo tempo e le infelici pruove ad assennare i reggitori, che non il comando e non la forza, ma il privato guadagno e la libertà, sciogliendo i monopolii, apportano a' mercati pienezza, ed alle fantasie del popolo tranquillità, la quale se manca, steriliscono le terre, si vótano i granai, e riducesi a povertà l'abbondanza. Tra quegli stenti del vivere, i più miseri prendevano ingaggio alla milizia; e in maggior numero nella città, dove la vita più costa per vizi e lusso. Fu perciò in Napoli coscritta nuova legione che si disse degli spuntonieri, dall'arme (lo spuntone) che portavano i soldati, destinati a combattere in luoghi impediti e coperti come nei boschi o dietro agli argini, o disposti a quadrato contro i cavalli, o facendo impeto come con la baionetta: la scarsezza degli archibugi e la ignoranza de' capi militari suggerirono quell'armatura sconveniente al combattere moderno. Gli spuntonieri furono coscritti, volontari o per legge, tra i lazzari; da che tolgo argomento per dire di cotesta genia, malamente nota dalle istorie, le cose importanti. Surse il nome di Lazzaro nel viceregno spagnuolo, quando era il governo avarissimo, la feudalità inerme, i vassalli suoi non guerrieri, la città piena di domestica servitù, con pochi soldati e lontani, con meno di artisti o d'industriosi, con nessuni agricoli; e però con innumerabili che vivevano di male arti. Fra tanto numero di abbiette genti molti campavano come belve, mal coperti, senza casa, dormendo nel verno in certe cave, nella estate, per benignità di quel cielo, allo scoperto; e soddisfacendo agli usi della persona senza i ritegni della vergogna. Cotesti si dissero lazzari, voce tolta dalla lingua de' superbi dominatori; i quali, prodotta la nostra povertà e schernita, ne eternarono la memoria per il nome. Non si nasceva lazzaro, ma si diveniva; il lazzaro che addicevasi a qualunque arte e mestiero, perdeva quel nome; e chiunque viveva brutalmente, come sopra ho detto, prendeva nome di lazzaro. Non se ne trovava che nella città, ed ivi molti, ma non sommati, perché ne impediva il censo la vita incivile e vagante: si credeva che fossero intorno a trentamila, poveri, audaci, e bramosi e insaziabili di rapine, presti a' tumulti. Il vicerè chiamava i lazzari negli editti con l'onorato nome di popolo; ascoltava i lamenti e le ragioni da lazzari deputati oratori alla reggia; tollerava che ogni anno nella piazza del mercato, in di festivo, scegliessero il capo, a grido, senza riconoscere i votanti o numerare i voti; e con questo capo il vicerè conferiva, ora fingendo di volersi accordare intorno a' tributi su le grasce, ora impegnando i lazzari a sostenere l'autorità dell'imperio; il celebre Tommaso Aniello era capo‑lazzaro quando nell'anno 1647 ribellò la città. Per le quali cose la legione degli spuntonieri, disciplinando parecchie migliaia di que' tristi, accresceva numero all'esercito, e faceva più sicura la quiete pubblica.

IX. Pieno di forze il regno, volle il re fermare alleanza con la Inghilterra, già nemica della Francia; e a di 20 di luglio di quell'anno 1793 fu pattovito (secretamente, perciocché durava la neutralità poco innanzi stabilita con La Touche), che il re di Napoli aggiugnerebbe nel Mediterraneo quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori e seimila uomini di milizia, a tanti legni e soldati della Inghilterra, quanti insieme componessero armata superiore a quella del nemico, onde far sicuri i dominii e '1 commercio delle due Sicilie. Al qual trattato aderendo i potentati legati in guerra con la gran Bretagna, si trovò Napoli unito alle vaste interminabili confederazioni europee contro la Francia. In mezzo a tante forze navali, legni sottili barbareschi, navigando arditamente i nostri mari, predavano barche, rubavano su le marine, impedivano e danneggiavano il commercio; per lo che i capi delle navi mercantili dimandarono di andare armati; ma il governo che in ogni congrega d'uomini già vedeva un club di ribelli, temé di armarli, e l'utile offerta fu ricusata. Vennero i Tunisini a far prede nel canale di Procida.


 

 

 

 

CAPITOLO IX           GUERRE APERTE CO' FRANCESI; E PACI; E MANCAMENTI. SOSPETTI DI REGNO; CAUSE DI MAESTA CASI VARII DI STATO E DI FORTUNA.

 

X. La lega con l'Inghilterra, non appena fermata, fu posta in atto. Tolone, città francese e fortezza, con arsenali, magazzini pieni, venti vascelli ancorati nel porto, e legnami e materie per costruirne altrettanti, artiglierie poderose e molte, armi infinite, ricchezze ed uomini, si diede per tradigione alle forze inglesi che bordeggiavano nella gran rada. Ciò fu a' 24 di agosto di quell'anno 1793; e subito accorsero alla preda Spagnuoli, Sardi e Napoletani con gli uomini e le navi promesse nell'alleanza. Il cittadino Makau, intimato dal governo di Napoli a partire, perché ambasciatore di potentato nemico, viste salpar le flotte per Tolone, senza dichiarazione o cartello alla sua repubblica, mosse sdegnato verso Francia, conducendo seco le due donne Basville, orbate miseramente dal popolo di Roma di Ugo Basville, padre dell'una, marito all'altra, meste, abbrunate; incitamenti alla pietà e alla vendetta. Intanto navigavano per Tolone le milizie napoletane sotto l'impero del maresciallo Fortiguerri, e dei generali de Gambs e Pignatelli; e, là giunte, obbedivano al generale 0‑Hara, spagnuolo, capitano supremo in quella guerra. Venivano a stormi dai paesi della Francia le milizie della repubblica, e dall'opposta parte crescevano i monumenti e le opere della fortezza; il servizio d'armi facevasi dai collegati per ugual giro; e i Napoletani, non mai da meno delle altre genti, ebbero ventura di miglior fama sul monte Faraone, e nel difendere il forte Malbousquette. Stavano nella città da quattro mesi, e non pareva cominciato l'assedio, benché il combattere fosse continuo; quando a' 17 del dicembre, in giro in giro si smascherarono fuochi ed assalti; più vivi e pertinaci al posto detto il Caire, munito di argine e cannoni, tanto che dagl'Inglesi, creduto inespugnabile, ebbe nome di nuova Gibilterra. Ma Napoleone Bonaparte, che allora faceva le prime armi da tenente‑colonnello e comandante delle artiglierie nello assedio, avea disposti gli assalti così che in breve tempo ottomila bombe cadessero sopra piccolo spazio, e trenta  pezzi da ventiquattro guastassero e spianassero i ripari. In meno di due giorni, e propriamente nella notte del 18 al 19 del dicembre, l'altiera Gibilterra fu espugnata, a vólte ai collegati le artiglierie che la guardavano da' Francesi.

Sporgendo in mare quel posto così che batte la piccola rada di Tolone, molta parte della grande, ed il canale tra le due rade, fu necessario ai collegati fuggir que' mari, e trarre dalla città le milizie per non lasciarle a certa prigionia. L'ammiraglio Hood, inglese, diede segno di partenza; le schiere di terra cominciarono la fuga; i forti esteriori, Malbousquette, il Faraone, la Vallette la Malgue, presi da' repubblicani senza contrasto, tirando contro la città, vi accrescevano i pericoli e lo scompiglio. Gl'Inglesi atterrarono per mine il forte Pomets; mancò il tempo e gli apparecchi a distruggere gli altri forti o la città; il gran magazzino delle costruzioni ardeva, e bruciavano nel porto tredici vascelli della Repubblica; era notte, e cadeva pioggia distemperata. Nei quali esterminii imbarcavano (annegandone alcuni per la fretta) soldati Tolonesi, che, partigiani della Inghilterra o nemici di repubblica, avevano macchinato il tradimento. Cavalli, armi, tende, artiglierie di campo, e poche schiere lente o incapaci alla fuga, restarono prede ai Francesi. E la fortuna, non ancora sazia di sventure, alzò tempesta impetuosa per vento libeccio, che spingeva le navi alle due rade; dal quale pericolo camparono le flotte per forza d'arte, ma i legni disuniti, navigando a ventura per molti dì, ripararono in porti differenti, gli uni agli altri lontani e sconosciuti. Passava perciò lungo tempo a raccorre le milizie delle quattro collegate nazioni, e gli arredi, le salmerie; e Napoli in quel mezzo stava dolente più di quanto i casi meritassero, come accade ne' disastri confusamente narrati dalla fama. Comparvero finalmente, il 2 di febbraio del 1794, le aspettate vele; e seppesi che mancavano duecento Napoletani, morti o feriti, quattrocento prigioni e tutti i cavalli; molti viveri, le tende, gli arredi, le bandiere; sterminate somme avea speso l'erario. Venne in Napoli fra' Tolonesi il generale conte Maudet, il quale comandando in Tolone avea consegnata, voglioso ed allegro, a' nemici della sua patria l'affidatagli fortezza. 1 fatti che ho descritto diedero maggior grido alla Repubblica, e dissero la prima volta, e a voce appena intesa, un nome che poco appresso empié il mondo.

XI. Le genti venute da Tolone, raccontando ed esagerando fatti veri o falsi, generavano idea spaventosa de' Francesi e della guerra. Il governo, impedite le feste giocose del carnevale, comandate pubbliche orazioni, ma costante agl'impegni ed alla vendetta, levati nuovi coscritti e guardie urbane nella città, pose a campo nei piani di Sessa venti battaglioni di fanti, tredici squadroni di cavalieri, ed un reggimento di artiglieria (diciannove mila soldati), destinati a guerreggiare con gli eserciti tedeschi nella Lombardia; i sudditi ammiravano le opere sacre, perché dicevoli a principi devoti; e le militari, perché animose. Il re, la regina e '1 ministro general Acton, stando spesso al campo, eccitavano con discorsi e promettevano larghe mercedi alle azioni di guerra; intanto che nel golfo di Napoli si vedevano movimenti e simulacri di battaglie di mare. La Inghilterra, volendo assaltare la Corsica, dimandati a noi vascelli, armi e soldati, tutto ebbe; e sebbene infelice la impresa, furono laudate le geste. Tre reggimenti di cavalleria, duemila cavalli mossero per Lombardia sotto il principe di Cutò, scelta laudata perché di regnicolo dopo le altre di stranieri e sfortunate. Le navi cannoniere o bombardiere montavano a centoquaranta, i legni maggiori a quaranta, le milizie assoldate a quarantadue migliaia, le civili a maggior numero; le provvisioni erano infinite, le imprese grandi e continue. Le quali prove, superiori alla forza de' porti e della marineria, al censo e alle condizioni politiche del regno, arrecavano stenti all'erario, nocumento alle arti e alle industrie, povertà alle famiglie. Pareva miracolo sostener tanta spesa, e dicevasi che la soccorresse il privato tesoro del re, aperto da' bisogni e dallo sdegno. La regina, per accreditare quelle voci, confidava scortamente a' suoi partigiani, e questi al pubblico, aver ella venduti o dati a pegno i suoi gioielli, e per le viste del mondo andare ornata de' contraffatti nelle gale della reggia.

Quelle opinioni giravano, quando per nuovo decreto il governo dimandò soccorsi o doni che per essere a pro della patria chiamò patriottici: tutte le comunità, le congreghe, molti cittadini ne diedero in copia; e i loro nomi vennero scritti, per onore ad essi, stimolo agli altri, sopra tabelle pubbliche. Altro decreto impose taglia del dieci per cento (perciò appellata decima) su le entrate prediali; escludendo i possessi del demanio regio, del fisco, e dei feudi: le terre della Chiesa vi andarono soggette; e poiché delle imposte antiche pagavano (per il concordato del 1741) la sola metà, oggi, abolite le ultime immunità de' cherici, furono agguagliate alle comuni; dicendo, ma per inganno, che le gravezze su gli ecclesiastici sarebbero scritte in preparato libro come pigliate a prestito. Con gli altri decreti furono venduti molti beni della Chiesa in pro, del fisco; e banditi, per vendere, altri beni che si dicevano allodiali. La città di Napoli andò gravata di centotre mila ducati al mese, la baronia di centoventi mila. E dopo ciò, il re disse con editto: «Quanto altro bisogni alla difesa ed alla quiete del regno sarà fornito dagli assegnamenti e risparmii della mia casa». Facevano peso le nuove taglie; ma poi che grande l'obbietto, certe le spese, liberali le promesse del re, non si udivano lamenti, e rinforzavano gli odii contro i Francesi, cagione a quelle strettezze. Nell'anno medesimo altro regio decreto prescrisse che le chiese, i monasteri, i luoghi pii dessero alla zecca dello Stato gli argenti sacri, salvo i necessari ai divini uffici: e i cittadini gli argenti propri, fuorché gli arredi, ma pochi, da mensa: polizza di banco, valevole dopo certi anni, ne pagava il prezzo; e si confiscavano gli ‑argenti nascosti, concessane quarta parte a' denunziatori. Il quale decreto fu chiamato suntuario; nome spesso dato alle leggi che apportano per la parsimonia de' soggetti opulenza all'erario. Gran copia di argenti fu donata, obbedendo e tacendo i donatori.

XII. Ma il silenzio dell'universale volse a tumulto quando fu visto che il governo spogliava i banchi pubblici. Così chiamavano, come è noto per le nostre istorie, sette casse di credito, che per dote, legati ed industrie divennero posseditrici di tredici milioni di ducati. I pubblici officii, i privati, la stessa casa del re, depositavano al banco il proprio danaro, là tenuto sicuro perché guardato o guarentito. Una carta detta fede di credito, accertava il deposito: la presentazione della fede produceva immediato pagamento: le fedi circolavano come danaro, nulla perdevano al cambio, guadagnavano a' tempi delle maggiori fiere del regno per il comodo e la sicurezza di portare in un foglio somme grandissime. Il danaro contrastato per liti andava al banco; i pagamenti dei legati si facevano per carte di banco: molto danaro del regno; il tutto, quasi, della città; ventiquattro milioni almeno di private ragioni, stavano in quelle casse. Ma i bisogni dello Stato, l'istinto del dispotismo, l'agevolezza d'involare e di coprire per nuove carte il danaro involato, la speranza di rimediare al mancamento prima che manifesto, ed alla fin fine il sentimento ne' re assoluti che la roba come la vita dei soggetti sieno della corona, furono argomenti a stender mano rapace a que' depositi. Durava tacitamente lo spoglio; le fedi già soperchiavano di molti milioni la moneta; il credito le sosteneva: era dunque introdotta nel commercio la carta monetata, ma buona perché incognita. Svelata dall'abuso, i depositari, traendo in folla ed a furia i loro crediti, fecero vóte le casse; e, trattenuti gli ultimi pagamenti, fu distrutto il prestigio della fedeltà. Essendo grande il danno perché infinite le relazioni coi banchi, divenne uguale il grido e lo spavento. «Ecco, dicevano, i tesori del re disotterrati per amor nostro! Ecco i gioielli della regina pegnorati o venduti! Questi sono i risparmii e gli stenti della famiglia donati alla difesa e alla quiete del regno. Pianto fallace di povertà, mostre generose e ingannevoli, mercato infame delle nostre sustanze! Le nuove taglie sono assai maggiori delle nuove spese; il re, la regina, il ministro, provvedono al loro ricco vivere in qualunque fortuna». Così per giudizi gli uni agli altri contrarii, saltando da cima a cima come la plebe.

Il governo, sollecito a' rimedii, ridusse in uno i sette banchi della città, col nome di banco nazionale; stabili botteghini di sconto soccorsali dei banchi, e per contraporli ai guadagni strabocchevoli degli usurai, svergognò e punì molti uffiziali di banco per frodi vere o apposte. E non però migliorando le condizioni, e vedendo le polizze rifiutate nel commercio, comandò che valessero nelle private contrattazioni antiche o presenti: così, offendendo e nuocendo alle ragioni dell'universale. Nacque allora ne' fogli di cambio la indicazione di moneta fuori banco, la quale regge ancora, e forse, scordata la origine (perciò ne parlo) starà in eterno. Andando sempre in peggio la sorte de' banchi, le fedi circolavano con perdita, che montò sino all'85 ne' 100. Il danaro involato fu cinquanta milioni di ducati; e perciò, distrutte le doti de' sette banchi, si rapirono trentasette milioni, senza giustizia, senza misura comune, a caso, a ventura, dalle sostanze dei cittadini.

Quelle che ho descritte furono in otto anni, dal 91 al 99, le leggi di finanza.

Se ne lessero due di amministrazione, utili e inseguite: l'una prescrivente in ogni comunità la formazione di una carta o tabella indicativa de' terreni e delle colture; l'altra ordinante il censimento del demanio comunale, a patti giovevoli a' censuari, preferendo i poveri. Nulla si fece in legislazione, in commercio, in iscienze, in arti, in tutta la vasta mole della economia dello Stato: però che non reggere né guidare il regno, ma imperare e combattere erano le sole cure dei governanti; cosi accresciuto l'imperio, scemavano le leggi.

XIII. Una contesa presto nata e spenta fra i re di Napoli e di Svezia io leggo in tutte le istorie del tempo come che non degna di ricordanza: e se pur io la registro ne' miei libri è solamente per non tórre fede agli scrittori che mi han preceduto nel faticoso cammino di comporre le istorie. Dopo la morte di Gustavo M, il re successore governava la Svezia negi'interessi di quella parte ch'ebbe ucciso il fratello: nuove congiure perciò si ordirono, e la vita dei novello re fu in pericolo. Era tra' congiurati l'ambasciatore in Napoli barone di Armfeldt, scoperto reo, e dimandato per lettere cortesi del re di Svezia al re delle Sicilie. La morte di Gustavo, principe guerriero e sdegnoso contro la Francia, era spiaciuta alla casa di Napoli, che tenendo giacobini coloro che lo spensero, e sostenitori della causa de' re la parte contraria, diede al barone d'Armfeldt agio e mezzi da fuggire in Austria. E re di Svezia se ne sdegnò, e con dichiarazione fatta pubblica. espose alle corti di Europa le sue ragioni e '1 proponimento di sostenerle: altra dichiarazione del re di Napoli, non timida, non umile, rispose. Disputa scandalosa durò fra' ministri delle due corti; e '1 sovrano svedese intimò ammenda o guerra. Ma quella non fu data, questa non cominciò; tanti romori si sperderono.

XIV. Alle male venture, guerra, fame, povertà, discordie, che finora ho narrate, si aggiunse nell'anno 1794 altra più fiera perché inevitabile. Nella notte dei 12 giugno, forte tremuoto scosse la città, e rombo cupo e grave pareva indizio d'imminente eruzione di foco dal Vesuvio. Gli abitanti delle città e terre sottoposte al monte fuggirono dalle case, aspettando allo scoperto il nuovo giorno; il quale spuntò sereno; ma in cima del vulcano nugolo denso e scuro copriva l'azzurro e lo splendore del cielo; e come il giorno avanzava cosi crescevano il romore, l'oscurità e la paura. Passarono tre di: la notte del quarto, 15 a 16 di giugno, scoppio che diresti di cento artiglierie chiamò a guardare il Vesuvio. e fu vista nella costa del monte colonna di foco alzarsi in alto, aprirsi e per proprio peso cadere e rotolare su la pendice: saette lucentissime e lunghe uscenti dal vulcano si perdevano in cielo, globi ardenti andavano balestrati a gran distanze; il rombo sprigionato m tuono. Foco a foco sopraposto, perciocché lo sbocco era perenne, formò due lave, le quali con moto prima rapido poi lento s'incamminavano verso le città di Resina e Torre del Greco. Stavano gli abitanti, trentaduemila uomini, mesti ed attoniti a riguardare. La città di Resina cuopre l’antica Ercolano: la Torre dei Greco fu in origine fondata al piede del monte, dove le ultime pendici si confondono con la marina. Eruzione antica ne coprì metà, e tanta materia vi trasportò, che fece promontorio su la città rimasta. In quell'altura fabbricarono nuove case: e però le due città, l'alta e la bassa, comunicavano per erte strade a scaglioni, essendo di ottanta braccia almeno l'una su l'altra. La eruzione del 94 le adeguò, lasciando dell'alta, segnali della sventura, le punte di pochi edifizi, e coprendo della bassa e soperchiando le umili case, le sublimi, le stesse torri delle chiese. In Resina bruciarono molti campi e pochi edifizi più vicini al monte, fermandosi l'esterminio quasi al limitare della città. La prima lava, quella che sotterrò Torre del Greco, entrò nel mare, pinse indietro le acque, e vi lasciò massa di basalto sì grande, che fece un molo ed una cala, dove le piccole navi ripararono dalle tempeste. Spesso le due lave, docili alle pendenze o curvità del terreno, si univano; e spesso si spartivano in rivoli: ne' quali rigiri fu circondato un convento dove tre persone, impedite dal fuggire, soffocate dal grande ardore, perirono. li cammino della maggior lava, quattro miglia, fu corso in tre ore, le materie vomitate erano tante, che parevano maggior volume del monte intero.

Ciò nella notte. Batteva l'ora ma non spuntava la luce del giorno, trattenuta dalla cenere, che. densa e bruna, dirottamente pioveva molte miglia in giro della città. Lo spettacolo di notte continua oppresse l'animo degli abitanti, che volgendosi, come è costume delle moltitudini, agli argomenti di religione, uomini e donne di ogni età o condizione, con piedi scalzi, chiome sciolte e funi appese al collo per segno di penitenza, andavano processionando dalla città al ponte della Maddalena, dove si adora una statua di san Gennaro, per memoria di creduto miracolo in altra eruzione; così che sta scolpita in attitudine di comandare al vulcano di arrestarsi. Colà giunte le processioni, quelle de' gentiluomini pregavano le consuete orazioni a voce bassa, quelle del popolo gridavano canzone allora composta nello stile plebeo. Ed in quel mezzo si vedeva cerimonia più veneranda; il cardinale arcivescovo di Napoli, e tutto il clero in abito sacerdotale, portando del medesimo santo la statua d'oro e le ampolle del sangue, fermarsi al ponte, volgere incontro al monte la sacra immagine, ed invocar per salmi la clemenza di Dio. Né cessarono i disastri della natura. Potendo la cenere adunata sopra i tetti e i terrazzi rovinar col peso gli edifizi, il magistrato della città bandì che si sgomberasse; e più del comando valendo a pericolo, subito dall'alto si gettarono quelle materie su le strade, oscurando vieppiù e bruttando il paese. Non si vide, si udì giunger la notte da' consueti tocchi della campana; ma dopo alcune ore si addensarono tenebre così piene come in un luogo chiuso: né la città in quel tempo era illuminata da lampadi; e i cittadini, intimoriti da' tremuoti, non osando ripararsi nelle case, stavano dolenti per le strade o piazze ad aspettare l'abisso estremo. Al di vegnente, che fu il terzo, scemò la oscurità, ma per luce sì scarsa, che il sole appariva, come al tramonto, pallido e fosco: diradarono le piove delle ceneri, cessò a fuoco ed il tuono del vulcano. Quello aspetto di sicurtà, le patite fatiche, la stanchezza invitarono gli abitanti a tornare alle case; ma nella notte nuovo tremuoto li destò e impaurì; mentre la terra tremava, udito uno scroscio come di mille rovine, temeva ogni città che la città vicina fosse caduta.

Il nuovo giorno palesò il vero, perché fu visto il monte troncato dalla cima, e quella inghiottita nelle voragini del vulcano; sì che il tremuoto e lo scroscio della sera, da' precipizi. E se prima il monte Vesuvio torreggiava su la montagna di Somma che gli siede appresso, oggi, mutate le veci, questa si estolle. Essendo quelli gli ultimi fatti della eruzione, per non dire de' soliti diluvi e delle frane, io raccoglierò delle cose che avvennero, le più notabili. La parte troncata del monte era di figura conica; l'asse tremila metri (circa palmi napoletani novemiladuecento); la base, elittica, cinque miglia In giro; la grossezza maggiore della lava, undici metri (quaranta palmi); la terra coperta di fuoco, cinquemila moggia; il molo, largo la quarta parte di un miglio, sporgente in mare ventiquattro metri, elevato su l'acqua sei metri; gli uomini morti trentatre, gli animali quattromila duecento. Furono le cure del governo solamente pietose, impedita la liberalità dalle strettezze dell'erario. In breve tempo, sopra il suolo ancora caldo, videsi alzare nuova città, sopraponendo le case alle case distrutte, e le strade alle strade, i tempii a' tempii. Possente amor di patria che dopo tanti casi di esterminio si direbbe cieco ed ostinato, se in lui potesse capir difetto!

XV. In que' giorni di lutto universale, il re con la casa e col generale Acton, caro alla famiglia, andarono agli accampamenti di Sessa, lontani dal pericolo e dalla mestizia. I teatri, la curia, le magistrature si chiusero. Solamente in quel feriato di dolore, la Giunta di Stato non sospese i crudeli offizii: essendosi trovati negli archivi molti atti segnati di que' giorni. Prima opera di lei fu la morte di Tommaso Amato, che in giorno festivo, nella chiesa del Carmine, spingendosi verso il santuario e lottando con un frate che lo impediva, proferì a voce alta bestemmie orrende contro Dio, contro il re. Arrestato dal popolo e dato alle guardie del vicino castello, accusato reo di lesa maestà divina ed umana, fu condannato a morire sulle forche. Il re prescrisse pubbliche orazioni onde placare la collera di Dio, mossa dal veder profanato il tempio e i sacerdoti. Le spoglie di Tommaso Amato non ebbero cristiana sepoltura, e si citava il nome ad orrore. Ma, per lettere che da Messina, patria dell'infelice, scrisse il general Danéro, governatore della città, seppesi che Tommaso Amato soffriva in ogni anno accessi di pazzia, e che da certo tempo era fuggito dalla casa de' matti. Il presidente Cito, e '1 giudice Potenza, avendone avuto sospetto nel processo, votarono che fosse custodito come demente; ma piacque agli altri giudici punire uomo creduto malvagio dal popolo, e radicar la sentenza nella plebe: nemico del re, nemico a Dio. Dal primo sangue, gli animi inferociti, prepararono la gran causa de' rei di Stato; così portava nome. Il governo incitava i giudici alla severità, spaventato dalle nuove cose di Francia e d'Italia; era capo in Francia Robespierre, e trionfavano allo interno le dottrine più feroci; allo esterno, gli eserciti: nel Piemonte scoprivasi congiura contro il re, e tumulti la secondavano; spuntavano in Bologna germi di libertà; ed in Napoli si passava dalle finte alle vere cospirazioni, per gli scarsi ricolti, sempre pericolosi alla quiete, e la povertà del popolo, e lo sdegno degli oppressi, e l'usato cammino della scontentezza. La Giunta di Stato giudicava. Era inquisitorio il processo, scritta la pruova; le secrete  accuse o denunzie potevano come indizii; i testimonii, benché fossero spie a pagamento, valevano; né a' servi, a' figliuoli, a' più stretti parenti era interdetto l'uffizio di testimonio. la processo, compiuto in segreto, passava a' difensori, magistrati eletti dal re; le difese producevansi scritte; né all'accusato era concesso il parlare; il giudizio spedito a porte chiuse; la relazione dell'inquisitore valeva quanto il processo; non che fosse vietato a' giudici leggere nei volumi, ma nol comportava la strettezza del tempo, perché ad horas; era inquisitore nel processo lo scrivano; nel giudizio, un magistrato scelto tra i peggio, quale il Vanni nel tempo di cui scrivo, poi Fiore, Guidobaldi, Speciale. Sommavano i giudici numero dispari per tórre il benefizio della parità. Le pene, severissime: morte, ergastolo, esilio; le sentenze inappellabili, l'effetto, immediato; l'infamia sempre ingiunta, non mai patita.

XVI. Compiuto il processo de' rei di Stato, il procurator fiscale diceva chiare le pruove contro parecchi de' prigioni, e preparato il proseguimento per gli altri carcerati, o fuggitivi, o nascosti, o fortunati, che, sebben rei, godevano di libertà e d'impieghi; avvegnaché (ei soggiugneva) teneva pruove certe per ventimila colpevoli, e sospetti per cinquantamila. A' quali avvisi ed istanze il re prescrisse la Giunta di Stato, ad modum belli e ad horas, giudicasse i rei che il procurator della legge indicava; e il tribunale adunato il 16 di settembre, sciolto il 3 di ottobre, senza intermissioni e senza riposo ai giudici fuor che il necessario alla vita, giudicò. Di cinquanta accusati, con processo di centoventiquattro volumi, il procurator fiscale domandò pena di morte per trenta, prima di cruciarsi con la tortura ad effetto di conoscere i complici; sospensione di giudizio per altri diciannove, ma da collocarsi co' primi trenta; dell'ultimo non parlò. Questi non ostante, fu giudicato in primo luogo, e confinato a vita nell'isola di Trémiti; egli era chiamato Pietro de Falco; capo ed anima della congiura, fellone alla setta e svelatore de' settari.. Poscia il tribunale condannò tre alla morte. tre alle galere, venti al confino, tredici a pene minori; mandò liberi gli ultimi dieci. Era tra confinati il duca di Accadia; e '1 re, mantenendo i privilegi de' Sedili, fece assistere al giudizio due nobili, col nome di Pari; ultimo rispetto alle antiche leggi. La sentenza che puniva i congiurati taceva della congiura, vergognando castigare acerbamente adunanze secrete di giovanetti, ardenti di amore di patria, inesperti del mondo, senza ricchezze, o fama, o potenza, o audacia, condizioni necessarie a novità di Stato; ed avversi alle malvagità ed a' malvagi che fanno il primo nerbo de' rivolgimenti; perciò non altre colpe che voti, discorsi, speranze. Questa era la congiura per la quale tre morivano, molti andavano a dure pene, tutti pericolavano, e si spegneva la morale pubblica, si creavano parti e nemicizie, cominciava tirannide di governo, contumacia di soggetti, odii atroci ed inestinguibili per andar di tempo e per sazietà di vendette.

I condannati a morire, Vincenzo Vitaliano di ventidue anni, Emanuele de Deo di venti, e Vincenzo Galiani di soli diciannove, erano gentiluomini per nascita, notissimi nelle scuole per ingegno, ignoti al mondo. Dopo la condanna, la regina chiamò Giuseppe de Deo, padre di uno de' tre miseri, e gli disse di promettere al giovine vita e impunità, solo che rivelasse la congiura e i congiurati. Andò il vecchio alla cappella dove il figlio ascoltava gli estremi conforti di religione, e, rimasti soli (così aveva comandato la regina), lo abbracciò tremando, espose l'ambasciata ed il premio, rappresentò il dolor suo, il dolor della madre, l'onor del casato; proponeva, dopo la libertà, fuggire assieme in paese lontano, e tornare in patria quando fossero i tempi meno atroci. E però che l'altro ascoltava senza dir moto, egli, credendolo vicino ad arrendersi, ruppe in pianto, s'inginocchiò a' piedi del figliuolo, e tra gemiti confusi poté dire appena «ti muova la pietà del mio stato». E allora il giovine sollecito inalzandolo, e baciatogli quando le mani e quando il viso, così disse: «Padre mio, la tiranna per cui nome venite, non sazia del nostro dolore, spera la nostra infamia, e per vita vergognosa che a me lascia, spegnerne mille onoratissime. Soffrite che io muoia; molto sangue addimanda la libertà, ma il primo sangue sarà il più chiaro. Qual vivere proponete al figlio e a voi! dove nasconderemmo la nostra ignominia? Io fuggirei quel che più amo, patria e parenti; voi vergognereste di ciò che più vi onora, il casato. Calmate il dolor vostro, calmate il dolore alla madre, confortatevi entrambo del pensiero che io moro innocente e per virtù. Sostenghiamo i presenti martorii fuggitivi; e verrà tempo che il mio nome avrà fama durevole nelle istorie, e voi trarrete vanto che io, nato di voi, fui morto per la patria». L'alto ingegno, il dir sublime, e valor che trascende in giovine accesso di gloria, tolsero lena e voce al vecchio padre, che quasi vergognoso della maggior virtù del giovinetto, ammirando e piangendo, coperta colle mani la fronte, ratto usci dalla orrenda magione.

Al di vegnente andarono i tre giovani al supplizio, senza pianti, o que' discorsi che paiono intrepidezza e sono distrazioni e conforto alle infelicità del presente: serenità che mancava (debita sorte della tirannide) a' tiranni; sì che di loro altri diceva, altri credevano che cinquanta migliaia di giacobini, adunati nella città, si leverebbero per sottrarre i compagni, ed uccidere del governo i capi e i seguaci. Alzato perciò il palco nella piazza detta del Castello, sotto i cannoni del forte, circondato il luogo di guardie, muniti di artiglierie gli sbocchi delle strade, ed avvicinate alla città numerose milizie, bandirono che ad ogni moto di popolo i cannoni dei castelli tirerebbero strage. Uffiziali di polizia travestiti, sgherri in abito, e spie a sciami si confusero nella folla. E fra tanti provvedimenti di sicurtà stavano i principi nel palagio di Caserta, più timidi ed ansanti de' tre giovanetti, che rassegnati morivano. Quelle mostre di timore produssero timor vero a' cittadini; e sarebbe rimasta vóta la piazza, se le atrocità non fossero come feste alla plebe; perciò fu piena. E poi che Galiani e de Deo furono morti, al salire del terzo sul patibolo, piccola mossa, della quale s'ignora il principio, allargata nel popolo, ingigantita da sospetti, pericolosa per le minacce e per gli apprestamenti che si vedevano ne' soprastanti bastioni, tanta paura sparse in quelle genti, che nel fuggire alcuni restarono feriti, molti rubati, la piazza si vuotò, e i ministri della pena compierono nella solitudine l'uffizio scelerato.

XVII. Mesto anche per segni di natura l'anno 1794; parecchi uomini morirono di fulmine, un fulmine entrò in chiesa, un altro ruppe dentro al porto di Napoli gli alberi e l'armatura di un vascello nuovo (il Sannita), pronto a salpare per la guerra; un marinaio vi fu incenerito. Accaddero nelle nostre marine continui e miserevoli naufragi, molte morti in città d'uomini grandi, morbi gravissimi. Così che finito quell'anno, auguroso per i creduli, si speravano tempi migliori; ma ne' primi giorni dell'anno vegnente si udì la morte del principe di Caramanico, vicerè in Sicilia, con tali voci e opinioni che apportò ragionevole spavento ne' due regni. Rammento in questo luogo che il principe di Caramanico propose alla regina la chiamata dell'Acton dalla Toscana; il quale, venuto in Napoli, piacque; poi, geloso del benefattore; (valendogli la prepotenza degli affetti nuovi) ottenne che il principe andasse lontano dalla reggia. Si tenne ch'ei morisse di veleno macchinatogli dal rivale, o preso per evitare a sé a dolore, al nemico il trionfo di essere menato nella fortezza di Gaeta come reo di maestà; di che avuto avviso per sicuri annunzii, volle schivare con la morte il pericolo e la vergogna. Alcuni fatti della casa del principe, molti provvedimenti, morte sollecita, segni (dicevano) di veleno, tempi tristi, grandezza di lui, maggior potenza di nemico malvagio, aggiungevano fede a' racconti. Cresciuto l'odio pubblico per il ministro e per la regina, cominciato allora per il re (non bastando la infingardaggine a scusarlo de' mali che si facevano col suo nome), circolavano contro tutti e tre dicerie plebee, spregianti la maestà de' principi, ed incitatrici allo sdegno di quei potenti. Dopo la morte compianta del vicerè, l'universale sperando la caduta dell'odiato ministro per lo innalzamento del cavalier de' Medici, nobile di casato, sciolto, come li vuole fortuna, da' ritegni della coscienza, e già sul cammino della civile grandezza, rammentava il celebre corso de' sostenuti offizii, e lo diceva degno di offizii maggiori, tanto più ne' presenti pericoli dello Stato. Il quale grido, che quando è di popolo raccomanda, rinforzando l'ambizione del giovine, gli attirò sguardi terrificanti della regina, bicchi del ministro; tanto più che questi nella corte e nello Stato non vedendo altro uomo che sollevasse né manco il desiderio a quella altezza, divisava che lo spegner quel solo gli era certezza e durata di fortuna.

Sapeva il modo; l'accusa di maestà; ma bisognava tempo e ordimenti alla calunnia. Fra i condannati dalla Giunta era un Annibale Giordano, professore di matematica, egregio per ingegno, malvagio per natura, usato ed accetto in casa Medici. Egli (non è ben chiaro se richiesto o scaltro) accusò il cavalier Medici di complicità nella congiura; ma il ministro Acton, tenendo celato il foglio, premiato il delatore, impostogli secreto, adunò altre accuse, sottoscritte del nome degli accusatori, o senza nome con la promessa di palesarlo quando al reo fosse tolta la smisurata autorità di reggente. Unite le carte in processo, andò il ministro a pregare i due sovrani di ascoltarlo in privato; e, concessogli, disse:

«Corrono tempi tristi e difficili, spesso la fedeltà confusa con la fellonia, il vero col falso; se non credi alle accuse, pericola lo Stato; e, se le credi, adombri la quiete de' principi, e forse offendi l'onestà e la giustizia. Perciò ne' casi leggieri, io, con l'autorità che le maestà loro mi hanno concessa, opero e taccio; se non che delle asprezze fo me autore, delle blandizie, il principe. Ma ne' casi gravissimi dove non basta l'autorità di ministro, mi vien meno l'animo di operare o di tacere; gran t'empo ho taciuto grave affare (mostrò le carte); oggi più lungo silenzio mi farebbe colpevole. Annibale Giordano, reo di maestà tra i primi, con foglio firmato del suo nome, animosamente accusò di complicità nella congiura il reggente della Vicaria cavalier de' Medici». (Parve maraviglia in viso del re, indignazione alla regina; ed egli, come a que' segni non avvertisse, proseguiva): «La enormità dei delitto scemava fede all'accusa; giovine alzato a' primi gradi dello Stato, avendo in prospetto gradi maggiori, nobile per famiglia, piacente a' sovrani, venerato da' ministri (e da uno di essi anche amato), come credere che arrischiasse tanti benefizii presenti per sognate speranze di avvenire? Tenni l'accusa malvagia, e di nemico. Ma dalle regole di pubblica sicurezza sapientemente da vostra maestà ordinate, non isfuggendo verità che assicuri o che incolpi, si palesarono altri fatti ed altre pruove contro il reggente; egli assisté al club de' giacobini radunati a Posilipo sotto specie di cena, per congiura; egli conferì con La Touche; per lui fallò l'arresto de' giacobini che andavano al vascello francese; del quale mancamento io mi avvidi, ma lo credetti mala ventura o mal consiglio, non già proposito e delitto. Altre colpe di lui stanno registrate in quei fogli; e ve ne ha tali per fino malediche a' suoi principi. Molti nobili (egli stesso n'è cagione col consiglio e con l'esempio) sono tra' congiurati: i Colonna, i Caràcciolo, i Pignatelli e Serra e Caraffa, ed altri nomi chiari per natali, titoli e ricchezze; i giovani bensì, non i capi delle famiglie, ma di giovani si riempiono le congiure; e poscia i maggiori, per naturale affetto di sangue difendendo i figliuoli, aiutano l'impresa. Sono queste le cose che io doveva rassegnare alle loro maestà; elle, decidendo, ricordino che incontro a' tristi e ingrati vi ha l'obbedienza dell'esercito, la fedeltà del popolo, la vita di molti».

E tacque. La regina non osava parlare prima del re; ma questi disse al ministro: «E, dopo ciò, che proponete?» E quegli:

«So che è debito di ministro, esponendo i mali proporre i rimedii; ma lungo riflettere non mi è bastato a sciorre i dubbii che si affollano in mente, ed ho sperato dalle loro maestà comando e consiglio. Non vi ha che due modi, pericolosi entrambo, la clemenza o il rigore; pochi mesi addietro erano congiurati uomini mezzani, oggi lo sono i primi dello Stato; dove giugnerà la foga se spavento non l'arresti? ma quai nemici e quanto potenti non affronterebbe il rigore? Egli è vero che i tempi son mutati, ma vive ancora la memoria e la superbia delle guerre baronali, e si citano i danni e i cimenti de' re aragonesi; egli è ancor vero che la baronia di oggidi non è guerriera, ma l'aiuta passione di libertà, che pur troppo è ne' popoli. Fra le quali dubbiezze mi venne pensiero utile, non giusto; ed alle maestà vostre lo confido. Ambizione muove il cavalier de' Medici, il giovine impaziente non può soffrire la incertezza ed il tedio dell'aspettare; se vostra maestà lo innalzasse a ministro, cesserebbero le voglie ree di mutar lo Stato, ed egli spegnerebbe in un giorno le trame, note a lui, della congiura». E non anco finiva il bugiardo discorso, se la regina, rompendolo, non diceva: «Ludibrio della corona! siamo a tale ridotti che dobbiamo dar premii a' congiurati! E chi d'oggi innanzi non congiurerà contro il trono, se avrà mercede, quando fortunato, dalla impresa; e quando scoperto, da noi? Sire, (volgendosi al re) è diverso il mio voto. Il cavalier Medici, comunque abbia i natali e l'autorità, i nobili d'ogni nome, di qualunque ricchezza, corrano le sorti comuni, e un tribunale di Stato li condanni. Un alto esempio val mille oscuri». E allora il re sciolse la secreta conferenza, prescrivendo che al domani l'altro i ministri dello Stato, il general Pignatelli capo dell'armi, il cardinale Fabrizio Ruffo, il duca di Gravina e il principe di Migliano si adunassero a suo consiglio nella reggia di Caserta.

