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Giuseppe Gioachino Belli
Tutti i Sonetti
romaneschi
Vol 1° ( pag. 7) e Vol. 2°
(pag. 760)
Vol. 1°
Introduzione
Io ho deliberato di
lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta
certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti,
l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi,
le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta
che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né
Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di
una città cioè di sempre solenne ricordanza. Oltre a ciò,
mi sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità. Questo disegno
così colorito, checché ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto
che lo abbiano preceduto.
I
nostri popolani non hanno arte alcuna, non di oratoria, non di poetica: come
niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed
energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie.
Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlare loro ciò che non
può vedersi nelle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di
una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non
frenati i muscoli del volto alla immobilità comandata dalla civile
educazione, si lasciano alle contrazioni della passione che domina e
dall’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente
per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina.
Così i volti diventano specchio dell’anima. Che se fra i cittadini,
subordinati a positive discipline, non risulta una completa uniformità
di fisionomia, ciò dipende da differenze essenzialmente organiche e
fondamentali, e dal non aver mai la natura formato due oggetti di matematica
identità.
Vero
però sempre mi par rimanere che la educazione che accompagna la parte
dell’incivilimento, fa ogni sforzo per ridurre gli uomini alla
uniformità: e se non vi riesce quanto vorrebbe, è forse questo
uno de’ beneficii della creazione. Il popolo quindi mancante di arte, manca di
poesia. Se mai cedendo all’impeto della rozza e potente sua fantasia, una pure
ne cerca, lo fa sforzandosi di imitare la illustre. Allora il plebeo non
è più lui, ma un fantoccio male e goffamente ricoperto di vesti
non attagliate al suo dosso. Poesia propria non ha: e in ciò errarono
quanti il dir romanesco vollero sin qui presentare in versi che tutta
palesarono la lotta dell’arte colla natura e la vittoria della natura
sull’arte.
Esporre
le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza
ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o
troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli
stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il
mio scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i
popolari discorsi svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono
uscire come accidente dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi
e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né
acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle
orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi
suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di
colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita
del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non
al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del
pregiudizio.
Non
casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la
materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per
proporre un modello, ma sì per dare una immagine fedele di cosa
già esistente e, più abbandonata senza miglioramento.
Nulladimeno
io non m’illudo circa alle disposizioni d’animo colle quali sarebbe accolto
questo mio lavoro, quando dal suo nascondiglio uscisse mai al cospetto degli
uomini. Bene io preveggo quante timorate e pudiche anime, quanti zelosi e
pazienti sudditi griderebber la croce contro lo spirito insubordinato e
licenzioso che qua e là ne traspare, quasiché nascondendomi perfidamente
dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e
i principii miei, onde esaltare il mio proprio veleno sotto l’egida della
calunnia. Né a difendermi da tanta accusa già mi varrebbe il testo
d’Ausonio, messo quasi a professione di fede in fronte al mio libro. Da ogni
parte io mi udrei rinfacciare di ipocrisia e rispondermi con Salvator Rosa:
A che mandar tante ignominie fuore,
E far proteste tutto quanto il die
Che s’è oscena la lingua è casto il cuore?
Facile però
è la censura, siccome è comune la probità di parole.
Quindi, perdonate io di buon grado le smaniose vociferazioni a quanti Curios
simulant et bacchanalia vivunt, mi rivolgerò invece ai pochi sinceri
virtuosi fra le cui mani potessero un giorno capitare i miei scritti, e
dirò loro: Io ritrassi la verità. Omne aevum Clodios fert, sed non omne
tempus Catones producit. Del resto,
alle gratuite incolpazioni delle quali io divenissi oggetto replicherò
il tenor della mia vita e il testimonio di chi la vide scorrere e terminare
tanto ignuda di gloria quanto monda d’ogni nota di vituperio.
Molti
altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere
in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri. Però un
più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da
parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di
popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde
nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le
inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non
così a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di
una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le
ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella
tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.
Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per
tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di
fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del
dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale e di frequente
ricorso vi suppliscono a molto.
Ed
errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo
piuttosto che quel rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini
della nostra città. Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra’ suoi
cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio
dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo
pitocco farà di sé mostra fra la credula femminetta e il fiero guidatore
di carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero popolo, e
facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io
compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il
quale spiccano le più strane contraddizioni. Dati i popolani nostri per
indole al sarcasmo, all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti
modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed
espositivo. Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato
ed efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni
e alle loro abitudini, siccome conviene alla loro inclinazione e
capacità.
Di
qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti
quadretti, e non fra loro congiunti fuorché dal filo occulto della macchina,
aggiungeranno assai meglio al fine principale, salvando insieme i lettori dal
tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da
prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo
riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina
la fine.
L’ortoepia
ne’ Romaneschi non cede in vizio alla grammatica: il suono della voce cupo e
gutturale: la cantilena molto sensibile e varia. Tradotta la prima nella
ortografia de’ miei versi, mostrerà sommo abuso di lettere.
Nel
mio lavoro io non presento la scrittura de’ popolani. Questa lor manca; né in
essi io la cerco, benché pur la desideri come essenziale principio
d’incivilimento. La scrittura è mia, e con essa tento d’imitare la loro
parola. Perciò del valore de’ segni cogniti io mi valgo ad esprimere
incogniti suoni.
Dalle
vocali si avrà discorso più tardi. Parliamo intanto delle
consonanti.
La
b tra due vocali si raddoppia, come abbito (abito), la bbella
(la bella), debbitore (debitore) ecc.
La
b dopo la m si cambia in questa: cammio (cambio), cimmalo
o cèmmalo (cembalo), immasciata (ambasciata), limmo
(limbo), palommo (palombo), gamma (gamba), ecc. Ciò
peraltro accade quando appresso la b venga una vocale. Se la b
sia seguit da r, alcuni la mutano in m e alcuni no: per esempio
le voci imbriaco, settembre, ambra, da molti si pronunceranno senza
alterazione e da taluni si diranno immriaco, settemmre, ammra.
La
c si ascolta quasi sempre alterata. Se è doppia avanti ad e
o ad i, oppure ve la precede una consonante, contrae il suono che hanno
nella regolar pronuncia le sillabe cia e cio in caccia e braccio,
e lo prende ancora più turgido, che in questi due esempi non si ascolta.
Preceduta poi da una vocale, anche di separata parola, prolungasi strisciando,
similare alla sc, di scémo, oscèno, scimia:
per esempio, piascére, duscènto, rèscita, la
scéna, da li scento, otto scivici (piacere, duecento,
recita, la cena, dai cento, otto civici) e simili. E qui giova il ripetere aver
noi prodotto in esempio un suono soltanto similare, imperocché di simile, in
questo caso la retta pronunzia non ne somministra. Pasce, pesce,
voci della buona favella, si proferiscono dal volgo come le voci viziate pasce,
pesce (pace, pece) colla differenza però che in questi ultimi
vocaboli il valore della s è semplice e strisciante, laddove in
que’ primi odesi doppio e contratto: di modo che, chi volesse rappresentare con
la penna la differenza di questi due suoni, dovrebbe scrivere passce, pessce
(pasce, pesce) pasce, pesce (pace, pece): quattro vocaboli che il
dir romanesco possiede.
Nella
lingua francese si può trovare questo secondo suono strisciante della sc
romanesca, il quale nella retta pronunzia dell’idioma italiano sarebbe vano di
ricercare. Per esempio acharnement, colifichet, la chimie,
s’échapper. Per ben leggere i versi di questo libro bisogna porre in
ciò molta attenzione. I fiorentini hanno anch’essi questo suono, che
coincide là appunto dove i romaneschi lo impiegano; ma dovendosi
considerare ancora in quelli come un difetto municipale ed una alterazione del
vero valor dell’alfabeto italiano, non si è da me voluto dare per
esempio che potesse servire alla intelligenza degli stranieri.
Appresso
però alle isolate vocali a, e, o, e a tutti i
monosillabi che non sieno articoli o segnacasi, la e conserva
bensì il suono grasso ai luoghi già detti, ma abbandona lo
strascico; per esempio a cena, è civico, o
cento. Si osserva in ciò la legge stessa che impera sulla c
aspirata de’ fiorentini, i quali dicono la hasa, di hane, sette
havalli, belle hamere, ecc., ed al contrario pronunziano
bene e rotondamente a casa, è cane, o cose, che
cavalli, più camere. Come dunque i fiorentini diranno la
hasa, di hane, le hose (la casa, di cane, le cose)
così i romaneschi diranno la scena, de scivico, li
scento (la cena, di civico, i cento); e all’opposto per lo stesso motivo
che farà pronunziare da’ fiorentini a casa, è cane,
o cose, si udrà proferire a’ romaneschi a ccena, è
ccivico, o ccento: imperocché in quelle isolate vocali a,
e, o e ne’ monosillabi tutti (meno gli articoli, i segnacasi, di
e da, e le particelle pronominali) sta latente una potenza accentuale
che obbligando ad appoggiare con vigore sulla c iniziale de’ seguenti
vocaboli, la esalta, la raddoppia, e per conseguenza n’esclude ogni
possibilità di aspirazione come se fosse preceduta da consonante. La
quale identità di casi offre uno benché lieve esempio di ciò che
talora anche le lingue più diverse ritengono fra loro comune e
inconvenzionale: la ragione di che deve cercarsi nella natura e
necessità delle cose.
Bisogna
qui avvertire un altro ufficio della lettera c. Presso il volgo di Roma
le voci del verbo avere sono proferite in due modi. Quando serve esso
verbo di ausiliare ad altri verbi, tutte le di lui modificazioni necessarie ai
tempi composti di questi si aprono col naturale lor suono, meno i vizi delle
costruzioni coniugate: per esempio hai fatto, avevo detto, averanno
camminato, ecc. Allorché però lo stesso verbo avere, preso in
senso assoluto, indichi un reale possesso, i romaneschi fanno precedere ogni
sua voce dalla particella ci. Non diranno quindi hai una casa, avevo
due scudi, averanno un debito, ecc., ma bensì ci hai una
casa, ci avevo du’ scudi, ci averanno un debbito, ecc. Poiché
però il ci non è da essi pronunciato isolato e distinto,
ma connesso e quasi incorporato col verbo seguente, così queste parole e
altre verranno da me scritte colla particella indivisa: ciai, ciavevo,
ciaveranno. E siccome esse consteranno pur sempre dall’accoppiamento di
due voci diverse, io vi porrò un apostrofo al luogo dove cade l’unione
fonica (ci’ai, ci’avevo, ci’averanno) affinché da niuno
sien per avventura credute vocaboli speciali e di particolare significazione.
Se poi la combinazione della altre parole del discorso, che vadano innanzi alle
dette voci a quel modo artificiale, produrrà lo strisciamento oppure il
raddoppiamento della c già da me più sopra indicato. Ecco
in qual maniera si noteranno queste altre due differenze: Io sc’iavevo du’
scudi, Tu cc’iai una casa, ecc. Se al contrario il verbo avere
non indichi un reale possesso allora le sue voci andran prive del ci:
per esempio: avevo vent’anni, hai raggione, averanno la
disgrazzia, ecc.
La
d appresso alla n mutasi in questa seconda lettera. Vendetta
si pronuncerà vennetta; andare, annà, indaco,
innico, mondo, monno. Allorché però le parole
principiate da in non saranno semplici ma composte, come indemoniato,
indietro, indorare e simili, la d conserverà il proprio
valore.
La
g fra due vocali non si addolcisce mai nel modo che sogliono i buoni
favellatori italiani, come in agio, pregio, bigio, ecc.,
ma si aspreggia invece e si duplica. Doppia poi, o preceduta da consonante
avanti alla e ed alla i, si pronuncia turgida come la c
ne’ medesimi casi. Nel resto questa lettera ritiene la sua natura. La sillaba gli
nelle parole si cambia in due jj: mojje (moglie), ajjo
(aglio), mejjo, fijjo, ecc. Ma l’articolo gli si muta in je:
je disse, fajje (gli disse, fagli), ecc.
La
l fra le vocali e le consonanti mute si muta in r, come Rinardo,
Griserda, Mitirda, manigordo, assarto, sverto,
morto, inzurto, ferpa, corpa, quarcheduno, arbero,
Argèri, arcuanto, marva, scarzo, mea-curpa,
per Rinaldo, Griselda, Matilde, manigoldo, assalto, svelto, molto, insulto,
felpa, malva, scalzo, mea-culpa. Nulladimeno il vocabolo caldo e i suoi
composti diconsi assai più spesso e generalmente callo, riscallo,
e non cardo e riscardo. Ancora nel nome Bertoldo la d
fa l e si dice Bertollo. Olio pronunciasi ojjo, rosolio
fa rosojjo, risojjo o risorio. La medesima lettera l
preceduta da un’altra consonante in una stessa sillaba, prende parimenti il
suono di r. Pertanto le voci clima, plico, applauso,
flauto, afflitto, emblema, blocco, Plutone,
diverranno crima, prico, apprauso, frauto, affritto,
embrema, brocco, Prutone.
Alcuni
non della infima plebe volgono l’articolo il in el, laddove la
vera plebaglia dice sempre er.
La
s non suona mai dolce come nella retta pronunzia di sposo, casa,
rosa. Odesi sempre sibilante, e, allorché non sibila, assume le parti di
una z aspra: lo che accade ogni qual volta succeda nel discorso ad una
consonate come sarza (salsa), er zegno (il segno), penziere
(pensiere), inzino (insino) ecc.
La
z nel mezzo delle parole costantemente raddopiasi. Così grazia,
offizio, protezione, si proferiranno grazzia, offizzio,
protezzione. Bensì questo s’intende allorché la z rimanga
fra due vocali.
Generalmente,
al principio delle parole, alcune consonanti restano semplici e molte al contrario
si raddoppiano, purché la parola precedente non termini in un'altra consonante.
Ma poiché pure questa teoria, comune in gran parte alle classi più
polite del popolo, va soggetta a capricciose eccezioni, se ne mostrerà
la pratica ai debiti incontri. Dopo però le finali colpite d’accento,
sia manifesto, sia potenziale (come si disse più sopra, parlando de’
monosillabi) da noi si dovrebbe nella scrittura delle consolanti iniziali
conservare il sistema della regolare ortografia. Un segno di più
è forse qui oziosa ridondanza, dacché fu avvertito come la potenza
accentuale raddoppi per sé stessa nella pronunzia le articolazioni seguenti: e
il miglior proposito parrebbe quello di notar solamente ciò che si
diparte dal resto. Purtuttavia, per non indurre in equivoco i meno pratici, ai
quali potesse per avventura giungere questo scritto, seguiremo coi segni la
guida del suono da essi rappresentato.
Per
le lettere vocali non dovremo fare osservazioni se non se intorno alla a
alla e e alla o. La prima esce sempre dalla bocca de’ romaneschi
con un suono assai pieno e gutturale: l’acuto o il grave della seconda e della
terza seguono le regole del dir polito, meno qualche incontro che all’occasione
sarà da noi distinto con analoghi accenti. Basterà qui l’avvertire
che niuna differenza si fa da e congiunzione ed è verbo,
siccome neppure tra la o congiuntivo e la ho verbale: udendosi
tutte pronunciare ugualmente con suono ben largo ed aperto.
Aggiungeremo
a questo luogo che la i nei monosillabi mi, ti, ci,
si, vi, trasformasi in e, pronunciandosi me, te,
ce, se, ve. Al contrario poi la e in se,
particella condizionale, volgesi in i. Questo rilievo per altro
apparterrebbe più alla grammatica che all’ortografia: e noi di
grammatica non parleremo, potendone i vizii apparir chiaramente dagli esempii,
i quali verranno all’uopo corredati da apposite note dichiarative.
[Giuseppe Gioachino Belli]
Indice 1. Lustrissimi: co’ questo mormoriale 4. Ar sor Longhi che pijja mojje 5. Alle mano d’er sor Dimenico Cianca 6. Reprìca ar sonetto de Cianca 7. Er pennacchio 8. L’aribbartato 9. Er civico 10. Peppe er pollarolo ar sor Dimenico Cianca 11. Pio Ottavo 13. Nunziata e ’r Caporale; o Contèntete de l’onesto 14. Ar dottor Cafone 15. Ar sor dottore medemo 16. P’er zor dottore ammroscio cafone 17. Er romito 18. L’ambo in ner carnovale 19. Er guitto in ner carnovale 20. Campa, e llassa campà 21. Contro li giacobbini 22. Contro er barbieretto de li gipponari 25. Er pijjamento d’Argèri 26. Ar zor Carlo X 27. Pe la Madonna de l’Assunta festa 28. Pe le Concrusione imparate all’ammente 29. Ar sorAvocato Pignòli Ferraro 30. Er gioco de calabbraga 31. Er gioco der lotto 32. Devozzione pe vvince ar lotto 33. L’astrazzione 34. Er gioco der marroncino 35. La bonidizzione der Sommo Pontescife 36. Li scrupoli de l’abbate 37. Assenza nova pe li capelli 38. Campo vaccino 39. Campo vaccino 40. Campo vaccino 41. Campo vaccino 42. Er Moro de Piazza–Navona 43. Tempi vecchi e ttempi novi 44. Er funtanone de Piazza Navona 45. Capa 46. Maggnera vecchia pe ttiggne la lana nova 47. Campidojjo 48. Li cattivi ugùri 49. L’oste a ssu’ fijja 50. Lo sposalizzio de Tuta 52. L’orecchie de mercante 53. La pissciata pericolosa 54. Er confortatore 55. L’impiccato 56. Li conzijji de
mamma 57. L’aducazzione 59. La peracottara 60. Chi rrisica rosica 6l. Devozzione 62. Se ne va! 63. Se n’è ito 64. La mala fine 65. Er pizzico 66. La Providenza 67. Ce sò incappati! 68. Er ricordo 69. La ggiustizzia de Gammardella 70. La proferta 72. Zi’ Checca ar nipote ammojjato 73. Li comparatichi 74. Facche e tterefacche 75. Ar bervedé tte vojjo 76. Un’opera de misericordia 77. Te lo dico pe bbene 78. Er zervitore inzonnolito 79. La protennente 80. Lo Sposo c’aspetta la Sposa pe sposà 81. Li frati 82. Er ricurzo 83. Un miracolo grosso 84. Fremma, fremma 85. Le mano a vvoi e la bbocca a la mmerda 86. Audace fortuna ggiubba tibbidosque de pelle 87. Er contratempo 88. Che disgrazzia! 89. Ce conoscemo 90. L’inzogno 91. Er cotto sporpato 92. Er ciàncico 93. L’upertura der concrave 94. Er negozziante de spago 95. Giusepp’abbreo 96. Giusepp’abbreo 102. L’incisciature 107. Li penzieri libberi 108. Du’ sonetti pe Lluscia 109. Du’ sonetti pe Lluscia 110. L’inappetenza de Nina 111. La scolazzione 112. La devozzione der Divin’Amore 113. Le spacconerie 115. Er partito bbono 116. Li culi 117. Er carcio-farzo 118. La carestia 119. Er tisichello 120. Li protesti de le cause spallate 121. La lettra de la Commare 122. La guittarìa 123. La guittarìa 124. Er tempo bbono 125. Er decane e er chirico 126. Quarto, alloggià li pellegrini 127. Er zervitore in zala 128. È tardi 129. Er purgante 130. Un mistero spiegato 131. Lo scarpinello vojjoso de fà 132. Er poscritto 133. Che core! 134. Er cornuto 135. Nozze e bbattesimo 136. La stiticheria 137. La risìpila 138. Un’immriacatura sopr’all’antra 139. Le bbevanne pe llui 141. La Compagnia de li servitori 142. Le tribbolazione 143. Er padre pietoso 144. Girolamo ar Cirusico de la Conzolazzione 145. Er galantomo 147. Le stizze cor regazzo 148. L’incontro cor padrone vecchio 149. Er zìffete 150. Abbada a cchi ppijji! 151. La schizziggnosa 152. L’imprestiti de cose 153. Vonno cojjonatte e rrugà! 154. Me ne rido 155. Li cancelletti 156. Er vino 157. Er matto da capo 158. Er matto da capo 159. Una disgrazzia 160. L’invidiaccia 161. Puro l’invidiaccia 162. La machina lèdrica 163. Er comparato e commarato 164. Er Ziggnore, o vvolemo dì: Iddio 165. La creazzione der Monno 166. lndovinela grillo 167. L’innamorati 168. Er pane casareccio 169. Er Culiseo 170. Er Culiseo 171. Santo Toto a Campovaccino 172. L’oche e li galli 173. La Salara de l’antichi 174. L’arco de Campovaccino, cuello in qua 175. Roma capomunni 176. Le scorregge da naso solo 177. Le scorregge da naso e da orecchie 178. Le scurregge che se curreno appresso 179. Le forbiscette 180. Li dottori 181. La musica 182. La frebbe 183. Er medico 184. Caino 185. Er vino novo 186. Er gran giudizzio de Salomone 187. La Ritonna 188. Sant’Ustacchio 189. Er pranzo de li Minenti 190. Er pranzo de le Minente 191. Er marfidato 192. Er pidocchio arifatto 193. Nun zempre ride la mojje der ladro 194. Er viaggio de Loreto 195. E ddoppo, chi ss’è vvisto s’è vvisto 196. Venti dì ttrent’otto mijja, 197. Li bbaffutelli 199. Muzzio Sscevola all’ara 200. Li malincontri 201. Er gioco de la ruzzica 202. Er gioco de piseppisello 203. So tutt’e ttre acciaccatelli 204. Nun ze bbeve e sse paga 205. L’amichi all’osteria 206. Spenni poco e stai bene 207. Aripíjemesce 208. L’armata nova der Sommo Pontescife 209. Lo Stato der Papa 210. Er civico de guardia 211. Un deposito 212. Ar Tenente de li scivichi 213. La bbella Ggiuditta 214. Er mariggnano 215. Er servitor-de-piazza ciovile 216. Er parlà ciovìle de
piú 217. Lo sscilinguato 218. Er ritorno da Rocca-de-papa 219. Er Zervitor de piazza, er Milordo ingrese, 220. La Dogana de terra’ a piazza-de-Pietra 221. La Colonna trojana 222. La colonna de piazza-Colonna 223. Le du’ Colonne 224. L’acqua rumatica 225. La commedia 226. Quanno er gatto nun c’è 227. La sorella de Matteo 228. Li comprimenti a ppranzo 229. Er tosto 230. Er dua de novemmre 231. Poveretti che mmoreno pe le campagne 232. Primo, nun pijjà er nome de Ddio in vano 233. Er biastimatore 235. Accusí và er monno 236. Fidasse è bbene, e nnun fidasse è mmejjo 237. L’uscelletto 238. Er viaggiatore 239. Le cose nove 240. È mejjio perde un bon’amico che una bbona risposta 241. Lo scommido 242. Li ventiscinque novemmre 243. La piggion de casa 244. L’Omo 245. Eppoi? 246. Er traghetto 247. Er Profeta de le gabbole 248. Er cucchiere e ’r cavarcante 249. Er cucchiere de grinza 250. Er cucchiere for der teatro 251. Er falegname cor regazzo 252. La corda ar Corzo 253. Er primo bboccone 254. Er morto devoto de Maria Bbenedetta 255. Morte scerta, ora incerta 256. Li bburattini 257. Er tignoso vince l’avaro 258. Er punto d’onore 259. Er tiratira 261. Er beccamorto 262. La Compaggnia de Vascellari 263. L’Apostoli 264. L’editto pe la cuaresima 265. L’editto pe tutto l’anno 266. Er marito ammalato 267. Er conto dell’anni 268. Chi s’impicca se spicca 269. L’ordegno spregato 270. La ggiostra a Ggorea 271. La Chinea 272. L’assegnati 273. C’è de peggio 274. Che ccristiani! 275. La fin der Monno 276. Er giorno der giudizzio 277. Er peccato d’Adamo 278. Li ggiochi 279. La papessa Ggiuvanna 280. Er Papa 281. Er mortorio de Leone duodescimosiconno 282. Le ssequie de Leone duodescimosiconno 283. Er bon conzijjo 284. Fortuna e ddorme 285. La Reverenna Cammera Apopretica 286. La spiegazzione 287. La lingua tajjana 288. La bbona famijja 289. Er presepio 290. Er trenta novemmre 291. La carità de li preti 292. Er civico ar quartiere 293. Li musi de lei 294. La bbotta de fianco 295. La serva de lo spappino 296. Pe ddispetto 297. Che llingue curiose! 298. E fora? 299. L’uffizziale francese 300. Primo, bbattesimo 301. Siconno: cresima 302. E ssettimo madrimonio 303. La santa commugnone 304. La santa Confessione 305. Er penurtimo sagramento, 306. Li peccati mortali 307. La particola 308. L’ojjo santo 309. Caster-Zant’-Angelo 310. Caster-Zant’-Angelo 311. La vedova co ssette fijji 312. La spia 313. Er grosso dell’incoronazzione 314. La cattura 315. Lo sposalizzio de le ssciabbole 316. Le nozze de li sguallerati 317. Li fijji 318. Er corpo de guardia scivico 319. La sala de Monzignor Tesoriere 320. Er prestito de l’abbreo Roncilli 321. L’ordine de Cavallaria 322. Er giornajjere de Campovaccino 323. Er ballerino d’adesso 324. Li Manfroditi 325. Er teatro Pasce 326. Er coronaro 327. Er roffiano onorato 328. Li Santi grossi 329. Le capate 330. La Nunziata 331. La visita 332. Er presepio de la Resceli 333. La scirconcisione der Zignore 334. Pascua Bbefania 335. Er fugone de la Sagra famijja 336. La stragge de li nnoscenti 337. Le nozze der cane de Gallileo 338. Le medeme 339. Le medeme 340. Le nove fresche 341. Santa Luscia de quest’anno 342. Le Cchiese de Roma 343. Li teatri de Roma 344. L’astrazzione farza 345. L’astrazzione de Roma 346. La Nasscita 347. Lotte a ccasa 348. Sara de lotte 349. Lotte ar rifresco 350. La mala stella 351. Er terramoto de venardí 352. Er medemo 353. Er medemo 354. Er medemo 355. Er teremoto 356. La Cchiesa dell’Angeli 357. La carotara 358. Li segreti 359. Er ricordo 360. Un po’ pper uno nun fa mmale a gnisuno 361. L’ommini der Monno novo 362. Li soprani der Monno vecchio 363. Chi va la notte, va a la morte 364. Er Momoriale 365. Er Cardinale 366. Er cane furistiero 367. Lo scozzone 368. Er marito de la serva 369. Er marito stufo 370. Ruzza co li fanti, e llassa stà li Santi 371. Er viscinato 372. Le funtane 373. Lo scojjonato 374. La guerra co cquelli bricconi 375. L’immasciatori de Roma 376. La vanosa 377. Er giudisce der Vicariato 378. Er companatico der Paradiso 379. La vedovanza 380. Er trionfo de la riliggione 381. Uno mejjo dell’antro 382. Li papalini 383. La predica 384. Per un punto er terno 385. Er diluvio da lupi-manari 386. Er zitellesimo 387. La puttana sincera 388. Lo scallassedie 389. Le porcherie 390. L’anno de cuest’anno 391. Li commedianti de cuell’anno 392. La zitella strufinata 393. La zitella strufinata 394. L’occhi sò ffatti pe gguardà 395. Momoriale ar Papa 396. Le notizzie de l’uffisciali 397. Li galoppini 398. Er rompicojjoni 399. Su li gusti nun ce se sputa 400. Er teatro Valle 401. Omo avvisato è mezzo sarvato 402. Er barbiere 403. La ggiustizia è cceca 404. Chi nnun vede nun crede 405. Com’ar mulo sei parmi lontan dar culo 406. La faccia d’affogato 407. Tali smadre, tali fijja 408. La vita de le donne 409. La vecchiaglia 410. Li sette sagramenti, tutt’e ssette 411. Li sordati de ’na vorta 412. Li sordati d’adesso 413. La bballarina de Tordinone 414. Er Presidente de l’urione
416. Li mariti 417. Li mariti 418. Er Logotenente 419. Li du’ ladri 420. Er Papa 421. Monzignor Tesoriere 422. La Nunziata 423. L’Anno-santo 424. Er fumà 425. Li frati d’un paese 426. Un indovinarello 427. Er decoro 428. Er bon tajjo 429. Una spiegazzione 431. Valli a ccapí 432. Un bon’avviso 433. E sse magna! 434. Er codisce novo 435. Un bon’impegno 436. Cuer che ssa nnavigà sta ssempre a ggalla 437. L’anima bbona 438. Antri tempi, antre cure, antri penzieri 439. Er galantomo 440. Fijji bboni a mmadre tareffe 441. Er Curato linguacciuto 442. Le cose perdute 443. Li parafurmini 444. La santissima Ternità 445. Lo stizzato 446. Er legno a vvittura 447. La vecchiarella ammalata 448. Er ciscerone a spasso 449. La poverella 450. La poverella 451. La loggia 452. Er ventricolo 453. Li spiriti 454. Li spiriti 455. Li spiriti 456. Li spiriti 457. Li spiriti 458. L’indemoniate 459. Le scôle 460. L’Imbo 461. La partita a carte 462. La fijja ammalata 463. Sesto nun formicà 464. Nun mormorà 465. L’ammantate 466. Una Nova nova 467. Li du’ Sbillonesi 468. La sscerta 469. L’incrinnazzione 470. La sposa 471. L’ammalata 472. Libbertà, eguajjanza 473. Le vojje de gravidanza 474. Er diavolo 475. La madre der cacciatore 476. Er vitturino saputo 477. L’esame der Zignore 478. Er Paradiso 479. L’immasciatore 480. L’appiggionante de sù 481. Tant’in core e ttant’in bocca 482. Er fornaro furbo 483. Li preti a ddifenne 484. La puttana e ’r pivetto 485. La vecchia pupa 486. Lo specchio 487. Papa Leone 488. Er Concrave 489. Er Papa novo 490. Li du’ coraggi 491. Er falegname 492. Er zegatore 493. Le spille 494. La milordarìa 495. Er portogallo 496. L’indiani 497. Er temp’antico 498. Li santissimi piedi 499. Er vitturino aruvinato 500. È ’gnisempre un pangrattato 501. Sto Monno e cquell’antro 502. La strada cuperta 503. Du’ servitori 504. Er Zagro Colleggio 505. Li Cardinali novi 506. Nissuno è ccontento 507. Le raggione der Cardinale mio 508. Er pittore de Sant’Agustino 509. Tutt’una manica 510. Er bottegaro 511. L’editti 512. L’ammazzato 513. Li gusti 514. L’uomo bbono bbono bbono 515. La viggija de Natale 516. Er giorno de Natale 517. La bbonifiscenza 518. La povera madre 519. La povera madre 520. La povera madre 521. Er primo descemmre 522. Er sede 523. Le du’ porte 524. Er Canonico novo 525. Un Papa antico 526. Li mozzorecchi 527. Er giudisce 528. Er decretone 529. Er mese de Descemmre 530. La spezziaria 531. La Bbocca-de-la-Verità 532. Er regazzo ggeloso 533. Le donne de cquì 534. Li fratelli de le compaggnie 535. Una lingua nova 536. Er peccato fiacco 537. La penale 538. La momoriosa 539. Li sparagni 540. L’editto de l’ostarie 541. Er custituto 542. Certe condanne... 543. Le mance 544. Er zussidio 545. L’uffisci 546. Er carrettiere de la legnara 547. La quarella d’una regazza 548. La galerra 549. Er fienarolo 550. Li viscinati 551. Li fijji impertinenti 552. La mojje der giucatore 553. Er carzolaro dottore 554. Le vorpe 555. Er rifuggio 556. Un privileggio 557. L’impieghi novi 558. Un’antra usanza 559. Le ggiurisdizzione 560. La madre de le Sante 561. Er padre de li Santi 562. De tutto un po’ 563. Er pane e ’r companatico 564. Er bracco rinciunciolito 1 |
565. La cojjonella 1 566. Le Case 567. L’appiggionante nova 568. Manco una pe le mille 569. Er rosario in famijja 570. Una bbella divozzione 571. La Sibbilla 572. Un pessce raro 573. Er parto de Mamma 574. Er zoffraggio 575. Er Nibbio 576. Un bon partito 577. Le frebbe 578. Er confronto 579. La concubbinazzione 580. L’editto bbello 581. La curiosità 582. Er cimiterio de la Morte 583. Er cimiterio in fiocchi 584. Er mostro de natura 585. Li fiori de Nina 586. Le confidenze de le regazze 587. [Le confidenze de le regazze] 588. [Le confidenze de le regazze] 589. [Le confidenze de le regazze] 590. [Le confidenze de le regazze] 591. [Le confidenze de le regazze] 592. [Le confidenze de le regazze] 593. [Le confidenze de le regazze] 594. Er bon padre spirituale 595. Er confessore 596. La sborgna 597. Li negozzi sicuri 598. Sicu t’era tin principio nunche e ppeggio 599. Santaccia de Piazza Montanara 600. Santaccia de Piazza Montanara 601. L’otto de descemmre 602. Un gastigo de la Madonna 603. Una disgrazzia 604. Er zanatoto ossii er giubbileo 605. Er giubbileo 606. Er giubbileo 607. Un vitturino de Montescitorio 608. Un antro vitturino 609. Er musicarolo 610. L’Omo de Monno 611. Sant’Orzola 612. San Pavolo prim’arimita 613. San Pavolo primo arimita 614. Pijjate e ccapate 615. Le lingue der Monno 616. Er commercio libbero 617. La puttaniscizzia 618. Li Ggiudii de l’Egitto 619. Le indiggnità 620. Terzo, santificà le feste 621. La patta 622. La mmaschera 623. Er motivo de li guai 624. Una casata 625. L’ingeggno dell’Omo 626. Li fratelli Mantelloni 627. La mediscina sicura 628. Er Re de li Serpenti 629. Er zegretario de Piazza Montanara 630. La fiandra 631. Er ventidua descemmre 632. La mamma che la sa 633. Una mano lava l’antra 634. La dispenza der madrimonio 635. Mi’ fijja maritata 636. La fijja sposa 637. La donna liticata 638. Er Zerrajjo novo 639. Un indovinarello 640. Le cose create 641. Le cose pretine 642. La vista 643. Uprite la finestra 644. Le mura de Roma 645. Lo sprego 646. L’Apostolo dritto 647. L’imprecazzione 648. Er ringrazziamento cor botto 649. Er governà 650. Un indovinarello 651. Le Messe 652. La serratura arruzzonita 653. L’onore muta le more 654. Er portone d’un Ziggnore 655. Er romano de Roma 656. L’innustria 657. La maggnona 658. Le carcere 659. La gabbella der vino 660. Er bon capo d’anno 661. Er tiro d’orecchia 662. È ’na Bbabbilonia 663. La bbazza 664. Mamma scrupolosa 665. Er poverello muto 666. L’abbichino de le donne 667. Tutt’ha er zu’ tempo 668. Cazzo pieno e ssaccoccia vota 669. Er pupazzaro e ’r giudisce 670. Er pupazzaro e ’r giudio 671. Le laggnanze 672. Li punti d’oro 673. Panza piena nun crede ar diggiuno 674. L’avaro ingroppato 676. Er presepio de li frati 677. Er bambino de li frati 678. Er penitente 679. Date Scèsere a Ccèsere e Ddio a Ddio 680. Tutte a ttempi nostri 681. Pare una favola! 682. Li richiami 683. Lo stato de lo Stato 684. La verità è una 685. Lo specchio der Governo 686. Le tre ccorone der Papa 687. Le carte in regola 688. Li scortichini 689. Er quinto commannamento de Ddio 690. La cresscita der zale e ddelle lettre 691. Er zale e ll’antre cose 692. La porteria der Convento 693. Li sbasciucchi 694. Le funzione eccresiastiche 695. Caccia er cappello a ttutti 696. Le ggiubbilazzione 697. Le caluggne 698. L’appiggionanti amorosi 699. La viaggiatora tramontana 700. Lo sfasscio 701. Una sciarabbottana 702. Le mmaschere eccresiastiche 703. Er zoprano 704. Cose da sant’uffizzio 705. Er Cardinale bbona momoria 706. La messa der Papa 707. L’entrate cressciute 708. La scopa nova 709. Er callarone 710. La mediscina sbajjata 711. Er tisico 712. La santa Messa 713. Er discissette ggennaro 714. La cannonizzazione 715. Li Morti arisusscitati 716. Er duello de Dàvide 717. Er marito contento 718. Er poveta ariscallato 719. Santa Marta che ffa llume a Ssan Pietro 720. Li bballi novi 721. Er cassiere 722. Er fuso 723. Le curze d’una vorta 724. Er ciurlo 725. Er Zanto re Ddàvide 726. Li preti maschi 727. Er riccone 728. La riliggione vera 729. Meditazzione 730. La vittura auffa 731. La testa de ferro 732. Lei ar teatro 733. Er Carnovale smascherato 734. La pelle de li cojjoni 735. Er ventre de vacca 736. Le gabbelle nove 737. Er carzolaro ar caffè 738. Er carzolaro ar caffè 739. Er carzolaro ar caffè 740. Er carzolaro ar caffè 741. Lui! 742. Li padroni de Cencio 743. La madre der borzaroletto 744. Nun mormorà 745. L’ammalorcicato 746. Er lupo-manaro 747. Lo sposo protennente 748. La mojje martrattata 749. Le Lègge 750. Li mortorj 751. Er prete 752. La serva e l’abbate 753. Dommine-covàti 754. Santa Rosa 755. La Bbeata Chiara 756. San Zirvestro 757. Er zagrifizzio d’Abbramo 758. Er zagrifizzio d’Abbramo 759. Er zagrifizzio d’Abbramo 760. Le feste cresiastiche 761. La Mess’in musica 762. L’immassciata de l’ammalato 763. La vergna l’ha cchi la vò 764. Santa Pupa 765. La Vesta 766. Er quieto-vive 767. Er creditore strapazzato 768. Er creditore strapazzato 769. Er Monno 770. Er Papato 771. L’Ombrellini 772. La porpora 773. Chi ha ffatto ha ffatto 774. Le scénnere 775. Er cazzetto de ggiudizzio 776. Fratèr caro 777. Fratèr caro 778. Er Zenator de Roma 779. La Commedia de musica 780. Er coruccio 781. La vita dell’Omo 782. La luna 783. Li discorzi 784. Er dente der Papa 785. Er madrimonio de la mi’ nipote 786. Ciancarella 787. De la chiavetta 788. Er predicatore 789. Le redità 790. L’arrede der Prelato 791. Er piede acciaccato 792. Er vecchio 793. Li teatri de mó 794. Li posti 795. Li posti 796. Er ricurzo ar presidente 797. Le figurante 798. La ssedia de Tordinone 799. La Stramutazzione 800. La prima canterina 801. L’affare der fritto 802. Er Vescovo de grinza 803. L’orazzione a la Minerba 804. San Cristofeno 805. San Cristofeno 806. Lo Spaggnolo 807. Un’erliquiona 808. La crosce 809. La mostra de l’erliquie 810. Una scirimonia 811. Er zanto pastorale 812. L’occhiaticcio 813. Er rigalo 814. La scrupolosa 815. Er caffettiere fisolofo 816. Li Morti de Roma 817. Er focone 818. Er foconcino 819. La Ggiustizzia 820. Er Conzento 821. Tutte a mmé! 822. Una bbella mancia 823. La bbellona de Trestevere 824. Er calzolaro 825. Er Medico de Roma 826. Er granturco 827. La Messa der Venardí Ssanto 828. Er festino de ggiuveddí ggrasso 829. La risurrezzion de la carne 830. L’arte 831. Le catacomme 832. Le catacomme 833. E poi? 834. Le dimanne indiggestive 835. Un tant’a ttesta 836. Li colori 837. L’inferno 838. Er giuvveddí santo 839. Er letteroso 840. Er lavore 841. Er marito polagroso 842. Er giucator de pallone 843. Li dritti de li Curati dritti 844. La sincerezza 845. Nono, nun disiderà la donna d’antri 846. Gobbriella 847. Er pesscivennolo 848. Piazza Navona 849. La staggionaccia 850. Er tempo bbono 851. Er dua de frebbaro 852. La Madonna tanta miracolosa 853. Er voto 854. Er Re novo 855. Er Papa cappellaro 856. Er call’e ’r freddo 857. La strega 858. Er parlà bbuffo 859. Li coggnomi 860. Li fijji 861. Er diluvio univerzale 862. L’arca de Novè 863. La visita der Governo 864. Lo scànnolo 865. Li fichi dorci 866. Er tempo bbono 867. Er tempo cattivo 868. L’inverno 869. Er callo 870. L’istate 871. L’ammalato 872. La lita dell’orto 873. Che or’è? 874. La carrozza d’un Cardinale 875. La rinunzia de su’ Eminenza 876. Piú ppe la Marca annamo piú mmarchisciàn trovamo 877. Er Carnovale der trentatré 878. Er Venardì Ssanto 879. Er ciarlatano novo 880. Er zervitore quarelato 881. La schizziggnosa 882. La Caccia de la Reggina 883. Er marito de la mojje 884. Er brav’omo 885. Er dispetto 886. L’allèvo 887. Er canto provìbbito 888. La Verità 889. L’ommini 890. Li Spedali de Roma 891. Er verde 892. Li miseroschi 893. Ar pittore 894. Li siggnificati 895. Li santi protettori 896. La Santa Crosce 897. San Pietr’in carcere 898. Eppoi te sposo 899. Li fratelli de la sorella 900. Er madrimonio disgrazziato 901. Chi ssì e cchi nnò 902. La comprimentosa 903. L’Angeli ribbelli 904. L’istesso 905. Gnente de novo 906. Er Monno muratore 907. La regazza de Peppe 908. Er re de li dolori 909. L’istoria romana 910. L’Uffizzio der bollo 911. Li sette peccati mortali 912. L’avocato de le cause sperze 913. Le ricchezze priscipitose 914. La madre poverella 915. La regazza acciuffata 916. Da la matina se conossce er bon giorno 917. Er letto 918. Er Presidente de petto 919. Er tordo de Montescitorio 920. Li rossi d’ova 921. Da Erode a Ppilato 922. Le bbussole 923. La padrona bisbetica 924. Er zalame de la prudenza 925. Li scardíni 926. Li peggni 927. La scena de marteddí ggrasso 928. La bbazzica 929. L’aritròpica 930. La puttana abbrusciata 931. La quaresima 932. Giuveddí ssanto 933. Er giro de le pizzicarie 934. La bbonidizzione de le case 935. L’asina de Bbalaàmme 936. La curiosità 937. Lo stato d’innoscenza 938. Lo stato d’innoscenza 939. Lo stato d’innoscenza 940. Er battifòco 941. Oggni asceto fu vvino 942. Li Papati 943. Lassateli cantà 944. S.P.Q.R. 945. L’omaccio de l’ebbrei 946. Un felonimo 947. Er bon esempio 948. L’indurgenza papale 949. La statua cuperta 950. L’anima 951. La perla de le donne 952. L’appuntamento 953. L’addio 954. La strillata de mamma 955. L’arisposta tal’e cquale 956. Er poscritto 957. La pisida 958. Er bellìcolo 959. Li prim’àbbiti 961. La notte dell’Asscenzione 962. Er povèta a l’improviso 963. Le donne bbone, e le bbone donne 964. L’istoria de Pepèa 965. La bbuscìa ha la gamma corta 966. La Siggnora Pittora 967. Un cuadro bbuffo 968. La bbellezza 969. La zitellona levitata 971. La diliggenza nova 972. Er peccato origginale 973. La prima cummuggnone 974. Er viaggio de l’Apostoli 975. Una difficortà indiffiscile 976. Un conto arto-arto 977. Er giudizzio in particolare 978. Er madrimonio sconcruso 979. La donna gravida 980. Le quattro tempora 981. Er Monno 982. Ciamancherebbe quest’antra 983. Er patto-stucco 984. L’abborto 985. Er cane 986. L’udienza de Monziggnore 987. Er Curato de ggiustizzia 988. Settimo, seppellì li morti 989. Settimo, nun rubbà 990. Lo scortico 991. Er vedovo 992. La porta dereto 993. Lo scalìn de Rúspoli 994. Er galoppino 995. La fruttaroletta 996. Le du’ mosche 997. Ggnente senza un perché 998. Er passaporto 999. La serenata províbbita 1000. L’aricompenza 1001. Li polli de li vitturali 1002. Er pover’omo 1003. Er zervitore liscenziato 1004. Antro è pparlà dde morte, antro è
mmorì 1005. La monizzione 1006. Er marito vedovo 1007. Er teolico 1008. Li soffraggi 1009. Er bene pe li Morti 1010. Er corpo aritrovato 1011. Er Medico ggiacubbìno 1012. Er confessore de manica larga 1013. La madre canibbola 1014. La bbellezza 1015. Le stelle 1016. Li Commedianti 1017. Er Curato 1018. Mosconi regazzi 1019. Er Papa de mó 1020. La vita der Papa 1021. Le riformazzione 1022. Li padroni sbisbetichi 1023. La sonnampola 1024. Li fijji de li Siggnori 1025. La Commare der bon-conzijjo 1026. Er povero ladro 1027. Er Cariolante de la Bbonifiscenza 1028. Er prete ammalato 1029. La Terra e er Zole 1031. La promessa der romano 1032. Un’istoria vera 1033. Li Chìrichi 1034. Cose antiche 1035. La vedova der zor Girolimo 1036. Er rimedio der cazzo 1037. Le bbagarine 1038. Er grann’accaduto successo a Pperuggia 1039. La puttana protetta 1040. La zitella 1041. La musica de Libberti 1042. La famijja sur cannejjere 1043. Er Carnovale der 34 1044. L’angonìa der Zenatore 1045. La morte der Zenatore 1046. Er Zenatore novo 1047. Li du’
senatori 1048. Er Monziggnorino de garbo 1049. L’anima bbona 1050. La Cassa der lotto 1051. Quattro tribbunali in dua 1052. L’Ottobbre der 31 1053. La promozzione nova 1054. L’ammalato a la cassetta 1055. Er governo der temporale 1056. La regazza cor muso 1057. Er madrimonio sicuro 1058. Le faccenne der Papa 1059. Li pericoli der Papato 1060. L’arberone 1061. Er proscessato 1062. Er quadraro 1063. Li guai de li paesi 1064. Le Moniche 1065. La Ronza 1066. Li quadrini pubbrichi 1067. La scuffiara francesa 1068. Er 28 Settembre 1069. La partoriente 1070. La funzione der Zabbito-santo 1071. La casa scummunicata 1072. La rosa-d’oro 1073. Er decane der cardinale 1074. Li sciarvelli de li Siggnori 1075. Li miracoli de li quadrini 1076. Una dimanna lescit’e onesta 1077. Li guai 1078. Li du’quadri 1079. Li mariggnani 1080. L’incerti de Palazzo 1081. L’udienze der Papa novo 1082. Er ginocchiatterra 1083. Er Papa Micchelaccio 1084. Le miffe de li Ggiacubbini 1085. Er Padre Suprïore 1086. Li Vescovi viaggiatori 1087. L’età dell’omo 1088. Le variazzion de tempi 1089. Er Monno sottosopra 1090. Un ber ritratto 1091. Le còllere 1092. Compatìmose 1093. La mojje fedele 1094. La priscission
der Corpus-Dommine 1095. San Giuvan-de-ggiuggno 1096. Li Carnacciari 1097. La chiacchierona 1098. La scuperta 1099. La regazza schizziggnosa 1100. La mojje disperata 1101. Er negozziante fallito 1102. Er parlà cchiaro 1103. Er Rugantino 1104. Er torto e la raggione 1105. Er portoncino 1106. Trist’a cchì ccasca 1107. La bbona mojje 1108. L’ajjuto-de-costa 1109. Er marito assoverchiato 1110. Er Cavajjere 1111. Le Cantarine 1112. La prelatura de ggiustizzia 1113. Er Prelato de bbona grazzia 1114. Er Curato e ’r Medico 1115. Li bbeccamorti 1116. Er boja 1117. Li muratori 1118. Er matarazzaro 1119. L’Ombrellari 1120. Er zonetto pe le frittelle 1121. Er mercato de piazza Navona 1122. Li studi 1123. Er carzolaro 1124. Lo stracciarolo 1125. Er zervitor de piazza 1126. La serva der Cerusico 1127. Er fico fresco 1128. Er ver’amore 1129. Li rimedi simpatichi 1130. Li rimedi simpatichi 1131. Li rimedi simpatichi 1132. Li rimedi simpatichi 1133. L’invetrïata de carta 1134. Er Re e la Reggina 1135. Er re Ffiordinanno 1136. Rom’antich’e
mmoderna 1137. Er Tesoriere bbon’anima 1138. Er nome de li Cardinali 1139. Le parte der Monno 1140. Er fornaro 1141. La fanga de Roma 1142. Li Croscifissi der venardí-ssanto 1143. Er copre-e-scopre |
Lustrissimi co’ questo mormoriale
v’addimando benigna perdonanza
se gni fiasco de vino igni pietanza
non fussi stata robba pella quale.
Sibbè che pe’ nun essece abbonnanza
come ce n’è piú mejjo er carnovale,
o de pajja o de fieno, o bene o male
tanto c’è stato da rempí la panza.
Ma già ve sento a dí: fior d’ogni pianta,
pe la salita annamo e pe la scenta,
famo li sordi, e ’r berzitello canta.
Mo sentiteme
a me: fiore de menta,
de pacienza co’ voi ce ne vò tanta,
e buggiarà pe’ bbio chi ve contenta.
Sentissi,
Pippo, er zor abbate Urtica 1
co cquell’antro freghino de Marchiònne 2
uno p’er crudo e ll’antro pe le donne
appoggiajje ar zonetto la reprìca?
Ma cchi a ste
crape je po ffà la fica,
j’averà dditto, cazzo: «Crielleisònne!
se la vadino a magna bbell’e mmonne,
che nnoi peddìo nun ciabbozzamo mica».
Valla a
ccapí: si ffai robba da jjanna,
subbito a sto paese je paremo
quer che je parze a li giudii la manna;
ma si ppoi
ggnente ggnente sce volemo
particce come la raggion commanna,
fascemo buscia, Pippo mio, fascemo.
Questo e il seguente sonetto furono da me
spediti a Milano al sig. Giacomo Moraglia mio amico il 29 dicembre 1827, onde
da lui si leggessero per ischerzo nelle nozze del comune amico signor G. Longhi
con la signora Teresa Turpini, cognata del Moraglia.
Coll’occasione,
sora Teta mia,
d’arillegramme che ve fate sposa,
drento a un’orecchia v’ho da dí una cosa
pe’ rregalo de pasqua bbefania.
Nun ve fate
pijjà la malatia
come sarebbe a dí d’esse gelosa,
pe’ nun fà come Checca la tignosa
che li pormoni s’è sputata via.
Ma si
piuttosto ar vostro Longarello
volete fà passà quarche morbino
e vedello accuccià come un agnello;
dateje una
zeccata e un zuccherino;
e dorce dorce, e ber bello ber bello,
lo farete ballà sopra un cudrino.
Le donne,
cocco mio, sò certi ordegni,
certi negozi, certi giucarelli
che si sai maneggialli e sai tienelli,
tanto te cacci da li brutti impegni:
ma si poi,
nerbi-grazia, nun t’ingegni,
de levàttele un po’ da li zzarelli,
cerca la strada de li pazzarelli
va’ a fiume, o scegni drento un pozzo scegni.
Sí, pijja
mojje, levete er crapiccio
ma te n’accorgerai pe ddio sagranne
quanno che sarà cotto er pajjariccio.
Armanco nun
la fà tamanto granne;
e si nun vòi aridurte omo a posticcio,
tiè pe’ tte li carzoni e le mutanne.
Lo storto,
1 che vva immezzo a la caterba
de quelle bbone lane de fratelli,
che de ggiorno se gratta li zzarelli,
eppoi la sera el culiseo se snerba,
m’ha dditto
mo vviscino all’Orfanelli
quarmente in ner passà ppe la Minerba,
ha vvisto li scalini pieni d’erba,
de ggente, de sordati e ggiucarelli;
co
l’occasione c’oggi quattro agosto
è la festa d’er zanto bbianco e nnero,
che ffa li libbri, e cchi li legge, arrosto.
Ho ffatto
allora: Oh ddio sagranne, è vvero!
Làsseme annà da Menicuccio er tosto,
a bbeve un goccio de quello sincero.
La quale, nun
saprebbe, in concrusione
stavo a aspettà con du’ lenterne d’occhi:
dico er zonetto co ttutti li fiocchi
c’avevio da mannamme a ppecorone.
Oh vvarda si
nnun è da can barbone!
Tu me spenni pe ggurde e ppe mmajocchi,
e cquanno hai da fà ttu... ma ssi mme tocchi
un’antra vorta a mē..., dimme cojjone!