XVIII. Al di seguente disse la regina saper ancor ella le trame rivelate dal ministro, ed averle nascoste al re per non turbarne il riposo, ed aspettare la maturità delle pruove: vanto e menzogna. Furono quelle trame ordite dall'Acton a rovina del Medici, e tenute secretissime per impedire che se ne scolpasse. Ella millantava di saperle, perché fin anco i re, quando s'intrighino tra' maneggi di polizia, ne prendono il peggior difetto, la vanagloria. Ma lo scaltro Inglese, giovandosi della menzogna, disse in privato alla maggior parte de' consiglieri eletti, che la regina avea scoperto nuove congiure, che un discorso di lui del giorno innanzi era stato da' principi male accolto per la proposta clemenza; ch'era dunque il rigore necessità: tacque i nomi, e pregato il secreto, n'ebbe promessa; e della confidenza, rendimento di grazie. Raccolta in Caserta la congrega, il re, dicendo voler consiglio sopra materia gravissima, chiuse il breve discorso. «Dimenticate i privati affetti, o di classe, o di parentado: un solo sentimento vi guidi, la sicurezza della mia corona. Il generale Acton esporrà i fatti». Gli espose con discorso studiato ed ingannevole; e poscia il re, permettendo il parlare, dimandò i voti. Non alcuno fra tanti dissenti, e solamente aggiunsero accuse alle accuse del ministro; malvagi o timidi per meritata sorte delle tirannidi; mancar di schietto consiglio nei bisogni maggiori. Fermarono, porre sotto giudizio il cavalier de' Medici e quanti altri, nobili o no, fossero colpevoli. La Giunta di Stato, quella medesima tanto sollecita nel punire che non aspettò per Tommaso Amato le lettere di Messina, e tanto spietata che uccise tre giovanetti ai quali appena ombrava le gote il pelo dell'adolescenza, non fu creduta bastevole alla voluta speditezza del processo ed al rigore; e si temeva l'aderenza de' giudici al cavalier de' Medici, sino allora giudice anch'esso della Giunta, e severo contro que' congiurati che ora dicevano suoi compagni. La Giunta fu sciolta, e ricomposta di giudici peggiori, avvegnaché, mantenuti Vanni e Giaquinto, furono messi alle veci di Cito, Porcinari, Bisogni, Potenza, il magistrato Giuseppe Guidobaldi, Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala, ed altri famosi per tristizie. Castelcicala in quel tempo ambasciatore del re a Londra venne allegro del nuovo uffizio che davagli, diceva, opportunità di provar la fede a' sovrani, e sfogare lo sdegno proprio contro i ribelli al trono ed a Dio. La regina festosamente lo accolse, però che un principe inquisitore di Stato, avvalorava la sentenza: «dover ella distruggere l'antico errore che riputava infami le spie, cittadini veramente migliori perché fedeli al trono e custodi alle leggi». Quindi nominava marchese il Vanni, fregiava dell'ordine Costantiniano i delatori più tristi e diffamati; e solo ad essi, disegnandoli coi nome di meritevoli dava gli offizii dello Stato.

L'insita loquacità della regina, cui abbiamo debito di aver saputo i secreti parlari dell'Acton, del re, di lei stessa, svelò il consiglio di Caserta alla marchesa di Sammarco, dama tra le prime, confidente e compagna negli amori, dicendole che il fratello cavalier de' Medici (giacobino, che sarebbe, se lo aiutasse fortuna, il piccolo Robespierre) cospirava contro il trono. Egli, così avvisato del pericolo, andò alla reggia; e negatogli accesso alla regina, parlò al re, il quale a' ragionamenti ed alle preghiere nulla rispose; ma nel vegnente giorno lo depose d'uffizio, e lo chiuse nella fortezza di Gaeta. Nel tempo stesso menavano alle prigioni un Colonna, figlio del principe di Stigliano, il duca di Canzano, il conte di Ruvo, un Serra di Cassano, e i Caràcciolo, i Riari ed altri nomi chiari per le grandezze degli avi e per le presenti, primi baroni, imparentati alla più alta nobiltà del regno, e per immemorabile feudalità venerati e temuti da' popoli. Del quale ardire del governo importa svolgere le cagioni. Le passioni de' sovrani di Napoli, sdegno cioè della offesa monarchia e pietà degl'infelici parenti, si accesero prime e cieche contro i Francesi; ma poi che videro disperata la vendetta sopra popolo fortissimo e lontano, si volsero a sfogare nel proprio regno su le immagini della Francia; chiamarono giacobini gli amanti semplici ed innocenti di vaga libertà; i lodatori delle repubbliche, i leggitori delle gazzette straniere, coloro che imitavano nel vestimento le mode francesi; ed indi a poco, di giacobini gli dissero congiurati ad abbattere il trono, a rovesciare gli altari, a spegnere il re e i sacerdoti. Cosi che ad oneste brame, o a semplici apparenze di vita diedero colpa e peso di maggiori delitti. Veramente all'arrivo dell'ammiraglio La Touche parecchi Napoletani, come ho riferito, convennero in secrete combriccole per comunicare con quei Francesi, e per volgere in italiano e stampare le costituzioni del 91; ma sciolte dai rigori del governo le adunanze, i vaghi di libertà s'incontravano alla sfuggita, balbettavano l'un l'altro all'orecchio le notizie correnti, si rallegravano de' successi della Francia, speravano e separavansi, non avevano di congiura né scopo, né mezzi; la polizia, la Giunta di Stato, i ministri del re, la regina col numeroso corteggio delle spie, percuotevano i fantasmi. E più inferocivano per non trovare le pruove del delitto, e credere nel silenzio degli accusati forza di secreto e di fede; quindi moltiplicavano i martorii a'prigionieri, imprigionavano Pagano, Ciaja, Monticelli, Bisceglie, il vescovo Forges, ed altri venerati per dottrina e virtù; insidiavano l'onestà, promettendo uffizii e doni a chi rivelasse le colpe di maestà, guastavano i costumi delle famiglie, nemicando il fratello al fratello, il figlio al padre; pervertivano la morale del popolo, sciogliendo tutte le fedeltà, di servo, di custode, di cliente, di confessore. Scomponevano la società.

XIX. Venne ad aggravare i sospetti e le miserie un successo infelice di Palermo, dove le genti affamate per iscarso ricolto di quell'anno, impoverite per nuovi tributi, scontente dell'arcivescovo Lopez, che dopo la morte del Caramanico reggeva l'isola, tumultuarono pazzamente di moti confusi, facili a trattenere e ad opprimere. Un avvocato Blasi, ed altri pochi si unirono in secreto per consultare se quella popolare disperazione bastasse ad aperto sconvolgimento: ma subito traditi e imprigionati, il Blasi per sentenza morì, prima torturato co' modi antichi nella pubblica piazza; altri andarono alle galere. altri all'esilio; il popolo s'intimorì, successe pazienza, non calma; la tirannide imperversò. In Napoli, durando le incertezze della creduta congiura, e i principi travedendo intorno a sé il tradimento e la morte; congedarono le antiche guardie del corpo, ed altre ne scelsero, mutarono i custodi, variarono gli ordini della casa, facevano saggiare i cibi, nascondevano alla comune de' servi le camere del sonno; e, più timorosi tuttodì, toglievano ad altri la quiete e la perdevano. Ne' quali commovimenti di paura e di rigore fu pubblicato editto che perdonava le colpe di maestà, e prometteva segretezza e premii a quei rei che rivelassero la congiura, e i capi d'essa, o i compagni. Per effetto del quale editto riferirono cose leggere o mentite tre fuggitivi e nobili, de' quali taccio i nomi, perché lavarono col sangue la vergogna, uno morto in guerra, gli altri due (erano fratelli) sul patibolo. Né quello editto altra cosa notabile produsse.

XX. In mezzo a' riferiti dolori e vergogna qualche conforto apportavano le geste de' reggimenti di cavalleria napoletana, che, insieme agli Alemanni, con uguale, almeno, disciplina e valore, guerreggiavano in Lombardia; e delle nostre navi che, unite agli Inglesi, combattevano nel mare di Savona il naviglio di Francia uscito da Tolone a portar guerra e sbarcar soldati su le coste della Romagna. Erano pari le forze combattenti, maggiore l'arte e la fortuna de' nostri; cosi che i Francesi, dopo aver perduto due vascelli e un brigantino, tornarono al porto sdruciti e vinti. L'ammiraglio Hotham, capo della flotta anglo‑napoletano, fece lodi bellissime a nostri, e più notò la intrepidezza e il sapere del capitano di fregata Francesco Caràcciolo, cui preparavano i cieli, e non lontane, gloriose celebrità e misera fine. Nel regno le comunità mandavano i richiesti soldati; e la baronia, cavalieri e cavalli; si pagavano le taglie pubbliche; si comportavano le perdite crescenti delle carte di banco. E fra tanti documenti di virtù civile la sventurata nazione, creduta ribelle dal suo re, ribalda dal mondo, tollerava i pesi e gli sforzi della fedeltà con le pene e le infamie dei felloni. Negli anni sino al 95, mentre in Napoli seguivano le narrate cose, la Francia governavasi a repubblica; ma vedevi alcuni come tiranni opprimere il popolo come schiavo, e la schiavitù e la tirannide aver cagioni sincere nella libertà. Non è uffizio nostro stendere quella istoria, ma felice chi giugnerà a quell'altezza, dove rimarrà chiaro in fin che duri la memoria degli uomini; avvegnaché non ha il mondo argomento che pareggi la storia di Francia dell'anno 89 del passato secolo al 150 del corrente. Basterà a noi, narratore di poca parte di quegli avvenimenti, i rammentare che nel governo della Convenzione sorse la tirannide di Robespierre, per la quale in breve tempo morirono di scure milleottocento Francesi, e si fece salda la libertà; che morto lui, e pur di scure, passò il potere a cinque, appellati Direttorio; e che allora, cessate le atrocità, ebbe il governo della Francia sembianze meno ingrate alle genti straniere, ma più da' principi abborrite, perché più adatte alla intelligenza de' popoli.

XXI. generale Bonaparte, appena conosciuto per i fatti di Tolone, acquistata fama nel parteggiare della città di Parigi, venne capitano dell'esercito guerreggiante in Italia. Giovine che di poco avea scorsi venticinque anni, moveva dileggio a' vecchi capitani delle case d'Austria e di Savoia; ma in pochi di que' sensi facili mutarono in altri più veri di maraviglia e di paura. Per le battaglie di Montenotte, Millesimo, Dego, Mondovì spartiti gli eserciti collegati, il Piemontese forzato a scegliere tra la sommissione o la prigionia, l'Austriaco a ritirarsi negli Stati lombardi, stupirono di timore tutti i principi italiani; tra' quali, i deboli negoziarono pace; e i forti o prosuntuosi, acrebbero le difese e le milizie. Venezia, ricordevole delle sue grandezze, inaccessibile, stando in mare, a' battaglioni francesi. pregata di alleanza quando dalla Francia e quando da' potentati contrarii, aveva risposto, ch'ella, armata in neutralità, non assalirebbe gli altrui dominii, difenderebbe i propri. Napoli, alla estremità della penisola, con buona frontiera, molto popolo, e la Sicilia isola grande, cittadella del regno e della Italia, dominava per possanza propria e di confederazione i mari del Mediterraneo; il suo re passionato, arrischioso, e sino allora offeso e invendicato, disfidò le ostilità, inviando altri cavalieri nella Lombardia; e facendo per molti editti bando di guerra così composto: «Quei Francesi che uccisero i loro re; che desertarono i tempii, trucidando e disperdendo i sacerdoti; che spensero i migliori e i maggiori cittadini; che spogliarono de' suoi beni la Chiesa; che tutte le leggi, tutte le giustizie sovvertirono, que' Francesi, non sazii di misfatti, abbandonando a torme le loro sedi, apportano gli stessi flagelli alle nazioni vinte, o alle credule che li ricevono amici. Ma già popoli e principi armati stanno intesi a distruggerli. Noi, imitando l'esempio de' giusti e degli animosi, confideremo negli aiuti divini e nelle armi proprie. Si facciano preci in tutte le chiese: e voi, devoti popoli napoletani, andate alle orazioni per invocare da Dio la quiete del regno: udite le voci de' sacerdoti: seguitene i consigli, predicati dal pergamo e suggeriti da' confessionali».

«Ed essendosi aperta in ogni comunità l'ascrizione dei soldati, voi, adatti alle armi, correte a scrivere il nome su quelle tavole; pensate che difenderemo la patria, il trono, la libertà, la sacrosanta religione cristiana, e le donne, i figli, i beni, le dolcezze della vita, i patrii costumi, le leggi. Io vi sarò compagno alle preghiere e a' cimenti; che vorrei morire quando per vivere bisognasse non esser libero, o cessare di essere giusto».

Poi vólto a' vescovi, a' curati, a' confessori, a' missionari, disse: «E' vostra volontà che nelle chiese de' due regni si celebri triduo di orazioni e di penitenza; e ne sia scopo invocare da Dio la quiete de' miei Stati. Perciò dagli altari e da confessionali voi ricorderete a' popolani i debiti di cristiano e di suddito, cioè cuor puro a Dio, e braccio armato a difesa della religione e del trono. Mostrate gli errori della presente Francia, gl'inganni della tirannia che appellano libertà, le licenze o peggio delle truppe francesi, l'universale pericolo. Eccitate con processioni ed altre sacre cerimonie lo zelo del popolo. Avvertite che l'impeto rivoluzionario, comunque inteso a scuotere tutti gli ordini della società, segna a morte i due primi, la Chiesa e a trono».

E infine per altro editto a' regii ministri diceva essere bisogno dello Stato e sovrana volontà che tutti gli uomini atti alle armi si ascrivessero all'esercito; così per obbedienza de' regali comandamenti, come allettati da' consueti premii e privilegi della milizia, e da maggiore stipendio a' volontari; immunità di fóro per sé e le famiglie; e franchigia, a' valorosi di guerra, da' pesi fiscali per un decennio. Promesse maggiori fossero fatte a' baroni ed a' nobili che venivano alle bandiere, o assoldavano buon numero di vassalli. Andavano gli editti nelle province con la fama dell'esempio; imperciocché nel duomo della città, alla cappella di san Gennaro, cominciato il sacro triduo, il re con la famiglia, i grandi della corte, i magistrati e i ministri vi assisterono di continuo, seguiti dalle classi minori e dal popolo, si che il vasto tempio non capiva la folla dei supplicanti. Così pure nelle province; né mai forse tanti voti caldi e sinceri andarono al cielo quanti in que' giorni: indizio di pericolo. 1 sermoni (tanto più de' missionari e de' frati) furono ardenti; dipingendo i Francesi con immagini atroci, persuadendo contro essi non che assolvendo gli atti più fieri; santificata la guerra di distruzione, richiamate ad uso ed a merito le immanità della barbarie. E peggio ne' confessionali, dove senza i ritegni della civiltà aguzzavano gli odii nel cuor di plebe ignara e spietata. Il seme, che poi fruttò strage infinita, fu sparso in quell'anno

XXII. Accorrevano d'ogni parte i soldati con voglia tanto pronta che la diresti da repubblica non da signoria. E quando l'esercito fu pieno, andarono trenta migliaia ne' campi ed alloggiamenti della frontiera per guardia e minaccia. La difesa del regno divenne studio comune; ma essendo in quel tempo scarse e rare per noi le cognizioni di guerra, variavano le opinioni e i disegni. Divise le cure tra i capi della milizia, altri provvedendo ad una parte della frontiera, altri ad altra, si moltiplicavano le opere e le spese, vagavano infinite idee sopra infiniti punti; mancava il concetto universale di quella guerra. Ed oltraciò traendo regole dalla storia più che dall'arte, temevano il nemico dalle sponde del Liri, non da' monti degli Abruzzi, e disponevano i campi e munimenti così che la parte meglio guardata fosse quella del fiume. Ma non mi arresto a questi errori però che il regno per altre sventure fu vinto. Molti soldati raccolti sopra piccoli spazii, poca scienza, nessun uso di milizie, amministratori nuovi, nuovi uffiziali, generali stranieri, componevano l'esercito; e la inespertezza universale ingenerò molti mali, dei quali gravissimo un morbo radicato ne' campi. A distanze grandi sul Garigliano e sul Tronto, i soldati infermavano di febbre ardente che al settimo e più spesso al quinto giorno apportava la morte; il vicino n'era preso come il lontano, purché dimorasse ne' campi o nelle stanze de' soldati; non era conosciuta la natura del male, non la virtù de' rimedii; rimedii opposti del pari nocevano; pareva febbre incurabile. Né bastando allo impreveduto disastro gli ospedali antichi, né fatti i nuovi, stando gli infermi confusi a' sani, la malattia dilatando in ogni parte, uccise diecimila soldati; lo zelo dei popoli, iniquamente rimunerato dalla fortuna, intiepidì.

XXIII. Insieme al bando di guerra, altro regio editto decretava reo di morte chi all'appressar del nemico ne ricevesse lettere o ambasciate, e chi a lui ne mandasse; chi gli giovasse, o eccitasse tumulti; le adunanze sol di dieci uomini punite come delitti di maestà; ed altre asprezze o sollecitudini, quasi il nemico stesse alle porte. Il procedimento in que' giudizi, ad horas: le pruove facili, però che bastanti le affermazioni di tre, anche denunziatori o correi che rivelassero per benefizio d'impunità; il convincimento nella coscienza del magistrato; magistrato, la Giunta; le sentenze inappellabili e nel giorno istesso eseguite. Furono cagione all'editto le battaglie vinte in Italia dal generale Buonaparte, la confederazione spezzata tra l'Austria e '1 Piemonte, l'armistizio, indi la pace col re di Sardegna, la espugnata Milano, le debellate città: tutte le maraviglie del giovine guerriero, sventure del generale Beaulieu, cui obbedivano con gli Alemanni quattro reggimenti di cavalleria napoletana. Il quale Beaulieu, inattesamente assalito e rotto sul Mincio, stentò a ritirar l'esercito nelle strette del Tirolo; e quella istessa infelice ventura de' fuggitivi gli negavano i vincitori, se i cavalieri napoletani, allora nelle prime armi, non avessero combattuto con valor degno di agguerriti squadroni; soldati ed uffiziali onoratamente morirono; il generale Cutò cadde ferito nel campo e fu prigione, il principe di Moliterno, capitano di centuria, colpito di scimitarra nel viso, rimase orbato di un occhio. Al grido delle nostre armi i Francesi sospesero la preparata guerra contro il Regno, certi di trovarlo difeso da prodi soldati; e Buonaparte, per iscemare di quello aiuto il maggior nemico, offrì armistizio al re di Napoli; il quale, vólte le speranze a timori, accettò l'offerta, e per patti stipulati in Brescia, rivocò di Lombardia i suoi reggimenti, e dell'armata anglo‑sicula i suoi vascelli; facendo le mostre della pattuita neutralità, comecché in petto crescessero il sospetto e la nemicizia per sentire le occupate città d'Italia ordinarsi a repubblica, avanzare il pericolo rapidamente come le conquiste, e '1 general Buonaparte correre la bassa Italia sino a Livorno, con una legione debole, sola, sicura nel nome e nel fato del condottiero.

Cosicché, all'avviso che il maresciallo Wurmser con esercito nuovo scendeva in Italia, e che il generale francese affaticavasi a radunare le separate schiere per ripararle (diceva la fama) in campo lontano, il re di Napoli, rianimate le speranze dello sdegno, scordando il fresco armistizio, spedì altri soldati alla frontiera, occupò una città (Pontecorvo) degli Stati del papa, e si dispose alle ostilità. Il pontefice ancor egli, amico della Francia per fede recentemente giurata, preparò mezzi di guerra; e concertò i modi con le case d'Austria e di Napoli. Non farà quindi a' dì nostri maraviglia che il maggior legame delle società, la fede pubblica, veggasi sciolto e spregiato da' popoli; l'esempio cominciò da coloro che sopra gli uomini possono per isterminata forza di imperio e di opinioni. Ferdinando di Napoli e Pio VI maturavano il momento di prorompere, massimamente che udirono tolto a Mantova l'assedio con tanta celerità da' Francesi, che mancò tempo, non che a trasportare, a distruggere le immense artiglierie che munivano le trincere. Cacault, visti gli apparati guerrieri, dimandò al pontefice, al quale era ministro, i motivi dell'armamento, e n'ebbe risposte lente, ingannevoli, ma nuove protestazioni di amicizia e di pace. Venne in Napoli, e qui, per troppo sdegno meno finto il discorso, udì che la occupazione di Pontecorvo era stata accordata col sovrano del luogo; che se i nemici del papa entrassero ne' suoi Stati, vi entrerebbero per altra frontiera i Napoletani; ma che frattanto rimarrebbe fede all'armistizio. Cacault, delle risposte dissimulate del pontefice, altiere del re, menzognere di entrambo, avvisò il governo di Francia e il generale d'Italia. E si stava in punto delle mosse quando giunse nuova che Buonaparte, visti gli errori di Wurmser, assaltate or l'una or l'altra le divise squadre imperiali, per tre battaglie le ruppe, e ritornò all'assedio di Mantova trovando nelle trinciere gran parte de' monumenti colà rimasti; però che tanto celere fu la vittoria, che mancò tempo al presidio, come poco innanzi era mancato agli assediatori, di trasportare o distruggere macchine ed opere. Tremarono i governi contrari alla Francia, quanto più mentitori e superbi, tanto più timidi e vili. La corte di Roma riprotestò l'amicizia, ma i Francesi occuparono le Legazioni, e non concederono sospension d'armi che a patti gravi per la Santa Sede. Il re delle Sicilie, pregando che l'armistizio di Brescia divenisse pace durevole, spedi ambasciatore a Buonaparte e al Direttorio il principe di Belmonte, il quale in Parigi, gli 11 di ottobre, ottenne pace ai seguenti patti:

«Napoli, sciogliendosi dalle sue alleanze, resterà neutrale; impedirà l'entrata ne' suoi porti a' vascelli, oltre il numero di quattro, de' potentati che sono in guerra; darà libertà a' Francesi carcerati ne' suoi dominii per sospetto di Stato; intenderà a scuoprire e punire coloro che involarono le carte al ministro di Francia Makau; lascerà libero a' Francesi il culto delle religioni; concorderà patti di commercio che diano alla Francia ne' porti delle due Sicilie que' medesimi benefizi che le bandiere più favorite vi godono, riconoscerà la repubblica Bàtava, e la riguarderà compresa nel presente trattato di pace».

E per patti secreti:

«Il re pagherà alla repubblica francese otto milioni di franchi (due milioni di ducati); i Francesi, prima che si accordino col pontefice, non procederanno oltre la fortezza di Ancona, né seconderanno i moti rivoluzionari delle regioni meridionali dell'Italia».

Questo ultimo patto, e il silenzio su i Napoletani prigionieri per cause di maestà, costarono al nostro erario un milione di franchi in doni e seduzioni; e perciò l'ingegno della tirannide e l'avarizia dei liberi governi fecero pagare a noi stessi l'infame prezzo delle nostre miserie. Quella pace non si stringeva (tanto il Direttorio era sdegnato contro Napoli) se Buonaparte non consigliava dissimular le ingiurie sino a che l'Austria fosse vinta ed oppressa. «Oggi, ei diceva, mancherebbero le forze al risentimento, e verrà certo il giorno punitore delle colpe presenti e delle future; perciocché gli odii de' barbari per la Francia non cesseranno prima che tuttioil nuovo diventi antico». In quel tempo le sorti della Repubblica erano prospere: l'esercito piemontese vinto, tre eserciti d'Austria disfatti, Mantova cadente, fermata pace con la Sardegna e con la Prussia e la Spagna, chetate le Russie per la morte dell'imperatrice Caterina e l'indole pacifica del successore, ordinati a repubblica e collegati alla Francia alcuni Stati d'Italia, tributari o neutri gli altri principi italiani. Così stavano le cose al finire dell'anno 1796.

XXIV. La pace, come già l'armistizio, essendo scaltrezze del governo di Napoli per aspettare miglior tempo alla guerra, vedevasi crescere di battaglioni l'esercito, di munimenti la frontiera, di tributi l'erario. Né cessando le provvidenze chiamate di sicurezza pubblica, ci gravavano due guerre, la esteriore, la interna; e i danni e i pericoli di entrambe. Una speranza rallegrò gli animi al sentire che, dopo la caduta di Mantova e le altre sventure degli eserciti d'Austria, fermato armistizio, si apriva in Leoben conferenza di pace; e che negoziatore per lo Impero fosse il marchese del Gallo, ambasciatore a Vienna della corte di Napoli. Egli sul confine della giovinezza, di sottile ingegno, e tale in viso che appariva ingenuo più del vero, piacque allo imperatore che lo mandò, avuta permissione dal re di Napoli, a trattare in Leoben con Buonaparte. Tenemmo ad onore che un Napoletano maneggiasse l'occorrenza più grande di Europa, e confidavamo che i nostri interessi non sariano traditi o negletti. Sospesa la guerra; riaperte le strade d'Italia con Alemagna, posate le ansietà de' sovrani di Vienna e di Napoli, fu loro cura il viaggio dell'arciduchessa Clementina per venire sposa del principe Francesco; nozze, come ho detto altrove, fermate sette anni avanti, e non celebrate per la età infantile d'ambo gli sposi. L'arciduchessa andava a Trieste, dove navilio napoletano l'attendeva; lo sposo la incontrava a Manfredonia; le religioni del matrimonio si fecero a Foggia. Accompagnarono il principe i regali genitori, con seguito infinito di baroni e di grandi; e, celebrate in giugno le nozze, tornarono in Napoli nel seguente luglio, tra feste convenevoli ad erede della corona. Il re, dispensando largamente premii e doni, nominò il general Acton capitan‑generale, nulla più restando, per entrambo, a donare, a ricevere; inaridito il favore e l'ambizione. Quindi coprì quarantaquattro sedi vescovili, rimaste lungo tempo vacanti per goder delle entrate; diede gradi, titoli e fregi di onore per azioni di guerra o di pace. Solamente la sposa, vaga giovinetta che di poco soperchiava i quindici anni, mostrava in volto certa mestizia, più notata nella universale allegrezza e più compianta. Il re diede a parecchi Foggiani titolo di marchese, in ricompensa del maraviglioso lusso nelle feste delle regali nozze; e subito mutarono i costumi di quelle genti, che, agricoli o pastori, si volsero alle soperchianze del gran commercio ed agli ozii de' nobili: ozii crassi perché nuovi e insperati. Così le dignità mal concesse accelerarono il decadimento della città, compiendo in breve ciò che lentamente i vizi della ricchezza producevano.

XXV. In quell'anno fu menato schiavo da pirata tunisino il principe di Paternò, come racconterò brevemente, perché il fatto racchiude parti pubbliche, e perché di quel principe dovrò dire lungamente in altro libro. Egli, nobile, ricchissimo, e di ricchezze milantatore orgoglioso, veniva di Palermo, sua patria, in Napoli presso il re agli officii di corte, sopra nave greca‑ottomana, perciò franca da' pirati; e seco viaggiavano altri signori e un mercante di gioie e di oro. Per tante ricchezze accesa la cupidigia del Greco, accordatosi co' pirati che scorrevano i mari della Sicilia, fu predato il legno poco lontano dal porto; e i ladroni, carichi e lieti del bottino, portarono in ischiavitù i viandanti. ‑ Il principe della barbara prigionia scrisse lettere miserevoli al re, il quale impose al suo ambasciatore presso la porta di cercar vendetta de' pirati, e maggiore e più giusta del perfido Greco. Quindi rispose al Paternò sensi amorosi, promettendo regia protezione presso il governo turco, assumendo paterna cura della famiglia, ed esortandolo a cristiana filosofia nella schiavitù. I richiami presso la Porta nulla valsero ' fuorché a protestazioni di amicizia e di zelo; ma i rei non furono puniti, le involate ricchezze (duecento mila ducati) non rendute, né fatto libero il principe prima del riscatto di un milion di piastre. Per lo che scemò, non cadde la sua ricchezza.

XXVI. Non era guerra in Italia se non de' Francesi col papa, il quale manteneva in armi molte milizie sotto l'impero del Colli, generale­tedesco, e faceva erger campi ed altre opere militari su la frontiera; quindi scrisse all'imperatore, gli ostili proponimenti, e rassegnando le sue forze, conchiudeva: «Se non bastassero, aggiungerei forze di Dio, dichiarando guerra di religione>>. Buonaparte pubblicò il foglio venutogli in mano per intercetto corriere; ed avvisando di que' fatti il Direttorio, mosse le schiere con editto che diceva: «Il papa ricusa di seguire il fermato armistizio; mostrasi lento e schivo alla pace, leva nuove milizie, arma i popoli a crociata, cerca alleanza con la casa d'Austria; rompe, viola, calpesta le giurate fedi. L'esercito della Repubblica entrera nel territorio romano. difenderà la religione, il popolo, la giustizia; guai solamente a chi ardisse di contrastargli». Nel qual tempo scriveva il Direttorio a Buonaparte: La religione romana, irreconciliabile con le repubblicane libertà, essere il pretesto e l'appoggio de' nemici della Francia. Egli perciò distruggesse il centro della unità romana, e, senza infiammare il fanatismo delle coscienze, rendesse odiato e spregevole il governo de' preti; si che i popoli vergognassero d'obbedirgli, e '1 papa e i cardinali andassero a cercare asilo e credito fuori d'Italia». Ma nella mente di Buonaparte i tempi e i destini di Roma non erano maturi.

Le schiere di lui, Francesi e Italiani delle nuove repubbliche, fugati facilmente i papahni, occuparono le tre Legazioni, parte delle Marche, Perugia e Foligno. Buonaparte in Ancona ordinava meno la guerra che la politica degli Stati nuovi, quando il principe di Belmonte, ambasciatore di Napoli, gli riferì essere desiderio del suo re che l'armistizio tra '1 papa e la Repubblica fosse guida e principio della pace. E poiché Buonaparte, numerando i sofferti oltraggi, diceva impossibile l'adempimento di quel desiderio, il principe, per semplicità o astuzia, ma incauto, mostrò i mandati del suo governo; e il generale vi lesse: «Degli affari di Roma essere il peso cosi grave all'animo del re, ch'egli in sostegno degli amichevoli officii avrebbe mosso l'esercito>>. Al che l'altro: «Non ho. tre mesi addietro, abbassato l'orgoglio pontificale, perché supposi il re di Napoli confederarsi contro la Francia, in tempi ne' quali guerra maggiore impediva rispondergli. Oggi, (senza scemare gli eserciti acquartierati, solo per prudenza, incontro all'Austria) trentamila Francesi sciolti dall'assedio di Mantova, e quarantamila già mossi dalla Francia stanno liberi e vogliosi di guerra. Se dunque il re di Napoli alza segno di sfida, voi ditegli che io l'accetto». Cosi a voce. Rispondendo alla nota scrisse cortesemente, essere gravi i mancamenti del pontefice, più grande la modestia della Repubblica; trattar quindi la pace, ma togliendo a Roma le armi temporali e confidando alla sapienza del secolo vincer le sacre; essergli gradevole aderire alle commendazioni de' Sovrani di Napoli e di Spagna.

La pace con Roma fu poco appresso conchiusa in Tolentino; e per essa il pontefice, oltre milioni di danaro e cavalli ed armi e tesori d' arti e di lettere, perdé i dominii delle Legazioni e della fortezza di Ancona; restò impoverito, adontato e scontento. Gli stati passati alla Francia ottennero di ordinarsi a repubblica per legge; gli Stati vicini, per tumulti. E nella stessa Roma i cittadini, ricordando la gloria, senza la virtù, degli avi, si levarono parecchie volte a ribellione; ma perché pochi, e imprigionati i capi, dispersi gli altri, fu sempre misera la fine. La plebe parteggiava dal pontefice, non per affetto, ma per impeto cieco, disonesti guadagni e impunità. Era dicembre. Alcuni patriotti (così erano chiamati gli amanti di repubblica) inseguiti da birri, fuggirono per asilo nella casa dell'ambasceria di Francia; e con seco entrarono i persecutori ed alcuni del popolo. Il luogo, gli usi, l'onore di proteggere gli oppressi, e l'aura e il nome francese, fecero che tutti dell'ambasceria si ponessero a scudo de' fuggiti; ma quelle cose istesse, e l'aspetto di ragguardevoli personaggi nulla ottennero dagli assalitori, i quali uccisero il generale Duphot, chiaro in guerra, e minacciarono l'ambasciatore Giuseppe Buonaparte, fratello al vincitore d'Italia. Nella città si alzò tumulto; nel Vaticano niente operavasi a sedarlo, né a punire o ricercare gli assassini di Duphot. Era scorso il giorno; molte lettere aveva scritte l'ambasciatore a' ministri di Roma; nessun uomo, nessun foglio del governo rassicurava gli animi e le vendette. Perciò, abbassate le insegne di Francia, partirono da Roma i Francesi, e tornò lo stato di guerra. Il governo romano, a quegli aspetti di nemicizia, spedì oratori al ministro di Francia, e lettere a' potentati stranieri, delle quali caldissime e preghevoli al vicino sovrano delle Sicilie. Ma niente poteva quanto il disdegno del Direttorio, e de' popoli francesi e italiani; fu rammentata la morte di Basville, le brighe del Vaticano, le paci sempre tradite, le promesse mancate, le necessità di cacciare d'Italia la carie che da tanti secoli la rode. E fu subita la vendetta; ché il 28 del dicembre morì Duphot, e il 25 di gennaio le schiere francesi movevano di Ancona contro Roma, per comando venuto da Parigi.

Le guidava il general Berthier, poiché Buonaparte, fermata la pace di Campoformio, era andato in Francia, per trionfare, non come gl'imperatori dell'antichità (però che alla repubblica francese mancò il senno di ravvivare l'augusta cerimonia del trionfo), ma per pubbliche lodi e accoglienze. Il presidente del Direttorio lo chiamò l'uomo della provvidenza; in tutte le adunanze, ne' circoli, tra le moltitudini, si ripeteva ciò che stava scritto sopra bandiera donatagli dalla repubblica. «Ha disfatto cinque eserciti; trionfato in .diciotto battaglie e sessantasette combattimenti; imprigionato centocinquantamila soldati. Ha mandato centosettanta bandiere alle case militari della Francia; milacentocinquanta cannoni agli arsenali, duecentomilioni all'erario, cinquantuno legni da guerra a' porti; tesori d'arti e di lettere alle gallerie e biblioteche. Ha fermato nove trattati, tutti a gran pro della repubblica. Ha dato libertà a diciotto popoli». Ma più che il desiderio del trionfo, egli portava il disegno di altra guerra, e la speranza di maggiori glorie. Per la pace di Campoformio ebbe la Francia frontiere più vaste, meglio difese tra l'Alpi e il Reno; sorse la repubblica Cisalpina, e spuntarono altre repubbliche; fini la Veneta; e per i suoi Stati ceduti all'Impero si agguagliarono le disparità di dominio che le nuove frontiere avean prodotte; fu misera la sorte dei Veneziani, ma condegna di popolo tralignato. Il re delle Sicilie riconobbe la repubblica Cisalpina. Parve durevole quella pace perché dando alla Francia confini desiderati e naturali, ed all'Austria benché sempre vinta, una frontiera in Italia meglio configurata dell'antica, e dominii più vasti, e maggior numero di soggetti, soffrivano danno alcuni principi del Corpo germanico incapaci di guerra, e la repubblica veneziana, prima invilita e allora spenta. I negoziatori d'ambe le parti ebbero premii da' proprii governi,  lodi dal mondo; il marchese del Gallo, che aveva sostenute le ragioni dell'Impero, tornò in Napoli ricco di doni e di fama.

XXVII. Erano altri che di pace i destini di Europa; e di già la turbavano i r, negando ascolto agli ambasciatori del

fatti di Roma. Vi generale Berthier, papa ed agli offizii delle corti di Vienna, Napoli e Spagna, fece chiaro il proponimento di guerra. E allora in Roma la moribonda potestà concitò alle difese, lusingando la coscienza dei popoli con le arti sacre di. processioni, preghiere, e giubileo; e col trovato del cardinal Caleppi che le immagini delle madonne, rispondendo al pianto de' sacerdoti, versavano dalla tela e dal legno lagrime vere. In mezzo alle processioni e miracoli pervenne in città l'editto di Berthier, che annunziava già vicino l'esercito punitore degli assassini di Duphot e di  Basville, ma proteggitore del popolo e delle sue ragioni, obbediente alla disciplina: timori, speranze, agitazioni, secondo le parti, si levarono. E poco appresso all'editto il lucicare delle armi, e le bandiere dei tre colori, viste sopra i colli di Roma, bastarono ai novatori per adunarsi tumultuosamente a Campovaccino; e gridando libertà, ergere l'albero che n'era il segno. Ambasciatori della non ancora nata repubblica andarono a Berthier, attendato alle porte di Roma, per pregarlo di entrare in città e stabilire gli ordini nuovi coi diritti sovrani del popolo e della conquista. Egli, entrando pomposamente per armi, suoni e plausi, decretò cessato A tirannico impero de' preti, e ristabilita la repubblica di Roma da' discendenti di Brenno, che davano libertà nel Campidoglio a' discendenti di Camillo; rammentava Bruto, Catone ed altri nomi e memorie che rialzavano la eloquenza del discorso, e la solennità di quell'atto. Ciò ai 15 di febbraio dell'anno 1798. Il pontefice Pio VI, in que' tumulti chiuso in Vaticano ignaro di governo, immobile, silenzioso, avrebbe fatto maraviglia di serenità e di filosofica rassegnazione se necessaria pazienza non togliesse virtù a quelle mostre. Non governava, né partiva; era intoppo e scandalo alla repubblica; della quale andato ambasciatore il general Cervoni per chiedergli che in qualità di pontefice riconoscesse il nuovo Stato, egli, preparato alle risposte, disse: «Mi vien da Dio la sovranità; non mi è lecito rinunziarla. Ed alla età di ottanta anni non mi cale della persona e degli strazii». Bisognando a discacciarlo i modi della forza, fu investito il Vaticano, disarmate le guardie pontificie, scacciati i famigli, messo il suggello agli appartamenti, e infine impostogli che in due giorni partisse. Obbedì, e il dì 20 di quel mese, con piccolo corteggio, uscì di Roma per la vólta di Toscana.

Io ne compio la istoria. Si fermò a Siena, ma, spaventato da' tremuoti, passò alla Certosa di Firenze; e poi (per sospetti e comandamenti della repubblica francese) a Parma, a Tortona, a Turino, a Briançon. Sommo pontefice, cadente per estrema vecchiezza, infermò, afflitto, era portato prigioniero di città in città, partendosi prima degli albòri ed arrivando nella notte per celarlo alle viste de' divoti. Né a Briançon quietò, ma fu menato nella fortezza  di Valenza; e di là volevano trasportarlo a Dijon; ma ne fu libero per morte desiderata, che lo colpì ai 29 di agosto del 1799. Posero le spoglie in oscuro deposito dove restarono sino a che decreto consolare, segnato Buonaparte, non dicesse. «Considerando che il corpo di Pio VI sta da sei mesi senza gli onori del sepolcro; che sebbene quel pontefice fosse stato, quand'ei vivea, nemico alla Repubblica, lo scusano vecchiezza, perfidi consigli e sventure; che è degno della Francia dare argomento di rispetto ad uomo che fu de' primi della terra; i consoli decretano che le spoglie mortali di Pio VI abbiano sepoltura conveniente a pontefice; e che si alzi monumento che dica di lui nome e dignità». Fu eseguito il decreto; quindi le ceneri trasportate in Roma, e deposte nel tempio di san Pietro sotto il pontificato ‑del successore.

XXVIII. Alla partita di Pio VI fuggirono da Roma le antiche autorità, cardinali, prelati, personaggi più chiari; venutane gran parte in Napoli, ad accrescere la pietà per i sacerdoti, lo sdegno per la Francia. Si vedevano lungo le frontiere di Abruzzo e del Liri, stendardi, squadre francesi, alberi di libertà; e con essi, spogli, violenze, povertà di cittadini, e, sotto specie di repubblica, vera tirannide. Chi prevedeva i futuri benefizi di stato libero tollerava le passeggiere licenze della conquista; chi giudica e vive del presente, abborriva e temeva gli ordini nuovi. Cosicché per i Napoletani la vicina libertà fu più ritegno che stimolo all'esempio. E generale Balait venne messaggero di Berthier per chiedere al nostro governo l'esilio degli emigrati, il congedo dell'ambasciatore inglese, la espulsione del generale Acton, il passaggio per il territorio napoletano a' presidii di Benevento e Pontecorvo.

E soggiungeva che il re, oggi feudatario della repubblica romana, perchè già della Chiesa, offrisse ogni anno il solito tributo, e pagasse in quel punto centoquarantamila ducati, debiti alla camera di Roma. Così per ambasciata; e il re sapeva che i suoi Stati Farnesiani erano, come di nemico, sottoposti a sequestro. Ira giusta e grande lo prese; e rispondendo all'ambasciatore che ne tratterebbero, per ministri, i due governi; fatto occupare con buone squadre le città di Pontecorvo e Benevento, afforzò le linee della frontiera.

Perciò sdegni, le condizioni della guerra, fuorché le battaglie, travagliavano le due parti.

Tra le quali agitazioni venne riferito da Sicilia, che la flotta già di Venezia, ora francese, sciolta da Corfù, correva il mare di Siracusa; e, giorni appresso, che ne' porti dell'isola erano approdati legni innumerevoli francesi, da guerra, da trasporto, carichi di soldati e cavalli; altri avvisi soggiunsero, esserne partiti; ed altri, che l'isola di Malta scacciatone l’Ordine de' cavalieri, era stata presa a da' Francesi, e subito il naviglio salpato per novelli destini; che Buonaparte stava imbarcato sul vascello l'Oriente; che il disegno era ignoto, smisurati gli apparecchi. Alle quali notizie il governo di Napoli, più temendo per la Sicilia che per l'altro regno, fece ristaurare le antiche fortezze, alzar nuove batterie di costa, meglio guardare i porti, presidiare l'isola di ventimila soldati, e quaranta migliaia di milizie civili, concertare i

segnali a prender l'armi, e i luoghi dove accampare. E a maggiori cose provvedendo, strinse nuove alleanze, ma secrete, con l'Austria, la Russia, la Inghilterra, la Porta. Delle quattro confederazioni uno il motivo: la vendetta;

uno il pretesto, ristabilire la quiete di Europa. Per l'alleanza con l'Austria, durevole quanto la guerra, l'imperatore terrebbe stanziati nel Tirolo e nelle sue province italiane sessantamila soldati; il re nelle sue frontiere, trentamila­

e l'uno e l'altro accrescerebbe il numero quanto il bisogno; quattro fregate napoletane correrebbero l'Adriatico in servizio delle due parti. Il ministro  Thugut per l'Austria, il duca di Campochiaro per Napoli, fermarono trattato, a Vienna, il 19 di maggio del 1798.

L'imperatore di Russia Paolo I fu magnanimo, concedendo senza prezzo o mercede una flotta in difesa della Sicilia, e battaglioni di soldati, duecento Cosacchi, le corrispondenti artiglierie di campagna, per combattere in Italia sotto il generale supremo del re di Napoli. Alleanza per otto anni, fermata in Pietroburgo il 29 di novembre dal marchese di Serracapriola per le nostre parti, e da Bezborodko, Kotschoubey e Rostpochin per la Russia. L' imperatore amava Serracapriola, che n'era degno per prudenza e virtù. La lega con la Inghilterra, negoziata il lo del dicembre in Londra tra '1 marchese del Gallo e '1 cavaliere Hamilton, stabiliva che la Gran Bretagna terrebbe nel Mediterraneo tanto naviglio che soperchiasse al navilio nemico; e Napoli vi unirebbe quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori; e darebbe al bisogno dell'armata inglese del Mediterraneo tremila marinari di ciurma. E infine con la Porta ottomana ripeterono in quei giorni medesimi le proteste antiche di amicizia, quello imperatore promettendo a richiesta del re dieci migliaia di Albanesi.

XXIX. Le cure di guerra grandi e sollecite non distoglievano dalle tristizie de' processi, ed anzi per nemico più vicino e felice imperversarono i sospetti; le autorità di polizia vedevano in ogni giovine un congiurato; in ogni moda o foggia di investimento un segno di congiura; la coda dei capelli tagliata, i capelli non incipriati, i peli cresciuti sul viso, i calzoni allungati sino al piede, i cappelli a tre punte e piegati; certi nastri, o colori, o pendagli, erano colpe aspramente punite, apportando prigionia e martorii come in causa di maestà. Quindi stavano le carceri piene di miseri, le famiglie di lutto, il pubblico di spavento; e tanto più che profondo silenzio copriva i delitti e le pene. Alcuni prigionieri erano stati uditi, altri non mai; nessuno difeso, come la tirannide usa con gl'innocenti.

Benché nuova legge stabilisse che la infamia per i delitti o le pene di maestà non si spandesse nel casato, ma rimanesse intera sul colpevole, e benché fosse vietato, tanto più nella reggia, difendere o raccomandare i creduti rei, pure due donne, madri di due prigioni, la duchessa di Cassano e la principessa Colonna, questa grave d'anni; quella uscita di giovinezza, entrambe specchii di antica costumatezza, vinte dal dolore, andarono in vesti nere alla regina; e or l'una or l'altra confusamente parlando e piangendo insieme, la pregarono in questi sensi: «Vostra maestà, che è madre, può considerare il dolor nostro, che madri siamo di miseri figliuoli. Eglino da quattro anni penano in carcere, e quasi ignoriamo se vivono. Le nostre case stanno in lutto; genitori, sorelle, parentado, non troviamo quiete, e dalla prima orrida notte non spunta riso da' nostri labbri. Senta pietà di noi, ci renda i figli e la pace; e Dio la rimuneri di queste grazie con la felicità della sua prole». Ma se fossero rei? la regina riprese. Ed elle per dolore affrettando a discorso, ad una voce replicarono: «Sono innocenti; lo attesta il silenzio, degl'inquisitori, la tenera età de' nostri figli, e gli onesti costumi, la religione verso Iddio, l'obbedienza che ci portavano, e nessuna macchia, nessun fallo, nemmeno que' leggieri che si perdonano all'inesperta gioventù». Né altro dissero, instupidite e accomiatate. Più dei discorsi l'aspetto dolentissimo e la egregia fama delle donne commossero la regina; non così da far grazie alla reità degli accusati, ma perché sospettò della innocenza. Ella, inflessibile a' rei, non bramava travagliare i giusti; diversa da' ministri suoi, che dall'universale martirio traevano grandezza e potere. Quei principi, credendo ad inique genti, furono spietati non ingiusti: sino ad altre età, che, non più ingannati, ma volontari, cruciarono i soggetti, innocenti o rei, per amore di parti e insazietà d'impero.

Ma in quell'anno 1798, men guasto il senno e l'animo di loro, il re, dopo il riferito discorso delle due donne, scrisse lettere alla Giunta di Stato che imponevano di spedire A processo degli accusati di maestà, i quali da quattro anni languivano nelle prigioni, stando in sospeso la giustizia, con grave danno dell'esempio, e forse travagliando immeritamente gran numero di sudditi infelici. Per quello stile di pietà, nuovo, inatteso, intimorendo la Giunta (ché tutti tremano della tirannide; chi la esercita, chi la sopporta), i due primari inquisitori, Castelcicala e Vanni, consultarono. Nulla i processi provavano, ed eglino, temendo l'ira de' principi, le grida popolari, la vendetta degli accusati, macchinarono partiti estremi e disperati, cosicché a tutti, raccolti nel seguente giorno in magistrato, letto il messaggio del re, vista la necessità di spedire i referti, Vanni disse: «I processi, che sono tanti, almeno quanti gli accusati, voi vedrete compiuti nelle parti che agli inquisitori spettavano; manca per la pienezza la pruova antica, la tortura, che i sapienti legislatori prescrissero indispensabile ne' delitti di maestà, ed anche allora che le altre pruove soperchiassero. Così per legge, ne' casi presenti tanto più necessaria, perché incontrammo rei pertinaci al mentire o al tacere; promessa di comune silenzio chiude le labbra di que' malvagi, ma forza‑ di giustizia e di tormenti snoderà la parola, da infame sacramento rattenuta. Io, nella qualità che il mio re mi ha concessa, d'inquisitore e di fiscale, dimando che i principali colpevoli, cavaliere Luigi de'Medici, duca di Canzano, abate Teodoro Monticelli e Michele Sciaronne, sieno sottoposti allo sperimento della tortura, nel modo più acerbo prefisso dalla legge con la formola torqueri acriter adhibitis quatuor funiculis. Dopo del quale atto, compiuta la procedura, io dimanderò in nome del mio re quali altri esperimenti crederò necessari alla integrità delle pruove. Non vi arresti, o giudici, debole ritegno di martoriare que' colpevoli, che voi stessi a maggior martoro e più giusto condannerete, quando tra poco si tratterà non del processo ma del giudizio». Ciò detto, levossi dalla seggia, e girando intorno il viso imperterrito, di pallore naturale ricoperto, con sguardi terribili come di fiera, soggiunse: «Son due mesi che io veglio, non di fatica su i processi, ma di affanno per i pericoli corsi dal mio re; e voi, giudici, vorrete sentir pietà d'uomini perfidi, che le più sante cose rovineranno, se gli aiuta fortuna, e non gli opprime giustizia? E perciò, ripetendo la istanza per la tortura de' rei maggiori, io vi esorto alla giustizia, alla fede verso il re, alla intrepidezza, ch'è la virtù più bella di giudici chiamati a salvare un regno».

Il magistrato Mazzocchi presidente della Giunta, rispose al Vanni: «Pompeggia su i vostri labbri la frase di mio re, nella quale nascondete, sotto specie di zelo, soperchianza e superbia; dite d'ora innanzi, e meglio direte, nostro re». Poi vólto a' giudici, e chiesto il voto su la istanza del Vanni, tutti la ributtarono come spietata ed inutile, però che l'inquisitore avea tante volte accertato evidenti le pruove, chiari i misfatti e i colpevoli. Solo fra tutti alzò minaccioso la voce il principe di Castelcicala, che, sostenendo gli argomenti dell'inquisitore, ed aggiungendo i suoi, diceva giusta e necessaria la dimandata tortura; chiamava quella riluttanza de' giudici debolezza o colpa; ne optava la coscienza e la timidezza, con dire che il re ne prenderebbe vendetta. Tutte le insidie adoperò, che forse egli medesimo ha obliate; ma oggi la storia le palesa perché vadano di età in età, con le debite infamie, agli avvenire. Bramava il Castelcicala la tortura del Medici, sperando che vi morisse di vergogna e di dolore; o che scampato, restasse inabile agli offizii, infamato se non d'altro, dalla infamia della pena. Ma rimasto fermo il voto de' più, la Giunta rispose al regale messaggio, essere compiuti i processi, per quanto volevano le leggi, ed avea suggerito l'ingegno e l'arte degl'inquisitori;. mancar null'altro che il giudizio; ma essere la Giunta nominata solamente ad inquisire.

Il re compose altra Giunta della quale il medesimo Vanni fiscale. I processi che questi diceva forniti e portava in giudizio, riguardavano ventotto accusati; tra' quali udivansi nomi chiari per nobiltà, de' Medici, Canzano, di Gennaro, Colonna, Cassano; ed altri chiarissimi per dottrina, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Domenico Bisceglie, Teodoro Monticelli. Il fiscale, riferendo le denunzie, le colpe, le pruove, amplificandole a danno, e tacendo le scuse, dimandava per cinque la morte, preceduta dai tormenti della tortura, spietati come sopra cadaveri, sia per incremento di supplicio, sia per tirarne altri nomi di complici e di fautori. Al Medici e ad altri tre (que' medesimi accennati dalla Giunta d'inquisizione) la sola tortura, per gli argomenti già riferiti, ed ora con maggior impeto ripetuti. E per i rimanenti diciannove, continuazione di carcere e di procedura, sperando migliori pruove dalle confessioni per tortura, e dal tempo. Parlarono a difesa gli avvocati, e benché magistrati scelti dal re a quell'uffizio, amanti e devoti alla monarchia, rotti nel discorso e tempestati dal Vanni, sostennero animosa­ mente le parti degli accusati. Giusti furono i giudizii, che ne decretarono la innocenza e la libertà. Usciti dal penoso carcere quei ventotto ‑ ed altri parecchi, la dimostrata ingiustizia della prigionia, la morte in essa di alcuni miseri, e '1 racconto de' patiti strazii, generarono lamento universale; tanto che il governo, per iscolparsene, unì il suo sdegno allo sdegno allo sdegno comune, ed indicando il Vanni fabbro di falsità lo depose di carica, lo cacciò di città, l'oppresse di tutti i segni della disgrazia; il principe di Castelcicala, suo compagno alle colpe, se ne mondò, gravandone il suo amico infelice; il general Acton simulò di allontanarsi da' carichi dello Stato; altri uomini, altre forme si videro nel ministero, ma le cose pubbliche non mutarono. Sgomberate le carceri di alcuni prigioni, ripopolavansi di molti; gli stessi uomini malvagi rimasero potenti; le spie, la polizia, i delatori non caddero né cemarono; Castelcicala fu ministro per la giustizi ed al Vanni passavano nè secreto ricchi stipendii e consolatrici promesse.

XXX. In mezzo alle riferite male venture della città, si udì arrivato in Egitto il naviglio di Francia, e sbarcati con Buonaparte quarantamila soldati, che prendevano il cammino di Alessandria. Palesato il disegno di quella impresa, il napoletano governo i rinfrancò per vedere allontanato il pericolo dalla Sicilia; ed accolse, e spandeva le voci trovate dalla malignità, che dicevano scaltrezza del Direttorio cacciare della repubblica uomo ambizioso e potentissimo, e mandarlo in paese dove perderebbe vita o riputazione per nemico infinito, e clima pestifero ed invincibile. Pochi dì appresso giunse nuova della battaglia navale di Aboukir, per la quale l'ammiraglio inglese Nelson, arditamente manovrando, aveva prese o bruciate le navi di Francia, ancorate dopo il disbarco dell'esercito in quella rada, stoltamente sicure dagli assalti: talune da guerra fuggirono in Malta, ed altre poche da trasporto nelle rade siciliane di Tràpani e Girgeti, dove gli abitanti, non fedeli alla pace, spietati alla sventura di quelle genti, e sordi alla carità di rifugio, ricevettero i Francesi ostilmente, negando asilo, predando i miseri avanzi della disfatta, uccidendo alcuni marinai, fugando i resti; mentre in Napoli si bandiva lietamente il commentario della battaglia. Poco di poi videsi far vela verso noi armata inglese, la stessa di Aboukir, accresciuta de' legni predati che navigavano senza bandiera, dietro a' superbi vincitori. Subito il re, la regina, il ministro d'Inghilterra e sua moglie, sopra navi ornate a festa, andarono incontro per molto cammino al fortunato Nelson; e, passati nel suo vascello, l'onorarono in varii modi; il re, facendogli dono di spada ricchissima, e di lodi sì allegre, che non più se la vittoria fosse stata della propria armata in salvezza del regno; la regina presentandogli altre ricchezze, tra le quali un gioiello col motto: All'eroe di Aboukir»; l'ambasciatore Hamilton ringraziandolo da parte dell'Inghilterra; e la bellissima Lady mostrandosi per lui presa di amore. Tutti vennero in Napoli alla reggia, tra pazza gioia che si propagò nella città; e la sera, come usa nelle felicità pubbliche o della casa, fu illuminato il gran teatro; dove al giugnere dei sovrani e di Nelson si alzarono dal popolo infinite voci di evviva, confondendo insieme i nomi e le geste. La regina, le dame della corte, le donne nobili, portavano fascia o cinto gemmato, con lo scritto: «viva Nelson». Intanto le navi trionfanti e le vinte, ancorarono, contro i trattati, nel porto: ed allora l'ambasciatore di Francia, Garat, presente a' fatti, e schernito documento di pace tra i due governi, facendo oneste lamentanze ai ministri di Napoli, senti rispondere che i legni inglesi erano stati accolti per la minaccia dell'ammiraglio di bombardare (quando fosse negato l'ancoraggio) la città: non dando, per la concitata pubblica gioia, né scusa, né risposta.

 


 

 

 

 

CAPITOLO X          GUERRA SVENTURATA CONTRO LA REPUBBLICA FRANCESE. MOTI NEL REGNO. FUGA DEL RE. VITTORIA E TRIONFO DELL'ESERCITODI FRANCIA

 

XXXI. Il governo di Napoli scopertamente operava perché nuova confederazione contro la Francia erasi stretta in Europa, ed egli teneva prefissa e pronta la guerra. 1 sovrani d'Inghilterra, d'Austria, di Russia, delle Sicilie, vedendo scemate in Italia le squadre francesi chiamate all'esercito del Reno o trasportate in Egitto, e sapendo lontano l'uomo invitto, formarono nuovi eserciti a più vasti disegni. Muoverà il Tedesco in Lombardia sessantamila combattenti, e dietro il Russo; Napoli quarantamila; navilio inglese correrà i mari dell'Italia, la Gran Bretagna fornirà gli alleati di danaro, armi e vestimenti. Si aspettava per le mosse che il più crudo verno fosse passato.

Napoli, nel settembre del 98, aveva fatto nuova leva di quarantamila coscritti, con modi tanto solleciti che, non per volere di sorte o di legge si toglievano i cittadini alle comunità, i figli alle famiglie, ma per arbitrio de' ministri e per necessità di tempo; perciocché senza preparamenti o scrutinio, in un sol giorno, due di quel mese, ogni comunità dovea fornire otto uomini per mille anime; dalla quale fretta derivarono infinite fraudi ed errori, infinite scontentezze o lamenti. Ogni coscritto, ricordando le patite ingiustizie, tenevasi vittima dell'altrui forza; e, parendogli che nessun dovere, nessun sacramento, nessun fatto giusto l'obbligasse alla milizia, solo vi stava per timor della pena. I nuovi coscritti, uniti agli antichi soldati, empievano l'esercito di settantacinquemila combattenti, soperchii per le fermate alleanze, non anco bastevoli a' concetti. E a tante squadre mancando il condottiero, venne d'Austria il generale Mak, noto per le guerre di Germania dalle quali, benché perdente, usci accreditato di sapienza nell'arte e di valore nelle battaglie. Onorato dal re, da' cortigiani e dall'esercito, rassegnò le schiere spicciolatente, senza percorrere la frontiera; però ch'ei mirava, non alle difese, alle conquiste: conferì per le idee principali della guerra col generale Parisi, per la fanteria col generale de Gambs, per la cavalleria co' principi di Sassonia e di Philipstadt, per l'artiglieria col general Fonseca: i pochi suoi detti passavan da labbro in labbro, ammirati come responsi di oracolo. Accertò il re avere esercito pronto ad ogni guerra; e fu creduto.

La regina, irrequieta, volea prorompere negli Stati romani; agevolata gl'Inglesi che, tenaci alla guerra, temevano il congresso già convocato a Rastadt per la pace. Stava perciò in Napoli, sin dal settembre, il barone di Awerveck, confidente di Pitt, viaggiatore oscuro, ma potentissimo, amico a Repuin, ministro di Prussia, a Metternich di Austria; motore tra i primi delle discordie nelle conferenze di Rastadt, consigliere all'orecchio de' nostri principi. Il re, nel quale intiepidiva l'amore di quiete, da che l'ira e i timori lo avevano alquanto allontanato dal grossolano vivere nei piaceri, chiamò consiglio per decidere o guerra o pace; e, se guerra, il tempo e il modo. Divise le sentenze, furono per la pace il marchese del Gallo, il ministro de Marco, i generali Pignatelli, Colli, Parisi; ma prevalendo l'autorità della regina, di Acton, di Mack, di Castelcicala, fu deciso di far guerra e subita, retta dal generale Mack, dissimulata sino alle mosse. Allora si spartì l'esercito in tre campi: attendarono in Sangermano ventiduemila soldati, negli Abruzzi sedicimila, nella pianura di Sessa ottomila; stavano altre sei migliaia nelle stanze di Gaeta, e navi da trasporto pronte a salpare per Livorno. Comandava il primo campo il general Mack, il secondo il general Micheroux, il terzo il generale Damas; dirigeva la spedizione preparata in Gaeta il general Naselli. Cinquantaduemila combattenti aspettavano il cenno a prorompere negli Stati romani; ma era il capo straniero e nuovo; erano i generali stranieri ancor essi o inabili alla guerra; gli uffiziali inesperti, i soldati, se allora coscritti, scontenti; se antichi, peggiori, perché usati alle male discipline di milizia sfaccendata o ribalda; gli usi di guerra nessuni, l'ordinarsi negli alloggiamenti, preparare il cibo, ripararsi dalle inclemenze delle stagioni, provvedere al maggior riposo, e, insomma, tutte le arti del miglior vivere, necessarie al sostegno delle forze, non praticate, né conosciute ne' campi. L'amministrazione mal regolata ingrandiva i disordini; le distribuzioni incerte, il giungere dei viveri non misurati coi bisogni, sì che spesso vedevi l'abbondanza dove mancava chi la consumasse, e presso a lei la penuria. Nello esercito serpeva potentissimo veleno e secreto: diffidanza scambievole de' minori e dei capi. Le milizie, stanziate in Abruzzo, furono spartite in tre campi: sul Tronto, ‑all'Aquila, a Tagliacozzo. Nel campo di Sangermano erano continui gli esercizi d'armi; e, benché in autunno piovosissimo sopra terreno fangoso e molle, si fingevano gli assalti e le difese come in guerra. Stavano in quel campo il re preparato a marciare con l'esercito, la regina, che, sopra quadriga con abito di amazzone, correva le file dei soldati, gli ambasciatori de' re amici, altri forestieri famosi o baroni del regno, e lady Hamilton, che, sotto specie di corteggiar la regina, faceva nel campo mostra magnifica di sua bellezza e pompeggiava la gloria di aver vinto il vincitore di Aboukir, il quale nel carro istesso mostravasi di lei e vago e servo. Né si stava oziosi negli alloggiamenti di Sessa e di Gaeta. Ma l'opera, continua ed accelerata, non poteva sulla brevità del tempo; uomini coscritti nel settembre, venuti per forza nell'ottobre, muovevano alla guerra ne' primi del novembre; sì che le braccia incallite a' ruvidi esercizi della marra non rispondevano alle destrezze dell'armi.

I Francesi, dalla opposta parte, quando videro gli apparecchi del re di Napoli, disposero la guerra, così che la frontiera fosse linea difensiva, centro in Terni, l'estrema diritta in Terracina, l'estrema sinistra in Fermo: l'ala manca assai forte da resistere; l'ala diritta solamente osservatrice, pronta meno a combattere che a ritirarsi; principale scopo il raccogliersi, e mantenere sicure le strade che menano in Lombardia. 1 nuovi consigli dagli eventi.

XXXII. Così, certa e non intimata la guerra, l'ambasciatore di Francia dimandò ragione delle vedute cose al governo di Napoli, che, ancora fingendo, rispose: tener guardata la frontiera napoletana perché quella di Roma era ingombra di soldati francesi; stare ne' campi le nuove milizie per istruirsi; egli bramar sempre pace con la Repubblica. Ma giorni appresso, il 22 novembre, comparve manifesto del re, che rammentando gli sconvolgimenti della Francia, i mutamenti politici della Italia, la vicinanza al suo regno de' nemici della monarchia e del riposo, l'occupazione di Malta, feudo de' re di Sicilia, la fuga del pontefice, i pericoli della religione: per tante ragioni e tanto gravi, egli guiderebbe un esercito negli Stati romani, a fine di rendere il legittimo sovrano a quel popolo, il capo alla Santa Sede cristiana, e la quiete alle genti del proprio regno. Che, non intimando guerra a nessun potentato, egli esortava le milizie straniere di non contrastare alle schiere napoletane, le quali tanto oltre avanzerebbero quanto solamente richiedesse lo scopo di pacificare quella parte d'Italia. Che i popoli di Roma fossero presti a' suoi cenni, ed amici; sicuri nella sua clemenza, egli promettendo di accogliere con paterno affetto i traviati che tornassero volontari all'impero della giustizia e delle leggi.

Così il manifesto. Lettere secrete de' ministri del re concitavano gli altri gabinetti d'Italia o i personaggi più arrischiati alle nemicizie ed alla guerra. Delle quali lettere una del principe Belmonte Pignatelli, scritta al cavalier Priocca, ministro del re di Piemonte, intercetta e pubblicata, diceva tra le cose notabili: «Noi sappiamo che nel consiglio del re, vostro padrone, molti ministri circospetti, per non dire timidi, inorridiscono alle parole di spergiuro e di uccisione; come il fresco trattato di alleanza tra la Francia e la Sardegna fosse atto politico da rispettare. Non fu egli dettato dalla forza oppressiva del vincitore>> non fu egli accettato per piegare all'impero della necessità? Trattati come questi sono ingiurie del prepotente all'oppresso, il quale, violandoli, se ne ristora alla prima occasione che il favor di fortuna gli presenta. Come, in presenza del vostro re prigioniero nella sua capitale, circondato da baionette nemiche, voi chiamerete spergiuramento non tener le promesse strappate della necessità, disapprovate dalla coscienza? E chiamerete assassinio esterminare i vostri tiranni? Non avrà dunque la debolezza degli oppressi alcuno aiuto legittimo dalla forza che gli opprime?» E poco appresso. «I battaglioni francesi, assicurati e spensierati nella pace, vanno sparsi per il Piemonte. Eccitate il patriottismo del popolo sino all'entusiasmo ed al furore; così che ogni Piemontese aspiri all'onore di atterrare a' suoi piedi un nemico della sua patria. Queste parziali uccisioni più gioveranno al Piemonte che fortunate battaglie; né mai la giusta posterità darà il brutto nome di tradimento a codesti atti energici di tutto un popolo, che va su i cadaveri degli oppressori al racquisto della sua libertà.

«I nostri bravi Napoletani, sotto il prode general Mack, soneranno i primi la campana di morte contra i nemici de' troni e dei popoli; saranno forse già mossi quando giungerà in vostre mani questo foglio ... »

XXXIII. Tai sensi atroci esponeva quel foglio, e già bandito il manifesto di guerra, le milizie napoletane, levando i campi, proruppero negli Stati di Roma. li generale Micheroux con diecimila soldati, valicato il Tronto, fugando dalla città di Ascoli piccolo presidio francese, avanzava per la strada Emilia sopra Fermo. Il colonnello Sanfilippo con quattromila combattenti, uscendo dal campo d'Aquila, occupava Rieti, progredendo a Terni. Il colonnello Giustini con un reggimento di fanti ed alcuni cavalli scendeva da Tagliacozzo a Tivoli per correre la Sabina; il general Mack, e seco il re, con ventiduemila soldati, mossi da Sangermano, marciavano per le difficili strade di Ceperano e Frosinone sopra Roma; dove il generale Damas dal campo di Sessa per la via Pontina conduceva ottomila combattenti. E nel giorno medesimo salpavano da Gaeta per Livorno molte navi cariche di seimila soldati, sotto l'impero del generale Naselli. Le quali ordinanze dimostravano che l'esercito di Napoli non andava formato in linea, non aveva centro; che le schiere di Sanfilippo e Giustini non legavano, perché deboli, l'ala dritta alla sinistra; che un corpo non assai grande, quello di Micheroux, assaltava la sinistra francese, la più forte delle tre parti di quello esercito; e che il maggior nerbo de' Napoletani, trentamila uomini, procedeva contro l'ala diritta, di poca possa, intesa a ritirarsi. Erano dunque le speranze di Mack, superare le parti estreme della linea francese, avvilupparle, spingere gli uni corpi sugli altri, confonderli nel mezzo ed espugnarli; mentre la legione del generale Naselli, per le forze proprie e le insurgenti della Toscana, molesterebbe il fianco delle schiere francesi fuggitive verso Perugia. Scarsi concetti. La figura della frontiera, la linea prolungata e sottile dell'esercito francese, la sua base in Lombardia, il numero delle nostre forze quasi triplo delle contrarie invitavano a sfondare (come si dice in guerra) il centro; e assalendo per il fianco le due ale nemiche, impedire che si aiutassero; e tagliare, se volesse fortuna, le ritirate nella Lombardia. Perciò, ne' casi nostri, andava diviso l'esercito in tre corpi. ventiseimila uomini all'Aquila per attaccar Rieti e Terni; dodicimila su la strada Emilia per combattere o impegnare l'ala sinistra francese; ottomila nelle Paludi Pontine per incalzar le piccole partite della diritta; mentre che la legione della Toscana, senza nemico a combattere, e coi popoli dalle sue parti, avrebbe corso il paese insino a Perugia per appressarsi a noi ed aiutarci nelle varie vicende della guerra. Solamente così l'inesperto e nuovo esercito di Napoli poteva superare per ingegno strategico e propria mole l'agguerrita e felice oste francese. Il resto della guerra dipendeva da' preparati tumulti nel Piemonte e dalla venuta in Italia dei Tedeschi.

Tali erano i consigli della ragione e dell'arte: ora narriamo i fatti. I corpi di Mack e di Damas, trentamila soldati, camminando sopra strade parallele, senza incontrare il nemico sollecito a ritirarsi, giunsero il ventinove di novembre a Roma; e il re, fatto ingresso pomposo, andò ad abitare il suo palazzo Farnese. I Francesi lasciato piccolo presidio in Castel‑Santangelo, si partirono, e con seco i ministri e gli amanti di repubblica; ma pur di questi alcuni, confidenti alle regali promesse di clemenza, o arrischiosi, o dal fato prescritti, restarono; e nel giorno istesso furono imprigionati o morti; due fratelli, di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al proprio re, furono per comando di lui presi ed uccisi. La plebe scatenata, sotto velo di fede a Dio ed al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei, operava disordini gravi e delitti. Vergogne del vincitore; che assai tardi nominò a Giunta di sicurezza i due principi Borghesi e Gabrielli, e i marchesi Massimi e Ricci: la plebe allora fu contenta. Sparirono i segni della oppressa repubblica, innalzando la croce dov'era l'albero di libertà, e congiugnendo in cima delle torri e de' pubblici edifizi le immagini e l'armi del pontefice con le insegne del re delle Sicilie. Il quale spedì messi a Napoli per annunziare la vittoria e ordinare nelle chiese sacre preghiere in rendimento di grazie; al pontefice dicendo: «Vostra Santità sappia per queste lettere che, ajutati dalle grazie divine e del miracolosissimo san Gennaro, oggi con l'esercito siamo entrati trionfatori nella santa città di Roma, già profanata dagli empii; ma che fuggono spaventati all'apparire della croce e delle mie armi. Cosicchè Vostra Santità può riassumere la suprema e paterna potestà, che io coprirò col mio esercito. Lasci dunque la troppa modesta dimora della Certosa, e su le ale de' Cherubini, come già la nostra Vergine di Loreto, venga e discenda al Vaticano per purificarlo con la santa sua presenza. Tutto è preparato a riceverla; Vostra Santità potrà celebrare i divini offizii nel giorno natale del Salvatore». Un terzo foglio era scritto a nome del re dal suo ministro principe Belmonte Pignatelli a' ministri del re di Sardegna, per dire tra le molte cose: «I Napoletani, guidati dal generale Mack, hanno sonato i primi l'ora di morte ai Francesi: e dalle cime del Campidoglio avvisano l'Europa che la sveglia de'  re è ormai giunta. Sfortunati Piemontesi, scuotete le vostre catene; spezzatele, opprimete gli oppressori vostri; rispondete all'invito del re di Napoli». Le quali jattanze ho qui riferito per dipingere del re e de' suoi ministri lo sdegno cieco e la vanagloria, femminili passioni sempre schernite dalla fortuna.

XXXIV. Correvano cotesti fogli mentre successi contrarii accadevano in Abruzzo. Avvegnaché il generale Micheroux scemato alquanto di forze per diserzioni ed infermità, giunto ne' dintorni di Fermo con novemila soldati, vi trovò schierate a battaglia in preparate posizioni, le squadre francesi, rette da' generali Mounier, Rusca e Casabianca; e venute le parti a combattimento, non fu la pruova né dubbia né lenta, perché i Napoletani, agguagliati di numero, superati d'arte, mal diretti, sconfidati si diedero alla fuga; lasciando sul campo alcuni morti, molti prigioni, artiglierie e bandiere. 1 resti della colonna si riparavano tra i monti dell'Abruzzo, e pochi Francesi li contenevano con la paura, giacché i molti andavano a rinforzare il centro e l'ala dritta della linea. Nel qual centro il colonnello Sanfilippo, presa Rieti senza contrasto, avanzava per le strette di Terni, guardate dal generai Lemoine con poca gente; ma sopraggiungendo ad aiuto il general Dufresse con mezza brigata di duemila quattrocento soldati, pareggiarono le forze delle due parti, e le sorti del Sanfilippo furono, come quelle di Micheroux, infelici; il colonnello Giustini, impedito a Vicovaro dal general Kellerman, volgendo verso la schiera di Sanfilippo, e udito il capo prigioniero, lei fuggitiva, Rieti in potere de' Francesi, andò celeremente lungo la sponda del Tevere; indi a Tivoli.

Così l'esercito francese, combattendo sino allora in egual numero co' Napoletani, vincitore, come era debito, a forze uguali, assicurata l'ala sinistra, raccolse la dritta (né già per vie curve come temeva, ma per diritto cammino) in Civita Castellana e ne' vicini monti, forti per luogo e munimenti; erano settemila Francesi e duemila partigiani, valorosi quanto voleva necessità di vincere o morire; gli uni e gli altri comandati dal generale Macdonald, già chiaro nelle guerre di Alemagna e d'Italia. Dietro ad esso, ma in distanza ed avendo tra mezzo i difficili monti Appennini, volteggiava a generale supremo Championnet; il quale, lasciati contro agli Abruzzi il generale Duhesme e seimila soldati, avanzava cori altri ottomila in soccorso di Macdonald. Piccolo squadrone nella città di Perugia stava in vedetta della legione sbarcata in Livorno, e dei temuti movimenti civili. Ma né quelle milizie napoletane, né gl'incitamenti degli Inglesi, né lo sdegno de' popoli poterono in Toscana contro i Francesi. Il 28 di settembre le armate di Napoli e d'Inghilterra, superbe di molti legni, arrivate a Livorno, chiesero sbarcar soldati e cannoni. Il governo toscano, allora in pace colla Francia, patii prepotenza o la finse; e manifestando che, non in dispregio della fermata neutralità, ma per condizione dei meno forti; egli tollerava il disbarco dei soldati, dichiarò voler mantenere la pienezza dell'imperio ne' suoi Stati, e commettere le sue ragioni alla giustizia ed a Dio, Con altro editto, accresciute le milizie soldate, create le urbane, provvisto alla quiete dei soggetti, attese il fine della guerra di Roma, Il generale Naselli non mosse, aspettando, come gli era prescritto, gli ordini del Mack; il quale inabile alle vaste combinazioni strategiche, e poi smarrito ne' precipizi delle sue fortune, obliò quella legione di ben seimila soldati, che neghittosa e spregiata restò in Livorno. Egli ed il re si godevano in Roma le non mai gustate delizie del trionfo: e, come a guerra finita, stettero cinque giorni senza procedere contro Macdonald; solamente invitando alla resa o minacciando il presidio di Castel‑Santangelo. E’ degno di memoria il cartello che il tenente‑generale Boucard spedi al tenente‑colonnello Walter, comandante del forte, però che tra l'altro diceva: «I soldati francesi, ammalati negli ospedali di Roma, saran tenuti ad ostaggio; così che ogni cannonata del castello cagioner? la morte di un di loro per rappresaglia; o consegnandolo all'ira giusta del popolo». Del qual cartello una copia, segnata Mack, mandata al generale Championnet, e da questo bandita nell'esercito, rese la guerra spietata. Rifiutando il castello di arrendersi tirarono d'ambe le parti, a sdegno più che ad offese, inutili colpi; e il giorno 3 del dicembre l'oste di Napoli mosse da Roma. Seimila soldati restarono a guardia del re, e poiché la schiera del colonnello Giustini aveva raggiunto l'esercito, venticinquemila combattenti andarono contro Civita Castellana.

XXXV. In cinque corpi. Altro capitano che Mack, assennato se non da altro da' fatti di quella stessa guerra, chiamata di Toscana la legione Naselli sopra Perugia, conduceva il maggior nerbo dell'esercito per la manca riva del Tevere, e accampato a Terni, combatteva con forze tre volte doppie le poche genti di Macdonald prima che Championnet scendesse gli Appennini. Ma l'ostinato duce de' malaugurati Napoletani avviò lungo il Tevere piccola mano di soldati, e spartì gli altri ventidue migliaia in quattro corpi, che dopo leggieri combattimenti accamparono a Calvi, a Monte‑buono, a Otricoli, a Regnano. E colà stettero cinque giorni, o neghittosi o assaltando per piccole partite il campo de' nemici. Ciò che Mack sperasse era ignoto: ma il general francese, prima inteso a difendersi, mutò pensieroso; e con le medesime schiere assaltò, l'un dietro l'altro, i nostri campi. Tutti gli vinse o gli fugò, combattendoli partitamente con forze uguali o maggiori, e maggior arte, ed amica fortuna. Primo a cadere fu Otricoli, quindi Calvi, poi Monte‑buono. il general Mack aveva scemato il campo di Regnano delle maggiori forze per unirle a quelle che risalivano lungo la dritta sponda del Tevere, e stabilirle a Cantalupo: idea (sola in quella guerra) degna di lode; ma nel cammino, avvisato dalla sventura de' suoi campi, diede comando di ritirata generale sopra Roma. Ciò ai 13 dicembre.. Negli otto precedenti giorni, sette combattimenti, tutti ad onore dell'esercito francese, avevano debellato i Napoletani che vi perdettero mila uomini morti, novecento feriti, diecimila prigionieri, trenta cannoni, nove bandiere, cavalli, moschetti, macchine innumerevoli. Eglino, solamente in Otricoli per poco d'ora fortunati, avevano sorpreso il presidio francese, duecento uomini, uccisa la più parte, imprigionato il resto, e per malvagità degli abitanti, o per caso, appreso a foco all'ospedale, morirono gl'infermi tra le fiamme, e si alzò grido che il barbaro cartello del generale Bourcard non era cruda minaccia, ma proponimento. La qual menzogna creduta da' Francesi accrebbe fierezza alle naturali offese dell'armi. Cominciata nel giorno istesso la ritirata di Mack, i Napoletani sempre perdenti e sempre infelici, comandati da stranieri, vedendo tra le file molti Francesi, generali o colonnelli, ognun de' quali, a modo di emigrati, per iscampare da' pericoli della prigionia, sollecitava il cammino da parer fuga; creduli al male come sono gli eserciti, sospettaron di essere traditi; e chiamando giacobini i capi, e confondendo gli ordini, cadde o scemò l'obbedienza. Si aggiunse a' mali la scarsezza dei viveri; perciocché all'ignoranza ed alle fraudi degli amministratori, delle quali cose ho parlato sin dal principio de' racconti, si unirono le perdite de' convogli, e i magazzini abbandonati, o a modo di rapina vuotati dalle milizie, già divenute licenziose e contumaci.

XXXVI. A quelle nuove i Romani, per amore della repubblica o per prudenza verso il vincitore, si mostravano della parte francese; per lo che il re Ferdinando, il quale dal giorno 7 stava ad Albano, per natura codardo, impaurendo fuggì, al declinare del giorno 10, verso Napoli. Disse al duca d'Ascoli suo cavaliero, essere brama o sacramento de' giacobini uccidere i re; e che bella gloria sarebbe ad un soggetto esporre la propria vita in salvezza della vita del principe; esortandolo a mutar vesti e contegno, così ch'egli da re, il re da cavaliere facessero il viaggio. Il cortigiano, lieto, indossando il regio vestimento, sedé alla diritta della carrozza; mentre l'altro con riverente aspetto, avendo a maestra la paura, gli rendeva omaggi da suddito. In questa vergognosa trasformazione il re giunse a Caserta nella sera dell'1 L Frattanto in Roma le schiere napoletane traversavano celeremente la città, inseguite dalle francesi tanto da presso, che uscivano d'una porta i vinti, entravano dall'altra i vincitori. Il generale Championnet erasi congiunto a Macdonald, e mentre in tanta possa venivano in Roma, udirono che una legione di settemila napoletani, rètta dal generale Damas, scordata da Mack o per celere fuggire abbandonata, raddoppiava il passo per giungere prima dei Francesi; ma così non giunse. Damas per araldo chiese passaggio, che prenderebbe, non concesso, con la forza; ed avuta risposta che, abbassate le armi, si désse prigioniero, dimandò trattare; i legati convennero. Bramavano indugio i Francesi per aspettare altri soldati nella città, essendo allora e pochi e stanchi; bramava indugio il general Damas, già risoluto a voltar cammino, per disporre a ritirata difficile innanzi a nemico doppio di forza e felice: le ore passavano come per accordi, mentre gli eserciti si preparavano alla guerra. E, giunta l'opportunità, il Damas, con buon senno ed ardito, prese a cammino di Orbitello, fortezza lontana e in quel tempo del re di Napoli. Schiere francesi lo inseguirono, ingorde della preda che, tenuta certa, fuggiva; e cólto il retroguardo alla Storta, combatterono; ma venuta la notte, e rimasti d'ambe le parti morti e feriti, Damas continuò il cammino, i francesi riposarono. Al dì vegnente altri Francesi, mossi da Borghetto sotto il generale Kellerman, sperarono precedere i Napoletani, e li raggiunsero a Toscanella, dove, combattendo, molti degli uni e degli altri morirono, ed ebbe il general Damas la gota forata da mitraglia, ma pure la legione procedendo giunse, com'era prefisso, ad Orbitello, e trovò la fortezza senza munimenti o vittovaglie, si che l'accordo di uscirne liberi e tornare in Regno non fu per la possanza di quei muri, ma frutto del dimostrato valore de' soldati e del duce. I quali andarono laudati di que' fatti, ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli uomini. Ne' medesimi giorni la legione del general Naselli sciolse sopra legni inglesi da Livorno; e così, svaniti mezzi e segni ad offendere, le cure di Mack volsero alle difese.