Li
disciassette duncue, sor grostino,
nun lo sapete ppiú che ffesta edè?
Pozzi morí, nun è San Giuacchino?
Ar fin de fine che mme preme a mme?
Dico
pe ddí che ddrento a cquer boccino
o nun c’è un cazzo, o c’è un ciarvello che...
Ah Menicuccio
mia, propio quer giorno,
la viggijja de pasqua bbefania,
quella caroggna guercia de Luscia,
lo crederessi?, me mettette un corno.
Porca
fottuta! e me vieniva intorno
a ffà la gatta morta all’osteria
pe rrempí er gozzo a la bbarbaccia mia,
’ggni sempre come la paggnotta ar forno. 1
E intratanto
co mmastro Zozzovijja
me lavorava quele du’ magaggne
d’aruvinà un fijjaccio de famijja.
Ecco, pe
ccristo, come sò ste caggne:
amore? ’n accidente che jje pijja:
tutte tajjòle 2 pe ppoi fatte piagne. 3
Te lo saressi
creso, eh Gurgumella,
ch’er zor paìno, er zor dorce-me-frega,
che mmanco ha ffiato per annà a bbottega,
potessi slargà er buscio a ’na zitella?
Tu nu lo sai
ch’edè sta marachella; 1
tutta farina 2 de quell’antra strega.
Mo che nun trova lei chi jje la sega,
fa la ruffiana de la su’ sorella.
Io sarebbe
omo, corpo de l’abbrei,
senza mettécce né ssale né ojjo, 3
de dàjjene 4 tre vorte trentasei:
ma nun vojo
piú affríggeme 5 nun vojjo;
che de donne pe ddio come che llei
’ggni monnezzaro me ne dà un pricojjo. 6
Moàh
Menicuccio, 1 quanno vedi coso...
Nino er pittore a la Madon de Monti, 2
dijje che caso mai passa li ponti...
E damme retta; quanto sei feccioso!
Dijje...
Ahà! Menicuccio, me la sconti:
ma perché me ce fai lo stommicoso?
M’avanzi quarche cazzo sbrodoloso?
Bravo! ariōca: come semo tonti!
Cosa te vo’
giucà, pe ddio de legno,
che si te trovo indove sò de guardia,
te do l’arma in der culo e te lo sfregno?
Dijje pe
vvíede che sto ppropio a ardia,
che voría venne un quadro de disegno
che c’è la morte de Maria Stuardia. 3
Piano, sor è, come sarebbe a dine
sta chiacchierata d’er Castèr dell’Ova?
Sarebbe gniente mai pe ffà ’na prova
s’avemo vojja de crompà galline?
Sí! è
propio tempo mo, cuesto che cquine,
d’annasse a ciafrujjà marcanzia nova!
Manco a buttà la vecchia nun se trova!
Ma chi commanna n’ha da vede er fine.
Duncue, sor
coso, fateve capace
che a Roma pe sto giro nun è loco
da fà boni negozzi; e annate in pace.
E si in quer
libbro che v’ha scritto er Coco
lui ce pò ddí cquer che je pare e ppiace,
io dico a voi che ciaccennete er foco.
Che ffior de
Papa creeno! Accidenti!
Co rrispetto de lui pare er Cacamme. 1
Bbella galanteria da tate e mmamme
pe ffà bbobo a li fijji impertinenti!
Ha un erpeto
pe ttutto, nun tiè ddenti,
è gguercio, je strascineno le gamme,
spènnola 2 da una parte, e bbuggiaramme 3
si 4 arriva a ffà la pacchia
Guarda llí
cche ffigura da vienicce 6
a ffà da Crist’in terra! Cazzo matto
imbottito de carne de sarcicce! 7
Disse bbene
la serva de l’Orefisce
quanno lo vedde
un gran brutto strucchione 10 de Pontefisce».
Me so ffatto,
compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona, 1
co ’na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche, 2 pe ddio, che cce se sguazza.
Si la vedessi
cuanno bballa in piazza,
cuanno canta in farzetto, e cquanno sona,
diressi: «Ma de che? mmanco Didona,
che squajjava le perle in de la tazza».
Si ttu cce
vôi viení dda bbon fratello
te sce porto cor fedigo 3 e ’r pormone;
ma abbadamo a l’affare de l’uscello.
Perché si
ccaso 4 sce vôi fà er bruttone, 5
do dde guanto
e tte manno a Ppalazzo pe cappone. 8
Titta,
lasseme annà: che!, nun te bbasta
de scolà er nerbo 1 cincue vorte e mezza?
Vò’ un bascio? tiello: 2 vôi n’antra carezza?...
Ahà! da capo cor tastamme! oh ttasta.
Ma tte stai
fermo? Mica sò dde pasta,
ché mme smaneggi: mica sò mmonnezza. 3
Me farai diventà ’na pera-mezza! 4
Eppuro te n’ho data una catasta! 5
E per un
giulio tutto sto strapazzo?
Ma si mme vedi ppiú pe ppiazza Sora 6...
Oh vvia, famme cropí, cc’ho ffreddo, cazzo!
Manco male!
Oh mmó ppaga. Uh, ancora tremo!
Addio: lasseme annà a le cuarantora, 7
e öggi, 8 si Ddio vò, 9 cciarivedemo.
Sor cazzaccio
cor botto, ariverito,
ve pozzino ammazzà li vormijjoni,
perché annate scoccianno li cojjoni
a cchi ve spassa er zonno e ll’appitito?
Quanno avevio
in quer cencio de vestito
diesci asole a rruzzà cco ttre bbottoni,
ve strofinavio a ttutti li portoni:
e mmó, bbuttate ggiú ll’arco de Tito!
Ma er popolo
romano nun ze bbolla,
e quanno semo a ddí, ssor panzanella,
se ne frega de voi co la scipolla.
E a Rroma,
sor gruggnaccio de guainella,
ve n’appiccicheranno senza colla
sette sacchi, du’ scorzi e ’na ssciuscella. 2
Ma vvoi chi
ssete co sto fume in testa
che mettete catana 1 ar monno sano?
Sete er Re de Sterlicche er gran Zordano,
l’asso de coppe, er capitan Tempesta?...
Chi sete voi
che ffate tanta pesta 2
co’ cquer zeppaccio de pennaccia in mano?
Chi ssete? er maniscarco, er ciarlatano...
se po ssapello, bbuggiaravve a ffesta?
Vedennove
specchiavve a ll’urinale,
le ggente bbone, pe’ nun fà bbaruffa,
ve chiameno er dottore, tal’e cquale:
ma mmó vve lo
dich’io, sor cosa-bbuffa,
chi ssete voi (nun ve l’avete a male):
trescento libbre de carnaccia auffa.
Le nespole
1 c’hai conte a cchillo sciuccio
(pe ddillo
me le sò ppasteggiate, 3 Menicuccio,
sino a cche m’hanno arifiatato er core.
Vadi a rricurre
mo da Don Farcuccio 4
pe rrippezzà li stracci ar giustacore: 5
ché a Roma antro che un cavolo cappuccio
pò ppagà ppiù le miffe
Ma er zor
Ammroscio ha ffatto un ber guadaggno
trovanno a ffasse
carzoni e ccamisciola de frustaggno: 8
ché in ner
libbro de stampa che mm’hai dato,
be’ cce discessi 9 all’urtimo: Lo Maggno; 10
e, dde parola, te lo sei maggnato.
«Quanno te lo
dich’io cachete er core» 1
me diceva ier l’antro un bon romito;
«in sto monnaccio iniquo e ppeccatore,
nun ze trova piú un parmo de pulito.
Co’ ttre
sguartrine 2 io fascevo l’amore
e je servivo a ttutte de marito;
e ppe un oste, uno sbirro e un decrotore 3
ste porche tutt’e ttre mm’hanno tradito.
Ma io pe ffa
vvedé cche mme ne caco,
tutte le sere vado all’osteria,
e ffo le passatelle, e mm’imbriaco.
E ssi la
tentazzione m’aripía, 4
me lo cuscio pe ddio cor filo e ll’aco
quant’è vvero la Vergine Mmaria».
T’aricordi,
compare, che indov’abbito
viení un giorno pe’ sbajjo la bbarella?
Bbe’, all’astrazzione che ss’è ffatta sabbito,
ciò vvinto un ambo a mmezzo co Ttrippella.
E oggi
pijjamo a nnolito un bell’abbito,
lui da pajjaccio e io da purcinella,
perché la serva de padron Agabbito
sta allancata de fà ’na sciampanella.
Tu, ccaso che
tt’ammascheri da conte,
viecce a ttrovacce all’osteria der Moro,
in faccia a gghetto pe’ sboccà sur ponte.
E ssi mmai
Titta pô llassà er lavoro,
portelo co lo sguizzero der Monte,
ché Ggiartruda ne tiè ppuro pe’ lloro.
Che sserve
che nun piovi, e cche la neve 1
nun vienghi a infarinà ppiù le campaggne?
Tanto ’ggnisempre a casa mia se piaggne,
tanto se sta a stecchetta e nun ze bbeve.
Er zor paino,
er zor abbate, er greve, 2
in sti giorni che cqui sfodera 3 e sfraggne: 4
antro peddío che a ste saccocce caggne
nun ce n’è né dda dà nné da risceve!
Ma ssi arrivo
a llevà lo stelocanna, 5
Madonna! le pellicce 6 hanno da êsse
da misurasse co la mezza canna!
Allora vedi
da ste gente fesse, 7
co ttutta la su bboria che li scanna,
le scappellate pe vviení in calesse!
Ma cche
ffajòla, Cristo, è diventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche che state a ffà, ffurmini, troni, 1
che nun scennete a fanne una panzata?
S’ha da vede,
per dio, la buggiarata
ch’er Cristiano
manco si cquelli poveri cojjoni
nun fussino de carne bbattezzata!
Stassi a sto
fusto
voría bbe’ 4 mmaneggià li giucarelli
d’arimette er ciarvello in de le teste.
E
cchiamerebbe Bbonziggnor Maggnelli, 5
pe’ ddijje du’ parole leste leste:
sor è, 6 ffamo
campà li poverelli.
Nun te
pijjà ggatti a ppelà, Ggiuanni;
chi impiccia la matassa se la sbrojji:
stattene a ccasa co li tu malanni,
ché er monno tanto va, vvojji o nun vojji.
Io nun
vorrìa sta un cazzo in de li panni
de sti sfrabbica Rome e Ccampidojji
ché er mettese
è un mare-maggna 3 tutto pien de scojji.
Sai quanto
è mmejjo maggnà ppane e sputo,
che spone
pe ffà strozzate 6 de baron fottuto?
Tù
lassa annà a l’ingiú ll’acqua in ner pozzo;
e hai da dí che Iddio t’ha bbenvorzuto
com’e cquarmente 7 t’arimedia er tozzo.
Quer zor
chicchera llí ccor piommacciolo
va strommettanno pe’ ccampo de fiore
che ll’asole che ttiengo ar giustacore
Titta er sartore nun l’ha uperte a solo.
Je pijja ’na
saetta a ffaraiolo,
je vienghino tre cancheri in ner core!
L’averà fatte lui cor su’ rasore,
facciaccia de ciovetta in sur mazzolo!
...’ggia san
Mucchione! ancora nun è nato
chi me pozzi fa a mene er muso brutto
senza risico d’essece ammazzato.
Ma tanto ha
da finí che sto frabbutto,
sto fíaccio de cane arinegato
s’ha da cavà la sete cor presciutto.
Di’ un po’,
ccompare, hai ggnente in condizione 1
la cuggnata de Titta er chiodarolo?
Be’, ssenti glieri si 2 ccorcò
lo sguattero dell’oste der farcone.
Doppo
fattasce auffagna 5 colazione
j’annò cor deto a stuzzicà er pirolo:
figurete quer povero fijjolo
si cce se bbuttò addosso a ppecorone.
Ma mmalappena
arzato sù er zipario,
ecchete che per dio da un cammerino
viè ffora er bariscello der Vicario.
Mó ha da
sposalla; e ppoi pe ccontentino
s’averà da godé ll’affittuario
che jj’ha fatto crompà ll’ovo e ’r purcino. 6
Ma che teste
de cazzo bbuggiarone!
Ve strofinate a iddio che facci piove;
e perché san Ciriàco 1 nun ze move,
je scocciate le palle in priscissione:
e ve lagnate
poi si una ’lluvione
de du fiumi che stanno in dio sa dove
vienghi a rubbavve sto corno de bbove
bell’e granne com’è, ttosto e ccojjone!
Ma nun
è mmejjo d’avé ppiú cquadrini
e ppiú ggrano e ppiú vvino a la campagna,
che mmagnà nnote pe’ cacà stuppini?
E er sor
Davìd che imberta e cce se lagna,
quanno sarà dde llà dda li confini,
l’averà da trovà ’n’antra cuccagna!
Quante
sfrisielle a ttajjo e scappellotti!
Quante chicchere a coppia e sventoloni! 1
Quant’acciacco de chiappe e de cojjoni!
Quant’infirze de schiaffi e de cazzotti!
Poveri
Turchi, come sò aridotti
co cquell’arifilate de gropponi!
Beato chi ppô avé ttra li carzoni
un fiasco d’ojjo e un bon caval che ttrotti!
Nun
c’è da dí, ppe ssant’Antonio abbate:
li Francesi sò ggente che, Mmadonna!,
sò bboni pe l’inverno e ppe l’istate.
E mmo
mmetteno in cima a ’na colonna 2
er Deo 3 d’Argèri, che vva a ffasse 4 frate,
o vviè a vvenne le pizze a la Ritonna.
Bravo
Carluccio! je l’hai fatta ggiusta
pe bbatte er culo 1 e addiventà ccerasa. 2
Tosto mó! aspetta la bburiana
cor general Marmotta de Ragusta. 3a
Ahà!
cch’edè, Ccarluccio? nun te gusta
de portà a Ggiggio 3b la chirica rasa? 4
Drento a le bbraghe te ne fai ’na spasa? 5
Spada, caroggna! e nnò speroni e ffrusta.
Cor dà
de bbarba all’emme, ar zeta e all’Acca, 6
hai trovo 7 er busse, e sti quattro inferlicchese 8
che tt’hanno aruvinato la bbaracca. 9
Chi ar Monno
troppo vô, nnun pijja nicchese; 10
e ttu ppe llavorà a la pulignacca, 11
hai perzo er trono, e tt’è rrimasto? un icchese. 12
Mojje mia
cara, a sto paese cane
nun ze trova nemmanco a fà a sassate; 2
e cquanno hai crompo 3 un moécco 4 de patate,
fai passo ar vino e cquer ch’è peggio ar pane.
Io pisto er
pepe, sòno le campane,
rubbo li gatti, tajjo l’oggna
metto l’editti pe le cantonate,
cojjo 6 li stracci e agliuto le ruffiane.
Embè
lo sai ch’edè cche cciariscévo? 7
Ammalapena pe ppagacce 8 er letto:
anzi, a le du’ a le tré, 9 spallo 10 e cciarlèvo.
11
Duncue che
tt’ho da dà, ppòzzi èsse santa?
Senza cudrini 12 ggnisun chirichetto
disce Dograzzia e ggnisun ceco canta.
Ne
l’annà glieri a venne ar pellegrino
li fibbioni d’argento de Maria,
vedde er porton de la Cancellaria
zeppo de gente come un butteghino.
Vorzi
entrà drento; e, de posta, ar cudino
riconobbe er regazzo de mi fìa,
po’ er cappanera e tutta la famía
de Bonsignor der Corso 3 fiorentino.
Che belle
ariverèe co li galloni!
Quante carrozze, corpo de la pece!
Che ccavalli pe ddio! tutti froscioni!
C’era un
decane a sede s’una sedia.
Je fece: «Che cciavemo?». E lui me fece:
«Sor Peppe, annate su: c’è la commedia».
Chi ne sapeva
un cazzo, sor Tomasso,
che parlavio todesco in sta maggnera?
E me vorría peddio venne in galera,
si su cquer coso nun parevio l’asso.
Li Marignani
che staveno abbasso
cor naso pe l’inzú, fanno moschiera;
perché propio dicessivo jerzéra
certe sfilate che nemmanco er Tasso.
E come er
predicà nun fussi gniente
ce partite cor Santo 1 e cor sonetto, 2
da fà viení a l’invidia un accidente.
Quello
però che ve vò fà canizza,
è la gola de quarche abbatinetto
c’averà da restà senza la pizza. 3
S’er mi fio
ciuco me porta lo stocco,
Titta, ciabbuschi quant’evvero er papa.
No, un cazzo, un accidente, sora crapa.
Alò, famo moschiera, o v’aribbocco.
Bè,
sentímece l’oste: «Ah padron Rocco,
fate capace sta coccia de rapa.
Dite, è vvero che l’asso nun se capa?»
Ahàa! lo senti? oh caccia mo er bajocco.
Aù!
nun pòzzo abbozzà più nun pòzzo.
Sentime, Titta, si tu no lo cacci,
va che mommó te lo fo uscí dar gozzo?
Ah fugghi,
guitto? fugghi? accidentacci!
Sciòo, va’ in ghetto a impegnatte er gargarozzo
pe ddí stracci ferracci chiò scherpacci.
M’è
pparzo all’arba de vedé in inzògno,
cor boccino in ner collo appiccicato, 1
quello che glieri a pponte 2 hanno acconciato
co ’no spicchio d’ajjetto in zur cotogno. 3
Me disceva:
«Tiè, Ppeppe, si 4 hai bbisogno»;
(e ttratanto quer bravo ggiustizziato
me bbuttava du’ nocchie in zur costato):
«sò ppoche, Peppe mio, me ne vergogno».
Io dunque
ciò ppijjato oggi addrittura
trentanove impiccato o cquajjottina,
dua der conto, e nnovanta la pavura. 5
E cco la cosa
6 che nnemmanco un zero
ce sta ppe nnocchie in gnisuna descina,
ho arimediato cor pijjà Nnocchiero.
Non tutto ciò che qui si dice è
vero, né la gran parte di vero si annette tutta alla reale superstizione del
lotto; ma si è voluto da me raccogliere quasi in un codice il vero
insieme e il verisimile in relazione di quel che so e in compenso di quanto non
so (ch’è pur molto) intorno alle matte e stravolte idee che ingombrano
le fantasie superstiziose della nostra plebaglia.
Si vvo’ un
terno sicuro, Titta mia,
senti com’hai da fane: a mezza notte
méttete immezzo ar cerchio de ’na botte
co ttre requiameterne ar Nocchilia.
Pe strada
attacca cento avemmaria,
chiamanno a ignuna la mojje de Lotte;
e pe ccaccià Berlicche co Starotte,
di’ er Verbuncàro e er Nosconproleppia.
Doppo ditto
tre vorte crielleisonne
e pe ttre antre groria in cersideo,
di’ Bardassarre, Gaspero e Marchionne.
E si vicino a
te passa un abbreo,
fa’ lo scongiuro a la barba d’Aronne,
pe ffà crepà quer maledetto aeo.
Un agnusdeo
méttece appresso e sette groliapadri
p’er bon ladrone e l’antri boni ladri.
Trovanno
quadri
co la lampena accesa a la Madonna,
di’ un deprofunni all’anima de Nonna.
Si quarche
donna
te toccassi la farda der landao,
fajje er fichetto, e dijje: Maramao.
Si senti
Gnao,
è bonugurio, Titta; ma si senti
strillà Caino, risponni: accidenti.
Porta du’
denti
legati cor un fir de seta cruda,
zuppa de bava de lumaca ignuda.
Rinega Giuda
igni quinici passi; e ar deto grosso
de manimanca tiè attaccato un osso
de gatto
rosso.
Coll’antra un cerchio d’argento de bollo
tiecce e una spina de merluzzo ammollo.
Méttete in
collo
la camisciola c’ha portato un morto
co cquattro fronne de cicoria d’orto.
E si
’n’abborto
pòi avé de lucertola d’un giorno,
tiello in zaccoccia cotto prima ar forno.
Buschete un
corno
de bufolino macellato in ghetto
c’abbi preso er crepuscolo sur tetto.
Cor un
coccetto
de pila rotta in culo a ’na roffiana
raschielo tutto ar son de la Campana.
Da ’na
mammana
fatte sbruffà la raschiatura in testa
cor pizzo der zinale o de la vesta.
Magna ’na
cresta
de gallo, e abbada che nun sii cappone
si nun te vòi giucà la devozzione.
E in un
cantone
di’ tre vvorte, strappannoce tre penne,
«Nunchetinòva morti nostri ammenne».
Poi hai
d’accenne
tre moccoli, avviati a la parrocchia,
sur un fuso, un vertecchio e ’na conocchia.
Appena
scrocchia
quella cera in dell’arde, alegri Titta:
svortete allora subbito a man dritta.
Già te
l’ho ditta
la devozzione c’hai da dí pe strada
ma abbada a nun sbajjà, Titta, ve’! abbada.
Come ’na
spada
tira de longo insino a santa Galla,
e lí affermete, e tocchete ’na palla.
Si cquella
è calla
tocchete l’antra; e come ’n’addannato
poi curre a San Giuanni Decollato:
e a
’n’impiccato
ditta ’na diasilletta corta corta
buttete a pecorone in su la porta.
La bocca
storta
nun fà si senti quarche risponsorio:
sò l’anime der santo purgatorio.
A San
Grigorio
promette allora de fà dí ’na messa
pell’anima d’un frate e ’na bbadessa.
‘Na
callalessa
è der restante: abbasta de stà attento
a gni rimore che te porta er vento.
O ffora, o
ddrento,
quello che pòi sentí tiello da parte,
eppoi va’ a cerca in der libbro dell’arte.
Viva er Dio
Marte:
crepi l’invidia e er diavolo d’inferno,
e buggiaratte si nun vinchi er terno!
Tiràmese
1a ppiú in là, ché cquì la gujja 1
ciarippara 1b de vede er roffianello 2...
Varda, 2a varda, Grigorio, mi’ fratello
che s’è mmesso a intignà 3 cco la patujja!
Mosca! 4
Er pivetto arza la mano, intrujja 5
mo in de le palle... Lesto, eh bberzitello.
Ecco ecco che lleggheno er cartello:
ch’edè? 5a Ccinquantasei! senti che bbujja! 6
Je la potessi fà, sangue de ddina!
Sor
cazzo, vorticamo 6a er bussolotto.
Ch’edè? Ttrenta! Ce ll’ho ddrento a l’ottina.
Diesci!
ggnente: Sei! ggnente: Discidotto!
ggnente. Peddio! nemmanco stammatina?
Accidentacci a chi ha inventato er lotto.
Roscio |
Aó, ttrattanto che ss’appara 1a er prete |
Giacchetto |
A ppagà. |
Nino |
A ggode. 1b |
Giacchetto |
Come se’ attacchino! 1c |
Nino |
Tirate er fiato a voi. 2 |
Giacchetto |
Che ddichi? Hai sete? 3 |
|
|
Roscio |
Eh zitti, buggiaravve a quanti sete! Su, aló, fammo la conta: pe dda Nino. 4 - |
|
|
Paino |
Er boccio a mé 4 – De cqui. 5 – Senza
giuchetti. |
Nino |
Senza strucchietti, |
Roscio |
E ttiro pe llevà |
Giacchetto |
No ppe strucchià 6… |
Va’ -a-mmete |
Dí, aó, dove te metti? |
|
|
Giacchetto |
San guercino. 7 |
Va’ -a-mmete |
Va’ ar
zegno. |
Giacchetto |
E nnun sta
cqua? |
Va’ -a-mmete |
Accidentacci a tutti li ggiacchetti! Quanto se’ fesso! 7a er zegno eccolo llà. |
|
|
Giacchetto |
Ma
cciài 7b da capità un giorno o ll’antro ggiú ppe borgo-novo… |
Va’ -a-mmete |
Mo sta a mmene. – Accusí mme l’aritrovo. 8 |
|
|
Nino |
Fermete.
8a |
Va’ -a-mmete |
Nun me
movo. |
Nino |
Sò pprimo. |
Roscio |
Sò ssiconno. |
Va’-a-mmete |
Io terzo. |
Giacchetto |
Io cuarto. |
Paino |
Io cuinto. 9 |
Nino |
Eh nnun
fà er mucchio tant’in arto. |
|
|
Paino |
Che,
ttienete l’apparto de queli siti che vve pare a vvoi? |
Nino |
Be’, schiaffelo 9a peccristo indove vòi |
|
|
Giacchetto |
Batte.
10 |
Roscio |
… Dégheta!
vedemmo un po’ ssi 11a cce 11b so cojje
io 12… |
Giacchetto |
Tu nnun hai smosso er mezzo-bboécco mio. 13 |
|
|
Roscio |
Pòzzi 13a morí
ttu’ zio, chi arifiata? 14 E ttu arza: 15 sce vô
tanto? |
Giochetto |
Arma. |
Va’-a-mmete |
Santo. |
Paino |
Io vojjo arma. |
Roscio |
Arma. |
Nino |
E nnoi
santo. 16 |
|
|
Roscio |
Mezzo e cche ssí. 17 |
Paino |
De cuanto? |
Giacchetto |
Arzo, tiengo da Roscio, e ffo dde dua. 18 |
Paino |
Frulla, 19 madetta 19a l’animaccia tua. …Ah
pporcaccio de ua! Cor carcio farzo? 20 Gargantacci 21
neri. |
Va’ -a-mmete |
Tu vo’ fà curre li carubbigneri? 22 |
|
|
Paino |
Vôi
rubbà come gglieri? 23 |
Giacchetto |
Mommó ll’hai da sentí si che cconnessa 24… |
Roscio |
Oé! er chirico 24a sona: annamo 24b a
mmessa. |
Curre,
peccrisse, curre, Gurgumella,
che ggià er Papa ha dda èsse in portantina.
Eh ssi nun spiggni ppiú, Ddio serenella!,
ciarrivamo er crepìnnisci a mmatina.
Monta dereto
a cquarche ccarrettella,
s’hai la guallera gonfia o er mal d’orina
M’hanno acciaccato come ’na frittella
Mancomale: ecco cqua la Strapuntina.
Senti
ch’è usscito ggià dda sagristia
er Santo Padre, e mmommó vva ar loggione?
Oé! vvarda laggiù che parapìa!
Ma
ddirebb’io: si la bbonidizzione
tutte le zelle nostre s’aripìa,
chi più grossi li fa, meno è cojjone.
Un’antra
1 cosa voria mó ssapé,
si 2 er cristiano in cusscenza er venardí
pòzzi 3 maggnà ddu’ stronzi cor culí
senza fà male, e, ssi lo fa, pperché.
Lo so che
vvoi me risponnete a mmé
che la robba che scappa pe dde cqui,
robba de magro nun ze pò mmai dí,
si nun volemo chiamà Ccappa er Cé.
Ma ffateme un
tantin de carità,
come pò addiventà de grasso, pò,
er tarantello, er tonno, er baccalà?
Io, sor
abbate, credería 4 de no:
ma ssi cciavete 5 scrupolo a mmaggnà,
maggnate puro 6 e io poi v’assorverò.
Vôi sentí un
fatto de Tetaccia 1a storta,
la mojje de Ciuffetto er perucchiere?
Ciaggnéde 2 cuer paíno 3 der drughiere, 4
pe comprasse 5 un tantin de beggamorta. 6
La bbirba stiede
7 un po’ ddrento a ’na porta
indove tiè ccerte boccette nere;
poi scappa e disce: «Oh cqueste sí ssò vvere!
Tiè, odora: ah! bbenemio!, t’ariconforta».
Lesta
attappò er buscetto cor turaccio,
e ariscosso un testone 8 de moneta,
mannò
Ma ssai che
cce trovò? ppiscio de Teta;
che ppe ggabbà cquer povero cazzaccio
s’era messa l’odore in ne le deta. 10
Mannataro |
Guarda, Ghitano mia: eh? ddi’, te piasce? |
Ghitano |
Che ggrannezza de Ddio! che ffrabbicona |
Mannataro |
Nun è piú mmejjo de piazza navona? |
Ghitano |
Antro! E ccome se chiama? |
Mannataro |
Er Temp’in
pasce. 1 |
|
|
|
Senti, Ghitano, t’hai da fà ccapasce che, ppe sta robba, cquì nun ze cojjona |
Ghitano |
Nun fuss’antro la carcia 2 |
Mannataro |
Bbuggiarona! E li mattoni? Sai quante fornasce! |
|
|
Ghitano |
E cqua chi cciabbitava, eh sor Grigorio? |
Mannataro |
Eh! ttanta gente: e tutti ricchi, sai? Figurete che gguitto arifettorio! 3 |
|
|
Ghitano |
Che ppalazzone! nun finissce mai! |
Mannataro |
Che? Annava a la salita de Marforio prima ch’er turco nun je dassi guai. |
Le tre
ccolonne llí viscino ar monte,
dove te vojjo fà passà tte vojjo,
furno trescento pe ffà arregge 1a un ponte
dar culiseo ’nsinenta a Ccampidojjo.
A mmanimanca
adesso arza la fronte:
lassú Ttracquinio se perdette er zojjo,
e ppoi Lugrezzia sua p’er gran cordojjo
ce fesce annà la bbarca de Garonte.
Vortanno er
culo a cquele tre ccolonne,
mó annamo all’arco de la vacca e ’r toro; 1
ma ssi ne vedi dua nun te confonne.
In quello
ciuco 2 se trovò er tesoro: 3
l’antro è l’arco de Ggiano quattrofronne, 4
che un russio 5 vô crompallo a ppeso d’oro.
A cquer tempo
che Ttito imperatore,
co ppremissione che jje diede Iddio,
mové la guerra ar popolo ggiudio
pe ggastigallo che ammazzò er Ziggnore;
lui
ridunò la robba de valore,
discenno: «Cazzo, quer ch’è dd’oro, è mmio»:
e li scribba che faveno pio pio, 1
te li fece snerbà ddar correttore. 2
E poi
scrivette a Rroma a un omo dotto,
cusí e ccusí che frabbicassi un arco
co li cudrini der gioco dell’otto.
Si ce
passònno 3 li ggiudii! Sammarco! 4
Ma adesso prima de passacce sotto
se faríano ferrà ddar maniscarco.
Sto
cornacopio su le spalle a cquello
che vviè appresso a cquell’antro che vva avanti,
c’ha ssei bbracci ppiú longhi, e ttutti quanti
tiengheno immezzo un braccio mezzanello;
quello
è er gran Cannelabbro de Sdraello,
che Mmosè ffrabbicò cco ttanti e ttanti
idoli d’oro che ssu ddu’ lionfanti
se portò vvia da Eggitto cor fratello.
Mó nnun
c’è ppiú sto Cannelabbro ar monno.
Per èsse, sc’è; ma nu lo gode un cane,
perché sta ggiù in ner fiume a ffonno a ffonno.
Lo vôi sapé
lo vôi dov’arimane?
Viscino a pponte-rotto; e ssi lo vonno,
se tira sú pper un tozzo de pane. 1
Vedi
llà cquela statua der Moro
c’arivorta la panza a Ssant’aggnesa?
Ebbè, una vorta una Siggnora ingresa
la voleva dar Papa a ppeso d’oro.
Ma er Zanto
Padre e ttutto er conciastoro,
sapenno che cquer marmoro, 1 de spesa,
costava piú zzecchini che nun pesa,
senza nemmanco valutà er lavoro;
je fece
arrepricà ddar Zenatore
come e cquarmente nun voleva venne 2
una funtana de quer gran valore.
E
cquell’ingresa che ppoteva spenne,
dicheno che cce morze de dolore:
lusciattèi requia e scant’in pasce ammenne.
Ar zu’ tempo
mi’ nonno m’aricconta
che nun c’ereno un cazzo bbagarini, 1
se 1a vedeva ggiucà co li quartini 2
a ppiastrella, e a bbuscetta: e mmó sse 2a sconta.
L’ova in
piazza, s’aveveno a la conta
cento a ppavolo e ssenza li purcini:
la carne annava a ssedici cudrini 2b
ar mascello, e ddua meno co la ggionta.
Er vino de
castelli e dder contorno
era caro a un lustrino 3 pe bbucale
e ott’oncia a bboecco 4 la paggnotta ar forno.
E mmó la
carne, er pane, er vino, er zale,
e ll’accidenti, crescheno ’ggni ggiorno.
Ma ll’hai da vede che ffinisce male.
Quann’era
vivo er nonno de la zia
der compare der zoscero 1a de Nina,
cqua da Piazza Navona a Tormellina 1
ciassuccesse 2 un tumurto e un parapîa. 3
Pe ccausa che
un’orrenna carestia
de punt’in bianco 4 un giuveddí a mmatina
mannò
senza nemmanco dì Ggesú e mmaria. 8
T’abbasti a
ddí cch’edè la ribbijjone, 9
che ccor una serciata a cquer pupazzo 10
je fesceno sartà 11 nnetto er detone. 12
Chi
ddà la corpa
ma er fatt’è cche cquell’omo 15 ar funtanone
pare che ddichi 16: A
vvoi; quattro der cazzo! 17
Ma cche tte
ne vôi fà dde sta schifenza
bbastardaccia d’un mulo e dde ’na vacca?
Si ccerchi l’arma 1 de ’na bona stacca, 2
te la trov’io, che ce pôi stà in cuscenza.
Quella ha un
buscio, peddìo, ch’è ’na dispenza,
cqua cce trovi un buscetto che tte stracca:
co cquesta se dà ssotto e sse panacca, 3
coll’antra fai peccato e ppenitenza.
La tua?
Madonna! nun tiè mmanco chiappe,
e cquer pellame mosscio che jje penne, 4
je fa immezzo a le cossce er lippe-lappe. 5
Ma dde culo
la mia sce n’ha dda venne; 6
je scrocchieno 7 le zinne com’e ffrappe; 8
e cquer ch’è ppiú da dí, nnun ce se spenne. 9
Jerzéra
1 er mi’ padrone co cquer callo
vorze 1a annà a l’accademia tibburtina, 1b
pe ssentí a rescità ’na rajjatina
d’un Zomaro che cqui ccanta da Gallo. 2
Avanti a ’na
garafa de cristallo,
tra ddu’ cannéle 2a de ceraccia fina,
se messe 2b quer cazzaccio in cremesina 2c
a inzeggnà a ttiggne er rosso, er nero, er giallo.
Pe ddà
mmejjo a la lana oggni colore
cià un zegreto quer fijjo de puttana,
che lo sa ’ggni regazzo de tintore.
Ma ddicheno
che ll’antra settimana
je l’abbi commannato un Monziggnore, 3
discenno: «Tocca a vvoi, sor bona-lana».
Ecchesce ar
Campidojjo, indove Tito
venné a mmercato tanta ggente abbrea.
Questa se chiama la rupa tarpea
dove Creopatra bbuttò ggiú er marito.
Marcurèlio
sta llà ttutto vestito
senza pavura un cazzo de tropea. 1a
E un giorno, disce er zor abbate Fea, 1b
c’ha da èsse oro infinamente a un dito.
E si ttu
gguardi er culo der cavallo
e la faccia dell’omo, quarche innizzio
già vederai de scappà ffora er giallo.
Quanno
è poi tutta d’oro, addio Donizzio:
se va a ffà fotte puro er piedistallo,
ché amanca poco ar giorno der giudizzio. 1
Sò le
corna d’Aronne! 1 De sti fatti
tu nu ne sai nemmanco mezza messa.
Lo vôi 2 sapé pperché a Lluscia l’ostessa
j’anno arubbato tutt’e ttre li gatti?
Lo vòi
sapé pperch’ha ddu’ fijji matti?
Perché ha pperza 3 cor prete la scommessa?
Perché er curiale pe ’na callalessa 4
j’ha maggnato la dota a ttutti patti?
Lo vôi sapé
pperché jj’è mmorto l’oste?
Perché ll’antra 5 ostaria de zi’ Pasquale
j’è arivata a llevà ttutte le poste?
È
pperché un anno fa dde carnovale
ner conní 6 ll’inzalata e ll’ova toste,
svorticò 7 la luscerna e sverzò 8 er zale.
Povera ggente!
Uhm! ponno chiude 1 casa,
si 2 ssopra scià 3 cantato la sciovetta: 4
se 5 ponno aspettà ppuro 6 una saetta,
come si ffussi 7 un osso de scerasa. 8
Nun lo vedi
quer cane com’annasa?
Che seggn’è? la commare 9 che tt’aspetta.
E nnun zò 10 cciarle: che ggià gglieri
j’ha sparato 13 la frebbe, 14 e jj’è arimasa.
15
Eh ssi a
mmettese 16 addosso a ’na famijja
viè la sciangherangà, 17 bz, 18 bbona
notte:
sce fioccheno 19 li
guai co la mantijja. 20
Mo vva a
mmale un barile, oggi una bbotte,
domani la cantina; e vvia via, fijja,
pe sta strada che cqui tte va’ a ffà fotte. 21
Ma cce voi
fà un bucale, 1 che Ggiartruda
nun passa un mese o ddua che sse ne pente?
Tu ste parole mia tiettele a mmente,
e nun te bburlo quant’è vvero Ggiuda.
Di’:
cquann’è ccotto l’ovo? quanno suda.
Chi ccommanna a l’urione? 2 er Presidente.
Ch’edè 3 ar muro sta strisscia luccichente? 4
Cià 5 ccamminato la lumaca iggnuda.
Er monno lo
conosco, sai Ggiuvanni?
Si 6 sposa 7 venardí Ttuta Bber-pelo 7a
sce s’abbusca 8 ’na frega 9 de malanni.
Né de Venere,
cazzo, né de Marte
(e li proverbi sò ccom’er Vangelo),
nun ze 10 sposa, peccristo, e nnun ze parte.
Jeri,
all’orloggio de la Cchiesa Nova,
fra Luca incontrò Agnesa co la brocca.
Dice: «Beato lui», dice, «a chi tocca»,
dice, «e nun sa ch’edè chi nu lo prova».
Risponne lei,
dice: «Chi cerca, trova;
ma a me», dice, «puliteve la bocca».
«Aùh», dicéee... «e perché nun te fai biocca?»
«Eh», dice, «e chi me mette sotto l’ova?»
«Ce n’ho io»,
dice, «un paro fresche vive»,
dice, «e ttamante, e tutt’e ddua ’ngallate:
le vôi sperà si ssò bbone o ccattive?»
Checco, te
pensi che nun l’ha pijjate?
Ah 1 llei pe nnun sapé legge né scrive,
ha vorzuto assaggià l’ova der frate.
Ggiuvenotti,
chi ppaga una fujjetta? 1a
Se pôzzino a stroppià ttutti li guitti.
Eccheli sbarellati e sderelitti, 1
come l’abbi accoppati ’na saetta.
Quanno
pagh’io, pettristo, a la Stelletta, 2
cùrreno com’aggnelli fitti fitti: 3
come poi tocca a llôro, tutti zitti.
Che bber negozzio de Maria cazzetta! 4
E vvoi puro
5 c’annate sempre lisscio, 6
sora faccia de culo de bbadessa,
ch’edè 7 che mmó vv’ariscallate er pisscio? 8
Sor abbatino,
sc’è cquarche scommessa? 9
Badàmo, ch’a sto ggioco io bbusso e strisscio.
Oh annate a ppijjà er morto e a sserví mmessa.
Stavo a
ppisscià jjerzéra llí a lo scuro
tra Mmadama Lugrezzia 1 e ttra Ssan Marco,
quann’ecchete, affiarato 2 com’un farco,
un sguizzero 3 der Papa duro duro.
De posta
3a me fa sbatte 4 er cazzo ar muro,
poi vô llevamme er fongo: 5 io me l’incarco:
e cco la patta in mano pijjo l’arco
de li tre-Rre, strillanno: vienghi puro. 6
Me sentivo
quer froscio 7 dí a le tacche 8
cor fiatone: «Tartaifel, sor paine,
pss, nun currete tante, ché ssò stracche».
Poi co
mill’antre parole turchine 9
ciaggiontava: 10 «Viè cquà, ffijje te vacche,
che ppeveremo un pon picchier te vine».
Sta notte a
mmezza notte er carcerato
sente uprí 1 er chiavistello de le porte,
e ffasse 2 avanti un zervo de Pilato
a ddijje: 3 er fischio te condanna a mmorte.
Poi tra ddu’
torce de sego incerato
co ddu’ guardiani e ddu’ bbracchi de corte,
entra un confortatore ammascherato, 4
coll’occhi lustri e cco le guance storte. 5
Te
l’abbraccica 6 ar collo a l’improviso,
strillanno: «Alegri, fijjo mio: riduna
le forze pe vvolà ssu in paradiso».
«Che alegri,
cazzo! alegri la luna!»,
quello arisponne: «Pozziate esse acciso;
pijjatela pe vvoi tanta furtuna».
Pe vvia de
quella miggnottaccia porca
che sse fa sbatte 1 dar Cacamme in Ghetto;
e, vvàjjelo a cercà 2 ccor moccoletto,
nun tiè piú mmanco un pelo in ne la sorca;
che ppare,
Iddio ne guardi, si sse 3 corca
un cadavero drento ar cataletto;
ecco cqui, ss’ha da vede 4 un poveretto
finí li ggiorni sui sopr’una forca!
Però
bbeato lui che ffa sta morte!
Perché, mettemo caso 5 abbi peccati,
è ppell’anima sua propio una sorte.
De millanta
affogati quarchiduno
se pò ssarvà: ma de scento impiccati
ammalappena se n’addanna uno.
Vedi
l’appiggionante 2 c’ha ggiudizzio
come s’è ffatta presto le sscioccajje? 3
E ttu, ccojjona, 4 hai quer mazzato 5 vizzio
d’avé scrupolo inzino de le pajje! 6
Io nun te
vojjo fà ccattiv’uffizzio,
ma indove trovi de dà ssotto, 7 dajje. 8
Si 9 un galantomo ricco vô un zervizzio,
nun je lo fà ttirà cco le tenajje.
T’avessi
10 da costà cquarche ffatica,
vorebbe dí: 11 mma ttu méttete
eppoi chi rroppe paga: è storia antica.
Quanno poi
vederai troppa magoga 13
tiella su e ddàlla a mmollica a mollica. 14
Chi nun z’ajjuta, fijja mia, s’affoga. 15
Fijjo, nun
ribbartà 1 mmai Tata tua: 2
abbada a tté, nnun te fà mmette sotto. 3
Si cquarchiduno te viè a ddà un cazzotto, 3a
lì ccallo callo 4 tu ddàjjene dua.
Si ppoi
quarcantro porcaccio da ua 5
te sce fascessi 6 un po’ de predicotto,
dijje: «De ste raggione io me ne fotto;
iggnuno penzi a li fattacci sua». 7
Quanno
ggiuchi un bucale a mmora, o a bboccia, 8
bbevi fijjo; e a sta ggente bbuggiarona
nu ggnene fà rrestà 9 mmanco una goccia.
D’esse
10 cristiano è ppuro 11 cosa bbona:
pe’ cquesto 12 hai da portà ssempre in zaccoccia
er cortello arrotato e la corona.
Ma Cristo pe
le case! 1 è ccosa buffa
che sto fio 2 fatto a sconto de piggione,
o de riffe o de raffe, 3 inzino a mmone, 4
abbi vorzuto 5 maggnà er pane auffa. 6
Assòrtalo
7 da mettese
díjje de lavorà: jje sa de muffa. 9
Quanno nun gnene 10 dai, campa de truffa.
Cqua un prospero, 11 cquì un giulio, e llà un testone.
Pe mmé jje
l’ho avvisato a mmi’ sorella
ch’er fijjo suo lo vedo e nnu lo vedo: 12
che jje metteno in mano le bbudella. 13
O vvô
annà in domopietro? 14 je lo scedo; 15
me ne lavo le mano in catinella,
com’e Pponzio Pilato immezzo ar Credo.
Sto a
ffà la caccia, caso che mmommone 1
passassi 2 pe dde cqua cquela pasciocca, 3
che va strillanno co ttanta de bbocca:
Sò ccanniti le pera cotte bbone. 4
Ché la voría
5 schiaffà 6 ddrento a ’n portone
e ppo’ ingrufalla 7 indove tocca, tocca;
sibbè che 8 mm’abbi ditto Delarocca, 9
c’ho la pulenta 10 e mmó mme viè un tincone.
Lei
l’attaccò ll’antr’anno a ccinqu’o ssei?
Dunque che cc’è dde male si cquest’anno
se trova puro 11 chi ll’attacca a llei?
Le cose de
sto monno accusí vvanno.
Chi ccasca casca: si cce sei sce sei. 12
Alegria! chi sse 13 scortica su’ danno.
Doppo c’Adamo
cominciò cco Eva
tutte le donne se sò fatte fotte, 2
e tu le pijji pe ttante marmotte
d’annalle
Penzi che tte
se maggni 4 e tte se bbeva?
Oh vattelo a pijja 5 ddrento a ’na bbotte.
Te credi d’aspettà le peracotte? 6
Si la vôi fà bbuttà, 7 ddajje la leva.
Porteje un
ventajjuccio, 8 un spicciatore, 9
pagheje la marenna 10 all’ostaria,
eppoi vedi si 11 è ttenera de core.
Te pozzo dí
cche la Commare mia,
che nun aveva mai fatto l’amore,
pe un zinale me disse: accusì ssia.
Chi
ttiè 1a attaccato ar collo l’abbitino 1
nun poterà mmorí dde mala-morte.
Pôi, 2 pe mmodo de dí, 3 ffà l’assassino
e ridete 4 der boia e dde la corte.
Si ppoi sce
cusci 5 er zonetto latino
che l’ha ttrovato in Palestrina
drento ar zanto seporcro un pellegrino, 7
fa’ ppuro
Ciai 10
la medajja tu dde san Venanzo
bbona pe le cascate? ebbè, ppeccristo,
prima che llassà a llei, 11 lassa da pranzo. 12
Ma ssai
quanti miracoli sciò 13 vvisto?
Te pô ddelibberà 14 ssibbè 15 pe llanzo
16
t’annassi
Co ’na
scanzía 1 nell’ughela, 2 e co ttutte
le tonzíbbile 3 frasciche 4 ggiú in gola,
povera Checca! 5 nun pò dì pparola
si jje la vôi caccià ccor gammautte.
Fa ll’occhi
luschi, 6 tiè le labbr’assciutte,
ha ’na frebbe
Io però tremo de ’na cosa sola,
c’oggi j’ho vvisto fasse l’ogna brutte. 9
Oh, cquer che
ssia la cura, va bbenone.
Bast’a ddí ssi ppò mejjo esse assistita,
che vviè er medico inzino dell’Urione. 10
Anzi jjerzera
j’ordinò ddu’ dita
de re-bbarbero 11 messo in confusione 12
drento un cucchiar d’argento 13 d’acquavita.
Hai sentito
eh? ppovero Titta er greve, 1
povera nun zia l’anima! ha spallato. 2
Ma! un giuvenotto da potesse bbeve
drento in un bicchier d’acqua, 3 eh? cche peccato!
Inzinenta dar
giorno de la neve
se portava un catarro marcurato 4
e Ssan Giacinto 5 te l’annò a rriceve
in d’un fonno de letto ggià appestato!
Da ’na
gnagnera
in zanitate rospite, 7 bz!, 8 è mmorto
pien de decùpis 9 dereto a la schina. 10
A quiniscióra
11 fanno lo straporto 12
der corpo in forma-papera: 13 e ggià Nnina
se fa vvéde a bbraccetto 14
co lo storto.
Ahó Cremente,
coggnosscevi Lalla 1
la mojje ch’era de padron Tartajja
prima cucchiere e ppoi mastro-de-stalla
de... aspetta un po’... der Cardinàr-Sonajja? 2
Bbe’,
gglieri, all’ostaria, pe ffà la galla 3
e ppe la lingua sua che ccusce e ttaja,
buscò da n’antra donna de la bballa 4
’na bbotta, sarv’oggnuno, all’anguinajja.
A ssangue
callo 5 parze 5a ggnente: abbasta, 6
quanno poi curze er cerusico Mori,
je sc’ebbe da ficcà ttanta 7 de tasta.
Sta in man de
prete mó ppe cquanto pesa: 8
e ssi 9 la lama ha ttocco l’interiori,
Iddio nun vojji la vedemo in chiesa.
La sera che
dall’oste ar mascherone, 1
pe ddà un pizzico in culo a Ccrementina,
annai ’n zedia papale
a lo spedàr de la Conzòlazzione: 3
er zor
Stramonni 4 che mme visitòne 5
quelli du’ sgraffi dereto a la schina, 6
fesce: 7 «Accidenti!, cqua se va in cantina: 8
dev’esse stato un stocco bbuggiarone».
Po’
abboccasotto stesome in zur letto,
cominciò un buscio a frigge: e attura, e attura,
ah, sfiatava peddío come un zoffietto!
Inzomma in
ner frattempo de la cura
nun poteva stà acceso er moccoletto!
Eppuro eccheme cquà; ggnente paura.
È un
ber dí 1 cc’a sto Monno sce vò 2 ssorte
si nun l’hanno antro 3 che bbaron futtuti.
Er cristiano ha da dí: «Che Ddio sciaggliuti 4
e cce pôzzi 5 scampà dda mala morte».
Io te l’ho
appredicato tante vorte
c’a st’ora lo direbbeno li muti.
Ma ttu, ppe ggrattà er culo
sce schiaffi in cammio 7 «S’Iddio-vô-e-la-corte». 8
Sò
ccazzi: 9 cquaggiù ttutto è ppremissione 9a
der Zignore sortanto, e nnun ze move
fojja che Ddio nun vojja,
Abbasta d’avé
ffede e ddevozzione;
e ppoi fa’ ttirà vvento e llassa piove. 11
S’Iddio serra ’na porta, opre un portone. 12
Le tavolozze
1 sò
le bbussolette 3 ggià sse fanno avanti,
e mmó er Gesummaria e l’Agonizzanti 4
hanno messo er Zantissimo indisposto. 5
Domatina,
ora-scèrta, 6 sti garganti 7
si nun tiengono 8 ppiù cch’er collo tosto, 9
s’hanno co cquer boccon de ferragosto 10
da cacà ll’animaccia com’e ssanti. 11
E ffurno
lôro, sai?, c’a ddon Annibbile 12
l’assaltorno
pe rrubbajje 14 un cuperchio de torribbile: 15
e jje diédeno
un córpo 15a subbitanio,
che jje penneva un parmo d’intestibbile, 16
sotto ar costato cquì ppropio in ner cranio.
Er giorno che
impiccorno Gammardella
io m’ero propio allora accresimato.
Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio 1 e ’na sciammella. 1a
Mi’ padre
pijjò ppoi la carrettella,
ma pprima vorze gode 1b l’impiccato:
e mme tieneva in arto inarberato
discenno: «Va’ la forca cuant’è bbella!».
Tutt’a un
tempo ar paziente Mastro Titta 2
j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene 3
un schiaffone a la guancia de mandritta.
«Pijja», me
disse, «e aricordete bbene
che sta fine medema sce sta scritta
pe mmill’antri 4 che ssò mmejjo de tene». 5
Cuanno che
vvedde 1 che a scannà un busciardo
Gammardella ebbe torto cor governo,
nun vorze un cazzo convertisse; 2 e ssardo 3
morse 4 strillanno vennetta abbeterno. 5
Svortato
6 allora er beato Leonardo 7
a le ggente che tutti lo vederno, 8
disse: «Popolo mio, pe sto ribbardo 9
nun pregate piú Iddio: ggià sta a l’inferno».
Ebbè,
cquelle du’ chiacchiere intratanto
j’hanno incajjato un pezzo de proscesso
che sse stampava pe ccreallo santo.
L’avocato der
diavolo 10 fa er fesso 11
co sti rampini; 12 ma ppò ddí antrettanto, 13
s’ha da santificà ffussi 14 de ggesso!
Bella
zitella, fu tteta o fu ttuta? 1
Chi v’ha mmesso la cavola a la bbotte?
Accapo ar letto mio tutta sta notte
v’ho intesa tritticà 2 ssempre a la muta.
Eh, un’antra
vorta che vve sii vienuta
la vojja d’ariocà 3 cco cquattro bbôtte,
ditelo a mmé, cché jje darò la muta
pe ccompità con voi F, O, T, fotte.
Er mi’
cavicchio nun è ttanto struscio, 4
che nun pôzzi serví (ssarvo disgrazzia)
pe bbatte sodo e ppe atturavve er buscio.
E cciaverete
poi de careggrazzia,
doppo sentito come sgarro e scuscio,
de vienimme a rrichiede 5 er nerbigrazzia.
Fàcce
mente-locanna, 2 mastro Meo,
e tt’aricorderai, si nun zei cêscio, 3
ch’er zito indove famio
è er muro de San Neo e Ttacchineo. 6
Anzi in cuer
logo ar fîo 7 de Zebbedeo,
per imparajje un giorno a ttiené ccescio, 8
je dassi 9 tu ’na sscivolata a sbiescio, 10
che cce schioppò pe tterra er culiseo.