 Egli sentì l'errore di essere uscito a modo barbaro, senza base di operazioni, certo e pieno della conquista, trasandando il restauro delle fortezze, le opere militari nell'interno, tutte le arti che lo ingegno, o almeno le pratiche suggeriscono. Né tra le avversità sperimentate in Romagna egli fissò la mente alla difesa del Regno; ma spensierato tra quei precipizi vide giungere il bisogno di custodire il paese quando stavano le fortezze non preparate, la frontiera nuda, i luoghi forti malamente muniti e guardati. Attese a radunare le genti fuggitive; e veramente con le legioni tornate intere di Damas e Naselli, con altre squadre non comparse alla guerra, e con molti resti dell'esercito infelice, poteva comporre oste novella, più assai numerosa di quella che a nostro danno apprestava il general Championnet. Il quale in Roma, poi ch'ebbe ristabilito il governo repubblicano, castigati alcuni tradimenti, rialzati con religiosa cerimonia i rovesciati sepolcri di Duphot e di Basville, e dato lode alle geste, breve riposo alle fatiche delle sue squadre, ordinò l'esercito e gli assalti contro il reame di Napoli. Imperava a venticinquemila combattenti, in due corpi; uno di ottomila che il generale Duhesme guidava negli Abruzzi, l'altro di diciassette migliaia comandato da Rey e Macdonald per la bassa frontiera del Garigliano e del Liri; egli medesimo, Championnet, andava con la legione Macdonald. Gli abboudavano artiglierie, macchine, vittovaglie, ragioni, coscienza; solamente scarseggiava il numero, se il valore proprio e la fortuna, lo scoramento e le infelici prove dei contrari, non avessero agguagliato le differenze. Ogni cosa prefissa, cominciò la impresa, rischievole per le rivoluzioni del Piemonte, le conferenze sciolte in Rastadt, gli armamenti dell'Austria, le poche schiere dalla Repubblica in Lombardia; ma il destino corresse i falli della prudenza.

XXXVII. Il dì 20 del dicembre tutta l'oste francese levossi verso Napoli. Il generale Duhesme negli Abruzzi andò minaccioso al forte Civitella del Tronto, il quale, in cima di un monte inaccessibile da due lati, fortificato in due altri, avendo bastevole presidio, dieci grossi cannoni, munizioni da guerra, e, per la vicina città, vittovaglie abbondanti, poteva reggere a lungo assedio, se pure il nemico avesse avuto artiglierie e mezzi per tanta impresa; ma sole armi dei Francesi erano le minaccie ed il grido, giacché per que' terreni dirupati, senza strade da ruote e quasi senza sentieri, non potevano trasportare a quell'altezza pezzi di bronzo pesantissimi. Ben lo sapeva il comandante del forte; ma timido, e in mezzo a tanti esempi di codardia impunita, dopo diciotto ore d'investimento, chiesto accordi al nemico, si arrese con l'intero presidio prigioniero di guerra. Aveva nome Giovanni Lacombe, spagnuolo, tenente colonnello agli stipendii del re di Napoli. Avuta Civitella, il generale Duhesme avanzò negli Abruzzi; e, respinte o fugate varie partite di genti d'armi, giunse al fiume Pescara, prima difeso, poi disertato da' difensori, e subito valicato da' Francesi. Duhesme, facendo mostra di soldati e di artiglierie, sebben di campo, intimò resa alla fortezza dello stesso nome Pescara; e il comandante di lei, per argomento d'intrepidezza, mostrate all'araldo le fortificazioni, le armi, il presidio, la pienezza de magazzini, gli disse: «Fortezza cosi munita e provveduta non si arrende». E nemico a quelle ambasciate raddoppiò le apparenze di guerra; ed alle apparenze, il comandante, deposto il bello ardire, alzò bandiera di pace, e donò al vincitore la fortezza integra e salda, sessanta grossi cannoni di bronzo, dieci di ferro, quattro mortari, altre armi, polvere, vestimenti, vittovaglie e mille novecento soldati prigionieri. Era comandante il colonnello Pricard, straniero ancor egli, accetto e fortunato come voleva nostra misera condizione e il dispregio ver noi de' nostri principi.

Mentre Duhesme operava le dette cose, il general Mounier correva malagevole sentiero che mena, traversando i monti di Téramo, a Civita di Penna; e il generale Rusca, sentiero peggiore, per andare ad Aquila e Torre di Passeri: non temevano pericoli da nemico fuggitivo, ma il generale Lemoine, giunto a Popoli, trovò in ordinanza forte schiera di Napoletani, e' venuti a combattimento, morto il general francese Point, stava incerta la vittoria, quando il nostro malo destino fece sorger voce di tradimento nelle file napoletane, che, nel miglior punto della battaglia, lasciarono il campo, e per Isernia e Bojano rifuggirono confusamente a Benevento. Così procedevano le cose negli Abruzzi, mentre l'ala diritta de' Francesi sotto il generale Rey, per le Paludi Pontine, e il general Macdonald per Frosinone e Ceperano, venivano senza contrasto nel regno. E re di Napoli, perduta speranza che i Francesi, occupati nel Piemonte, minacciati nella Lombardia, pochi di numero, non si avventurassero a lontana spedizione, sentite le perdite degli Abruzzi, impose a' popoli guerra nazionale sterminatrice. Aveva il bando data di Roma, l'8 del dicembre, benché più tardi fosse scritto in Caserta, e diceva: «Nell'atto che io sto nella capitale del mondo cristiano a ristabilire la santa Chiesa, i Francesi, presso i quali tutto ho fatto per vivere in pace, minacciano di penetrare negli Abruzzi. Correrò con poderoso esercito ad esterminarli; ma frattanto si armino i popoli, soccorrano la religione, difendano il re e padre che cimenta la vita, pronto a sacrificarla per conservare a suoi sudditi gli altari, la roba, l'onore delle donne, il viver libero. Rammentino l'antico valore. Chiunque fuggisse dalle bandiere o dagli attruppamenti a masse, andrebbe punito come ribelle a noi, nemico alla Chiesa ed allo Stato».

Fu quello editto quanto voce di Dio; i popoli si armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e de' villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo. 1 soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, unisconsi a' volontari; le partite, piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono, e in pochi di sono masse e multitudini. Le quali, concitate da scambievoli discorsi e dalla speranza di bottino, cominciano le imprese, non hanno regole se non combattere, non hanno scopo fuorché distruggere; secondano il capo, non gli obbediscono; seguono gli esempi, non i comandi. Le prime opere furono atroci per uccisione di soldati francesi rimasti soli perché infermi o stanchi, e per tradimenti nelle vie o nelle case; calpestando le ragioni di guerra, di umanità e di ospizio. Poco appresso, inanimati da' primi successi, pigliarono la città di Téramo, quindi il ponte fortificato sul Tronto, e, slogati i battelli che lo componevano, impedirono H passaggio ad altre schiere; mentre in Terra di Lavoro torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciato il ponte di legno, si impadronirono di quasi tutte le artiglierie di riserva dell'esercito francese, poste a parco su la sponda; e poi, trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertavano quel paese. Le tre colonne dell'ala sinistra non più comunicavano tra loro, né con l'ala diritta, impedite dai Napoletani, che in vedetta delle strade uccidevano i messi e le piccole mani di soldati.

Stupivano i Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo; senza esercito, senza re, senza Mack, uscivano i combattenti come dalla terra, e le schiere francesi, invitte da numerose legioni di soldati, oggi menomavano d'uomini e di ardimento contro nemici quasi non visti. E poiché lo stupore de' presenti diviene incredulità negli avvenire quando ignorino le cagioni de' mirabili avvenimenti, egli è debito della storia investigare come i Napoletani, poco innanzi codardi e fuggitivi, ricomparissero negli stessi campi, contro lo stesso nemico, valorosi ed arditi. Il valore negl'individui è proprio, perché ciascuno ne può avere in sé le cagioni; forza, destrezza, certa religione, certa fatalità, sentimento di vincere o necessità di combattere: il valore nelle società, come negli eserciti, si parte d'altre origini; da fidanza nei commilitoni e nei capi. Il valore negli individui viene dunque da natura; negli eserciti, dalle leggi: può quello esser pronto; questo chiede tempo, istituzioni ed esempi; e perciò non ogni popolo è valoroso, ma ogni esercito può divenirlo. Dico sentenze note a' dotti degli uomini e delle umane società. Tali cose premesse, non farà meraviglia se i Napoletani, robusti e sciolti di persona, abitatori la più parte, de' monti, coperti di rozze lane, nutrendosi di poco grossolano cibo, amanti e gelosi delle donne, divoti alla chiesa, fedeli (nel tempo del quale scrivo) al re, allettati da' premii e dalle prede, andassero vogliosi e fieri a quella guerra, per mantenere le patrie istituzioni e gli altari, e, avendo libero il ritorno, proprio il consiglio di combattere, proprio il guadagno, bastevole il valor proprio. Ma nella buona guerra poco innanzi combattuta, eglino, coscritti nuovi, scontenti della milizia, consapevoli della scontentezza de' compagni, conoscitori (benché ultimi negli ordini militari) della ignavia de' capi, sospettosi della loro fede, mal guidati, mal nutriti, miseri e perdenti, nessuna qualità di esercito avevano in pregio e praticavano. La quale assenza di militari virtù era il retaggio degli errori del governo antichi e presenti; ma sebbene il popolo fosse innocente, n'ebbe egli la vergogna, che nemmeno forse cesserà per i veraci racconti della istoria; avendo le nazioni qualcosa di fatale nella lor vita, ed essendo fatalità, 10 credo, a' Napoletani la ingiustizia dei giudizi del mondo.

XXXVIII. L'ala sinistra francese, intrigata negli Abruzzi, procedeva lentamente; la diritta correva spedita sino al Garigliano. Il generale Rey intimò rendere la fortezza di Gaeta al governatore maresciallo Tschiudy, nato svizzero, venuto (per il mercato infame che fa la Svizzera de' suoi cittadini) agli stipendi napoletani, e salito ad alto grado per merito di casato, per lo inerte corso degli anni, e per favore; egli, forestiero, non educato alla guerra, sordo all'onore delle armi, trepidò; e, radunando non so quale consiglio, udito il voto del vescovo, che dicevasi ministro di pace e de' magistrati del comune ' solamente intesi ad evitare i danni dell' assedio, decise arrendersi. Mentre l'avvilito concilio preparava il tradimento, il generale francese lanciò nella città una granata da sei, non avendo artiglieria più grossa di un obice; ed a quel segno di guerra precipitarono i consigli, ed alzata bandiera di sommissione, un araldo del governatore dimandò pace a larghe condizioni; ma il general Rey, poi che vide quella estrema vilezza, replicò: «Resa a discrezione o rigor di guerra». Ed a discrezione si arresero quattromila soldati dentro fortezza potentissima, munita di settanta cannoni di bronzo, dodici mortari, ventimila archibugi, viveri per un anno, macchine da ponti, navi nel porto, innumerevoli attrezzi d'assedio. Andavano i prigionieri a Castel‑Santangelo; ma lo sfrontato maresciallo pregò indulgenza per sé e per gli altri sessanta uffiziali, i quali, come partecipi e benemeriti della resa, ottennero la vergognosa parzialità di uscir liberi, con giuramento di non mai combattere i Francesi.

Le cessioni, a modo di tradimento, di Civitella, Pescara e Gaeta diedero speranza di egual successo per la fortezza di Capua; benché in essa, dietro al fiume Volturno, il generale Mack riordinasse l'esercito, e vasto campo trincerato su la fronte verso Roma, guardato da seimila soldati, accrescesse i munimenti e le difese. Quindi il generale Macdonald avanzò contro noi, a vincere se noi codardi, o a riconoscere la fortezza. Era il mezzogiorno quando egli, a tre colonne assaltando il campo, mise scompiglio nelle guardie, delle quali parecchie, fuggitive alle porte della fortezza, minacciavano di atterrarle se non si aprissero. Ma da un fortino del campo, dove i cannonieri stettero saldi alle minacce del nemico ed al malo esempio dei timorosi, partì scarica di sei cannoni a mitraglia, vicina, ben diretta, che produsse molte morti nella colonna di cavalleria, procedente prima e superba; altri colpi tirarono i bastioni, e subito, retrocedute le colonne assalitrici, e rianimate le guardie del campo, la battaglia fu rintegrata. Erano Napoletani gli artiglieri del fortino, e Napoletano il loro capo, giovane che trattava in quella guerra le prime armi, alzato dal generale Mack da tenente a capitano, in premio più del successo che del valore; perciocché i cavalli francesi, e né manco i fanti, potevano entrare nel campo, che aveva riparo, fosso, alberi abbattuti, e poi cannoni e presidio. I Francesi, tornando agli assalti, tentarono passare il fiume a Caiazzo, guardato da un reggimento di cavalleria sotto il duca di Roccaromana. Respinti e perdenti nello intero giorno, viste le sorprese non bastevoli al desiderio, mutato consiglio, disposero espugnar la fortezza con il lento cammino dell'assedio. Avean perduto negli assalti di Capua e di Caiazzo quattrocento soldati, metà morti e feriti, cento prigioni; il generale Mathieu ebbe il braccio spezzato da mitraglia, il generale Boisgerard fu morto, il colonnello Darnaud prigioniero. E dalla nostra parte, cento soli più feriti che morti; e tra i feriti, il colonnello Roccaromana.

Giunti in quel mezzo dagli Abruzzi i generali Duhesme e Lemoine, riferirono i sostenuti travagli e gl'impedimenti e gli agguati, la nessuna fede degli abitanti, le morti de' Francesi troppe e spietate; il genrale Duhesme portava ancor vive due ferite sul corpo; e narrando le maggiori crudeltà, citava i nomi spaventevoli di Pronio e di Rodio. E poi che il generale Championnet v'ebbe aggiunto la storia de' tumulti e de' fatti popolari di Terra di Lavoro, e ricordato i nomi già conti per atrocità di Frà Diavolo e di Mammone, videro i generali francesi (adunati a consiglio nella città di Venafro) stare essi in mezzo a guerra nuova ed orrenda; essere stato miracolo di fortuna la viltà de' comandanti delle cedute fortezze; e non avere altro scampo per lo esercito che a tenerlo unito, e per colpi celeri e portentosi debellar le forze e l'animo del popolo. «Sia quindi nostra prima impresa, conchiudeva il supremo duce di Francia, espugnar Capua in pochi dì; le schiere, le armi, le macchine di assedio si dispongano a campo in questo giorno intorno alla fortezza».

XXXIX. Per i quali provvedimenti superbivano le parti borboniche, vedendo gli Abruzzi liberi per valore proprio, e l'esercito di Francia radunato, non già, credevano, per mira o prudenza di guerra, ma per  ritirarsi nella Romagna. Tanti successi di genti avventicce, paragonati alle perdite dell'immenso esercito di Mack, confermavano nella mente comune il sospetto di tradimento; e tanto più che all'avanzar de' Francesi, cresciute le acerbità di polizia, si udivano imprigionamenti e castighi; molti uffiziali dal campo menati nelle fortezze; chiuso in fortezza lo stesso ministro per la guerra maresciallo Airola. Le quali cose, dividendo il popolo, indebolivano le resistenze al nemico, e generavano le discordie civili e le tante calamità da quel misero stato inseparabili. Fu questo il più amaro frutto dell'antico mal senno dei governo in supporre e punir congiura, in sé non mai vera ' surta ne' disegni ambiziosi di pochi tristi, annidata nell'animo superbo della regina, poscia involgata e creduta. Esiziale menzogna, che annientò la dignità della monarchia, il credito de' grandi, l'autorità de' magistrati. Per essa disobbedivano i soldati a' capi, i soggetti a' maggiori; e udivi ai ricordi de' doveri o delle leggi, rispondere i contumaci la usata voce di traditore.  Cosicché, spezzati gli ordini sino allora venerati della società, la parte per numero e ardire più potente, cioè la bassa moltitudine dominava; tanto più nella città, dove la plebe più numerosa, il ceto de' lazzari audace, i guadagni più facili e grandi. Cadute le discipline, dispregiato il comando, le squadre ordinate si scioglievano; i fuggitivi, chiamati, non tornavano alle bandiere; il valore de' partigiani si disperdeva in opere mirabili, ma vane. La corte in quel mezzo ed i ministri vivevano incerti ed angosciosi, vacillava sul capo del re corona potente e felice; agitavano la regina pericoli e rimorsi; il generale Mack ondeggiava tra speranze di nuove imprese, e le rovine della sua fortuna; Acton, Castelcicala tremavano quanto si conviene ad animo vigliacco ed a vita colpevole; i consiglieri della guerra, gl'inquisitori di Stato, i satelliti della tirannide si abbandonavano a disperati consigli. Così provveder divino infestava quelle anime perverse, che, ricordevoli delle male opere, ne vedevano certa e vicina la vendetta. Fuggire era il desiderio comune, ma secreto, perché estremo e codardo; l'oste francese non avanzava, impedita da una fortezza, da un fiume e da truppe armate di popolo; i tumulti della città stavano per il re, e si udivano voci e voti di fedeltà verso il trono e la Chiesa; nessuna provincia o città ubbidiva i Francesi, che a tanta poca terra comandavano quanta ne copriva piccolo esercito; e per le impreviste avversità avevano i Borboni e Borboniani stanze sicure ne' Principati, nella Puglia, nelle Calabrie. Nessuno argomento a fuggire, ma fugava i malvagi la coscienza.

Altre genti paventavano: i notati giacobini nei libri della Polizia, gli uffiziali dell'esercito creduti traditori e i possidenti di qualunque ricchezza, principale mira della commossa plebaglia. I giacobini, esperti a radunarsi, intendevano per secrete congreghe alla propria salvezza, e ad agevolare, ov'ei potessero, le fortune de' Francesi e i precipizi del monarca di Napoli. Quelle furono veramente le prime congiure, colpevoli quando miri al disegno di rovinare il governo; necessarie, quando pensi che solamente tra quelle rovine vedevano vita e libertà: nascosti nel giorno, profughi dalle case nella notte, menavano vita incerta e miserabile. Spedirono legati al campo francese per informare il generale Championnet dello stato della città e della reggia, e incitarlo a compiere l'avanzata impresa, promettendo dalla loro fazione aiuti potentissimi. Le quali pratiche sapute dalla polizia o sospettate, accrescevano da ambe le parti i pericoli e i timori. Ma le ansietà nella casa del re erano già insopportabili, quando un fatto atroce precipitò i consigli e le mosse. Il corriere, che dicevano di gabinetto, Antonio Ferreri, fido e caro al re, mandato con regio foglio all'ammiraglio Nelson, e trattenuto dal popolo su la marina come spia dei Francesi, tra mille voci muoiano i giacobini, ferito di molti colpi e non estinto, trascinato per le vie della città, fu gettato morente in una fogna, dove fidi la vita. Mentre i crudeli lo traevano semivivo, chiesero con baldanzose voci sotto la reggia che il re vedesse, nel supplizio del traditore, la fedeltà del suo popolo; e, ciò detto, non si partivano, non quetavano, cresceva lo scompiglio e la moltitudine, sino a tanto che il re per prudenza mostrossi, e riconobbe l'infelice Ferreri, che moribondo fissò gli occhi in lui, come a chieder pietà; ed egli, tutto re che fusse, non poté liberarlo da' manigoldi. Inorridì, tremò per sé, decise di fuggire. Chi disse quella strage architettata per l'effetto che sortì, chi per nascondere certe trame con l'Austria note al Ferreri.

XL. Fermata in animo del re la partenza, ne accelerò gli apparecchi, occulti come di fuga; ma non bastò segretezza, e si apprese che la casa e i ministri regii fuggivano, e che altre fughe o nascondigli si preparavano i più lividi seguaci della tirannide. Per la qual timidezza svanite le ultime speranze di resistere al nemico e riordinare l'esercito e lo Stato, consigliere animoso e fedele, il cui nome non citano le invidiose memorie, fece chiaro al re l'errore e '1 danno di quella fuga: ma nulla ottenne, fuori che fusse a' popoli smentita, per non allentare nelle province l'impeto della guerra e l'odio a' Francesi. Quindi lettere e messi andarono accertando che il re disponeva l'esterminio del nemico, il quale, aiutato da' tradimenti, e arrischiatosi nel cuore del regno tra fortezze, soldati e masse armate, troverebbe debito castigo alla temerità. E popolo che tutto crede, prestata fede a que' detti, doppiò gl'impeti e i cimenti contro i Francesi. Ed ecco inaspettatamente, nel giorno 21 del dicembre, navigar nel golfo molte navi sciolte nella notte dal porto, e sul maggior vascello inglese andare imbarcato il re e i regali, come segnavano le bandiere. Nel tempo stesso che un editto chiamato avviso, affisso ai muri della città, diceva: passare il re nella Sicilia; lasciar vicario il capitan generale principe Francesco Pignatelli; divisare di tornar presto con potentissimi aiuti d'armi.

Partitosi il re, si palesavano i segreti della fuga, le brighe dei perversi cortigiani onde vincere nella reggia gli ultimi indugi a partire, le instigazioni valentissime di Hamilton, Nelson, lady Hamilton: s'intesero tolti i gioielli e le ricchezze della corona; le anticaglie più pregiate, i lavori d'arte più eccellenti de' musei, e i resti de' banchi pubblici e della zecca, in moneta o in metallo, in somma il bottino (venti milioni di ducati) de' tesori dello Stato; lasciando la infelice nazione in guerra straniera e domestica, senza ordini, con leggi sprezzate, povera, incerta. Comunque sieno i legami tra re e popolo, patteggiati dagli uomini, o voluti dalla ragione, o anche prescritti da' cieli, in tutte le ipotesi più libere o più assolute, abbandonare lo Stato co' modi e le arti del tradimento, è peccato infinito, nemmeno cancellabile dalla fortuna e dal tempo. Trattenute dai venti restarono le navi tre giorni nel golfo; ed in quel tempo la città, i magistrati, la baronia, il popolo inviarono legati al re, promettendo, se tornasse, sforzi estremi contro il nemico, e, per tante braccia e voleri, certa vittoria. Il solo arcivescovo di Napoli tra i legati parlò al re, gli altri a' ministri, il re disse irrevocabile il proponimento, ed i ministri ripeterono la medesima sentenza con più duro discorso. Per le quali cose, mutato il sentimento universale, i magistrati per salvezza o disdegno si ritiravano dagli offizi pubblici, gli amanti di quiete aspettavano timidamente l'avvenire, i novatori si alzavano a speranze; la sola plebe, operosa, prorompeva nel peggio. Scomparvero intanto le regie navi e le altre che trasportavano uomini tristi, timidi, ambiziosi, le peggiori coscienze del reame; e giorni appresso giunse nuova che tempesta violentissima travagliava i fuggitivi, de' quali altri ripararono nelle Calabrie, altri nella Sardegna e nella Corsica, molti correvano le fortune del mare; ed il vascello del re, che l'ammiraglio Nelson guidava, spezzato un albero, frante le antenne, teneva il mare a stento. La regia famiglia pareva certa di final rovina; così che detto alla regina essere morto il regio infante don Alberto, ella rispose: «Tutti raggiungeremo tra poco il mio figlio». Il re, profferendo ad alta voce sacre preghiere, e promettendo a san Gennaro e a san Francesco doni larghissimi, faceva piglio sdegnoso al ministro ed alla moglie, con quel suo modo rimproverandoli delle passate opere di governo, cagioni a quella fuga e a quel lutto. Si ammirava fra le tempeste andar sicuro il vascello napoletano che l'ammiraglio Caràcciolo guidava; e sebbene ei potesse avanzar cammino, tenevasi poco lontano dal vascello del re, per dare a' principi animo e soccorso: avresti detto che le altre navi obbedivano a' venti, e che la nave del Caràcciolo (così andava libera e altiera) li comandasse. La qual maraviglia osservata dal re e laudata, diede a Nelson cruccio d'invidia. Pure tempestosamente correndo, il vascello inglese giunse il dì 25 a vista di Palermo, dove il mare è meno sicuro, e l'entrata difficile; cosÌ che dalla città, veduto il pericolo e scoperto che il re stava imbarcato su quella nave sdrucita, il capitano di fregata Giovanni Bausan, sopra piccola barca affronta i flutti, giunge al vascello, e si offre di que' mari pilota esperto. L'ammiraglio Nelson gli diede volontario il comando del legno; e, fosse perizia o fortuna, in poco d'ora entrò nel porto, e fermò alla Banchetta come in tempo di calma. Caràcciolo arrivò al punto stesso; e, sbarcate le genti ch'egli menava, riposò su le àncore l'illeso vascello. Ebbero bella gloria di quei fatti gli uffiziali del navilio napoletano.

XLI. Il vicario del regno, Pignatelli, notificando al general Mack per lo esercito, ed agli Eletti della città per gli ordini civili, le potestà conferitegli, animò le difese nell'uno, il consiglio negli altri. Un re o per fino un vicario che fusse stato pari alle condizioni del tempo, avrebbe scacciato i Francesi o fermata la pace o prolungato la guerra sino a che, per le mosse dell'Austria o dei Russi, dovesse l'esercito nemico da questa ultima Italia correre in soccorso della Lombardia. Damas era giunto con settemila soldati, altri seimila ne conduceva Naselli, quindici migliaia o più stavano intorno a Capua, vacillanti alla disciplina o contumaci; ma, come spesso avviene delle moltitudini, facili a tornare, per un cenno o per un motto, all'obbedienza: gli Abruzzi, la provincia di Molise, la Terra di Lavoro formicavano di Borboniani; le altre province si agitavano; la popolosa città di Napoli tumultuava per le parti del re. Ordinare tante forze, muoverle assieme, unirvi la virtù dell'antico, del legittimo, e la idea riverita delle patrie istituzioni, bastava a formare una potenza tre volte doppia di ventiquattromila Francesi e poche centinaia di novatori non esperti alle rivoluzioni o alla guerra. Ma il generale Pignatelli, nato in ignorantissima nobiltà ed allevato alle bassezze della reggia, non poteva, né per mente né per animo, giungere alla sublimità di salvare, per vie generose, un regno ed una corona. P, questo il peggior fato del dispotismo; educando i suoi all'obbedienza, non trovarne capaci di comando.

Gli Eletti della città, dopo brieve accordo col vicario, sospettando in lui malvagie intenzioni provenienti dagli ordini secreti de' principi o dal proprio ingegno, e chiamati da' sedili altri Eletti, cavalieri o del popolo, levarono milizia urbana molta e fedele. E poi, trattando gli affari pubblici, fu prima sentenza fiaccare il potere del vicario: sì che rammentate le concessioni di Federico II, dei re Ladislao e di Filippo III, poscia gli editti o patti di regno di Filippo V e di Carlo III, pretesero non dover essere governati dai vicerè; e che alla partita del re si trasferisse il regio potere agli Eletti, che sono i rappresentanti della città e del regno. Si oppose il vicario; e, inaspriti gli umori, a tal si giunse che la città mandò a lui ambasciata di abbandonare quel potere illegittimo. Si palesava la contrastata autorità negli editti degli uni e dell'altro, contrarii di stile e di scopo; e poiché gli Eletti si affaticavano a contenere i tumulti, il vicario a concitarli, diviso il popolo, stavano gli onesti co' primi, i dissoluti e la plebe col secondo. Tra le quali agitazioni fu visto, a 28 dicembre, nel lido di Posilipo fumo densissimo, quindi fuoco; e s'intese che per comando del vicario, ubbidiente invero a comandi maggiori, s'incendiavano cento venti barche bombardiere o cannoniere, riparate in alcune grotte di quel lido montuoso. E, giorni appresso, tornando da Sicilia parecchi legni di guerra, si offerse spettacolo più mesto; imperciocché, a chiaro sole, il conte di Thurn, Tedesco ai servigi di Napoli, da sopra fregata portoghese comandò l'incendio di due vascelli napoletani e tre fregate, ancorati nel golfo. Il fuoco appariva, benché in mezzo al giorno, a' riguardanti per colore fosco e biancastro; sì che vedevansi le fiamme, come uscenti dal mare, lambire i costati delle navi, e scorrere per gli alberi, le antenne, le funi catramate e le vele; disegnando in fuoco i vascelli, che poco appresso, cadendo inceneriti, scomparivano. Tacito, mesto, costernato mirava il popolo; e, sciolto lo stupore, l'un l'altro addimandava: «Perché quella rovina? Non potevano i marinari napoletani ed inglesi trasportare in Sicilia que' legni? Sarà dunque vero che brucieranno il porto, gli arsenali, i magazzini dell'annona pubblica? Sarà vero che la fuggitiva regina vorrà lasciare non altro al popolo che gli occhi per vedere la pubblica miseria, e per piangere?» E subito abbandonato il lamento, correndo alle opere, andarono alla casa del Comune per dimandare che gli edifizi pubblici fossero custoditi da' popolani; ma quetaronsi al vedere che numerose milizie urbane gilàa guardavano la città. Gli Eletti, al pari del popolo commossi dalla empietà degl'incendii e dal timore di più grandi rovine, consultarono dello stato; proponendo, chi ordinarsi a repubblica per ottenere facile accordo da' Francesi, chi trattar pace per danaro, chi cercare alla Spagna nuovo re della casa Borbone, e chi (fu questo il principe di Canosa, che qui nomino acciò il lettore lo conosca da' suoi principii) comporre governo aristocratico; essendo le democrazie malvage, e la monarchia di Napoli, per la fuga e gli spogli, decaduta. Fra pensieri tanto varii o non consoni a' tempi si sperdevano i giorni.

XLII. Così nella città: mentre ne' campi l'esercito francese combatteva co' Borboniani assalitori continui delle parti più deboli o più lontane, e messa a sacco e bruciata la città d'Isernia per aver contrastato il passo al generale Duhesme preparava l'assedio di Capua; e incontro a quello esercito il general Mack accelerava i restauri della, fortezza, ed accresceva i munimenti e le guardie. Ma il vicario, che già negoziava secretamente con Championnet per la pace, gli chiese almeno lunga tregua; e convenuti nel villaggio di Sparanisi, per le parti di Napoli il duca del Gesso e '1 principe di Migliano, per la Francia il generale Arcambal, concordarono il giorno 12 del 1799. «Tregua per due mesi; la fortezza di Capua, munita ed armata com'ella era, nel dì seguente a' Francesi; la linea de' campi francesi tra le foci de' regii Lagni e dell'Ofanto; dietro la riva diritta del primo fiume, la sinistra altro, ed occupando le città di Acerra, Arienzo, Arpaia, Benevento, dell', Ariano; le milizie napoletane ancora stanziate ne' paesi della Romagna, richiamarsi; farsi Napoli debitrice di due milioni e mezzo di ducati, pagabili, metà il giorno 15, metà il 25 di quel mese». Tregua peggiore di guerra sfortunata! Perciocché deporre le armi per pace a duri patti poteva in alcun modo giovare al re ed al regno; ma sospendere in alto le armi, e trattenere, indi estinguere la maggior forza di quel tempo, la foga dei popoli, e concedere al nemico la sola fortezza che difende la città, e vasto e ricco paese nel cuore dello Stato, e sicurezza ed agio ad aspettare nuovi rinforzi di Lombardia: ossia, cadere certamente dopo due mesi di affannoso respiro, era solamente danno, solamente precipizio, senza mercede o speranza. Fermata la tregua, i Francesi al di vegnente occuparono la fortezza di Capua; e, posti i campi su la riva de' Lagni, occuparono sino all'Ofanto (fiume che sbocca nell'Adriatico) l'acquistato paese. Le milizie napoletane, che tuttodì per fughe menomavano, accamparono, a segno di guerra più che a difesa, nella opposta riva de' Lagni. I popoli della città e delle province riprovarono quegli accordi; e chiamandoli del nome usato di tradimento, cessò la guerra esterna, la domestica crebbe. I commissari francesi nella sera del 14 di gennaio vennero in Napoli a ricevere il pattovito denaro, non ancor presto, né possibile a raccogliere, perché tutto il pubblico e il comune, in moneta, in metallo, dalle chiese, da' banchi, dalla zecca, era stato involato nella fuga del re. La plebe, visti i commissari, si alzò a tumulto, che durò tutta la notte, arrecando i timori, non danni, avvegnaché, per pratiche secrete del vicario, i Francesi uscirono di città, e la guardia urbana contenne le ribalderie.

Al seguente mattino tutto in peggio si volse. Alcuni soldati, vogliosi o timidi, cederono le armi a' popolani, che assalendo i quartieri delle guardie urbane, e disarmandole, sciolsero quella benefica milizia. Divenuti potenti per numero, armi e prime fortune, corsero alle navi arrivate nella notte con seimila soldati; i quali dubbiosi, ed il capo, general Naselli, codardo, diedero le armi; e, facili a' tumulti quanto avversi alla buona guerra, si unirono agli assalitori. Così di piccolo rio fatto un torrente, quelle torme chiesero al vicario i castelli della città; il vicario, di natura vigliacco, atterrito, preparato a fuggire, diede comando che al popolo della città, nemico ai Francesi, fedele al re, fossero i castelli consegnati; e lo furono: le carceri, le galere furono aperte; molte migliaia di tristissimi si unirono alla plebe. Ed allora dalla grandezza de' casi alzato l'animo de' magistrati del municipio, mandarono al vicario deputazione; l'orator della quale, principe di Piedimonte, così parlò: «La città vi dice per nostro mezzo rinunziare a' poteri del vicariato; cederli a lei; rendere il denaro dello Stato, che è presso di voi; prescrivere e per editto ubbidienza piena e sola alla città». Il vicario disse: consulterebbe; e nella notte, senza rispondere alle intimazioni, né lasciando provvedimenti di governo, fuggì. Chi pensò essere quelle le istruzioni a lui date dalla regina; e chi suggerite dal proprio senno per ignavia ed abito antico agli errori; o per opprimere sotto le rovine il suo nemico general Acton. Andò in Sicilia oratore infelice della sua vergogna, e fu chiuso in fortezza.

Il popolo, vedendo quarantamila armati dei suoi, le castella in sue mani, spezzati i freni delle leggi e della paura, si credé invincibile. Chiamando traditori e giacobini i generali dell'esercito, nominò suoi condottieri i colonnelli Moliterno e Roccaromana, segnati di fedeltà, l'uno da un occhio acciecato nella guerra di Lombardia, l'altro da recente ferita nel combattimento di Caiazzo; e poi nobili, domatori arditi di cavalli, e (che più val su la plebe) grandi e belli della persona. Accettarono per non aver colpa del rifiuto, e perché speravano con l'autorità da' furibondi concessa, moderarne il furore. La municipalità, solo magistrato che stesse in atto di uffizio, assentì alla scelta; e la impaurita città fece plauso. Torma di plebe andò in cerca di Mack; e non trovatolo in Casoria dove credeva, per subito mutato consiglio ritornò. Il generale, ricoverato nella notte dentro piccola casa di Caivano, agli albòri del seguente giorno, vestito da generale tedesco, ed offertosi al generale Championnet in Caserta, ebbe magnanime accoglienze e la permissione di libero viaggio per Alemagna: ma trattenuto in Milano, andò prigione a Pavia. Le geste militari narrate in questo libro assai dimostrano di lui l'arte e l'ingegno; e la storia di Europa ne conserva documenti più chiari né fatti d'Ulma, l'anno 1805. Depose nel general Salandra l'impero dell'esercito a pompa e a nome, però che l'esercito sciolto, né ubbidito l'impero. Il nuovo capitano fu poco di poi ferito da genti del popolo, e seco il generale Parisi, mentre andavano uniti ordinando i campi. Altri uffiziali furono feriti, altri uccisi, desertate le trinciere o le stanze, nessuna l' obbedienza, a sentimento della propria salute prepotente; e non altra forza che ne' tumulti, non altra autorità e pericolante che in Roccaromana e in Moliterno.

XLIII. Incontro agli accampamenti francesi non restando milizie napoletane, e solo apparendo qualche uomo armato del popolo, aspettavasi che il nemico (rotta la tregua perché non pagato il prezzo) procedesse contro la città; e quelle voci moltiplilcate ed accresciute si ripetevano ad incitamento nella plebe. li senato municipale, sgombro del vicario, consultando col principe di Moliterno, divisero le cure dello Stato. Questi per editto comandò preparar guerra contro i Francesi, e cominciarla quando necessaria, mantenere gli ordini interni e sopra tutto la quiete pubblica; rendere l'armi a' depositi per distribuirle con miglior senno ai difensori della patria e della fede. E conchiudeva: i disobbedienti a queste leggi, nemici e ribelli all'autorità del popolo, saranno puniti per solleciti giudizi ed immediato adempimento; al qual effetto si alzeranno nelle piazze della città le forche del supplizio. E si firmava, «Moliterno, generale del popolo». Il senato per decreti provide alla finanza, alla giustizia, a tutte le parti di governo; minacciando a' trasgressori pena lo sdegno pubblico, ratto e terribile. Per distorre intanto i popolani dalle domestiche rapine, bandì libera la pescagione e la caccia nelle acque e ne' boschi regii. E scelse ambasciatori per esporre al generale Championnet le mutate forme di reggimento, e la comune utilità nel comporre pace che fosse gloriosa e giovevole alla Francia, ma non misera né abbieta per il popolo napoletano, pur meritevole di alcuna stima, ora che riscatta con le armi e col danno proprio i falli del governo e dell'esercito.

Per tante provvidenze di quiete, la foga popolare allentò, molte armi tornarono al Castelnuovo, grande numero de' perturbatori andò nei regii laghi o boschi, il tumulto e '1 romore scemarono. Ma gli antichi settari di libertà, e i nuovi surti allora dalle vicine speranze, praticavano secretamente co' Francesi; ed offerendo, potenti aiuti nella guerra della quale i successi darebbero larga mercede di ricchezza e di onore alla Repubblica, pregavano si negassero alle profferte lusinghiere di pace: ingrandivano di sé medesimi la potenza ed il numero; spregiavano i contrarii; accertavano che le province cheterebbero ad un punto quando sentissero presa la _capitale, e '1 popolo vendicato in vera libertà. Così stando le cose, giunsero nel pieno della notte i legati della città (ventiquattro popolani caldissimi) tra quali era il Canosa, nato principe, aristocratico per dottrina, plebeo per genio: tutti guidati dal generale dei popolo, Moliterno, confidenti nelle proprie forze, inesperti de' travagli della guerra e della incostanza delle moltitudini. Parlavano al generale Championnet confusamente, a modo volgare; chi dicendo l'esercito napoletano vinto perché tradito, ma non tradito né vinto il popolo; chi pregando pace, e chi disfidando guerra a nome di gente infinita contro piccolo numero di Francesi. E poi che si furono saziati di scomposte preghiere o minaccie, Moliterno, con discorso considerato, così disse:

«Generale, dopo la fuga del re e del suo vicario, il reggimento del regno è nelle mani del senato della città; così che trattando a suo nome, faremo atto legittimo e durevole; questo (diede un foglio) racchiude i poteri de' presenti legati. Voi, generale, che debellando numeroso esercito, venite vincitore da' campi di Fermo a queste rive de' Lagni, crederete breve lo spazio, dieci miglia, quello che vi separa dalla città; ma lo direte lunghissimo e forse interminabile, se penserete che vi stanno intorno popoli armati e feroci; che sessantamila cittadini, con armi, castelli e navi, animati da zelo di religione e da passione d'indipendenza, difendono città sollevata di cinquecentomila abitatori; che le genti delle province sono contro di voi in maggior numero e moto; che quando il vincere fosse possibile, sarebbe impossibile il mantenere. Che dunque ogni cosa vi consiglia pace con noi. Noi vi offriamo il danaro pattovito nell'armistizio, e quanto altro (purché moderata la inchiesta) dimanderete; e poi vittovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessari al ritorno, e strade sgombre di nemici. Aveste nella guerra battaglie avventurose, armi, bandiere, prigioni; espugnaste, se non con l'armi, col grido, quattro fortezze; ora vi offriamo danaro e pace da vincitore. Voi quindi fornirete tutte le parti della gloria e della fortuna. Pensate, generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito; e che se voi per pace concessa vorrete non entrare in città, il mondo vi dirà magnanimo; se per popolana resistenza non entrerete, vi terrà inglorioso».

Rispose il generale: «Voi parlate all'esercito francese, come vincitore parlerebbe a' vinti. La tregua è rotta perché voi mancaste ai patti. Noi dimani procederemo contro la città». E, ciò detto, gli accomiatò. Stavano al campo, seguaci e guida dell'esercito, parecchi Napoletani, che, parlando a' legati con detti lusinghieri di libertà, avute risposte audaci, e gli uni e gli altri infiammati da sdegno di parte, si minacciarono di esterminio. I legati riportarono al senato quelle acerbe conferenze, che di bocca in bocca si sparsero nella città, infestissime alla quiete. Alcuni preti e frati, settari del cadente governo, vista la casa dei Borboni fuggita, il vicario cacciato e '1 senato della città dettar leggi senza il nome del re, andavano tra la plebe suscitando gli antichi affetti; rammentavano il detto della regina: «Solamente il popolo esser fedele, tutti i gentiluomini del regno giacobini»; spargevano quindi sospetti sopra Moliterno, Roccaromana, gli Eletti, i nobili; consigliavano tumulti, spoglio di case, ed eccidii. Così rideste le sopite furie, i popolani, la vegnente notte, atterrate le forche, sconoscendo l'autorità di Roccaromana e di Moliterno, crearono capi due del popolo, nominati, uno il Paggio, piccolo mercatante di farina, l'altro il Pazzo, cognome datogli per giovanili sfrenatezze, servo di vinaio, entrambo audaci e dissoluti.

La prima luce del 15 gennaio del 1799 palesò i nuovi pericoli, che subito si avverarono, imperciocché torme numerose di lazzari andarono contro i Francesi; altre sguernivano delle artiglierie i castelli e gli arsenali; ed altre più feroci correvano la città rubando ed uccidendo. E fatta sicura la ribalderia, que' frati e preti medesimi con abiti sacri, nelle piazze, nelle chiese accendevano con la parola chiamata di Dio il furore civile. Sì che un servo della nobile casa Filomarino, accusando in mercato i suoi padroni, mena i lazzari nel palagio, ed incatena nelle proprie stanze il duca della Torre, e '1 fratello Clemente Filomarino, quegli noto per poetico ingegno, questi per matematiche dottrine; la casa, ricca di arredi, è spogliata, indi bruciata, distruggendo molta copia di libri, stampe rare, macchine preziose, e un gabinetto di storia naturale, frutto di lunghi anni e fatiche. Mentre l'edifizio bruciava, i due miseri prigioni, trascinati alla strada nuova della marina, sono posti sopra roghi e arsi vivi con gioia di popolo spietato e feroce. Altre stragi seguirono; si sciolse atterrito il senato della città; gli onesti si ripararono nelle case; non si udiva voce se non plebea, né comando se non di plebe. Il cardinale arcivescovo, sperando alcun soccorso da quella fede in cui nome i lazzari combattevano, ordinò sacra processione; e nel mezzo della notte, con la statua e le ampolle di san Gennaro percorreva le strade più popolose, cantando inni sacri, e da luogo in luogo predicando sensi di giustizia e di mansuetudine. E mentre la cerimonia procedeva, fu visto nella folla aprirsi strada e giungere al santuario uomo grande di persona, coperto di lurida veste, con capelli sciolti, piedi scalzi, e tutti i segni della penitenza. Egli era il principe Moliterno, che, invocato permesso M'arcivescovo di parlare al popolo, e manifestato il nome, il grado e il giusto motivo (la universale calamità) di quel sordido vestimento, esortò le genti che andassero al riposo per sostenere nel seguente giorno le fatiche della guerra; certamente ultime, se tutti giuravano.per quelle ampolle di sterminare i Francesi, o morire; poi disse a voce altissima: «Io lo giuro;» e mille voci ripeterono, «Lo giuriamo». Il discorso, le vesti, la cerimonia, la comune stanchezza poterono su quelle genti, che, tornando alle proprie case, fecero per poco tempo tranquilla la città.

XLIV. Ma non dormivano i repubblicani, sopra dei quali pendeva imminente pericolo di strage. Avevano promesso al generale Championnet prendere il castello Santelmo, e lo tentarono la notte innanzi con infelice successo, perciocché alcuni de' congiurati mancarono al convenuto luogo; le parole di riconoscenza fallarono; e, destato all'arme il presidio, salvaronsi appena con la fuga. Comandava la fortezza Niccolò Caràcciolo, grato al popolo perché fratello del duca di Roccaromana; e la guardavano centotrenta lazzari dei più fidi, guidati da Luigi Brandi, lazzaro ancor esso e ferocissimo: era il Caràcciolo nella congiura dei repubblicani. Concertò che nel primo mattino del 20 andasse al castello inattesa ed inerme, come a rinforzo del presidio, piccola mano di congiurati; giunse il drappello, dicendosi mandato dal popolo; avvegnaché tutti gli ordini, preti, frati, nobili, magistrati, combatterebbero in quel giorno, contro i Francesi, da' castelli, dalle mura e nel campo; e ch'ei venivano inermi perché, certi di trovar armi nelle armerie del forte, avevano date le proprie a coloro del popolo che ne mancavano. Il bel dire piacque agli ascoltatori; e '1 numero piccolo e disarmato non movendo sospetti, fu il drappello accolto con suoni militari, e provveduto d'armi trionfalmente. Indi a poche ore il castellano, rammentando la comparsa de' giacobini nella scorsa notte, comandò che numerose pattuglie girassero intorno alle mura, ed elesse a guidarle lo stesso Brandi. Uscirono. Dipoi prescrivendo che le ascolte fussero doppiate, pose a fianco di un popolano un congiurato. Richiamò dalle pattuglie il solo Brandi per conferire di materia gravissima; ed appena giunto, chiusagli indietro la porta, ed afferratolo, fu menato tacitamente in profondo carcere. Cosi orbato del capo il presidio de' lazzari, bastarono pochi arditissimi ad opprimere i resti; perciocché, fatto segno, le ascolte de' congiurati impugnarono le armi sul petto alle vicine; gli altri assalirono i lazzari che andavano sicuri ed inermi per il castello; l'ardire e la sorpresa prevalsero; e in breve ora i centotrenta del popolo furono cacciati dalle porte, o chiusi in carcere da soli 31 repubblicani; altri repubblicani, al concertato segnale, accorsero; e da quel punto il castello fu conquista della parte francese senza che stilla di sangue si spargesse. I lazzari discacciati e quegli usciti a pattuglia col Brandi narravano le patite ingiurie, ma non creduti perché ancora la bandiera del re sventolava sulla rócca, e perché il vero che spiace tardi è creduto. Il generale Championnet fu avvisato dei successi.

XLV. E giorno innanzi de' fatti di Santelmo, torme di popolo uscite in armi dalla città assalirono il posto francese a Ponte‑rotto; lo espugnarono, e procedendo valicarono il fiume Lagni; ma da maggiore schiera incontrate e battute, ritornarono. L'oste francese, quel giorno stesso 19 di gennaio, levò i campi ed attendò più presso a noi tra Sarno e Aversa per aspettare la mezza brigata mossa di Benevento sotto il colonnello Broussier. Il quale al passaggio che faceva delle strette Caudine, note col nome di Forche per la sventura e la vergogna romana, visto in cima delle convalli e nelle boscose pendici gran numero di armati, si ricordò le male sorti de' due consoli; ma di coloro più avventuroso, ovvero meno esperti de' Sanniti i popoli presenti del principato, egli per arte di guerra h vinse. Avvegnaché simulando, prima gli assalti, poi la fuga, spostò da quelle forti posizioni gl'incauti difensori. che, giunti al piano, furono facilmente sconfitti, come genti spicciolate, da schiera in ordinanza. Pure quattrocento Francesi caddero morti o feriti, ed in assai maggior numero della opposta parte; la legione Broussier, superata la stretta, univasi all'esercito, e quasi spensierata procedeva quando vide e combatté e vinse truppa di lazzari, che, volteggiando, come dotta in guerra, dietro al monte Vesuvio, sorprendeva opportunamente le stanze del generale Duhesme, e le pigliava, essendo in numero quanto mille contra dieci.

Adunato l'esercito francese, ventiduemila soldati, fu disposto in quattro colonne; delle quali una si dirigeva sotto il generale Dufresse a Capodimonte, altra sotto il generale Dubesme alla porta detta Capuana, la terza sotto il generale Kellermann al bastione del Carmine, e la quarta sotto Broussier stava in riserva. Napoli non ha bastioni, o cinta di muri, o porte chiuse; ma la difendevano popolo immenso, case l'una all'altra addossate, fanatismo di fede, odio a' Francesi. Era il giorno 20. Il generale Duhesme avanzò più degli altri; e il suo antiguardo, guidato dal generale Mounier, scacciate molte bande di lazzari, presi alcuni cannoni, entrò la porta Capuana per mettersi a campo nella piazza dello stesso nome. Subito in giro in giro, dalle case preparate a combattere per feritoie ne' muri, e per cammini coperti, partono a migliaia i colpi di archibugio, ed i Francesi ne sono uccisi o feriti; cadde moribondo il generale Mounier, cadono i più arditi, non si vede nemico, a nulla puote arte o valore; sì che, abbandonato l'infausto luogo, traggonsi addietro. Kellermann, superate le guardie del ponte della Maddalena, pone il campo nella diritta sponda del Sebeto: e '1 generale Dufresse, non contrastato, si alloggia in Capodimonte. Vanno i lazzari orgogliosi della riconquistata piazza Capuana.

Per brev'ora, perciocché lo stesso Duhesme, tornato agli assalti ed espugnata una batteria di dodici cannoni messa innanzi alla porta, procede nella piazza lentamente, incendiando gli edifizi che la circondano. Era già notte; le fiamme, la vastità e l'infausto augurio degl'incendii, spaventarono i lazzari, che andarono a ripararsi nella città. Il di seguente il generale Championnet, addolorato delle morti nel proprio esercito e del guasto di nobile città, sperò soggettarla per sole minacce o consigli; così che, spiegati a mostra su le colline i soldati, le artiglierie, le bandiere, esortava per lettere benigne alla resa. Ma l'araldo, impedito nel cammino ed  offeso da' lazzari, tornò fuggendo; altro messo travestito pervenne; ma trovando non capi, non ordini, non magistrati, sciolto il senato, fuggitivi Moliterno e Roccaromana, null'altro che plebe e che scompiglio, venuto al campo riferì le vedute cose. Il generale Duhesme aveva intanto spedito piccola avanguardia al largo delle Pigne; e poiché i lazzari l'offendevano dal vasto palagio di Solimena, poca mano di soldati, per subita incursione, giunse all'edifizio, lo bruciò, tornò al campo. Così passò il giorno 21, e con poca guerra il seguente.

XLVI. Ma nella notte il capitano francese dispose per il giorno 23 gli ultimi assalti; ed avvisati i capi delle colonne, e i partigiani in Santelmo, ordinò le mosse e le azioni; prescrivendo nella sperata vittoria severa disciplina ai soldati; e provvedendo nelle possibili sventure, al ritorno ed alla sicurezza dell'esercito. Terminava il comando con dire: «Alla prima luce del giorno muoveremo». E mossero. Al generale assalto i lazzari per le strade combattevano, senza consiglio, senza impero, a ventura, disperatamente; e quando da Santelmo partì colpo di cannone ed uccise alcun d'essi nella piazza del mercato, tutti volgendosi al castello videro bandiera francese e si accertarono del tradimento. Moliterno e Roccaromana erano in quel forte rifuggiti; altri repubblicani, vestiti da lazzari tramezzo a questi, prima impedirono le stragi e i furti nella città, poi menavano al flagello dei Francesi la tradita plebe. Opere malvagie se pongasi mente alla ingannata fede; ma scusabili o benedette perché intendevano a finire gli eccessi e le furie di Stato senza leggi. A' giudizi di Dio e della istoria sono colpevoli degl'infiniti misfatti di quel tempo chi suscitò la guerra e la desertò, e chi mosse il popolo all'armi ed abbandonò i partigiani, lo Stato, il comando, i freni del regno. Queste azioni erano sentite dalla coscienza e volontarie; le altre dipendevano quando da istinto di salvezza quando da carità di patria, e più sovente da necessità. La peggiore plebaglia, corsa allo spoglio della reggia, e da due cannonate di Santelmo sbaragliata, lasciò a mezzo A sacco. Procedevano intanto i Francesi: il generale Rusca prese di assalto il bastione del Carmine, il Castelnuovo si arrese al generale Kellermann, il generale Dufresse, passato da Capodimonte a Santelmo, scendeva nella città ordinato a guerra.

E il generale Championnet, che fra tante ostilità non aveva deposto il pensiero magnanimo di pace, andò al campo di Duhesme nel largo delle Pigne; e alzando bandiera di concordia, chiamando a sé col cenno molti del popolo, dimostrò con modi e parole benevoli dissennata quella guerra da che i Francesi erano padroni de' castelli; e, peggio che dissennata, ingiusta, perché portavano al popolo quiete, abbondanza, miglior governo; e ne' loro giuramenti rispetto alle persone ed alla proprietà, venerazione alla comune religione cristiana, divozione al beatissimo san Gennaro. Il generale, che speditamente parlava l'idioma d'Italia, fu inteso e applaudito. Era tra i presenti quel Michele il Pazzo, scelto capo, come ho riferito, dei lazzari, il quale, pregando al generale che fosse posta guardia di onore a san Gennaro, subito ottenne che due compagnie di granatieri andassero alla cattedrale; le quali tra lazzari napoletani, che, percorrendo, gridavano viva i Francesi, facevano sentire altamente rispetto a san Gennaro. Non mai la fama fu più rapida: da un punto all'altro della vasta città si narravano que' fatti, si ripetevano quelle voci di concordia, mentre su le rócche sventolava la insegna dei tre colori, e le bande musicali francesi sonavano ad allegrezza; era il cielo brillantissimo come suole in Napoli nel gennaro. Caddero le armi di mano al popolo: belva furibonda o mansueta a giuoco di fortuna; facile alla libertà ed al servaggio; proclive meno al moto che alla pazienza; materia convenevole al dispotismo. Cessato il rumore di guerra, uscite da' nascondigli le appaurite genti, il generale Championnet fece ingresso magnifico, pubblicando editto in questi sensi:

«Napoletani! siete liberi. Se voi saprete godere del dono di libertà, la repubblica francese avrà nella felicità vostra largo premio delle sue fatiche, delle morti e della guerra. Quando ancora fra voi alcuno amasse il cessato governo, sgomberi di sé questa libera terra, fugga da noi cittadini, vada schiavo tra schiavi. L'esercito francese prenda nome di esercito napoletano, ad impegno e giuramento solenne di mantenere le vostre ragioni, e trattar per voi le armi ogni volta giovi alla vostra libertà. Noi Francesi rispetteremo il culto pubblico, e i sacri diritti della proprietà e delle persone. I vostri magistrati per paterne amministrazioni provvedano alla quiete ed alla felicità dei cittadini, svaniscano gli spaventi della ignoranza, calmino il furore del fanatismo; sieno solleciti a pro nostro quanto lo è stata contro di noi la perfidia del caduto governo».

Durò la gioia. I repubblicani per le strade abbracciandosi e ricordando le sofferte pene, le benedicevano; gridavano i nomi di Vitaliano, Galiani, De Deo tra lacrime di tenerezza e di piacere; e patriottiche brigate accorrevano alle case dei parenti loro per consolarli dell'antico dolore. Tra le quali festive apparenze si rimoveva l'occhio e il pensiero da' corpi morti dalle due parti, che ancora ingomberavano le strade; mille almeno Francesi, tremila o più Napoletani. Giunta la notte, furono vinte le tenebre dalle infinite luminarie della città; ed il monte Vesuvio, che da parecchi anni non gettava fuoco né fumo, alzò fiamma placida e lucentissima come di festa; il quale spettacolo parve al volgo assentimento celeste ed augurio di felicità; ma furono fallaci le apparenze, però che il tempo nascondeva sorti contrarie.


 

 

 

 

CAPITOLO XI        LEGGI E PROVVEDIMENTI PER ORDINARE LO STATO A REPUBBLICA

 

I. Allo ingresso del generale Championnet la gioia non fu piena; l'adombravano le fresche memorie della guerra, e lo spettacolo di cadaveri non ancora sepolti: ma nella quiete della notte i magistrati della città disperdendo i segni della mestizia, prepararono lieto il vegnente giorno. Il dolore delle seguite morti era cessato, perciocché tanto dura nei commilitoni quanto il pericolo, e nella genia dei lazzari non lascia lutto né bruno. A' primi albòri molti giovani ardenti di libertà, chiamando il popolo a concioni, discorrevano i benefizi della repubblica; e per quanto avevano ingegno e loquela, persuadevano i premii, i debiti, le virtù di cittadino. Poi, numerando i falli e le ingiustizie del re fuggitivo, rammentavano le involate ricchezze, i vascelli bruciati per lasciar le marine senza difesa da' nemici e da' pirati, la guerra mossa e fuggita, concitate le armi civili e disertate, nessun ordine per lo avvenire, il popolo abbandonato al ferro dei nemici stranieri e delle discordie domestiche. I quali ricordi veri e vicini afforzavano gli argomenti e la eloquenza di libertà: voce gradita a' cuori umani, sorgente ed istinto di allegrezza. Vi fu dunque gioia piena, universale, manifesta.

Nel qual tempo fu bandito editto del generale Championnet, che, a nome e per la potenza della repubblica francese, volendo usare le ragioni della conquista in pro del popolo, dichiarava che lo Stato di Napoli si ordinerebbe a repubblica indipendente; che un'assemblea di cittadini, intesa a comporre il novello statuto, abbrevierete lo stento che apportano le nuove leggi; e per questo pubblico reggerebbe il governo con libere forme; e ch'egli, per la potestà che gli davano il grado e la felicità nelle armi, aveva nominato le persone che, assembrate in quel medesimo giorno nell'edifizio di s. Lorenzo, riceverebbero dal suo decreto e dal suo labbro l'autorità di governo. Erano i nominati venticinque, che uniti si appellavano governo provvisorio, diviso in sei parti, detti comitati, i quali prendevano il nome dagli uffizii, Centrale, dello Interno, della Guerra, della Finanza, della Giustizia e Polizia e della Legislazione. Quindi andò con pompa militare, accompagnato da gente infinita e festosa, in san Lorenzo, casa di onorate memorie per la città; e nella gran sala, dove già stavano i governanti, egli da seggio nobilissimo così parlò:

«Cittadini! voi reggerete la repubblica napoletana temporaneamente; il governo stabile sarà eletto dal popolo. Voi medesimi, costituenti e costituiti, governando con le regole che avete in mira per il novello statuto beneficio vi ho affidato ad un tempo i carichi di legislatori e di reggenti. Voi dunque avete autorità sconfinata, debito uguale; pensate ch'è in vostre mani un gran bene della vostra patria, o un gran male, la vostra gloria, o il disonore. lo vi ho eletto, ma la fama vi ha scelto; voi risponderete con la eccellenza delle vostre opere alle commendazioni pubbliche, le quali vi dicono dotati di alto ingegno, di cuor puro e amanti caldi e sinceri della patria.

«Nel costituire la repubblica napoletana, agguagliatela, quanto comportano i bisogni e costumi, alle costituzioni della repubblica francese, madre delle repubbliche nuove e della nuova civiltà. E nel reggerla, voi rendetela della francese amica, collegata, compagna, una medesima. Non sperate felicità separati da lei; pensate che i suoi sospiri sarieno vostri martorii; e che s'ella vacilla, voi cadrete.

«L'esercito francese, che, per pegno della vostra libertà ha preso nome di esercito napoletano, sosterrà le vostre ragioni, aiuterà le opere vostre o le fatiche, pugnerà con voi o per voi. E difendendovi, noi domandiamo null'altro premio che l'amor vostro».

II. La sala era piena di popolo. Al bel discorso udironsi plausi ed augurii all'oratore, alla repubblica francese, alla napoletana; e furono viste su gli occhi a molti lacrime di tenerezza e di contento. Declinato il romore, uno dei rappresentanti, Carlo  Laubert, napoletano, già cherico dell'ordine degli, Scolòpi, fuggitivo per libertà in Francia, tornato con l'esercito, rispose:

«Cittadino generale, certamente dono della Francia è la nostra libertà, ma istrumenti del benefizio sono stati l'esercito e 'l suo capo; con minor valore, o minor sapienza, o minor virtù, voi non avreste vinto esercito sterminato, dispersi popoli di furor ciechi, espugnate le rócche, superato il disagio del cammino e del verno. Sieno perciò da noi rese grazie alla repubblica francese; grazie agli eserciti suoi; grazie, generale, a voi, venuto come angelo di libertà e di pace.

«In questa terra, da' petti nostri, uscirono i primi desiderii di miglior governo, i primi palpiti di libertà, i voti più caldi per la felicità della Francia; in questa terra dai petti nostri fu dato il primo sangue alla tirannide; qui furono i ceppi più gravi, i martorii più lunghi, gli strazii più fieri. Noi eravamo degni di libertà; ma senza i falli della tirannia, ed il divino flagello che discaccia le coscienze agitate dalle perversità della vita, noi saremmo ancora sotto il dominio di Acton, della regina, di Castelcicala, di tutti i satelliti del dispotismo. Né bastavano i loro misfatti, però che la pazienza dei popoli è infinita; si volevano co' misfatti gli errori, ed armi pronte e virtù punitrice.

«Voi, generale, ci avete portato il governo per gli uomini, la repubblica; sarà debito nostro conservarla. Ma voi pensate ch'ella bisognerà, come tenera cosa che oggi nasce, di assistenza e di consiglio; ella è opera vostra, consigliatela, sostenetela. Se vedremo non esser noi eguali al carico sublime che ci avete imposto, lo renderemo in vostre mani; però che in tanta grandezza di opere e di speranze, scomparsi agli occhi nostri, noi stessi non abbiamo in prospetto che la felicità della patria. Dedicati ad essa, per essa io giuro; e 'l governo provvisorio da voi eletto, innanzi a voi, al popolo ed a Dio, ripeterà il sacramento». Per altre ventiquattro voci, si udi, lo giuro.

Si parti con ugual pompa e maggiore applauso il generale Championnet. L'altro rappresentante, Mario Pagano, vólto al popolo, disse:

«Sì cittadini, siamo liberi: godiamo della libertà, ma ricordando ch'ella siede sopra sgabello d'armi, di tributi e di virtù, e che le armi in repubblica non riposano, né i tributi scemano, se la virtù non eccede. A questi tre obbietti intenderanno le costituzioni e le leggi del governo. Voi, però che libero è il dire, aiutate gli ingegni nostri; noi accetteremo con gratitudine i consigli, li seguiremo, se buoni.

«Ma udite, giovani ardenti di libertà, che qui vi palesate per l'allegrezza che vi brilla negli occhi, udite gli avvisi d'uomo incanutito, più che per anni, nei pensieri di patria e negli stenti delle prigioni, correte all'armi, e siate nell'armi obbedienti al comando. Tutte le virtù adornano le repubbliche, ma la virtù che più splende sta ne' campi; A senno, l'eloquenza, l'ingegno avanzano gli Stati; il valore guerriero li conserva. Le repubbliche de' primi popoli, però che in repubblica le società cominciano, erano rozze, ignoranti, barbare, ma durevoli perché guerriere. Le repubbliche di civiltà corrotta presto caddero; benché abbondassero buone leggi, statuti, oratori, tutti i sostegni e gli incitamenti alla virtù; ma le infingarde, avevano tollerato che le armi cadessero.

«Perciò in voi, più che in noi, stanno le speranze di libertà. Il governo provvisorio, nel dirsi legittimo e costituito, intende da questo istante a' debiti suoi; e voi, strenui giovani, correte da questo istante a' debiti vostri, date i vostri nomi alle bandiere di libertà, che ravviserete dai tre colori».

L'adunanza sciolta, succederono alla contentezza pubblica molte private: il generale Championnet, che abitava la già casa de' re, allora detta nazionale, convitò i primi dell'esercito e i maggiori del governo e della città; altri de' rappresentanti bandirono altri conviti; gioia più grande fu nelle case di coloro che avevano patito dalla tirannide; e per fino nella plebe si videro feste, e si udirono voti per la repubblica. Solamente mancavano a' conviti ed alla gioia i parenti degli uccisi per causa di maestà; più compianti e ammirati perché lontani. E in quel giorno stesso gli editti del governo correvano le province, avvisando le succedute cose, e dando provvedimenti di Stato. Fu prescritto che sino agli ordini nuovi reggessero gli antichi, uniformati alle regole generali di repubblica; e che rimanessero temporariamente le medesime autorità, i magistrati, gli offizii. Però, cessato il timore di alcun danno, terminata la guerra, volendo le province imitare la città capo dello Stato, ogni paese, ogni terra diede segno di giubilo. Nel giorno appresso, con cerimonia da baccanti più che cittadina, alzarono nelle piazze di Napoli gli alberi di libertà, emblemi allora di reggimento repubblicano; tra calde orazioni, danze sfrenate, giuramenti e nozze come in luogo sacro. E finalmente il generale Championnet con solenne pompa, conducendo seco altri generali ed uffiziali dell'esercito, andarono al duomo per rendere grazie della finita guerra, adorare le reliquie di san Gennaro, e invocar favori al nuovo stato. Tutto nella chiesa e nella cappella era preparato per la sacra funzione; e popolo infinito stava intento a riguardare le ampolle per trarne augurio di felicità o di sventure. Ma, compiuto il miracolo in più breve tempo che ogni altra volta, il generale offri al santuario mitria ricca d'oro e di gemme; gli uffiziali stettero devoti e come credenti ai misteri; e la plebe stimò que' mutamenti di stato voler di Dio.

III. Compiute le feste e chetato il romore della novità, la mente di ognuno, riposata, si fissò alle succedute cose per trarne regole di ambizione e di vita. La quale istoria morale del popolo, compagna e precorritrice della storia dei fatti, voglio esporre in questo luogo come chiarimento delle cose mirabili che narrerò. La libertà politica era scienza di pochi dotti, appresa dai libri moderni e dalle sentenze della presente libertà francese; perciò sconfinata quanto il genio della rivoluzione, e quanto filosofia ideale non applicata alle società. Gli umani difetti, le colpe umane, le stesse virtù, che per natural cammino cadono in vizi; le ambizioni, l'eroismo, necessari alle repubbliche, ma che di loro natura trascendono in pericolo dello Stato; in somma, tutte le necessità che accerchiano l'umana condizione, travisate o sconosciute dalle dottrine astratte, creavano certa idea di libertà politica troppo lontana dal vero. E maggiore ignoranza era nella pratica. Qui non mai parlamento nazionale o congreghe di cittadini (da' tempi antichissimi e scordati della buona casa Sveva) per trattare i negozi dello Stato; qui sempre i diritti di proprietà conculcati dalle volontà del fisco, dalle gravezze feudali, dalle decime della Chiesa, dalle fantasie della prepotenza; qui le persone soggette all'imperio de' dominatori e de' baroni, agli abusi del processo inquisitorio, .alla potenza de' delatori e delle spie, alle leve arbitarie per la milizia, ed alle angarie della feudalità; qui non libere le arti né i mestieri né le industrie, qualunque volontà impedita. Il solo segno di libertà rimaneva ne parlamenti popolari per la scelta degli ufficiali del municipio: libertà sola e sterile, perché tra infinite servitù.

Mancavano dunque le persuasioni di libertà; peggio, della uguaglianza. La libertà viene da natura, così che bisognano ripetuti sforzi del dispotismo e pieno abbandono del pensiero per dimenticarne il sentimento; l'uguaglianza nasce da civiltà, e per lungo uso della ragione; ché non sono concetti di natura. Il debole uguale al forte, il povero al ricco, l'impotente al potentissimo: nelle tribù rozze dell'antichità erano gli uomini liberi, ma inuguali. E dopo le dette cose, riandando la storia del popolo napoletano, non l'antichissima e dimenticata delle repubbliche greche, ma la più recente, come che vecchia e continua di sette secoli, che ha formato gli universali costumi, non si troverà negli ordini civili pratica o segno di uguaglianza; bensì monarchia, sacerdozio, feudalità; immunità, privilegi, servitù domestica, vassallaggio ed altre innumerevoli difformità sociali. Perciò in quell'anno 1799 non era sentita dalla coscienza, e nemmeno concepita dall'intelletto del popolo l'uguaglianza politica; solamente l'ultima plebaglia finse d'intendere in quella voce l'uguale divisione delle ricchezze e de' possessi.

Dalle quali cose discende che i maggiori prestigi della rivoluzione francese, libertà ed uguaglianza, erano per il nostro popolo non pregiati né visti. Queste sole differenze tra le rivoluzioni di Francia e di Napoli bastavano per suggerire differenti regole di governo; ma ve n'erano altre non meno gravi. Aveva la Francia operato il rivolgimento, l'aveva Napoli patito; il passaggio tra gli estremi di monarchia dispotica a repubblica era stato in Francia opera di tre anni, in Napoli di un giorno; i bisogni politici furono in Francia manifesti da' tumulti, in Napoli erano ignoti o mancavano; soddisfare in Francia a quei bisogni era mezzo e riuscita alle imprese, in Napoli occorreva indovinare i desiderii, anzi destarli nel popolo, per aver poscia il merito di appagarli. Il re di Francia era spento, erano spenti i sostenitori di monarchia, o fuggitivi; il re di Napoli regnava nella vicina Sicilia, rimanevano tra noi tutti i partigiani del passato. La baronia, contraria; i nobili partigiani di repubblica (figli, non capi delle famiglie), poco validi a muovere gli armigeri de' feudi; i preti, impauriti dagli strazi del clero francese; i frati, temendo lo spoglio de' conventi; i curiali, la rivocazione di quella congerie di codici ch'era per essi talento e fortuna. E infine a noi mancavano (e abbondavano in Francia) le difese della libertà, che sono le virtù guerriere e le cittadine ambizioni; e a noi mancava la legittimità del rivolgimento; perciocché non veniva dai parlamenti, stati‑generali, assemblee, autorità costituite, moto uniforme di popolo; ma da sola conquista e non compiuta: condizione che allontanava dal nuovo governo gli animi paurosi e metodici.

IV. Ma benché le regole dovessero variare da quelle di Francia, noi le vedremo uniformi: sia necessità di tempi o ebbrezza delle fortune francesi, o, come più credo, in tanta copia ne' rappresentanti nostri d'ingegno e di sapienza, scarsità dell'ingegno delle rivoluzioni, e della sapienza de' nuovi stati. Que' rappresentanti erano settari antichi di libertà, afflitti la più parte nelle prigioni di Stato, ed oggi appellati Patriotti pel nome preso di Francia, onde schivare l'altro di giacobino, infamato da' mali di Robespierre. Fu primo pensiero del governo spedire alla repubblica francese oratori di gratitudine per gli avuti benefizi, ed ambasciatori di amicizia e di alleanza; scegliendo a quegli officii il principe d'Angri, grande di casato e di ricchezza; ed il principe Moliterno anch'egli nobile e fornito di pregi più belli, cioè buona fama ed alcun fatto nelle armi, lontano da' club, capo sincero del popolo nella ultima guerra contro i Francesi; e quando la plebe imperversò, fuggitivo, non traditore; ma dava sospetto al giovine governo, così che, onorandolo del carico di ambasciatore, lo discacciò. Il duca di Roccaromana, propenso a femminili lascivie, avendo scarse le forze alle ambizioni del dominio, restò scordato negl'inizii della repubblica. I sensi che prima spuntarono in quel governo furono dunque i sospetti: innati a reggimento libero, stimoli alla virtù ne' grandi Stati, alle discordie ne' piccoli; e perciò dove sostegno e dove precipizio di libertà.

Un decreto divise lo Stato in dipartimenti e cantoni, abolendo la divisione per province, e mutando i nomi per gli antichi di onorate memorie. In esso i fiumi, le montagne. le foreste, i termini di natura si vedevano capricciosamente messi nel seno de' dipartimenti o dei cantoni, e talvolta delle comunità: scambiati i nomi, creduto città un monte e fatto capo di cantone, il territorio di una comunità spartito in due cantoni, certi fiumi addoppiati, scordate certe terre; insomma, tanti errori che si restò all'antico; e solo effetto della legge fu il mal credito de' legislatori.

Ma buona legge sciolse i fidecommessi, libertà desiderata per i libri del Filangeri, del Pagano, di altri sapienti; e produttrice di effetti buoni, quanto comportavano le sollecitudini di quello Stato. Molte comunità avevano lite co' baroni, molte più rodevano i freni del vassallaggio; e perciò quelle e queste, ed altre tirate dagli esempi, invadendo in modo popolare i dominii feudali, e spartendoli a' cittadini, vendicavano con gli eccessi delle rivoluzioni gli odii propri e degli avi. Piacque al governo quel moto, e dichiarando abolita la feudalità, distrutte le giurisdizioni baronali, congedati gli armigeri, vietati i servigi personali, rimesse le decime, le prestazioni, tutti i pagamenti col nome di diritti, primise legge nuova, giusta per i comuni e per i già baroni; senza vendicare, come natura umana consiglierebbe, le ingiurie patite da' feudatari. Dopo la quale promessa, il governo attese all'adempimento; ma intrigato nelle vicendevoli ragioni, non mirando che alla giustizia ideale, trovando intoppo quando ne' possessi e quando ne' titoli, quella legge, lungamente discussa, non fu mai fornita; e di tutti i rappresentanti maggior sostenitore de' baroni fu quello istesso Mario Pagano, avverso a loro nelle dottrine, scrittore filosofo, pusillanimo consigliere, ottimo legislatore in repubblica fatta, impotente come gli altri ventiquattro del governo a fondar nuova repubblica.

Altro indizio di popolare avversione si manifestò per le cacce regie: avvegnaché i cittadini, al sentirsi liberi, uccisero le bestie, svanirono i confini; e spregiando le ragioni della proprietà, recidevano i boschi, piantavano a frutto nei campi, dividevano come di conquista le terre. Così che a governo dichiarò le cacce già regie, ora libere, terreni dello Stato; le guardie sciolte. Per altri editti prometteva la soppressione de' conventi, la riduzione de' vescovadi, la incamerazione delle sterminate ricchezze della Chiesa, benefizi non sentiti dall'universale, come dimostrava il rispetto mantenuto intero ne' tumulti o cresciuto alla Chiesa ed al clero. L'abolizione de' titoli di nobiltà, l'atterramento delle immagini e de' fregi de' passati re, il nome di nazionali alle case già regie, il nome di tiranno alla persona del re Ferdinando, furono subbietti di altre leggi, volute dal proprio sdegno, o imitate dai fatti della Francia.

Provvedevano nel tempo stesso alle altre parti del politico reggimento. La finanza disordinata, come ho mostrato nel precedente libro, venuta in peggio da' succeduti sconvolgimenti, più inquieta per la urgenza dei bisogni e de' casi, fu la maggior cura del governo. Legge inattesa dichiarò debito della nazione il vóto de' banchi, e ne promise il pagamento; con profferta benevola, ma non giusta né finanziera, imperciocché mancavano le ricchezze a riempire quelle voragini, ed in tanto moto delle carte bancali, confuse le fila della giustizia, non erano creditori del fallimento i possessori delle polizze. Per altra legge fu prescritto a' tributari di versare subitamente nell'erario del fisco le taglie dovute alla passata finanza, e le correnti; rimanendo intere le imposte pubbliche sino a quando nuovi statuti le ordinerebbero in meglio.

Fu intanto abolita la gabella sul pesce con gradimento de' marinari della città, che si fecero amici alla repubblica. Ma le abolizioni, nel Regno, delle gabelle sul grano e del testatico (indebitamente credute comunali) produssero effetti contrari; avvegnaché, pagando con esse le taglie fiscali, mantener queste, abolir quelle faceva scompiglio e impossibilità. I tributari, assicurati dalla legge, negavano gli usati pagamenti; i pubblicani, sostenuti d'altra legge, li pretendevano; perciò lamenti e discordie nelle comunità.

V. Tra mezzo a' quali disordini e povertà comparve comandamento del generale Championnet, che, donando alla città le somme pattovite per la tregua, imponeva taglia di guerra di due milioni e mezzo di ducati, e di altri quindici milioni su le province, quantità per sé grandi, impossibili nelle condizioni presenti dello Stato e nel prefisso tempo di due mesi. Pure il governo, vinto da necessità, intese a distribuire il danno; e non potendo trar norma dagli ordini dell'antica finanza, perché mancavano tutte le regole della statistica, tassò i dipartimenti, le comunità, le persone per propri giudizi; ne' quali prevalendo il maligno genio di parte, si videro aggravate le province più salde alla fedeltà, e gli uomini più tenaci ai giuramenti. E intanto, per agevolare la tassa, fu dichiarato che in luogo di moneta si riceverebbero a peso i metalli preziosi, ed a stima le gemme: cosicché vedevasi con pubblica pietà spogliar le case degli ultimi segni di ricchezza, e le spose disabbellirsi degli ornamenti, e le madri togliere a' bambini le preziosità degli amuleti, e i fregi di religione o di augurio. La gravezza, il modo, la iniquità scontentavano il popolo.

Cinque del governo andarono deputati del disconforto pubblico al generale Championnet; ed il prescelto oratore Giuseppe Abbamonti, parlandogli sensi di carità e di giustizia, lo pregava di rivocare il comando, ineseguibile allora, facile tostoché la repubblica prendesse forza ed impero; ragioni, lodi, lusinghe adornavano la verità del discorso, quando il generale, rompendone il filo, e ripetendo barbaro motto di barbaro antenato, rispose: «Sventure a' vinti!» Era tra i cinque Gabriele Monthonè, già capitano di artiglieria, gigante d'animo e di persona, amante di patria, e spregiatore d'ogni gente straniera, il quale, sconoscendo le forme di ambascieria, fattosi oratore di circostanza, così. disse: «Tu, cittadino generale, hai presto scordato che non siamo, tu vincitore, noi vinti; che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi; che noi ti demmo i castelli; che noi tradimmo, per santo amore di patria, i tuoi nemici; che i tuoi deboli battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città; né basterebbero a mantenerla se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci, per farne pruova, dalle mura, e ritorna se puoi; quando sarai tornato imporrai debitamente taglia di guerra, e ti si addiranno sul labbro il comando di conquistatore, e l'empio motto, poiché ti piace, di Brenno». Il generale accomiatando la deputazione, disse: risolverebbe. Nacquero da quel punto in lui sospetti, e nei repubblicani disamore a' Francesi.

Il generale, al vegnente giorno, confermando le taglie, ordinò il disarmamento del popolo: uomini fatti liberi e disarmati sono il dileggio della libertà. Solamente si permetteva la composizione delle guardie civiche, prescrivendo che fossero scelti a quell'onore i patriotti più chiari e più fidi; sii che il governo emanò legge tanto stretta, che pochi cittadini entravano nelle milizie armate, molti nel ruolo dei tributari: nella città di Napoli quattro sole' compagnie, seicento uomini, erano gli scelti; innumerevoli i taglieggiati; la legge, invalida per forza d'armi o per sentimento di libertà, parve finanziera ed avara. La stessa prudenza o sospetto del generale francese, e le sentenze dei dottrinari napoletani facevano trasandare le milizie stipendiate; essere soldati in repubblica, dicevano i dottrinari, tutti gli uomini liberi, essere gli eserciti mercenari stromento di tirannide; Roma, quando veramente libera, conscrivere i combattenti ad occasione di guerra; non mancar guerrieri alle repubbliche; ed altre loquacità di tribuna, o dottrine di fantastiche virtù. Correvano le strade accattando il vivere buon numero di Dàlmati, già soldati del re, abbandonati su questa terra straniera; correvano le province, vivendo d'arti peggiori, le già squadre degli armigeri baronali, delle udienze, dei vescovi, e grande numero dei soldati mantenuti sino allora agli stipendi della milizia. Era dunque facile formare nuovo esercito di venticinquemila soldati, e trarre da' pericoli della patria venticinquemila migliaia di bisognosi e predoni. Ma la repubblica vergognava di essere difesa da genti straniere o venali, ed aspettava il giorno della battaglia per battere dei calcagni la terra e vederne uscire guerrieri armati.

VI. Soprastava male più grande, la penuria. I raccolti dell'anno precedente furono scarsi; la guerra esterna e la civile avevano consumato immensa quantità di grano; la grassa Sicilia. ricusava di mandarne, e le navi che scioglievano dai porti della Puglia e della Calabria erano predate da' navili siciliani ed inglesi. Crebbe il prezzo del pane, tanto più sentito per i perduti guadagni della plebe, per il gran numero de' servi congedati, per le industrie sospese, per la malvagità di quelle genti che speravano nelle disperazioni del popolo. Ma i governanti stavano sereni, confidando nello zelo de' partigiani ricchi di granaglia, nei compensi di governo libero, nella rassegnazione e nel merito di patir male per amar la patria. Erano virtù dei reggitori, che, poco esperti della mala indole umana, le credevano universali; e però intendendo che bastasse a tutti i bisogni far certo il popolo della bontà di quel reggimento, spedivano patriotti a sciami per concionare e persuadere. Motivo di mestizia e di sdegno era quindi udire ne' mercati, vuoti di ricchezze e di negozi, oratore imberbe discorrere i benefizi della repubblica; e con eloquenza spesso non propria, ma voltata dalle arringhe francesi, né mai sentita dai volgari uditori pieni di contrarie dottrine, presumere di acquetare i lamenti e i bisogni della plebe.

Oratore fra tutti più saggio e più intenso era quel Michele il Pazzo, capo del popolo ne' tumulti della città, pacificatore all'arrivo di Championnet, e, mutate le cose, alzato al grado di colonnello francese, e spesso mandato ambasciatore alle torme de' popolari. Arringava in plebeo, solo idioma ch'ei sapesse, da poggiuolo o scranna per mostrarsi in alto, non preparato, permettendo la disputa o le risposte. Diceva un giorno: «Il pane è caro perché il tiranno fa predare le navi cariche di grano, che ci verrebbero da Barberia; che dobbiamo far noi? Odiarlo, sostenergli guerra, morir tutti piuttosto che rivederlo nostro re; ed in questa penuria guadagnar la giornata faticando per non dargli la contentezza di sentirci afflitti».