Che ttempi!
ahù! cchi l’aripijja? Bbrega? 11
Mó tte schiatti e ffatichi e sta’ ar fettone, 12
e ttanto o Cristo o er diavolo te frega. 13
La mojje, er
cavalletto, la piggione,
er Curato... oh
ssciroppete sta bbega 14
senza sputatte 15 fedigo 16 e ppormone!
Dico ’na cosa
che nnun è bbuscía…
Tu vvedi che ttu’ fijjo è grann’e ggrosso,
e nnu jje metti ggnisun’arte addosso?
Ma ssi ttu mmori che ha da fà? la spia?
Nun
c’è antro che ggioco, arme, ostaria,
donne, sicario 1... e nnun z’abbusca un grosso!
Ah! un giorno o ll’antro ha da cascà in d’un fosso
da fatte piaggne; e tte lo disce zia.
Sempre
compaggni! e cche schiume, fratello!
Puh, llibberàmus domminé! Ll’abbrei
sò ppiú ccristiani e cciànno ppiú cciarvello.
Pe ’ggni
cantone ne tiè ccinqu’o ssei:
vedi che scôla! Come disce quello?
Di’ ccon chì vvai, e tte dirò cchi ssei.
Dìmme
che nun zò Ppeppe si a cquer tufo
nu jje fo aricacà quer che mme maggna.
San Giuanni peddío nun vò tracagna. 1
Credeme, Titta 2 mia, propio sò stufo.
Si la Commar
Antonia io me l’ingrufo,
lui perché fa lo sscioto 3 e ppoi se laggna?
Chi er cane nu lo vò ttienghi la caggna:
una cosa è cciovetta, e un’antra è ggufo.
Ma cquello
vò confonne Ottobre e Mmarzo,
sammaritani, scribbi e ffarisei,
per avé sempre lesto er carciofarzo. 4
Io pago la
piggione a llui e llei,
io je do er tozzo, io li vesto, io li carzo,
e llui me vô scoccià lli zzebbedei. 5
Quella bbocca
a ssciarpella, 2 che a vvedello 3
pare un spacco per dio de callarosta, 4
oppuramente 5 er buscio 6 de la posta,
o er culetto de quarche bberzitello; 7
e nun ha
avuto mo la faccia tosta 8
de chiamamme 9 carnaccia de mascello?
Ma io nun dubbità cche llí bberbello 10
j’ho detto er fatto mio bbotta-e-rrisposta.
Quanno ha
ssentito er nome de le feste, 11
lui è rrimasto un pizzico de sale: 12
ché lo sa cchi è sto fusto, 13 si ho le creste. 14
Oh vvedi un
po’! nnun ce sarebbe male!
Ma ffa’ cche vvienghi
te lo fo ttommolà 17 ggiú ppe le scale.
Sor chirico
Mazzola,
che! nun annamo a ppiazza Montanara
pe ssentí a ddí cquella facciaccia amara:
Tenerell’e cchi vvô la scicurietta? 3
Sí! ffatteve
tirà un po’ la carzetta 4
pe ccurre da la vostra scicoriara!
Ve vojjo bbene cor pumperumpara! 5
Cuann’è Nnatale ve ne do una fetta. 6
Eh vvia, ché
ggià sse sa ttutto l’intreccio:
a mmezza vita sce sugate er mèle,
e ppiú ssú ffate er pane casareccio. 7
Ammannite
però cquattro cannéle;
e cquanno vierà er tempo der libbeccio 8
pijjateje un alloggio a Ssan Micchele. 9
Nun
annà appresso a Ttuta, ché cco cquella
se vede bbazzicà 1 sempre un zordato;
e ddicheno che un fir de puttanella
je s’è da quarche ttempo appiccicato.
Mezz’anno fa
ppe ccerta marachella 2
annò a Ssan Rocco
e tu tte fidi ar nome de zitella?
Omo avvisato è ggià mmezzo sarvato.
Pe mmé
è una santa donna; ma ll’ho ddetto,
la ggente sciarla: e ppe ffàlla segreta
nun je se pô appricà mmica er lucchetto.
Fàcce,
4 si cce vòi fà, sseta-moneta;
fàcce a nisconnarello e a pizzichetto; 5
ma nun metteje 6 anello in ne le déta.
Che! ancora
nu lo sai che cquella vacca,
parlanno co li debbiti arispetti,
incomincia a ttrattà li pasticcetti, 1
e pe cquesto arza quer tantin de cacca? 2
Fa’ a mmodo
mio, tu pijjela a la stracca; 3
ma abbadamo a le punte de li tetti,
perché tt’ha da infirzà ttanti cornetti
pe cquanti peli tiè nne la patacca.
Tira avanti
accusí: ttiètte le mano; 3
ché ppoi co tté cce ggiucheranno a ppalla,
si scappi la patente de roffiano.
Bbatti la
piastra mo ssino ch’è ccalla.
No? bbravo, Meo: 4 te stimo da cristiano! 3
Fa’ scappà er bove, e ppoi serra la stalla. 5
Sò
ccinque notte o ssei che la padrona,
pe vvia de quer gruggnaccio d’accidente
che mmó jje fa dda cavajjer zerpente, 1
me lassa a ccontà oggn’ora che Ddio sona.
Te pare
carità?... cche! sse
cojjona?
Come si er giorno nun fascessi ggnente!
Ma stasera, o sservente o nun zervente,
vojjo fà ’na dormita bbuggiarona.
Lei che
ss’arza ’ggnisempre a mmezzoggiorno,
a cchi sta ssú dda lo schioppà ddell’arba 2
o nun ce pensa, o nun je preme un corno.
Me liscenzio:
er crepà ppoco m’aggarba.
De llà nun c’è ccarrozza de ritorno.
E cquanno sò mmort’io, damme de bbarba.
Ma nnun je
róppe er prezzo, 2 ché ssei bella:
tirete sú le carzette de seta: 3
fà buttà indove passi la mortella: 4
fàtte incide una statua de greta.
Quanto
faressi mejjo a statte quieta,
e arisparmiatte er fiato a le bbudella!
Co cquella faccia de scipoll’e bbieta 5
sai chi mme pari a mmé? Ciunciurumella. 6
Sú, smena er
fiocco, 7 bbellezza der monno,
strigni er bocchino! Auffa 8 li meloni!
e si auffa la dài manco la vonno.
Ciài
pijjato davero pe ccojjoni?
Erbetta mia, te conoscemo
Mmaschera sai ch’edè? ttu nun me soni.
Lí ffora nun
c’è un cazzo c’arifiati:
qua ddrento nun c’è un’anima vivente.
Dove diavolo mó sse sò fficcati,
je pijja a ttutti quanti ’n accidente?
Che sserve de
stà a ffà ppiú l’ammazzati,
si nun ze sente un cane nun ze sente!
Oh, ssai che ffàmo? annamescene in prati 2
a ggiucà a bboccia e ppoi... Zitto! viè ggente.
Ma
bbuggiaratte, Iddio te bbenedichi,
è un anno che ssagrato
che mommó rriviè er tempo de li fichi.
Sí, ffamme
sceggne er latte a le ginocchia! 4
Lo sai perché tte sposo? pe l’amichi:
c’ar fuso mio nun pò mmancà cconocchia. 5
Sora Terresa
mia sora Terresa,
io ve vorrebbe vede appersuasa
de nun favve ggirà ffrati pe ccasa,
ché li frati sò rrobba pe la cchiesa.
Lo so
bbè io sta ggente cuer che pesa
e cquanto è roppicula e fficcanasa!
Eppoi bbasta a vvedé ccom’è arimasa
co cquer patrasso 1 la commare Aggnesa.
Sti
torzonacci pe arrivà ar patume 2
te fanno punti d’oro; e appena er fosso
l’hanno sartato, pff, 3 tutto va in fume.
C’è da
facce
Ortre ar tanfetto poi der suscidume
de sudaticcio concallato 5 addosso.
Ch’edè
e cche nun è, 1 ecchete un giorno
che ffâmio
una man de giandarmi se n’entrorno
coll’ordine de facce er percurato. 4
Senza dicce
nemmanco: si’ ammazzato, 5
aggnédero 6 freganno 7 attorn’attorno;
e smòsseno inzinenta er tavolato,
ma grazziaddio senza trovacce un corno.
Io fesce
stenne a ppiazza montanara 8
p’er general Quitolli 9 un mormoriale, 10
che jje l’aggnede a ddà la lavannara,
discennoje
accusí: «Ssor generale,
cuesta pe ddio sagrato è una cagnara:
ché de la grazzia eccetera. 11 Pasquale».
Pijjate un
grancio: er fatto der dragone
nun fu un cazzo
Ditelo a mmé, cche mme l’ha ddetto Titta
che jje l’ha ddetto Bbonziggnor Ciardone! 3
Voi ’ntennete
de quer che ssan Leone,
doppo avé lletto un po’ de carta scritta,
lo portò ccor detino de mandritta
a spasso a spasso com’un can barbone?
Manco male!
Ebbè, er fatto, sor Felisce
mia, fu assuccesso ggiù a Campo Vaccino
sott’a Ssanta Maria l’imperatrisce. 4
Cosa sa
ffà la fede! Un cordoncino
regge 5 un dragone, che er barbiere disce
nun potería legà mmanco un cudino. 6
Ohó! ohó!
prr! 1 come vai de trotto!
Abbada a tté dde nun buttà la soma.
Ch’edè sta furia? Adascio Bbiascio: 2 Roma
mica se frabbicò tutt’in un botto.
Chi poteva
sapé che tt’eri cotto
de sta maggnèra pe la fìa de Moma? 3
Che vvolevi pe llei fà Rroma e ttoma 2
senza conosce cuer che ccova sotto?
La donna,
fijjo, è ccome la castagna, 2
disceveno Bertollo e Bertollino: 4
bbella de fora, e ddrento ha la magaggna.
A la prima
ostaria scerchi er bon vino?! 2
Si ddarai tempo averai la cuccagna, 2
e mmaggnerai li tordi uno a cquadrino. 2
Ajjo, 1
cazzo! che ppizzico puttano!
Te penzeressi 2 ch’abbi er cul de pajja?
È tutta sciccia; e nun ce porto majja,
antro che 3 sto boccon de taffettano.
Co la bbocca,
va bbe’, ddimme canajja,
e ppú... e bbú..., mma ttiètte a tté le mano.
Giochi de mano, ggiochi da villano;
e la tua pare propio una tenajja.
Fermo, ve
dico, sor faccia ggialluta.
Fateve arreto; e ssi vve piasce er mollo,
annate a smaneggià le chiappe a Ttuta.
Te seggno,
Pippo ve’! Pippo, te bbollo.
Te ne vai? famme sta grazzia futtuta.
Sia laüdat’Iddio! Rotta de collo!
Che sserve,
è ll’asso! 2 Guardeje
in ner busto
si cche ggrazzia de ddio sce tiè anniscosta.
Sangue d’un dua com’ha da êsse tosta!
Quanto ha da spiggne! ah bbenemio, che ggusto!
Si cce
potessi intrufolà 3 sto fusto,
me vorrebbe ggiucà ppropio una costa
che cce faria de risbarzo e dde posta
diesci volate l’ora ggiusto ggiusto.
Tre nnotte
sciò portato er zor Badasco 4
a ffà ’na schitarrata co li fiocchi,
perché vviènghi a ccapì che mme ne casco. 4a
Mó vvojjo
bbatte, 5 e bbuggiarà li ssciocchi.
E cche mmale sarà? de facce 6 fiasco?
’Na provatura costa du’ bbajocchi.
Ecco cqui er
bene come incominciò
co la cuggnata de Chicchirichí.
Fascemio a ggatta-sceca cor zizzi, 1
a ccasa de la sgrinfia de Ciosciò.
Toccava er
giro a llei: me s’appoggiò
co cquer tibbi de culo a ssede cqui.
Nun zerv’antro: de sbarzo se svejjò
mi’ fratelluccio che stava a ddormí.
Sentenno quer
lavoro sott’a ssé,
lei s’intese le carne a ffriccicà,
e arzò la testa pe ffà un po’ ccescé. 2
Io me diede a
ccapí cch’ero io llà:
allora, a cquer c’ha cconfessato a me,
lei fesce
Sò
1 li peccati mii, fijja: pascenza! 2
Io te l’avevo trovo
cor un omo de garbo e de cusscenza,
e ’r mejjo nu lo sai: ricco sfonnato.
Che ccasa!
che ccantina! che ddispenza!
C’è llatte de formica, oro colato.
Ah! ppropio era pe tté una providenza
da fà ccrepà d’invidia er viscinato.
Pe ccaparra,
ecco cqui, mm’ero ggià ppresi
sti sei ggnocchi; 4 e tte sento stammatina
rigràvida mommó 5 dde scinque mesi.
C’avevo da
sapé 6 cche la spazzina 7
te fasceva parlà cco li francesi?
Fàmme indovina ché tte fo rreggina. 8
Bella zitella
che ffate a ppiastrella
cor fijjo der Ré, 1 pss, 2 dite, nun sbajjo?
sete voi quella che la date a ttajjo,
viscin’all’arco della Regginella?
Pasciocchettuccia
3 mia, quanto sei bbella!
Ahú, fedigo fritto, 3 spicchio d’ajjo, 3
quanno che vvedo a voi tutto me squajjo 3
in acquetta de cul de rondinella.
Eh voi,
s’aggiusta inzomma sto negozzio?
Se poderebbe fà sto pangrattato? 4
Me crepa er core de vedevve in ozzio.
Ma ssèntila!
nnun vò pperché è ppeccato!
Oh ddatela a d’intenne ar zor Mammozzio:
gallina che nun becca ha ggià bbeccato. 4a
Ner zoggnamme
stanotte l’esattore,
m’ero tirato a lletto in pizzo in pizzo,
finarmente che sscivolo, e tte schizzo
propio cor culo in cima ar pisciatore.
Un coccio piú
ttajjente d’un rasore
m’ha sbuggiarato tutto er cuderizzo;
e mmo mme se fa nero com’un tizzo,
e cce sento un inferno de bbrusciore.
Madama
Squinzia, 1 che a cquer zerra serra
se svejjò ppuro lei, come una matta
se messe a ride de vedemme in terra.
Io je scarico
allora una ciavatta;
e llei butta er lenzolo, e me s’afferra
su li tre appiggionanti de la patta.
Evviva er
zor-Don-Dezzio-co-le-mela!
Ste strade sce l’avete ariserciate… 2
Ah, ddiscevo accusí de scèrta tela 3
che sse venneva sulle cantonate.
Dite la
verità, ttanto ve pela? 4
Sú ffateve usscí er rospo, 5 vommitate: 6
eh vvia, co’ nnoi cucchieri ste frustate? 7
Cascate male assai: 8 semo de vela. 9
Pare che
cquanno ve smicciate 10 quella
benedetta-pòzz’-èsse, for dall’occhi
ve vojji schizzà vvia la coratella.
Pare c’avete
d’aspettà li ggnocchi! 11
V’annerebbe un bocchino, 12 eh sor Brighella?
Oh annateve a ccerca cchi vve l’immocchi. 13
A ddà
rretta a le sciarle der governo,
ar Monte nun c’è mmai mezzo bbaiocco.
Je vienissi 2 accusí, sarvo me tocco, 3
un furmine pe ffodera 4 d’inverno!
E accusí
Ccristo me mannassi 5 un terno,
quante ggente sce campeno a lo scrocco:
cose, Madonna, d’agguantà 6 un batocco
e dàjje
Cqua mmaggna
er Papa, maggna er Zagratario
de Stato, e cquer d’abbrevi 8 e ’r Cammerlengo,
e ’r tesoriere, e ’r Cardinàl Datario.
Cqua ’ggni
prelato c’ha la bbocca, maggna:
cqua… inzomma dar piú mmerda ar majorengo 9
strozzeno 1 tutti-quanti a sta Cuccaggna.
Senti, senti
castello come spara!
Senti montescitorio come sona!
è sseggno ch’è
ffinita sta caggnara,
e ’r Papa novo ggià sbenedizziona.
Bbe’? cche
Ppapa averemo? è ccosa
chiara:
o ppiù o mmeno la solita-canzona.
Chi vvôi che ssia? quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio sce la manni 1 bbona.
Comincerà
ccor fà aridà li peggni,
cor rivôtà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congeggni.
Eppoi, doppo
tre o cquattro sittimane,
sur fà 2 de tutti l’antri 3 Santi-Padri,
diventerà, Ddio me perdoni, un cane.
Certi ggiorni
c’ar Papa je viè a ttajjo 2
de scelebbrà 3 la tale o ttar funzione,
in sti tempi d’abbissi e rribbejjone 4
che lo fanno annisconne 5 e mmaggnà ll’ajjo, 6
conforme che
jje porteno er ragguajjo
che Rroma è cquieta e ha stima der cannone,
lui va, sse mette in chicchera, 7 e indispone 8
le cose nescessarie ar zu’ travajjo.
Ma infilato
che ss’è ll’abbito longo,
si jj’aricacchia 9 quarch’idea de prima,
er vappo 10 scerca 11 de fà nnassce un fongo.
12
Trovato c’ha
er protesto, 13 allora poi
se vorta
«Sor Cardinale mio, fatela voi».
Certi
Mercanti, doppo ditto: aéo, 1
se sentinno 2 chiamà ddrento d’un pozzo.
Uno sce curze 3 all’orlo cor barbozzo, 4
e vvedde move, 5 e intese un piaggnisteo.
«Cazzo! qui
cc’è un pivetto 6 pe ssan Ggneo,
come un merluzzo a mmollo inzino ar gozzo!».
Caleno un zecchio: e ssú, frascico e zzozzo, 7
azzécchesce chi vviè? Ggiusepp’abbreo.
L’assciutteno
a la mejjo cor un panno,
je muteno carzoni e ccamisciola,
e ppoi je danno da spanà, 8 jje danno.
E doppo, in
cammio 9 de portallo a scola,
lo vennérno in Eggitto in contrabbanno
pe cquattro stracci e un rotolo de sola.
In capo a una
man-d’anni er zor Peppetto
addiventato bbello granne e ggrosso,
la su’ padrona jjotta 1 de guazzetto,
j’incominciò a mettéjje l’occhi addosso.
Ce partiva
cor lanzo 2 de l’occhietto, 3
sfoderava sospiri cor palosso: 4
inzomma, a ffalla curta, dar giacchetto
lei voleva la carne senza l’osso.
Ecchete ’na
matina che a sta sciscia 5
lui j’ebbe da portà ccert’acqua calla,
la trova zur zofà ssenza camiscia.
Che ffa er
cazzaccio! Bbutta llí la pila;
e a llei che tte l’aggranfia 6 pe ’na spalla
lassa in mano la scorza, 7 e mmarco-sfila! 8
Tra ll’antre
1 tu’ 2 cosette che un cristiano
ce se 3 farebbe scribba e ffariseo,
tienghi, 4 Nina, du’ bbocce e un culiseo,
propio da guarní er letto ar gran Zurtano.
A cchiappe e
zzinne, manco in ner moseo 5
sc’è 6 robba che tte po arrubbà la mano; 7
ché ttu, ssenz’agguantajje er palandrano, 8
sce fascevi appizzà 9 Ggiuseppebbreo.
Io sce
vorrebbe 10 franca 10a ’na scinquina 11
che nn’addrizzi ppiú ttu ccor fà l’occhietto,
che ll’antre 1 cor mostrà la passerina. 12
Lo so ppe
mmé, cche ppe ttrovà l’uscello,
s’ho da pisscià, cciaccènno 13 er moccoletto:
e lo vedessi mó, 14 ppare un pistello! 15
Sentime,
Teta, io ggià cciavevo dato
che cquarchiduno te l’avessi rotta;
ma che in sto stato poi fussi aridotta
nun l’averebbe mai manco inzoggnato.
De tante
donne che mme sò scopato,
si ho mmai trovo a sto monno una miggnotta
c’avessi in ner fracoscio un’antra grotta
come la tua, vorebb’èsse impiccato.
Fregheve,
sora Teta, che ffinestra!
che ssubbisso de pelle! che ppantano!
Accidenti che cchiavica maestra!
Eppoi cazzo,
si un povero gabbiano
te chiede de sonatte in de l’orchestra,
lo fai stà un anno cor fischietto in mano!
Pe tterra, in
piede, addoss’ar muro,
a lletto, come c’ho ttrovo d’addoprà l’ordegno,
n’ho ffatte stragge: e pe ttutto, sii detto
senz’avvantamme, 1 ciò llassato er zegno.
Ma cquanno me
sò visto in ne l’impegno
drento a cquer tu’ fienile senza tetto,
m’è parzo aritornà, peddío-de-legno,
un ciuco 2 cor pipino
Eppuro, in
cuanto a uscello, ho pprotenzione
che ggnisun frate me pò ffà ppaura:
basta a gguardamme in faccia er peperone. 4
Ma co tté,
ppe mmettésse a la misura,
bisoggnerebbe avé mmica un cannone,
ma la gujja der Popolo addrittura!
Sto sciorcinato
1 d’uscelletto cqui
da tanti ggiorni sta ssenza maggnà,
perché nun j’ho saputo aritrovà
canipuccia che ppozzi diggerí.
Ce sarebbe
pericolo 2 che llí
tu cciavessi da fallo sdiggiunà?
Eh? Ghita, la vòi fà sta carità
de riarzà er becco ar povero pipí?
Ciaveressi mó
scrupolo?! e de che?
E a cquer proverbio nun ce penzi piú,
de fà ccoll’antri quer che piasce atté?
Eppoi, dove
mettemo er zor Monzú
che tte bbattevva la sorfamirè?...
Ma ggià, ttu sei zitella, dichi-tú.
Nun zia mai
pe ccommanno, sora Ghita:
diteme un pò, cch’edè 1 sta scolarella
che ssibbè 2 cche vvoi èrivo 3 zitella,
puro 4 pe bbontà vvostra oggi m’è usscita?
Sta pulentina
cqui dduncue ammannita
ve tienevio pe mmé nne la scudella?
Dio ve n’arrenni merito, sorella,
propio ve sò obbrigato de la vita.
E nun potevio
fanne con de meno, 5
sora puttanellaccia a ddu’ facciate, 6
de viení a bbuggiaramme a ccier sereno? 7
Mó ccapisco
perché cquer zor abbate,
che inzin’all’occhi ne dev’èsse pieno,
te porta a ffà le cotte pieghettate.
Che
sscenufreggi, 2 ssciupi, strusci e ssciatti!
Che ssonajjera 3 d’inzeppate a ssecco!
Iggni bbotta peccrisse annava ar lecco:
soffiamio 4 tutt’e dua come ddu’ gatti.
L’occhi
invetriti peggio de li matti:
sempre pelo co ppelo, e bbecc’a bbecco.
Viè e nun viení, fà e ppijja, ecco e nnun ecco;
e ddajje, e spiggne, e incarca, e strigni e sbatti.
Un po’ piú
che ddurava stamio grassi; 5
ché ddoppo avé ffinito er giucarello
restassimo intontiti 6 com’e ssassi.
È un
gran gusto er fregà! ma ppe ggodello
più a cciccio, 7 ce voria che ddiventassi
Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello.
Voi sapé
ll’arte mia, core mio bbello?
M’ingeggno, fijja: fo er pittore a sguazzo.
E ssi mme voi provà, ttiengo un pennello
che ho ccapato pe tté ppropio in ner mazzo.
A
llavorà nun ce la pò un uscello:
schizza piú mmejjo che si ffussi un razzo:
e a le vorte, cquà e llà, senza sapello,
è ffigura de fà cquarche ppupazzo.
Anzi m’ha
dditto la mastra de scola
che un marchesino te viè a ddà ’ggni mese
certa tinta color de lazzarola.
Dunque famo
negozzio: io fo le spese;
e ttu mm’impresterai la cazzarola
dove ce squajji er rosso der marchese.
A che ggioco
ggiucamo, eh Crementina?
Si nun me la vôi dà, bbuttela ar cane.
Sò stufo de logrà le settimane
cantanno dietr’a tté sta canzoncina.
Inzomma, o la
finimo stammatina,
o ttiettela 1 pe tté, cché nun è ppane:
e a Roma nun ciamancheno 2 puttane
da viení ccarestia de passerina. 3
Varda che
schizziggnosa, si’ ammaíta!
Se tratta che de té ne fanno acciacchi,
che nun ciài 4 buscio 5 sano pe la vita.
Sò in
cuattro a pportà er morto: 6 Puntattacchi,
er legator de libbri ar Caravita,
Chiodo, e ’r ministro der caffè a li Scacchi.
Eh sora
Nunziatina, cuanno fussi
lescito a la dimanna, me voría
levà un dubbio, si mmai, nun zapería... 1
ciavessivo pijjati pe bbabbussi, 2
oppuramente
per ingresi, o russj,
o ppe ggreghi sbarcati da turchia;
che nnun ze conosscessi, giogglia 3 mia,
cual’è er tu’ ggioco, e indove strissci e bbussi:
e nun ze sa
ppe ttutti li cantoni,
da ponte-rotto
che nnu li capi 5 si nun zò ccojjoni?
Ma a mmé la
bbajocchella 6 me sta ccara:
e pe cquer fatto drento a li carzoni
nun ce vojjo chiamà la lavannara.
Oh
ccròpite le cosce, ché peccristo
me fai rivommità co quelle vacche! 2
Io sò avvezzo a vedé ffior de patacche 3
a strufinasse 4 pe bbuscacce er pisto. 5
Fa’ a modo
mio, si ttu vvoi fà un acquisto
c’a mmoscimmàno 6 te pò stà a le tacche: 7
vatte a ffà ddà tra le nacche e le pacche 8
da cuarche sguallerato 9 de San Sisto. 10
Chi antro vò affogasse in cuel’intrujjo 11
d’ova ammarcite, de merluzzo e ppiscio,
che appesta de decemmre com’e llujjo?
Ma a me! ’gni
vorta che ttu bbussi, io striscio, 12
e un po’ un po’ che ciallumo de sciafrujjo, 13
passo, nun m’arimovo, e vvado liscio. 12
Sonajji, pennolini, ggiucarelli,
e ppesi, e ccontrapesi e ggenitali,
palle, cuggini, fratelli carnali,
janne, 1 minchioni, zebbedei, ggemmelli.
Fritto, ova,
fave, fascioli, granelli,
ggnocchi, mmannole, 2 bruggne, mi’-stivali,
cordoni, zzeri, O, ccollaterali,
piggionanti, testicoli, e zzarelli.
Cusí in
tutt’e cquattordici l’urioni, 3
pe pparlà in gerico, 4 inzinent’a glieri 5
se sò cchiamati a Roma li Cojjoni.
Ma dd’oggi
avanti, spesso e vvolentieri
li sentirete a dí ppuro Cecconi,
pe vvia de scerta mmerda de Penzieri. 6
Ma ffa’ la
pasce tua: nun c’intennemo?
Te parlassi mó in lingua tramontana!
Fa’ la tu’ pace, dico, e ddiscurremo
cor core in mano, uperto, a la romana.
Attorno a un
osso in troppi cani semo;
poi tu attanfi 1 ’n’arietta 2 de puttana:
dunque iggnuno 3 da sé: cciarivedemo
li quinisci de st’antra settimana.
Ho vorzuto
4 provà: sò stato tosto: 5
ho abbozzato 6 da pasqua bbefania 7
inzino a la madon de mezz’agosto.
Ma ’ggni nodo
viè ar pettine, Luscia.
Mó ffa’ li fatti tua, mettete 8 ar posto,
dàjje er zordino: 9 e cchi tte vô tte pía. 10
Me sento
arifiatato! Infinarmente
oggi ho ffatto lo stacco der ceroto, 1
co ttutto che Lluscia, quell’accidente,
facci le sette peste, 2 e ’r terramoto.
Pozzi
èsse ammazzataccio chi sse pente,
e sta’ cquieto, che cquì nun ciariscoto: 3
prima voría tajjamme er dumpennente 4
e ffacce 5 un Pe Gge Re 6 come pe vvoto.
Già,
è stata la Madonna de l’assunta
che ha vvorzuto accusí ddelibberamme
quanno ero ar priscipizzio in punta in punta.
Ma
dd’oggimpoi si azzecco un’antra lappa 7
medema che 8 Luscia, me metto a ggamme; 9
ché a sta vergna 10 che cquì vvince chi scappa.
Eh sor
dottore mia, che vvorà ddí
che mm’è sparita quell’anzianità 1
che ’na vorta sentivo in ner maggnà,
anzi nun pozzo ppiú addiliggerí? 2
Me s’è
mmessa ’na bboccia 3 propio cquì:
ggnisempre ho vojja d’arivommità;
e cquanno, co rrispetto, ho da cacà,
sento scerti dolori da morí.
Perché nun
m’ordinate quer zocché 4
che pijjò Ttuta quanno s’ammalò
pe sgranà 5 ttroppi dorci der caffè?
Oppuramente un
po’ d’asscenzo, 6 o un po’
de leggno-santo: ché ar pijjà ppe mmé
io nun ciò 7 ggnisun scrupolo, nun ciò.
8
Hai la
pulenta? Ebbè? ggnente de male:
eh a sta robba co tté mme sce la stiggno: 1
eppuro, quanno viè lo sbarzo, 2 intiggno, 2a
ciavessi d’aricurre a lo spedale.
Senti,
và a nnome mio da lo spezziale
de facciata 3 ar canton de Torzanguiggno, 4
e fàtte dà 5 un po’ d’acqua de grespiggno
stillata 6 cor un pizzico de sale.
Tu ppijjela a
ddiggiuno domatina
ammalappena che tte sei svejjato:
pijjela, e vederai che mmediscina!
Poi maggna
puro, 7 e ddoppo avé mmaggnato
bbévete 8 la tu’ bbrava fujjettina,
abbasta 9 che nun zii 10 vino annacquato.
Dimenica de
llà 1 Rinzo, Panzella,
io, Roscio e le tre fijje der tintore
vòrzimo 2 annà a fà un sciàlo
a la madonna der divinamore. 4
Che t’ho da
dí, Sgrignappola? co cquella
solina 5 llà che t’arrostiva er core,
eccheme aritornà la raganella, 6
ecco arincappellasse 7 er rifreddore.
Credime,
cocca mia, 8 ma dda cristiano
ce direbbe aresie: ch’è ’na miseria
d’avé a stà sempre co ppilucce in mano.
Mó er
zemplicista me dà ’na materia
appiccicosa: e un medico brugnano 9
lo ssciroppo de radica d’arteria. 10
’Gni
sordo-nato dice che ssei l’asso, 2
e vvòrti 3 l’ammazzati co la pala!
Prz, 4 te fischieno, Marco: tiette bbasso:
c’ereno certi frati de la Scala. 5
Te vedo,
Marco mia, troppo smargiasso, 6
e cquarchiduna de le tue se sala. 7
Lassa de spacconà, nun fà er gradasso,
e aricordete er fin dé la scecala. 8
A ssentí a
tté fai sempre Roma e ttoma: 9
e poi ch’edè? viè spesso e vvolentieri
chi tt’arizzolla 10 e tte ne dà ’na soma.
Ognomo hanno
d’avé li su’ mestieri:
chi ffa er boia, chi er re, chi scopa Roma:
sei bbraghieraro tu? ffà li bbraghieri.
Te penzeressi
1 mó, gguercia pandorfa, 2
befana nera, crapa 3 mocciolosa,
faccia da bbiribbisse stommicosa,
fijjaccia de Coviello e dde Margorfa, 4
d’èsse
vienuta a Rroma da la Torfa
pe ffà l’impimpinata 5 e la prezziosa?
Eh bbella fijja, sete voi la sposa? 6
Ditesce un po’, se bbatte cqui la sorfa? 7
Ciovetta mia,
va’ a ccaccia de franguelli,
ché ss’io sciò, ggrazziaddio, tanta de nerchia, 8
quella tua nun è ggabbia pe st’uscelli.
Scortica,
bbrutta arpia, chi tt’incuperchia,
ma pprima de dà a tté li mi’ piselli 9
pozzino addiventà ttanta sciscerchia.
E crederessi
tu Sartalaquajja
a stelocanna 1 come vò Felisce?
Tratanto l’arimistica, 2 e ffa e ddisce, 3
che ccarza e vveste, magna e bbeve, e scuajja. 4
Lui strilla gnao,
5 lui dorce la fusajja, 6
venne er regolo, 7 bbono pe l’alisce;
raschia li muri, allustra la vernisce,
va a ppesà er fieno e a ccarreggià la pajja.
Uno che nun
avessi arte né pparte, 8
pò appettattelo 9 un’antra, nò Artomira, 10
che nun viè ffinta a rrivortà le carte.
Dice er
proverbio che chi ammira attira; 11
e un omo, fijja, che ssa ffà ttant’arte,
pò avé in culo ggirone e cchi lo ggira. 12
Hai visto er
mappamonno de l’ostessa?
Búggerela, pezzío!, 1 che vviscinato!
Si cquella se fa mmonica, sagrato,
zompa de posta
Tentela,
Cristo!: e, servo de pilato,
si nun m’inchiricozzo 3 pe ddí mmessa
e cconfessà sta madre bbattifessa,
pozzi trovà ’ggni bbuscio siggillato.
Ma chi
ssà cche vvertecchio 4 s’aridusce,
si ppoi sce levi quarche imbrojjo attorno?
Nun è ttutt’oro quello c’arilusce.
Ne so 5
ttant’antre, che, all’arzà, bbon giorno!: 6
ma in cammio scianno poi scime de bbusce,
da fà ccrepà pe l’invidiaccia un forno.
Rosa, nun te
fidà de tu’ cuggnata:
quella ha ddu’ facce e nun te viè ssincera.
Dimannelo cqui ggiú a la rigattiera
si ccome t’arivorta la frittata.
Stacce a la
lerta, 2 Rosa: io t’ho avvisata.
A la grazzia..., bbon giorno..., bbona sera...;
e ttocca la viola: 3 ché a la scera
je se smiccia la quajja arisonata. 4
Sibbè
cche 5 (a ssentí a llei) tiè er core in bocca,
fa ddu’ parte in commedia la busciarda,
e vò ddí ccacca si tte disce cocca. 6
Quanno tu
pparli, a cchi ttira la farda,
a chi ttocca er piedino: e intanto, ggnocca, 7
tu la crompi pe alisce, e cquella è ssarda.
Donne mie
care, bbuggiaravve a tutte,
ma cc’è troppa miseria de cudrini:
e si a ttenevve drento a li confini
nun ciarimedia Iddio, ve vedo bbrutte.
Oggiggiorno
sti poveri paini 1
tiengheno le saccocce accusí assciutte,
che chi aggratis nun pijja er gammautte,
la pò ddà ppe ttrippetta a li gattini.
Oggiggiorno a
sta Roma bbenedetta
lo spaccio der Merluzzo è aruvinato,
e nun ze pò ppiú ffà ttanto-a-la-fetta.
Ma ppe vvoi
sole er caso è ddisperato;
ché ll’ommini si stanno a la stecchetta
ponno fà ccinque sbirri e un carcerato. 2
Semo a li
confitemini: 1 sò stracco:
me sento tutto ssciapinato 2 er petto:
e si cqua nun famò arto
se finisce a Sa’ Stefino der Cacco.
Sta frega
4 de turacci che tte metto,
tu li pijji pe pprese de tabbacco:
ce vôi sempre la ggionta e ’r zoprattacco,
come si er cazzo mio fussi de ggetto. 5
Oggi
ch’è festa pôi serrà nnegozzio,
ché lo sa ggni cristiano che la festa
nun è ppe llavorà, mma ppe stà in ozzio.
Manc’oggi?
ebbè dduncue àrzete la vesta:
succhia ch’è ddorce. Ma nun zo’ Mammozzio,
si nun t’attacco un schizzettin de pesta.
Hai la coda
de pajja, 2 Titta mia: 3
te bbutti avanti pe nnun cascà arreto.
Quanno entrassi alla vigna in ner canneto,
nun me lo poi negà, cc’era Maria.
Ahà,
lo vedi, porco bbú-e-vvia? 4
Nun t’attaccà a San Pietro, 5 statte quieto:
er giurà è da bbriccone: ggià a Ccorneto
o cce sto o cciò d’annà pe cquell’arpia.
Che
cià cche ffà la storia de Lionferne 5a
co le fufigne 6 tue? fussi gabbiana!
Ste lucciche vôi damme pe llenterne? 7
Bè,
và a dí l’istorielle a la tu’ nana.
Và, ppassavia, ché nun te pozzo sscerne; 8
e ssi tte la do ppiú ddimme puttana.
Cara Commare.
Piazza Montanara, 1a
oggi li disciannove der currente.
Ve manno a scrive che sta facciamara
de vostra fijja vò pijjà 1 un pezzente.
Poi ve faccio
sapé che la taccara
morse, in zalute nostra, d’accidente:
e l’arisposta sò a pregavve cara -
mente a dàlla alla torre 2 der presente.
Un passo
addietro. 3 Cquà la capicciola
curre auffa, 4 mannandove un zaluto
pe pparte d’Antognuccio e Lusciola.
Me scordavo
de divve, si ha ppiovuto
che sta lettra nun pò passà la mola,
come, piascenno a Dio, ve dirà el muto.
Titta nun ha
possuto;
e con un caro abbraccio resto cquane
vostra Commare Prascita Dercane. 5
A l’obbrigate
mane
de la Signiora Carmina Bberprato,
Roccacannuccia, in casa der curato.
Guitto 1
scannato, 2 e cché!, nun te conoschi
d’êsse ar zecco,
Stai terra-terra come la porcacchia, 6
abbiti a Ardia
Ha spiovuto,
8 sor dommine, la pacchia 9
d’annà in birba, 10 burlà, e gguardacce loschi.
11
Mo arrubbi er manichetto a Ppuggnatoschi, 12
maggni a bbraccetto, 13 e bbatti la pedacchia. 14
De notte
all’osteria de la stelletta, 15
de ggiorno ar Zole; 16 e cquer vinuccio chiaro 17
che bbevi, viè a stà un cazzo
Mostri ’na
chiappa, un gommito e un ginocchio;
e chi tte vò, fa ccapo all’ammidaro
a li greghi,
Sò un
pò spiantato: ebbè? nnun me vergoggno
de dillo a ttutto er monno a uno a uno.
Mejjo pe mmé: cussí nun ho bbisogno
d’imprestà ddiesci pavoli a ggnisuno.
Nun te crede
però; 1 ché cce sbologgno: 2
sò conosce er Panbianco 2a dar panbruno:
e nnun m’intraviè 3 mmai, manco in inzoggno,
d’annà a la cuccia a stommico a ddiggiuno.
E vvoi che
ffate l’ammazzato 4 ar banco
de Panza er friggitore a Ttiritone, 5
conosscete er panbruno dar Panbianco? 2a
V’annerebbe
6 un boccon de colazzione?
Ve rode er trentadua? 7 Ve sfiata er fianco? 7
Le bbudelle ve vanno in priscissione?
Sete voi che
a ppiggione
tienete lassú a Ttermini er palazzo 8
dove s’appoggia 9 e nun ze spenne un cazzo?
Quer
landào 10 pavonazzo,
è robba crompa
scarti de Bonsiggnor Viscereggente? 13
Un accicí
ccor dente, 14
sor ricacchio 15 de fijjo de puttana,
lo mettete ar cammino a la bbefana? 16
Quella porca
mammana
v’avessi ssciorto subbito er bellicolo,
camperessivo mó ssenza pericolo
d’avé
l’abbiffa ar vicolo
de li tozzi, 17 e d’annà, ppe piú ccordojjo,
a sbatte er borzellino in Campidojjo. 18
Co ssale,
asceto e ojjo,
fateve un’inzalata de cazzocchi, 19
che vve ponno costà ppochi bbajocchi.
Sò
rradiche pell’occhi 20
che cor un po’ de fréghete 21 suffritto
fanno abbozzà 22 er cristiano 23 e stasse 24
zitto.
Dico, eh sor
Cacaritto,
si vve bbattessi mai la bbainetta,
volete che vve manni una sarvietta? 25
La povera
Ciovetta,
quanno annerete poi da monziggnore, 26
v’ariccommanna de cacavve er core.
Dimani, s’er
Ziggnore sce dà vvita,
vederemo spuntà la Cannelora. 1
Sora neve, sta bbuggera è ffinita,
c’oramai de l’inverno semo fora. 2
Armanco sce
potemo arzà a bbon’ora,
pe annà a bbeve cuer goccio d’acquavita.
E ppoi viè Mmarzo, e se pò stà de fora
a ffà ddu’ passatelle 3 e una partita.
St’anno che
mme s’è rrotto er farajolo,
m’è vvienuta ’na frega 4 de ggeloni
e pe ttre mmesi un catarruccio solo.
Ecco
l’affetti 5 de serví ppadroni
che ccommatteno er cescio cor fasciolo, 6
sibbè, a sentilli, 7 sò ricchepulloni. 8
Te pare un
cazzo a ssapé ffà er decane?
E io te dico che cce vô ppiú ccosa
a ffà st’arte indiffiscile e ggelosa,
che a sserví mmesse e a ffà ssonà ccampane.
Tu cquanno
hai contentato ste puttane
de le moniche tue, vàtte a rriposa;
ma ppe nnoi sce vô ttesta talentosa
pe rregge in zala e ppe nun perde er pane.
Distribbuí er
zervizzio a la famijja,
tiené er reggistro de visite e gguardia,
barcamenà la madre co la fijja,
passà
imbassciate, arregge er cannejjere,
fà er tonto, spartí mmance, fasse d’Ardia,
e mmorí in zanta pasce cor braghiere.
Ahú, bbocchin
de mèle, occhi de foco,
faccia de perzicuccia de Scandrijja! 1
Faressi in nner tu’ letto un po’ dde loco
a sto povero fijjo de famijja?
Nun te ne
pentirai, perch’io sò ccoco,
e in ner tigàme assaggerai ’na trijja
scojjonata 2 pe tté, ggrossa e vvermijja,
che in de la panza te farà un ber gioco.
Mòvete
a ccompassione d’un regazzo
iggnud’e ccrudo, 3 senza casa e ttetto,
tu che mmetti li cònzoli in palazzo.
Se raccapezza
inzomma sto buscetto,
già che mmó è nnotte, e cqui nun vedo un cazzo 4
che t’impedischi d’arifajje er letto?
«Chi
è?» «Amici». «Favorischi puro: 1
Entri drento, lustrissimo». «Addio, Tacchia».
«Oh ggente! sto paino 2 c’aricacchia, 3
lui mette er chiodo, e la padrona er muro. 4
Er povero sor
Conte st’osso duro
nun vorrebbe iggnottillo, 5 ma ss’abbacchia. 6
Già cc’ha arzato le penne de cornacchia,
nun vò ffà rride er monno, io me figuro.
Pe mmé nnun
parlo mai, perch’ho pprudenza:
che ssi vvolessi dí, cce n’ho, Mmadonna!,
d’empinne un cassabbanco 7 e ’na credenza.
Bbasta,
l’amico ch’è mo entrato, affonna; 8
lui 9 abbozza; 10 ma llei ch’è dde cuscenza,
a uno la fa cquadra e all’antro tonna». 11
Ma che te vôi
sônà, si nun zei bbona
manco a mmaneggià er pifero a la muta?!
Ma che te vôi ggiucà, mmó cche pportrona
nun zai bbatte né ffà la ribbattuta?! 2
Ma che tte
vôi succhià, Ciucciamellona, 3
si nun risputi mai quanno che sputa?!
Ma che tte vôi sperà?! Nun zai, cojjona,
che nun l’ajjuta Iddio chi nun s’ajjuta?
Datte l’anima
in pace; e li pelacci
che nun ponno vedé piú mmarachelle, 4
sarvali pe rrippezzi de setacci. 5
E si
pporta-leone 6 nun t’arrubba,
un tammurraro 7 te vò ffà la pelle,
pe rrimette li fonni a ’na catubba. 8
Cuanno cuela
bbon’anima d’Annotta
ebbe l’urtima frebbe e stiede male,
pe avé ll’ojjo de ríggini 1 che sbotta 2
vorzi curre da mé dda lo spezziale.
E cco la cosa
3 ch’er Cumpar Natale
m’ha ttienuto a bbattesimo Carlotta,
acquàsi ne cacciò mmezzo-bbucale,
e mme lo vorze dà ffresco de grotta.
Ma
cch’edè e cche nun è, 4 du’ ora doppo
lei sentí ggran dolori a le bbudella,
e scaricò tamanto de malloppo. 5
E ppoi da
mmerda in merda, poverella,
bbisogna dí che ll’ojjo fussi troppo,
morze, salute a nnoi, de cacarella. 6
Ce sò
a sto monno scerte teste matte
de cristianacci che nun hanno fede,
che vonno attastà tutto e ttutto véde: 1
ddi’ Ssantomassi inzomma e ppappefatte.
Ste testacce
che ar muro le pòi sbatte
prima peccristo che le vedi scède, 2
c’averemo da entrà nun zanno créde 3
tutti drento a la Val-de-Ggiosaffatte.
Ma io che ho
ffede e cche nun zò ccojjone
je fo vvedé ch’entrà ttutti sce ponno,
portannoje a ccapí sto paragone.
Ch’io cqui
ddereto in cuer buscetto tonno
ciò ssito d’alloggià ttante perzone
cuante n’ha rette e ne pò arregge er monno.
Starebbe
ccqui dde casa una largazza, 1
che jje dicheno Ciscia Scola-nerbi?
Ebbè, io sò lo scarpinel de piazza,
mastro Grespino de-li-culi-ascerbi, 2
che jj’ho da
mette un paro de spunterbi 3
a ’na su’ sciavattella 4 pavonazza;
e doppo je dirò cquattro proverbi,
s’in ner lavore mio nun me strapazza.
Presempio:
Omo incazzito 5 è un merlo ar vischio.
La donna è un cacciator de schiopperete 6
che vva a ccaccia cojjoni senza fischio.
Pelo de
sorca, gola de crastato, 7
ugna de gatto, 8 e cchirica de prete,
quanno pisceno a letto, hanno sudato. 9
Quela bbona
limosina 1 d’Irena
m’ha mmesso a tterra m’ha, mm’ha arruvinato.
Quanno a mmarenna, quanno a ppranzo e a ccena,
le pennazze dell’òcchi m’ha maggnato.
E ggià
che mm’è arimasto er core e ’r fiato,
(sia bbenedetta Maria grazzia prena)
pe nnun dormí la notte a la serena
me toccherà ingaggiamme pe ssordato.
Tra ccarne e
ccorne, e ttra ttant’antri guai,
me sce mancava adesso er tiritosto 2
der chivvalà cche nun l’ho ddato mai.
Abbasta, si
mme vôi, 3 passa dar posto
de Scimarra, 4 e llí ssú mme vederai
co la cuccarda der mezz’ovo tosto. 5
Scannello, er
mascellaro c’ha bbottega
su l’imboccà ddell’arco de pantani,
nun basta che ssu’ mojje nu la frega,
la vò ppuro trattà ccome li cani.
Li mejjo nomi
sò pputtana e strega:
la pista a manriverzi e a ssoprammani:
e arriva a la bbarbària che la lega
peggio d’un Cristo in man de luterani.
E ddoppo
dà de guanto ar torciorecchio
e jje ne conta senza vede indove
quante ne pò pportà ’n’asino vecchio.
E ttratanto
er governo nun ze move,
e llassa fà che cco sto bbello specchio
naschino sempre bbuggiarate nove.
Ch’edè,
sor testicciola de crapetto?
Da sí cche 1 vvostra mojje annò a Ssan Rocco, 2
avete arzato un’aria de sscirocco
e un muso duro da serciate
Parlo co
vvoi, eh sor cacazibbetto: 4
volet’êsse chiamato cor batocco?
Co ttutto che 5 ssapemo de lo stocco
che ttienete agguattato in ner corpetto.
Sor
pioviccica 6 mia, qui nun ce piove:
potressivo cavavve la frittella: 7
tanto avete la testa in Dio sa ddove.
Ma lo sapemo
che ttienete quella
drento a la torre de Capo-de-bbove
coll’antra de Sciscilia Minestrella. 8
Sò
cquattro mesi sette giorni e un’ora,
si 1 tt’aricordi, che pijjassi 2 mojje;
e già a cquesta je viengheno le dojje
e un mammoccetto vò pissciallo fora?!
Cancheri che
ppanzetta fijjatora!
Si ssempre de sto passo je se ssciojje,
te sfica tanti fijji quante fojje
ponno bbuttà le scerque
Beato te cche
vedi a sti paesi
certi accidenti novi de natura
che nun ponno vedé mmanco l’Ingresi!
Uà:
5 cch’è stato?! Nun avé ppaura.
Un’ora sette ggiorni e cquattro mesi
sò passati, e vviè fora la cratura.
Rosa der
froscio 1 sò ’na bbagattella
de sei ggiorni e ssei notte che nun caca.
Io je l’ho ddetto: «Pijja la trïaca». 2
M’hai dato retta tu? Bbe’, accusí cquella.
Ma un giorno
o ll’antro l’hai da véde bbella
quanno da oro se farà 3 ttommaca. 4
Allora quer zor corna-de-lumaca
der marito je soffi a la bbarella.
Io lo vedde
iersera a Ssant’Ustacchio
che stava sbattajjanno der piú e ’r meno
sur un ciorcello 5 e sur un mezz’abbacchio.
Je fesce:
6 «Eh, dico, o de pajja o de fieno,
sibbè cche Rrosa nun pò pprenne un cacchio, 7
voi er budello lo volete pieno».
Ho vvorzuto
dà un zompo cquì ar Bisscione 2
pe vvède come stava Cudicuggno,
che se tiè ’na risìpila da ggiuggno
pe pportà lo stennardo in priscissione.
Poveraccio!
fa ppropio compassione.
Pare c’ar naso ciàbbi avuto un puggno.
L’occhi nun je se vedeno, e cor gruggno
somijja tutto-quanto a un mascherone.
Beve er
tremor de tartero in bevanna;
e ’ggni ggiorno je fanno un lavativo
d’acqua de fonghi, capomilla e mmanna.
Uhm!, pe mmé,
buggiarallo; ma si arrivo
a vedello guarito, lo condanna
er brodo de marvone e ssemprevivo.
Voi sapé cche
ccos’è cche jje dà in testa
ar fijjo de la mojje de Pascuale?
Vôi sentí cche ccos’è cche jje fà mmale?
Sta cosa sola: er zugo de l’agresta. 1
Sii vino
bbono, o mmezza-tacca, 2 o ppesta,
nun ze n’esce mai meno d’un bucale.
Je fa er vin de Ripetta, 3 er padronale 4…
bbasta je monti a ingalluzzí la cresta.
Er zu’
padrone jerassera aggnede
a mmétteje su in mano un cornacopio,
perch’era notte e cce voleva vede.
Nun ze lo
fesce cascà ggiú? cché proprio
era arrivato, 5 e ss’addormiva in piede
come avessi maggnato er Grano d’opio. 6
E ppe cquer
panza gonfia de spedale,
pe cquer mulo futtuto, eh sora Nanna,
ve sciannate a spregà sto fior de manna?
Fidateve de me, voi fate male.
Che vvino
furistiero e vin nostrale!:
dateje da ingozzà bbrodo de jjanna: 1
dateje vin de fregna che lo scanna
a sto gruggno de vesta d’urinale.
Cosa bbeveva
cuanno da regazzo
scardazzava la lana a sammicchele? 2
Acqua de pozzo e vvino de melazzo. 3
Pe mmé
ddirebbe 4 un zuccherino, un mele
cuanno se dassi a sto faccia de cazzo,
come a nnostro Signore, asceto e ffele.
Pe llui vin
de castelli, 2 e ppe mme asceto:
duncue a llui tutta porpa, e a me tutt’osso:
lui sempre a ggalla, io sempre in fonno ar fosso:
bella ggiustizia porca da macchieto! 3
M’ho da
fà mmette un po’ de mane addosso,
ficcammelo a su’ commido dereto;
e ppoi puro in catorbia, 4 e stamme quieto:
cose, peddío, da diventacce rosso! 5
Lui ha
d’aringrazzià ddio bbenedetto
ch’io sò cristiano, e nun ho ccore cquane 6
de fà mmale nemmanco a un uscelletto.
M’abbasteria
c’a sto fijjol d’un cane
l’accoppassi un ber furmine in guazzetto:
accusí cce pò intigne un po’ de pane.
Saette puro a
st’antra gargottara:
m’intenno de Sant’Anna in borgo-Pio.
Pare che ttutto, cuanno sce sò io,
s’abbi da sfotte 2 e dda finí in caggnara.
S’aveva da
crompà du’ par de para
de lampanari e mmazze da un giudio:
oggni fratello vorze 3 fà una tara,
e ssore mazze e llampanari addio.
L’orgheno
sfiata: nun ce sò ccannele:
li bbanchi sò tarlati attorno attorno:
s’hanno d’arippezzà ttutte le tele...
Ebbè,
se sciarla, e nun ze striggne un corno.
Già, ddisce bbene er Mannatar Micchele:
co ttanti galli nun ze fa mmai ggiorno.
Questo pe
Cchecco: in quanto sii poi Teta,
nun me la pôzzo disgustà, ssorella.
Biggna 1 che mme la còccoli, 2 ché cquella
sa ttutte le mi’ corna dall’A ar Zeta.
L’ho dda
sbarzà?! 3 Tte la direbbe bbella!
E indove ho da mannàmmela? A Ggaeta,
dove le donne fileno la seta,
e ll’ommini se spasseno a ppiastrella?
Iddio che nun
vô ar monno uno contento
me l’ha vvorzuta dà ppe ccrosce mia,
perch’io nun averebbe antro tormento.
Con chi l’ho
da pijjà? ’ggna che cce stia
e che ddichi accusí, mettenno drento: 4
fiàtte volontà stua e cussí sia.
Dàjje
anza tu, ffa’ cquer ch’Iddio t’ispira,
ma ppoi nun te lagnà cquer che ddiventa.
Quanno in casa uno tira e ll’antro allenta,
un giorno ha da viení che sse sospira.
Povera Nina
tua tribbola e stenta
pe smorbinallo, e ttu jj’attizzi l’ira!
Quanno in casa uno allenta e ll’antro tira,
se frigge un ber pasticcio de pulenta.
Si un remo
scede quanno l’antro incarca,
doppo fatto un tantin de mulinello
se va a ffà bbuggiarà ttutta la bbarca.
Viè
sur passo a Ripetta oggi a vedello:
eppoi di’ a cquer zomaro de la Marca
che cchi cconsijja l’antri abbi sciarvello.
Servo, sor
Tajjabbò e la compaggnia!
Ché, annate a ffà un giretto ar culiseo?
A pproposito, è vvero che Mmatteo
v’ha mmannato Noscenzo
Avessi creso
che jje disse quann’era er giubbileo,
nun ze saría mo ttrovo in sto scangèo 4
de fàsse scortellà pe ggallaria. 5
Ma
ggià che cc’è ccascato in ner malanno,
adesso, sor Cirusico mio caro,
l’ariccommanno a vvoi, l’ariccommanno.
Nun l’avete
da fà pe sto somaro,
ma pe cquelle crature che nun cianno
ggnente che ffà ssi er padre è un cicoriaro. 6
E cquer
grugno de scimminivaghezzi 1
dell’orzarolo, m’accusò ppe mmiscio! 2
Poi ha vvorzuto 3 arippezzalla 4 er griscio, 5
ma li rippezzi sò ssempre rippezzi.
Io l’ho
avvisato che nun ce s’avvezzi
a rifamme 6 mai ppiú sto bbon uffiscio,
si nun vô ssotto ar casaccone biscio 7
portà le spalle com’e pperi-mezzi. 7a
Pe mmé nun zo
che ggente mai sò cquelle
che ppòzzi 8 arillegralle 9 e fajje gola
er fà ar prossimo suo ste sciampanelle. 9a
Una cosa
perantro me conzola,
che ssi de tante e ppoi tante quarelle 10
me n’hanno provo 11 dua, grasso che ccola! 12
Bastardelli
futtuti, adess’adesso
si nun ve la sbiggnate 1 tutti quanti,
viengo giú, ccristo!, e vve n’ammollo 2 tanti,
tutti de peso e cco la ggionta appresso.
Che sso! mmai
fussim’ommini de ggesso,
da piantà llí cco la fronnetta avanti!
Guarda che sconciature de garganti! 3
Fùssiv’arti 4 accusì ttanto è l’istesso.
È
ggià da la viggilia de Sanpietro
che vve tiengo seggnati uno per uno
pe ggonfiavve de chicchere er dedietro.
Pregat’Iddio,
fijjacci de nisuno,
pregat’Iddio d’arisfassciamme un vetro,
e vvedete la fin de sto riduno.
Nun me
vò ppiú ppijjà? cche se ne stia.
E ppe cquesto mó ccasca ponte-rotto?
Nun me vò ppiú? Vadi a fà ddàsse 1a un bôtto:
nun m’è ssonata a mmé la vemmaria.
Sò
ssempre fijja de l’azzione mia:
sò zzitella onorata, e mme ne fotto.
Mó cche sto in lista a la dota der lotto,
chi nnò la madre me darà la fia.
De scerto me
sciammalo! e ssò ccapasce
de stiracce le scianche da la pena,
Dio l’abbi in grolia, e requieschiatt’in pasce.
Dijje intanto
pe mmé: «Llena mia Lena,
sto core sta in catena»; e ssi jje piasce,
che ll’ho in ner culo, e cche ll’aspetto a ccena.
«Sor
Conte...» «In grazia, chi?...». «Vostr’accellenza
che! nun m’ariffigura?» «...Non m’inganno...».
«Tãccāgna». «Ah, sì: e di dove?» «Da Fiorenza».
«Che siete stato a farvi?» «Er contrabbanno».
«Buono!. Ed
or...?» «Servo er Papa». «In quale essenza?»
«De sordato». «E da quanto?» «Eh, mmuffalanno». 1
«In qual’armi servite?» «Culiscenza, 2
Reggimento Canajja 3 ar zu’ commanno».
«Cioè?»
«Guardia-d’onor-de-pulizzia».
«Corpo di poco onor». «Ma cce se maggna».
«Dunque, siete contento». «Eh, ttiro via».
«Dove state?»
«A Marittimo-e-Ccampagna». 4
«Ma ora?» «Sto in promesso
«Ed abitate sempre... » «A la Cuccagna». 6
«Addio,
dunque, Taccagna».
«Voria bascià la mano...». «Oh! un militare!
Nol permetterò mai». «Come ve pare».
Cuanto saría
mejjo pe vvoi, sor tappo, 2
d’ariscode le vostre 3 e pportà via:
o mommò li cojjoni io ve l’acchiappo
pe llevamme ’na bbella fantasia.
Che vvolete
ggiucà che vve li strappo,
e cce fo un fritto de cojjoneria?
E ddoppo, tela, gamme in collo, 4 e scappo
e vve li vado a rricrompà
Ma
ggià, che sserve de bbuttà sta spesa,
cuanno sc’è mmodo e verso d’aggiustalla,
senza arrischiavve a cantà er grolia in chiesa?
Ché o vve se
vienghi a rrifilà 6 una palla,
o ttutt’e ddua, nun ze pò favve offesa,
tanto 7 è una marcanzía tutta la bballa.
Santi 1
che va a strillà cco la cariola 2
nocchie rusicarelle 3 e bbruscoletti, 4
che jer l’antro sce diede li confetti
pe avé ppresa la fijja de Sciriola;
dio
s’allarga, 5 peddio, la fischiarola!, 6
come vorze 7 infroscià 8 li vicoletti,
s’impiastrò immezzo a un lago de bbrodetti,
de cuelli che cce vô lla bbavarola.
Ecco cuer che
succede a ttanti ggnocchi
che nun zanno addistingue in ne l’erbajja
le puntarelle 9 mai da li mazzocchi.
Donna che
smena 10 er cul com’una cuajja, 11
se 11a mozzica 12 li labbri, e svorta 13
l’occhi,
si 13a pputtana nun è, ppoco la sbajja.
Nun te vôi
fà ttoccà? Vatte a fà oggne. 2
Tiette sù, ttiette sù, 3 pòzz’esse fritta!
Nun ze sapessi che tte lassi moggne 4
dar bocchino bbavoso der zor Titta!
Caso mai
fussi perché ttiengo l’oggne, 5
mó ppropio me le tajjo a la man dritta.
Manco?! accidenti a tutte le caroggne.
Saettacce a ’ggni scrofa che ss’affitta.
Senti come sa
ffà la mozzorecchia,
quante ne sa inventà pe ffasse arreto 6
sta scolatura de pilaccia vecchia!
Te vorrebbe
aridusce 7 cor un deto 8
ch’er piú ppezzo 9 de té fussi un’orecchia
fonno de morchia, visscido 10 d’asceto.
Nīna:
Nīnã. Ah, de carta! Oh Nīnã: Nīnã.
Indove sei, pôzzi morí crepata?
De scerto sta pettegola capata
ha da stà su in zoffitta o ggiú in cantina.
Te vienghi
’na saetta foderata,
dove se’ ita tutta stammatina?
Già in zónzola, se sa, co la viscina,
senza nemmanco dimme si’ ammazzata.
E mo nun me
ce ride?! quant’è ccara!
Alò, damme ’na scursa qui ar macello,
e, si cc’è, ddi’ accusí a la macellara:
«Sora
Diamira, ha dditto accusí mamma
che je mannate er vostro filarello
ché a cquello suo je s’è rotta ’na gamma».
Jer l’antro
ebbe 1b d’annà a li ggipponari 1
pe ruscì 1c verzo punta-de-diamante, 2
a crompamme un corpetto da un mercante,
che, disce Sgorgio, nu li venne cari.
Er padrone
era ito a li ssediari 3
a cercà un tajjo de pelle de Dante.
C’era un giovene 4 vecchio, ma ggargante 5
da fatte saccheggià li cortellari.
Io je disse
de damme sto corpetto;
e cquer faccia de grinze a mossciarella 6
me ne diede uno che nemmanco in ghetto.
Io bbúttelo
7 pe tterra. Er zor Brighella
se scalla er pisscio: 8 io te l’agguanto
E ssai come finí? Cco la bbarella.
E da capo
Maghella! A ssentí a tté
chi nun diría che mm’hanno da impiccà?
Oh cammínete a ffà strabbuggiarà:
male nun fà, pavura nun avé.
E che mme
frega li cojjoni
si 2 er bariscello 3 me sce vò
acchiappà?!
Prima, cristo!, che mm’abbi da legà,
l’ha da discurre cor un certo ché.
Anzi, come lo
vedi, dijje un po’
che Peppetto lo manna a rriverì,
pregannolo a risceve un pagarò.
Questo
è de scentodua chicchericchì, 4
che si me scoccia piú li C, O, cò,
presto se l’averà da diggerì.
Ma cchi
ddiavolo, cristo!, l’ha ttentato
sto pontescife nostro bbenedetto
d’annàcce
quella grazzia-de-ddio che Iddio scià 3 ddato!
La sera,
armanco, 4 doppo avé ssudato,
s’entrava in zanta pace in d’un buscetto 5
a bbeve 6 co l’amichi 7 quer goccetto,
e arifiatà 8 lo stommico assetato.
Ne pô
ppenzà de ppiú sto Santopadre,
pôzzi avé bbene 9 li mortacci sui
e cquella santa freggna de su’ madre?
Cqui nun ze
10 fa ppe mmormorà, ffratello,
perché sse 10 sa cch’er padronaccio è llui:
ma ccaso lui crepassi, 11 addio cancello. 12
Er vino
è ssempre vino, Lutucarda:
indove vôi trovà ppiú mmejjo cosa?
Ma gguarda cquì ssi cche ccolore!, guarda!
nun pare un’ambra? senza un fir de posa!
Questo
t’aridà fforza, t’ariscarda,
te fa vviení la vojja d’esse sposa:
e vva’, 1 si mmaggni ’na quajja-lommarda, 2
un goccetto e arifai bbocc’odorosa.
è bbono asciutto, dorce, tonnarello,
solo e ccor pane in zuppa, e, ssi è ssincero,
te se confà a lo stommico e ar ciarvello.
È
bbono bbianco, è bbono rosso e nnero;
de Ggenzano, d’Orvieto e Vviggnanello:
ma l’este-este 3 è un paradiso vero!
Sai chi
ss’è rriammattito? Caccemmetti:
e ’r padrone, c’ha ggià vvisto la terza,
l’ha mmannato da Napoli a la Verza, 1
pe rrifajje passà ccerti grilletti.
Lí
pprincipiò a sgarrà tutti li letti,
dava er boccio
ma mmó ttiè tutte sciggne pe ttraverza,
e ccià er muro arricciato a cusscinetti.
Che vvôi! Nun
t’aricordi, eh Patacchino,
che ggià jje sbalestrava er tricchettracche 3
sin da quanno fasceva er vitturino?
Che ccasa! Er
padre e ddu’ fratelli gatti; 4
la madre cola, 5 e ttre ssorelle vacche:
e ttra ttutti una manica de matti.
Er cavarcante
novo der Marchese
è aritornato in giú co li cavalli,
e ha rriccontato che da quasi un mese
er matto dà li luscid’intervalli.
Eh,
ggià sse sa cc’a mmostaccioli, a bballi,
mattería, maccaroni e mmal francese,
se sa che a ttrippa verde e a ggruggni ggialli
nun c’è da stacce appetto antro paese.
E ppe cquesto
ho ppaura ch’in nemmanco
de ’n’antra settimana ar cucchieretto
j’è aritornato ar posto er fritto-bbianco. 1
Ma
inziememente ancora sce scommetto,
si ppassa da cassetta ar cassabbanco, 2
che vva da capo a svorticasse er tetto. 3
Stammatina a
San Neo Luca er facocchio
s’è arrisicato a sentí mmessa accanto
a cquer ladraccio d’usuraro santo,
che cquanno schiatta hai da sentí lo scrocchio!
Ecchete a
l’improviso a sto santocchio,
ch’è ccatarroso a nun poté dì cquanto,
j’incomincia la tossa, e, in tossì tanto,
bloà, schizza a Luca un’ostrica in un occhio.
Luca che
vvede er lampo e sente er botto
tutt’in un corpo assieme co l’impiastro,
attaccato un perdio je se fa ssotto.
E, ssi nun
era quer portapollastro
der chirico, coll’ojjo der cazzotto
metteva er boccio in un gran brutto incastro.
Uhm! bella,
bbella! cuanno è ’na scert’ora,
nun è ppoi Nastasía tutto st’oracolo. 1
È ccento vorte piú bbella Lionora,
e ggnisuno la tiè per un miracolo.
Cos’ha dde
raro? Er culo è ’no spettacolo,
tiè ddu’ occhi de gatto e un dente in fora:
e ddillo tu si nun è un antro stàcolo 2
cuer fiato puzzolente che tt’accora.
Nun fo ppe
ddí, ma cco sta donna bbella,
co sta puttana, co sto pezzo raro
nun ce bbaratterebbe una sciafrella. 3
Sai cuer che
mm’hai da dí, Nofrio mio caro?
Che ssi ha vvent’anni soli a la bbardella, 4
ruga co la bbellezza der zomaro. 5
Nun ce
vò mmica l’argebra a ccapillo
pe ccosa Nofrio mette in celo a cquesta
donna bbissodia, 1 e jje fa ttanta festa,
bbè cche, ssiconno me, vale uno strillo. 2
Vienghi una
scimmia co la scuffia in testa,
lui subbito ce mette ostia e siggillo: 3
e a cquesta vonno (nun sta bene a dillo)
j’abbi sgrullato er farpalà
Co ddu’
parole ecchete ssciorto er nodo
de Salamone: e, ssenz’avecce rabbia,
de vedello incescito, 5 anzi sce godo;
mó llui zappa
sta Vènera, e la stabbia;
ma ppresto, a ffuria d’aribbatte er chiodo,
s’ha da trovà come l’uscello in gabbia. 6
Oggi quer
zeppo de Padron Zarlatta,
lui coll’antro bbidello a la Sapienza
che ddietr’ar collo tiè tanta de natta,
m’hanno fatto portacce una credenza.
Ce sta lí drento
una gran rota, senza
razzi, tra du’ cusscini, e ttutta fatta
de vetro; e pe bbarile cià in cusscenza
quer manico c’ha ll’omo in de la patta.
Come se fa,
nun n’ho capito un ette:
ma ddicheno che avanti a ’na colonna
serve a ccompone furmini e ssaette.
Eppuro
paghería, corpo de Nonna,
de sapé cquanno ggiucheno a ttresette
si er primo è mmaschio e la siconna è ddonna.
La santarella
appiccicata ar muro,
la bbizzochella de commare Checca
da tre ggiorni me cúnnola 1 e mme lecca; 2
ma io nun gonfio, 3 e mme sò messo ar duro.
Ce fa la
gonza, 4 e mme sce tiè a lo scuro,
come vienissi adesso da la mecca!
Si 5 bbastone nun è ssarà battecca,
ma mme l’ha ffatta o la vô ffà ssicuro.
Ghiggna,
6 me fa la ronna, 7 se 8 strufina,
arza l’occhi, l’abbassa, se 9 tiè er fiato,
che ppare er gioco de passa-e-ccammina.
Ma ppoi se
10 sa la fin der Comparato:
cor un piggnolo e un po’ de passerina 11
è ffatto er connimento a lo stufato.
Er Ziggnore
è una cosa ch’è ppeccato
sino a ccredese indegni 1 de capilla.
Piú indiffiscile è a noi sto pangrattato, 1a
che a la testa de david la sibbilla. 2
A Ssanta
Potenziana e Ppravutilla, 3
me diceva da ciuco er mi’ curato
ch’è ccome un fiàt, un zoffio, una favilla,
inzomma un vatt’a-ccerca-chì-tt’-ha -ddato. 4
E ppe
spiegamme in tutti li bbuscetti
si ccome 4a Iddio ce se trova a ffasciolo, 5
metteva attorno a ssé ttanti specchietti.
Poi disceva:
«Io de cqui, vvedi, fijjolo,
faccio arifrette tutti sti gruggnetti:
eppuro 6 è er gruggno d’un Curato solo».
L’anno che
Ggesucristo impastò er monno,
ché pe impastallo ggià cc’era la pasta,
verde lo vorze 1 fà, ggrosso e rritonno
all’uso d’un cocommero de tasta.
Fesce un
zole, una luna, e un mappamonno,
ma de le stelle poi, di’ una catasta:
sù uscelli, bbestie immezzo, e ppessci in fonno:
piantò le piante, e ddoppo disse: Abbasta.
Me scordavo
de dì che ccreò ll’omo,
e ccoll’omo la donna, Adamo e Eva;
e jje proibbì de nun toccajje un pomo.
Ma appena che
a mmaggnà ll’ebbe viduti,
strillò per Dio con cuanta vosce aveva:
«Ommini da vienì, ssete futtuti».
Tu
mm’addimanni
a li su’ tempi la casta Susanna.
Che vvôi che t’arisponni
Bisoggnerebbe dillo
Ma ccerto
cuella vorta che in funtana
l’acchiapponno 6 li bbocci
se pô rride 8 d’accusa e de condanna
ch’entrassino 9 li lupi in de la tana.
Che vvôi che
sse fascessi 10 de du’ vecchi
co cquelle sscimmesscimme-cose-mossce?
Nun je la vorze 11 dà: díllo, e cciazzecchi. 12
Ma ssi 3
la donna tu la vôi conossce,
métteje 13 avanti un par de torciorecchi,
eppoi guardeje 13 er gioco de le cossce.
Semo da capo.
Hai detto tante vorte
che pe tté nun c’è ar monno antro che Gghita.
Sempre ggiuri e spergiuri che la morte
sola pe mmé te pò llevà la vita.
E ggià
scassi, e arïochi 1 la partita,
e m’aritorni a ffà le fuse-torte. 2
Ma io cojjona carzata e vvestita
che mme fido d’un cane de sta sorte!
Mamma
bbè mme lo fesce er tu’ ritratto,
discenno c’avé ar core scento stilli
è mmejj’assai che mmette amore a un matto.
Ma zzitto,
zitto: che sserve che strilli?
Già lo so er bene tuo si ccome è ffatto:
è ffatto quanno a tordi e cquanno a ggrilli.
Hai fatto er
pane in casa 1 eh pacchiarotta? 2
parla, racchietta 3 mia friccicarella. 4
Perch’io t’allumo 5 ccqui sta bbagattella
de patume 6 all’usanza de paggnotta.
La pasta
smaneggiata viè ppiú jjotta, 7
dunque lasseme dà 8 ’na manatella; 9
eppoi fàmme assaggià la sciumachella 10
c’hai ’nniscosta llí ggiú ccalla che scotta.
Io te do in
cammio 11 un maritozzo 12 fino
de scerta pasta scrocchiarella 13 e ttosta
che nun te la darebbe un cascherino. 14
Sto maritozzo
a mmé ccaro me costa,
e tte lo vojjo dà ssenza un quadrino: 15
anzi de ppiú cciabbuscherai la posta.
Quest’era pe
la ggiostra e li fochetti
come se fa oggiggiorno da Corea. 1
C’ereno attorno ccqui ttutti parchetti,
lassú er loggiato, e immezzo la pratea.
Eppoi
fàtte inzeggnà da Mastr’Andrea
er butteghin de chiave e dde bbijjetti,
er caffè pe ggelati e llimonea,
e scale, e rrimessini, e ttrabbocchetti.
Oh, la
viacrusce l’hanno messa doppo,
perché li Santi martiri ccqui spesso
c’ebbero da ingozzà ccerto ssciroppo.
Co un po’ de
sassi e un po’ de carcia e ggesso,
lassa che jje se dii quarche arittoppo
e un’imbiancata, e ppô sserví anc’adesso.
E nnò
ssortanto co mmajjoni e ttori
ccqui se ggiostrava, e sse sparava botti,
ma cc’ereno cert’antri galeotti
indifferenti dalli ggiostratori.
Se chiamava
sta ggente Gradiatori
e ll’arte loro era de fà a ccazzotti.
Ste panzenére co li gruggni rotti
daveno assai da ride a li Siggnori.
Un de sti
bbirbi, e mme l’ha ddetto un prete,
cuscinò 1a cor un puggno un lionfante,
eppoi se lo maggnò, ssi cce credete!
Je danno nome
o Melone o Rugante: 1
ma, o ll’uno o ll’antro, mai 1b tornassi 1c a mmete
2
nu lo vorrebbe un cazzo appiggionante.
Nun
c’è da repricà: ll’antichi puro
ereno bboni e ppopolo devoto.
Pregaveno li santi addoss’ar muro
de scampalli da guerra e tterremoto.
Si de sto
fatto nun vôi stà a lo scuro,
oggi fascemo un tantinel de moto,
e annamo a un tempio antico de sicuro
che sse seguita a ddí dde Santo Toto. 1
Quanno le
cose, Pippo, le dich’io,
t’hai da capascità che ssò vvangeli,
ché tu cconoschi er naturale mio.
Ner mi’ ovo,
ehèe, nun ce sò ppeli;
e tte saprebbe a ddí ssi ccome Iddio
fesce pe ffrabbicà li sette-sceli.
Ar tempo de
l’antichi, in Campidojjo,
dove che vvedi tanti piedestalli,
quell’ommini vestiti rossi e ggialli 1
c’ingrassaveno l’oche cor trifojjo.
Ecchete che
’na notte scerti galli
viengheno pe ddà a Roma un gran cordojjo:
ma ll’oche je sce messeno uno scojjo,
ché svejjorno un scozzone de cavalli.
Quell’omo,
usscito co la rete in testa
e le mutanne sole in ne le scianche,
cacciò li galli e jje tajjò la cresta.
Pe cquesto
caso fu che a ste pollanche
er gran Zenato je mutò la vesta,
ch’ereno nere, e vvorze fàlle bbianche.
Viscino ar
Culiseo, 1 tra li cantoni
de li fienili de Padron Vitale,
’Ggnazzio, sce troverai sette stanzioni,
c’abbiteressi mejo a lo spedale.
Vonno che
llí, si nun ho inteso male,
a cquer tempo de ddio de li Neroni
se fascessi la frabbica der zale 2
pe cconní le coppiette 3 e li capponi.
E mmó mme
viè un’idea! che llí, per bacco,
chi ssa che nun ce fussi er zito puro
pe ttutto er magazzino der tabbacco? 4
Guasi guasi
lo tiengo pe ssicuro:
ma mmo cche vvado a ricuscimme un tacco, 5
per dina che lo so, ssi mme ne curo.
Cuello che
tte viè in faccia mezzo nero
cuanno se’ appiede de la cordonata, 1
è ll’arco lui de Sittimio s’è vvero, 2
ché pò esse che ssii ’na bbuggiarata.
Oh vvedi che
ccrapiccio de penziero,
vedi si cch’idea matta sconzagrata,
de nun annallo a ffrabbicallo intiero,
ma co una parte mezza sotterrata!
E nun t’hai
da ficcà nner cucuzzolo 3
ch’io te viènghi cquì a ddì ’na cosa ssciàpa 4
e a ddatte ’na stampella pe mmazzòlo. 5
Me l’aricordo
io che nnun zò rrapa 6
che pprima se vedeva un arco solo,
e ll’antri dua ce l’ha scuperti er Papa. 7
Nun
fuss’antro pe ttante antichità
bisognerebbe nassce tutti cquì,
perché a la robba che cciavemo cquà
c’è, sor friccica 1 mio, poco da dí.
Te ggiri, e
vvedi bbuggere de llí:
te svorti, e vvedi bbuggere de llà:
e a vive l’anni che ccampò un zocchí 2
nun ze n’arriva a vvede la mità.
Sto paese, da
sí cche 3 sse creò,
poteva fà ccor Monno a ttu pper tu,
sin che nun venne er general Cacò. 4
Ecchevel’er
motivo, sor monzú,
che Rroma ha perzo l’erre, 5 e cche pperò
de st’anticajje nun ne pô ffà ppiú.
Che odor de
puzza! Puhf! Loffe 1a ariposte!
Avvisi sordi de scorreggia 1a muta!
Senti si 1 cche pprofumi d’ovatoste!
E pporti st’acqua de melissa, eh Tuta?
Ner cul de
’na piluccia ggiú dall’oste,
fatte pistà un tantin d’erba fottuta,
co ’na pera spadona in de le coste,
seme de tuttocazzo, ojjo, ajjo e rruta.
Sò
mmano-sante 2 puro 3 un manganello,
una stanga de porta de cantina,
o una cavola presa a un caratello.
La prima
tù a ssentí sta cantarina 4
sei stata? A cquesto c’è un proverbio bbello,
che disce: Cunculina cunculina… 5
Nun fà
6 l’innocentina:
quanno dereto a nnoi tôna o llampeggia,
se 7 dice chiaro: ho ffatto una scorreggia.
Nun ce pijjate
un cazzo 1 pe sta tossa
che vve sfiata le canne all’orghenetto?
Pe ccarità, che ssi vve passa in petto,
la bbava ggialla se pò ttiggne rossa!
Povera
sor’Usebbia! Un’antra sbiossa 2
che vve sturi, dio guardi, er cuccometto,
nun ze 3 pô mmai sapé, vve s’empie er letto
d’inguento cavarcato a la disdossa.
Bbasta, si
ccaso ve scappassi un raschio
senza liscenza delli suprïori,
fa bbene er latte de l’uscello 4 maschio.
Anzi a mmé
mm’è vvienuto oggi de fori
un lavativo, ch’è capace, caschio! 5
de schizzavvelo inzino all’interiori.
Co questi
arifreddori
nun z’ha da perde tempo; Usebbia mia:
bisogna dajje dietro e ttirà vvia.
Gran
contrasto de venti oggi se sente:
ciaddomina perantro lo scirocco!
Guarda come cquà e llà scappa la ggente
pe ppaura ch’er tempo arzi lo scrocco!
Ma er
temporale nun sarebbe ggnente
sino che le campane hanno er batocco:
er malann’è che st’arie d’accidente 1
ponno appestacce in barba de san Rocco.
Lo so
bbè io, che mme ce sò incontrato
dove un lebbeccio straportò una pesta
propio de quelle da levatte er fiato.
Se stava a la
parrocchia, e ffu de festa:
e lo pò ddí la serva der curato,
ché cquer vento j’arzò ssino ha vesta!
Si tte
bbastarda l’animo de fallo,
mulacciame sta scarpa, bbella fijja;
ché ssu sto deto me sc’è nnato un callo
piú ttosto der tu’ corno de famijja.
Sto callaccio
’ggni tanto m’aripijja,
e nun me so arisorve de tajjallo.
Ammalappena ho ffatto un par de mijja,
me te dà ccerte fitte che ttrabballo.
Tu che in
logo de lingua hai ne la bbocca
lo stuccio d’un bon par de forbiscette,
me serviressi tu, bbella pasciocca?
Sfileme li
carzoni e le carzette
pe ppreparatte a ffà cquer che tte tocca;
eppoi doppo ggiucamo a ccaccia e mmette.
Sta somaraja che
ssa scrive e llegge,
sti teòlichi e st’antre ggente dotte,
saria mejjo s’annassino a ffà fotte
co li su’ libbri a ssôno de scorregge.
Oh vvedi,
cristo, si cche bbella legge!
Dà le corne a li spigoli la notte: 1
sudà l’istate come pperacotte:
e l’inverno p’er freddo nun arregge! 2
Er vento
bbutta ggiú, ll’acqua t’abbagna,
te cosce er zole; e, ppe ddeppiú mmalanno,
senza er priffete 3 un cazzo 4 che sse maggna!
E cco
ttutti li studi che sse sanno,
a sta poca freggnaccia de magaggna
nun cianno 5 mai da rimedià nun cianno!
In ner mentre
aspettavo si er padrone
volessi la carrozza o ttornà a ppiede,
stavo all’apparto de li bbusci
’na fetta de commedia a Ttordinone.
De llí a un
po’ venne sú dda lo scalone
un paino scannato 2 pe la fede,
discenno a un antro: «Nun lo vonno crede,
ma a Ddavide 3 nun c’è ppiú pparagone.
La vorta che
ffu cquì prima de questa,
cacciava, come ttutti li tenori,
note de petto, e mmó ssolo de testa».
«Dunque,
dimanno scusa a llorziggnori»,
io fesce 4 allora, «tutta sta tempesta
la potrebbeno fà ll’arifreddori».
Quanno pe
vvia de caricà la leggna
er viggnarolo me mannò a la viggna,
lui stava fora, e cc’era la madreggna
’na stacca 2 vedovella da gramiggna.
Quer commido
der cazzo e de la freggna
ce messe 3 vojja de grattà la tiggna.
Che bbella notte! Ma cquell’aria indeggna
m’attaccò ppoi ’na mmalatia maliggna.
Sai che mme
disse quer dottor da roggna
che vvà dar zempriscista a la cuccaggna? 4
«Quì cc’è una bbona frebbe!, e nnun bisoggna...».
Ma io, pe
nnun sentí ll’antra compaggna,
te l’azzittai 5 ccusì: «Ssora caroggna,
la frebbe è bbona? annàtevel’a mmaggna».
Vôi sapé cchi
è sto medico dell’oggna, 1
ch’io nun faria castracce una castaggna?
È cquer tufo, 1a quer fijjo de caroggna,
che vvenne ccqui da Strongoli a ppedaggna, 1b
Principiò,
ppe strappalla, 1c a ddà l’assoggna 2
a le bbastarde 3 de piazza de Spaggna:
poi cor un ciarlatano annò a Bbirboggna
a ffà le paste frolle 4 de Raffaggna. 5
E ppe
l’appunto ar fatto de la viggna,
diventato dottore de la Zzuggna, 6
era tornato a mmedicà la tiggna.
Fu allora che
ppe via de la caluggna
che llui diede a la mi’ frebbe maliggna,
te j’atturai la bbocca co sta bbruggna. 7
Nun difenno
Caino io, sor dottore,
ché lo so ppiú dde voi chi ffu Ccaino:
dico pe ddí che cquarche vvorta er vino
pò accecà l’omo e sbarattajje er core.
Capisch’io
puro che agguantà un tortore 1
e accoppacce un fratello piccinino,
pare una bbonagrazia da bburrino, 2
un carciofarzo 3 de cattiv’odore.
Ma cquer vede
ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
e a le su’ rape je sputava addosso,
e nnò ar latte e a le pecore d’Abbele,
a un omo
com’e nnoi de carne e dd’osso
aveva assai da inacidijje er fele:
e allora, amico mio, tajja ch’è rosso. 4
Noè,
vvedenno in ne la viggna sua,
ch’era cas’-e-bbottega 1 ar zu’ palazzo,
la vita a spampanasse, 2 c’un rampazzo
pesava armeno una descina o ddua,
se spremé in
bocca er zugo de quell’ua,
e ddisse: «Bbono, propio bbono, cazzo!»
Ma nun essenno avvezzo a sto strapazzo,
n’assaggiò ttroppo, e cce trovò la bbua.
Quer zugo
inzomma fesce a llui lo scherzo
che ffa adesso a noantri imbriaconi
stramazzannoce in terra de traverzo.
E ccome lui
cascò ssenza carzoni,
ne la sagra scrittura ce sta un verzo
che disce: E mmostrò er cazzo e lli cojjoni.
Tu inzomma te
lo spenni pe sbrillacco 1
er giudizzio che ffesce Salamone?
Io sce voría vedé l’Abbate Sacco, 2
o er presidente nostro de l’urione! 3
Tramezzo a
ddu’ donnacce cannarone, 4
zuppo, 5 arrochito, 6 sscelonito, 7 stracco,
pe ttirà ffora er torto e la raggione
com’aveva da fà? Vvenne a lo spacco.
Perché, ttu
dichi, nun guardò ar casato
e ar nummero dell’anno e dder millesimo
in tutt’e ddua le fede der Curato?
Ecco mó
indove io te darebbe er pisto!
Dunque t’arriva novo, eh?, cche er battesimo
fu, doppo, un’invenzion de Ggesú Cristo?
Sta cchiesa
è ttanta antica, ggente mie,
che cce l’ha ttrova er nonno de mi’ nonna.
Peccato abbi d’avé ste porcherie
da nun essesce 1 bbianca una colonna!
Prima era
acconzagrata a la Madonna
e cce sta scritto in delle lettanie:
ma doppo s’è cchiamata la Ritonna
pe ccerte storie che nun zò bbuscíe.
Fu un
miracolo, fu; pperché una vorta
nun c’ereno finestre, e in concrusione
je dava lume er buscio de la porta.
Ma un Papa
santo, che ciannò in priggione,
fesce una Croce; e ssubbito a la Vorta
se spalanco da sé cquell’occhialone. 2
E ’r miracolo
è mmóne 3
ch’er muro cò cquer buggero de vôto,
se ne frega de sé 4 e dder terremoto.
Sto scervio
co sta crosce e co sta bboria
ch’edè? 1 Babbào! 2 ciazzeccherai dimani.
Viè cquà, tte lo dich’io: cuesta è ’na storia
der tempo de l’aretichi pagani.
T’hai duncue
da ficcà nne la momoria
c’a li paesi lontani lontani
sant’Ustacchio era un Re, ddio l’abb’in gloria, 3
c’annava a ccaccialepri 4 co li cani.
Un giorno,
tra li lepri ecco je scappa
un cervio maschio, accusí ppoco tristo,
che llui s’affigurò de fallo pappa. 5
Ma cquanno a
bbrusciapélo l’ebbe visto
co cquella crosce in fronte e in d’una chiappa,
lo lassò in pasce, e vvorze 6 crede a Ccristo.
C’avessimo?
2 un baril de vin asciutto, 3
du’ sfojje 4 co rragajji 4a e ccascio tosto, 5
allesso de mascello, 6 un quarto 7 arrosto,
e ’na mezza grostata: 8 ecchete tutto!
Ce fussi
stato un frittarello, un frutto,
o un piattino ppiú semprice e ccomposto!...
Cert’antra ggente che ce stiede accosto
c’ebbe armanco deppiú fichi e presciutto!
Si ppoi vôi
ride, mica pan de forno
ce diede, sai? ma ppagnottoni a ppeso,
neri arifatti 9 de scent’anni e un giorno.
Oh, tu
azzecchece 10 un po’ cquanto fu speso!...
Du’ testonacci
E cce vonno riannà? 13 Bravo, t’ho ’nteso! 14
E io che
mm’ero creso 15
d’impiegà un prosperuccio-lammertini, 16
ciò impeggnato a mmi mojje l’orecchini.
Mo ssenti er
pranzo mio. Ris’e ppiselli,
allesso de vaccina e ggallinaccio,
garofolato, 2 trippa, stufataccio, 3
e un spido 4 de sarsicce 5 e ffeghetelli.
6
Poi fritto de
carciofoli e ggranelli,
certi ggnocchi da fàcce er peccataccio, 7
’na pizza aricresciuta de lo spaccio, 8
e un’agreddorce de ciggnale 9 e ucelli.
Ce funno
peperoni sott’asceto
salame, mortatella e casciofiore,
vino de tuttopasto e vvin d’Orvieto.
Eppoi risorio
10 der perfett’amore,
caffè e ciammelle: e tt’ho llassato arreto
certe radisce da slargatte er core.
Bbè,
cche importò er trattore?
Cor vitturino che mmaggnò con noi,
manco un quartin 11 per omo: 12 e cche cce vòi?
O credece, o
nun credece, 1 e ppe cquesto
l’acqua nun vorà ppiú ccurre pe ffiume?
Quanno bussassi 2 io nun potei fà ppresto,
perché er vento de ggiú me smorzò er lume.
Tu
pperò co cquer birbo vassallume
de li parenti tui, nun dico er resto,
hai pijjato st’ancino 3 pe pprotesto 4
de famme un fascio co’ ttant’antre schiume.
Sí, è
vero, ce trovassi Zuzzovijja:
be’, da sto fatto che ne strigni? Oh guarda
si cche ccasi da fanne maravijja!
Me venne a
salutà pe Ggesuarda.
Ma tu, attacchino mio, crede a Cicijja,
sei l’urtimo a ttrattamme da bbusciarda.
Pe vvienimme
a pparlà fanno a l’aggara 2
donne tutte de garbo e obbrigazzione.
Me saluta Maria de lo scozzone,
la Chiappina e Lluscia la salumara.
E ttu, cco
cquer grostin de protenzione
de tienettela sú, 3 vacca somara,
saressi 4 mai la bbella Pulinara
che mmonta su la scala der pavone? 5
Inzin a jjeri
hai fatta la servaccia;
e mmó cche ssei, Dio guardi, er pissciatore
d’un Conte, soffi e mme ce sputi in faccia?
Ricordete
però cche cchi ssetaccia
fa ssemmola e ffarina. Er cacciatore
quanno pía 6 starne e cquanno storni a ccaccia.
Pe ffasse
strascinà 2 Mmenica zozza, 3
chi nu lo sa?, rinegheria la fede:
e tte fa spesce si mmó vva in carrozza?
Lasscia fà: ciarivedemo appiede.
Sin che ddura
la robba de Pressede
lei se la ride, se la sciala, e strozza. 4
Scorta 5 poi che ssarà, tu ll’hai da vede,
uf, 6 l’hai da vede piaggne a vvita mozza.
Cuella
bbenedett’anima requiesca
se sscervellava 7 pe arricchí er marito;
e llui se va a spiantà ppe sta ventresca!
Nun ze
n’accorge, mó cc’ha er fiasco empito;
ma llasselo aridusce 8 all’acqua fresca,
e a tte Ccannella
Ito che ffui co tté a la Nunziatella,
1
agnéde
pe strufinà ne la sagra scudella 3
sta coroncina d’ossi de scerasa.
De fĕdĕ
è cche per aria sii rimasa, 3
ma ggnisuno c’è degno de vedella;
e un anno ’na Reggina ficcanasa 4
ce perze l’occhi. Si cche ccosa bbella!
Bè,
llí a Maria Santissima, in ner mentre
disse: E cciancilla Dommine, er Ziggnore
je mannò ne la panza fruttusventre.
Eh? cche
ttibbi 5 de casa in cuella Cchiesa!
Oh vvà che sse trovassi un muratore,
da fanne un’antra pe cquant’oro pesa!
Come
sò st’omminacci, Aghita, eh?
Pareno cose de potesse dí?
Sin che nun te lo fai mettelo ccqui,
sò tutti core e ffedigo 1 pe tté.
Ma una vorta
che jj’hai detto de sí,
appena che jj’hai mostro si cc’or’è,
bbada, Aghituccia, e ffidete de mé
che te sfotteno er cane 2 llí per lí.
Ecchete la
mi’ fine co Cciosciò:
viè: ppare un santo, un fiore de vertú:
io me calo le bbraghe 3 e jje la do.
Ce sei ppiú
stata da quer giorno tu?
Accusí llui: da sí che 4 mme sfassciò,
Ggesú Ggesú nnun z’è vveduto ppiú!
Doppo quella
frebbaccia bbuggiarossa,
che a ffà tterra pe cecci era d’avanzo,
sto ggiuggno e llujjo, pe scampà la fossa
sò ito a mmutà aria a pportodanzo. 1
Maggnavo poco
a ccena e ggnente a ppranzo:
puro 2 de punt’in bianco 3 ebbe 4 una smossa,
che ssi ar guarí nun me se dà uno scanzo,
già aristavo llí llí ppe stirà ll’ossa.
Mo cc’agosto
ariviè ccapo d’inverno,
me n’aritorno a Rroma a ppijjà ffresco,
o ppe annamme a ffà ffotte in zempiterno.
Tu lo sai,
Schizza mia, ch’io sò ttodesco 5
vojjo svariamme, 6 e cquanno vinco un terno
vado ar perdon-da-Sisi a Ssan Francesco.
No ppe
ccristaccio, nun volemo un cazzo
sti bbaffetti pe Rroma in priscissione;
che vviengheno a ddà er zacco su a ppalazzo,
e a bbuggiarà la santa riliggione.
Ma er Papa
nostro, si nun è un cojjone,
ce l’ha dda fà vvedé cquarche rrampazzo! 2
Bast’abbino l’idea de frammasone
pe mmannalli a impiccà tutt’in un mazzo.
E ppe nnun
fà a chi fijjo e a chi ffijjastro, 3
a le mojje bbollateje la sorca, 4
e a li fijji appricateje l’incastro. 5
Si a
ddà un essempio a sta canajja porca
poi manca er boja, sò cquà io pe mmastro,
che sso ccome se sta ssott’a la forca.
Ah? pijji
mojje? ebbè mmó cche cce sei
abbada a li capelli, Bbucalone.
Sibbè co ccerte razze de drondrone, 2
l’abbi o nun l’abbi è sempre tre e ttre a sei.
Te li tajji?
Ma ppoi lassa fà a llei
pe mmostrà tutta l’arma de Prutone. 3
Li fai cresce? aricordete Sanzone
pettinato pe mman de filistei.
Che jje
ggiovonno le su’ bbelle porpe, 4
e cquella ganassòla 5 de somaro,
e cquelle code de trecento vorpe?
Che jje
giovò de rompe uno scatorcio, 6
e d’avé cojjonato er portinaro?
Pe ffà la morte de che mmore er zorcio. 7
Tra ssei
cherubbiggneri e ddu’ patujje,
co le mano dereto manettate,
Muzzio Scevola in tonica da frate
annò avanti ar Zoprano de le trujje. 1
Stava
Porzenno a ssede in zu le gujje
che sse vedeno a Arbano inarberate.
«Sora mmaschera, come ve chiamate?»,
er Re jje disse, «e ccosa sò ste bbujje?». 2
Disce: «Sagra
Maestà, sò Mmuzziosscèvola:
ve volevo ammazzà; ma ppe ’n equivico
ho rotto un coppo in cammio d’una tevola».
Ditto accusí,
pe ariscontà er marrone,
cor un coraggio de sordato scivico
se schiaffò la mandritta in ner focone.
Si tte piace
er zalame: 1 Padron Biascio
fu assassinato attacc’a la Merluzza.
Dimme de nò! ppuzza de cascio puzza!
E intiggnete a nnegà! ppuzza de cascio!
Quer
vitturino testa de cucuzza
mannava li sturioni adasciadascio,
e jje fasceva er verzo che ffa er bascio
quanno tra mmaschio e ffemmina se ruzza.
Quanto,... se
sente un fischio!, e jje se serra
addoss’a la carrozza un zett’o otto
pezzi d’irededdio cor facciatterra!
Ebbè
un de questi edè quer galeotto
ch’io l’ho ttienuto a ccresima in galerra
quanno ciaggnede pe avé vvinto all’otto.
Sta cacca
1 de fà a rruzzica, Dodato,
co la smaniaccia d’abbuscà ll’evviva,
nun è ggiro pe tté, 2 cche nun hai fiato
de strillà mmanco peperoni e oliva.
Come sce pôi
ggiucà, tisico nato,
senza dajje ’na càccola 3 d’abbriva?
Nun vedi la tu’ ruzzica sur prato
c’appena ar fin de ’na scorreggia arriva?
Co ddu’
pormonettacci de canario,
d’indove mommò er zangue te se sbuzzica, 4
tu protenni 5 de prennete 6 sto svario? 7
Stattene in
pasce: ggnisuno te stuzzica;
si 8 ppoi vôi vince tu, vva’ a Montemario,
pijja la scurza e bbutta ggiú la ruzzica.
Io lo faria
co tté piseppisello 1
colore ccusí bbello e ccusí ffino! 2
In der mejjo però der ritornello
me stremisco de quer Zantomartino.
Perché sto
santo ar povero bboccino
dell’omo je fa un certo ggiucarello,
che quanno va ppe mmettese er cappello
nun je carza piú un cazzo in zur cudino.
Caso che
allora me spuntassi un porro,
io subbito direbbe: bbona sera!,
ecchesce a la viggija der ciamorro.
Te pare
arisicamme
Ste mmànnole ppiú ppresto 4 me l’attorro. 5
Pur ch’er reo nun ze sarvi ecco le pera.
Che
averà, cciscia mia, sto fratiscello
che inzin da ggiuveddí nun ze scappuccia?
Che averà, ccocca mia, 1 sto mi ’cardello
che sta ggrufo e nun chiede canipuccia?
Che
averà sto caggnolo poverello
che ttiè la coda tra le gamme, e ccuccia?
Dì, pp’er frate, p’er cane e ppe l’uscello
ciaveressi 2 un rimedio, eh Bbarberuccia?
Io crederia
che li svariassi 3 er zôno
de quarche cciufoletto e cchitarrina:...
nun ride, picchia mia, 4 nun te cojjono.
Quanno pôzzi
5 serví dde mediscina,
(già cche lo so cche ttienghi er core bbono)
je la volemo fà sta sonatina?
Vedemo un po’
ssor oste da finocchi
fùssimo Cacasenno e Bbertollino!
Mezzo bbicchiere quinisci bbaiocchi!
Quant’a la bbotte l’arivenni er vino?
Fa ccommido
eh sor Lappa er fiaschettino
quanno capita er passo de l’alocchi?!
Chi smezza paga: tu ppoi l’aribbocchi, 1
e ccusí un fiasco te viè a ddà un quartino. 1a
Tu dunque
doveressi avelle 1b intese
quele sstorie inventate da Margutte,
dove disce accusí, che a cquer paese
a ttempi der
Patriarca Sorfautte
se cantava st’antifona a le cchiese:
un cojjone che vviè le paga tutte.
«Hai raggione
per Dio! nun zò ccattive
ste sciriole». «E tte piasce er marinato?».
«Me tiro un antro pezzo de stufato.
Maggnete st’ova che ssò ffresche vive».
«Pe mmé,
cquanno ho ppijjato antre du’ olive
ce n’ho dd’avanzo, ché ssò ggià arrivato.
...No, nun me fà piú bbeve: ho ssiggillato.
Chi bbeve pe mmaggnà mmaggnà pe vvive».
«Ma eh?
ccorpo dell’anima de ghetto!
pare er pisscio, sto vin de pontemollo,
dell’angelo custode bbenedetto?».
«Ohò!
cciavemo ancora un antro pollo?!
Maggni ala o ccoscia?» «No, nnemmanco er petto:
si mme vôi fà sscialà, ttajjeme er collo».
Càpita
a Monte-Rosi, o a li confini,
la Storta vojjo dí, Nnepi e Bbaccano;
e nnun te dubbità: sei ’n bone mano,
ch’è ttutta ’na fajola 1 d’assassini.
Te coceno du’
polli bbufolini:
te cacceno un vinetto de Pissciano
battezzato coll’acqua de pantano:
te danno un letto morbido de spini.
Te metteno la
notte in compagnia
purce, zampane, cimisce e ppidocchi,
che tte fanno cantà Vviva Maria!
E cquanno er
zonno t’ha sserrato l’occhi
te viengheno a cchiamà per annà vvia.
E ttutto questo pe ppochi bbaiocchi.
Lassa de
stroligà, 2 pisciacquasanta, 3
bona serva de ddio, mugnetta grega, 4
prima che ttrovi piú chi tte ce prega
s’hanno da sprofonnà Ssantiquaranta. 5
Fremma!
pascienza! e cce n’ho avuta tanta,
che ssur collo sce porto la risega. 6
Ma adesso che pe tte sserro bbottega, 7
te fo ccredenza cuanno er gallo canta.
Serra tu
ppuro, 8 e appoggeje l’abbiffa; 9
e ’r po’ d’avanzo c’hai de farinella 10
si nu lo vôi spregà mettelo in riffa. 11
Io nun crompo
ppiú vvacca pe vvitella:
m’abbasta de strozzà 12 ll’urtima miffa. 13
La bbrascia scotta ppiú dde la padella. 14
Com’è
ita a ffiní la ribbijjone
c’aveva da sfascià Ppiazzacolonna? 1
Ce l’ha mmesse le mane la Madonna!
È vvienuto Sanpietro cor bastone!
La bbarca de
la fede nun z’affonna,
nun ha ppaura un cazzo de bbarbone: 2
duncue chi vvò alloggià ssenza piggione, 3
ce vienghi a rriprovà cco la siconna.
Pe ffà
mmejjo addannà 4 li ggiacobbini
mo ss’ariveste ’n’antra truppa vera,
e sse sò ttrovi ggià li tammurrini.
Già
s’arippezza a nnovo la bbanniera;
e ddoppo a li sordati papalini
je s’ha da fà ’na statua de scera. 5
Come er Papa
ha da stà ssenza lo Stato
quann’è vicario lui de Ggesucristo?
M’ha ddetto er Coco a me de San Calisto 1
che insinente
Ggesucristo
c’ha ttanto faticato
pe ffacce tuttoquanto avemo visto,
dovería cede puro a chi è piú tristo
sto cantoncel de monno conzagrato?!
Cede un par de cojjoni! E dde sto passo
s’arriva a llevà Iddio dar paradiso,
pe mmettece in zu’ logo Satanasso!
Duncue pare
che ssii bell’e indisciso
ch’er Zantopadre a sto monnaccio è ll’asso, 3
e ppò ddí riso ar farro e ffarro ar riso.
Chi evviva?
Chi vvalà? Pss, ssor grostino, 1
nun ze risponne ppiú a la sentinella?
Voi volete finí dde bevve vino.
Ve dico Chivvalà, Ddio serenella! 2
Chi
evviva?... ah, ssete voi, Mastro Grespino?
Che! ve puzzeno sane le bbudella?
Eh, ssi avevo la pietra all’acciarino
un antro po’ vve la fascevo bbella!
Cuanno la
guardia dar zu’ posto v’urla,
risponnete: si nnò, vvienissi l’orco,
cquà sse tira de netto, e nnun ze bburla.
Ma ddio
guardi lo schioppo me fa ffoco,
co sto vostro stà zitto eh nun ve corco?
Bella cazzata de morí ppe ggioco!
Dove nassce
la cassia,
nò a ppontemollo, tre mmía 1a piú llontano,
ce sta ccome un casson de pietra bbianca
o nnera, cor P. P. der posa-piano.
Lí, a
Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca,
ce sotterronno un certo sor Mariano, 2
che mmorze de ’na palla in una scianca
a la guerra indov’era capitano.
Duncue, o
cqui er morto è stato sbarattato;
e allora me stordisco de raggione
ch’er governo nun ciabbi arimediato.
O cchi ha
scritto er pitaffio era un cojjone:
perché, da sí cch’er monno s’è ccreato,
questa è la sepportura de Nerone. 3
Sor
uffizziale mio, nun v’inquietate,
venita cquà, ssentite la raggione:
perché ffà ssanguemmerda a ssciabbolate
si ppotemo 1 aggiustasse 2 co le bbone?
Cuanno trenta
maggnère 3 ho aripescate
pe ddà ar prossimo nostro der cojjone 4
e cchì ciaripensava 5 ar battajjone
che voi, co riverenza, commannate?
Ma mmó c’ar
trentunesimo c’ho ttrovo 6
ve vienite a llaggnà com’e cquarmente
cuelle cose che ddico nu le provo;
s’arimedia
cor cazzo: 7 nun è ggnente. 8
Ve darò ppe ccojjone un nome novo,
e ssarà er trentadua: dite Tenente.
Disce
l’Abbibbia Sagra che Ggiuditta
doppo d’avé ccenato co Llionferne,
smorzate tutte quante le luscerne
ciannò a mmette er zordato a la galitta:
che appena
j’ebbe chiuse le lenterne 1
tra er beve e lo schiumà dde la marmitta,
cor un corpo 2 da fia 3 de Mastro Titta
lo mannò a ffotte in ne le fiche eterne:
e cche, agguattata
la capoccia, 4 aggnede 5
pe ffà la mostra ar popolo ggiudio
sino a Bbettujja co la serva a ppiede.