Ed altre volte:

«Il governo d'oggi non è di repubblica, la repubblica si sta facendo; ma quando sarà fatta, noi idioti la conosceremo ne' godimenti, o nelle sofferenze. Sanno i saccenti perché mutano le stagioni, noi sappiamo di aver caldo o freddo. Abbiamo sofferto dal tiranno guerra, fame, peste, terremuoto; se dicono che godremo sotto la repubblica, diamo tempo a provarlo.

«Chi vuol far presto semina il campo a ravanelli, e mangia radici; chi vuol mangiare pane semina a grano e aspetta un anno. Così è della repubblica: per le cose che durano bisogna tempo e fatica. Aspettiamo».

Dimandato da uno del popolo che volesse dir cittadino, rispose: «Non lo so, ma dev'essere nome buono, perché i capezzoni (così chiama il volgo i capi dello Stato) l'han preso per se stessi. Col dire ad ogni cittadino, i signori non hanno l'eccellenza, e noi siamo lazzari: quel nome ci fa uguali».

E allora un altro: e che vuol dire questa uguaglianza?

«Poter essere (indicando con le mani se stesso) lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre; io lo sono per la uguaglianza: allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva».

Non più ne dirò per brevità, sebbene molte altre sentenze di egual senno io abbia inteso da quel plebeo; e spiacemi di averne tarpato il più sottile per non averle riferite nel dialetto parlato, brevissimo e vivace; della quale licenza ho detto in altri luoghi le cagioni.

Alcuni preti e frati, sapienti ancor essi, parlavano al popolo di governo; e tirando dal Vangelo le dottrine di eguaglianza politica, e volgarizzando in dialetto napoletano alcuni motti di Gesù Cristo, incitavano e afforzavano l'odio a' re, l'amore a' liberi governi, l'obbedienza all'autorità del presente. Spiegavano come pronostici avverati di profeti, la fuga di Ferdinando, la venuta di genti straniere, il mutato governo; così che, messe insieme le profezie, la croce, l'uguaglianza, la libertà, la repubblica, mostrandosi con vesti sacerdotali, e parlando linguaggio superstiziosamente creduto, insinuavano alla plebe sensi favorevoli al nuovo stato. Ma pure altri cherici dai confessionali inspiravano sensi contrari; e giovani dissennati guastavano le buone opere de' sapienti per dottrine di sfrenata coscienza, predicando libero il credere, libero il culto di religione; non premi celestiali alla virtù, non pene alle colpe: nullo il futuro come di belve.

VII. Le cure de reggitori, fermate ne' primi tempi alla sola città, si estesero alle province; ma, seguendo le istesse regole, mandavano commissari per dipartimenti, commissari per cantoni, con pienezza di potere quando convenisse alla esecuzione delle leggi, e a' casi urgenti di quiete pubblica o di guerra. Insieme a' quali si partivano molti altri col nome di democratizzatori, senza facoltà o stipendi, col carico di persuadere e ridurre alle forme repubblicane le città e, terre delle province; provveduti di lettere patenti del governo, andando a turba per vero zelo o per falso, prevedendone uffizi pubblici e guadagni. Non dirò, perché facile a immaginare, quanto i commissari e i democratizzatori paressero ingrati agli abitanti delle province, rozzi, semplici, accorti; nulla curanti le bellezze non sentite di libertà; spregiatori di vóta eloquenza, ed usi a fermare le speranze nell'abolizione della feudalità, nella divisione delle terre feudali, nella minorazione dei tributi, nel miglioramento delle amministrazioni e della giustizia. Le quali brame non isfuggivano agli oratori di repubblica, ma le discorrevano variamente, promettendole in lontano, ed unendole alle riforme religiose, alle libertà di coscienza, a' matrimoni solamente civili, alla nullità dei testamenti, e ad altre innumerevoli sfrenatezze di morale, riprovate dagli usi e dalla mente de' ruvidi abitanti delle campagne. La tendenza maggiore de' discorsi era il pagamento de' fiscali, ed il ricordo degli aiuti e degli sforzi che debbono i cittadini alla nascente libertà.

Da' discorsi passando alle opere, andavano i commissari investigando gli atti e le opinioni dei magistrati; i quali, anziani di età, scelti tra' partigiani del passato governo, mal contentavano le passioni estreme di giovani ardenti delle parti contrarie; e perciò ad essi erano surrogati uomini nuovi. Molti onesti abitanti delle province, scontenti del passato per sofferta tirannide o per gli spogli delle ricchezze pubbliche e private, amavano gli ordini novelli e li secondavano; ma si arrestarono a mezzo corso quando, visto governato lo Stato dalle opinioni, non dal consiglio, presagirono pericoli e precipizi.

VIII. Un solo frastuono di libertà, le accuse pubbliche, non ancora si udiva, ma fu corto il silenzio. Niccolò Palomba, volendo accusare Prosdocimo Rotondo, membro tra i venticinque del governo, adunò molti patriotti; ed esponendo le colpe, le pruove, la utilità del giudizio, dimandò assistenza contro d'uomo potente; ma in tempi ne' quali la potenza vera risiedeva nella sovranità del popolo. Applaudito il pensiero, intese le accuse, fu promesso per grida patrocinio all'animoso proponimento. Nuovo il giudizio e non prescritte le forme, andò l'accusatore con grande numero di clienti, e con libello che lesse al governo sedente in atto di legislatore presente l'accusato e facendo parte dell'augusto consesso. Maravigliarono gli uditori; ed alzandosi dubbio se l'accusa dovesse ammettersi, pregante l'accusato, fu ammessa. Trattava di colpe antiche e non vere; la fama di Rotondo era egregia; quella di Palomba (tranne l'amore per la repubblica) correva macchiata di sospetti e di falli; ma i faziosi, tenendo ad argomento di piena libertà quel processo, lodavano a mille voci l'accusatore, e concertavano seco in secrete adunanze le offese, mentre l'accusato dimandava in aperto il giudizio. Parve scandalo al governo il proseguimento di processo iniquo, pericoloso per lo esempio all'autorità inviolabile de' rappresentanti dello Stato; e perciò, seguendo il partito degl'infingardi, lo sospese: concesse a Palomba uffizio grande e bramato di commissario in un dipartimento, e sperò di coprire col silenzio la turpitudine dei fatti. Quindi ad un mese, mutate le forme e le persone del governo provvisorio, Prosdocimo Rotondo, tornato privato cittadino, valendosi delle ragioni di libertà, dimandò il rinnovamento del giudizio da' magistrati comuni; e fu assolto. Non egli per magnanimità, e non alcun altro, custode delle leggi, per timidezza, diede accusa di calunnia.

Que' fatti mostrarono la via degl'impieghi pubblici, la forza delle adunanze secrete, la debilità del governo. Perciò si udirono ad un tratto mille accuse; non bastando egregia fama, probità di antica vita, viver presente immaculato, a contenere le ambizioni e la protervia de' tristi. Fu composto tribunale, chiamato Censorio, a ricevere le accuse, esaminarle, spingerle in giudizio, e provvedere a' lamenti degli oppressori (era il motto degli accusatori) ed alla necessaria tutela degli accusati. Sursero al tempo medesimo le società popolari, segrete o manifeste, nelle quali i settari preparavano le accuse: delle pubbliche, due furono più famose, le sale Patriottica e Popolare; le quali ad esempio de' club francesi, adunavansi quando in pubblico, quando in privato, sotto presidenza, con tribuna, processo delle materie discusse e libro delle decisioni. Le grandi quistioni di politica, le nuove costituzioni dello Stato, le leggi, le ordinanze, la guerra, e poi gli uffizi, gli uffiziali, la vita pubblica, la privata de' cittadini, erano subbietto di esame con libertà o licenza tribunicia; e le profferite sentenze andavano, secondo i casi, al governo sotto forma di messaggio o di consigli, al tribunale censorio per accusa, e al popolo per tumulti. Nessuna coscienza riposava nella sua virtù, nessuna voce maligna era spregevole, ogni nemico potente, qualunque merito pericoloso. Vedevi mutamenti continui negli uffici dello Stato; odii acerbi, fazioni operose; il quale romore di accuse, di calunnie, di lamenti, si alzò strepitoso, e non posò che al cadere della repubblica; imperciocché le sétte, sintomi delle infermità de' governi, spengono questi se non sono spente.

IX. Mentre nella sala Patriottica si agitavano le più sottili quistioni sul nuovo statuto, e la stessa libertà francese pareva scarsa per noi, comparve la costituzione della repubblica napoletana, proposta nel comitato legislativo dal rappresentante Mario Pagano. Era la costituzione francese del 1793, con poche variazioni, suggerite da modesta libertà. Dispiacque leggere in essa rivocati i parlamenti comunali, tumultuosi veramente ed inutili sotto dispotica signoria, ma in repubblica mezzi opportuni alle elezioni ed amministrazioni, che sono i cardini di ogni libera società. Era debole in quella carta il potere giudiziario, né appieno libero l'amministrativo; si applaudì all'immaginato corpo degli Efori, sostenitori della sovranità del popolo. Due principii prevalevano: l'equilibrio dei poteri astratti, senza troppo avvertire all'equilibrio delle forze presenti, ovvero a ciò che in Stato libero è forza, cioé costumi, opinioni, virtù del popolo; ed il sospetto contro al potere esecutivo ed a' cittadini potenti. Come le leggi bastassero ad impedire i precipizi di Stato libero quando nel seno di lui operano le cagioni della rovina, mancò alla repubblica napoletana il tempo di sperimentarlo; un anno appresso quelle medesime leggi sospettose non mantennero dalla caduta la repubblica madre. Avventurosa, almeno, perché discese nelle mani di un Cesare, che durò tre lustri, e le serbò gran parte delle acquistate libertà; misera Napoli, che inabissò nelle voragini del dispotismo.

Il governo provvisorio esaminava lo statuto costituzionale, consolando con le speranze future le mestizie presenti, che un certo Faypoult, commissario di Francia, venne ad accrescere. Egli portava decreto della sua repubblica, la, quale, forte nelle ragioni della conquista, riconfermava le imposte di guerra; e diceva patrimonio della Francia i beni della corona di Napoli, i palazzi o reggie, i boschi delle cacce, le doti degli ordini di Malta e Costantiniano, i beni de' monasteri, i feudi allodiali, i banchi, la fabbrica della porcellana, le anticaglie nascoste ancora nel seno di Pompei e di Ercolano. Il generale Championnet, che, travagliato dalla universale scontentezza, ne prevedeva i pericoli, e non aveva cuore disumano, impedì a Faypoult l'esecuzione del decreto, e ne fece per editto pubblica la nullità; ma insistendo a commissario, e accesa briga, vinse il più forte: Faypoult, discacciato, si partì. Piacque ciò ai Napoletani, che, doppiando l'odio contro i Francesi, presero ad amare Championnet; scusandolo allora delle passate durezze; dicendole necessità, e rammentando (que' della plebe) la sua religione, il ricco dono a san Gennaro, e certo accidente il cui principio era ignoto. Avvegnaché nei registri battesimali della chiesa di Sant'Anna era un Giovanni Championnet diverso per genitori e per tempo di natali; ma frattanto il generale fu creduto Napoletano, benché veramente nascesse in Valenza nel Delfinato.

Quindi spiacque leggere nelle gazzette francesi decreto del Direttorio, che diceva così: «Visto che il generale Championnet ha impiegato l'autorità e la forza per impedire l'azione del potere da noi confidato al commissario civile Faypoult, e che perciò si è messo in aperta ribellione contro il governo; il cittadino Championnet, generale di divisione, già comandante dell'esercito di Napoli, sarà messo in arresto e tradotto innanzi un consiglio di guerra per essere giudicato del suo delitto».

Subito Championnet si partì: ebbe il comando dell'esercito il generale Macdonald. Championnet, giudicato in Francia ed assoluto, ritornato all'impero degli eserciti, accresciuto di gloria, povero di fortuna, morì poco appresso in Antibo; e se fu vera la fama, di veleno datogli o preso. Molti sospiri mandarono i Napoletani alle sue sventure; tanto più che venne compagno al Macdonald quel medesimo Faypoult, baldanzoso, protervo, inflessibile; vago di vendicare la gioia de' Napoletani alla sua cacciata, e l'amore che portavano al suo nemico. X. Giunse in quel mezzo nuova che i Francesi occupavano gli Stati della Toscana, che il gran duca Ferdinando III con la famiglia ne usciva. Il Direttorio francese, insaziabile di conquiste, dopo invasi gli Stati di Lucca, dimandò ragione al governo toscano delle ostilità manifestate nel ricevere le schiere napoletane contrarie  alla Francia, e nel dare asilo al Pontefice Pio VI. Il gran duca rispose che non mai nemicizia né sdegno contro la Repubblica, ma forza, e però necessità dei più deboli, era stato motivo alla pazienza di ricevere l'armi napoletane nel porto di Livorno minacciato da forti navili siculi e inglesi: e in quanto al pontefice, che, nessun atto vietando dargli ricovero, era debito di principe cristiano concederlo al capo della cristianità, vecchissimo e misero. Benché laudabili e vere le discolpe, di già cominciate le avversità delle armi francesi sull'Adige, così che bisognava raccorre non già dissipare gli eserciti della Repubblica, prevalendo l'avidità del Direttorio e del generale Scherer, duce supremo in Italia, andò contro Firenze una legione francese che il generale Gauthier dirigeva; e giunta presso alle mura, intimò per araldo la resa della città. Ma Ferdinando III, rassegnato alle necessità del tempo, mandò in risposta l'editto seguente:

«A' miei popoli.

«Vengono in Toscana armi francesi. Noi riguarderemo come prova di fedeltà e di amore de' nostri sudditi l'obbedienza al comando delle autorità, il mantenimento della quiete pubblica, il rispetto a' Francesi, la diligenza di evitare gli sdegni de' novelli dominatori: per le quali cose crescerà, se d'incremento è capace, il nostro affetto verso i popoli».

Dopo ciò l'armi francesi entrarono a Firenze; il gran duca, nel di seguente 27 di marzo, ne partì; la quiete non fu turbata. Per i quali­ successi, vedendo allargati in Italia i dominii e le parti di repubblica, si rallegrò il governo di Napoli. Ultima contentezza: imperciocché da quel di non giunse nuova se non mesta.


 

 

 

 

 

CAPITOLO XII          SOLLEVAZIONE DE BORBONIANI NELLE PROVINCE. GESTE DEL REDI SICILIA E DEGL'INGLESI CONTRO LA REPUBBLICA. GESTE IN DIFESA DI LEI.

 

XI. Cessato lo sbalordimento dal quale i Borboniani furono presi per la guerra infelice, la patita conquista ed il nuovo stato, e non repressi i primi tumulti nelle province da' battaglioni francesi, sempre annunziati, non mai visti, sursero le scontentezze discorse nel precedente capo; e in varii punti dello Stato ribellioni e armamenti. Stavano le moltitudini contro gli ordini nuovi; per la opposta parte, giovani scarsi di numero e di credito; tacevano i prudenti non per odio alla repubblica o per amore al passato, ma perché prevedevano i mali e i pericoli del futuro. Nelle città corse dal nemico s'imputavano i danni sofferti meno alla guerra e alle ragioni della conquista, che alla indisciplina delle milizie, alla intemperanza de' capi, e le città non ancora tocche temevano gli stessi Francesi e gli stessi danni; era universale lo scontento. I Dàmalti, gli armigeri baronali, le squadre delle udienze, e que' tanti che vivevano di stipendio d'armi, uniti a torme, andando in scorreria con motivo o pretesto di fede all'antico re, arricchivano di bottino e di spogli.

Negli Abruzzi, dove le armi borboniane rimasero per poco tempo sospese, non mai deposte, si ribrandirono più fieramente che innanzi sotto i capi Pronio e Rodio. Pronio ne' suoi primi anni fu cherico; ma spinto da malo ingegno, prese patenti di armigero nelle squadre baronali del marchese del Vasto; quindi, reo di omicidii, andò condannato alle galere, dalle quali per forza ed industria fuggitivo, passò a correre le campagne. Fattosi partigiano de' Borboni, combattè fortunato contro Dubesme; e, scelto capo dagli uguali, acquistò fama, sicurtà e ricchezze. Rodio, di civili natali, studioso di lettere latine, dottore in legge, scaltro, ambizioso, provide le sventure della repubblica, e parteggiò per i contrarii. Fu accolto dalle turbe; e avvegnaché primo esempio d'uomo gentile non macchiato di colpe che abbracciasse quelle parti sino allora seguite da' peggiori, lo gridarono capo. La citta di Tèramo, ed alcune altre terre tornarono alla obbedienza dell'anticore; i Francesi guardavano i forti di Pescara, Aquila, Civitella, e correvano intorno intorno a predar viveri, e rialzare gli alberi abbattuti della libertà, ad animare i seguaci loro, a punire i contrarii. Gli altri paesi delle tre province, divisi per genio, e seguitando l'ingegno vario de' più potenti, stavano per la signoria o per la libertà, e poiché gli odii e le contese di municipio nemicavano ab antico i popoli confinanti, dipendeva spesso la scelta di governo dalla scelta contraria del vicino; maggiore incitamento a sdegnarsi, a combattere, alle rovine, alle stragi.

Nella Terra di Lavoro molti paesi del confine stavano sotto l'impero di Michele Pezza, nato in Itri di bassi parenti, omicida e ladro; cosicché da due anni per bando del governo pericolava sotto taglia il suo capo; ma per continue venture o scaltrezze, vincitore ad ogni cimento, scampava i pericoli; e la nostra plebe, però che dice scaltrissimi ed invincibili il diavolo ed i frati, lo chiamò Frà Diavolo; ed egli per argomento di prodezza e fortuna, ritenne il soprannome nelle guerre civili e sino a morte. Aulace roso, spregiatore d'ogni virtù, fattosi capo di numerosa torma tenendosi agli agguati fra le rupi e le boscaglie del suo paese, e vedendo da lungi, non visto, disponeva gli assalti contro ai soldati che andavano soli o a piccole partite, e spietatamente gli uccideva. Correndo da Portella al Garigliano trucidava i corrieri e qualunque gli désse ombra di recar lettere o ambasciate: rompeva il cammino tra Napoli e Roma.

Nella stessa provincia, ma in altra contrada, quella di Sora, guerreggiava capo di molti Gaetano Mammone mulinaro; la ferita del quale tanto si scosta dalla natura degli uomini e si avvicina alle belve crudelissime, che io con animo compreso di orrore dirò di lui come di mostro terribile. Ingordo di sangue umano, lo beveva per diletto; beveva il proprio sangue ne' salassi suoi; negli altrui lo chiedeva e tracannava; gradiva, desinando, avere su la mensa un capo umano, di fresco reciso e sanguinoso; sorbiva sangue o liquori in teschio d'uomo, e gli era diletto a mutarlo. Immanità che non avrei narrate né credute se il pubblico grido, che spesso amplifica i fatti. maravigliosi, non fusse confermato da Vincenzo Coco, uomo ed autore pregiatissimo, consigliere di Stato, magistrato integerrimo, che da istorico narra e da testimonio accerta le riferite crudeltà. Mammone in quelle guerre civili spense quattrocento almeno Francesi o Napoletani, e tutti di sua mano, facendo trarre dal carcere i prigionieri per ucciderli a gioia del convito, stando a mensa coi maggiori della sua torma. Eppure a tal uomo, o a questa belva, il re Ferdinando e la regina Carolina scrivevano: «mio generale e mio amico».

Prosieguo a descrivere lo stato interno de' popoli. Torma numerosa guerreggiava nella provincia di Salerno. Una stretta nominata di Campestrino, difficile, intrigata, era guernita di Borboniani, che la cedevano solamente alle poderose colonne di milizia, e combattendo. Di là correvano le terre del Cilento, i monti di Lagonegro, e gli stessi dintorni della città della provincia; perciò il cammino delle Calabrie ingombrato da' Borboniani era chiuso ad ogni altro. La città di Capaccio e le terre di Sicignano, Castelluccio, Polla, Sala, inalzata bandiera regia, minacciavano i paesi di repubblica. Il vescovo Torrusio, dopo ribellata la città di Capaccio, combatteva con armi spirituali e guerriere; mentre nelle altre terre della stessa provincia dirigeva le armi per il re Gherardo Curci, sopranomato Sciarpa, già capo degli armigeri della udienza, congedato da quell'uffizio, ributtato quando egli chiese di servir la repubblica, e ingiuriato del nome di satellite della tirannide.

XII. Guerra più sanguinosa travagliava la Basilicata, combattendo que' popoli ciecamente; chè l'essere governati a repubblica o a signoria non era sentimento, ma pretesto a sfogare odii più antichi: vedevi perciò d'ambe le parti molte truppe, molti corpi, combattimenti giornalieri, stragi continue. Nelle quali domestiche sventure due casi avvennero degni di ricordanza. La piccola città di Picerno, che aveva festeggiato con sincera allegrezza il mutato politico reggimento, assalita da' Borboniani sbarrò le porte; e aiutandosi del luogo allontanò più volte gli assalitori. Sino a che, declinando le sorti universali della repubblica, torme più numerose andarono all'assedio; e fu agli abitanti di necessità combattere dalle mura. Finita dopo certo tempo la munizione di piombo e consultato del rimedio in popolare parlamento, fu stabilito che si fondessero le canne di organo delle chiese, poscia i piombi delle finestre, in ultimo gli utensili domestici e gl'istrumenti di farmacia, con i quali compensi abbondò il piombo come abbondava la polvere. I sacerdoti eccitavano alla guerra con devote preghiere nelle chiese e nelle piazze; i troppo vecchi, i troppo giovani pugnavano quanto valeva debilità del proprio stato; le donne prendevano cura pietosa de' feriti; e parecchie, vestite come uomini, combattevano a fianco de' mariti o de' fratelli; ingannando il nemico meno dalle mutate vesti che per valore. Tanta virtù ebbe mercede, avvegnaché la città non cadde prima che non cadessero la provincia e lo Stato.

Presso a Picerno, in Potenza, città grande, oggi capo della provincia, era vescovo Francesco Serao, lo stesso rammentato con debita lode nel secondo libro di queste istorie: il quale, già travagliato per giansenista dalla Santa Sede, sostenuto in quel tempo dal re, ma poi, per mutata politica di governo, venutogli a tedio, era tenuto settario di repubblica e de' Francesi. Cosicché ai' primi tumulti, assalito nella casa vescovile, trovato 'in atto di preghiera. innanzi alla croce, fu trascinato nella strada, ucciso, troncato del capo, e 'l capo in punta di lancia portato in giro per la città. Furono i manigoldi pochi di numero, diciassette, nessun plebeo. Un cittadino di Potenza, Niccolò Addone, ricco, fiero per natura, devoto della cristiana religione, amante di repubblica, ma occulto, perché temeva nelle dubbietà di quello stato arrischiare le sue ricchezze, quando vide lo spettacolo atroce, giurò vendicarlo, e noi potendo apertamente, usò d'inganni. Conciossiachè, fingendosi Borboniano, allegro della morte del vescovo, chiamò a convito gli uccisori, e, dopo lauta mensa e bevere trasmodato, tutti gli spense; né già di veleno, ma di ferro; e più col braccio proprio che de' suoi fedeli, che pure a mensa o nascosti nella casa attendevano il comando della strage. Orrida scena, che spiacque a' partigiani medesimi di repubblica; e l'Addone, ciò visto, fuggì di Potenza, e tenutosi lungo tempi ne' boschi, si riparò in Francia. Anni appresso, perdonato di quei misfatti per decreti del nuovo re Giuseppe Bonaparte, tornò in Regno; e l'età nostra lo vide accusatore calunnioso di delitti di maestà a pro de' Borboni, e a danno di onesti cittadini. Nè fu punito; e vive ancora tra ricchezze avite, o mal tolte.

XIII. Sommovevano le Puglie contro la repubblica quattro Córsi, de Cesare, Boccheciampe, Corbara e Colonna; dei quali de Cesare era i tria servitor di livrea, Boccheciampe antico soldato di artiglieria e disert re, Colonna e Corbara vagabondi e viventi di male arti, tutti e quattro fuggitivi di Corsica per delitti; e da Napoli, per timor de' Francesi, cercavano imbarco nei porti della Puglia per Sicilia o Corfù. E giunti a Monteiasi, alloggiando per ventura nella casa del massaro Girunda, ingegnoso fabbro di brighe, concertarono sollevare i popoli a pro dei Borboni; figurando Corbara il principe Francesco erede al trono; Colonna, il contestabile suo cavaliero; Boccheciampe, il fratello del re di Spagna; e de Cesare, il duca di Sassonia. Girunda in quelle trame, sarebbe precursore, testimonio e tromba delle fallacie. Il vero principe Francesco era stato in Puglia, come dicemmo nel terzo libro, poco tempo innanzi; ma Girunda confidò nella credulità degli stolti, e ne' guadagni che gli astuti trarrebbero da quelle scene. Concertate nella notte le parti, va Girunda, prima che il giorno spuntasse, a palesare per la città misteriosamente l'arrivo de' principi e la fortuna di essere primi a seguirli. E’ creduto: e numeroso stuolo di plebe, accorrendo alla piccola casa dove quei grandi alloggiavano, si offrono per grida, guerrieri e servi. Esce il Colonna su la strada; rende grazie in nome del principe allo zelo dei presenti, ma li accommiata. Il Girunda in quel tempo aveva provveduto una carrozza, e nell'entrare in essa i quattro Córsi simularono riverenza al principe Francesco, il quale dicendo agli astanti: «io mi abbandono in braccio de' miei popoli»; e salutandoli benignamente, si chiuse in legno e partirono verso Brindisi.

Ne' Córsi abbonda il talento di ventura; cosicché adoperavano, secondo i casi, alterigia, magnanimità, grandezza di principi: si partivano da luoghi abitati prima del giorno, giungevano all'entrar della notte, andava innanzi di molte miglia il Girunda a preparare alloggiamenti e credenze. E perciò mille bocche accertavano la presenza dei principi: ognun dicendo: «io gli ho veduti»; ed aggiungendo, come suole nel racconto delle maraviglie, fatti non veri, ma creduti. I successi avanzarono le speranze: popoli armati seguivano la carrozza, circondavano la casa degl'impostori, ed abbattendo i segni di repubblica ristabilivano il regno. Il finto principe Francesco rivocava magistrati, ne creava novelli, vuotava le casse dell'erario, imponeva taglie gravissime alle case dei ribelli: obbedito più di vero principe perché più ardito, e secondato da popolo pronto alle esecuzioni. L'arcivescovo d'Otran­to, che da lungo tempo conosceva il principe Francesco, e che l'anno innanzi in quella stessa città era stato seco alle cerimonie della chiesa e della reggia, oggi, partecipe agli inganni ed egli medesimo ingannatore, accertò dal  pergamo essere il presente quel desso, come che dopo un anno, per i travagli di guerra e di regno, apparisse mutato nell'aspetto.

Rivolsero quegl'impostori cammino verso Taranto, dove giunti, videro approdare il vascello che portava in Sicilia le vecchie principesse di Francia, fuggitive da Napoli. Non ismarrirono gli audaci, ed il Corbara preceduto da imbasciate, rivelanti alle principesse i fatti maravigliosi di quella popolare credulità, andò con pompa regale e fidanza di parente a quelle donne; le quali, benché superbe come di stirpe regia e borbonica, per giovare alla causa del re accolsero da nipote quell'uomo abbietto; gli diedero titolo di altezza e gli prodigarono i segni di riverenza e di affetto. Così confermate le credenze dei popoli, armi numerose adunaronsi per le parti regie, e gli stessi increduli o i certi della impostura unendosi alla fortuna, tre province di Puglia ribellarono. Corbara, dopo ciò, desideroso di porre in salvo le male acquistate ricchezze, bandi ch'egli, portando seco il contestabile Colonna, andava in Corfù per tornare con poderose schiere di Russi; e che lasciava luogotenenti e generali nel regno il fratello del re di Spagna e 'l duca di Sassonia. Si partì. Uscito appena dal golfo, preso da pirati, perdè ricchezza e vita; il Colonna non morì, ma il suo nome scomparve; Boccheciampe, difendendo il castello di Brindisi da vascello francese, fu morto; e de Cesare, condottiero fortunato di numerose torme, occupò senza guerra, Trani, Andria, Martina, città grandi e forti; mentre le minori e la più parte delle terre Pogliesi, debellate dal grido, ubbidivano al re.

XIV. Rimane a dire delle Calabrie. Benchè lo stato di repubblica trovasse maggior numero di seguaci ne' Calabresi, avidi forse di vendicare le patite ingiurie da feudalità più tiranna, o perché nella ruvidezza de' costumi e del vivere serbassero le virtù primitive di libertà, pure tenevano dalla parte del re innumerevoli cittadini; potendo affermare che i repubblicani dello Stato intero stavano a' contrarii come il dieci al mille. I Borboniani calabresi spedirono al re nella vicina Sicilia fogli e legati per avvisarlo delle condizioni di quelle province, e pregarlo mandasse milizie, come che poche, ed armi usai; e personaggi di autorità, e leggi e bandi per aiutare lo zelo delle genti già mosse; soccorresse il suo regno; impietosisse de' suoi fedeli esposti alle vendette dei nemici esteriori ed interni. Altri messi da Napoli e dalle Puglie accertavano i po a tumulti, e la facilità di scacciare i Francesi, di opprimere i ribelli. Ma il re, fermo nella idea di tradimenti, non prestando fede a que' fogli, ma credendoli nuovo inganno, confidava solamente nelle armi dei suoi alleati; egli nascondeva a sé medesimo i propri torti; la regina ed Acton onestavano per il tradimento i falli di governo; Mack in un lungo scritto copriva i suoi mancamenti con quelli dell'esercito; i fuggitivi dal campo scusavano per lo stesso trovato le loro colpe; il capitan generale Pignatelli accusava traditori gli Eletti della città, i Sedili, la più parte de' nobili. Cosicchè non altro udivasi nella reggia che tradimenti, traditori, pene future e vendette.

Ma le vecchie principesse di Francia; giunte in Palermo, narrando le scene di Tàranto, dicevano vere e grandi le mosse popolari nella Puglia; mentre gli uffiziali inglesi, mandati sopra navi, esploratori delle nostre marine, riferivano le cose istesse. Tenuto consiglio, fu deciso secondare quei moti; e poiché tra , consiglieri mostravasi ardente per la guerra il cardinale Fabrizio Ruffo, il re gli diede carico di andare in Calabria ne' feudi della casa; vedere, sentire lo stato della provincia, e, secondo i casi, avanzarsi nel Regno o tornare in Sicilia; il grado, il nome, la dignità gli sarebbero aiuto all'impresa, e scudo contro la malvagità de' nemici. Andò voglioso con pochi seguaci, meno ,danaro, autorità senza limiti, larghe promesse. Fabrizio Ruffo, nato da nobile ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese ne'suoi verdi anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al pontefice Pio VI, dal quale ebbe impiego supremo nella camera pontificia; ma, per troppi e subiti guadagni, perduto ufficio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma potenti amici, acquistati, come in città corrotta, co' doni e i blandimenti della fortuna. Dimandò al re di Napoli ed ottenne la intendenza della casa reale di Caserta; indi, tornato nelle grazie di Pio, fu cardinale, andò a Roma, e là restò sino al 1798; quando, per le rivoluzioni di Roma, prese in Napoli ricovero, e poco appresso in Palermo seguendo il re.

XV. Giunto nel febbraio di quell'anno 1799 al lido di Calabria, essendosi prima inteso coi servi e gli armigeri della sua casa, decorato della croce e de' segni delle sue dignità, sbarcò in Bagnara, dove fu accolto riverentemente dal clero e da' notabili, e con pazza gioia dalla plebe. Divolgato l'arrivo e 'l disegno, accorsero da' vicini paesi torme numerose di popolani, guidate da gentiluomini e da preti o frati, che, quando videro andar capo un porporato, non isdegnarono quella guerra disordinata e tumultuosa. Il colonnello Winspeare, già preside in Catanzaro, l'auditore Angelo Fiore, il canonico Spasiani, il prete Rinaldi, e insieme a costoro numero grande di soldati fuggitivi o congedati, e di malfattori che poco innanzi correvano da ladri le campagne, e di malvagi usciti ne' tumulti dalle carceri, si offrirono guerrieri per il re; ed il cardinale, viste he prime fortune, pubblicato il decreto che lo nominava luogotenente o vicario del regno, uscì di Bagnara circondato da stuolo numeroso e disonesto, col quale, senza guerra, soggettò per grido le città o terre sino a Mileto. Dicevasi che la forte città di Monteleone tenesse le parti di repubblica; ma intimata di cedere e minacciata di esterminio, riscattò la fama per denaro, cavalli, viveri ed armi. Stando il cardinale a Mileto convocò quanti poteva vescovi, curati, altri cherici di grado, e antichi magistrati del re, e impiegati, e cittadini potenti per nome o ricchezza; ed esponendo i ricevuti carichi, la causa giusta del trono, santa della religione, bandì che i cittadini fedeli al re, devoti a Dio dovessero unirsi a lui, portando al cappello per insegna e riconoscimento la croce bianca e la coccarda rossa dei Borboni; avrebbero, oltre i premii celesti, la esenzione delle taglie fiscali per sei anni, e i guadagni della guerra sopra i beni de' ribelli da quel giorno medesimo incamerati alla finanza regia; e su le taglie che sarebbero poste alle città o terre contrarie; abbattuti gli alberi infami della libertà, alzerebbero in que' luoghi le croci; l'esercito si chiamerebbe della Santa Fede, per dir col nome l'obbietto sacro di quella guerra. E poscia processionando nella chiesa, e benedicendo ad alta voce le armi, progredi, non mai combattendo, sempre trionfatore, per Monteleone, Maida e Cutro, sopra Cotrone.

Cotrone, città debolmente chiusa, con piccola cittadella sul mare Ionio, era difesa da' cittadini e da soli trentadue Francesci, che venendo d'Egitto si erano là riparati dalla tempesta; ma comunque animoso il presidio, scarso di ami, di munizioni, e di vettovaglie, assalito da molte migliaia di Borboniani, dopo le prime resistenze dimandò patti di resa, rifiutati dal cardinale, che, non avendo danari per saziare le ingorde torme, né bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. Cosicchè dopo alcune ore di combattimento ineguale, perché da una parte piccolo stuolo e sconfortato, dall'altra numero immenso e preda ricca e certa, Cotrone fu debellata con strage dei cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite. Durò lo scompiglio due giorni; e nella mattina che segui, alzato nel campo altare magnifico e croce ornata, dopo la messa che un prete, guerriero della Santa Fede, celebrò, il cardinale, vestito riccamente di porpora, lodò le gesta de'due scorsi giorni, assolvé le colpe nel calore della pugna commesse, e col braccio in alto disegnando la croce benedisse le schiere. Dipoi, lasciato presidio nella cittadella, ed a' dispersi abitanti (avanzi miseri della strage) nessun governo e non altre regole che la memoria e lo spavento dei patiti disastri, si patii per Catanzaro, altra città di parte francese.

Giunto a vista, inondando delle sue truppe le terre vicine, mandò ambasciata di resa. Ma Catanzaro, sopra poggio eminente, cinta di buone mura, popolosa di sedicimila abitatori, provveduta d'armi e preparata (per le udite sorti di Cotrone) a' casi estremi, rispose: ch'ella, non mai ribelle. obbediente alle forze della conquista francèse come oggi alle più potenti della Santa Fede, tornerebbe volontaria sotto l'impero del re, a patto che i cittadini non fossero puniti ne' ricercati delle opinioni o delle opere a pro della repubblica, e che le truppe della Santa Fede non entrassero in città, ma solamente i magistrati regii, guardati ed obbediti dalle milizie urbane. Cosi per pace. Sapesse il cardinale che per guerra seimila uomini armati morirebbero alle mura combattendo, prima di tollerare i danni e le ingiurie che aveva patite Cotrone. Per i quali detti Ruffo vide che la vittoria non sarebbe certa né allegra; e simulando modestia, dicendo che i disordini di Cotrone derivarono dall'ardore delle sue schiere concitate da ostinata resistenza, concordò: che la città inalzerebbe la insegna de' Borboni, e, tornata sotto l'impero del re, obbedirebbe alle sue leggi e magistrati, che milizia urbana composta da ministri regii, sarebbe la sola forza dell'autorità regale; che resterebbero occulte le opinioni de' cittadini, e rimesse le opere a pro della repubblica; non entrerebbero in città le truppe borboniche; Catanzaro pagherebbe per le spese di guerra dodici migliaia di ducati. La pace così stabilita fu mantenuta, e poiché tutta quell'ultima Calabria tornò al re, procedè il cardinale verso Cosenza.

XVI. Tal era nel finire di febbraio lo stato interno della repubblica, mentre correvano lungo le marine legni siciliani ed inglesi, animando alle ribellioni, combattendo le città marittime fedeli al nuovo reggimento, e lasciando a terra uomini armati, armi, editti del re Ferdinando, e gazzette narratrici di fatti contrari alla Francia. Perciocchè in quel medesimo tempo i Russi e Turchi, sopra potenti navigli, prese alcune isole Ionie, assediavano Corfù; e dicevano volgerebbero, compiuta quell'impresa, in Italia. Nelson, lasciata la Sicilia, navigava nel Mediterraneo: molte città romane più vicine alla nostra frontiera combattevano per gli ordini antichi; cominciavano i tumulti di Arezzo nella Toscana; e poderoso esercito austriaco aspettava su l'Adige il cenno a prorompere. Sapevasi della Sicilia che diciottomila nuovi soldati accrescevano l'esercito del re; che il generale Stewart con tremila Inglesi presidiava la città di Messina; che si formavano a truppe i partigiani più caldi della monarchia per venire negli Stati di Napoli ad accrescere la forza e l'ardimento dell'esercito della Santa Fede; e che sovrano e popolo erano accesi di barbaro sdegno contro i Francesi, come attestavano due fatti.

Nave con bandiera neutrale in quella guerra trasportava da Egitto in Francia cinquantasette infermi, tra' quali il generale Dumas e Mascoeur, il naturalista Cordier, altri personaggi di bel nome, e soprattutto il geologo Dolomieu, dotto chiarissimo. La nave, battuta da tempesta, si riparò in Taranto, confidando nella bandiera e nella pace che in Egitto non sapevasi rotta. Ma caddero quelle fedi, perciocchè dominando in Taranto il Córso la nave, ed i Francesi e il Dolomieu, chiusi Boccheciampe fu trattenuta barbaramente in orrido carcere, ne uscirono per andare prigionieri a Messina, dove prevalendo l'ira di parte al rispetto dell'umanità e della fama, furono gettati in carcere più doloroso. Dolomieu, venuto per nuova infermità quasi a morte, richiesto al re di Sicilia dal governo di Francia, dalla Società Reale di Londra, dal re di Danimarca, dal re di Spagna due volte, e dal grido inorridito di tutti i sapienti di Europa, rimase in ergastolo; né fu libero che per novelle vittorie dei Francesi, tra' patti di pace con Napoli, nel ventesimo mese di prigionia; portando malattia sì grave, che poco appresso lo spense, in età non piena di 51 anni.

Altra nave, pure salpata da Egitto, compagna di quella che portava Dolomieu, colta dalla medesima tempesta si ricoverò nel porto di Agosta, per poi menare in Francia quarantotto tra soldati, uffiziali e amministratori militari, ciechi da malattia presa nel barbaro clima dell'Africa. Né però quello stato miserevole, né la riverenza che inspiravano le margini di onore su la fronte ai guerrieri, né il pensiero che erano arrivati a quel porto travagliati dal mare, sopra nave sdrucita e riposando nella fedeltà dei trattati, bastarono a contenere la ferità degli Agostani che, a torme armate, sopra piccole barche, assalendo la nave, uccisero spietatamente que' ciechi e inermi. I magistrati regii non impedirono la strage; né il re, quando tornò in pace colla Francia, punì gli uccisori, dicendo a pretesto, che ne' tumulti di popolo i rei confusi agl'innocenti sfuggono le pruove e le pene.

XVII. Tali e tante cose tristissime sapute da' governanti della repubblica destarono la tardità di quegli animi, che, amanti di quieto vivere, rifuggivano dalle necessità di guerra e di castighi. Increduli alle prime nuove, poi confidenti negli incantesimi della libertà, dicevano che subito e senza l'opera della forza cesserebbero i moti della plebe inquieta perché ignorante, ma certo pentita e pacifica sol che sentisse i benefizi del nuovo stato; cosicchè più potenti dei soldati e delle artiglierie sarebbero i discorsi, i catechismi, la eloquenza de' commissari. Ma finalmente, scossi da pericoli, andarono al generale supremo di Francia pregandolo a soccorrere la repubblica dagli sforzi del re antico; secondati da gente infima invero ma spaventevole per numero e atrocità. Esauditi, mossero due squadre di Francesi e Napoletani, una per le Puglie, l'altra per le Calabrie; avvegnaché gli Abruzzi, rattenuti dai posti francesi della linea di operazione tra Romagna e Napoli, e dalle fortezze di Civitella e Pescara, tumultuavano in se stessi con fortuna poca e varia. Le province di Avellino e di Salerno restavano soggiogate nel passaggio delle colonne di Puglia e di Calabria; la Basilicata, serrata dalle colonne istesse, quieterebbe. I nemici da sconfiggere erano dunque Ruffo e de Cesare.