Ecchete come,
Pavoluccio mio,
se pò scannà la ggente pe la fede,
e ffà la vacca pe ddà ggrolia a Ddio.
Ah Scariotto
che pporti pe strapazzo
la bbanniera 2 de Cristo ar cudicuggno, 3
c’hai de pietra 4 er coggnome com’er gruggno,
botte de furberia sscerta
aringrazzia
er tu’ Ddio, faccia de cazzo,
aricacchio 6 d’un fijjo de bburzugno, 7
si ccor zugo de fior de tuttopuggno
nun t’hanno tinto er muso pavonazzo.
Strappete da
le spalle quella vesta,
levete da la gola er collarino,
e rrapete la chirica 8 da testa:
perché la
riverea d’un assassino
deggno de scelebbrà ll’urtima festa,
è una coppola, un zacco e uno strozzino.
Nu la
pijjà cco Nnino: 9
ma, ssi 10 me vôi conossce, viè a bbottega,
e llí cce troverai chi sse ne frega.
Lei sappi, si
vvò véderle, che cquelle
indove el vostro Cane-colso 2 abbaglia, 3
tutte cuperte di stole de paglia,
suono 4 le stufe delle Capandelle. 5
Eh! sti Abbagni
da noi vanno a le stelle!
Gente o di garbo, o nnobbile, o bbirbaglia,
bardassaria, 6 omminità, o vecchiaglia,
vonno tutti mettérce la sua pelle.
Chi ha
ccallo..., dico caldo, di staggione,
o un caldo a un piede, o acqualche occhiopullino,
capa o la capandella o el Capandone.
La meno folla
spendano un carlino
per quelle chiuse: ma le ppiú pperzone
a lo sbaraglio impiegheno un lustrino. 7
ANALOGIE
SE NON SI DICE |
NON SI
PUÒ DIRE |
|
|
prendérle, ma: prènderle |
vedérle, ma: véderle |
porzo, ma: polso |
còrso, ma: còlso |
raja, ma: raglia |
abbaja, ma: abbaglia |
véderci, ma: vedérci |
métterci, ma: mettérci |
Quando el
Signiore volse in nel deselto
albelgare l’Abbrei senza locanda,
per darglie un cibbo a gòdere piú scelto,
mandò come una gomba: era la Manda. 1
Questa glie
vende giù, come la janda
scende su li magliali a campo apelto.
E ‘l giudio vendembiava, 1a e a dogni canda
c’impiegava sei gombiti di celto.
Nun mi pare
mondezza 1a sto guadambio, 2
ché puro a sembolella era faccenda
di lassà un pranzo pagaticcio in cambio.
Se ci mettemo
poi cena e marenda,
facevano un sei giuli di sparambio,
a conti fatti a caldamaro e penda.
ANALOGIE
SE NON SI
DICE |
NON SI
PUÒ DIRE |
scerto, ma: scelto sverto, ma: svelto |
deserto, ma: deselto aperto, ma: apelto certo, ma: celto |
scergo, ma: scelgo |
albergo, ma: albelgo |
locanna, ma: locanda manna, ma: manda |
canna, ma: canda manna, ma: manda |
rodére, ma: ròdere |
godére, ma: gòdere |
tomma, ma: tomba |
gomma, ma: gomba |
rajo, ma: raglio majja, ma: maglia |
majale, ma: magliale |
cammio, ma: cambio |
guadammio, ma: guadambio |
cemmalo, ma: cembalo |
semmola, ma: sembola |
merenna, ma: merenda faccenna, ma: faccenda |
penna, ma: penda |
Oh che
ddiggazzia, 1 Chitto!: 2 oh che bbullacca! 3
D’effe 4 jeli 5 ito via calo 6 me cotta!
7
Nu ttà bbe’
fi 11 e’ mmi’ padon 12 de cafa 13 nu la
ccotta. 14
Cuanno
ttò p’alientà 15 ddento
vedo ch’e’ ppupo mio ccivola e ccacca. 18
Io nu mme leggo 19 ppiú: chiamo Callotta, 20
e bbutto e’ ffitto 21 de melluzzi 22 e llacca. 23
Poi vado pe
annà llà, ma in ne’ ffà e’ ppazzo, 24
pun, chioppo in tella e do la tetta a’ mmulo; 25
ma e’ ppelicolo 26 mio te ce lo sccazzo. 27
Cuello che
mm’impottava, 28 e tte lo ggiulo, 29
ela 30 la fetta 31 de favvà 32 el
lagazzo: 33
del letto 34 lo fa 35 Iddio fi mme ne culo. 36
Va’ vva’ vva’
ssi cchi è! che si’ squartata!
Chi tt’arifigurava?, che tte strozzi!
Hai d’avé empito a cquattro gargarozzi,
perché, ssi vvedi, stai come una fata!
Bbe’ cche
zzitella, hai fatto un par de bbozzi
c’assomijji a una bbalia spiccicata:
Dio te li bbenedichi, Furtunata,
te l’accreschi, e ’r malocchio nun ce pôzzi.
Va’ cche
zzinne!... che cchiappe!!... che gganasse!!!...
Ma ttarantola vienghi e tt’entri in culo, 1
ch’in quant’a mmé tte le voría piú ggrasse.
Tutte le
sorte a tté, fijja d’un mulo!
Prima eri un terenosse-e-ttinducasse,
e mmó ppari una vacca, e nnun t’adulo.
SERV. |
Non
ziggnora, Milordo; è uno spedale 1 Qui cc’era
dunque una sbilonga 3 cupa, Questo?
È el gran tempio de Giov’Esattore. 5 Quello
là ssopra? El Monte Paladino 6 sotto al
Collo Inquilino… 8 |
MIL. |
Ma, cwí, in buco 9... ho una... vacca, una
phuttana. Yes, come dite voi? futta... futtana?... |
SERV. |
Ahà,
vvasca, funtana. Cosa
vò cche glie dichi? Coprilla di
cristallo |
MIL. |
Bene: e
cquesti è il... Foro... |
SERV. |
Foro bbovaro, 9a a ggià, Ccampovaccino: |
MIL. |
… Come
scrivete ... cino? |
SERV. |
Come gradissce lei, Milordo mio. |
MIL. |
Ti, ess, ecce, i, enn, o: 10 ... scritto bene io? |
SERV. |
Vedemo Pio
pio pio 10a... |
MIL. |
Caa...
valcantē, Tornate il Coccio |
VITT. |
Che ddisce
sto gargante? 12a |
SERV. |
Portelo un pò ddove te pare e ppiasce; |
VITT. |
Er tempio
de la Pasce |
MIL. |
Come dite? Goddamn!... |
VITT. |
Ah,
ccert’assoggna... |
MIL. |
Oh no,...
non vi bisogna... |
NINO |
Subbito che
nun zò ssane né ttonne |
PEPPE |
Ma ssi nun
fussi ste colonne cquane, |
NINO |
Che ccosa?!
Le Dogane sò de terra |
PEPPE |
Terra e
ppietra viè a stà a cchicchera e ttazza, |
NINO |
E a cazzo che tte frega e cche t’ammazza. Sor tignoso
3 de razza, e ste cose
le tiengo |
PEPPE |
Si la
gallina feta Quanno
vierà er pangiallo |
NINO |
Si er cazzo
avessi l’ale |
PEPPE |
Perché ppe
ggallinaccio Poi ’na
pelata, un bollo, |
NINO |
Tu pparli
pe vvennetta. |
Piano, sor
Tibbidò, nun tanta foja, 2
ché vve pijja una frebbe settimana.
Pe ddí a sto modo Colonna trogliana,
bisoggnerebbe dí Ttroglia e nnò Ttroja.
Ma nun fu la
Repubbrica Romana
che dda l’incennio sce sarvò sta ggioja,
epperò pare stata in man de bboja,
e è nnera com’er cul de la bbefana?
Ebbè,
ssi vviè dda Troja sta colonna,
s’ha da dí, ssi tte piasceno li fichi,
trojana, pe l’amor de la Madonna!
Ché a
cchiamalla sinnò ccome tu ddichi,
sarebbe com’a ddí cche nun è ttonna,
e vvolenne sapé ppiú dde l’antichi.
Ma cch’estro
ha da viení a ’no scarpellino
de stampà le colonne a cresceccala,
come jerzera tu fascessi in zala
co cquer rotolo tonno de scerino!
Sti
pupazzetti poi vestiti in gala
sò ttutte l’Arte antiche: c’è er rotino,
er barcarolo, er muratore, e inzino
la ggente co la sega e cco la pala.
Ce sò
puro le forche, li tormenti,
la Carestia 1 cor Zanto Madrimonio
e tutti l’antri sette Sagramenti.
Pare fatta
per arte der demonio!
Eppuro nò, cché in diesci ggiorni o vventi
la bbuttò ggiune un certo Mastr’Antonio. 2
E ss’ha oggnisempre
da sentí sto ggnavolo 2
che li pittori antichi da li tetti
seppeno tirà ssú pe ddu’ bbuscetti 3
st’accidenti 4 de San Pietro e Ssan Pavolo!
Pe nnun dí un
cazzo, io nun ce credo un cavolo,
che scalini-a-llumaca accusí stretti
potessino a sti Santi bbenedetti
dajje er passo senz’opera der diavolo.
In
quarant’anni e ppiú cc’ho ssur groppone
io pe la parte mia nun ho mmai visto
un palazzo infroscià 5 ddrent’a un portone.
E ssete puro
6 scerto, sor Calisto,
che o ’r monno antico è stato ’no stregone,
o cche cquesto è un miracolo de Cristo.
«Che
ccrompi?» «Crompo l’acqua de lavanna». 2
«Che ddiavolo sce fai?» «Pe ddà l’odore».
«E ppoi dove la porti?» «A la locanna».
«E ppe cchi sserve?» «P’er Commannatore». 3
O mmatti come
la raggion commanna! 4
Sciacquatura de culi de signore
ha da esse ’no spirito de manna
da méttete p’er naso un bon fragore! 5
Ma ssi tte
dico, cristo, che ssò ccose
cose da diventacce sticcaleggna, 6
e ddoppo imminestrà 7 bbôtte fecciose.
Sto
monno-novo tanto se l’ingeggna
c’ha ttrovo a ddà ppe bbàrzimo de rose
l’acqua che cce se laveno la freggna.
«Tata,
ch’edè cqui ssú?» «La Piccionara». 1
«Tata, e nun c’è gnisuno?» «È abbonora».
«Chi è quella a la finestra?» 2 «Una signora».
«E cquest’accant’a noi?» «La lavannara».
«Uh quanta
ggente! E indove stava?» «Fora».
«E mmó?» «Ssona la tromma». 3 «... Cuant’è ccara!
E sto lampione 4 immezzo c’arippara?»
«Poi lo tireno sù». «Nun vedo l’ora!
Chi
cc’è llà ddrento in cuella buscia scura?»
«C’è er soffione».5 «E sti moccoli de scera?»
«Sò ppe la zinfonía». «Sí? E cquanto dura?»
«Zitta, va
ssú er telone». 6 «... Ih! è ggente vera?»
«Ggià». «E cquelli tre chi ssò?» «Rre da frittura, 7
che cce viengheno a un pavolo pe ssera».
Eh! cquanno
te ved’io chi nun te pijja
pe ’na bbocca de bbasci a ppizzichetto?
pe ’na pupa che ffa la pisscia a lletto?
pe ’na serva de ddio senza viggijja?
Ciabbassa
l’occhi, tiè er barbozzo in petto,
se fa rossa se fa com’una trijja!
Inzomma, a vvoi! nun pare mó la fijja
che sso... de la Madonna de l’Archetto?
Ma appena io
svorto er culo, ehé, bbon giorno!
Allora se dà er levito a la pasta,
se smena 1 er pane, e ppoi se scopa 2 er forno.
E intanto che
cchi spizzica e cchi attasta,
tu ssoni la tïorba, io sono er corno...
Già, ssei nata a la Scrofa, 3 e ttanto bbasta.
Quanno stavo
a ccrompà 1 le callalesse
è ppassato Matteo co la sorella.
Sai che tte dico, Ggnacchera? ch’è bbella,
ma bbella che ppiú bbella nun pô êsse.
Lei
s’è affermata
c’annaveno a Ttestaccio in carrettella:
e io j’ho ddato a llei ’na squadratella
che mm’ha mmesse le bbuggere m’ha mmesse.
Com’è
llarga de cquì! cche bbella faccia!
Ha ddu’ occhietti, un nasino e ’na boccuccia,
che cchi la pô assaggià bon prò jje faccia.
Ah! jje
volevo di’ 3: ffior de mentuccia,
si ttu vvôi fà cco mmé ’na fumataccia,
ciò una pippa co ttanta de cannuccia.
E cche jje
pare a llei, sor Zebbastiano?
Lei me fa ggrazzia de servimme lei.
Sú, sú, accusí: 1 già nn’ho pprenduti sei.
Uh! er cucchiaro! e lli pijji co le mano.
Mó vvojjo
favorillo io: nun zaprei...
Armanco sto bboccon de parmisciano.
Ah, ah, 2 la proscedenza 3 va ar piú anziano:
lo sanno cuesto cquà ppuro l’abbrei. 4
Sibbè
cche nun è robba pe la quale, 5
puro, 6 dico, che sso, in certa maggnera,
ce poterà scusà si è stato male.
Vale ppiú
cquer piattin de bbona scera 7
che ttutto sto sscialà der carnovale.
Tanto, 8 mó mmaggni, eppoi? Cachi stasera.
Chi? llui?
Gèsus maria! Quello è un cojjone
scappato da le man der crapettaro,
e tte pôi figurà cquant’è ccacone 1
che ttiè inzino a mmesata er braghieraro.
Ce rescita da
marro e da spaccone;
fa lo spazzacampagna e ’r pallonaro: 2
eppoi curre a ssarvasse
come sente fà un ròggito
Senti questa
ch’è fresca d’oggi a otto.
Giucamio
quanno dereto a llui se sente un botto!
E sto
bbravaccio che mmazzola e squarta,
curze ar bancone e cce se messe sotto.
Sai ch’era stato? Un schioppettin de carta. 6
Oggi che
ssò li Morti, di’ un po’, Ammroscio, 1
vienghi a vvedé l’Arippresentazzione?
E cc’hai pavura, che cce ssii bbarbone?
Oh statte zitto che mommó te sfroscio. 2
E io
cazzaccio mó che mme ce svoscio! 3
Omo de mmerda, cimiscia, 4 cacone.
Du’ pupazzi de scera e dde cartone
sò ddiventati bbobo e mmaramoscio! 5
Oh, ppe li
schertri 6 poi der cimiterio
cqui la raggione è ttua: cqui er guaio è ggrosso!
Tante teste de morto! eh, un fatto serio!
Vedo
però che cquanno dài addosso
a le galline de padron Zaverio,
nun tremi un cazzo d’arrivajje all’osso.
Cristiana
mia, fai bbene pe li morti?
Pijji li pellegrini in dormitorio?
Io sciò un’anima drento ar purgatorio
che sta speranno in ne li tu’ conforti.
Pe ffà
ccantà le messe a Ssan Grigorio
ce vô l’inguento de zecchini storti:
e la santa indurgenza che ttu pporti
fa mmejjo de diasilla e rrisponzorio.
Penza,
sorella mia, che inzin da maggio
st’anima a cchiede er bene arza la testa,
senza potenne avé mmanco un assaggio.
Via,
mòvete a ppietà, ’na cosa lesta.
Opri la cappelletta der zuffraggio,
damo du’ tocchi, e poi sonàmo a ffesta.
Bbada, nun
biastimà, Ppippo, ché Iddio
è Omo da risponne pe le rime.
Ma che ggusto sce trovi a ste biastime?
Hai l’anima de turco o dde ggiudío?
C’è
bbisoggno de curre in zu le prime
a attaccà cor pettristo e cor pebbío? 1
Chi a sto monno ha ggiudizzio, Pippo mio,
pijja li cacchi e lassa stà le scime. 2
Poi, sce
sò ttante bbelle parolacce!
Di’ ccazzo, ffreggna, bbuggera, cojjoni;
ma cco Ddio vacce cor bemollo 3 vacce.
Ché ssi lleva
a la madre li carzoni, 4
e jje se sciojje er nodo a le legacce, 5
te sbaratta li moccoli
Quer giorno
in Croce che Ggesú fu mmesso 1
e in faccia de Maria se crocefisse,
du’ parole turchine che llui disse
se scurí er Sole co la luna appresso.
Quello
scurore se chiamò le crisse: 2
e ecchete perché cquann’uno adesso
vò ddí peccristo je viè a stà l’istesso
discenno, senza bbiastimà, pe ccrisse. 3
Quanno se
possi a fforza de talento
trovà uno sguincio 4 pe nnun fà ppeccato,
chi è er cristiano che nun zii contento?
Duncue, che
sserve a dì ppe ddio sagrato?
Ciariparlamo ar brutto sagramento, 5
a llume de cannela 6 cor curato.
Io je l’avevo
detto a cquer bardasso: 1
sin che ccampa tu’ madre êssi 2 zitello.
Ma lui ha ttrovo un porton de trapasso, 3
e l’ha vvorzuta fà de su’ sciarvello.
La vecchia
4 sbuffa come un zatanasso,
la ggiovene 5 tiè in culo farfarello: 6
e si annamo ppiú avanti de sto passo,
famme bbusciardo, cqua nnasce un mascello.
Cquella llí
la vò ccotta, e cquesta cruda:
cquesta vò iggnommerà? 7 quell’antra innaspa;
e ffanno come lo strozzino 8 e Ggiuda.
Se dícheno
impropèri a ttutte l’ora:
sò er cane e ’r gatto, la lima e la raspa: 9
via, cuer che sse pò ddí soscera e nnora.
Quanto sei
bbono a stattene a ppijjà 1
perché er monno vô ccurre 2 pe l’ingiù:
che tte ne frega
tanto che speri? aritirallo sù?
Che tte preme
la ggente che vvierà, 4
quanno a bbon conto sei crepato tu?
Oh ttira, fijjo mio, tira a ccampà,
e a ste cazzate 5 nun penzacce 6 ppiù.
Ma ppiú de
Ggesucristo che ssudò
’na camiscia de sangue pe vvedé
de sarvà ttutti; eppoi che ne cacciò?
Pe cchi
vvò vvive 7 l’anni de Novè
ciò 8 un zegreto sicuro, e tte lo dò:
lo ssciroppetto der dottor Me ne… 9
Pe ste tu’
communelle co Ttomasso
hai da stà fresco tu ccom’er pancotto.
Cuello è un gargante 1 che nun move un passo
si nun ce viè la su’ morale sotto.
Dijje le tu’
bbudelle ché stai grasso!
Seguita a cconfettà sto galeotto:
e cquanno hai gusto d’arimane a spasso, 2
lasselo lavorà ssotto cappotto.
In-primi-e-Antonia
3 te vò ffà ccornuto:
ma cquesto è ggnente: eppoi cor tu’ padrone
te buggera a la dritta e ssenza sputo.
E tu, abbasta
opri bbocca un chiacchierone,
vai ’n estis, 4 t’incecischi, 5 resti muto
come parlassi 6 er gran Re Salamone.
Sor Maria
Battifessa, 1 v’ho pportato
un uscelletto d’allevasse
che lo cacciò mmi’ Madre da un pantano,
dove Tata 3 sciaveva seminato.
Nun guardate
ch’è cciuco 4 e spennacchiato:
lo vederete cressce
Anzi allora tienetelo ingabbiato,
perché ssi vvola ve pô annà llontano.
Sin
ch’è da nido, fateje carezze:
cerca l’ummido poi, ma nnò lo sguazzo;
e la gabbia la vò ssenza monnezze.
De rimanente
è uscello da strapazzo:
e nn’averete le sette allegrezze
fascennolo ruzzà ss’un matarazzo.
È un
gran gusto er viaggià! St’anno sò stato
sin a Castèr Gandorfo co Rrimonno.
Ah! cchi nun vede sta parte de Monno
nun za nnemmanco pe cche ccosa è nnato.
Cianno fatto
un ber lago, contornato
tutto de peperino, e ttonno tonno,
congeggnato in maggnera che in ner fonno
sce s’arivede er Monno arivortato.
Se pescheno
llí ggiú ccerte aliscette,
co le capòcce, nun te fo bbuscía,
come vemmariette de Rosario.
E ppoi
sc’è un buscio indove sce se mette
un moccolo sull’acqua che vva vvia:
e sto bbuscio se chiama er commissario. 1
Ma ttutte ar
tempo nostro st’invenzione?!
Tutta mó la corona je se sfila! 1
P’er viaggià ssolo sce ne sò 2 ttremila!
Pell’aria abbasta de gonfià un pallone;
pe tterra
curri scento mijja in fila,
senza un cazzo 3 cavalli né ttimone;
pe mmare sc’è una bbarca de carbone
che sse 4 spiggne cor fume de la pila.
Ma in
quant’ar mare io mo dimannería 5
s’oggi un cristiano co st’ingegni novi
pôzzi scampalla 6 de finí in Turchia.
Perché cquer
palo che llaggiú tte covi 7
poderebbe sturbatte 8 l’alegria.
Ggià, ppaese che vai 8a usanza che ttrovi.
Jjer ar
giorno pe vvia de sto catarro
der mi’ pover’uscello arifreddato,
maggnat’appena du’ cucchiar de farro
curse 1 da quer cirusico arrabbiato.
Ma io c’una
ch’è una nun n’ingarro 2
te lo trovai che ggià sse n’era annato
in frett’e in furia a rinnaccià uno sgarro 3
co lo spezziale, er medico e ’r curato.
La mojje che
mme vedde mette a ssede 4
disse inciurmata: 5 «Ihì! ppuro 6 la ssedia!
Ve dà ffastidio d’aspettallo in piede?»
«Che! vve la
logro? 7 », io fesce
«pozziat’êsse 9 ammazzata a la Commedia!
Accusí armanco 10 creperete in musica».
Sor
Inguento-de-tuzzia,
m’ha dditto adesso quer taddeo 3 de Sferra
che mme scercavio 3a pe mmare e ppe tterra.
Che vve s’è ssciorto? 4 Ecchene cquì ’na fetta.
4a
Sapete eh,
ddico a voi, sor fiaccoletta: 1
oh cquesta sí ppe ccristo ch’è ccascerra! 5
Tutta sta furia cquì, sto serraserra,
eppoi scià 5a la pitina a la linguetta! 6
Volete vede
7 che mmommó vv’appoggio
’na rincarzata ar cofino, 8 eppo’ un carcio
sei deta 9 sotto ar zito dell’orloggio?
E sto
cazzotto che vve fa scacarcio, 10
sur gruggno vostro vò pijjacce 11 alloggio,
pe ddàvve vinta la partita e ’r marcio. 12
Oggiaotto
ch’è Ssanta Catarina
se cacceno le store 1 pe le scale,
se 2 leva ar letto la cuperta fina,
e ss’accenne er focone in de le sale.
Er tempo che
ffarà cquela matina
pe Nnatale ha da fàllo tal’e cquale. 3
Er busciardello 4 cosa mette? bbrina?
La bbrina vederai puro a Nnatale.
E ccominceno
ggià li piferari 5
a ccalà da montagna a le maremme
co cquelli farajôli 6 tanti cari!
Che bbelle
canzoncine! 7 oggni pastore
le cantò spiccicate
ner giorno der presepio der Zignore.
Nun pôi
1 sbajjà ssi vvôi. 2 Cquà ssu la
dritta,
ner comincio 3 der vicolo de Bbranca,
doppo tre o cquattro porte a mmanimanca 4
te viè
Svorta er
collo tra ll’oste e ll’artebbianca 6
e ppropio attacc’a cquella casa sfitta
llí a ppianterreno sciabbita er zor Titta 7
er barbiere a l’inzeggna de la scianca. 8
L’hai capito
mó adesso indove arresta? 9
Bbe’, ddomatina tu vvàcce a cquest’ora,
ché ll’ora lui de nun trovallo è cquesta.
Di’:
«Cc’è zor Titta?» «No». Tu ddijje allora:
«Disce zia che a ppagà viè st’antra 10 festa 11
ché gglieri 12 lei lo rifasceva fora». 13
Guarda che
ccosa è ll’omo, e ssi 1 è ppeccato
de fà sparge a la guerra er zangu’ umano!
Dio, che ppô ffà ’ggni cosa da lontano
e ppiscià a lletto e ddí dd’avé ssudato,
pe
ccreà l’Omo sc’impiegò le mano;
e ddoppo avello 2 bbene smaneggiato,
je fesce hâh: 3 e Adamo, pe cquer fiato,
da un pupazzetto diventò un cristiano.
E aveva
appena cominciato a vvive, 4
che ggià ssapeva rescità l’istoria
com’un de quarant’anni, e llêgge, e scrive.
E ssapeva
chiamà ppuro
tutte le bbestie bbone e le cattive
come noi conosscemo la scicoria.
Séguita a
ffà sta vita, Zzaccheria:
freghete l’orbo 1 co ste tu’ donnacce:
la dimenica a mmessa nun annacce: 2
immriàchete 3 sempre all’ostaria.
Strapazza er
nome de Ggesummaria:
giuchete er core, 4 intosta a parolacce. 5
Tu tte penzi 6 che Ccristo nun ce sia,
e llui te sta a ssegnà ttutte le cacce. 7
Va’,
ccontinuva a vvive 7a in ner peccato,
fra ccarte e ddonne, fra bestemmie e vvino:
ma ar capezzale 8 quer ch’è stato è stato.
C’è
ppoco ar bervedé, 9 ssor figurino;
e cquanno Cristo er culo l’ha vvortato 10
vall’a rripijja allora p’er cudino. 11
Ahàggnola!
a ppreparamme 4 er barzimo 5 der corno!
Ma ttanto e ttanto me credevi ssciorno 6
de nun capillo 7 cquà ccosa se 8 cova?
Sputa: 9
chi è cquello c’a la Cchiesa-nova
un quarto fà tte ronneggiava 10 intorno?
eppoi entrò cco tté llí accant’ar forno
da quella donna c’arivenne 11 l’ova?
Io ve vedevo,
sai? Lui chiotto chiotto
a vvienitte a le tacche, 12 e ttu a gguardallo
co la coda dell’occhi pe dde sotto.
E mmó ccosa
sarebbe sto bbarbotto? 13
Fussi 14 quarche ttumore da riontallo 15
come jjeri coll’ojjo der cazzotto! 16
Voi sce
gonfiate 2 da ’na man de 3 sere
sor uscellaccio de le male nove 4
che in tutto quanto er Carnovale piove:
pôzzi crepà lo stroligo
C’abbitassivo
7 ar vicolo der bove 8
co vostra mojje a rregge er cannejjere 9
lo sapevo, ma nnò st’antro 10 mestiere
de rubbà ll’occhialino a Bbarbaggiove. 11
Io ve lassai
cuggnato 12 de li preti,
e vv’aritrovo mó tutt’in un botto 13
diventato Spacoccio de Rieti. 14
Dunque, sor
Casamia, 14 sor Omo dotto,
sor Barbanera,
s’ariccapezza sto ternuccio all’Otto? 14a
Nun ho mai
fatto un cazzo l’assassino,
ma er cucchiere co ccime de padroni;
e ho ssempre strascinato in carrozzino
principesse co ttanti de cojjoni. 1
Ma ttu,
lladro, a sti poveri sturioni 2
la maggnatora j’hai sbusciato inzino,
pe ffà ccascà la bbiada a ffuntanoni
come fussi un orloggio a pporverino.
Ecco er
perché ddiventen’ossa e ppelle!
Ecco si ccome mostreno le coste,
e ss’arreggeno sú cco le stampelle!
Ma sse sa,
ggatto mio, chi ssò le poste
che jje venni la bbiada a mmisurelle:
du’ cavajjeri de Galanti, 2a e un oste.
Un cazzo che
vv’arrabbi! A Ssan Ghitano 2
so’ 3 vvent’anni che bbatto la cassetta:
e nnun tienevo un pelo a la bborzetta
che Ttata 4 me metté la frusta in mano.
Ma ssai tu a
Rroma, a Nnapoli, a Mmilano
quanti cucchieri ho ffatti stà a la fetta? 5
Sti bbanchieri 6 strillaveno vennetta
riccojjenno li ferri 7 da lontano.
Ho gguidate
parijje io co la vosce 8
c’averebbeno, a un dì, 8a ttramonto er zole, 9
cavalli da fà ffà sseggni de crosce! 10
E ssò
arrivato co le bbrijje sole
a pportamme 11 da mé ssedisci frosce! 12
Duncue fâmo 13 per dio poche parole.
Eh? che bber
gode! 1 Immezzo de ’na piazza,
sott’a ste quattro gocce de bbrodetto,
senza poté nnemmanco acchiappà un tetto, 2
fà ’ggni notte ’na vita de sta razza!
E ttratanto
quer gruggno de pupazza
de la padrona mia, drent’ar parchetto
se 3 diverte cor ghiggno e cco l’occhietto,
pe ffà ride 4 la freggna che l’ammazza. 4a
Eppuro
pe ppotella capí 7 cche cquanno fiocca 8
la donna se pô vvenne 9 ar ferravecchio.
Ma llei de
cazzi! 10 sin c’ha un dente in bocca,
de sughillo 11 ’ggni ggiorno ne vô un zecchio,
una marmitta, un cuccomo e una bbrocca.
Famme la
carità, ma cche tte fai!,
cosa te freghi, pe l’amor de Ddio!
Nu lo vedi che ddritto nun ce vai,
mannaggia li mortacci de tu’ zio?
Gran ché de
nun potesse fidà mai
co sto scolo d’un cazzo de ggiudio!
Animo, lass’annà, cché nun ce dai:
a cchi ddico? aló, cquà, ché ssego io.
Lasseli
stà sti poveri strumenti,
ché, a cquer che vvedo, er legno, fijjo caro,
nun è pane adattato a li tu’ denti.
Và
piuttosto a fà er medico o ’r notaro,
oppuro er mercordì, si tte la senti,
viaggia a piazza-ladrona 1 pe ssomaro.
Cquì,
e cquant’è ggranne Roma 1 l’aricorda,
propio in ner mezzo a sta ritiratella,
c’era piantato un trave e una ggirella
dove prima sce daveno 2 la corda.
Sto
ggiucarello era una lima sorda,
o ffussi a tratti oppuro a ccampanella, 3
che cchi ss’è intesa in petto la rotella
de le spalle, pe ddio nun ze ne scorda.
Sia benedetto
sempre er cavalletto!
Armanco mó tte n’eschi con onore,
e nun ce fai li cardinali in petto. 4
Ché ffor de
quer tantino de bbrusciore,
un galantomo senza stacce
pô annà pp’er fatto suo com’un ziggnore.
Qual è
ttra li peccati er piú ppeccato
c’abbi fatto ppiú mmale a ttutt’er monno?
Quello primo? ggnornò: mmanco er ziconno,
o er terzo, o er quarto. Er quinto-gola è stato.
Pe una
meluccia, c’averà ccostato
mezzo bbaiocco, stamo tutti a ffonno!
Pe cquesto er zeggno de st’ossetto tonno
cquà immezzo de la gola sc’è 1 restato.
Vedi che bber
zervizzio sce fasceva 2
quer cornuto d’Adamo, nun zia mai,
co cquella jjotta 3 puttanaccia d’Eva,
si 4
mmai Dio Padre, c’ha ttalento assai,
nun mannava er fijj’unico c’aveva
ggiú in terra a rrippezzà ttutti li guai.
Prima usscí
co la crosce er chirichetto,
po’ er prete co la stora ner’e ggialla,
quattro facchini poi cor moccoletto
smorzat’in mano e ’r catalett’in spalla.
Uno de questi
in capo ar vicoletto
dà un bôttaccio, e la cassa je trabballa:
e ssi un morto va ggiú dar cataletto,
l’anima è seggno che sta a ccasa calla.
Ma la Madonna
che llui fu ddevoto
nu lo permesse. Er vivo s’ariarza,
e tutt’e ddua sce ponno attaccà er voto.
Pe
ttirà ssú li sui, moneta farza
fa la Madonna e ttanto terramoto,
che o de riffe o de raffe sce li sbarza.
Staveno un
par de gatti a ggnavolà
in pizzo ar tettarello accant’a mmé
ggiucanno in zanta pace e ccarità
a quer giuchetto che de dua fa ttre:
quanto quer
regazzaccio der caffè
accosto a la Madon de la pietà
j’ha ttirato de posta un nonzocché
che l’ha ffatti un’e ll’antro spirità.
Povere
bbestie, j’è arimasta cquì! 1
Ma cquer ch’è ppeggio cento vorte e ppiú,
sò rrotolati tutt’e ddua de llí.
Doppo lo
schioppo c’hanno dato ggiú,
uno s’è mmesso subbito a fuggì,
e ll’antro è mmorto senza dí Ggesú.
Checca, sei
stata mai ar teatrino
de bburattini in der palazzo Fiano?
Si vvedi, Checca mia, tiengheno inzino
er naso com’e nnoi, l’occhi e le mano.
C’è
ll’Arlecchin-batocchio, er Rugantino,
er Tartajja, er Dottore, er Ciarlatano:
ma cquer boccetto poi de Casandrino,
nun c’è un cazzo da dí, ppare un cristiano! 1
Jeri per la
ppiú ccorta io sce sò annata
incirca ar tocco de la Vemmaria
c’allora s’ariopre l’infornata. 2
E ppoi cor
pesator de pescheria
co Pipp’e Peppe Menica e Nnunziata
ce n’annassimo a ccena all’osteria.
Che cce
faressi? oh mméttesce una zeppa! 1
L’hai ddata inzin’adesso a ttant’e ttanti,
c’oggi o da me t’hai da scibbà una sleppa, 2
o fàmme intiggne, 3 ar men che ssia, davanti.
Quà,
for che mmé, chi ccià l’uscello inzeppa,
e tu nun je lo tocchi co li guanti:
io dunque vojjo entrà, sora Ggiuseppa,
in paradiso a ddispetto de santi.
A temp’e
llogo de spanà, tu spani: 4
te piasceno li pranzi e le marenne:
eppoi me tratti peggio de li cani.
Guarda
cquì com’er ciscio arza le penne...
Che ccos’hai detto? me la dài dimani?
Passi l’Angeledèi e ddichi ammenne.
Bbè,
vvia, bbasta che ssii senza malanni
viè ddimani su a casa de Vincenza.
Oggi nun pozzo dattela in cusscenza
perché vvado a l’erliquie a Ssan Giuvanni.
Sta ggiornata
che cquì da tre o cquattr’anni
me confesso e ffò un po’ de pinitenza,
perché cchi pijja oggi l’indurgenza
va in paradiso co ttutti li panni.
Che tte fa un
giorno ppiú o un giorno meno?
Mica è ggrano che ccasca! morissi oggi,
te voría compatí: tanto sei pieno?
Oé
però, si è vvero de st’orloggi, 1
pe nnun mancà a li patti te lo smeno,
ma cqui ddrento cuccú cche mme l’appoggi!
Nun te so
cche risponne 2 e ddichi 3 poco
quanno me chiami crapa 4 e ggallinaccio:
su sta mmerda sce 4a do ssempre er gruggnaccio: 5
e ’r piú pegg’è 6 che mmai nun trovo loco.
La strega che
ccapiva ch’er mi’ foco
stava agguattato 7 sotto ar cenneraccio,
m’ha pijjato nell’ora der cazzaccio, 8
e ecco cqui ricominciato er gioco.
L’ambra nun
trova sempre la pajjetta: 9
tutto er ferro nun cià 10 la calamita;
e nun c’è pe ’ggni uscello 11 una sciovetta. 12
Ma p’er
cristiano 13 sta ssempre ammannita,
come tavola d’oste, una saetta
che de natura sua tira la vita.
Ecco
ch’edè: 1 vô êsse 2 solo er Marro 3
a ccugnà 4 le patacche a la tu’ 5 zecca:
pe cquesto te viè a ddí, 6 llinguaccia secca!, 7
che, cquanno sparo io, raro sc’ingarro. 8
De che?!
9 la mi’ pistola nun fa ccecca, 10
sibbè cche ffussi 11 caricata a ffarro.
Eppoi, Tuta, 12 viè cquà, 13 ffâmo 13a
un bazzarro,
e ssi 14 nun cojjo
È
vvero c’a sto monno in centomila
nun c’è ggnisuno che ppô ffàsse 17 bbravo,
ché sse 18 ponno crepà mmanico e ppila.
Però
ssi 14 ll’anni addietro io me cavavo
un ott’o ddiesci gustarelli in fila,
pe ddodisci oggi puro 19 me li cavo.
Tu ccapischi
cor culo, abbi pascenza:
nun dico questo, ch’averebbe torto.
Bell’e bbono è er mestier der beccamorto
quanno Iddio vò mmannà la providenza.
Io dico, e
sto discorzo è una sentenza,
che cquanno er tempo de l’istate è scorto,
sò spicciati 1 li cavoli pell’orto, 2
e ssi 3 ppoi vôi maggnà mmagni a ccredenza.
Sta Roma
è un paesaccio mmaledetto
dove l’inverno nun ce more un cane,
e tte se tarla puro er cataletto.
Oh vvedi pe
abbuscà un boccon de pane
quanto s’ha da pregà Ddio bbenedetto
perché illumini medichi e mmammane!
Si ccaso mai,
sor faccia de pangiallo,
l’arreggemo noi puro er bardacchino.
Ch’edè? 2 nun zemo indeggni 3 de portallo?
E vvoi chi ssete? er fio 4 der re Ppipino?
Nun
t’aricordi ppiú, bbrutto vassallo,
de quelli scarponacci da bburrino
quanno a le mano sce tienevi er callo
e mmaggnavi a ppagnott’-e-ccortellino?
Oggi che
cc’è er Zantissimo indisposto
potressi armanco usà pprudenza, e a cquelli
che ssò pprima de té ccedeje er posto.
Er
bardacchino tocca a li fratelli
de segreta: epperò ssor gruggno tosto
levàtevesce for da li zzarelli.
T’hai da
capascità cche, o bbianco, o rosso,
o nnero, o ppavonazzo, te sfraggella.
Sin che in ner mare sce sta er pessce grosso,
er piccolo ha d’avé la cacarella. 1a
Triste chi
nassce sott’a cquella stella,
e a le snerbate nun za ffacce 1b l’osso!
Bisoggna fasse mette 1c la bbardella
e bbascià er culo che tte caca addosso.
Prima sce
bbuggiarava er zor Pietruccio: 1
oggi nun è ppiú bbroccolo, ma ccavolo,
e cce bbuggera in cammio Pavoluccio. 2
Inzomma, un
giorno Pietro e un giorno Pavolo,
noi stamo sempre com’e ddon Farcuccio 3
sott’a le granfie o dd’un demonio o un diavolo.
Er curato a
la messa ha lletto er fojjo
che cc’è l’indurto, e ccià spiegato tutto.
A ppranzo se connissce co lo strutto,
ma la sera però ssempre coll’ojjo.
Carne de
porco mai: sai che ccordojjo
sti jotti 1 de salame e dde presciutto!
Pe mmé ciò un zanguinaccio, ma lo bbutto,
ché io nun vojjo scrupoli, nun vojjo.
La matina se
pò pe ccolazzione
pijjà un deto 2 de vino e un po’ dde pane,
da non guastà er diggiuno in concrusione.
Poi disce a
li cristiani e a le cristiane
d’abbandonà er peccato, e ffà orazzione
sin che nun s’arissciojje 3 le campane.
Ho vvisto
propio mó a le cantonate
curre er libbraro a appiccicà un editto.
È un lenzòlo de carta tutto scritto,
che le ggente sce fanno a ggommitate.
Bisoggna avé
ggiudizzio, cammerate,
perché cchi ssa che ce pô esse 1 scritto?
E ppotrebbeno avé ffatto un delitto
che nun ze ggiuchi ppiú mmanco a ssassate.
Sortanto ho
’nteso un quèquero
a bbarbottà, svortannose 3 de fianco:
«Chi cce governa, nun tiè ssale in zucca».
Nun
c’è ppiú dunque da sperà nnemmanco;
perché ssi cchi cce ll’ha, ppuro 4 te cucca, 5
figurete 6 chi ha perzo 7 er fritto bbianco. 8
Avevo inteso
da che mmonno è mmonno
ch’er piú ppeggio che ffussi era la morte,
e cche dde dua c’aspettano sta sorte
un’e ll’antro vorebb’esse 1 er ziconno. 2
Ma ttu cc’hai
sempre st’ideacce storte,
mannaggia la nepote de tu’ nonno!,
dichi mo che sta mmejjo chi vva a ffonno,
ché ’r penà de chi rresta è ttroppo forte.
E mme vôi
fà pparé ddorce st’agresta
oggi che la salute me se sfraggne!
Tristo chi mmore e bbuggiarà cchi resta.
Ebbè,
píjjete 3 tu le mi’ magaggne,
e ppe llevatte 4 sti grilli da testa
vatt’a ffà bbuggiarà, cch’io resto a ppiaggne. 5
Mó ffamo er
conto. Avevo ammalappena,
quanno che mme sposai, quattordiscianni:
de quattordisci e mmezzo fesce 1 Nena:
de disciassette partorii Ggiuvanni.
Questi c’ho
detto sò li dua ppiú granni:
Nena ha ddiescianni pe la Madalena;
e Nnino, senza tanto che m’affanni,
finí jjerzera dodiscianni a ccena.
Cqua ddunque
nun ce fiocca e nun ce piove: 2
dodisci e ddisciassette ar mi’ paese
viengheno a stà, mme pare, a vventinove.
Perché nun
zò ’na gallina pollese, 3
mostro un po’ d’avantaggio; ma a le prove
ho in punto mó vventinov’anni e un mese.
È ddar
giorno de llà dde l’antro jjeri
che sta galletta 2 nun z’è ppiú affacciata.
Chi lo sa cc’antra fregna 3 j’ha ppijjata?
Io nun sto ddrento in ne li su’ penzieri.
Si sse tratta
de dajje un’ingrufata, 4
je la darò ’ggnisempre volontieri:
de rimanente de sti su’ braghieri 5
me ne faccio un zuffritto
Se penza la
cojjona che mm’addanni 7
perché nun viè du’ ggiorni a la finestra?
Che me ne frega 8 che nun stia scent’anni!
Pare
peccristo un fiore de gginestra!
E, ssi ttanto è dde fora, sotto panni
Dio lo sa ssi cche bbrodo de minestra!
Pare un
destino ch’er piú mmejjo attrezzo
che ffesce Gesucristo ar padr’Adamo,
ciavessi da costà, ssi ll’addopramo,
da strillacce Caino 1 per un pezzo!
Questa nun ce
la dà ssi nnun sposamo,
quella vô er priffe 2 e nnun je roppe er prezzo, 3
l’antra t’impesta e tte fa vverd’e mmezzo: 4
e er curato sta llí ssempre cor lamo. 5
Bbenedetta la
sorte de li cani,
che sse ponno pijjà cquer po’ de svario
senz’agliuto de bborza e dde ruffiani.
E pponno
fotte in d’un confessionario,
ché nu l’aspetta com’a nnoi cristiani
sta freggna de l’inferno e dder Vicario.
Ieri sí che
ffu ggiostra! Che bbisbijjo!
Figùrete che Mmeo de bborgonovo
a vvent’ora er bijjetto nun l’ha ttrovo:
epperò dde matina io me li pijjo.
Cristo, che
ccarca! 2 pieno com’un ovo!
nun ce capeva ppiú un vago de mijjo!
Le gradinate poi!... io e mmi’ fijjo
paremio 3 propio du’ purcini ar covo.
Che accidente
de toro! D’otto cani
a ccinque j’ha ccacciato le bbudella,
e ll’antri l’ha schizzati 4 un mio 5 lontani.
E cquer
majjone 6 vôi ppiú ccosa bella?
Eppoi, lo vederai doppodomani:
bbast’a ddí c’ha sfreggnato 7 Ciniscella! 8
M’ha ddetto
stammatina quella rapa
qui ar Babbuino der Milord’ingrese,
che ccor una chinea e mmezza ar mese
le ggente da serví llui se le capa.
L’hanno
portata dunque ar zu’ paese
la Chinea che baciava er piede ar Papa?!
Però mme pare una gran cosa ssciapa
d’annasse a ffà cco la Chinea le spese!
Eppoi, che
mme ne faccio de quer pezzo?
Se dà a porta-leone una cavalla
quann’è spaccata a mmodo suo pe mmezzo.
E ssi ppe
mezzo culo e ppe ’na spalla
j’annassi 1 ar Papa de roppejje er prezzo,
poderebbe cor Re 2 ppuro aggiustalla.
Ecco si cche
vvor dí de sta 2 ddu’ mesi
drento in concraudio 3 e ffà li Papi frati:
se svortica er budello
eppoi s’ha da ricurre all’assegnati.
Quanno che li
stamporno li francesi,
ce restassimo 5 tutti cojjonati, 6
Sò ccartacce da culo: e cchi l’ha spesi
all’un per cento o ar dua, nun l’ha bbuttati.
Io, co
st’orecchie, venti vorte in fila,
l’ho inteso oggi ar vangelio, che dde sbarzo 7
ce ne vonno appoggià ddodisci mila. 8
Vedi che
llume de luna de marzo!
E cquanno er prete a mmessa te le sfila,
pijjesce puro 9 un giuramento farzo.
E le scedole
1a fu ppoco strapazzo?
Pare a ddí ggnente a tté, dde punt’in bianco 1
annà ar Monte 2 o a Ssanspirito in ner banco 3
pe sbarattalle, e nun trovacce un cazzo?!
Mi’ padre a
mmé mme n’ha llassate un branco,
ma stanno llí a ddormí tutte in un mazzo,
che tte ggiuro da povero regazzo 4
ner caso mio m’arifarebbe un fianco.
Oggi avé
ddua, trescento, mille scudi,
eppoi domani diventatte marva, 5
tratanto che a ccampà ffatichi e ssudi!
Ma
pperò ssi nun pagheno sta sarva 6
de scedole che ccià aridotti iggnudi,
bbuggiarà sto Governo si sse sarva.
‘Gna
sentì mmessa e arispettà er governo
chi vvô ssarvasse 1 l’anima, Donizzio, 2
si nnò vviè Cristo ar giorno der giudizzio
e ce bbuggera a ttutti in zempiterno.
Metti,
cumpare mio, metti ggiudizzio,
caso te puzzi er foco de l’inferno,
ché, mmettemo 3 la sfanghi in ne l’inverno,
ar tornà de l’istate è un priscipizzio.
Povero
Ggesucristo! dar zu’ canto
s’è ammascherato sin da vino e ppane:
be’, dov’è un cazzo 4 che sse fa ppiú ssanto?
Le donne
sò, pper dio, tutte puttane, 5
l’ommini ladri: 5 e ttutto er monno intanto
de Cristo se ne fa strenghe de cane. 6
Come saranno
ar monno terminate
le cose c’ha ccreato Ggesucristo,
se vederà usscí ffora l’Anticristo
predicanno a le ggente aridunate.
Vierà
ccor una faccia da torzate,
er corpo da ggigante e ll’occhio tristo:
e pper un caso che nun z’è mmai visto,
nasscerà da una monica e dda un frate.
Poi pe
ccombatte co sta bbrutta arpia
tornerà da la bbùscia de San Pavolo
doppo tanti mil’anni er Nocchilia. 1
E appena
usscito da l’inferno er diavolo
a spartisse la ggente cor Messia,
resterà er Monno pe sseme de cavolo.
Cuattro
angioloni co le tromme in bocca
se metteranno uno pe cantone
a ssonà: poi co ttanto de voscione
cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.
Allora
vierà ssù una filastrocca
de schertri da la terra a ppecorone, 1
pe rripijjà ffigura de perzone,
come purcini attorno de la bbiocca. 2
E sta bbiocca
sarà ddio bbenedetto,
che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo
usscirà ’na sonajjera 3
d’Angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto,
smorzeranno li lumi, e bbona sera.
È
ttanto chiaro, e ste testacce storte
nu la sanno capí, che dda cuer pomo
che in barba nostra se strozzò er prim’omo
pe ddegreto 1 de ddio nacque la morte;
e cche llui
de l’inferno uprì le porte,
e o granne, o cciuco, o bbirbo, o ggalantomo;
ce fesce riggistrà ttutti in un tômo,
ce fesce distinà ttutt’una sorte!
Perché
pperché! se sturino l’orecchie,
vienghino a ffalla loro un’antra lêgge 2
sti correttori de le stampe vecchie. 3
Perché
pperché! bber dí dda ggiacobbino!
Er libbro der perché, cchi lo vô llêgge
sta a ccovà ssott’ar culo de Pasquino. 4
«Famo a
bbuscetta? » «No». «Sssedia papale?
Sartalaquajja?» «No». «Ppiseppisello?»
Gattasceca? Er dottore a lo spedale?
A la bberlina?» «No». «A nnisconnarello?
Potemo
fà li sbirri e ’r bariscello,
la ggiostra, li sordati e ’r caporale,
a scaricabbarili, a acchiapparello,
a llippa, a bbattimuro, a zzompà scale.
Ggiucamo a
bboccia, ar piccolo, a ppiastrella,
a mmorè, a mmora, a ppalla, a mmarroncino,
a ccavascescio, a ttuzzi, a gghiringhella,
a
attaccaferro, a ffilo, a ccastelletto,
a curre, a pparesseparo...». «No, Nnino,
dàmo du’ bbottarelle a zzecchinetto».
Fu ppropio
donna. Bbuttò vvia ’r zinale
prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;
doppo se fesce prete, poi prelato,
e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.
E cquanno er
Papa maschio stiede male,
e mmorze, 1a c’è cchi ddisce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a Ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma
cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
ché ssanbruto 1 je preseno le dojje,
e sficò un pupo llí ssopra la ssedia.
D’allora
st’antra ssedia 2 sce fu mmessa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er pontescife sii Papa o Ppapessa.
Iddio nun vô
cch’er Papa pijji mojje
pe nnun mette
sinnò a li Cardinali, poverelli,
je resterebbe un cazzo da riccojje. 2
Ma er Papa a
ggenio suo pô llegà e ssciojje
tutti li nodi lenti e cquelli stretti,
ce pô scommunicà, ffà bbenedetti,
e ddàcce
E inortr’a
cquesto che llui sciojje e llega,
porta du’ chiave pe ddacce 4 l’avviso
che cquà llui opre e llui serra bottega.
Quer
trerregno che ppoi pare un zuppriso 5
vô ddí cche llui commanna e sse ne frega,
ar monno, in purgatorio e in paradiso.
Jerzera er
Papa morto c’è ppassato
propi’avanti, ar cantone de Pasquino.
Tritticanno 1 la testa sur cuscino
pareva un angeletto appennicato. 2
Vienivano le
tromme cor zordino,
poi li tammurri a tammurro scordato:
poi le mule cor letto a bbardacchino
e le chiave e ’r trerregno der papato.
Preti, frati,
cannoni de strapazzo,
palafreggneri co le torce accese,
eppoi ste guardie nobbile der cazzo.
Cominciorno a
intoccà tutte le cchiese
appena uscito er Morto da palazzo.
Che gran belle funzione a sto paese!
Prima, a
palazzo, tanti frati neri
la notte e ’r giorno a bbarbottà orazzione! 1
Pe Rroma, quer mortorio bbuggiarone! 2
cqua, tante torce e tanti cannejjeri!
Messe sú,
mmesse ggiú, bbenedizzione, 2a
bôtti, diasille, prediche, 3 incenzieri,
sonetti ar catafarco, 3a arme, bbraghieri, 4
e sempre Cardinali in priscissione!
Come si
4a er Papa, che cquaggiú è Vvicario
de Crist’in terra, possi fà ppeccati,
e annà a l’inferno lui quant’un zicario!
Li Papi
sò ttre vvorte acconzagrati:
e ssi Ccristo sciannò, cciannò ppe svario
a ffà addannà 5 li poveri dannati.
Co sti
cuattro 1 che ttienghi ar tu’ commanno
mó ppijji puro 2 un po’ de mojje pijji?
Eppoi cosa sarai de cqui a cquarc’anno?
Un pover’omo carico de fijji.
Menicuccio,
dà retta a li conzijji:
abbada a cquer che fai: penza ar malanno:
donna! chi ddisce donna disce danno:
tu t’aruvini co sti tu’ puntijji.
Si ppoi
scerchi una forca che tt’impicca,
nun te sposà sta guitta scorfanella: 3
procura armanco de trovalla ricca.
La ricca nun
te vò? ccàpela 4 bbella:
ché cquanno a Rroma una mojjetta spicca,
vanno mojje e mmarito in carrettella.