Delle due colonne fu maggiore per numero ed arte quella di Puglia, onde presto ricuperare le province granaie, impedite a mandar vettovaglie, da' Borboniani per terra, dagli Inglesi per mare, all'affamata capitale. Il generale Duhesme fu eletto capo di quella schiera, che numerava seimila Francesi, e mille e poco più Napoletani, retti da Ettore Caraffa conte di Ruvo. il quale, della nobile stirpe de' duchi d'Andria, primo nato ed erede della casa, libero per natura, chiuso l'anno 1796 nelle prigioni di Sant'Elmo, fuggì con l'uffiziale che lo custodiva e tornò in patria nello esercito di Championnet; dedito alle armi ed alle imprese più audaci, spregiatore de' pericoli e di ogni cosa (uomini, numi, vizii, virtù) che fosse intoppo ai suoi disegni, strumento potentissimo di rivoluzione. L'altra schiera, quella destinata per le Calabrie, forte di miladuecento Napoletani, che sarebbe nel cammino sforzato de' patri  otti fuggitivi dal cardinal Ruffo, aveva per capo Giuseppe Schipani, nato calabrese, militare dimesso dal grado di tenente, perspicace, ignorante, elevato all'altezza di generale della repubblica perché settario caldissimo e valoroso. La prima schiera, soggiogate le Puglie, volgerebbe alle Calabrie: bastava che la seconda contenesse l'esercito della Santa Fede; cosicchè scopo dell'una era il vincere, dell'altra il resistere. Gli ordini scritti del governo palesavano l'animo pietoso dei governanti, confidando più che nella guerra, nella mostra dell'armi, nella modestia dei capi, nella disciplina de' soldati, nella magnanimità del perdono: sensi sconvenevoli a repubblica nascente che succede ad invecchiate pratiche di schiavitù.

Schipani, traversando Salerno ed Eboli, avvicinandosi a Campagna, Albanella, Cotrone, Postiglione, Capaccio, tutte città o terre amiche, vide bandiera borbonica sul campanile di Castelluccia, piccolo villaggio in cima di un monte al quale ascendesi per sentieri alpestri; e benché gli fossero scopo la Calabria e 'l cardinal Ruffo, egli, preso di sdegno, volse cammino al paese ribelle; scegliendo delle tre strade, a scherno d'impacci, la più difficile. I Borboniani dall'alto, vedendosi assaliti da milizie ordinate, con artiglierie trasportate sopra muli, trepidarono; e tenuto consiglio tumultuariamente nella chiesa stabilivano di arrendersi. Ma colà stando a ventura il capitano Sciarpa, biasimata la codardia, disse che se fosse necessità cedere il luogo, si cedesse a patti di tornare volontari sotto l'impero della repubblica; ma vietando alle genti armate di entrare vincitrici nel villaggio. E poiché piácque a consiglio, e si diede a Sciarpa istesso il carico di esegnirlo, egli mandò a Schipani per pace; e a fin di vantare le forze del luogo, e tentar nuovamente le sue fortune, fece dire: «che i cittadini volevano guerra, ma che h avea persuasi alla sommessione il capitano Sciarpa, non avverso alla repubblica, e pronto a darne prova se lo impiegassero nelle milizie interne dello Stato». Quindi espose i patti. L'altro, che ad ascoltare impazientava, replicò essere venuto a Castelluccia per guerra, non per pace; e a dar pene non premii; si arrendessero i ribelli a discrezione, o fossero preparati a sorti estreme. Sensi atroci, ed in guerra civile atrocissimi e stolti.

Riferiti que’ fatti al popolo adunato ancora nella chiesa, Sciarpa disse: «Or vedete gli effetti della codardia e del precipitato consiglio di arrendervi. Non vi ha per me che due partiti: se ripiglierete animo, io vi guiderò alla battaglia e alla vittoria; se volete darvi a vincitore superbo e spietato, e con voi le vostre robe e le vostre donne, io, per la strada che tengo sicura, andrò con i miei a combattere in miglio luogo, tra miglior popolo». Risposero gridando guerra; e appena il parroco dell'altare  ebbe segnata la croce su le armi e benedetto il voto di combattere, tutti andarono contro il nemico, apprendendo da Sciarpa le parti e le regole della battaglia. Trattanto giungevano affaticati alle prime case del villaggio i repubblicani, e tolleravano grandine di archibusate da' nemici non visti, né però si arrestarono; ma dietro il generale (che tenendo in alto la spada gli incitava con l'esempio e la voce) stavano alla entrata della terra, dove infiniti colpi e molte morti, molte ferite, nessun nemico in aperto, abbetterono lo sterile coraggio di quella schiera; così che il capo, facendo sonare a raccolta, imprese a ritirarsi. Sbucarono allora dalle mura i nascosti guerrieri, e seguitando per la china i fuggitivi, altri ne uccisero, altri ne presero, e furono sopra i prigioni e i feriti crudeli come barbari. Schipani trasse le sue schiere in Salerno; a Sciarpa crebbe animo e nome.

XVIII. Assai differenti dalle descritte furono le sorti della schiera di Puglia; la quale, sottoponendo col grido le città forti e nemiche di Troia, Ducera e Bovino, accolta festivamente in Foggia, città amica, rianimate Barletta e Manfredonia, che tenevano per la repubblica, preparò gli assalti a Sansevero, popolosa, rinforzata dai feroci abitanti dal Gargano, con animi risoluti alla vittoria o alla morte. Quella città non ha mura, né i difensori l'avevano munita di opere, confidando nel numero di dodicimila combattenti e nel valor disperato. Avevan presso alle case, a cavaliero, piccolo poggio fitto di ulivi e di vigne, dove come ad imboscata disegnavano di nascondere i più valorosi per menarli nella città quando il nemico, avaro e lascivo, andasse, come è costume, spicciolatamente in cerca di ricchezze e di piaceri. Il generale Duhesme, che in Bovino aveva fatto punir con la morte i colpevoli della ribellione, e tre soldati francesi rei di furto, notificò quelle discipline in luogo di minacce o promesse agli abitanti di Sansevero. E costoro, uccidendo alcuni partigiani di repubblica, o cittadini onesti, o sacerdoti, sol perché pregavano la pace, avvisarono il generale di quelle crudeltà, chiamandole (ad esempio ed a dileggio del suo scritto) discipline loro. E quindi scoppiando lo sdegno in Duhesme, mosse il 25 di febbraio contro Sansevero; e saputo, per ingegno di guerra o dalle spie, il disegno de' Borboniani, avviò forte squadra per la sinistra del poggio onde snidarli dagli oliveti; e nella vittoria che teneva certa, tagliar le strade alla fuga. I Borboniani, per la opposta parte, divinando il pensiero del nemico, assai forti sulla prima fronte per cannoni portati a braccia, e per numerosa cavalleria sciolta e scorritrice nel piano come Numida, uscirono in forza dal bosco, ed animosamente guerreggiando forzavano la squadra francese a retrocere.

Accorse in aiuto altra squadra, mentre Duhesme assaltò in gran giro la città con arti nuove a' difensori; cosicché sbaragliata la cavalleria, più molesta che forte, vinte le batterie, superato e cinto il poggio degli ulivi, fece suonare a vittoria e ad esterminio. Nel quale scompiglio dei Borboniani, compito dalla prima squadra l'ordinato movimento, e così tolte le strade al fuggire, finì la guerra, cominciò la strage; spietata imperciocché i Francesi vendicavano trecento commilitoni estinti, altrettanti almeno feriti, e le morti civili e le audaci risposte alle offerte di pace. Tremila di Sansevero giacevano sul campo, e non finiva l'eccidio, quando le donne con capelli sparsi, e vesti lacere e sordidate, portando in braccio i bambini, si presentarono al vincitore pregando che soprastessero dall'uccidere, o consumassero il castigo meritato da città ribelle sopra i figli e le moglie de' pochissimi uomini che restavano. Quello spettacolo di pietà e di miseria commovendo l'animo de' Francesi, tornarono mansueti i vincitori, sicuri i vinti.

I fatti di Sansevero, come che bastassero a scoraggiare molte piccole terre della Puglia, confermarono alla guerra le città d'Andria e di Trani; avvegnacché rinforzate pei molti fuggitivi dalla battaglia, e formate nella credenza che Sansevero fosse perduta per forza di tradimento: menzogna sempre usata dai fuggiaschi, sempre creduta dai partigiani. Il generale Dubesme, accresciuto da ottocento Francesi venuti dagli Abruzzi, disponevasi a procedere verso Andria; ed in quel mezzo giungevano al suo campo legati e statichi delle tre province di Puglia. Ma in Napoli, mutato il comando dell'esercito da Championnet in Macdonald, e 'l senno e la idea di quella guerra, furono richiamate le schiere, fuorché piccola mano lasciata in Foggia, e grosso battaglione ad Ariano, altro ad Avellino, un reggimento a Nola. Giunta in quel tempo stesso la nuova che i Turchi‑Russi stringevano da presso Corfù, e viste le navi di quelle due bandiere nell'Ionio e nell'Adriatico, rialzarono Trani ed Andria le speranze; le altre città o terre sottomesse dal grido della fortuna francese, oggi per grido di fortuna contraria tornavano Borboniane; gli statichi, lasciati o fuggitivi, si facevano liberi. Solamente Sansevero, benché in animo sentisse maggiori stimoli di vendetta, scemata de' più giovani e più prodi, abbrunato il popolo intero per le morti della battaglia, ed ogni casa, ed ogni zolla serbando i segni della strage, si tenne obbediente alle sue male sorti e addolorata.

XIX. A tale in breve si venne che bisognava tener perdute le Puglie, o riconquistarle. Adunata in Cerignola nuova squadra repubblicana, forte quanto la prima, sotto l'impero del generale Broussier con la medesima legione napoletana di Ettore Caraffa, drizzò il cammino ad Andria. Andria, città popolosa, circondata di mura con tre porte, dopo il tristo fatto di Sansevero accrebbe le difese, ristaurando la muraglia, in più parti rovinata dal tempo, alzando nuove fortificazioni, sbarrando le porte, fuorché una, e sfilando dietro ogni porta fosso largo ed alta trincera. Diecimila Borboniani la difendevano, soccorsi dagli abitatori, ch'erano diciasette migliaia: i preti e i frati concitavano quelle genti con gli stimoli potenti della religione; e sopra vasto altare alzato nella piazza avendo poggiato un crocifisso di grandezza più che umana, dicevano che al celebrare della messa ed alle sacre offerte udivano dalla santa immagine che nessuna forza profana basterebbe ad espugnar la città, difesa dai cherubini del paradiso; e che presto giungerebbe in aiuto degli Andriani stuolo numeroso di altri soldati e di altri popoli. Le quali promesse si leggevano scritte a caratteri grandi in un foglio spiegato, messo in mano al crocifisso. E poiché il giorno innanzi della comparsa de' Francesi giunse in città sopra legni corridori un battaglione di Borboniani mossi dà Bitonto, e la nuova che Inglesi, Russi e Turchi arriverebbero tra pochi dì, si confermarono le predizioni; ed il popolo, fatto certo della vittoria, stava lieto, non timido della battaglia.

Il nemico, intorno ad Andria, spartì le forze in tre colonne quante le porte; e con le migliori arti di guerra minacciò, assalì, finse altri assalti alla città, la quale dai ripari per colpi di cannoni e di archibugi teneva lontani gli assalitori. Ad un cenno del generale Broussier, tra suoni militari e romore di artiglierie avanzarono a corsa i repubblicani, e appoggiando alle mura le scale, impresero a mutarle; ma sotto spari infiniti, e sassi, e moli che i difensori precipitavano dall'alto, tollerate molte morti e più ferite di guerrieri prodi e chiari nell'esercito, fu sonato a raccolta, e gli assalitori scherniti da' motteggi de' contrarii tornarono al campo. Volle fortuna dei Francesi che in quel tempo per lo scoppio di un obice si aprisse la porta di Trani, contro la quale stando Broussier con la scelta de' guerrieri, accorse ad essa; ma penentrando in città trovò guerra peggiore; fatta ogni casa un castello; e benché in aiuto della prima colonna venisse per la stessa porta la seconda, stavasi incerto Broussier se procedere o trarsi fuora. Quando si vide incontro Ettore Caraffa con la sua schiera, Napoletani e Francesi, i quali, messi avanti la porta detta Barra, non riuscendo ad atterrarla, ed inteso il pericolo di Broussier, assalirono le mura con le scale, e trasandando lo scemar de' compagni e le proprie ferite, entrarono nella città. Al quale assalto il colonnello Berger, gravemente trafitto su la scala, facevasi spingere a montare; e fu visto Ettore Caraffa con lunga scala su la spalla, e in pugno banderuola napoletana e spada nuda, esplorar l'altezza de' muri; cercando il luogo dove la scala giungesse: e trovato, ascendere il primo ed entrar primo e solo nella città. E sebbene tutto l'esercito fosse già in Andria, non finiva la guerra, essendo mirabile il valore de' Borboniani; tanto che dieci di loro, dentro debole casa, sostennero per molte ore gli assalti di forte battaglione francese, e altre prove dettero di non facile virtù. Soggiacque al fine la città d'Andria, feudo una volta, e allora pingue possesso di quel medesimo Ettore Caraffa che la espugnò, e diede avviso nel consiglio (maravigliosa virtù o vendetta) che si bruciasse. La quale sentenza, seguita dagli altri, e comandata dal capo dell'esercito, tante morti e danni e lacrime produsse che sarebbe a raccontarle troppa mestizia.

XX. Né però sazie di sdegno le due parti, si accolse numero più grande di borboniani nella città di Trani; e andò contr'essa lo stesso esercito di Broussier, scemato di cinquecento almeno prodi guerrieri, morti o feriti nei fatti d'Andria. Più forte città era Trani per muraglie massicce e bastionate, molti cannoni, barche armate, schiere meglio agguerrite, difese concertate e cittadella. Andò Broussier in tre ordini, e, investita nella notte la città, inalzò parecchie batterie come a far breccia; con assalti. due finti, uno vero. da lui medesimo diretto; ma i difensori, scoperto il disegno, mandarono vóte le offese e le speranze. Combattevano dunque le due parti, una da' muri vigilantissima ed operosa; l'altra di fuori aspettando gli accidenti della giornata, con divisamento giovevole a chi meglio conosce le arti della guerra, perciocché spesso la propria virtù, ma più spesso i falli de' contrarii ed il favore ben cólto della fortuna guidano alla vittoria. E difatti per accidente fu espugnata la città; imericiocchè ad una punta di lei su la marina giace piccolo forte, quasi nascosto da scogli e muri, e mal guardato in quel giorno da meno validi cittadini; il qual forte fu scoperto da un soldato francese, che sperò giugnervi camminando nel mare o nuotando. Palesò 'il pensiero ad alcuni compagni, ed in piccola mano, speranti gloria, vanno all'assalto. L'acqua giungeva al petto; ed eglino, portando l'arme poggiata sul capo, arrivano agli scogli, li varcano, e, rampicandosi per gli sdruciti dell'antica muraglia, toccano la sommità del riparo senza esser visti dalle guardie, che però pagano con la morte la spensieratezza. Di quel successo altro soldato, lasciato a vedetta nel campo, avvisa il capo, e, ad un cenno, buona schiera va ed entra nel forte; né già per le vie difficili del mare e degli scogli, ma scalando senza contrasto le mura. Intesi del pericolo corsero a folla i Borboniani per riconquistare il perduto castello; ed i Francesi per arti e valore facevano vani gli assalti.

Così fervendo la guerra nella marina, divertiti i difensori e la vigilanza delle altre fronti, il generale Broussier comandò il secondo assalto alle mura; e felice (benché molte morti e chiare patissero) entrò in città, dove il combattere fu sanguinoso e terribile; avvegnaché più nocevole a quei di Francia, percossi, senza quasi veder nemico, dalle case e di dietro le sbarre o le trincere. Avvisarono di montare su gli edifizi, coperti, come suole in Puglia, da' terrazzi, e di varcare di uno in altro rompendo i muri, o facendo di travi e di altri legni ponte al passaggio. Le condizioni mutarono; i difensori, già sicuri nelle case, vedevansi sorpresi dal nemico, sceso dai terrazzi; e perciò, invalidate le fortificazioni e le poderose artiglierie della cittadella, trucidate le guardie dietro ai ripari, cominciò nuova specie di guerra che scorava gli animi, confondeva gli ordini delle difese; e, ànnientando i preparati mezzi di resistenza, svaniva (nella impossibilità di combattere) la stessa intenzione di morir combattendo. Caddero l'armi di mano ai cittadini. Trani fu presa e ridotta, per secondo esempio, non di castigo, ma di furore, a cumuli di cadaveri e di rovine. Ettore Caraffa, espugnatore del fortino di mare, quindi della città, prode in guerra, crudele nei consigli, sostenne il voto ch'ella bruciasse.

XXI. Lasciato l'infausto luogo, le schiere procederono a Bari, Ceglie, Martina e ad altre città o terre, animando le amiche, soggiogando le contrarie, ed imponendo sopra tutte taglie gravissime; però che univasi all'avidità delle genti straniere il bisogno del Caraffa, cui non era dato altro mezzo di mantenere i suoi guerrieri che per la guerra. E quando a lui, Pugliese, ricorrevano i deputati di alcuna comunità per far torre o scemare i tributi iniquamente imposti a città fedeli ed amiche, egli citava, in esempio di necessaria severità, Andria sua per suo voto bruciata; e se medesimo che donava alla patria le ricchezze della casa, la grandezza del nome, il riposo, la vita. Quella colonna francese delle Puglie aveva più volte battuto e disperso nell'aperto le truppe borboniane, per difetto del de Cesare loro capo, timido, ignorantissimo, cresciuto in domestica servitù, dove non sorge virtù guerriera, o, se natura ne concedè il germe, vi si spegne. Tante sventure e tante morti abbattendo l'animo delle parti regie, l'impero e i segni della repubblica tornarono in Puglia temuti e venerati. Ma come Duhesme, così Broussier fu richiamato, entrambo implicati da Faypoult nello stesso giudizio di Championnet. Andarono capi di quelle schiere i generali Olivier e Sarazin, con ordine di non avanzare nell'ultima provincia, e tener le squadre così disposte da ridurle in Napoli al primo avviso.

Avvegnaché il generale Macdonald sospettava di non rimanere nella bassa Italia mentre nell'alta l'esercito francese precipitava di sinistro in sinistro. Erano mossi gli Austriaci e indietro i Russi; la battaglia di Magnano, combattuta lungamente, sebbene grave a' Tedeschi, aveva forzato i Francesi, lasciato l'Adige, ad accampar dietro al Mincio, indi all'Oglio. Mantova investita, Milano minacciata; l'esercito di Scherer ridotto a trentamila combattenti, a petto di quarantacinque migliaia di Tedeschi e d'altre quaranta migliaia di Russi che succedevano; gli eserciti francesi del Piemonte, di Toscana e di Napoli, lontani dalla Lombardia per guerre ingloriose contro de' popoli. Cosi stavano le cose nella Italia, mentre i Turchi e i Russi, già espugnata Corfù e prese le isole Ionie e le già venete, volgevano alle marine italiane quaranta navi da guerra e trentaduemila soldati; e la plebe d'Italia, odiando i Francesi perché stranieri, portanti novità, e predatori, secondava i nemici loro, aspettando miglior libertà da genti del settentrione e da' Turchi.

Peggio nello interno andavano le cose, avvegnaché nelle province, all'infuori della Puglia, le parti borboniane crescevano di forza e di ardire. Pronio e Rodio avevano restituite all'imperio del re presso che tutte le città e terre degli Abruzzi; evitando gli scontri dei Francesi, lasciandogli padroni e sicuri dove accampavano, ma tutto intorno rivolgendo i popoli di affetto e di governo. Mammone occupava Sora, Sangermano e tutto il paese che bagna il Liri. Sciarpa, dominando nel Cilento, minacciava le porte di Salerno. E sopratutti il cardinale Ruffo, procedendo dall'ultima Calabria contro le città di Corigliano e Rossano, distaccò i capo banda, Licastro sopra Cosenza, Mazza su Paola; sole città di quella provincia che tenessero ancora per la repubblica. Paola cadde, i partigiani di libertà si ripararono in Cosenza; a Cassano e Rossano furono dati per largo prezzo miseri accordi; sola Cosenza resisteva. Dirigeva le milizie un de Chiaro, eletto capo perché ardentissimo di libertà, tremila Calabresi gli obbedivano; la città, benché aperta, era munita là da trincere, qua da case o poggi fortificati, e, nel più vasto giro, dal fiume Crati, il quale con due rami quasi l'abbraccia e circonda: le armi, le vettovaglie, i proponimenti abbondavano. Ma quando più salde stavano le speranze, i Borboniani entrarono senza guerra dov'era il de Chiaro, con la maggior guardia; e de Chiaro, dopo di aver sedotto con discorso e con l'esempio quante potè delle sue genti, guidando traditore i nemici contro gli altri posti, sottomise in poco d'ora la città. Fuggirono oltre il fiume alcuni de' fedeli; ed aspettare per virtù d'armi la notte, altri per inospiti sentieri tra le montagne giunse alla marina e imbarcò, altri affidandosi a vecchi amici fu tradito, altri per favore del caso scampò.

E cardinale, accresciuto della numerosa torma del de Chiaro, volse alla Puglia per buon consiglio di rianimare col grido del suo arrivo le parti regie, scorate dai fatti che ho discorso: ignorante di guerra, sagacissimo ne' civili sconvolgimenti, guidava la difficile impresa con fino ingegno; e perciocchè di crudeli, rapinatori e malvagi componevasi la sua schiera, le crudeltà, le rapine, i delitti erano mezzi al successo. Molti vescovi e cherici di alto grado concertavano seco in segreto da lontani paesi le pratiche di rivoluzioni; ed egli, secondo i casi, spronava lo zelo; o, a vederlo prematuro e pericoloso, il ratteneva, sempre scrivendo con lo stile ecclesiastico, pietoso e doppio. Cosi pervenne a far noto nelle Puglie il vicino arrivo delle sue truppe; e quindi, rincorate le parti del re, il finto duca di Sassonia nelle ultime terre di Taranto e Lecco tornò alle armi.

XXII. Il cardinale, movendo dalle Calabrie lentamente per dar agio alle rovine della repubblica di crescere, ed alla fama di narrarle, riduceva sotto il regio impero quel largo paese di Basilicata, bagnato dal mare Ionio, e che abbonda di biade e greggi, di uomini e città. Nel qual tempo il generale Macdonald richiamava dalla Puglia le schiere francesi, con tal arte nel cammino che apparisse scaltrimento di guerra non abbandono; ma il córso de Cesare, come sentiva qualche terra vuotata da' nemici, andava timidamente ad occuparla. Ed in quel tempo stesso tornando di Francia i legati della nostra repubblica, mandati ad ottenere formale riconoscimento e stringer lega per qualunque ventura, riportarono che il Direttorio aveva negato le inchieste, sotto varii colori che scoprivano il pensiero di abbandonare alle male sorti un paese travagliato per amor della Francia sin dall'anno 1793, dalla Francia trasformato a repubblica, tributario di lei; impoverito per lei, ed ora da lei quasi rimesso nelle mani dell'antica tirannide: fato de' popoli che si commettono alle genti straniere. Insieme a' legati venne il commissario francese Abrial per ordinar meglio la repubblica napoletana: stando fra i pretesti del Direttorio la cattiva forma politica datale da Championnet. Abrial era tenuto probo cittadino amante di libertà, dotto delle ragioni de' popoli e della presente civiltà degli Stati: bella fama che in Napoli accrebbe.

Egli compose il governo con le forme di Francia: potere legislativo commesso a venticinque cittadini, potere esecutivo a cinque, ministero a quattro. Egli medesimo elesse i membri de' tre poteri, serbando molti degli antichi rappresentanti, aggiungendo i nuovi, e mutandoli spesso con altri. Fu de' nuovi il medico Domenico Grillo, che, avvisato, rispose: <<E' grande il pericolo, e più grande l'onore; io dedico alla repubblica i miei scarsi talenti, la mia scarsa fortuna, tutta la vita». Il nuovo governo fu subito in ufficio con le regole costituzionali tratte dall'esempio di Francia e dal senno de' governanti: non essendo ancora sancita, come che lungamente discussa, la costituzione che propose Mario Pagano; però data in esame al secondo congresso legislativo. Il quale, sciolto dalle sollecitudini di guidare lo Stato, si volse con grande studio alle nuove leggi: codici, amministrazioni, finanza, feudalità, milizia, culto, pubblica istruzione, e poi alle magnificenze della repubblica, invitando gli architetti con gara d'ingegno alla formazione di un Panteon, dove si leggessero primi con distinto carattere i nomi di de Deo, Vitaliani, Galiani; e decretando un monumento a Torquato Tasso nella sua patria di Sorrento; e disegnando, dove giacciono le ceneri di Virgilio, tomba più degna e marmorea.

XXIII. Mentre a tali cose di futura grandezza intendevano i rappresentanti della repubblica, intendeva il cardinal Ruffo alla espugnazione di Altamura, città grande della Puglia, forte per luogo e munimenti, fortissima per valore degli abitanti. Ma il porporato unito al Córso, o fatto audace delle gustate fortune, pose il campo a vista delle mura, e cominciò la guerra. I Borboniani, peggiorati in disciplina, meglioravano nell'arte, accresciuti di veterani e di uffiziali e soldati mandati da Sicilia, o venuti volontari alle venture di quella parte; avevano cannoni, macchine di guerra, ingegneri di campo ed artiglieri; superavano d'ogni cosa l'opposta parte, fuorché d'animo; così che gli assalti per molti dì tornando vani e mesti, crebbe lo sdegno degli assalitori e l'ardimento de' contrarii. Vedevansi dalle mura del campo le religiose ,cerimonie del cardinale, che, avendo eretto altare dove non giugnesse offesa, faceva nel mattino celebrar messa; ed egli, decorato di porpora, lodava i trapassati del giorno innanzi, vi si raccomandava come ad anime beate, e benediceva con la croce le armi che in quel giorno si apparecchiavano contro la città ribelle a Dio ed al re.

Dentro la quale città si vedevano altri moti e religioni: adoravano pur essi la croce ma in chiesa, si concitavano al campo con le voci e i simboli di libertà. Erano scarse le provvisioni del vivere, scarsissime quelle di guerra; e se la liberalità de' ricchi e la parsimonia de' cittadini davano rimedio all'una penuria, la guerra viva e continua accresceva il peso dell'altra. Fusero a proietti tutti i metalli delle case, mancò l'arte di liquefar le campane, nei tiri a mitraglie, non andando a segno le pietre usarono le monete di rame; né cessò lo sparo delle artiglierie che al finire della polvere; ed allora il nemico, avvicinate alle mura le batterie de' cannoni, ed aperte le brecce, intimò resa a discrezione. La quale andò negata, perciocché non altro valeva (se la natura del cardinale non fosse in quel giorno mutata) che a serbar molte vite degli assalitori, nessuna de' cittadini; e morir questi straziati senza pericolo degli uccisori; e, privati d'armi e di vendetta, sentir la morte più dura. Perciò gli Altamurani, difendendo le brecce col ferro, e con travi e sassi, uccisero molti nemici; e quando videro presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita meno guernita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de' rimasti furono tristissime; ché nessuna pietà sentirono i vincitori: donne, vecchi, fanciulli uccisi; un convento di vergini profanato; tutte le malvagità, tutte le lascivie saziate; non ad Andria e non a Trani, forse ad Alessia ed a Sagunto (se le antiche istorie son veritiere) possono assomigliare le rovine e le stragi d'Altamura. Quello inferno durò tre giorni; e nel quarto il cardinale, assolvendo i peccati dell'esercito, lo benedisse, e procedè a Gravina, che pose a sacco.

XXIV. Più lente, non meno felici erano le bande di Pronio, Sciarpa, Mammone e di altri guerrieri di ventura, che tutto dì giravano con la fortuna; sì che non mai tanto poterono le ambizioni, né tanti mancamenti si videro. Il cardinale accoglieva lieto i traditori, lodava le tradigioni, prometteva a maggior opera che giovasse (benchè fusse delitto) maggior premio; imperversarono allora i rei costumi del popolo. Le città repubblicane della Basilicata, valorosamente combattendo, si arresero a Sciarpa con patto di serbar vita, libertà e propri beni sotto l'antico impero de' Borboni; le province di Abruzzo, fuorché Pescara e poche terre che i Francesi guardavano, e di Calabria e di Puglia erano tornate intere al dominio del re; nella sola Napoli, e in poca terra intorno stringevasi la repubblica. Il generale Macdonald, pregato a mandar soldati contro i ribelli, rispondeva che ragioni di guerra lo impedivano. Stavano ansiosi non sconfidati i repubblicani, allorché il generale, pigliando a pretesto la dechinante disciplina che in deliziosa città provano gli eserciti, annunziò che anderebbe a campo in Caserta; nascondendo le sventure d'Italia e Scherer battuto più volte dagli Austro‑Russi, e la battaglia di Cassano perduta da Moreau, e Milano presa da' nemici, e il Po valicato, ed occupate Modena e Reggio, e i popoli d'Italia, sconoscenti o adirati de' patiti spogli, patteggiare co' nemici della Francia. Ma l'industria de' Borboniani, divulgando quegl'infortuni, palesava gl'inganni del generale francese: che però, da varii sdegni commosso, bandi leggi così:

«Ogni terra o città ribelle alla repubblica sarà bruciata e atterrata;

I cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i curati, e in somma tutti i ministri del culto saranno tenuti colpevoli delle ribellioni de' luoghi dove dimorano, e puniti con la morte;

Ogni ribelle sarà reo di morte, ogni complice, secolare o cherico, sarà come ribelle;

Il suono a doppio delle campane è vietato; dove avvenisse, gli ecclesiastici del luogo ne sarebbero puniti con la morte;

Lo spargitore di nuove contrarie a' Francesi o alla repubblica Partenopea sarà, come ribelle, reo di morte;

La perdita della vita per condanna porterà seco la perdita dei beni».

Stando a campo in Caserta l'esercito di Macdonald, sbarcavano da navi anglo‑sicule alle marine di Castellamare cinquecento soldati del re di Sicilia e buona mano d'Inglesi; le quali genti, aiutate da' Borboniani e dalle batterie delle navi, presero la città ed il piccolo castello che sta in guardia del porto. Padroni del luogo, uccisero molti della parte contraria, e lo stesso presidio dei forte, benché di Francesi datisi per accordi. Corsero a quel romore i terrazzani dei paesi vicini, Lettere, Gragnano e i rozzi abitatori de' monti soprastanti; Castellamare, città bellissima, stava dunque a sacco e a scompiglio. E nel tempo stesso un reggimento inglese e non piccola turba di Borboniani, sbarcati presso a Salerno, presero quella città, rivoltarono a pro dei re Vietri, Cava, Citara, Pagani, Nocera, poco uccidendo, rapinando molto, e formando a truppe que' tristi che accorrevano disordinatamente più al bottino che alla guerra. I citati avvenimenti presso al campo francese, comunque invalidi a turbarne la sicurezza, ne oltraggiavano il nome ed il valore.

Il 28 di aprile il generale Macdonald con buona schiera, ed il generale Vatrin con altra non meno forte, andarono agli scontri del nemico. Lo trovò Macdonald in riva al Sarno, fortificato con trinceramenti e artiglierie; ma raggirato fuggì, lasciando i cannoni e pochi uomini meno validi alla fuga. Il vincitore, procedendo, sottoposte le terre di Lettere e Gragnano, scese a Castellamare, dove Inglesi, Siciliani e molti di quelle parti fuggivano a folla sulle navi. Flottiglia repubblicana uscita nella notte del porto di Napoli, valorosamente combattendo, benché sfavorita dal vento che la spingeva sotto le fregate nemiche, impedì la fuga di molti, che, venuti alle mani del vincitore, furono morti o prigioni. Tre bandiere del re, diciasette cannoni, cinquanta soldati di Sicilia, molti Borboniani, ira sfogata e bella fama di guerra furono il frutto della vittoria. Stavano i legni anglo‑siculi lontani dal lido a vista della città, quando nella notte bruciavano la terra di Gragnano e parecchie case di Castellamare; incedii infami a chi li causò, a chi li,accese, perché non da mira di buona guerra, ma da feroce insazietà di vendetta.

Il generale Vatrin, più spietato, uccise tre migliaia di nemici; non perdonò a' prigioni se non militari di ordinanza; e serbò alcuni Borboniani sol per farli punire dai tribunali con tremende esemplarità. Mandò in Napoli a trionfo quindi cannoni tolti in battaglia, tre bandiere, una del re Giorgio d'Inghilterra, due del re Ferdinando di Sicilia, e lunga fila di prigionieri siciliani, inglesi, napoletani. Le città rivoltate, tornando all'impero della repubblica, pagarono grosse taglie al vincitore.

XXV. Ma il giorno di abbandonare a se stessa la repubblica Partenopea essendo giunto, il generale Macdonald venne di Casetta in Napoli, ed a' governanti adunati a riceverlo disse: non essere appieno libero uno Stato se protetto dalle armi straniere, né poter la finanza napoletana mantener l'esercito francese; né di questo aver bisogno se la parte amante di libertà vorrà combattere le disgregate bande della Santa Fede. E perciò, ch'ei, lasciando forti presidii a Santelmo, Capua e Gaeta, si partirebbe col resto dell'esercito a rompete (sperava) i nemici delle repubbliche scesi in Italia, confidando meno nelle armi che nelle discordie italiane o nelle sue lunghe pratiche di servitù; e che facendo voti di felicità per la repubblica Partenopea riferirebbe al suo governo quanto il popolo napoletano era degno di libertà; ché altro è popolo, altro è plebe; e questa sola, non quello, sotto le bandiere del tiranno combatteva per il servaggio, pronta ella stessa a mutar fede come gente ingorda di guadagni e di furto. E poi che i rappresentanti ebbero risposto sensi amichevoli ed auguranti, egli prese commiato e tornò al campo. Fu gioia (incredibile a dire) ne' partigiani della repubblica, i quali, semplici e buoni, sembrando a loro impossibile che spiacesse ad uomini la libertà, credendo che le ribellioni e la guerra derivassero dalle superchianze, le imposte, la superbia de' conquistatori, andavano certi che, al pubblicarne la partita, si sciorrebbero le torme della Santa Fede, o pochi resti di quella parte fuggirebbero svergognati in Sicilia. Perciò dicevasi che il principe di Leporano, brigadiere negli eserciti regii, militante sotto il cardinale, disertata quella insegna, era passato a' repubblicani, ed aveva imprigionato il suo capo; ed erano rimasti soli o con pochi Sciarpa, Frà Diavolo, Pronio, ed altre simili a queste voci bugiarde.

Frattanto a' dì sette di maggio, levato il campo di Caserta, mosse l'esercito diviso in due; l'uno guidato da Macdonald per la via di Fondi e Terracina e col gran parco di artiglierie e con la bagaglie, l'altro sotto Vatrin per Sangermano e Ceperano. E nel tempo stesso il generale Coutard, comandan­te negli Abruzzi, raccolte le squadre, andava per le vie più brevi nella Toscana, confidando le fortezze di Civitella e Pescara ad Ettore Caraffa; il quale, tornando i Francesi dalla Puglia, era passato con le sue genti negli Abruzzi. Macdonald e Coutard procederono senza contrasto; Vatrin superò, combattendo, Sangermano; e giunto ad Isola, piccola terra presso a Sora, fu arrestato. Quella terra prende nome dal vero, imperciocché due fiumi (fonti copiose del Garigliano) la circondano, ed a lei si giunge per ponti che i Borboniani avevano rotti; cosicché dietro i fiumi ed il muro di antica cinta stavano sicuri ed audaci. Vatrín mandò a parlamento per aver passaggio ch'egli prenderebbe, se negato, con la forza dell'armi; ma i difensori, spregiando o non conoscendo le regole sacre dell'ambasceria, per colpi di archibugi scacciarono il legato. Erano i due fiumi inguadabili, cadeva stemperata la pioggia, mancavano le vittovaglie a' Francesi: divenne il vincere necessità. La legione Vatrín, costeggiando la riva manca di un fiume, e la legione Olivier la diritta dell'altro, cercavano un guado; e non trovato, costrussero un ponte di fascine, di botti e di altri legni, debole, piccolo, non atto a' carreggi di guerra ed all'accelerato passaggio di molte genti; e perciò mezza legione andando per il ponte aiutava con mani e con funi l'altra metà che a nuoto valicava; e tutta intera, passate l'acque, giunse a' muri. Né perciò paventarono i difensori.

Per antichi sdrusciti e per operate rovine alle pareti delle case, i Francesi penetrarono in quella parte della terra che, traversata dallo stesso fiume e rotto il ponte, fu nuovo impedimento ai vincitori. Ma la fortuna era con essi; i difensori non avevano demolite le pile, e stavano ancora le travi presso alle sponde. Ristabilito in poco d'ora il passaggio, cadute le difese e le speranze, fuggirono i Borboniani, di poco scemati, e superbi di quella guerra e delle morti arrecate al nemico. E quale sfogò lo sdegno sui miseri abitanti; e trovando nelle cave poderoso vino, ebbro d'esso e di furore durò le stragi, gli spogli e le lascivie tutta la notte. Ingrossarono le pioggie, e la terra burciava; al nuovo sole, dove erano case e tempii, furono visti cumuli di cadaveri, di ceneri e di lordure.


 

 

 

 

CAPITOLO XIII          DOPO LA RITIRATA DELL'ESERCITO FRANCESE PRECIPIZI DELLA REPUBBLICA

 

XXVI. Non appena uscito dalla frontiera l'esercito francese, il governo della repubblica bandì l'acquistata indipendenza, e rivocando le taglie di guerra, scemando le antiche, numerando i benefizi civili che aveva in prospetto, consigliava e pregava di non più straziare la patria nostra, ma tornar tutti agli officii di pace e al godimento che i cieli preparavano. E non pertanto, sospettoso di effetti contrari alle speranze, provide celeremente ai bisogni di guerra; imperciocché raccolse in legioni le milizie che andavano sparse in più colonne, coscrisse milizie nuove, diede carico al generale Roccaromana di levare un reggimento di cavalleria, ingrossò la schiera dello Schipani, formò due legioni, e le diede al comando dei generali Spanò e Wirtz: Spanò, calabrese, militare in antico, ma nei bassi gradi dell'esercito; Wirtz, svizzero, stato colonnello agli stipendii del re; e, lasciato dopo la sua partita sciolto d'impegni e di giuramenti, per amore di libertà arrolatosi alle bandiere della repubblica. Poscia il Direttorio fece capo supremo dell'esercito Gabriele Manthonè; lo stesso rappresentante della repubblica nel primo statuto, e ministro per la guerra nel secondo; del quale avendo detto altrove alcun fatto, ora ne prosieguo la vita. Buono in guerra, di cuor pietoso, eccellente per animo ed arte nei duelli: d'ingegno non basso né sublime, per natura eloquente. Quando ci propose al consiglio legislativo il decreto che alle madri orbate di figli per la libertà si desse largo stipendio ed onori, conchiudeva il discorso: «Cittadini legislatori, io spero che mia madre dimandi l'adempimento del generoso decreto». Morì per la libertà l'infelice, come dirò a suo luogo, ma senza i premii della legge, e non altro ebbe la madre che pianto.

Altra milizia si formò col nome di legione Calabra, senza uniformità d'armi e di vesti, né stanze comuni, né ordini di reggimento; truppe volontarie che ad occasione si univano per combattere sotto bandiera nera con lo scritto: «vincere, vendicarsi, morire». Erano tre migliaia, Calabresi, la maggior parte, avversi per genio al cardinal Ruffo, da lui vinti e fuggitivi, memori di avuti danni e ferite; incitati per tanti stimoli alla vendetta. Dell'esercito repubblicano volendo far mostra, fu schierato in più file nella magnifica strada di Toledo e nella piazza nazionale intorno all'albero della libertà, dove si vedevano giungere tra immenso popolo i membri del governo, i generali, il generale supremo Manthonè, quindi le artigilierie e le bandiere del re, tolte nei combattimenti di Castellamare e Salerno; ed un fascio d'immagini della famiglia regale, che la intollerante Polizia aveva prese in argomento di colpa da certe case della città e nelle province; chiudevano il convoio due file di prigionieri, soldati e partigiani, i quali, credendo che per pena ed esempio sarebbero stati in quel giorno e in quel luogo trucidati, andavano mestissimi e tremanti. Ardeva a fianco dell'albero un rogo, dove si divisava il bruciar le bandiere e le immagini.