Bisoggna che
sta strega de mignotta 2
all’ommini je facci 3 le fatture,
si 3a cco ttutto quer gruggno de marmotta
nun fa a ttempo a smartí 4 ll’ingrufature! 5
Nun pare un
piatto d’inzalata cotta,
o una pila da mette le pavure? 6
Nun faria sta figura der Callotta
smove 7 la verminara a le crature?
Eppuro 8
ecchela llí: ccristiani, abbrei,
frati, preti, avocati, monziggnori,
vestí, bbeve, 9 maggnà...: tutto pe llei!
E cquella
fijja mia, pover’Aggnesa,
bella, che nun fuss’antro 10 li colori,
è affurtunata com’un cane in chiesa.
Sta Cammera
de cristo è una puttana:
bbeati quelli che la ponne fotte, 1
e ddàjje 2 che sse sentino 3 le bbôtte
sino ar paese de la tramontana.
Da pertutto
quì sbarcheno marmotte,
che nun zò 4 ussciti ancora da dogana
che ssubito, alò, 5 cchirica 6 e ssottana,
eppoi tajjele 6a ggiú che ssò ricotte! 7
A Rroma,
abbasta de sapé er canale
e trovà er buscio 8 pe fficcà un zampetto,
a cquaresima puro 9 è ccarnovale.
Ma er padre
de famijja poveretto
nassce pe tterra, more a lo spedale,
e si 10 ffiata sciabbusca 11 er cavalletto.
Che razza de
dimanne 1 oggi me fai?!
Cosa vô ddí Cconzurta, Dateria,
e Bbongoverno, e Llemosinería!...
Che tte premeno a tté ttutti sti guai? 2
Bbubbú,
bbubbú, 3 nnun la finischi mai!
oggni ggiorno una nova fantasia!
Ha rraggione sta matta de tu’ zia
che pe cciarvello sciai 4 pancotto, sciai.
Vai
stroliganno 5 su li fatti antichi!...
Se vede bbe’ cche nun hai da fà un cazzo,
fijjolo mio, che ddio te bbenedichi.
Dunque, aló,
ddàmo gusto ar dottorazzo:
a Rroma ste parole che ttu ddichi
nun zò antro 6 che nnomi de palazzo.
«Eh zia,
quela regazza che sse vede,
guercia, a pponte sant’angelo, 2 la festa,
che sta llí a sséde, e ttrittica 3 la testa,
zia, chiede la lemosina? la chiede?»
«E cche
mmaniera di discorre è cquesta?
Bbestia, se disce sédere e nnò ssede.
Nun zerve, cquì sse predica la fede
in ghetto, 4 se fa el brodo in d’una scesta. 5
Guardatela mó
llí la pupa nercia! 6
Ha mommó dodiscianni su la groppa
e ancora nun za ddí cceca ma gguercia!
Ehéi!
cquà nun ze trotta, se galoppa!
Cquà la matassa è frascica e nnò llercia: 7
va bbene un po’, ma cquanno è ttroppa è ttroppa.
Mi’ nonna a
un’or de notte che vviè Ttata
se 1 leva da filà, ppovera vecchia,
attizza un carboncello, sciapparecchia, 2
e mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.
Quarche
vvorta se fâmo 3 una frittata,
che ssi 4 la metti ar lume sce se specchia 4a
come fussi 4b a ttraverzo d’un’orecchia:
quattro nosce, 5 e la scena 6 è tterminata.
Poi ner
mentre ch’io, Tata 6a e Ccrementina
seguitamo un par d’ora de sgoccetto, 7
lei sparecchia e arissetta 7a la cuscina.
E appena
visto er fonno ar bucaletto,
’na pissciatina, ’na sarvereggina,
e, in zanta pasce, sce n’annamo a letto.
Sta notte a
mmezza notte, sorcia bbella, 1
tra un bove e un asinello, s’un tantino
de fieno, Cristo in d’una capannella
è nnato bbianco rosso e rriccettino.
Via,
dàmo un’attizzata a lo stuppino,
cominciamo a ssonà la ciaramella. 2
è ora d’arimettelo er
bambino,
ché ggià cquí avanti a mmé ss’arza la stella.
Guarda che
ccoda se 3 strascina, oh Teta!,
longa magaraddio ’na mezzacanna,
e nun è usscita tutta da segreta!
Scropi 4
dunque er presepio e la capanna;
e fàmo a lo spuntà dde la cometa
nassce er bambino e ddiluvià la manna.
Ma ccome nun
z’ha er tempo oggi da smove?!
Nun zai che ffest’è oggi, eh Sarvatore?
Li trenta, sant ‘Andrëa pescatore.
De sta ggiornata tutti l’anni piove.
E cche vvor
dí? cce fai tanto er dottore,
e ppoi tutto pe tté ssò ccose nove!
Manco si ttu nun fussi nato indove
chi maggna more e cchi nun mmaggna more. 1
E l’istesso
der trenta de novembre
è er marito de Checca la mammana,
che nun zapeva der dua de discembre.
Si ppiove er
giorno de Santa Bbibbiana,
piove (e ddillo pe mmano de notaro)
quaranta ggiorni e ppoi ’na sittimana.
No dde Campo-carleo:
1 cuell’è, ssorella,
parrocchia der curato Spadolino. 2
Io vorzi dì Ssan-Lorenzo-in-lucino 3
dov’è ccurato er Padre Carbonella. 4
Ebbè,
mme perzi puro una sciafrella 5
pe ccurre a bbussà ppresto ar finestrino, 6
cuanno a cquella bbon’anima de Nino
jer notte je pijjò la raganella. 7
Tre ora a
ffila j’averò bbussato!
M’arisponnessi tu che llí nun c’eri?
Accusí m’arispose er zor Curato.
E ppoi
ridenno me sce disse jjeri,
ch’er zomaro ch’er giorno ha ffaticato
la notte vò ddormí ssenza penzieri.
Buggiaralle
peddìo chi ll’ha inventate
st’armacciacce da foco bbuggiarone!
Ché ggià de scerto dovett’esse un frate
co un po’ de patto-tascito a Pprutone.
Sor zargente,
nun famo 1 bbuggiarate:
cuanno che mme mettete de piantone,
o ccapateme l’arme scaricate,
o ar piuppiù ssenza porvere ar focone.
Cortello
santo! Armanco nun è cquello
vipera da vortasse 2 ar ciarlatano! 3
Pe mmé, evviva la faccia der cortello!...
Lo scanzate
quer buggero, eh, sor Pavolo?
Nun ze pô mmai sapé co st’arme in mano!
E ppô a le vorte caricalle er diavolo.
Vèstete
via, nun fâmo regazzate:
per oggi nun vô ppiove: 3 è ttempo grasso. 4
Ma nnun è ttempo, nò, dde fà ffracasso:
nu le vedi le nuvole squarciate?
Le
carrettelle ggià ssò ttutte annate? 5
E nnoi se 6 n’anneremo a spass’a spasso.
Che cc’è da Ripa a Papaggiulia? 7 un passo.
Poi, sibbè 8 ppiove, pioveno sassate?!
Che ffiocca!
fiocca er cazzo che tte frega!
Mó ddo de guanto
e tte tratto ppiú peggio de ’na strega. 10
Che ffate a
ccasa? nun c’è mmanco Muccio! 11
Volete restà ssola, sora Popa, 12
come un torzo de cavolo 13 cappuccio?
E cchi vv’ha
ddetto mai, sora piccosa,
che in ne la zucca nun ciavete sale?
Io nun ho detto mai sta simir-cosa,
ché discennola a vvoi, direbbe 2 male.
Anzi, le
bburle a pparte, sora Rosa:
pô esse tistimonio er zor Pascuale
si jjerzera vôtanno l’orinale
nun disse 3 che vvoi sete appititosa.
E
cciaggiontai, 4 guardate si cce cojjo, 5
c’ortr’ar zale c’avete in ner griterio 6
tienete er pepe drento a cquell’imbrojjo.
Scappò
7 allora ridenno er sor Zaverio:
«Co ssale e ppepe e cquattro gocce d’ojjo
poderissimo 8 facce 9 er cazzimperio». 10
Sai dove sta
a sserví mmó cquela strega
che ssciacquava li piatti a la locanna?
Dar gobbetto cquaggiù cche ttiè bbottega
d’anticajje e ppietrelle a Ppropaganna. 1
Er bell’è
cch’er padrone se la frega,
sibbè che jje stii sotto mezzacanna.
Ma ssi jje sce dài guai, lei te lo nega,
e cce sforma cappelli 2 che ss’addanna.
Io vorebbe
vedé er zor Gobbriello 3
co cquer po’ de bbaullo in guardarobba
come s’ingeggna a intrufolà 4 l’uscello.
Co ttutto che
cchi ssa spiegà sta robba
disce c’a sti derfini 4a er manganello 5
se 5a misura dar giro de la gobba.
Che jje disse
a mmi’ mojje io, sor Fedele?
Tòta, da’ udienza a mmé, ffa’ la puttana,
ma nun batte acciarini: 1 e cche cc’è? er mele?,
che tte piasce in nell’arte de ruffiana?!
Ma cche! nun
curze un’antra sittimana
che ggià er Vicario che cciaveva er fele, 2
la messe in monistero a Ssammicchele
pe rruccherucche
E io in barba
sua e dder Ficario
me ne sto cco la sposa de mi’ zio,
che llei puro ha er marito in zeminario.
Sin
ch’è ggiorno, a incannà cquì lei cquà io;
eppoi, ’na terzaparte de rosario,
du’ bbocconi, e a ddormí in grazzia de ddio.
Sta tu’
1a Francia sarà una gran Città,
ma li francesi che nnascheno llí
hanno una scerta gorgia de parlà
che ssia ’mazzato chi li pô ccapí.
Llà
ttre e ttre nun fa ssei, tre e ttre ffa ssì, 1
e, cquanno è rrobba tua, sette a ttuà. 2
Pe ddì de sì, sse 2a bburla er porco: uì:
e cchi vvô ddì de nò disce: nepà.
E mm’aricordo
de quer zor Monzù
che pprotenneva 2b che discenno a ssé, 3
discessi 3a abbasta, nun ne vojjo ppiú.
E de
quell’antro che mme se maggnò
’na colazzione d’affogacce un Re,
e me sce disse poi che ddiggiunò?!
Tu che ssei
stato a Spaggna a cconcià ppelle
è vvero che Ppariggi è un gran locale,
dove pe ddí mojje, tutt’uno, e ssale,
se disce fame, sette galli, e sselle?
Ce sò
llà ll’osterie, le carrettelle?
Pissceno com’e nnoi nell’urinale?
Le case pe annà ssú ccianno le scale?
Cala la luna llà? ssò assai le stelle?
Li muri
sò de leggno o ssò de muro?
Va a Rripetta er carbone o a Rripagranne?
L’acqua de Trevi, di’, ffuma llà ppuro? 1
Chi Ppapa
sc’è?... Li gobbi hanno la gobba?
Se troveno a Ppariggi le mutanne?
Ggira pe Rroma llà ttutta la robba?
Voi, sor
gianfutre mio, sete uno sciocco
ar brusco, ar zugo, ar burro e in gelatina,
cor una testicciola piccinina
d’avenne 1a er mercordí vvent’a bbaiocco.
Ma ccome un gallo
pò cchiamasse un cocco, 2
si er cocco ar monno è un ovo de gallina!
Voi pijjate campana pe bbatocco,
voi confonnete er re cco la reggina.
E ssull’ova
ch’edè 2a a st’antra bbaruffa?
Se sa, 2b mme fate dì a la pollarola
che vve ne manni du’ duzzine a uffa; 3
e cquella
c’ha studiato a un’antra scôla,
appena ha inteso st’immassciata 3a bbuffa,
ve l’ha mmannate 3b co la coccia sola. 4
Sentenno
e ddí oggnisempre cuarche ccosa ssciocca,
semo soliti a ddí: cquesto opre bbocca
e jje dà fiato poi come ar pallone.
Ma sta bbocca
e sto fiato è un paragone
da mettelo
ché a nnoi sce tocca a rrispettà, cce tocca,
le cose de la nostra riliggione.
E nun
zò affari de scipoll’e bbieta: 4
me ne sò accorto glieri 5 si 6 è ppeccato
in ner fà battezzà la fìa 7 de Teta:
perché pprima
dell’acqua dà er curato
sale, ojjo e sputo: e cquanno ha dditto: Feta, 8
opre bbocca lui puro e jje dà ffiato.
Jeri, a
strada Connotta,
che cce sta Mmonziggnor Viscereggente 2
aggnède a famme 3 cresimà er regazzo,
che mme lo tenne a ccresima Cremente.
C’era assieme
co nnoi tant’antra ggente
tutti o cco la pupazza o ccor pupazzo:
però er zor Monziggnore indeggnamente
de scera 4 sola n’ariccorse 5 un mazzo.
Capisco er zignatea,
6 er zignacruccia 6a
l’ojjosanto, la mancia, la bbammasce, 7
le cannele, er compare e la fittuccia;
ma, ssi
8 avessi da dí, ddoppo der baffo
in ner nome-de-padre, 9 nun me piasce
quella malacreanza de lo schiaffo.
Saria bbuscía
de dí che cquasi tutto
quello che ss’è inventato er padreterno
nun zii 1 cor zu’ perché. L’istate è assciutto
perché vvòrze creà zzuppo l’inverno.
Perché ha
ccreato er porco? p’er presciutto.
Perché la carn’umana? p’er governo.
Perché li turchi? pe ccavà un costrutto
dell’antro Monno e nun spregà l’inferno.
Ma cquanno
fesce er zanto madrimonio,
pe nnun fajje 2 sto torto che ddormissi 3
bisogna dí cche lo tentò er demonio.
Certo chi
ppijja mojje è un gran cazzaccio:
e ha rraggione er francese che ssentissi 4
ch’er madrimonio lo chiamò marraccio. 5
La sera ch’er
Zignore a ôr de scena 1
distituí 2 la santa caristia, 3
nun zo ccapí pperché ffussi de vena
de dàjje 3a er nome de sta bbrutta arpia.
Tratanto
scerto è una gran cosa piena
d’amore pe sta porca de gginía
de ggentacce der monno, ammalappena
deggni de mentovà Ggesummaria.
Te pare amore
a tte ppoco futtuto 4
quer cacciasse
pe ssiggillà una lettra co lo sputo?
E ssotto poi
sto scerotin de pasta
calà in ner corpo d’un cristian cornuto
pe rriusscí dda dove entra la tasta? 6
Avessi fatto
ar monno ancora ppiú
de tutto er bene che ppò ffasse cquí;
fussi un santo, una cosa da stordì,
fussi un mostro infernale de vertù;
maggnete,
fijjo mio, lecchete tu
’na fetta de salame er venardì,
e bbona notte: hai tempo a ffà e a ddì:
se va a ffà le bbrasciole
Ringrazziamo
però la bbonità
de Ddio, ché ppuro er vicoletto sc’è 1a
pe ffà ppeccati in pasce e ccarità.
Basta
’ggnitanto d’annà a ffà cescè 2
in cuella grattacascia 3 che sta llà,
eppoi te sarvi si scannassi 3a un Re.
Si 1
ttu mme parli de turchi e dd’abbrei,
loro nun zò cattolichi, Cremente.
Questi, compare mio, sò ttutta ggente
c’adora scinque Ggesucristi 2 o ssei.
E li
sammaritani e ffilistei,
e ll’antre riliggione puramente, 3
nun zò ccome la nostra un accidente: 4
je ponno tutte bbascià er culo a llei.
Vammel’a
ttrova un’antra riliggione
che sappi fà ccor mosto e la farina
quer che la nostra fa a le levazzione. 5
E indove sta
ttra ttutta sta caggnara
chi arrivi com’e nnoi, pe ccristallina, 6
ar zest’Ordine e ssino in piccionara? 7
Er Padre
Patta, indove ce va a scola
er fìo de quer che ffa la regolizzia; 1
ha ddetto c’ortre ar peccato de sola 2
sette sò li peccati de malizzia.
Eccheli
cquì pparola pe pparola:
primo superbia, siconno avarizzia,
terz’usura, quart’ira, quinto gola,
sesto invidia, e ssettimo pigrizzia.
Cuanno Iddio
creò ssette sagramenti,
er demonio creò ssette peccati,
pe ffà cche ffussi contrasto de venti.
E cquanno che
da Ddio furno creati
ar monno confessori e ppenitenti,
er diavolo creò mmonich’e ffrati.
Avess’inteso
quelo storto cane
che sse messe l’antr’anno er collarino
come spiegava chiaro er belarmino, 1
j’averessi sonato le campane.
«Nun te
fidà ddell’occhi e dde le mane»,
disceva a un regazzetto piccinino:
«quello che ppare vino nun è vvino,
quello che ppare pane nun è ppane.
Cos’è
la riliggione senza fede?
sarebbe com’a ddì cquattro e ddua venti,
e mmette 2 un fiasco senza vesta in piede.
Pe cquesto,
fijjo, quer che vvedi e ssenti
è inganno der demonio, e nun lo crede. 3
Quelli sò, fijjo mio, tutti accidenti».
E ccome vôi
che stii, povero Nino!
Sta c’un momento more e un’antro campa:
e ssi nun fussi che jje gusta er vino,
già nun ce ne sarìa manco la stampa.
Mò
aspetta fra Ppetronio cor bambino
de la rescelì: 1 e ccasomai la scampa,
ha ffatto voto d’attaccà una zampa 1a
a la Madonna de Sant’Agustino. 2
A bbon conto
jerzera ebbe ’na stretta
ner magnà ccerto pane e ccompanatico,
che lo communiconno pe staffetta.
E ’r prete
poi che de ste cose è ppratico,
je vorze puro dà, ddoppo un’oretta,
quela cosa ppiú ppeggio der viatico.
Quer dottor
de Saspirito in zottana 1
c’a Ttuta, aggratis, je guarì la tiggna,
che ll’anpassato la portò a la viggna
e st’agosto j’ha ffatto da mammana,
disce che, a
la Repubbrica Romana,
lassù, ppe vvia de ’na frebbe maliggna
c’era invesce dell’angelo una piggna 2
e Ccastello era la gran mola driana. 2a
Accidenti!
che buggera de mola!
Averanno impicciato tutt’er fiume
co li rotoni de sta mola sola!
Oh vvarda,
2b cristo!, come va er custume!
Mascinà pprima er grano pe la gola,
eppoi pell’occhi fà ggirelli e ffume!
Quer buggero
llí sotto ar piedestallo
dell’angelo, in ner mezzo de Castello
che ppare un cuppolone de cappello
o un zetaccio o una forma de timballo, 1
c’è
cchì ddisce ch’è mmaschio, 2 bbuggiarallo!,
come li sassi avessino l’uscello! 3
Eppoi, l’antro ch’è ffemmina indov’ello 4
pe ppoté ffà la razza e mmaritallo?
Quer che cce
cricca, 5 se 6 fa ppresto a ddillo,
ma pprima de poté mettesce er bollo,
’ggna dàjje tempo e staggionà er ziggillo.
Una spesce
llaggiú dde ponte-mollo! 7
è mollo un cazzo, e cchi
llo vò ccapillo
se lo vadi a ffà ddà tra ccap’e collo.
è un mese ch’er più ffijjo piccinino
lo manno a scôla cquì a l’iggnorantelli 1
e ggià pprincipia a ffà li bbastoncelli 2
e a rrescità all’ammente l’abbichino. 3
Uno a
Ttatagiuvanni 4 fa l’ombrelli,
un antro a Sammicchele 5 è scarpellino,
e ar piú ggranne ch’è entrato all’Orfanelli 6
j’impareno li studi de latino.
Le tre
ffemmine, Nina se n’annette, 7
Nannarella se l’è ppresa la nonna,
e Nnunziatina sta a le Zoccolette. 8
E io la
strappo via, povera donna,
cor rimette le pèzze a le carzette,
sin che nun me provede la Madonna.
Che arte fate
mò, vvoi, sor Ghitano?
Fate er curier de corte, 1 o la staffetta?
Fate er zoffione, er pifero, er trommetta,
l’amico, la minosa, o er paesano? 2
Quanno stavio
a abbità ttra Rruff’e Ffiano
ve volevio bbuttà ggiú da ripetta; 2a
e mmó pportate ar petto la spilletta
du’ lumache
Che
cc’è a ppiazza Madama 5 ch’è da maggio
c’ogni ggiorno l’avete pe ccustume
d’annacce a ffà ttra er lusco e ’r brusco 6 un viaggio?
Nun arzarmo
però ttutto sto fume,
per via ch’er vicoletto der vantaggio, 7
sor Cavajjere mio, rïesce a ffiume.
Duncue lo vôi
sentì si pperché ttosso?
Perché dd’avanti all’arba inzin’a mmone
sò stato a bbervedé lì de piantone
iggnud’e ccrudo e cco la guazza addosso.
Eppoi
quann’è stat’ora de dà er grosso
cianno uperto un spirajjo de portone
pe infilacce un’a uno ar cortilone,
come se fa a l’agnelli er zegno rosso.
Ladri
futtuti! a mmé mmezzo grossetto
m’hanno dato a lo sbocco der cortile,
e a cquarche ddonna poi fino un papetto. 2
E ar
vortà li cartocci in ner bascile,
se tienevano er fonno immano stretto
rubbanno un cuartarolo oggni bbarile. 3
Da sì
cch’ebbe er proscetto era er compare
ggià ppecora segnata der curato,
e jj’annava a la longa ammascherato 1
un sbirro 2 com’e nnoi da secolare. 3
Bbe’, gattone
gattone asscivolato
lo vedde in ner porton de la Commare?
E llui subbito curze er militare 4
a ssonà la trommetta 5 ar vicariato.
Detto fatto
ordinonno ar bariscello
dua de cuell’abbatacci farisei
d’annà co ccinque bbracchi e un grimardello. 6
Pe ffalla
curta entronno tutt’e ssei,
e acchiapponno er Compare poverello
propio in freganti-grimini 7 co llei.
Hanno sposato
adesso a la parrocchia
madama Timistufa 2 e cquer futticchio, 3
che ppareveno er fuso e la conocchia,
la sora Zinforosa e ’r zor Uticchio. 4
Lui è
ggobbo più ppeggio de no spicchio
de merangolo, e Llei è ’na ranocchia.
Dunque chi ll’ha ttentati? Farfanicchio?, 5
je pôzzi 6 calà er latte a le gginocchia!
Perché,
mettemo, 7 nun faranno fijji;
ma ssi li fanno e Ccristo nu l’ammazza,
le nottole nun cacheno cunijji.
Dunque
pregamo Iddio che de sta razza
de marmottine vive s’aripijji
chi l’averebbe da mettelle in piazza.
Appena er Zor
Uticchio e Zzinfarosa,
che ppareveno un par de peracotte,
furno sposati, io fesce co la sposa: 2
«Sora Commare, annateve a ffà fotte». 3
Tre ggiorni
appresso poi, doppo la notte
de cuella gran faccenna sbrodolosa, 4
vorzi 5 sapé si ccome annò lla cosa,
e si er boccio 6 poté rregge a le bbotte.
E jje disse
accusí: «Ssora Commare,
in cuella tar nottata sce fu bbujja? 7
Annassivo d’accordo cor Compare?
Ar Zor
Uticchio je s’arzò la gujja?».
Lei m’arispose allora: «e cche vve pare?
no, ppover’omo: ciafrujja, ciafrujja». 8
Come campa
Mattia? campa er cazzaccio 1
a le spalle der vecchio Zzaccaria.
Fa ll’arte che fasceva er Micchelaccio:
maggnà e bbeve, annà a spasso, e ttirà vvia.
E io porco
somaro gallinaccio
che mme vado a ddannà ll’anima mia,
che schiatt’e ccrepo, e sbuggero, e mme sbraccio
pe mmantené la pacchia 2 ar zor Mattia!
Fijji?!
Accidenti a cchi li scerca, io dico!
Eppuro sto gustaccio che cc’è mmone 2a
d’annalli seminanno è accusí antico!
Uh ppotessi
tornà ddrent’ar ficone
de mi’ madre, voría, 2b sin a un ciníco, 3
tajjamme st’uscellaccio bbuggiarone.
Er
capitan’abbate Debbiticci 1
che ssi mmette per dio mano ar palosso,
è ssalame capasce de dà addosso
a un squadron de carote e ppajjaricci, 2
spesso spesso
ar quartiere se fa rrosso
discenno lui che cce n’ha ppochi spicci, 3
e che ssi ar ronneggià 4 ffamo 5 pasticci
ce fotte a tutt’inzieme in ner profosso.
E sfodera
oggnitanto la guainella
pe ffà ffà le sercizzie
a cquelli che nun stanno in zentinella.
A ddu’ ora
poi caccia la corona
pe ddí er rosario, e ttiè la coratella 8
de mannacce
Hai sentito
c’ha detto oggi er padrone?
C’avenno inteso er grann’Abbreo Roncilli 2
c’ar monte 3 ce ballaveno li grilli 3a
ha ddato ar Papa imprestito un mijjone.
Cusí oggnuno
averà la su’ penzione,
e nnun ze sentiranno ppiú li strilli
c’a sto paese ggià tutt’er busilli 3b
sta in ner vive a lo scrocco e ffà orazzione.
Perantro
è un gran miracolo de ddio,
che pe sspigne la Cchiesa a ssarvamento
abbi toccato er core d’un giudio.
Ma er Papa
farà espone er Zagramento
pe cconvertí a Ggesú benign’e ppio
chi l’ha ajjutato ar zessant’un per cento.
Ma eh?
Cèssummaría! 2 che Mmonno tristo!
Fin che sse vedi fà a li ggiacubbini
va bbe’, ma un Papa ha da pijjà cquadrini
da un omo c’ha ammazzato Ggesucristo!
Uh rriarzassi
la testa Papa Sisto
ch’empí zzeppo Castello de zecchini 3
strillerebbe: «ah ppretacci mmalandrini,
c’era bbisogno de sto bbell’acquisto?
Nun ciavete
perdio tanta de zecca
pe cugnà mmille piastre ogni minuto,
senza falle vení sin da la Mecca?
E cco ttutto
sto scànnolo futtuto
maneggiate a Ssan Pietro la bbattecca 4
pe bbuggiarà la ggente senza sputo».
Er Papa,
ch’er Zignore lo conzoli,
doppo avé co ddu’ editti solamente
fatto viení, ddeograzzia, un accidente
a sti ggiacubbinacci romaggnoli,
pe ddistingue
de ppiú ggente da ggente
e ddivide accusí ccesci e ffascioli,
ha mmannato una crosce
che in cuer frufrù 2 nun hanno fatto ggnente. 3
E st’antri
cavajjeri c’ha inventati
nun hanno d’annà mmai contro er Granturco 4
pe avé la rimissione de peccati.
Pe
spiegà ppoi chi ssò, ll’ha bbattezzati
fijji de San Grigòrio ’e ttamaturco
protettor de li casi disperati. 5
La sera a
ttordinone fo er zordato
ar ballo de commedia er zicch’ezzacche,
che ddoppo una bburrasca viè Ppilato
co li soni c’a ffatto Pijjavacche. 1
Er zoffione
2 che ssoffia sta agguattato 2a
a drent’un zoffietto immezz’a ttante pracche: 2b
e cc’è un lampanarone intigamato
tra ccerti vetri a uso de patacche. 3
Poi
c’è un omo 4 che zzompa co ddu’ donne
ner cortile der Re ttutto guarnito
de colonnati a ffuria de colonne, 5
e ddicheno
che st’omo è un manfrodito. 6
Poi c’è un incennio a ffoco c’arisponne
a ffiume. 7 E sse va vvia doppo finito.
Quer
Monzù a ttordinone 1 che ttiè ffora
le zinne in ner ballà ccom’e Mmadama,
si vvolete sapé ccome se chiama,
io j’ho inteso de dí Rocca-priora. 2
Tiè
ccerti quarti tiè, per dina nora!,
che ’ggni donna coll’occhi se lo sbrama: 2a
frulla le scianche 2b poi com’una lama,
e ccrederessi che cce ggiuchi a mmora.
Io so cche
cquanno terminò er duetto
che ffasceveno lui co le du’ donne,
pareva propio che ccascassi er tetto.
E ddisse in
piccionara er Zor Marchionne
che mmanco ha inteso fà ttutto quer ghetto
quanno upriveno l’occhi le Madonne. 3
Li manfroditi
sò (ggià cche tte preme
de stillatte er ciarvello in st’antra bbega), 2
sò ppe ffattucchieria de quarche strega
ommini e ddonne appiccicati inzieme.
Loro
sò mmaschi e ffemmine medeme, 3
e ssi jje viè er crapiccio d’annà in frega
cazzo e ffreggna je sta ccas’e bbottega
pe ddà ar bisogno e ppe rrisceve er zeme.
Quer poté
appiccicasse 4 e ffà ll’amore
co cchiunque te capita d’avanti,
nun te pare un ber dono der Ziggnore?
All’incontrario
poi tanti e ppoi tanti,
gente lescit’e oneste e dde bbon core,
nun troveno a scopà mmanco li santi.
Giuveddí
cc’è a la Pasce, e ggià sta ffori
sur Cartellone accost’ar butteghino,
La gran battajja der gran Re de mori
fatta dar gran Orlanno Palattino,
Co
Ppurcinella finto spadaccino
e ddisperato tra li creditori.
Eppoi fanno pe ffarza Traccagnino
servo de du’ padroni, co li Cori.
Sai che rride
ha da esse Purcinella
si ppe ppagà li debbiti va ar Monte
de la Pietà a impegnasse la guainella! 1
Poi, sabbito,
er gran Carro de Fedonte,
co la bburletta nova tanta bbella
Muzzio-Scivol’all’ara e Orazzio ar ponte.
Ma cche tte
vai freganno 1 vemmarie
e ppaternostri pe infilà ccorone!
Passò cquer temp’Enea der re ddidone:
oggi è ttempo d’uprí fforni e osterie.
Da quanno
ch’è vvienuto Napujjone
uffizzioli, rosari e llettanie
le donne l’hanno mess’in d’un cantone
e nun penzeno ppiù cc’a cciafrerie. 2
Fiori,
occhiali, smanijji, orloggi, anelli,
pennenti, farpalà, ppettini, veli,
fittuccie, e ccappelloni com’ombrelli.
Senza statte
a ccontà 3 ttutti li peli,
che ssò de li paini poverelli
che mmoveno a ppietà li sette sceli.
È
nnata e bbattezzata a la Matriscia:
cuà nun ze viè pe sbarattà le carte,
vienghi a vvedé coll’occhi sui che cciscia,
e ddoppo me dirà s’io sò dell’arte.
Se la facci
spojjà ssenza camiscia,
la tasti puro da tutte le parte,
la provi, e vvederà cchi è la Miscia,
e ssi ppropio è un boccon da Bbonaparte.
Se ne troveno
pochi de sti musi.
Le regazze, Monzù, che jje do io,
lei pò ppuro 1 fregalle a occhi chiusi;
ché nun
zò le puzzone, Monzù mmio,
che jje porta un zocchí, 2 ppiene, me scusi,
de tutte sorte de grazzia de ddio.
Quer
zacconaccio 1 indove ciariscoto 1a
er giulio pe mmi’ soscero la festa,
nun za 2 de santi che cce n’è una scesta
che pponno dà in ner culo a Ssanto Toto.
San Rocco
è pprotettore de la pesta:
Sant’Emidio protegge er terramoto:
Santa Bbibbiana sta ssopra la testa:
Santa Luscia sull’occhi. Eppoi te noto
pe la gola
San Biascio, pe li denti
Sant’Appollonia, e Ssant’Andrea Vellino
pe cchi mmore, dio guardi, d’accidenti.
Pe li
morti-de-fame San Carlino, 3
Sant’Anna pe le donne partorienti,
e ppe li maritati San Martino. 4
Co st’antre
ammazzatore 1 sgazzerate 2
c’hanno vorzuto 3 arzà 4 ffora de porta, 5
nun ze 6 disce bbuscia che Rroma è mmorta
più ppeggio de le bbestie mascellate.
Dove se
6 gode ppiú com’una vorta
quer gusto er Venardí dde le capate, 7
quanno tante vaccine indiavolate
se 6 vedeveno annà ttutte a la sciorta? 8
Si 9
scappava un giuvenco o un mannarino, 10
curreveno su e ggiú ccavarcature 11
pe rripetta, p’er corzo e ’r babbuino. 12
Che ride
13 era er vedé ppe le pavure
l’ommini mette mano
e le donne scappà cco le crature! 15
Ner mentre
che la Verginemmaria
se magnava un piattino de minestra,
l’Angiolo Grabbiello via via
vieniva com’un zasso de bbalestra.
Per un vetro
sfasciato de finestra
j’entrò in casa er curiero der Messia;
e co ’na rama immano de gginestra
prima je rescitò ’na Vemmaria.
Poi disse a
la Madonna: «Sora spósa, 1
sete gravida lei senza sapello
pe ppremission de ddio da pascua-rosa». 2
Lei allora
arispose ar Grabbiello:
«Come pò esse mai sta simir cosa
s’io nun zo mmanco cosa sia l’uscello?».
Maria Vergine
gravida a la posta
trovò una lettra: A Maria bbenedetta.
«Chi ddiavolo me scrive?… ah, è la risposta
de mi’ cugnata Santa Lisabbetta».
Je raccontava
lei c’a ffall’apposta
je cresceva a llei puro la panzetta.
Allora lei, sibbè ch’er viaggià ccosta,
j’annò a ffà cor su’ bboccio 1 una bburletta.
Disce 2
che la trovò co ppoca panza,
senz’appitito e ccolla sputarella,
in zur comincio della gravidanza.
San Giuseppe
tratanto s’ariscarda: 3
doppo leva ar zomaro la bbardella,
e appoggeno tre mmesi la libbarda. 4
Er boccetto
è Ssan Giuseppe spóso 3 de Maria.
Lei è cquella vestita de morletti 4
e de bbroccato d’oro de Turchia.
Vedi un
pupazzo pieno de fiocchetti
tempestati de ggioje? ecch’er Messia.
Cazzo! evviva sti frati bbenedetti,
che nun ce fanno vede guittaria! 5
Cuello a
mezz’aria è ll’angelo custode
de Ggesucristo; e cquelli dua viscino, 6
la donna è la Sibbilla e ll’omo Erode.
Lui disce a
llei: «Dov’ello sto bbambino
che le gabbelle mie se vò ariscòde?». 7
Lei risponne: «Hai da fà mórto 8 cammino».
Sette ggiorni
e un po’ ppiú ddoppo de cuello
che ccor fieno e li scenci inzino ar gozzo
la Madonna tra un bove e un zomarello
partorí er bon Gesù ppeggio d’un mozzo;
er padre
sputativo 1 poverello
pijjò in braccio er bambino cor zangozzo; 2
e annorno ar tempio a fajje fà a l’uscello
er tajjo d’un tantin de scinicozzo. 3
Eppoi doppo
trent’anni fu pe mmano
de San Giuvanni bbattezzat’a sguazzo
in cuer tevere 4 granne der giordano.
In cuanto a
cquesto è vvero ch’er regazzo
venne a la fede e sse fesce cristiano:
ma le ggirelle 5 io nu le stimo un cazzo.
Da quer paese
indov’hanno er vantaggio
de frabbicà er cacavo 2 e la cannella,
fescero sti tre Rré tutto sto viaggio
appress’ar guidarello 3 de la stella.
Se portava pe
Ccorte ogni Remmaggio 4
cuattro somari, tre ccavar 5 da sella,
du’ guardie-nobbile, un buffone, un paggio,
un cameo, 6 du’ cariaggi e una bbarella. 7
Arrivati a la
stalla piano piano
er ré vvecchio, er ré ggiovene e ’r ré mmoro,
aveven’oro, incenz’e mmirra immano. 8
L’incenzo ar
Dio, la mirra all’omo, e ll’oro
toccava a Ccristo com’e ré soprano, 9
ché li Ré ggià sse sa, ttutto pe lloro! 10
Ner
ventisette de dicemmre a lletto,
San Giuseppe er padriarca chiotto chiotto
se ne stava a rronfà ccom’un porchetto
provanno scerti nummeri dell’Otto; 1
cuanno
j’apparze in zogno un angeletto
cor un lunario che ttieneva sotto;
e jje disse accusì: «Gguarda, vecchietto,
che ffesta viè quì ddrento a li ventotto». 2
Se
svejjò San Giuseppe com’un matto,
prese un zomaro ggiovene in affitto,
e pe la prescia manco fesce er patto.
E cquanno er
giorn’appresso uscì l’editto,
lui co la mojj’e ’r fìo ggià cquatto quatto
viaggiava pe le poste pe l’Eggitto.
Com’er Re
Erode fesce uscí l’indurto
de scannà tutte quante in ne la gola
le crature de nascita in fasciola,
fu pe ttutta Turchia propio un tumurto.
Le madre lo
pijjorno pe ’n’insurto:
e mmettenno li fijji a la ssediola, 1
fasceveno dí mmesse a Ssan Nicola; 2
ma er tempo pe ssarvalli era assai curto:
ché li sbirri
d’Erode a l’improviso
escheno a imminestrà bbotte, e ’gni bbotta
vola ’na tacchiarella
Cristo
tratanto sur zomaro trotta,
verzo l’Eggitto pe nnun esse acciso, 4
e ll’ha scampata pe la majja rotta. 5
Ner
più bbello der pasto de le nozze
venne drento a li fiaschi a mmancà er vino;
e, ppeggio, era serrato er bettolino
pe ppoté rrïempí le bbarilozze.
Che ffesce er
cantignere bbirbo fino!
Cormò d’acqua der pozzo tre ttinozze,
e dda sei serve affumicate e zzozze
la mannò in zala avanti ar padroncino,
acciò
ppregassi Maria bbenedetta
a prennese l’impegno cor fijjolo
de falla diventà vvin de ripetta. 2
«Bisogna er
fijjo mio pijjallo a volo»,
lei disse: «abbasta, si vvò ddamme retta,
farò ffajjene 3 armanco un quartarolo». 4
Appena ebbe
sentita la Madonna
pregallo a vvennemmià senza un rampazzo, 1
Ggesucristo, che ancora era regazzo,
soffiò istesso ch’er zasso d’una fionna.
Poi disse
incecalito: «Eh quela donna,
voi de sti guai che vve ne preme, un cazzo?
Che cce penzi er padrone der palazzo,
e nnun vadi a ccercà cchi jje li monna. 2
Pe ddà
la cotta a cquarche bbeverino 3
che vvorà ppasteggià le callaroste,
io ho da fà er miracolo der vino?!
Che?! M’hanno
da toccà ggià tante groste, 4
senz’annamme accattanno cor cerino
puro mó st’antra odiosità dell’oste!».
Credo
però che tutta sta sparata
che cquà ffesce Ggesú bbona-memoria,
lui nu la facess’antro che ppe bboria,
o, ccome dimo noi, pe ppallonata.
Ma la madre,
che ss’era sbilanciata 1
de volé ppropio vince sta vittoria,
disce er Vangelio ch’è una bbell’istoria
che ddiventò Mmadonn’addolorata.
Fijji, mo
ddico io, mai fussi vera
st’istoria cquì, bisogna avé ggiudizzio,
pe vvia c’ar tempo suo casca ’gni pera.
Specchiateve
in Gesú, che ppe cquer vizzio
de risponne a la madre in sta magnera
Dio permesse c’annassi in pricipizzio.
La mi’ fijja
zitella che ppartí
pe ggovernante de cuer tar Monzù,
me scrisse un anno-fa da Sciammilí, 1
e dda cuer tempo nun m’ha scritto ppiú.
Ho ssortanto
tranteso ggiuveddí
dar coco der Ministro Bbarberú, 2
che dda sí ch’er francese je morí,
povera fijja, s’è bbuttata ggiú. 3
Puro,
ammalorcicata 4 come sta,
ha sservito tre mmesi in d’un caffè
ar cammino e ar bancone a imminestrà. 5
E adesso
sposa un certo... Lamirè,
uno che ffa le Mediriane 6 fa,
che ssò orloggi che ssoneno da sé.
Oggi è
Ssanta Luscia occhi e ccannele, 1
per urbi-e-t-orbi c’è granne allegria.
Le donne che sse chiameno Luscia
oggi vònno magnà zzuccher’e mmèle.
Doppo-pranzo
2 dà un pranzo er zor Micchele
pe ddivozzione a sta santa, pe vvia
ch’è stato male de ’na malatia
che ddrent’all’occhi je s’è sparz’er fele. 3
Pare che
Iddio quattr’occhi j’abbi fatto
a sta Sant’avocata de li guerci,
si ddua ne porta in fronte e ddua ner piatto;
e sti dua che
jj’avanzeno li smerci,
ché accusí c’è a la Chiavica er ritratto,
cusí a la Tinta, a li Gginnasi e in Zerci. 4
Quer prete a
la Madon de la Pusterla 1
secco secco, arto arto, bbrutto bbrutto,
che sse maggnò de sabbito 2 una merla
cotta co li lardelli e cco lo strutto:
sto quequero
3 de prete, che ssa ttutto,
disce che Ssan Lorenzo panepperla 4
in todesco vò ddí pan’e ppresciuto:
ma sta volata je se pò ccredérla? 5
Nun ze nega
però ch’in quant’a cchiese
a Roma uno ppiú bbazzica 6 e ppiú ttrotta
e ppiú bbuffe ne trova a sto paese.
C’è
Ssan Spirito in Zassi a la longara, 7
metti San Biascio poi de la paggnotta,
poi la Minerba 8 e ppoi la Pulinara. 9
Senti
quest’antra e impara:
Santa Maria in Cacàbberi! 10 e ssi ccerchi
trovi er Zudario 11 e la Madon de Scerchi. 12
Levamo li
cuperchi
a st’antre dua: San Neo e Ttacchineo, 13
e la Madonna de Campocarlèo. 14
Lí a San
Bartolomeo
c’è in faccia San Giuvanni Gabbolita, 15
e c’è a piazza de Sciarra er Caravita. 16
Ma
cquà nun è ffinita:
ce sò li Stimiti, 17 e ppoi dua ppiú bbrutte,
Sastèfino der Cacco 18 e Sammautte. 19
E nu l’ho
ddette tutte.
C’è er San Tomasso accenci 20 e l’Imperíone, 21
San Lorenzo immiranna 22 e ’r Confalone. 23
Poi
viè ll’antra porzione
de San Giorgio in Vel’apro, 24 e in certi vicoli
la cchiesa de Sastèfino in pescicoli. 25
Vôi ppiú
nnomi ridicoli
de Subburra, 26 Rescèli 27 e Strapuntina? 28
Se pò ppassà 29 Santa Maria Carina? 30
Manco a
scappà in cantina
da li tre Ssan Giuvanni uno se sarva
dell’Aino, de la Piggna e de la Marva. 31
Farai la
coccia carva, 32
e ssempre n’averai de le ppiú bbelle.
ortr’a Ssan Zarvator de le Cupelle 33
ce ne
sò c’a volelle
dì ttutte sce voría de stenne un fojjo
cquà da Scossciacavalli
E pe cquesto
nun vojjo
protenne tanto che nun vadi ar lecco
cuer prete amico mio, bbrutto, arto e ssecco.
Otto teatri
fanno
de Carnovale si mme s’aricorda:
Fiani, Ornano, er Nufraggio, Pallaccorda,
Pasce, Valle, Argentina e ttordinone. 2
Crepanica nun
fa, manco er Pavone, 3
ma c’è invesce er Casotto: 4 e ssi ss’accorda
quello de le quilibbrie e bball’in corda,
caccia puro Libberti 5 er bullettone.
Nun ce
sò Arcídi 6 grazziaddio cuest’anno,
ché st’Arcídi sò arte der demonio,
e cquer che fanno vede è ttutto inganno,
Io
però, si ddio vò, co Mmanfredonio
vad’a ppiazzanavona, 7 che cce fanno
la gran cesta der gran Bove d’Antonio. 8
Stamio 2
da scento 3 servitori in zala
der gran Ministro Russio Cacarini, 4
ché c’era un ballo de ticchetta
pe la vittoria delli ggiacobbini, 6
cuann’ecco
entra scosciato da la scala
un curiero der Re de fiorentini,
orlato d’oro farzo de zecchini
e de zàcchera 7 messa co la pala.
Chiese de
parlà ar prencipe: e in cuer pezzo
che cc’è cche vvadi l’immasciata e ttorni,
ce diede a ttutti l’astrazzion d’Arezzo
Presto a li
bbutteghini
spedissimo un lacchè perc’a ’gni prezzo
ce curresse a incettà tutti li storni. 9
S’aspetta che
sse sforni
la matina la nova de 10 Toscana...
Manco un nummero! Fijjio de puttana!
Che cce
vorressi fà? ciavevo tanta
speranza a l’astrazzion de stammatina,
e vvarda si cche ssorte de scinquina!
Tre, ssette, ventiquattro, otto, quaranta.
Buggiarà
er cannarone 1 che li canta 2
e cchi lli mette ggiú ne la terina: 3
ch’io me voría ggiucà n’anguillottina 4
si llí ddrento ce sò ttutt’e nnovanta.
E pperché
cc’è a l’Impresa er castelletto? 5
Pe cconcertasse prima tra de loro
cuello c’ha da tirà ddoppo er pivetto. 6
Ecco si cche
vvò ddí cquer conciastoro, 7
quer passamano 8 addietr’ar parapetto: 9
nun ze sapessi mai tutt’er lavoro!
Sora
Ggiuvanna mia, a sto Monnaccio
è stato un gran cardéo 1 chi cc’è vvienuto!
Nun era mejjo de pijjà un marraccio 2
e d’accoppasse cor divin’ajjuto?
Su la porta
der Monno ce sta: Spaccio
de guainelle
de malanni passati pe ssetaccio 5
de giojje appiccicate co lo sputo. 6
Da regazzi,
la frusta ce sfraggella,
da ggioveni, l’invidia de la ggente,
e da vecchi, un tantin de cacarella.
Bbasta,
ggià cche cce semo, alegramente:
e nun ce famo dà la cojjonella 7
cor don-der-fiotto che nun giova a ggnente.
Cor zu’
bbravo sbordone
du’ pellegrini, a or de vemmaria 3
cercaveno indov’era l’Osteria,
perc’uno aveva male in d’una scianca. 4
Ce s’incontra
er zor Lotte, e jje spalanca
er portone discenno: «A ccasa mia».
E lloro je risposeno: «Per dia, 5
dimani sarai fío dell’oca bbianca». 6
Quelli ereno
du’ angeli, fratello,
che ar vedelli passà li Ghimorrini 7
se sentinno 8 addrizzà ttutti l’uscello.
E arrivonno
«Lotte, mannece 10 ggiú li pellegrini,
che cce serveno a nnoi pe ddajje in culo».
Disse
l’Angelo a Llotte tal’e cquale:
«Tu, le tu’ fijje, e la tu’ mojje Sara
currete sempre ggiú pe la Longara 1
senza mai guardà arreto
Però
la mojje, ficcanasa 3 e avara,
ammalappena l’Angelo arzò ll’ale,
svortò la testa, e ddiventò de sale
mejjo de quer che danno a la Salara.
S’oggiggiorno
tornassino ste cose,
dico de diventà ssale in un sarto 4
tutte le donne avare e le curiose,
co le
molliche 5 sole de lo scarto
ce se farebbe un ber letto de rose
a sti ladri futtuti de l’apparto. 6
Già a
Ssodema e Gghimorra ereno cotte
tutte le ggente arrosto com’e ttrijje,
e dde tante mortissime 1 famijje
pe ccaso la scappò cquella de Lotte.
Curze 2
er Padriarca finamente
senza mai pijjà ffiato e staccà bbrijje:
ma cquà, ssiconno er zolito, a le fijje
je venne fantasia de fasse fotte.
Ma pe vvia
4 che nun c’era in quer contorno
neppuro un cazzo d’anima vivente,
disseno: 5 «È bbono Tata»: 6 e ll’ubbriacorno.
Poi fatteje
du’ smorfie ar dumpennente, 7
lí dda bbone sorelle inzin’a ggiorno
se spartirno le bbotte alegramente.
Lo vedete
Ggesú, ssore Madame?
Nascé ccome le bbestie in ne la pajja:
doppo cor un martello e una tenajja
je toccò a llavorà dda falegname.
Da
ggiuvenotto annò mmorto de fame
a ppredicà er Vangelio a la canajja:
poi da omo je messeno la tajja
p’er carciofarzo 1 de cuer Giuda infame.
E li raschi,
e le spine, e la condanna,
e li chiodi, e li schiaffi, e cquella posca 2
che jje mannorno
Inzomma tutto
su cquell’ossi sagri:
epperò c’è ’r proverbio c’ogni mosca
va ssempr’addosso a li cavalli magri.
Rimonno
c’un trave che ccascò dar primo piano,
mentre lui stava a ppranzo in ner siconno
l’acchiappò in testa e jje stroncò le mano.
E sseguita la
lettra de Rimonno
che nun c’è bbarba-d’omo de cristiano
che ss’aricordi da che mmonno è mmonno
un antro terramoto meno piano.
E ddisce
ch’è un miracolo chi ccampi,
perché la scossa venne a l’improviso
peggio de cuer che viengheno li lampi.
E mmó, pe
nnun fà er fine de li sorci,
e nnun annà, ddio guardi, in paradiso,
stanno tutti in campagna com’e pporci.
Io stavo in
piede avanti der cammino
posanno la marmitta sur fornello,
quanto sento uno scrocchio ar tavolino,
e ddà ddu’ o ttre ttocchetti er campanello!
M’arivorto, e
tte vedo er credenzino,
tu ttu ttu ttú, ttremajje lo sportello.
Arzo l’occhi ar zolaro, e ppare infino
fà de questo 2 la gabbia de l’uscello.
Tratanto er
gatto, fsc, zompa tant’arto, 3
er campanello ricomincia er zono,
e una luscerna me va ggiú de cuarto.
Io mo ddunque
te dico, e nnun cojjono,
che sti tocchi sto trittico e sto sarto 4
vonno dí tterramoto bbell’e bbono.
E io? pe
sscegne
m’ero appuntata in testa la bbautta,
quanno che mme sentii cunnolà 2 ttutta,
e ccome una smanietta de dà ffora. 3
Nun te so ddí
ccome arimasi bbrutta:
so cche ccurzi a bbussà a la doratora:
«Sora Lionora mia, sora Lionora,
uprite oh dio che lla luscerna bbutta».
Tra ttutto
sce 4 poté ccurre er divario
d’un par de crèdi, c’uscì mmezza morta
da la stanzia der letto cor vicario.
E llí un
zuttumpresidio; 5 e a ffalla corta
su ddu’ piedi intonassimo er rosario
tutt’e ttre ssott’er vano de la porta. 6
C’ha cche
ffà er terramoto de Fuligno
co la commedia der teatro Pasce?! 1
C’entra come ch’er fischio e la bbammasce 2
come la fregna e ’r domminumzuddigno. 3
E cquì
ha rraggione lui Mastro Grespigno,
cuer c’abbotta li fiaschi a la fornasce,
ch’er terramoto è un spirito maligno
che ttanto 4 fa cquer che jje pare e ppiasce.
Nun ze
pò 5 ppregà Iddio matin’e ggiorno
e annassene la sera a la commedia?
Cuesto che gguasta ar terramoto, un corno?
Bella raggion
der cazzo! propio bbella!
Perché ar Papa je trittica 6 la ssedia
se mette la mordacchia
Che
ccos’è er teremoto de la terra
me l’ha spiegato tutto-quanto Toto.
Disce che ggiù ggiù ggiù c’è un buscio 1
vôto
dove ce scola l’acqua e cce se serra.
E cche
cquanno er zor diavolo fa vvoto
a ccas’e cchiese d’intimajje guerra,
va llí cor una fiaccola e cce sferra
sto Sartarello 2 cquì der teremoto.
La fiaccola
de pesce 3 e dde caperchio 4
manna l’acqua in bullore 5 e ll’arza in fume,
e er fume che vvo uscí smove er cuperchio.
Toto, che ssa
ste cose perch’è ccoco,
disce, si ttira l’acqua e accenne er lume:
«Acqu’e ffoco er Zignore je dia loco».
Li discorzi
peccristo ch’io v’intavolo,
sor imbriaconaccio d’acquavita
che vve snerbate er culo ar Caravita, 2
nun zò ccarote 3 da fà rride un cavolo.
Ve dico che
la cchiesa ch’er zor diavolo
sopr’a Ffuligno ha ttutta scompartita, 4
s’ha da rifrabbicà, doppo finita
la bbasilica nostra de San Pavolo. 5
E ggià
in un antro cuccomo der Papa
disce 6 che sse prepareno li fonni 7
pe ffà un mijjone de fette de rapa. 8
Diteme che
ssi er cuccomo è dde vetro
com’er primo, c’è ’r caso che sse sfonni,
e li cocci arimanino a Ssan Pietro. 9
Lassamo
stà la pifera 2 c’ha in faccia,
nun guardamo quer po’ de rastijjera, 3
passamo ch’è ’na bbannerola 4 vera
’na ladra da impiccà, ’na ruffianaccia.
Ma ppe le
miffe 5 sole che llei spaccia
pe ffa ’gnisempre la confusioniera,
bisognerebbe co mod’e mmagnera 6
un giorn’o ll’antro roppeje 7 le bbraccia.
Eppuro te la
trovi foravia 8
sempre co la corona tra le deta,
come annava la Vergine Mmaria.
E cquanno in
Chiesa sta santifisceta 9
vede uscì er prete for de sagrestia,
je s’accosta e jje bascia la pianeta.
Ecchete
1 cquà si ccome l’ho ssaputa,
Nanna s’è cconfidata co Vvincenza;
questa l’ha ddetto a Nnina a la Sapienza: 2
Nina l’ha ddetto in confidenza a Ttuta.
Ccusí
è annato a l’orecchia de Cremenza,
ch’è ccurza a rraccontallo a la bbaffuta:
e llei, ch’è amica mia, oggi è vvienuta
a dimmelo a cquattr’occhi in confidenza.
E, s’io l’ho
ddetto a tte, sso de raggione
che ttu ssei donna ch’er zegreto mio
l’hai sentito in ziggir 3 de confessione.
Commare,
abbada pe la mòrdeddio, 4
si tte pijjassi mai la tentazzione
de dillo, nu lo dí cche ll’ho ddett’io.
T’aricordi
quer prete cajellone 1
c’annava pe le case a ffà le scôle,
cor una buttasù 2 dde bborgonzone
e cquà ssur canterano 3 du’ bbrasciole? 4
che sse
vedeva co le su’ stajole 5
a ’gni morto che ddassi er moccolone?
che annava a ppranzo all’Osteria der Zole,
e nnun spenneva mai mezzo testone? 6
Bbè’,
l’anno trovo jjeri a cquer rampino
che jj’arreggeva er Cristo accap’alletto,
impiccato pe un laccio ar collarino.
E vva’ cche
smania aveva a sto ggiuchetto,
ch’er giorn’avanti, pe rricordo, inzino
ce s’era fatto er nodo ar fazzoletto.
Te strasecoli
tanto che Cciscijja, 1
la ppiú fijja regazza de Sabbella,
fa a mmezzo co la madre, e sse lo pijja
dar su’ compare, bbé cche ssii zitella?
Rinzo se
l’è allevata a mmollichella:
e cchi ffotte la madre e ppoi la fijja
sai c’ortr’ar gusto de mutà la sella
va in paradiso poi co la mantijja.
Cuanno la
donna arriva a cquarant’anni
è de ggiusto che rresti a ddenti asciutti
e vvadi a ffiume co ttutti li panni.
E Rrinzo che
nun vò li musi bbrutti
pijjò li passi avanti a Ssan Giuvanni 2
ché ognuno penza a ssé, Ddio penza a ttutti. 3
Questo dallo
a d’intenne ar Padre Patta 1
quello che disce: Vienite davanti.
Lo so dda me cche cce sò ttanti e ttanti
che nun vonno ignottì la pappa fatta. 2
Ma st’anime
de miccio, 3 sti fumanti,
sti frammasoni, sta ggentaccia matta,
li spadini li tiengheno de latta:
sò bboni a cciarle, ma nnò a ffasse avanti.
La bballa
4 de sti poveri Cardèi 5
vò scopà li soprani 6 e ffalli fori
pe ddí pôi scirpa 7 e ffà le carte lei.
Ma ppôi puro
risponne a sti dottori
che Iddio l’ommini, for de cinqu’o ssei,
tutti l’antri l’ha ffatti servitori.
C’era una
vorta un Re 1 cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete 2 un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto
lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a
sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».
Co st’editto
annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».
Come
sò lle disgrazzie! Ecco l’istoria:
co cquell’infern’uperto de nottata
me ne tornavo da Testa-spaccata 1
a ssett’ora indov’abbita Vittoria.
Come llí
ppropio dar palazzo Doria
sò ppe ssalí Ssanta Maria ’nviolata, 2
scivolo, e tte do un cristo de cascata,
e bbatto apparteddietro la momoria. 3
Stavo pe
tterra a ppiagne a vvita mozza, 4
quanno c’una carrozza da Signore
me passò accanto a ppasso de bbarrozza. 5
«Ferma»,
strillò ar cucchiero un zervitore;
ma un voscino ch’escì da la carrozza
je disse: «Avanti, alò: cchi mmore more».
Diteme con di
grazia, 1 sora sposa,
cuanno agnède 2 ar rifresco 3 er Cardinale,
voi je dassivo 4 un certo momoriale
de carta bbianca senza la scimosa? 5
Dite, je sce
chiedevio 6 cuarche ccosa
perc’avevio er marito a lo spedale,
e vvoi dormivio sotto a un zottoscale
co cquattro fijji ignudi e una tignosa?
Dite, de for
der momoriale sc’era
scritto da piede: Per Agnesa Inguenti
co ccinque fijji, poverella vera?
Bbe’, Ssu’
Eminenza che vve vò ccontenti
me disse sbadijjanno jer’assera
che cc’incartassi li stuzzicadenti.
M’ha ddetto
er zotto-coco der Marchese
che cquer zervo-de-ddio der Cardinale
che cce pranzava trenta vorte ar mese,
e annava ogni tantino all’urinale,
cuer giorno
c’annò a ffà le sette cchiese 1
se magnò ccinque libbre de majale:
e a mmezzanotte te je prese un male
senza poté ccapí ccome je prese.
Presto du’
preti la matina annorno
a ffà escì er Zagramento e ddì orazzione
pe tutti li conventi der contorno.
A sta nova la
mojje der padrone,
che svejjonno abbonora a mmezzoggiorno,
ce se fesce pijjà le convurzione.
Sete voi la
padrona de cuer cane
che vviè a mmagnà l’avanzi cquà dall’oste
e scrope 1 li tigami, e arrubba er pane,
e ssi sse caccia via sarta
Duncue da
parte sua v’ho d’avvisane
che sta bbestia je svia tutte le poste,
e pportassi 3 per dio cento collane
er mi’ padrone je vo ddà le groste. 4
E aricurrete
poi, sora paìna, 5
cuann’er cane è slombato in su la piazza,
ar giudice Accemè de la farina. 6
Voi
ggià rrugate perché ssú a Ppalazzo
ciavete 7 er sor Ennenne, 8 ché pper dina
tra ccani nun ze mozzicheno un cazzo.
Tu ssai
dov’è Ssan Nicola in Narcione: 1
bbè, a la svortata llí der Gallinaccio
er cavallo je prese un scivolone,
turutuffete, 2 e llui diede er bottaccio. 3
Ecco si cche
vvor dí mmontà un sturione, 4
mette la vita in mano a un cavallaccio:
coll’antri è annato via sempre bbenone:
co cquesto è ito ggiú ccom’uno straccio.
Restò
ggelato, povero Cammillo!
Ce s’incontrò er decane de Caserta 5
che nu l’intese fà mmanco uno strillo.
Disce Iddio:
Morte scerta, ora incerta:
chi er risico lo vò, ribbinitillo 6
omo a ccavallo sepportur’uperta. 7
Nun zerv’a
ddí: cquann’uno è ddisgrazziato
tutti strilleno ar lupo e ddanno sotto.
Si Cchecca va ppulita e ss’è avanzato
cuarche bbajocco, è pperché vvince all’Otto. 1
Cuer pettine
che ttiè sott’ar cappotto,
sissignora, je l’hanno arigalato:
e ha ppreso a la padrona er manicotto,
acciò nu jje l’avessino arubbato.
Nun
c’è da dajje un cazzo farzamento 2
pe onore a Cchecca: e ssi cce vò pperzone
pe ttestimoni, pò pportanne scento.
In cuanto ar
fatto poi de le corone,
cuanno sce sò le medajje d’argento
bbenedette, le vò ppe ddivozzione.
Un giorn’o
ll’antro che pper dio sagrato
me zompeno le verginemmaria, 1
pijjo er cappello e mme ne vado via,
e mme do a la Pilotta 2 pe ssordato.
E ddoppo
disce, perché stai ’nciuffato! 3
si ffussi un’antro in de li panni mia,
te vorebbe lavà ssenza lesscia 4
cuer cucuzzone 5 sempre impimpinato. 6
Oh ttiramola
via sta carrozzetta:
ridi che inzin che ddura fa vverdura; 7
ma nun curatte 8 de vedé la stretta.
Tu mme
voressi vede in zepportura:
ma io, monta cquà ssú, ppijja sta fetta: 9
propio l’hai trovo l’hai chi sse ne cura.
Chi tte lo
nega? Ha un tantinèr dell’orzo, 1
biastima un goccio, 2 è un pò llesto de mano, 3
penne p’er gioco,
e jje cricca er mestier der paesano. 6
De rimanente
poi è bbon cristiano,
sta scritto a la Madonna der Zoccorzo, 7
donne nun po vvedelle da lontano,
e è ddivoto de San Carl’ar Corzo. 8
Chi ppe
cconosce l’ommini, commare,
praffe, 9 s’afferma a la prim’ostaria,
pijja un cazzo pe un fischio, 10 e nnun je pare.
Tant’antri
bbaron becchi 11 bbu-e-via
sò iti a tterminà sur un artare!...
Abbasta, nun entramo in Zagrestia! 12
Tutte
compagne! D’Aghita e Tterresa
una annisconne er zuo ner zottoscala,
l’antra dà ar zuo l’appuntamenti in Chiesa:
e a Ttuta je tiè mmano la spezziala.
La serva arza
er traghetto 1 de la spesa:
Ghita cià le funtane: Bbetta sciala
le notte ch’er marito va a l’impresa: 2
lei poi se lo tiè in casa er cresceccala. 3
Io pe mmé
bbado a ffà li fatti mia;
e in cinqu’anni e ccammina pe li sei
sto viscinato manco so cchi ssia.
Io nun ho
llingua: e ssi lla bbroda lei
la bbutta addoss’a mmé disce buscìa.
Co tté mme sfogo perché sso cchi ssei.
Semo in tre
appiggionante? ebbè ciaspetta 1
d’avé in mano la chiave de funtana
du’ ggiorni e ggnente ppiú ppe ssittimana:
e cchi vvo ppiú ssciacquà vvadi a Rripetta.
Luneddí e
mmarteddí ttocca a Nninetta,
mercordí e ggiuveddí ttocca a Bbibbiana,
e ’r venardí e ’r sabbito a sta sciana, 2
come me chiama Sor Maria Spuzzetta. 3
E llei
s’intròita 4 de fà a mmé lla lègge? 5
Ah, 6 c’è bbon esattore vivo e vverde
che nun pijja piggione e mme protegge.
Ma
ggià co ste lustrissime de mmerde
che nun zò bbone c’a ttirà scorregge 7
ce se perde a pparlacce, ce se perde.
Baron
bècco 2 futtuto bbuggiarone,
ladro canajja pe nnun ditte peggio:
si nnun te pijjo a ccarci in ner palleggio, 3
damme er tu’ nome che mme sta bbenone.
Da cuann’in
cuà ggodemo er privileggio
de pijjà tutt’er monno pe ccojjone?
Oé, nun ciò ppancotto io ner cestone, 4
sai? duncue abbad’a tté perch’io rameggio. 5
E in cuella
pila tua tante ne bbulli? 6
Ciài la patacca
che ddai la pecca a ttutti e tte la sgrulli? 8
Ma pprega la
Madon der bon conzijjo
de nun toccamme un giorno che mme frulli, 9
ché ’na sodisfazzione io me la pijjo.
Ner
tornammene in giú da ponte mollo 2
guasi a un tiro de sasso da la porta,
m’è ttrapassato avanti a bbrijja ssciorta
oggi un curiero co le gamme in collo.
Duncue ha
ssaputo er Conzole der bollo 3
da bbon canale ch’er curiero porta
che l’armata de cuelli è ttutta morta,
e sse parla d’un certo bbrodocollo. 4
Sto bbrodo
nun ze sa che bbrodo sia;
ma, subbito ch’è bbrodo, in ogni modo
cuarche bbrodo ha dda èsse a ccasa mia. 5
Tratanto er
Papa cià fficcato er chiodo:
er resto lo farà Ggesú e Mmaria:
e cco sto terno 6 cqui ssenti che bbrodo. 7
Disce quer
Meo che llavava li legni
de la Reggina morta de le Trujje 1
che li Re-de-corona de li regni
ortr’ar fà tra dde loro tante bbujje, 2
ce manneno
cquà a nnoi sti bell’ordegni,
pe ppagà l’indurgenze co le pujje, 3
e ppe ccacciasse auffa li disegni
de le cchiese de Roma e de le gujje.
Mó p’er Re
d’Appollonia e dde le Russe
c’è Ccacarini tuo de quella sera: 4
pe li du’ frosci 5 Merluzzoffe e Bbusse. 6
E ppe
ffà co sti tré naso-e-pprimiera 7
s’è vvienuto a inquartà sto Nuncefusse 8
st’areng’arrosto 9 de monzú Tullera. 10
Che jj’amanca
a Mmadama Patanfrana? 2
Caso che jj’amancassi er pettabbotto 3
je lo pozzo abbottà cor un cazzotto,
senza metteje a cconto la dogana.
Nun è
affare de mezza sittimana 4
che mme chiese una vesta pe dde sotto,
e io cojjone de marc’e ccappotto 5
je l’ho ffatta trovà pe la bbefana.
Mó un
pettine, mó un busto, mó un zinale 6
oggi er vezzo, domani l’orecchini,
gnisempre cianerìe, 7 gnisempre gale!
A mmé cchi
mme li dà ttanti cudrini?
Perché llei nun ze trova un Cardinale
in cammio de sti guitti de paini? 8
Senta, sor
avocato, io nun zò mmicca 2
da nun intenne cuer che llei bbarbotta.
Lei me vò ffà sputà ch’io sò mmignotta:
ma sta zeppa che cquà nun me la ficca.
La
verità la dico cruda e ccotta,
ma cquesta nu la sgozzo si mm’impicca.
S’io me fesce sfasscià ffu pe una picca,
pe ffà vvedé cche nu l’avevo rotta.
D’allor’impoi
sta porta mia nun usa
d’oprisse a ccazzi: e ssi llei vò pprovalla,
sentirà cche mme s’è gguasi 3 arichiusa.
...Bbè,
rrestamo accusí: su un’ora calla
lei me vienghi a bbussà co cquarche scusa,
e vvederemo poi d’accommodalla.
Dio, doppo
avé ccreato in pochi ggiorni
cuello che cc’è de bbello e cc’è de bbrutto,
in paradiso o in de li su’ contorni
creò un rampino e ciattaccò un presciutto.
E ddisse:
«Cuella femmina che in tutto
er tempo che ccampò nun messe corni,
n’abbi una fetta, acciò nun magni asciutto 1
er pandescèlo 2 de li nostri forni».
Morze 3
Eva, morze Lia, morze Ribbecca,
fino inzomma a ttu’ mojje a mman’a mmano,
morzeno tutte, e ppíjjele a l’inzecca. 4
E tutte
cuante cor cortello in mano
cuanno furno a ttajjà fesceno scecca: 5
sò sseimil’anni, e cquer presciutto è ssano.
Jeri Lei
1 me mannò da la sartora,
la scucchiona, 2 la vedova de Muccio 3
che un par de mesi fa jje morze 4 fora
d’un carcio che jje diede un cavalluccio.
Va’ cche ttu
nun ciazzecchi? 5 E ssissignora
sta matta e nun z’è mmesso lo scoruccio? 6
Nun ze tiè accanto llì ddove lavora
er grugno 7 de lo sposo in d’uno stuccio?
Lei piagne
sempre sto marito santo.
O mmagna, o ddorme, o ffa la bbirba, 8 o ccusce,
o entra, o esce, tiè in zaccoccia er pianto.
Ma ttutt’oro
nun è cquer c’arilusce,
perch’io travedde in d’una stanzia accanto
un letto granne co ddu’ bbelle bbusce.
Cuer giorno
che vvoleveno sti Cani 2
levà ar Zommo Pontescife lo scetro,
lui pe mmette coraggio a li Romani
fesce un giretto attorno de Sampietro.
Che vvôi vede
sartà li bborghisciani 3
sur cel der carrozzone, e avanti, e ddietro!,
e ppe rreliquia da bboni cristiani
staccajje ggiú ll’ottoni come vvetro!
Er
Maggiordomo 4 fesce a Ppidocchietto 5
che ddiede un bascio ar Papa: «Eh galantomo,
cuer culo a lo sportello è un po’ ttroppetto».
E Ppidocchio,
co ttutto 6 er pavonazzo,
disse in cuer tuppetuppe ar Maggiordomo:
«Zitto llí vvoi che nun capite un cazzo».
Miodine,
1 Checcaccio, Gurgumella,
Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto,
Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella.
Palagrossa, Codone, Merluzzetto.
Cacaritto,
Ciosciò, Sgorgio, Trippella,
Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto,
Puntattacchi, Fregnone, Gammardella,
Sciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto,
Manfredonio,
Chichí, Chiappa, Ficozza,
Grillo, Chiodo, Tribuzzio, Spaccarapa,
Fregassecco, er Ruffiano e Mastr’Ingozza.
Cuesti
sò li cristiani, sora crapa, 2
c’a Ssampietro 3 stacconno la carrozza,
e sse portonno in priscissione er Papa. 4
Và mmó
a ddí a li sordati che ttiè er Papa:
tu ssei ’na crapa, tu ssei ’na carogna,
tu nun zei bbono da tajjà una rapa,
tu nun hai core d’infilà un’assogna! 1
Propio
carogna, sí!, ggiust’una crapa!
Antro che ggente da grattà la rogna!
Le panze da sbuscià llei se le capa;
e addimannelo a cquelli de Bbologna. 2
Pe ssapé si
cche armata sopraffina
tu ffatte legge dar Cumpar de Checca
lo spappiello 3 c’usscí jjer’a mmatina.
Disce
ch’è ttruppa da nun dajje pecca,
gente che sse sa ffà la dissciprina,
e a bbonprascito 4 suo mena a l’inzecca. 5
Sta
domenic’ar giorno, io cqui co llei,
la sorella de lei e lla cratura
me n’agnede ar Gesù, e mme godei
tutta la spiegazzion de la Scrittura. 1
Disse er
predicatore a la sicura 2
c’avanti che nnascessino l’Abbrei
e mmannassino Cristo in zepportura,
c’era un paese tutto de’ Cardèi. 3
Io
però che ssò arquanto Mozzorecchio 4
che ssaprebbe trovatte er per nell’ovo,
e infilatte una gujja in un vertecchio, 5
dico, e ddar
dí accusí nun m’arimovo,
quarmente li Cardei der monnovecchio
se sò sparzi cqua e llà p’er monnonovo.
Sò
stato un matto immezzo der ciarvello!
Meriterebbe un carcio ar perzichino.
Pe ffà er terno cor dua der girarello, 1
nun ho scartato er tre dder cappuccino?! 2
Cuanno c’ho
vvisto chiude er butteghino 3
e attaccà l’astrazzione a lo sportello,
ho bbuttato pe tterra er barettino
drent’a la fanga co ttutt’er cappello.
Tre ccom’un
razzo prim’estratto, eh Checco?!
Mill’ottoscento scudi per un pelo,
ché cce bbuttai tre ggiuli e mmezzo a ssecco. 4
Eppuro er
frate, arzanno er grugno ar celo,
disse in ner damme er Tre: cquesto cqui, ecco,
disce la verità ppiú der Vangelo.
Ma cche
sperpètua! ma cche llùscia 2 eh?
Tutta la santa notte, scī scī scī,
nun ha fatt’antro che sto verzo cquì!,
e gguarda puro mó cquanta ne viè!
Sto tettino
de latta accost’a mmé,
che nnoja! nun m’ha ffatto mai dormí,
se po ddí inzomma ch’è dda venardí
ch’er zole nun ze sa si che ccos’è.
Ma ssenti che
sgrullone 3 è cquesto cquà!
Nun pare che ccominci a ppiove mó?
Che ppioviccicarella, eh?, se pò ddà?
Jèso,
che ttempi! e cche cce sta llà ssú!
Cosa seria! va bbene un po’ un po’,
ma er troppo è troppo, e nnun ze ne pò ppiú!
È
zzitella 1 la fijja de Chichì?
Indovinela-grillo 2 si sse pò.
Ce sò cquelli che ddicheno de sì,
ce sò cquelli che ddicheno de no.
Io mo in
cusscenza nu lo posso dì,
da cristian battezzato nu lo so.
Sò ggabbole, 3 Andrea mia, cueste che cquì
che bbisogna vedelle ar Pagarò. 4
Si tte
discessi cuer che ppare a mmé,
io saría d’oppignone che la dà,
co tuttosciò che ll’ha nnegata a tté.
Ma ssi tte
preme sta materia cquà,
dimànnelo a ppadron Bebberebbè:
lui solo te pò ddì la verità.
Io pulenta?
Ma llei me maravijjo!
Io sò ppulita com’un armellino. 1
Guardi cquà sta camiscia ch’è de lino
si ppe bbianchezza nun svergogna un gijjo!
Da sí cche
cquarc’uscello io me lo pijjo
io nun ho avuto mai sto contentino,
perché accenno ogni sabbito er lumino
avanti a la Madon-der-bon-conzijjo.
Senta, nun
fò ppe ddillo, ma un testone 2
lei nu l’impiega male, nu l’impiega,
e ppò rringrazzià Ccristo in ginocchione.
Lei sta cosa
che cqui nun me la nega,
che invesce de bbuttalli a ttordinone 3
tre ggiuli è mmejj’assai si 4 sse li frega.
Già,
2 pe ggodé cquarche ffiletto, 3 mone 4
lui puro 5 me viè attorno co la mucchia. 6
Pe ddí lo disce c’ha bbona intenzione,
ma a lo strigne li panni 7 se la strucchia. 8
Come me
pò ppijjà cquer bigantone 9
si nun ha antr’arte che sbatte la scucchia, 10
c’a cquer povero zio ch’è un bucalone 11
proprio je succhia l’anima je succhia?
Io je dico:
«Ma ttrova cuarche ssanto: 12
chi ddorme, Toto mio, nun pijja pesce»; 13
ma llui d’udienza me ne dà ssai cuanto!
Mamma poi
fiacca fiacca 14 me se n’esce: 15
«si è rrosa fiorirà». 13 Bbrava! Ma intanto
magna cavallo mio che ll’erba cresce. 13
Er tempo
manna o ffurmini o ssaette
siconno er genio suo come je cricca.
Cueste sò pe nnoi ggente poverette:
quelli sortanto pe la ggente ricca.
Cuelli
sò llavorati a ccolonnette,
però er furmine roppe e nnun ze ficca.
L’antre sò ppietre poi 2 segate a ffette
e arrotate all’usanza d’una picca.
Me l’ha
spiegato a mmé lo scarpellino
che ffa l’artare a Ssan Zimon Profeta 3
che ssa ste cose com’er pane e ’r vino.
Tu mmette
bbocca 4 cuanno er gallo feta
e la gallina piscia, ché er boccino 5
lo tienghi uperto come una segreta.
Che ccasi! er
terramoto! E accusí ppresto
t’accucci 2 pe ddu’ bbòtte de sorfeggio?
Tu ddajje tempo e pproverai de peggio:
nun zai che st’anno è ll’anno der bisesto?
Fratello,
vederai che sscenufreggio! 3
sentirai si cche ttibbi de disesto!
Io pòzzo 4 dettà in catreda de cuesto
perc’ho un fío campanaro der Colleggio.
Eppoi, va’
oggi ar Colleggio Romano,
dimanna de Micchele er Campanaro,
chiedeje un calennaro grigoriano, 5
e ttroverai
li ddrento ar calennaro,
ch’er bisesto lo messe san Giuliano, 6
e vvò ddí ventinove de frebbaro.
Ciappizzo:
1 Palaccorda 2 è la ppiú bbella
de tutti li teatri che ssò uperti:
tra ttanta frega 3 de sturioni asperti 4
nun fuss’antro la Ggiobba e Ccatinella! 5
Ma un’antra
compagnia come che cquella
c’un anno rescitaveno a Llibberti 6
me ce ggiuco er zalario co l’incerti
c’a Rroma tanto nun ze pò ppiú avella.
Grattapopolo,
7 ch’era l’impresario,
pe le parte d’aspettito, 8 era l’asso, 9
e cciaveva der zuo sino er vestiario.
E er zor
Nicola Vedovo 10 er tiranno?
cuanno disceva Oh rrabbia, che ffracasso!
Fasceva un strillo che ddurava un anno!
Brutta serva
de Ddio, bbocc’a ssciarpella, 2
sconciatura de Popa e de Falloppa, 3
che ddopp’ess’ita sediscianni zoppa
mo attacchi a la Madonna la stampella; 4
che gguardi
drent’ar buzzico, 5 ancinella 6
tutt’imbottita de bbammasce e stoppa,
che cquanno te se smiccia
pari l’arco pe ddio de la sciammella; 8
tanta smania
te viè de fatte sposa?
Ma cchi vvôi che tte pijji? Basciaculo? 9
o er zor Jaià: 10 pe tté nun c’è antra cosa.
Cuanno vojji
però ppropio l’assarto,
pijja in affitto er buggero d’un mulo,
ché ssi nnò, bbella mia, mori de parto.
Sposalla io?
Co ttutto cuer morzarzo! 1
Co cquelle cuattro scrofole! Co cquella
galantaria che ttiè a la gargamella! 2
Co cquella scianca 3 che tte bbutta in farzo! 4
Io sposalla!
E nnemmanco de risbarzo 5
la vorrebbe pijjà sta cantarella, 6
amara piú der zugo 7 de mortella,
e mmattaccina 8 com’er zol de marzo.
Ringrazzio Iddio
co la lingua pe tterra
e in ginocchione in zulla grattacascia 9
d’èsse vedovo, e ttu vvôi famme guerra?
Si llei se
vò sposà, se spósi Bbascia, 10
perch’io nun me la sento, sora sferra, 11
da la padella de cascà a la bbrascia. 12
Nun ve se
pò gguardà, ssor Rugantino, 1
sor Covielletto 2 schiccherato a sguazzo? 3
Che sso, mai ve vienissi in der boccino 4
de trattamme all’usanza d’un regazzo!
Se guarda una
fascina d’un cudrino, 5
un torzo, una merangola, 6 un pupazzo,
e nnun z’ha da guardà sto figurino
che se pò ddí zzero via zzero un cazzo! 7
Cuanno che
nun volete èsse guardato,
perché nun state in de la vostra coccia 8
senza roppe le palle ar viscinato?
Io li par
vostri me li ggiuco a bboccia;
e ssò ffigura pe cquer dio sagrato
de pisciavve mai mai 9 puro in zaccoccia.
Papa
Grigorio, nun fà ppiú er cazzaccio:
svejjete da dormí, Ppapa portrone.
San Pavolo t’ha ddato lo spadone,
e ssan Pietro du’ chiave e un catenaccio?
Duncue, a
tté, ffoco ar pezzo, arza cuer braccio
su ttutte ste settacce bbuggiarone:
dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
serreje er paradiso a ccatenaccio.
Mostra li
denti, caccia fora l’ogne, 1
sfodera una scommunica papale
da fàlli inverminí com’e ccarogne. 2
Scommunica,
per Cristo e la Madonna!
E ttremeranno tutti tal e cquale
ch’er palazzo der prencipe Colonna. 3
Verzo
ventitré ora er padroncino
me fesce curre ar Cacas 2 co ttre ffichi 3
a ccrompà callo callo 4 er bullettino
de la bbattajja contro a li nimmichi.
Pe cquesto ar
Venezziano 5 llí vviscino
disse er decan de la Contessa Pichi
che l’esercito nostro papalino
ha ffatto ppiú bbrodezze 6 de l’antichi.
Disce che
uperto a ffir de cannoneggio 7
er paese de Bbraschi e Cchiaramonti, 8
ce fu ’na spizzicata 9 de saccheggio, 10
e cche ddoppo
passati su li ponti, 11
cuanno funno
Pe mmorti poi s’ha da tirà li conti. 14
Jeri; a la
Pulinara, 2 un colleggiale
doppo fatta una predica in todesco, 3
setacciò 4 tutt’er popolo in du’ sale,
e a la ppiú mmejjo 5 vorze dà er rifresco.
In cuella
fesce entracce er cardinale 6
co l’amichi der Micco e ppadron Fiesco; 7
e nnell’antra la ggente duzzinale
che vviaggia cor caval de san Francesco. 8
Pe sta sala
che cquì de li spedati
comincionno a ppassà li cammorieri
pieni de sottocoppe de ggelati.
Ma cche! a la
sala delli cavajjeri
un cazzo ciarrivò: ché st’affamati
se sparinno 9 inzinenta 10 li bicchieri
’Gni vorta,
diosallarga, 2 che mme sporgio 3
a ttrovà Mmuccio 4 che sta vverd’e mmezzo, 5
ecchete er pertichino 6 d’er zor Giorgio
che cce se pianta com’e Ccacco immezzo. 7
Ma un giorno
che pper tempo me n’accorgio
che cce le viè a scoccià 8 ccome ch’è avvezzo,
me je fo avanti e ddico: «Eh soro sgorgio, 9
ce l’avete scuajjati 10 per un pezzo.
Pare, sor
grugno de cascio marcetto, 11
che ssarebb’ora de mutà bbisaccia
e mmette mano a un antro vicoletto».
A ste parole
lui vorterà ffaccia:
ma ssi mmai nu la vorta, te prometto
d’impiegacce una bbona parolaccia.
Magnetelo sto
ladro 2 tordinone! 3
Nu lo spregà: tièlla sú cquella ggioja, 4
che cce se tira sempre de spadone 5
d’addormiccese in piede pe la noia.
Armanco in
ner teatro der pavone
c’è ar naturale l’incennio de Troja
pe la gran crudertà der re Nnerone
co Stentarello 6 appatentato bboia.
Ch’edè
llaggiú sta gran commedia bbella?
Un ciaffo 7 de turcacci de la Mecca
intitolato: Ossia La leccatella 8
Io stimo sto
sciafrujjo 9 chi l’azzecca. 10
A mmé mme piasce de magnà, ssorella:
si a tté tt’abbasta de leccà ttu llecca.
Io pe nnun
perdeme, 1 Anna de Pumpara,
la Spaccata, Chiafò, Ccuccio 2 e Lluterio,
annassimo a la Valle in piccionara, 3
che cc’è la meladramma e ’r seme-serio. 4
È un
certo Pugnatoschi 5 che da Zzara 6
lo mannorno in esijjo in ner Zibberio: 7
e cc’è un’Unghera 8 c’è cche la pianara 9
la porta a ggalla drent’a un cimiterio.
Uscì
er Bazzarro 10 de Moscovia poi
che sse cibbò una sarva de fischietti, 11
e li primi a ffischià ffussimo noi.
Ogni tanto
però da li parchetti
se sentiva a rripète un tibbidoi 12
d’apprausi ar machinista 13 e a Ddozzinetti. 14
Sarti 1
de pal’in frasca oggi, Carmelo:
me risponni irre orre, 2 e nun ce stai. 3
Tu la legge 4 de ddio puro la sai:
quinto nun ammazzà: cquesto è Vvangelo.
Er lupo muta
er pelo e ’r vizzio mai: 5
e pprotenni 6 che llui mutassi er pelo?
Che cce faressi? Vôi dà un pugno in celo? 7
Chi ha pprudenza l’addopri, o cce sò gguai.
Dar tett’in
giú 8 s’è fatto l’impossibbile
pe pportallo a le cose der dovere:
dar tett in zú 9 Ddio sa cquer ch’è ffattibbile.
Uno schiaffo,
lo so, vò ’na stoccata: 10
ma ppoi che nnova c’è? gguarda er barbiere:
se sfogò, mma cche fesce? Una frittata. 11
Sor
barbieretto mio da tre ssciuscelle 1
mo adesso v’ho da dí ttre ccose vere:
fà la bbarba e nnun fà scorticarelle
cuest’è ll’arte de guasi ogni bbarbiere.
Se dà
cquarche bbarbiere e pperucchiere
che ffa scorticarelle e ppelarelle:
ma nun zete 2 che vvoi c’abbi er mestiere
de lassà er pelo e pportà vvia la pelle.
Sor barbiere
der tinche 1 e de la zzugna, 1
duncue perché pe ffamme fà ggonfietto
v’ingegnate cor fico e cco la bbrugna? 3
Ah nnorcino,
4 ah ssciattino 5 mmaledetto,
pe ttrovà chi sse castra e cchi sse sgrugna
va’ a la salita de Crescenzi e in ghetto.
Perch’er
Papa, a sti bbirbi,
nun j’intorcina un bravo collarino,
c’è cchi ddisce c’ha un core de purcino
e cchi pprotenne che llui fa cciriola. 2
Ma llí a
ppiazza de Sciarra in cuella scola
dove s’impara a llegge er bullettino, 3
su sto proposito oggi a un abbatino
j’ho inteso compità ’na gran parola:
ciovè
ch’er Papa essennose informato
ch’er cardinal Arbani
te l’ha mmannato a Ppesero legato.
Trattannose
accusí co le Minenze,
c’è da sperà che armanco un cavalletto
ce vienghi a cconzolà st’antre schifenze. 5
Adesso in der
teatro a ttordinone 1
c’è ppe bballo la sscimmia conoscente 2
che ddelibbera 3 un fijjo der padrone
e ddà un’archibbusciata ar zor tenente.
Lei da un
arbero sarta a un capannone
senza datte a ccapí ccom’e cquarmente, 4
rubba a un villano mezza colazzione
e bballa un patatú 5 cor un zerpente.
Pijja a
mmerangolate 6 sett’o otto,
se mette un cappellaccio e un palandrano,
ruzza a ppanza-per-aria e a bbocca-sotto.
Sfido inzomma
a ddistingue da lontano
s’è un cristiano che ffacci da scimmiotto
o un scimmiotto che ffacci da cristiano.
Buggiarà
er mejjo! Su la fin de ggiugno,
anzi propio in ner giorno de san Pietro,
su’ Eminenza me chiama tetro tetro,
e ddisce che jj’infili er cudicugno.
Bbè’,
perché nun trovava pe dde dietro
er buscio a un manicone, cor un pugno
che, bbontà ssua, me scaricò in ner grugno,
me sfregnò er naso come fussi vetro.
Eppoi, de
soprappiú, pe vvia c’un osso
j’indolí un pò’ er detino, sta marmotta
nun me fesce schiaffà ppuro in profosso?
Ah! sta razza
de fijji de mignotta,
sta covata d’arpie de pelo rosso,
è ccome la padella: o ttigne, o scotta. 1
Ch’edè
sta mutria, 1 tisichello marcio
grugno de san Giascinto-a-bbocca-sotto? 2
O mmamma mia che cciurma! 3 Oh cche scacarcio!
Pe ccarità cche mme la faccio sotto.
Co tté, ppe
ffàtte in de la panza un scuarcio,
pe vvedemmene bbene crud’e ccotto,
guarda, nemmanco me ce sprego un carcio:
m’abbasta un fischio una scorreggia un rotto. 4
Ner mentre
sta frittura de cazzetti 5
se ne viè co ’na patina 6 da orco,
je se piegheno intanto li maschietti. 7
Ma io
m’ingegno a mmaneggià li fusi: 8
sò nnato in carnovale, e nnun me storco
la bbocca dietro pe li bbrutti musi. 9
Nun zerv’a
ddí: chi de gallina nassce
’gna che rruspi: è pproverbio che nnun falla.
Da una vacca nun esce una cavalla.
Come se nasce, fijja mia, se passce.
Tu’ madre
ch’è mignotta dalle fassce
e a tté t’ha ppartorita a Ssanta Galla, 2
ne le tu’ fregnarie mo tte dà spalla,
e accusí ccasa tua s’empie de grassce.
Che tte
credevi? de trovà li gnocchi?
Che speravi dich’io co cquer paino?
de falla a mmé su la crosce dell’occhi?
Eh
vòi, davero!, a mmé damme er cerino?
Tu ccerchi d’attonnà cqueli bbaiocchi, 3
e dd’abbuscacce er resto der carlino. 4
La donna
appena arriva ar rifriggerio
de godé li bbimestri o er bonifiscio,
incomincia a ccapí che ccos’è ciscio 1
e pprincipia a ppeccà dde disiderio:
po’ appena
è bbona de sonà er zarterio
e dde fà ar maschio cuarche bbon uffiscio,
incomincia a rrubbà la carne ar miscio 2
e pprincipia a ppeccà de cazzimperio.
Ma cquanno
che ppe vvia der zona-sona 3
diventa un orto che ggnisuno stabbia,
e ffa ttele de ragno a la ficona,
vedenno er
ciscio 1 nun tornà ppiú in gabbia,
se dà pe ccorpo morto a la corona,
sin che in grazzia de ddio crepa de rabbia.
Bboccetto 1a
mio, ggià cche ttu’ mojje morze 1
e vvôi ’na stacca 2 pe ssiconna 2a mojje;
si la prima da te ppoco ariccorze 2b
cuesta che ppijji mó ccosa ariccojje?
Tre ccose
all’omo vecchio Iddio je vorze 2c
fà ccresce, e ttre ccalà: ttrist’a cchi ccojje!
In primi e antonia 3 crescheno le vojje
de fà er crestoso 3a e ccaleno le forze.
Pe ssiconna
ppartita de la lista,
sor Giammatista 4 mio, c’è lo strapazzo
de cresce er naso e de calà la vista:
e pell’urtima
bbuggera der mazzo,
(e cquesta fa ppe vvoi, sor Giammatista)
crescheno li cojjoni e ccala er cazzo.
Peccato che
li sette sagramenti
nun ziin’antro 1 che ssette, eh sor Felisce?
Ha ddetto Chiodo, che ssa cquer che ddisce,
ch’Iddio doveva fanne armanco venti.
Er battesimo
intanto è ’na vernisce
che ccrope er guasto senza che tte penti:
è llui che cciarifà 2 bbianchi e ’nnoscenti
come che la bbucata a le camisce.
Discessim’anzi
3 jjermattina a Cchiodo,
lui che ssa ttutti cuanti sti segreti,
si sse potessi bbattezzà ccor brodo.
«Cor brodo
nostro sí, stateve quieti»,
ciarispose 4 l’amico sodo sodo,
«ma nno un cazzo cor brodo de li preti».
Disce che
ssott’a Ppapa Ganganelli,
e ppuro sott’a un po’ dde Papa Bbraschi,
chi a sto paese aveva fijji maschi
sapeva cuer che ffà ppe mmantenelli.
C’ereno li
vacabbili, 1 e cco cquelli
tanti tibbicommissi 2 e mmagnoraschi: 3
e lle truppe, ortr’a un monno de ricaschi, 4
montaveno la guardia co l’ombrelli.
Li sordati a
cquer tempo pe annà in marcia
ciaveveno 5 tammurro e cciufoletto,
e ppe stà in fila un gran zegno de carcia. 6
E ssi mmai
c’era risico de pioggia,
er capo-bbattajjone cor giacchetto
l’annava a ccommannà ssu da la loggia.
Da sí 1 c’a
mmi’ fratello in der cuartiere
je scappò vvia la bbotta a l’esercizzie, 2
nun è ppiú omo; caca, tiè er braghiere,
e jje viengheno mó le literizzie. 3
S’è
ppresentato inzino ar Brigantiere: 4
bbè’ ccos’ha aúto? 5 un cazzo: eh? cche ggiustizzie!
Ecco si cche vvor dí ffà er zu’ dovere,
e sserví er Papa drento a le milizzie!
T’abbasti a
ddí che in vita de Leone
pe arrivà in tempo un giorno a le parate
nun ce fesce nemmanco colazzione!
E accusí ppoi
se premieno l’armate!
Disce: vatte a rrolà; ffussi cojjone!
Chi a Rroma vo ggodé s’ha da fà ffrate.
Freghete, Chiara,
cuanti sguizzi novi!
E cché!, vvienghi de razza de sciriole?!
E ssarti e ggiravorte e crapiole!... 2
Accidenti che ccianche t’aritrovi!
Frulli, pe
ccristo, cuelle du’ stajole 3
e un par d’occhiacci accusí ffurbi movi,
c’a nnoi sce succhi com’e rrossi d’ovi,
e li tu’ atti li pôi dí pparole.
Eh
vviè, ppasciocca, 4 ar prato de testaccio; 5
viè, si tte schifi de bballà su cquello,
la sera all’ostaria der Gallinaccio.
Perch’io
m’impegneria puro 6 l’uscello
pe bballà inziem’a tté, ddoppo er carraccio, 7
o ’na lavannarina o un zartarello. 8
Ma
llustrissimo mio, cquà nun ce trovo
a llei de nun zentí c’una campana. 2
Lei se vadi a informà pe bborgo-novo 3
si cche ppelletta è sta vecchiaccia cana.
Che sse
laggna?, che jj’ho ddetto ruffiana?
Sissiggnora, è rruffiana, è jje l’approvo, 4
ché ppò stà ttistimonia Roma sana
si a ccasa sua c’è ssempre ggente ar covo.
E llei perché
cquer giorno a la Ritonna 5
disse mignotta a mmé? Me maravijjo!
Sta fica è ancora sana, e nnun se sfonna.
E ssi vvò
er giuramento, io me lo pijjo,
ch’io sò zzitella ppiú de la Madonna,
perché llei, nun fuss’antro, ha ffatto un fijjo.
Ber vive
e a la bbotte dell’antri èsse immriaca!
Ma er verbo arigalà, 2 sora sciumaca, 3
mo nun sta ppiú in gnisun libbro de stampa.
Antro che
cchi ha ppiselli 4 adesso campa:
chi nun ce ll’ha caca de magro, caca.
Er zor Donato è mmorto; 5 e, si ddio scampa
s’ha da dà, sto da dà 6 ssa de triaca. 7
Oggi è
la festa vostra? Ebbè ppe cquesto
m’averìa da impegnà lle mmannoline 8
pe ffà un rigalo a vvoi? Sicuro, è llesto!
Nu lo sapete
che sse sta ar confine?
Duncue Iddio ve dia bbene, e ppoi de resto
millant’anni e antrettante cuarantine.
Oh, addio,
ché ssi vviè llui, cquer magnafessa,
e nnun trova le cose preparate,
pijja la corda de quann’era frate
e mme ne dà inzinenta che mme sfessa.
Sai che mm’ha
ddetto stammatin’istessa?
«Oggi ch’è ffesta de proscetto, 1 annate»:
ma ll’antre feste poi demonetate, 2
sò províbbita 3 inzino d’annà a mmessa.
E ssi dda mé
dda mé a la vemmaria
nun discessi 4 quer cencio de rosario,
credería d’èsse nata una ggiudia.
Ché cco llui
nun c’è antro c’uno svario:
pipp’in bocca, traghetti, 5 arme, osteria...
Eppuro è ll’occhio-dritto der Vicario.
Mariti? eh,
Dio! si le cose, commare,
se potessi cuaggiù ffalle du’ vorte,
prima de dí cquer padre sí a l’artare
me vorrebbe da mé ddamme la morte.
Strapazzi de
’gni ggenere, cagnare,
cazzottoni, croscette, 1 fuse-torte, 2
porca cquà, vvacca llà... che tte ne pare?
valla a ddisiderà sta bbella sorte.
Figurete
ch’er mio che mm’ha ppijjata
piena zeppa de robba, è ggià la terza
ch’inzino a la camiscia m’ha impegnata.
Senza dí poi
che st’animaccia perza 3
cuanno semo... capischi?, ha la corata 4
de particce
Come intese
presto io curze 1 dar zor Logotenente. 3
«Mi’ marito..., Eccellenza, è un poveretto...
pe ccarità... cche nun ha ffatto ggnente».
Disce:
«Méttet’a ssede». Io me sce metto.
Lui cor un zenno 4 manna via la ggente:
po’ me s’accosta: «Dimme un po’ ggrugnetto, 5
tu’ marito lo vòi reo o innoscente?»
«Innoscente»,
dich’io; e llui: «Sciò 6 ggusto»;
e detto-fatto cuer faccia d’abbreo
me schiaffa 7 la man-dritta drent’ar busto.
Io sbarzo in
piede, e strillo: «Eh, sor cazzeo. ..».
E llui: «Fìjjola, cuer ch’è ggiusto è ggiusto:
annate via: vostro marito è rreo».
Hai da sapé
ch’er povero Ghitano
è ffijjo de Chiappino er muratore.
e Llucantonio è ffijjo der decano
che sta co mmonzignor governatore.
Bbe’, una
notte li zzaffi 1 ar Lavatore 2
li trovonno a ’na porta ar primo piano,
cuello cor un cortello serratore
e cquesto cquà ccor grimardello
Li legonno un
e ll’antro ar temp’istesso,
li portonno in guardiola, 4 e in cap’a un mese
ar governo 5 je fesceno er proscesso.
Com’è
ffinita? A Lluca erba fumaria, 6
a Gghitano in galerra, ortr’a le spese:
e li scenci accusí vvanno per aria. 7
Bisogna dí
cch’er Papa cuanno è Ppapa
diventi granne peggio d’un colosso,
c’ogni pelo je creschi come un osso,
e abbi ogn’occhio più ggranne d’una rapa.
Bisoggna dí
ch’er sagro culo grosso
ne li carzoni vecchi nun je capa,
e cche l’uscello je s’abbotti addosso
come la pelle gonfia d’una crapa. 1
Perché a
Ccaster-gandorfo
papa Grigorio indegnamente ha ddetto
a ttutto-cuanto er popolo romano,
che cquanno
torna a Rroma, poveretto,
vò annà abbità a Ssampietr’invaticano, 3
perché a Mmonte-cavallo 4 ce sta stretto.
C’è
stato a Rroma a ttempo der vertecchio 1
un abbate fijjol d’un rigattiere, 2
che ddoppo d’avé ffatto er mozzorecchio 3
se trovò de risbarzo Tesoriere.
E ssiccome
era fijjo der mestiere,
vedenno in cassa tant’oraccio vecchio,
coll’ajjuto de costa der cassiere
tutta l’aripulí ccom’uno specchio.
Ma er Papa
ch’era un omo duzzinale,
pijjanno cuella cosa in mal umore,
lo creò pe ggastigo Cardinale.
E accusí se
pò ddí de Monzignore
cuello che ddimo 4 noi de Fra Ccaviale:
la fesce sporca, e ddiventò ppriore. 5
Stavo jjerammatina
de piantone 1
su le scale cquaggiú dde Santa Chiara
aspettanno che uscissi la filara 2
de zitelle ammantate in priscissione. 3
Cuanno ecco
che un paìno
se mette a rride co ’na faccia amara,
discenno
la pelle sua si nnun viè a ffà orazzione».
Io fesce 6
allora a cquelli capitali: 7
«Bboja che pperde tempo, e nnu li snerba
sti dottorini de li mi’ stivali.
Caso er Papa
nun vienghi a la Minerba,
ce sò iti però li Cardinali,
che ttutti-cuanti sò ppapetti
Arfine,
grazziaddio, semo arrivati
all’anno-santo! Alegramente, Meo: 1
er Papa ha spubbricato er giubbileo
pe ttutti li cristiani bbattezzati.
Bbeato in
tutto st’anno chi ha ppeccati,
ché a la cuscenza nun je resta un gneo! 2
bbasta nun èsse ggiacobbino o ebbreo,
o antra razza de cani arinegati.
Se leva ar
purgatorio er catenaccio;
e a l’inferno, peccristo, pe cquest’anno
pôi fà, ppôi dí, nun ce se va un cazzaccio.
Tu
vvà’ a le sette-cchiese 3 sorfeggianno,
méttete in testa un pò’ de scenneraccio,
e ttienghi er paradiso ar tu’ commanno.
Ma cche tte
fumi, di’, sia mmaledetto:
hai la faccia color de Monte-Mario, 1
tienghi, peccristo, scerte 2 coste in petto
da mettele pe mmostra in zur Carvario:
pesi
quattr’oncia meno d’un canario,
e nun hai carne d’abbastà a un guazzetto;
e ttutto er zanto ggiorno cor zicario, 3
da cuanno t’arzi inzino ch’entri a lletto!
Senza
contà che a tté co sto porcile
te puzzeno, per dio, sino li peli:
vôi fini li tu’ ggiorni in marzottile? 4
Mazzato!, eh
llassa er fume de la pippa
a sti frati futtuti d’aresceli, 5
che ttiengheno un mascello in de la trippa.
Senti sto
fatto. Un giorno de st’istate
lavoravo ar Convento de Ggenzano,
e ssentivo de sopra ch’er guardiano
tirava ggiú bbiastime a ccarrettate;
perché,
essenno le ggente aridunate
pe ccantà la novena a ssan Cazziano, 1
cerca cquà, cchiama llà, cquer zagristano
drento a le scelle 2 nun trovava un frate.
Era viscino a
notte, e un pispillorio
già sse sentiva in de la cchiesa piena,
cuanno senti che ffa Ppadre Grigorio.
Curze a
intoccà la tevola 3 de scena, 4
e appena che fu empito er rifettorio disse:
«Alò, ffrati porchi, a la novena».
Sori dottori,
chi ssa ddimme prima
come se chiama chi ggoverna er monno?
Cuello che mmanna tanta ggente in cima,
cuello che mmanna tanta ggente in fonno?
Er Papa? er
Re? - De cazzi, io ve risponno:
sete cojjoni, e vve lo dico in rima.
Er pelo e er priffe è cquer che ppiú se stima
pe cquanto è llargo e llongo er mappamonno.
Er priffe e
’r pelo sò ddu’ cose uguale,
der pelo e ’r priffe sò ttutti l’inchini,
p’er priffe e ’r pelo se fa er bene e ’r male.
E una cosa
dell’antra è tanta amica
cuanto la fica tira li cudrini,
e li cudrini tireno la fica.
Pussibbile
che ttu cche ssei romana
nun abbi da capí sta gran sentenza,
che ppe vvive in ner monno a la cristiana
bisogna lascià ssarva l’apparenza!
Co cche
ccore, peddìo!, co cche ccuscenza
vôi portà scritto in fronte: io sò pputtana?
Nun ze pò ffa lle cose co pprudenza?
Abbi un po’ de ggiudizzio, sciarafana. 1
Guarda Fra
Ddiego, guarda Don Margutto:
c’è bbarba-d’-omo che nne pò ddí ggnente?
Be’, e la viggijja magneno er presciutto.
Duncue sta
verità tiettela a mmente
che cquaggiù, Checca mia, se pò ffà ttutto,
bbasta de nun dà scànnolo a la ggente.
Ho
addimannato a ttanti ch’edè cquello
c’ha de mejjo chi mmarcia in pavonazzo.
Uno m’ha dditto che cquest’è er ciarvello;
ma li Prelati nun ce ll’hanno un cazzo.
Un’antro
disce, er core; ma er ciorcello 2
de li Prelati è rrobba de strapazzo.
Titta er compare mio sta pe l’uscello,
e cchi pparla accusí nun è un pupazzo.
Io, co
lliscenza der compare mio,
direbbe che lo stommico è er tesoro
che li santi prelati hanno da Ddio.
Nu lo vedete,
Cristo!, che llavoro?
Cicco cqua, ccicco llà, 3 sangue de bbio!,
cuer che cc’è da magnà mmagneno loro.
Pe ccapí
mmejjo, tu gguarda Cremente
cuanno, incartato er lardo, sce pilotta 1
l’abbacchio, 2 er porco, o ll’antra carne gliotta, 3
perché se cosci 4 e nnun resisti ar dente.
Er lardo
acceso sbrodola e bbarbotta 5
mannanno in giù ttante goccette ardente,
che, una cquà, una llà, ttutte uguarmente
vanno a investí la carne, inzin ch’è ccotta.
Cuest’è
una cosa chiara più dder vetro,
e nnun ce vò er ciarvello d’un oracolo
pe ssciferalla e nnun rimàne 6 addietro.
Bbè,
lo Sspiritossanto pe mmiracolo
se ne scenze 7 accusí ssopra a Ssampietro
e all’apostoli sui drento ar Cenacolo.
Io nun
pòzzo 1 capí ccom’e cquarmente
certi cazzacci s’abbino da crede
ch’er purgatorio nun è vvero ggnente,
cuanno cuesto è un articolo de fede.
Duncue
ch’edè cquer foco che sse vede
dipinto in de le cchiese indegnamente?
Che ccosa sò cquell’anime llí a ssede
tra le fiamme, je pijji un’accidente?
Caso ch’er
purgatorio fussi finto
te pare che li preti der governo
propio in chiesa l’avessino dipinto?
Ccusí, ffarzo
sarà ppuro l’inferno!
Farzo? Magaraddío, padron Giascinto!
Me parerebbe d’avé vvinto un terno.