Il generale supremo parlò all'esercito, l'oratore del governo al popolo, e quando s'imponevano alle fiamme le odiate materie, i repubblicani le strapparono a furia di mano agli esecutori, e trascinate per terra e lordate, le ridussero a brani e dispersero. Poscia il ministro delle finanze mostrò grossi fasci di fedi bancali (un milione e seicentomila ducati), che in tanta povertà dello Stato, e in breve tempo, la parsimonia della repubblica aveva raccolto per iscemare di altrettanto il debito nazionale; le quali carte gettate in quel rogo, preparato da brama di vendetta, bruciarono per miglior divisamento. E finalmente, chiamati i prigionieri avanti all'albero, il ministro per la giustizia lesse decreto del Direttorio, che dicendoli sedotti, non rei, offeriva à già soldati gli stipendii della repubblica, e faceva salvi e liberi i Borboniani; cosicchè sciolte le catene, succedendo alla profonda mestizia gioia improvvisa, correvano quasi folli tra 'l popolo gridando laudi e voti per la repubblica; e gli astanti, affin di accrescere quelle allegrezze, scorrevano la loro povertà esartandoli a riferire agl'ingannati concittadini la forza e la magnanimità del governo. Così ebbe fine la cerimonia: ma la festa durò lunga parte del giorno, danzando intorno all'albero, cantando inni di libertà, e stringendo, come in luogo sacro, parentadi ed accordi.

Quelle mostre di felicità furono brevi e bugiarde; però che al giorno seguente molte navi nemiche bordeggiando nel golfo davano sospetto che volessero assaltare la città per concitar tumulti nella plebe; così il governo comandò fossero armate le poche navi della repubblica, ristaurate le batterie del porto, ed altre sollecitamente costrutte. Non appena divolgato il pericolo ed il comando, andarono i cittadini volontari all'opera; e furono viste donne insigni per nobiltà, egregie per costumi, affaticare a quel duro lavoro le inusitate braccia, trasportando per parecchi giorni e sassi e terre; fu quindi il porto ben munito. Ed allora il nemico volse a Procida ed Ischia, isole del golfo, vi sbarcò soldati, uccise o imprigionò i rappresentanti e i seguaci della repubblica, ristabilì il governo regio, e creò i magistrati a punire i ribelli. Si udirono le più fiere condanne, e il nome del giudice Speciale, nuovo, ma che subito venne a spaventevole celebrità.

XXVII. Giungevano fuggitivi alla città gli abitatori di quelle isole a pregare aiuti; e i repubblicani, più magnanimi che prudenti, stabilirono con pochi legni e poche milizie combattere il nemico assai più forte. Stava in Napoli, tornato con permissione del re di Sicilia, l'ammiraglio Caracciolo, di chiaro nome per fatti di guerra marittima e per virtù cittadine; ebbe egli il comando supremo delle forze navali, ed il carico di espugnare Procida ed Ischia. Sciolsero dal porto di Napoli i repubblicani lieti all'impresa, benchè tre contro dieci; e valorosamente combattendo un giorno intero, arrecarono molte morti e molti danni, molti danni e morti patirono; e più facevano, e stavano in punto di porre il piede nella terra di Procida, quando il vento, che aveva soffiato contrario tutto il dì, infuriò nella sera, e costrinse le piccole navi della repubblica a tornare in porto: non vincitrici, non vinte, riportanti lode dell'audacia e dell'arte.

XXVIII. In Napoli frattanto le parti del re si agitavano in secreto, e, poco discorate dalla gioia e dalle apparenze de' contrarii, ordinavano potenti macchinazioni. Un venditore di cristalli, detto perciò il Cristallaro, aveva arruolato grosso stuolo di lazzari; che senz'amore di parte, ma per guadagni e rapine si giuravano sostenitori del trono. Altro capo, di nome Tanfano, dirigeva numerosa compagnia di congiurati, e concertava domestiche guerre coi sovrani della Sicilia, col cardinale Ruffo, con gli altri capi delle bande regie; riceveva danaro e lo spartiva co' suoi; aveva armi e mezzi di sconvolgimento; preparava le azioni e le mosse; lettere della regina lo chiamavano servo e suddito fedele, amico e caro al trono ed a lei. E qui rammento a quali uomini diffamati per delitti o per pene, Frà Diavolo, Mammone, Pronio, Sciarpa, Guarriglia, ultima plebe, immondizia di plebe, i sovrani della Sicilia dichiaravano sensi di amicizia e di affetto. Sopra tutte le congiurazioni era terribile quella di Baker, svizzero, dimorante in Napoli da lungo tempo, imparentato con famiglie divote a' Borboni; divoto a loro egli stesso ed ambizioso. Il quale conferendo per secreti messi con gli uffiziali delle navi contrarie, stabilirono che in giorno di festa, quando è il popolo più ozioso ed allegro, flottiglia sicula e inglese tirerebbe a bomba su Napoli, e perciò accorrendo le milizie a' castelli ed alle batterie del porto, lasciata vóta di guardie la città, sarebbe facile lo scoppio e la fortuna de' preparati tumulti: in mezzo a' quali ucciderebbero i ribelli al re, incendierebbero le loro case, si otterrebbe ad un punto vendetta e potere.

Così fermate le cose, andarono segnando in vario modo le porte e i muri delle case da serbare o distruggere, secondo era prescritto in quei nefandi concilii. E poiché sovente sotto lo stesso tetto e nella stessa famiglia dimoravano genti delle due parti, distribuirono secretamente alcuni cartelli assicuranti dalle offese. Uno fu dato dal capitano Baker, fratello del capo de' congiurati, a Luigia Sanfelice, della quale era preso di amore; e fidandole il foglio con dirne l'uso, accennò il pericolo. Ammirabile carità per donna amata e a lui crudele; la quale, rendendo grazie, prese il cartello ma non per sé, per darlo al giovine del suo cuore, che, uffiziale nelle milizie civili e caldo partigiano di repubblica, era certamente vittima disegnata della congiura. Fin qui amore guidò le azioni, ma indi appresso ira e ragion di Stato; avvegnaché il giovine, Ferri, svelò al governo quanto ei sapeva della trama, presentò il cartello, disse i nomi, superbo per sé e per la sua donna di salvare la patria. La Sanfelice, chiamata in giudizio e interrogata di que' fatti, vergognosa de' palesati amori, della denunzia, dei castighi che soprastavano, sperando alcuna scusa della pietà dei giudici per la ingenuità dei racconti, rivelò quanto aveva in cuore, solo nascondendo il nome di lui che le diede il cartello, e protestando con virile proprosito morir prima che offendere ingratamente l'amico pietoso che voleva salvarla. Ma bastarono le udite cose, e soprattutto la scrittura e i segni del cartello, a scoprire i primi della congiura, chiuderli nel carcere, sorprender armi, altri fogli, conoscer le fila della trama e annientarla. Stava la Sanfelice timorosa di pubblica vituperio, quando si udì chiamata salvatrice della repubblica, madre della patria.

Al manifestare di que' pericoli fu grande il terrore, scuoprendo nelle porte delle case e ne' muri note o segni, che, veri o accidentali, erano creduti di esterminio; se ne vedevano negli edifizi pubblici, nei banchi dello Stato, e nel palazzo vescovile con abbondanza. L'arcivescovo di quel tempo, cardinale Zurlo, già contrario al cardinal Ruffo, e divenuto dispettoso della fortuna, timoroso della potenza del nemico, indicando principal cagione delle sventure dello Stato, e non colonna, come si vantava nelle pastorali ma disfacitore e vergogna della religione e della Chiesa, lo aveva‑segnato di anatema. Ed il cardinale Ruffo, ciò visto, scomunicò il cardinale Zurlo, come contrario a Dio, alla Chiesa, al pontefice; al re. Si divisero le opinioni e le coscienze de' cherici; ma stavano i pietosi ed i buoni con Zurlo, i tristi e i ribaldi con Ruffo.

Se non che, distrutta per lo abuso delle armi la potenza delle opinioni, niente altro valeva che la forza. Tutte le province obbedivano al re; la sola città e piccolo cerchio intorno a lei si reggeva in repubblica. Ettore Caraffa con piccola mano di repubblicani, dopo aver combattuto all'aperto, e provveduto largamente alle provvigioni di Pescara, stava ritirato nella fortezza; i Francesi non movevano da Santelmo, Capua. Gaeta; le schiere della repubblica erano poche, le bande della Santa Fede innumerabili; avvegnaché all'amore per il re si univano le ambizioni e i guadagni di causa vincente, la impunità di colpe antiche, il perdono a chi aveva seguita e poi disertata la parte di repubblica. Sbarcarono in Taranto col maresciallo conte Micheroux intorno a mille fra Turchi e Russi, che, uniti e ubbidienti al cardinale, presero e taglieggiarono la città di Foggia, quindi Ariano, Avellino; e si mostrarono alla piccola terra detta Cardinale, ed a Nola. Mentre Pronio, che aveva arruolato sul confine di Abruzzo alcuni fuggitivi di Roma e di Arezzo, correva la campagna sino a vista di Capua; Sciarpa, richiamate alla potestà del re Salerno, Cava, e le altre città soggiogate poco innanzi dai Francesi, stava col nerbo delle sue bande a Nocera, Frà Diavolo e Mammone, uniti nelle terre di Sessa e Teano, aspettavano il comando a procedere. Le genti che assalivano la inferma repubblica erano adunque Napoletani, Siculi, Inglesi, Romani, Toscani, Russi, Portoghesi, Dalmati, Turchi; e nel tempo stesso correvano i mari del Mediterraneo flotte l'une all'altre nemiche e potentissime. La francese di venticinque vascelli, la spagnuola di diciasette, la inglese di quarantasette, in tre divisioni; la russa di quattro, la portoghese di cinque, la turca di tre, la, siciliana di due; e delle sete bandiere che ho indicate, le fregate, i cutter, i brick erano innumerabili. Stavano da una parte Francesi e Spagnuoli, settanta legni; stavano dalla opposta novanta o più. Si aspettava in Napoli per le promesse del Direttorio francese la flotta gallo‑ispana.

XXIX. Acciò le amiche navi arrivassero in porto sicuro ed utilmente alla repubblica, bisognava respingere o trattenere le truppe borboniane, che grosse venivano a stringere la città. Tenuto consiglio per la guerra, il generale Matera, napoletano, fuggitivio in Francia l'anno 1795, tornato in patria capo di battaglione, fatto generale della repubblica, valoroso ne' combattimenti, sciolto di morale e di coscienza, propose adunare in un esercito le milizie sparse in più colonne, accresciute di mille Francesi dei presidii delle fortezze, promesse a lui dal capo Megean a patto e prezzo di mezzo milione di ducati; forti perciò le squadre della repubblica per numero e per arte, andar con esse ad assalire la banda maggiore del cardinal Ruffo, distruggerla; imprigionare, se fortuna era proprizia, il porporato; e quindi volgere alle bande di Pronio, Sciarpa, Mammone, che troverebbero debellate prima dal grido che dalle ami. Stessero chiusi a guardia dei castelli i partigiani di repubblica; la città corresse la fortuna delle fazioni, sino a ché le medesime squadre repubblicane, vincitrici nella campagna, tornassero a lei per il trionfo, ed a castigo de' ribelli. La povertà dell'erario non faceva intoppo al disegno; chè se il governo ,(il generale diceva) mi fa padrone della vita e de' beni di dodici ricche persone che a nome disegnerò, io prometto deporre in due giorni nelle casse della finanza il mezzo milione per l'avido Megean, ed altri trecentomila ducati per le spese di guerra, «Cittadini direttori (conchiudeva), cittadini ministri e generali: alcune morti, molti danni, molte politiche necessità, che gli animi deboli chiamano ingiustizie, anderebbero compagne o sarebbero effetti de' miei disegni, e la repubblica reggerebbe; ma s'ella cadrà, tutte le ingiustizie, tutti i danni, morti innumerabili soprasteranno».

Inorridivano a quel discorso i mansueti ascoltatori: lasciar la città, le famiglie, i cittadini alla foga ed alle rapine de' Borboniani; concitare a delitti per poi punire; trarre, danaro senza legge o giustizia per forza di martorii da persone innocenti; crear misfatti, crear supplizi, erano enormità per gli onesti reggitori di quello Stato, disapprovate dal cuore, dalla mente, dalle pratiche lunghe del vivere e del ragionare. Cosicché tutti si unirono alla sentenza del ministro Manthonè: il quale, inesperto delle rivoluzioni, misurando al valor proprio il valore dei commilitoni, magnanimo, giusto, diceva che dieci repubblicani vincerebbero mille contrarii; che non abbisognavano i francesi, però che andrebbe Schipani contro Sciarpa, Bassetti contro Mammone e Frà Diavolo, Spanò contro de Cesare, egli medesimo contro Ruffo; e resterebbe in città ed in riserva il generale Wirtz con parte di milizie assoldate, con tutte le civili, e la legione calabrese. Mossero al dì seguente Spanò e Schipani.

XXX. Questi giunse alla Cava ed accampò: l'altro, battuto nei boschi e tra le strette di Monteforte e Cardinale, tornò in città scemo d'uomini; disordinato, con esempio e spettacolo funesto. Quindi Schipani, assalito giorni appresso nelle deboli ale della piccola schiera, senza retroguardo e senza speme di aiuto, pose il campo sulle sponde del Sarno. Il generale Bassetti, che uscì fuori in quei giorni, teneva sgombera di nemici la strada insino a Capua. Restavano ancora in città con le milizie del generale Manthonè le altre tumultuariamente coscritte; e si sperava nella legione di cavalleria, che il generale Roccaromana levava, come ho detto innanzi, a nome e spese della repubblica. Ma la speranza cadde, e si volse in cordoglio, avvegnaché il duca, visti i precipizi della repubblica, presentò con se medesimo le formate schiere al cardinal Ruffo, e militò sino al termine di quella guerra per la parte borbonica. Dura necessità di chi scrive istoria è il narrar tutti i fatti degni di ricordanza, o grati, o ingratissimi ano scrittore: dal che gli uomini apprendano non ischiavarsi il biasimo delle opere turpi che per la sola oscurità di condizioni o per rara ventura; non bastando a nasconderle A mutar de' tempi, o le generose ammende, o gli affetti amichevoli di chi narra, perciocché altri libri e memorie attestano la nascosta o trasfigurata verità; ed il benevole silenzio, non giovando all'amico, nuoce alla fede de' racconti.

XXXI. Vedevasi la città piena di lutto: scarso il vivere, vuoto l'erario, e perfino mancanti di aiuto i feriti. Ma due donne, già duchesse di Cassano e di Popoli, e allora col titolo più bello di madri della patria, andarono di casa in casa raccogliendo vesti, cibo, danaro per i soldati e i poveri che negli spedali languivano. Poté l'opera e l'esempio: altre pietose donne si aggiunsero; e la povertà fu soccorsa. Ma dechinava lo Stato: il cardinal Ruffo pose le stanze a Nola, e le sue torme campeggiavano sino al Sebeto; le altre di Frà Diavolo e di Sciarpa si mostrarono a Capodichina; non erano computate quelle genti, perciocché, vaganti e volontarie, passando d'una in altra schiera, coprivano la campagna disordinate e confuse; ma dicevi, a vederle, che non meno di quaranta migliaia costringevano la città. Schipani, assalito e vinto sul Sarno, passò al Granatello, piccolo forte presso Portici; Bassetti tornò respinto e ferito in Napoli; Manthonè, con tremila soldati, giunse appena alla Barra, e, dopo breve guerra, soperchiato da numero infinito, percosso dai tetti delle case, menomato d'uomini, tornò vinto. Tumultuava la città; messi di Castellamare annunziarono che, per tradimento, bruciava l'arsenale; ma poi seppesi che, sebben vera la iniquità, fu l'incendio, per zelo delle guardie e per venti che spiravano propizi, subito spento. Si udivano in città, nella notte, gridi sediziosi, e serpevano spaventevoli nuove di preparate stragi e di rovine.

Bando del governo prescrisse che al primo tiro del cannone dal Castelnuovo i soldati andassero alle loro stanze, le milizie civili agli assegnati posti, i patriotti ai castelli della città, i cittadini alle proprie case; che al secondo tiro, numerose pattuglie corressero le strade per sollecitare la obbedienza a que' comandi; e al terzo, fussero i contumaci dalle pattuglie medesime uccisi, stando il delitto nella disubbidienza, la pruova nello incontro per le vie, la giustizia nella salute della repubblica. Poscia tre nuovi tiri dal castello, non, come i primi, a lungo intervallo, ma seguiti, annunzierebbero la facoltà di tornare alle ordinarie faccende. Provato il bando nel seguente giorno, fu l'effetto come la speranza; grande il terrore, deserte le vie, mestissima, la faccia della città: città vasta e vuota è come tomba.

Schiere ordinate di Russi e Siciliani, secondate da stormi borbonici, assalirono in quel giorno medesimo, 11 di giugno, il forte del Granatello, intorno al quale attendavano le milizie di Schipani, mille uomini o poco meno; soccorsi da navi cannoniere che l'ammiraglio Caracciolo guidava con animo ed arte mirabile. Il campo non fu espugnato, il generale restò ferito, menomarono i soldati; accampò l'oste nemica incontro al forte. Cosicché nella notte, disposti da ambe le parti gli assalti e le difese, il generale Schipani, avendo stabilito di ritirarsi nella città, inviò tacitamente ai primi albori numerosa compagnia di Dalmati alle spalle dei Borboniani, che però sorpresi e sconcertati, diedero a Schipani opportunità di uscir dal campo, combattere, spingerli sino alla chiesa parrocchiale di Portici, e aver certa ritirata sopra Napoli. Ma in un subito que' Dalmati, spauriti o sedotti dalla mischia, mutando fede e bandiera, si unirono a' Russi, ed accerchiando la piccola tradita schiera de' repubblicani, dopo molte morti e ferite, arrecate, sofferte, la presero prigione.

XXXII. Ma il cardinale procedeva lentamente per meglio stimolare, all'aspetto di ricca città, le avide voglie delle sue turbe, alle quali aveva promesso licenza e sacco, e per aspettare il dì festivo già vicino di sant'Antonio; avvegnaché per i miracoli del sangue praticati in grazia di Championnet, di Macdonald, del Direttorio napoletano, caduta la credenza della plebe da san Gennaro, bisognavano al porporato altre religioni ed altro santo. E perciò al primo raggio del 13 di giugno, alzato nel campo l'altare, celebrato il sagrifizio dei cristiani, ed invocato sant'Antonio patrono del giorno, fece muovere contro la città tutte le torme della Santa Fede, stando lui a cavallo col decoro della porpora e della spada, in mezzo alla schiera maggiore, intesa a valicare il piccolo Sebeto sul ponte della Maddalena. Alle quali mosse, mossero incontro i repubblicani; prima sparando dal Castelnuo­vo i tre tiri del cannone per tener le vie della città sgombre di genti, e salve dalle insidie de' nemici interni.

Il generale Bassetti con piccola mano correva il poggio di Capodichina, minacciando, per le viste più che per l'armi, l'ala diritta dell'immensa torma che avanzava ne' fertili giardini della Barra. Il generale Wirtz con quanti poté raccogliere andò sul ponte, vi stabilì poderosa batteria di cannoni, e munì di combattenti e di artiglierie la sponda diritta del fiume: i castelli della città restarono chiusi co' ponti alzati. La legione calabra, divisa in due, guerniva il piccolo Vigliena, forte o batteria di costa presso l'edifizio de' Granili; e pattugliava nella città per impedire le insidie interne, e per ultimo disperato aiuto alla cadente libertà. I partigiani di repubblica, vecchi o infermi, guardavano i castelli; i giovani e i robusti andavano alla milizia, o formati a tumultuarie compagnie, o volontari e soli a combattere dove h guidava sdegno maggiore o fortuna. I Russi assalirono Vigliena, ma per grandissima resistenza bisognò atterrare le mura con batteria continua di cannoni; e quindi Russi, Turchi, Borboniani, entrati nel forte a combattere ad armi corte, pativano, impediti e stretti dal troppo numero, le offese dei nemici e de' compagni. Molti de' legionari calabresi erano spenti; gli altri, feriti né bramosi di vivere; cosicché il prete Toscani di Cosenza, capo del presidio, reggendosi a fatica perché in più parti trafitto, avvicinasi alla polveriera, ed invocando Dio e la libertà, getta il fuoco nella polvere, e ad uno istante con iscoppio e scroscio terribile muoiono quanti erano tra quelle mura oppressi dalle rovine, o lanciati in aria, o percossi da sassi: nemici, amici, orribilmente consorti. Alla qual pruova d'animo disperato, trepidò il cardinale, imbaldanzirono i repubblicani, giurarono d'imitare il grande esempio.

Con tali auguri stava Wirtz sul ponte, Bassetti su la collina, e uscì dal molo con lance armate l'ammiraglio Caracciolo, il cardinale co' suoi avanzava. Cominciata la zuffa, morivano d'ambe le parti; ed incerta pendeva la vittoria stando sopra una sponda numero infinito, e su l'altra virtù estrema e maggior arte. Tra guerrieri sciolti e volontari andava Luigi Serio, avvocato, dotto, facondo, guida un tempo ed amico all'imperatore Giuseppe II, come ho rammentato nel precedente libro; ma contrario al re Borbone per sofferta tirannide, bramoso anzi di morte che paziente alla servitù. Egli, avendo in casa tre nipoti, per nome De Turris, giovani timidi e molli, allo sparo della ritirata lor disse: Andiamo a combattere il nemico;» ed eglino, mostrando l'età senile di lui, la quasi cecità, la inespertezza comune alla guerra, la mancanza delle armi, lo pregavano di non esporre a certa ed inutile rovina sé e la famiglia. Al che lo zio: «Ho avuto dal ministro della guerra quattro armi da soldati e duecento cariche. Sarà facile cogliere alla folta mirandola da presso. Voi seguitemi: se non temeremo la morte, avremo almeno innanzi di morire alcuna dolcezza di vendetta». Tutti andarono. Il vecchio per grande animo e natural difetto agli occhi, non vedendo il pericolo, procedeva combattendo con le armi e con la voce. Morì su le sponde del Sebeto: nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili dell'ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato né cercato abbastanza, restò senza tomba; ma spero che su questa pagina le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro di pietà e di maraviglia.

XXXIII. Al dechinare del giorno ancora incerta era la fortuna su le sponde del piccolo fiume, quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia, lasciò senza capo le schiere, senza animo i combattenti; ed al partir di lui su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò, fuggi confusamente in città. Ed allora i Borboniani ed i lazzari, dispregiando il divieto di autorità cadente, uscirono dalle case per andar armati contro la schiera del Bassetti; la quale, saputo la morte del Wirtz, la perdita del ponte ed il campo fugato, si ritirò, aprendosi il varco fra le torme plebee, nel Castelnuovo. Qui già stavano riparati e in atto di governo i cinque del Direttorio, i ministri e parecchi del senato legislativo, gli altri uffiziali o partigiani della repubblica si spartirono, secondo variar di senno, tra i castelli, le case, i nascondigli, o a drappelli armati nell'aperto. Molti che andarono al forte di Santelmo, ributtati dallo spietato Megèan, accamparono sotto le mura e nel vasto convento di San Martino. Caracciolo combatté dal mare per molta notte; e poi che i nemici si allontanarono dalla marina, tornò al porto. E mentre tali cose di buona guerra si operavano, due fratelli Baker e tre altri prigioni già condannati dal tribunale rivoluzionario furono archibugiati, come in secreto, sotto un arco di scala del Castelnuovo: supplizio crudele, perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza o di esempio. Non bastò il tempo, e fu ventura, a più estesi giudizi contro a' congiurati col Baker. La città intanto, priva di muri e di munimenti, sgombra di repubblicani e già piena de'contrarii, alzò grida di evviva per il re; ma le milizie assoldate, e quanto si poteva di truppe della Santa Fede, restarono fuori, tenute dal cardinale (non per carità della patria) per tema che le tenebre aiutassero preparate insidie del nemico. Voci dunque di gioia e luminarie, adulatrici e prudenti più che sincere, festeggiavano il ristabilito impero; e tiri di cannone da' castelli, o disperate uscite de' repubblicani turbavano le feste, uccidevano i festeggianti. Tetra notte per le due parti fu quella del 13 di giugno del 1799.

XXXIV. Al seguente mattino, assalito e preso dai Russi il forte del Carmine, vi morirono uccisi repubblicani e soldati, ed all'alzare della .bandiera borbonica su la torre, furono volte, sparando a guerra ed a festa, le artiglierie al Castelnuovo ed alle trincere del molo. Pose le stanze il cardinale a' Granili, accamparono le milizie ordinate della Santa Fede nelle colline che soprastanno alla città, le torme sciolte vennero al promesso spoglio delle case, e quante commettessero prede, atrocità, uccisioni dirò in altro luogo. Dalla opposta parte i repubblicani si affaticarono in quel primo giorno a munire le fronti offese dei Castelnuovo ed a sbarrare alcune strade della città; così che fossero ancora in repubblica i tre castelli Nuovo, dell'Uovo, Santelmo, il Palazzo, la casa forte di Pizzofalcone, l'ultima punta dell'abitato detta Chiaia. Durarono le batterie nei seguenti giorni: alcuni repubblicani, disertando, si giurarono al re; il comandante del castello di Baia invitò i Siciliani ad impadronirsene; due ufficiali fuggitivi dal Castelnuovo furono visti alzar trincere contro quel forte che dovevano per sacramento difendere; ma di cotesti colpevoli taccio i nomi, perché, pochi ed oscuri, più nocquero alla propria fama che alla repubblica; e perché in tanti mutamenti di Stato le tradigioni grandi e felici hanno coperto le minori, sì che oggidì la fede, il giuramento, i debiti di cittadino, le religioni di settario sono giuochi di astuzia, nutriti dal dispotismo, cui giovano tutte le bassezze della società più corrotta, di modo che il censo progressivo de' vizii e delle virtù civili dal 1799 sin oggi, mostrerebbe quell'anno il tempo meno triste del popolo napoletano: tanto di mese in mese i pubblici costumi degradarono.

Assalita la piccola ròcca di Castellamare da batterie di terra e dei vascelli siciliani ed inglesi, non cedé che a patti di andare il presidio libero in Francia, ciascuno portando i beni mobili che voleva, e lasciando sicuri nel regno le possedimenti e famiglie. Il sotto ammiraglio inglese Foote sottoscrisse per parti regie il trattato; e poscia il presidio, apprestate le navi, fu menato a Marsiglia. Nella guerra della città una stoltizia dei Borboniani, altra dei contrarii generarono pericolo gravissimo. Dal castello del Carmine tiravano, per ignoranza, palle infuocate contro i sáldi muri del Castelnuovo; ed una, fermata in piccola stanza su la cortina, apprese il fuoco a certi legni che, antichi ed oliati, rapidamente bruciarono. Sorgeva quella casetta presso il bastione della marina e stava in seno a questo la polveriera piena di polvere e di artifizi. Non potevano quelle fiamme, fuggenti verso il cielo, comunicar sotterra fuoco, scintilla o calor grave; ma si eccitò tanta paura e tumulto, che il presidio minacciava sforzar le porte del castello e fuggire; o se alcun calmar voleva le agitate fantasie, lo credevano disperato di vivere, uccisore crudele delle sue genti; il Toscani di Vigliena, sino allora di eroica fama, era citato in esempio di ferità. Cosicché tutti, sapienti, insapienti, posero mano all'opera, solleciti come soprastasse l'incendio della polveriera; e, benché lontana la fonte, fatto perenne il getto d'acqua per catena d'uomini, fu spento il fuoco. Ma tra mezzo allo scompiglio, il nemico, visto fumo d'incendio nel castello e rallentato lo sparo dei cannoni, si appressò alla via detta del Porto, e gettando parecchie granate alla porta della darsena la incendiò; aprì un varco al castello, ed entrava se avesse avuto maggior animo e miglior arte. Corsero i repubblicani al rimedio, e tumultuariamente sbarrarono quell'ingresso.

XXXV. Era concertata per la notte l'uscita dei repubblicani da san Martino e de' castelli dell'Uovo e Nuovo per distruggere batteria di cannoni alzata nella marina di Chiaia. Non erano i Francesi con loro, perché Megèan gia negoziava col cardinale il prezzo del tradimento, e i repubblicani, sospettandone, gli nascondevano le mosse e le speranze. Al battere della mezzanotte, ora fissata ad uscire, muovono le tre partite, e quanti incontrano soldati della Santa Fede spietatamente uccidono, perciocché il far prigioni era danno al segreto ed alle piccole forze della impresa; vanno tanto sospettosi che due avanguardi, credendosi nemici, si azzuffano; ma ratto scoprendosi, e commiserando insieme la morte di un compagno, giurano vendicarla su i nemici. Procedono, sorprendono ed uccidono le guardie della batteria, inchiodano i cannoni, bruciano i carretti e tornano illesi ai loro posti, disegnando altre sortite e giurando di morire nei campi. Il romore della pesta, i lamenti e i gridi alla uccisione dei Borboniani, annunziando pericolo (ma incerto) nel campo russo, nei campi della Santa Fede e nelle stanze del cardinale, tutti batterono all'arme, tenendo schierate le truppe sino al giorno, mentre il codardo porporato divisava tirarsi addietro di molte miglia.

E pensieri più aspri lo agitavano. Null'altro sapevasi della flotta galloispana fuor che navigava nel Mediterraneo; e benché flotte maggiori e nemiche girassero nel mare istesso, era incerto lo scontro, e negli scontri la fortuna de' combattimenti. Molte città sospiravano ancora la repubblica; e delle città regie parecchie si scontentavano per la crudeltà delle genti della Santa Fede. Le promesse dei premii cadevano; menomavano le torme, però che i meno avari, saziata l'avidità, volean godere vita oziosa e sicura. E finalmente avendo a fronte gente animosa e disperata, il cardinale temeva per sé e per gli statichi (tra i quali un suo fratello) custoditi nel Castelnuovo. Nelle veglie angosciose di quella notte, decise mandar legati al Direttorio della repubblica per trattar di pace; e a giorno pieno, meglio computate le morti e i danni della sortita, le fughe, lo sbalordimento nei suoi campi, uditi a consiglio i capi delle truppe e i magistrati del re, tutti proclivi agli accordi, inviò messaggio a Megèan con le proposte di accomodamento convenevole ai tempi, alla dignità regia ed a causa vinta. Gli ambasciatori di Ruffo ed un legato di Megèan riferirono quelle profferte al Direttorio della repubblica.

XXXVI. Qui erano maggiori e più giuste le inquietudini; ma l'offerta di pace le consolò, altri credendo diserzioni o ribellioni nei campi della Santa Fede, altri vittorie francesi nella Italia, ed il maggior numero vicina e vincitrice la flotta gallo‑ispana. Risposero che a governi liberi non era lecito concedere o rigettare senza consultazioni, che il Direttorio consulterebbe. Frattanto a preghiere del legato di Megèan fu concordato armistizio di tre giorni; ed il ministro Manthonè, al partire degli ambasciatori, disse a' Borboniani che se il cardinale nella tregua non sapesse frenare le sue genti, egli uscendo dal forte impedirebbe le crudeltà, le rapine, il sacco infame della città. Rimasti soli, consultavano; e a poco a poco, dubitando delle immaginate felicità, inchinavano gli animi agli accordi. Manthonè, solo fra tutti, proponeva partiti estremi e generosi, pari al suo cuore, non pari alle condizioni della repubblica. Oronzo Massa, generale di artiglieria, chiamato a consiglio, e dimandato dello stato del castello, rispose il vero così: «Siamo ancora padroni di queste mura, perché abbiamo incontro soldati non esperti, torme avventicce, un cherico per capo. Il mare, il porto, la darsena son del nemico; l'ingresso per la porta bruciata è inevitabile; il Palazzo non ha difesa dalle artiglierie, la cortina verso il nemico è rovinata; infine, se, mutate le veci, io fossi assalitore del castello, saprei espugnarlo in due ore». Replicò il presidente: «Accettereste voi dunque la pace?» ‑ «A condizioni, rispose, onorate per il governo, sicure per lo Stato, l'accetterei».

Si consumava la tregua, la Gallo‑Ispana non appariva, le forze repubblicane menomavano per diserzioni, dechinavano di proponimenti. Nella seconda notte fu rifatta la distrutta batteria di Chiaia, ed altra nuova se ne formò nella via del Porto; ma, per lamentanze e minacce del Direttorio, sospese le opere, il cardinale accertò che, se al di vegnente non si fermava la sperata pace, egli farebbe abbattere quelle trincere, alzate, non per suo comando, per foga dei soldati. I repubblicani, riconsultando, passate a rassegna e cadute le speranze maggiori (prolungar l'assedio sino all'arrivo degli aiuti stranieri, o vincere all'aperto, o farsi varco tra' nemici per unirsi ai Francesi di Capoa), vedendo facile il morire, impossibile la vittoria, e volendo serbar se stessi e mille e mille ad occasioni più prospere per la repubblica, distesero in un foglio le condizioni di pace, ed elessero negoziatore lo stesso general Massa, che aveva sostenuto nei congressi la opinione per gli accordi. Oronzo Massa, di nobile famiglia, ufficiale nei suoi verdi anni di artiglieria, volontariamente ritirato quando il governo, l'anno 1795, volse a tirannide, si offri soldato alla repubblica, e fu generale facondo, intrepido e di sensi magnanimo. A mai grado accettò il carico; ed uscendo dalla casa del Direttorio, incontrando me che scrivo, nella piazza del forte, mi disse a quale uffizio egli andava, soggiungendo: «I patti scritti dal Direttorio sono modesti; ma il nemico, per facilità superbo, non vorrà concedere vita e libertà ai capi della repubblica; venti almeno cittadini dovranno, io credo, immolarsi alla salute di tutti, e sarà onorevole al Direttorio ed al negoziante segnare il foglio dove avremo pattovito, per il vivere di molti, le nostre morti».

XXXVII. Convennero nella casa del cardinale i negoziatori. E poiché il Direttorio aveva dichiarato che non confiderebbe nel solo re Ferdinando e nel suo vicario, fu necessità unire al trattato i condottieri de' Moscoviti e dei Turchi, l'ammiraglio della flotta inglese, H comandante Megèan. Parvero al cardinale troppo ardite le domande dei repubblicani; ma, per i discorsi del general Massa, non audaci, sicuri, e per i proponimenti terribili ch'egli svelava: usar degli statichi alle maniere antiche, abbattere, bruciare le case della città, ripetere l'eroismo di Vigliena in ogni castello o in ogni edifizio, dechinò la superbia dei porporato; il quale mormorando co' suoi ch'egli avrebbe rimproveri dal re se trovasse in rovina Napoli sua, chiese che, tolti dal trattato i concetti e le parole oltraggiose alla dignità regale, scenderebbe a' pretesi patti. E aderendo il general Massa, fu scritta la pace in questi termini:

« 1. I castelli Nuovo e dell'Uovo, con armi e munizioni, saranno consegnati ai commissari di S.M. il re delle Due Sicilie, e de' suoi alleati l'Inghilterra, la Prussia, la Porta Ottomana.

«2. I presidii repubblicani dei due castelli usciranno con gli onori di guerra, saranno rispettati e guarentiti nella persona e ne' beni mobili ed immobili.

«3. Potranno scegliere d'imbarcarsi sopra navi parlamentarie per essere portati a Tolone, o restare nel regno, sicuri d'ogni inquietudine per sé e per le famiglie. Daranno le navi i ministri dei re.

«4. Quelle condizioni e quei patti saranno comuni alle persone de' due sessi rinchiuse ne' forti, a prigionieri repubblicani fatti dalle truppe regie o alleate nel corso della guerra, al campo di san Martino.

«5. I presidii repubblicani non usciranno dai castelli sino a che non saranno pronte a salpare le navi per coloro che avranno eletto il partire.

«6. L'arcivescovo di Salerno, il conte Micheroux, il conte Dillon e il vescovo di Avellino resteranno ostaggi nel forte di Santelmo sino a che non giunga in Napoli nuova certa dell'arrivo a Tolone delle navi che avranno trasporato i presidii repubblicani. I prigionieri della parte del re, e gli ostaggi tenuti ne' forti, andranno liberi dopo firmata la presente capitolazione».

Seguivano i nomi di Ruffo e Micheroux per il re di Napoli, di Foote per l'Inghilterra, di Baillie per la Russia, e di ... per la Porta; e per la parte repubblicana, di Massa e Megèan.

XXXVIII. Ne' di seguenti furono apprestate le navi. Un foglio del cardinale invitò Ettore Caraffa, conte di Ruvo, a cedere le fortezze di Civitella e Pescara alle condizioni dei castelli di Napoli; ed un suo editto da vicario del re bandiva esser finita la guerra, non più ave ' re il regno fazioni o parti, ma essere tutti i cittadini egualmente soggetti al principe, amici tra loro e fratelli; volere il re perdonare i falli della ribellione, accogliere per fino i nemici nella bontà paterna, e perciò finissero nel regno le persecuzioni, gli spogli, le pugne, le stragi, gli armamenti. Ma pure taluni, o veggenti o increscevoli del reggimento borbonico, vennero a dimandare imbarco; e su le navi che erano preste, imbarcarono. Del campo di san Martino pochi rimasero in città, molti andavano in Francia; e così, uscendo dai castelli coi pattoviti onori, i due presidii si spartirono tra 'l rimanere (ed erano pochi) e il partire. Non mancava dunque a salpare che il vento, sperato propizio nella notte.

Quando, visto il mare biancheggiar di vele, fu creduto l'arrivo della Gallo‑Ispana; e perciò tra i repubblicani imbarcati scoppiò cordoglio comune e rimproveri vicendevoli; andò più alto la fama di Manthonè, il quale aveva sempre biasimato la resa de' castelli, e chiamato viltà in, qualunque infima sorte darsi schiavo al nemico, quasi mancasse la libertà del morire; ma erano quelle navi dell'armata di Nelson, che arrivò al golfo prima che il sole tramontasse. Nella notte levatosi favorevole vento a navigare per Francia, i preparati legni non salparono, ed al vegnente giorno, mutando luogo nel porto, andarono sotto al cannone del castel dell'Uovo, tolti i timoni e le vele, gettate le àncore, messe le guardie, trasformate le navi a prigioni; e di che gl'imbarcati, maravigliando e temendo, chieste spiegazioni all'ammiraglio Nelson, il vincitore di Aboukir non vergognò cassare le capitolazioni, pubblicando editto del re Ferdinando che dichiarava: «i re non patteggiare co ' sudditi; essere abusivi e nulli gli atti del suo vicario; voler egli esercitare la piena regia autorità sopra i ribelli”. E dopo quel bando, andarono alle navi commissari regii per trarne i designati (ottantaquattro), che, a coppie incatenati, e a giorno pieno, per le vie popolose della città, furono menati, con spettacolo misero e scandaloso, alle prigioni di quei medesimi castelli ch'essi poco innanzi, ora gl'Inglesi guernivano. Altri degli imbarcati, non eccitando, per la oscurità de' nomi e de' fatti, la vendetta di que' superbi, o bastando a vendetta l'esilio, andarono su le navi medesime a Marsiglia. Il conte di Ruvo, cedute le fortezze di Pescara e Civitella, e venuto con altri parecchi del presidio ad imbarcarsi, com'era statuito nei patti della resa, furono menati spietatamente nelle carceri. Alle quali pruove di crudeltà e d'ingiustizia, i Borboniani, i lazzari, le torme della Santa Fede, già impazienti e sdegnosi de' trattati e degli editti di pace del cardinale, ora, scatenati, tornarono alle mal sospese ferità; ed il Ruffo, timoroso di que' tristi e della collera del re, taceva e secondava.

XXXIX. Cederono l'un dietro l'altro, sotto finte di assedio, Santelmo, Capua, Gaeta. Comandava Santelmo, come innanzi ho detto, il capo di legione francese Megèan, che da più giorni mercanteggiava la resa del castello; ed è fama non contraddetta che l'avidità di lui, scontentata dalle tenui offerte di Ruffo, si volgesse, per patti migliori agl'Inglesi; ma, ributtato, fermò col primo; e stabilirono:

Rendere il castello a S.M. Siciliana e suoi alleati; esser prigioniero il presidio, ma tornando in Francia, sotto legge di non combattere sino al cambio; uscir dal forte con gli onori di guerra, consegnare i sudditi napoletani, non a' ministri del re, ma degli alleati.

Ed al seguente giorno, consegnato il castello, uscendone il presidio, furono visti i commissari della polizia borbonica correre le file francesi, scegliere e incatenare i soggetti napoletani; e dove alcuno sfuggiva la vigilanza di que' tristi, andar Megèan ad indicarlo. Erano uffiziali francesi, benché nascessero nelle Sicilie, Matera e Belpulsi; e pur essi vestiti della divisa di Francia, furono dati agli sbirri di Napoli. I ministri de' potentati stranieri, come che presenti, tacevano, mancando a' patti della resa, i quali ponevano quei miseri nella potestà degli alleati. Era tempo d'infamie.

Cedé, poco appresso, come io diceva, la fortezza di Capua, indi Gaeta. Le condizioni furono le medesime di Santelmo, lo scandalo minore; avvegnaché non erano tra le file francesi, o si nascosero, i malaugurati soggetti del re delle Due Sicilie. Imbarcarono i Francesi; e sopra tutte le rócche sventolava la bandiera de' Borboni; comandava il regno, luogotenente del re, il cardinal Ruffo; le città, le terre, i magistrati gli obbedivano. Tutto dunque cessò della repubblica, fuorché, a maggior supplici degli animi liberi, la memoria di lei, e lo spavento dei presenti tiranni.