Accidenti che
razza de paesi
ce sò ar Monno, e cche ssorte de custumi!
Nun fuss’antro, sti matti de francesi
parleno chiaro che cce vò li lumi.
Uno me disse
che jj’avesse presi
cuattr’o ccinque bbajocchi de legumi:
je li spesi a ffascioli io, jje li spesi;
e ar zor Cazzo je preseno li fumi. 1
«Sesi, fúder,
nepà cche gge cercé,
crenon bugher de sudditi de Pape:
andé accetté legume ar pottaggé».
Inzomma, a
ffalla curta, si tte cape 2
azzecca 3 mó er legume si cch’edè: 4
sò, ccorpo der zu’ Dio, bbroccoli e rrape!
Che cchi ha
ddu’ spalle come un zoccolante
se fregassi magara un monistero,
nun c’è da repricà nemmanco un zero,
e cchi disce er contrario è un ignorante.
Ma cche un
stuppino sii tanto arugante, 1
un reduscelli, 2 un sbusciafratte 3 vero,
senza un’oncia de fedigo 4 sincero,
j’affetterebbe 5 er collo cor trinciante. 6
Cueste
cquà nun zò mmiffe 7 ch’io t’appoggio:
tu sseguita sta strada, e a la bbon’ora
si er beccamorto nun te dà l’alloggio.
Co cquella
scera-vergine 8 c’accora
tu intígnete a ssonà ssin che l’orloggio
batti er tocco pe tté dell’urtim’ora.
Stavo st’ottobre
a Tterni cor padrone,
che ccià pportato a mmutà aria un fijjo,
cuanno una sera all’osteria der gijjo
sento dà ttanti tocchi ar campanone.
Dico:
«Ch’edè, sor oste, sto bisbijjo
de tocchi? che! cc’è cquarche priscissione?».
E ppadron Chiappa m’arispose: «None, 1
vò ddí cche ddomatina c’è cconzijjo.
Perché vvonno
ingabbià 2 li conzijjeri
a offerí mmille scudi a un patriotto
ch’er Papa ha ffatto Cardinale glieri. 3
E mmille
scudi, che nun zò un cazzotto,
lui se li cibberà bben volentieri
pe ddí cc’a Tterni ha vvinto un terno al lotto».
Poveri gonzi,
2 currete, currete
a llegge 3 sti lenzoli a li cantoni:
che vve penzate, poveri cojjoni?,
de trovacce da bbeve pe cchi ha ssete?
Ve lo dich’io
si mmai nu lo sapete
che cce sta scritto in cuelli lenzoloni:
’n’ infirza 4 de gastighi bbuggiaroni
da facce inciampicà 5 cchi nun è pprete.
Varda llí! pe
’gni càccola 5a ’na Legge, 6
’na condanna, un fraggello, un priscipizzio!,
accidentacci a cchi ssa scrive e llegge.
Bono c’a ste
cartacce chi ha ggiudizzio
pè mmannajje ’na sarva 7 de scorregge 8
cor pijjà la patente a Ssantuffizzio. 9
Er giorno c’annò
er Papa a la Nunziata, 1
io jje bbutta’ in carrozza er momoriale;
e llui cià ffatto sopra la passata, 2
e ddoppo l’ha arimesso ar Cardinale.
Bisognerebbe
mó ttrovà un canale
pe avé un’informazzione un po’ aggrazziata;
e ppenzerebbe guasi a Ffurtunata
che llui diede pe mmojje ar zu’ curiale.
Cuesta
regazza la ppijjò a pprotegge
cuanno pe Nnapujjone annò in esijjo,
e ll’ha ttirata avanti a scrive e a llegge.
Pôi
figurà si llei cià conoscenza
che llui j’ha ffatto da compare a un fijjo,
ch’è ttutto spiccicato 3 Su’ Eminenza.
Si ppe ’gni
bbirbaria de sto paese
un povèta fascessi 1 un ritornello,
e lo mannassi pe le stampe, cuello
guadagnerebbe un tern’-a-ssecco 2 ar mese.
Cqua mme
risponni tu: sto maganzese 3
potría ’mmannisse pe vviaggià in castello,
dov’er guadammio der zu’ ggiucarello
sí e nnò jj’abbasterebbe pe le spese.
Mó tte
reprico io cche nu lo sai
tu er praticà de sto paese bbuffo:
cqua cchi ha ccudrini, nun ha ttorto mai.
Bbasta de
curre a ttempo co lo sbruffo:
eppoi senza pericolo de guai,
spaccia puro pe ffresco er pane muffo.
Jèso,
1 che sproscedato! 2 e cchi tt’inzegna
de tienemme sta sorte de discorzi?
sempre me bbatti llí a lo sticcalegna! 3
Lui me fregò perché nun me n’accorzi.
Ma ssò
ffijja ’norata, e nu lo vorzi
mai perdonà de st’azzionaccia indegna:
eppoi, vacce a ssentí la mi’ madregna
si cquanno lo capii guasi me morzi.
Ma nnò
vvia, Toto mio; perché una donna
cuanno s’arza la vesta a un ammojjato
fa ppiagne in paradiso la Madonna.
Oh, sú, a le
curte, pe ’na vorta o ddua,
senti, io lo fò: ma intenno ch’er peccato
vadi a ccascà su la cuscenza tua.
Allora,
allora! Allora ero un bardasso 1
che tte credevo, e tte vienivo appresso.
Passò cquer temp’enèa, 2 Briscida: adesso,
fijja, sò tturco 3 ppiú de san Tomasso.
E ttu tte
credi de portamme a spasso
co le chiacchiere tue? De llí a un cipresso! 4
Io nun vojjo ppiú gguai: me chiamo ggesso,
cor una mano scrivo e un’antra scasso. 5
Che sserve mo
de sciancicà 6 un abbisso
de paternostri, e dde portatte addosso
’na frega de corone e ’r croscefisso?
Nun ze
sapessi 7 mai c’ar gallo-rosso 8
te pijjassi 9 cuer po’ dde stoccafisso, 10
eppoi cacassi 11 du’ stronzi coll’osso! 12
Nun ce
vò mmica tanto pe ssapello
si ssei un galantomo o un birbaccione.
Senti messa? sei scritto a le missione? 1
cuann’è vviggijja, magni er tarantello?
a le Madonne
je cacci er cappello?
vôi bbene ar Papa? fai le devozzione? 2
si ttrovi crosce 3 ar muro in d’un portone,
le scompisci, o arinfòderi l’uscello?
dichi er
zottumprisidio cuanno t’arzi?
tienghi in zaccoccia er zegno der cristiano? 4
fai mai la scala-santa
tienghi
l’acquasantiera accapalletto? 6
Duncue sei galantomo, e ha’ tant’in mano
da fà ppuro abbozzà 7 Ddio bbenedetto.
C’hanno da
fà de ppiú, pe ddio sagraschio? 1
La femmina che llei fesce a Ccorneto,
fa la tela d’olanna, e er fijjo maschio
le cannele de sego de Spoleto.
Cià 2
un’antra fijja, sí, mma cquella è un raschio,
si lla vedi, ppiú ffina de sto deto:
duncue me pare che a li fijji, caschio!, 3
si jje dà vvino nun riccojje asceto.
Ma llei
tratanto sta vecchiaccia porca
magna a le spalle loro, e spenne e spanne
pe ttrovà chi jje sbuggeri la sorca.
Pe mmé, la
mannerebbe a Rripagranne
(già cche cquì pe le donne nun c’è fforca)
a ccompità er crimìni-vinnicanne. 4
Lo so, lo so
ch’er zor curato ha sparza
la chiacchiera ch’io bbatto
che in ner mentre mantiengo er m’arimovo 2
manno pe Rroma la mi’ mojje scarza, 3
e cche ppe
ffajje fà mmejjo comparza
pelo er gabbiano mio dove lo trovo:
ma sto frate è un busciardo, e tte l’approvo: 4
cuanno una cosa nun è vvera, è ffarza. 5
Abbadi a llui
però co sta pastrocchia, 6
perché le lingue sò ttutte sorelle,
e llui puro pò avé cchi jje la scrocchia: 7
lui che
annanno a pportà le pagnottelle
de san Nicola,
ha ingallato da 9 dodisci zitelle.
Ebbè?,
pperché tte sei perzo 1 l’anello
de tu’ cugnata fai tanto fracasso!
Eh ddi’ er zarmo cqui abbita, 2 fratello,
che sse venne stampato a ssan Tomasso.
Nun ce
sò ccazzi, 3 cristo!, è un zarmo cuello
che ttra li sarmi der Zignore è ll’asso: 4
che ssi mmagaraddio perdi er ciarvello,
lo troveressi in culo a Ssatanasso.
In caso poi
de furto, Pippo mio,
stenni una gabboletta risponziva,
o ffa’ ffà 5 lla garafa da un giudio:
indove,
appena scerto 6 fume sbafa, 7
comparisce la faccia viva viva
der ladro propio immezzo a la garafa.
Che
ssò sti parafurmini der cazzo,
ste bbattecche 1 de ferro de stivale, 2
che vvanno a inarberà mmó co le scale
su ’gni cuppola e ttetto de palazzo?
A mmé
mm’hanno inzegnato da regazzo,
cuanno er diavolo smove er temporale,
a ddí er disaggio angelico, 3 che vvale
ppiú de ste bbuggiarate da pupazzo.
Duncue mó sti
fijjacci de puttane
ne vonno sapé ppiú cco le su’ Sette
de chi ha inventato er zon 4 de le campane!
Nun ce
sò le campane bbenedette
pe llibberà le frabbiche cristiane
da lampi, toni, furmini e ssaette?
«’Gni cosa ar
monno ha er zu’ perché, ffratello»,
me disse marteddí Ffrà Ppascualone:
«li ggiudii adoraveno un vitello,
noi un boccio, 2 una pecora e un piccione.
Er boccio
è ’r Padreterno cor cappello,
che nnascé avanti all’antre du’ perzone;
e Ccristo è la figura de l’agnello,
che sse fesce scannà ccome un cojjone.
E ’r piccione
vò ddí che ttanto cuanto
che la gabbia der crede ce se schioda,
addio piccione, addio Spiritossanto.
E allora sti
dottori de la bbroda
currino appresso a mmetteje cor guanto
un pizzico de sale in zu la coda».3
Nun ce
fò ppasce, 1 nò, vvive 2 sicuro:
co ddu’ anni de fremma ho in tanta pratica
cuella su’ testacciaccia sbuggenzatica, 3
che, stassi
Nun ce
fò ppasce, nò; voría, 5 te ggiuro,
più ppresto ’na risípola 6 o ’na ssciatica.
Lei è pp’er mi’ penzà ttroppa lunatica:
nun ce fò ppasce, nò, ffidete puro.
Du’ vorte ar
mese, tre, cquattro, accidenti; 7
ma lliticà ogni sera, ogni matina,
a ttutte l’ora, a ttutti li momenti!
Nò,
è mmejjo ognun da sé: sinnò, 8 per dina,
j’appoggio un cazzottone in ne li denti
che jje ne fò ingozzà mmezza duzzina.
Eh ttrotta
p’er tu’ cristo che tte strozza:
ch’edè sto trainanà 1 da cataletto?
Varda che bbestie da vennesse
Nun pareno somari de la mozza? 3
Sai
cuant’è mmejjo de marcià in carretto,
che dd’annà a spasso drent’a sta carrozza?
Se discurre che ggià cquela 4 barrozza,
va’, 5 cc’è ppassat’avanti un mijjo netto!
Io che
ccucchiere sei me sce 6 strasecolo;
e mme fa spesce a mmé dde padron Fabbio,
pozzi campà ccent’anni men’un zecolo.
Su, sfrusta
ste carogne senza peli,
che ppare che ccarreggino lo stabbio
o pportino er bambin de la Resceli. 7
’Gnisempre
peggio, pòra 1 vecchia nostra:
piú vva avanti, ppiú vva, ppiú sse sconocchia. 2
Già er barbozzo 3 je tocca le gginocchia,
Bbe’ cc’abbi 4 men’età de cuer che mmostra.
Cuarc’oretta
la passa a la conocchia,
e ’r restante der giorno spaternostra.
Pe spirito, héhé!, ppò ffà la ggiostra,
ma ccala a vvista, e ’gni momento scrocchia. 5
Di’,
st’anno-santo cuanno l’hai viduta,
nun poteva fà invidia a le sorelle,
dritta come ’na spada, e cciaccaruta?
E in
zett’anni ggià vva co le stampelle;
e ssibbè cche ddio sa ssi è mmantenuta,
se pò speralla ar lume: è ossa e ppelle.
Se commatte,
2 monzú, co la miseria.
Cosa sce s’ha dda fà? ttrist’a cchi ttocca.
Da sí 3 cche vve portà a la Ninf’Argeria
nun ciò 4 ppane da metteme a la bbocca.
Abbito
drent’a un búscio de bbicocca 5
da fa rride sibbè cch’è ccosa seria.
Llí cce piove, sce grandina e cce fiocca,
come disce sustrissimo in Zibberia.
La cuccia mia
nu la vorebbe un frate,
ché ddormo, monzú mmio, s’un matarazzo
tarquàle
Sò
annato scento 7 vorte su a ppalazzo
a cchiede ajjuto ar Papa: e indovinate
cosa m’ha ddato er zanto-padre: un cazzo.
Benefattore
mio, che la Madonna
l’accompaggni e lo scampi d’ogni male,
dia quarche ccosa a una povera donna
co ttre ffijji e ’r marito a lo spedale.
Me lo
dà? mme lo dà? ddica: eh rrisponna:
ste crature sò iggnude tal’e cquale
ch’er Bambino la notte de Natale:
dormímo 1 sott’un banco a la Ritonna. 2
Anime sante!
se movessi 3 un cane
a ppietà! eh armeno 4 sce se movi lei, 5
me facci prenne 6 un bocconcin de pane.
Siggnore mio,
ma ppropio me lo merito,
sinnò 7 davero, nu lo seccherei...
Dio lo conzóli e jje ne renni 8 merito.
Fate la
carità, ssiggnora mia,
in onor der grorioso san Cremente:
conzolate sto pover’innoscente
che ppe la fame me sta in angonía.
Eh ajjutateme
voi tra ttanta ggente,
eh ffatemela dí ’na vemmaria 1
ar zagro core de Gesúmmaría:
mezzo bbaiocco a vvoi nun ve fa ggnente.
Ah
llustrissima, nùn m’abbandonate,
che la Madonna ve pôzzi concede 2
tutte le grazzie che ddisiderate.
Pe l’amor de
Maria der bon conzijjo,
soccorrete una madre che vve chiede
quarche ssoccorzo da sarvajje 3 un fijjo.
Ecco. Lui me
chiamò, ddisce: 1 «Miscelle, 2
accetté muà una loggia pe sta sera»;
e io che sso che a cchi cconta bbajocchelle
je ggireno le scigne
credenno che
vvolessi er zor Tullera 4
magnà lli fichi ar lume de le stelle,
je prese ar cuinto piano una lendiera
lí da strada-Felisce a le Zucchelle. 5
Che vvôi!
Come se trova su la loggia,
hai visto ma’ un demonio scatenato?
Me misura un cazzotto e mme l’appoggia.
Chiese 6
una loggia? io lo portai sur tetto.
Chi vvò annà a la commedia, si’ ammazzato,
ecco com’ha da dí: «Ccrompa un parchetto».7
Inzinent’a 2
ssan Stefino-in-pescicolo 3
sò vvienuti a attaccà li bbullettoni,
dico de sto cazzaccio de ventricolo
che vorrebbe pijjacce pe ccojjoni.
Lui bbutta
avanti 4 de parlà cor vicolo
de li tozzi 5 senz’arte de pormoni,
com’er cquarmente drento in ner bellicolo 6
ciavesse ggente, uscelli, e ccan-barboni.
Io dico che
ttiè in culo farfarello; 7
e cquesto cquì ch’è er padre d’ogni vizzio
mó lo fa ffà da cane e mmó da uscello.
Si ffussi
Papa io, sto solo innizzio 8
m’abbastería pe mmettelo in castello,
o ffottelo addrittura a Ssantuffizzio.
L’anno che
Ggesucristo o er Padreterno
cacciò cquel’angelacci mmaledetti,
tanti che nun agnédero
rimàseno pell’aria su li tetti.
E cquesti
sò li spiriti folletti,
che pper lo ppiú se senteno d’inverno
le notte longhe: e a cchi ffanno dispetti
e a cchi jje cricca 2 fanno vince un terno. 3
Tireno le
cuperte e le lenzola,
strisceno le sciavatte pe la stanza,
e ppareno 4 una nottola che vvola.
De le vorte
te soffieno a l’orecchie,
de le vorte te gratteno la panza,
e ssò nnimmichi de le donne vecchie.
Dio sia con
noi! Lo vedi, eh? cquer casino
co le finestre tutte svetrïate?
Llí, a ttempi de la Cenci, 1 un pellegrino
de nottetempo ciammazzò un abbate.
D’allor’impoi,
a ssett’ora sonate,
ce se vede ggirà ssempre un lumino,
eppoi se sente un strillo fino fino,
e un rumor de catene strascinate.
S’aricconta
che un’anno uno sce vorze 2
passà una notte pe scoprí ccos’era:
che ccredi? in capo a ssette ggiorni morze. 3
Fatt’è
cche cquanno ho da passà de sera
da sto loco che cquà, pperdo le forze,
e mme ffaccio ppiú bbianco de la scera.
Tu cconoschi
la mojje de Fichetto:
bbè, llei ggiura e spergiura ch’er zu’ nonno,
stanno una notte tra la vejj’e ’r sonno,
se sentí ffà un zospiro accapalletto. 1
Arzò
la testa, e nne sentí un siconno.
Allora lui cor fiato ch’ebbe in petto
strillò: «Spirito bbono o mmaledetto,
di’ da parte de Ddio, che ccerchi ar Monno?».
Disce: «Io
mill’anni addietro era Bbadessa,
e in sto logo che stava er dormitorio
cor un cetrolo 2 me sfonnai la fessa.
Da’ un scudo
ar piggionante, a ddon Libborio,
pe ffamme li sorcismi 3 e ddì una messa,
si mme vôi libberà ddar purgatorio...».
Un mese, o
ppoco ppiú, ddoppo er guadagno
de la piastra, che ffesce er zanto prete,
venne pasqua, e ’r gabbiano 1 che ssapete
cominciò a llavorà de scacciaragno. 2
«Ch’edè?
Un buscio 3 ar zolàro! 4 Oh pprete cagno», 5
fesce 6 allora er babbeo che cconoscete:
«eccolo indove vanno le monete!
Và 7 cche lo scudo mio scerca er compagno?».
Doppo infatti
du’ notte de respiro,
ecchete la Bbadessa de la muffa 8
a ddajje ggiú cor zolito sospiro.
«Sor Don
Libborio mio, bbasta una fuffa», 9
strillò cquello; «e lle messe, pe sto ggiro, 10
si le volete dí, dditele auffa». 11
Burlàtemesce,
sí, ccari coll’ogna: 1
voantri fate tanto li spacconi, 2
e cquanno semo a l’infirzà un’assogna 3
poi se manna in funtana li carzoni.
Nun è
mmica un inguento pe la rogna 4
quer vedé un schertro in tutti li cantoni:
cquà tte vojjo: a cciarlà ttutti sò bboni,
ma bbisogna trovaccese bbisogna.
So cche da
quella sera de la sbiossa 5
ancora sto ppijjanno corallina, 6
e nnun m’arreggo in piede pe la smossa. 7
E cquanno
penzo a rritornà in cantina,
me sento li gricciori ggiú ppell’ossa,
me se fanno le carne de gallina.
Tu ffatte
legge 1 er libbro che ccià 2 er frate
che pporta er venardí la misticanza, 3
e ssentirai si cquante sce sò state
che jj’è entrato er demonio in de la panza.
Cueste
sò, bbella mia, storie stampate,
vite de Santi; e cc’è ttanto c’avanza
de donne che ccredenno 4 gravidanza
s’aritrovorno
perché ar
fine der gioco a mmill’a mille
vommitorno 6 li diavoli a lleggione 7
sotto forma de nottole e dd’inguille.
Bbasta che
pozzi 8 datte 9 uno stregone
a ingozzà ddu’ capelli e un par de spille,
te sce schiaffa, 10 si vvò, ppuro Prutone.
Sai
cuant’è mmejjo a llavorà llumini 1
e a ffrabbicà le cannéle de segó, 2
o annà a le quarant’ore
co le diasille e ccor devoto prego;
che de mette
li fijji a li latini
e a bbiastimà ccor paternostro grego,
tra cquella frega 4 de Scisceroncini 5
indove in cammio d’io c’è scritto Diego? 6
Causa de sti
vorponi ggesuiti
che sfotteno e ss’inzogneno la notte
come potecce fà ttutti aruditi.
Pe li mi’
fijji a sti fratacci fessi
è ddègheta, 7 e sse vadino a ffà fotte
loro e cquer Papa che cce l’ha arimessi.
Appena Cristo
in barba der pretorio
risuscitò grorioso e ttrïonfante,
volò all’Imbo a ccaccià ll’anime sante
che jje cantorno tutte un risponzorio.
Cuer giorno
ebbe comincio 2 er purgatorio,
c’averà dda durà ttutto er restante
der monno, e ffu ccreato er bussolante
pe le messe d’un scudo a ssan Grigorio. 3
L’Angeli
all’Imbo vôto sce metterno 4
l’anime de la piscia e dde la nanna, 5
ma cquesto cquà nun durerà in eterno:
e cquanno ar
giorno de la gran condanna
nun resterà che pparadiso e inferno,
chi ssa allora si Ddio dove le manna. 6
Arigalata,
eccí! 1 cche bber rampino! 2
Vedi un po’ de vennécce 3 er zol d’agosto! 4
Tu mmó a sto ggioco sce fai tanto er tosto, 5
e nu la vôi capí cche ssei schiappino. 6
Inzomma
è ppatto-fatto c’a ’gni costo
hai da vince ogni sera er tu’ lustrino. 7
Ma nun zai stacce un cazzo ar tavolino.
Và ar muricciolo, 8 và, quello è ’r tu’
posto.
Guarda io,
9 che cco ttutta la mi’ jjella 10
pago com’un zignore la mi’ pujja
senza d’ariscallamme le bbudella.
E nun
fò ccom’e tté ttutta sta bbujja, 11
che appena vedi un pò de svenarella, 12
te bbiastími 13 er pastèco e lla lelujja. 14
Ccos’è,
ccos’è! cquer giorno de caliggine
lei vorze 1 annà dde filo 2 ar catechisimo?
Bbè, in chiesa j’ariocò 3 cquela 4 vertiggine
ch’er dottore la chiama er passorisimo. 5
Mó er piede
che cciaveva 6 er rumatisimo
je se fa nnero come la fuliggine,
e nnun ce sente manco er zenapisimo:
li spropositi, fijja: 7 ecco l’origgine.
Smania che in
de la testa cià 8 uno spasimo
che mmanco pò appoggialla ar capezzale...
Te pare bbrugna 9 da nun stà in orgasimo?
Ha er
fiatone,
Pe mme, ddico che sgommera; 11 e a Nnatale
Dio lo sa cche ppangiallo 12 che mme tocca.
Te laggni che
ttu’ mojje te tormenta
e abbraccichi 1 la notte un zacco-d’ossa!
Tu ffajje sbucalà 2 men’acqua rossa, 3
tiettel’a ccasa, e mmettela a ppulenta: 4
eppoi vedi,
peddìo!, si tte diventa
com’una vacca o ’n’antra bbestia grossa,
e ssi in nell’atto de dajje 4a la sbiossa 5
ce senti entrà l’uscello che cce stenta.
Grasse o
ssecche, lo so, ssempre sò ssciape
le mojje appett’a un po’ de puttanella:
ma pe cqueste sce vô ffette de-rape. 6
Tratanto, o
ssecca o nnò, ttu’ mojje è bbella;
e ssibbè 6a cche un po’ ccommido sce cape,
Titta, da’ ggrolia
Che
ssò ste bbaggianate, 1 eh, sor cachemme, 2
sti sghigni, 3 sti scì-scì, 4 sti
zzirlivarli? 5
Ggià, cquesto è ’r vizzio tuo: tu cciarli sciarli 6
perché ssei stato a sspasso in Bettalemme. 7
Ma io
v’avviso, sor cazzo coll’emme, 8
che un antro tantinello che mme tarli
la fremma, t’inzegn’io come che pparli,
e vviemme doppo a ssoffià in culo, 9 viemme. 10
Io bbado ar
fatto mio: ciò la commare,
nun ce ll’ho, vvado, viengo..., e ccredo d’èsse
er padrone de fà cquer che mme pare.
De mé nun te
pijjà tant’interresse;
e ffinimo una vorta ste cagnare,
si nun ce vôi bbuscà le callalesse. 11
Ah fu un gran
ride e un gran cascerro 2 gusto
quer de vede passà ttante zitelle
co la bbocca cuperta, er manto, er busto,
le spille, er zottogóla, e le pianelle!
Tutte
coll’occhi bbassi ereno ggiusto
da pijjalle pe ttante monichelle,
chi nun sapessi cuer che ssa sto fusto 3
si cche ccarne sce sta sotto la pelle.
Nerbi-grazzia,
Luscía l’ho ffregat’io:
Nena? ha ffatto tre anni la puttana,
e Ttota è mmantienuta da un giudio.
E la sora
Lugrezzia la mammana 4
n’ariconobbe dua de bborgo-pio: 5
inzomma una ogni sei nun era sana.
Trapassanno
cor bùzzico 1 dell’ojjo
pe annà da la Petacchia a Ttor-de-specchi, 2
te vedo una combriccola de vecchi
lí a le Tre-ppile, 3 appiede ar Campidojjo.
Staveno
attenti a ssentí llegge un fojjo
co ccert’occhi ppiú ggrossi de vertecchi, 4
e in faccia a ttutti mascilenti e ssecchi,
je se scropiva 5 er zegno der cordojjo.
Uno
trall’antri a l’improviso strilla,
dannose in zu la fronte una manata:
«Ah ppovera Duchessa de Bberilla! 6
A ccosa
t’è sservito, sciorcinata, 7
de sapé sscivolà 8 com’un’inguilla?
Sti nimmichi de Ddio t’hanno fregata».9
Pare chiaro
oramai, fijji mii bbelli,
che ttutto abbi d’annà a la bbuggiarona!
Cquà vvedete che razza de ggirelli 2
ciavémo attorno, e Iddio come sce sona.
Ma in cap’ar
monno sce ne sò dde cuelli
co un ciarvello, per dio!, che nun cojjona.
Nun fuss’antro ste furie de fratelli
de cuer paese orbo 3 de Sbillona.
Se chiameno
Don Pietro e Ddon Micchele,
ma vvolenno ammazzasse a ttradimento,
per me, li chiamería Caìno e Abbele.
E cquanno che
ppoi semo a una scert’ora
de scannà er Monno pe stà ffora o ddrento,
bbuggiarà cquello drento e cquello fora.
Sta accusí.
La padrona cor padrone,
volenno marità la padroncina
je portonno davanti una matina,
pe sscejje, du’ bbravissime perzone.
Un de li dua
aveva una ventina
d’anni, e ddu’ spalle peggio de Sanzone;
e ll’antro lo disceveno un riccone,
ma aveva un po’ la testa scennerina. 1
Subbito er
giuvenotto de cuer paro 2
se fesce avanti a ddí: «Sora Luscía,
chi vvolete de noi? parlate chiaro».
«Pe ddilla,
3 me piascete voi e llui»,
rispose la zitella; «e ppijjeria
er ciscio vostro e li quadrini sui».
Sèntime:
doppo er Papa e ddoppo Iddio
cquer che mme sta ppiú a ccore, Antonio, è er pelo:
per cquesto cquà nun so nnegatte 1 ch’io
rinegheria la lusce der Vangelo.
E ssi dde
donne, corpo d’un giudio!,
n’avessi cuante stelle che ssò in celo,
bbasta fussino bbelle, Antonio mio,
le voría fà rrestà tutte de ggelo. 2
Tratanto, o
per amore, o per inganno,
de cuelle c’ho scopato, e ttutte bbelle,
ecco er conto che ffo ssino a cquest’anno:
trentasei
maritate, otto zitelle,
diesci vedove: e ll’antre che vvieranno
stanno in mente de Ddio: chi ppò sapelle? 3
Eppuro,
avanti a tté, ccore mio bbello,
sibbè cche ssana nun me ciai trovata,
gnisunantro m’ha ffatto er giucarello
e ècchete la cosa com’è annata. 2
Un giorno in
d’un ortaccio a Mmarmorata,
pe ccure 3 appresso a un maledett’uscello,
scivolo: 4 un pass’in farzo, una scossciata,
’na distrazzion de nerbi…,5 ecco er fraggello! 6
Pe ffatte
vede 7 che nun zò bbuscíe,
te dico che ffu ttanta la pavura,
che m’agnédeno 8 via le cose mie. 9
Eppoi me pare
’na caricatura
sto sano o rotto, e ste cojjonerie:
io ciò er buscio? e ttu er cazzo che l’attura.
Te penzi io 1
forze,
che ccojjoni la fiera che ccojjoni? 3
Batteme sodo: 4 nun risponne agra:
cosa te senti? hai male a li rognoni? 5
Tienghi mai,
pe ffurtuna, 6 li tinconi?
Hai, che sso..., la renella? hai la polagra?
Questa ggià nnò, perch’è mmalatia sagra.
de sti servi-de-ddio nostri padroni.
Dimme
cos’hai, eppoi te fo un rigalo:
ch’io so gguarí co un ritornello solo
come ch’er paternostro abbogni malo.
Senti che
ggran virtú! Fior de fasciolo, 7
sposa, 8 lo so pperché mme fai sto calo:
t’ha ffatto male er zugo de scetrolo. 9
Perché tte
scanzi? Nun zò mmica un porco
che tte vienghi a intrujjà l’accimature. 1
Ih cche sspaventi! e ccos’hai visto? l’orco 2
che vviè a mmette in ner zacco le crature?
Cuanno che
tte s’accosta Peppe er zorco, 3
a llui nun je le fai ste svojjature!
Ma un giorno o ll’antro co ste tu’ pavure,
mignottaccia mia bbella, io te sce corco. 4
Cuesto, Dio
sant’e ggiusto, è cche mme cosce,
ch’io sto a stecchetta e cquello affonna er dente:
c’uno ha dd’avé la vosce, uno la nosce. 5
Da un cazzo
all’antro nun ce curre ggnente;
e ’r Zignor Gesucristo è mmorto in crosce
pe ttutti quanti l’ommini uguarmente.
E cchi li
pò spiegà ttutti st’impicci
che ffa Iddio ne le cose de natura?
E mmó un abborto, e mmó ’na sconciatura,
mó un farzo-parto, e ttant’antri pasticci!
E le vojje
sò ppochi antri crapicci?
Nun ciamanca 1 che vvede una cratura 2
de nasce e pportà in fronte la figura
de piastre sane o dde quadrini spicci; 3
perché tutte
le sorte de le vojje
che ppòzzino 4 fà ar monno maravijja,
se sò vvedute da che mmojje è mmojje.
E cquesto lo
pò ddí la mi’ madregna
si una parente sua fesce una fijja
co ’na vojja de cazzo in zu la fregna.
Un giorno
Rugantino 1 der casotto, 2
liticanno un goccetto 3 co la mojje
pe vvia de scerte bbuggere de vojje,
perze 4 la fremma e jje gonfiò 5 un cazzotto.
«Diavolo
porta via sto galeotto
che mme sfraggella indove cojje cojje»,
strillò Rrosetta: 6 e, tràcchete, 7 se
ssciojje
un lampo, e scappa er diavolo de sotto.
Cquà
Rrugantino, appena c’uscì ffora,
je disse: «Avete mojje voi, sor diavolo?».
E er diavolo arispose: «Nonzignora». 8
Ma ddannoje
un’occhiata ar capitello, 9
repricò ll’antro: «Nonzignora un cavolo!
Cuesta nun è ccapoccia da zitello».
E ssempre,
Andrea, sta bbenedetta caccia
co sti compagni tui priscipitosi!
Oggi sei stato inzino a Mmonterosi 1
e stanotte aritorni a la Bbottaccia! 2
A mmé nnun me
parlà de sti mengosi, 3
de st’archibbusci tui senza focaccia: 3a
sai che sso io? che ffai troppa vitaccia:
sai che mme preme a mmé? che tt’ariposi.
Un giorno a
ttordi, un antro a ppavoncelle,
mó a bbeccacce, mó a llepri, mó a ccignali... 4
Ne vôi troppo ne vôi da la tu’ pelle.
Fijjo, io
ppiú te conzidero e ppiú ccali:
Andrea, le carne tue nun zò ppiú cquelle:
crèdime, fijjo mio, tu mme t’ammali.
Hai torto
marcio, e tte daría, per Cristo,
la forcina de stalla in de la testa.
Dio sagrataccio! e cquanno mai s’è vvisto
che ssenza argianfettú sse soni a ffesta?
Te sei
vorzuto mette cuella vesta
de chiricaccio? impara a ffà dda tristo:
sinnò ttu pporterai sempre la scesta 1
pell’antri, 2 e ssempre te daranno er pisto.
Senza strozzo
3 e cche vvôi sce s’ariscota
da sti pretacci fijji de carogna,
che nnun vonno avé mmai la panza vôta?
Cquà
bbisogna sapé vvive, bbisogna.
Vôi trottà ssenza frusta? ogne la rota: 4
la rota strilla? e ttu ddajje l’assogna. 4
Doppo che
Ggesucristo fu llegato
pe cquer baron futtuto de Scariotto:
doppo che dda un ruffiano screanzato
de la sor’Anna ciabbuscò 1 un cazzotto:
doppo che ffu
dar Papa arinegato
c’arispose a la serva: «Io me ne fotto»;
lo portonno ar Pretorio de Pilato
ch’era lui puro un antro galeotto.
Poi da Pilato
fu mmannato a Erode:
poi da Erode a Ppilato,
de Caifasso e ddell’angelo-custode.
Disse allora
Pilato: «Sor Gesù,
sete voi Cristo er Re de la Ggiudìa?».
E Ccristo j’arispòse: «Dichi tu».3
No, Rreggina 1
mia bbella, in paradiso
nun perdi tempo co ggnisun lavoro:
nun ce trovi antro che vviolini, riso,
e ppandescèlo, 2 ciovè ppane d’oro.
Là, a
ddà udjenza ar giudio, pòzz’èsse acciso!, 3
nun ce metteno er becco 4 antro che lloro, 5
come si ttutto-cuanto sto tesoro
fussi fatto pe un cazzo scirconciso. 6
Ecco che
ddisce 7 sto ggiudío scontento: 8
«Sopra li leggi vecchi, mordivoi,
per vita mia! sta tutto el fonnamento». 9
Ma llui nun
zà 10 che Ggesucristo poi
ner morí fesce un’antro testamento,
e ’r paradiso l’ha llassato a nnoi.
Ne le
carrozze che mmó avemo trovo
co llacchè avanti e sservitori appresso,
c’è er Ministro der Re ch’è annato ar covo 2
de cuer paese c’hanno fatto adesso. 3
Disce 4 che
jj’abbi detto er Re a un dipresso:
«Conte, vattene a Rroma in borgo-novo, 5
e ddí ar Papa, a mmi’ nome, ggenufresso:
Santo Padre, accusí me l’aritrovo». 6
Questi
sò ttutti fatti piani piani;
ma nun s’intenne come un Conte solo
s’ha dda chiamà Cquattordisci Villani! 7
Val’a ddí
ch’er zor Conte noi Romani,
ogni cuarvorta che cce va a ffasciolo, 8
lo potémo chiamà Du’ Velletrani. 9
Uhm, ce
penzerà llui. Io je lo predico:
«Nun pijjà le pedate, Andrea, de tanti
che mmó vviengheno sú: nun fà l’eredico:
bburla li fanti e llassa stà li santi». 1
Ebbè,
che ffò? Me sfedico me sfedico, 2
e llui sagrata 3 peggio, e ttira avanti.
E ssemo a un punto ch’er curiale e ’r medico
nun ce vònno avé ppiú pe appiggionanti.
E indove
trovo un’antra stanzia sfitta
c’abbi loco, cammino e ssciacquatore
come ciò pe ssei giuli in sta suffitta?
Ecco cosa
vò ddí un biastimatore!
Dijje tu cquarche ccosa; e ffallo, Titta,
rifrette a la cuscienza e a l’esattore.
Nun ze disce
pe ddí, se fa pe un detto,
dico... se sa si ccome sò le cose:
le regazze... héhé..., cquer fasse spose!... 1
Eppoi, dico, ch’edè? l’ha ttrovi a lletto?
Disce: Ma!...
che vvôi ma? Cquant’ar zoggetto...
crederia... Tutti ggià ffanno scimose, 2
dico, ma in fin de fine... Eh? c’arispose?
Arispose... Ma pparla pe ddispetto.
P’er fijjo
mio, nun fo pe ddí, lo sai
si ppò ttrovà... Magara la lasciassi!
Ma mme caschi la lingua, si jj’ho mai...
Oh cquesto
no: perché... de che sse lagna?
Disce: Sta ssola! e llei nun ce la lassi:
chi er cane nu lo vò ttienghi la cagna. 3
Cuer
panzanera 1 der Curato mio
nun me guardava ppiú ssino da ggiugno.
Che ddiàscusci 2 averà, discevo io,
sto frate cane che mme svorta er grugno? 3
Che
ffò! Mm’infirzo un giorno er cudicugno, 4
e jje faccio la caccia in borgo-pio:
passa: io me caccio er fongo ar Padre Zugno: 5
lui secco secco m’arisponne: «Addio».
E io: «Padre
Curato, in parrocchietta 6
troverete una pizza...» «Oh Mmeo! bbon giorno.
Cosa fai, fijjo mio? come sta Bbetta?
Checchino
cresce? te va bbene er forno?».
M’acchiappa er zampo, 7 me sce dà ’na stretta,
poi curre a ccasa; e cche cce trova? Un corno.
Parlo latino?
Te l’ho ddetto gglieri, 2
e bbisogna che mmó tte l’aripeti?
A mme nun me dí mmale de li preti;
o ddiventamo du’ nimmichi veri.
Saranno
paggnottanti, 3 culattieri, 4
ladri, canajja, e cquer che vvôi; ma cquieti: 5
noi nun dovemo entracce in sti segreti,
e ttutti hanno da fà li su’ mestieri.
Senza tante
raggione che mme porti,
noi avemo da véde e stacce zitti,
amalli vivi, e rrispettalli morti.
Ciài
da cavamme fora antri delitti?
Ebbè ssi vvanno co li colli storti, 6
nun potranno portà li colli dritti.
Ma
gguardatele llí cche bbelle poste!, 2
che ccapitali da mmettémme gola!
Oh annate a ddà la sarciccetta 3 all’oste:
annate a ffà la cacca a la ssediola.
Animo, lesto,
sor fischietto,
e nnun ce state ppiù a ggonfià le coste: 4
e ssi cciavéte a pparte la pezzola, 5
currétesce a ccrompà 6 le callaroste. 7
Ma ddavero le
purce hanno la tosse? 8
Cosa, peccristo, da pijjalli a schiaffi,
e ffajje diventà lle guance rosse.
Scopamme!
lui! ma llui! vedi che ccacca! 9
Cquà cce vonno, per dio, tanti de bbaffi,
nò un zorcio com’e vvôi sopra ’na vacca.
Dichi davero,
Ggiosuarda, o bburli?
Che tte sei messa in fronte stammatina?!
Si’ bbuggiarata! Oh bbutta via sta trina,
e aristènnete ggiú sti cuattro sciurli. 2
Pe ffatte
camminà, vvecchia scquartrina, 3
mommó cce vonno l’argheni e lli curli, 4
e cco sti sciaffi 5 vôi fà ddatte l’urli?
vôi bbuscà le torzate? o annà in berlina?
Oh vvarda
cquì sta vecchia matta, varda,
si cche ffreggne de grilli 6 s’aritrova,
e mme pare er cartoccio d’una sciarda! 7
Cojjóni,
cazzo! 8 ogni ggiorno una nova?!
Ma ddavero davero, eh Ggiosuarda,
che ttu vvôi famme guadagnà ccent’ova? 9
Rosa, nun
fà la sscimmia
bbada, nun te guardà ttanto a lo specchio:
Rosa, fijja, aricordete der zecchio 2
che rride ne l’annà, nner viení ppiagne.
Disce un
libbro stampato in de le Spagne
che in cuer vetraccio ciapparisce un vecchio,
nero, co li capelli de capecchio, 3
e in fronte tanti 4 de spazzacampagne. 5
Segno 6 che
lo specchiasse è un gran peccato,
ogni-cuarvorta 7 sce se fa st’acquisto,
ch’è dde vedécce er diavolo incarnato.
Antro 8 ch’er
padreterno nun l’ha vvisto:
lui solo in cuesto è ssempre affurtunato,
che, specchiannose in zé, cce trova Cristo.
Prima che
Ppapa Ggenga annassi sotto
a ddiventà cquattr’ossa de presciutto,
se sentiva aripète da pertutto
ch’era mejjo pe nnoi che un ternallotto.
Cquer che
fasceva lui ggnente era bbrutto,
cuer che ddisceva lui tutto era dotto: 1
e ’gni nimmico suo era un frabbutto,
un giacubbino, un ladro, un galeotto.
Ma appena che
ccrepò, tutt’in un tratto
addiventò cquer Papa bbenedetto
un zomaro, un vorpone, un cazzomatto.
E accusí
jj’è ssuccesso ar poveretto,
come li sorci cuann’è mmorto er gatto
je fanno su la panza un minuetto.
Ganassa, hai
visto mai queli casotti
dove se fanno vede l’animali?
Ccusí in concrave, in tanti cammerotti,
sò obbrigati de stà lli Cardinali.
Da pertutto
ferrate, bbussolotti,
rôte, cancelli, sguizzeri, uffizziali,...
e inzino le cassette e ll’orinali
hanno d’avé li su’ sarvi-condotti.
Je se porta
er magnà ’n una canestra,
e ppe ppaura de quarche bbijjetto
se visita inzinent’a la minestra.
Quarche vvorta
però, tra ttant’impicci,
poterebbe passà p’er vicoletto
un pasticcio ripieno de pasticci.
Stavo ggiusto
ar pilastro der cancello
der cuartiere a cciarlà co lo scozzone,
in ner mentre smuronno er finestrone,
e sbusciò er Cardinale cor cartello. 1
E io
sò stato stammatina cuello
ch’è entrato er primo drento in ner portone
cuanno er Papa saliva in carrozzone,
e l’ho arivisto poi sott’a ccastello. 2
Poi sò
ccurzo a Ssampietro; ma le ggente
ereno tante in Chiesa, bbuggiaralle,
che de funzione nun ne so ddí ggnente.
In cuanto sia
portallo su le spalle
l’ho vvisto, ma vvolevo puramente 3
vedé ccome je bbrusceno le palle. 4
A tté ffa
ttanta spesce 1 de Peppetto,
perché jerammatina a Pponte-Sisto,
come nun fussi fatto suo, l’hai visto
pijja co ttanta grazzia er cavalletto?! 2
Che ss’avería
da dí de Ggesucristo,
cuanno cuer popolaccio mmaledetto
lo legò ccom’un Cristo 3 immezzo ar ghetto 4
a la colonna, e jje sonò cquer pisto? 5
La carne, hai
da capí, che ppe ’gni bbotta
ne le coste, sur culo, e pe le spalle,
cascava a ppezzi come fussi cotta.
E llui, senza
avé ppiú mmanco le palle
sane pe cquelli fijji de miggnotta,
cosa fasceva lui? Stava a ccontalle. 6
Cquà,
ragazzino, alò, ppijja er martello,
le tenajje, la sega, du’ codette,
li rampini, li chiodi, le bbollette,
la pianozza, la squadra e lo scarpello.
Mettece
l’ascia, le lime, l’accette,
la raspa, er piommo, er trapano, er trivello,
du’ vite, una strettora, er callarello
de la colla, lo stucco, e un par de fette. 1
E annamo a
vvisità sto corritore
che mmette tra la cchiesa e ’r rifettorio,
dov’è entrato de notte er confessore.
Ma ppoi?
c’è ll’orto, er tetto, er parlatorio,
le cantine, er cammino, er cacatore,
e, cchi cce vò rrugà, 2 ppuro er cibborio.
Lassa che
vvienghi: io nun je curro appresso:
me perzéguiti o nnò, ssò ssempre uguale.
Io? nemmanco a le bbestje io je fo mmale:
amo er prossimo mio com’e mme stesso.
Ma cche sse
crede? c’a inzurtamme 2 adesso
su la strada, o in bottega, o ppe le scale,
lui me pijji er desopra? è ttal’e cquale:
arrosto è ssempre arrosto, e allesso allesso.
Chi er fosso
vò scavà, ccasca in ner fosso:
chi ccerca de fregà 3 ll’antri, se frega:
e io sò pe li su’ denti un gran dur’osso.
È
ssempre er legno che ccede in bottega;
o cche la sega je lavori addosso,
o cche llavori lui sopr’a la sega.
Chi
ddà una spilla a un antro che vvò bbene, 1
se perde l’amiscizzia in pochi ggiorni. 2
Er zangue je se guasta in de le vene, 3
e vvatte a rripescà cquann’aritorni! 4
Si ssò
sgrinfi, 5 principieno le pene:
si ssò sposi, cominceno li corni:
e ggià in un mese de ste bbrutte scene
n’ho vviste cinqu’o ssei da sti contorni.
Ne li casi
però ch’in testa o in zeno
d’appuntavve un zocché, 6 ssora Cammilla,
nun potessivo fanne condimeno, 7
a cquela mano
che vve vò esibbilla 8
dateje, pe ddistrugge sto veleno,
’na puncicata 9 co l’istessa spilla.
Ecco perché
mm’ha ffatto un po’ la fessa 2
la prima vorta che llei m’ha vveduto:
ero vestito da bbaron futtuto 3
co la ggiacchetta che nnun zente messa. 4
Lasseme tu
pperò cche mme sii messa
la camisciola nova de velluto:
famme dà ’n’allisciata co lo sputo,
e ddoppo sentirai che ccallalessa! 5
Le femmine se
sa cche ’gna ppijjalle 6
co cquer po’ de tantin de pulizzia;
e allora de turchine ecchele ggialle.
Damme tempo a
sta pasqua bbefania 7
che mme levi sti scenci da le spalle,
e vvederai che la pasciocca 8 è mmia.
«Cuanno ho
pportato er cuccomo ar caffè,
mamma, llà un omo stava a ddí accusí:
er Re der portogallo vò mmorí
per un cristo c’ha ddato in grabbiolè. 1
Che
vvò ddí, Mmamma? dite, eh? cche vvò ddí?
Li portogalli 2 puro ciànno er Re?
Ma allora cuelli che mmagnamo cquì,
indove l’hanno? dite, eh, Mamma? eh?»
«Scema, ppiú
ccreschi, e ppiú sei scema ppiú:
er portogallo è un regno che sta llà,
dove sce regna er Re che ddichi tu.
Ebbé, sto
regno tiè sto nome cquà,
perché in cuelli terreni de llaggiú
de portogalli sce ne sò a ccrepà». 3
«Mamma,
perché mme dite cuarche vvorta:
Ssciò 1 da li piedi, sor ometto indiano?»
«Perché in cuelli paesi ogn’omo è nnano,
e sse potria portà ddrent’a ’na sporta».
«Davero eh
mamma? E ddite, da che pporta
s’esce pe annà llaggiú ttanto lontano?
D’indove sta a sserví Ttata a Bbracciano, 2
mamma, la strada per annacce è ccorta?»
«Fijjo,
bbisogna legge l’abbichino 3
pe cconosce ste cose: e nun c’è annato
antro a sti lochi ch’er guerrin Meschino». 4
«Ma dduncue
er Papa llà nnun c’è mmai stato?
Ma dduncue, mamma, chi jje manna inzino
laggiù ll’editti de cos’è ppeccato?».
Gran
temp’antico! e ll’ommini de cuello,
chi le cose sa bbene misuralle,
ciaveveno sciarvello
più cche nnoi de talento in der ciarvello.
Nun
fuss’antro, per dio, cuell’uso bbello
de sparagnà li muli in de le stalle,
e pportà lloro er Papa su le spalle!
Vôi ppiú bbell’invenzione, eh, Ghitanello?
De cazzi c’a
sti tempi a li cristiani
je saprebbe viení sta fantasia,
a sti tempi de bbirbi e cciarafani! 3
E vva’ 4
st’usanza si cche usanza sia,
che in quelli siti llà ttanti lontani
l’ha ccopiata er Granturco de Turchia!
Che!, nun
è vvero jjeri eh sor’Ularia
che cchi li piedi ar Papa l’ha bbasciati,
ha gguadammiato indurgenza prenaria
co rimission de tutti li peccati?
Lo sentite,
che ssiate sgazzerati, 1
che cquanno che pparl’io nun parl’in aria?
Si mme l’aveva detto la vicaria
propio de santi-cuattro-incoronati! 2
E cche
rrazzaccia de cristiani sete,
si le cose piú pprime der cristiano,
pe le piaghe de Ddio, 3 nu le sapete?!
Nun capite
ch’er Papa, ortr’a ssovrano,
è vvicario de Ddio, vescovo, e pprete?
Je s’ha mmó dduncue da bbascià la mano?!
Che
m’aricconti a mmé, ssi’ bbenedetto,
de cuer c’ar monno è bbene e cquer ch’è mmale!
Cuaggiù, sse sa, nun c’è pp’er poveretto
né ggiustizzia, né Ddio, né ttribbunale.
Me mannassino
puro a ’no spedale,
nun me vojjo dà mmica un crist’in petto: 1
però all’antri carzoni 2 è cche ll’aspetto:
ma ll’aspetto ar ggiudizziuniverzale.
Pe ttre
ppiastre futtute de gabbella,
ch’er Papa ha mmesso pe arricchí er zor Conte,
magnàmmese cavalli e ccarrettella?!
Che sse
strozzino er carro de Fetonte!
Ma cce vieranno llà, ddio serenella,
co ttuttecuante ste gabbelle in fronte! 3
Pe nnoi,
rubbi Simone o rrubbi Ggiuda,
magni Bbartolomeo, magni Taddeo,
sempr’è ttutt’uno, e nnun ce muta un gneo: 1
er ricco gode e ’r poverello suda.
Noi
mostreremo sempre er culiseo
e mmoriremo co la panza ignuda.
Io nun capisco duncue a cche cconcruda
d’avé dda seguità sto piaggnisteo.
Lo so, lo so
cche ttutti li cuadrini
c’arrubbeno sti ladri, è ssangue nostro
e dde li fijji nostri piccinini.
Che sserveno
però ttante cagnare?
Un pezzaccio de carta, un po’ d’inchiostro,
e ttutt’Ora-pro-mè: 2 ll’acqua va ar mare. 3
Me fai ride:
e cche ssò ttutti sti guai
appett’ar tibbi 1 de cuer foco eterno?
nu lo sai che le pene de l’inferno
sò ccom’Iddio che nun finisce mai?
E ar monno,
pe ddu’ ggiorni che cce stai,
te lagni de l’istate, de l’inverno,
de Ddio, de la furtuna, der governo,
e dell’antri malanni che nun hai?!
Cquà,
s’hai sete, te bbevi una fujjetta,
ma a ccasa-calla nun ce sò cconforti
manco de l’acquaticci de Ripetta. 2
Cqua mmagni,
dormi, cachi, pisci, raschi,
te scòtoli, te stenni, t’arivorti... 3
Ma llà, ffratello, come caschi caschi. 4
Chi
vvò vvienì da le Cuattro-Funtane
sempre ar cuperto ggiú a Ffuntan-de-Trevi,
entri er porton der Papa, c’arimane
incontr’a Ssan Carlino: poi se bbevi
tutto er
coritorone de sti grevi
de papalini fijji de puttane:
ggiri er cortile: poi sscegni a li Bbrevi 1
sin dove prima se fasceva er pane.
Com’è
arrivato a la Panettaria, 2
trapassi l’arco, eppoi ricali abbasso
e scappi dar porton de Dataria. 3
E accusí er
viaggio finirà a l’arbergo
de li somari che stanno a l’ingrasso
magnanno carta zifferata
Nun
m’invidià, Mmattia, nun m’invidià:
ma ssai cuanto sce curre 1 da mé e tté?
Tu sservi una madama, che ddio sa
si cquanti incerti sce se possi avé!
E io sto a
fregà ll’orbo 2 e a sbavijjà 3
co sto Logotenente de l’A. C., 4
che nun basta che llui nun me ne dà,
porco futtuto, ma llui magna a mmé.
Perché llui
tiè sta bbell’usanza cqui,
che le mance de sala che cce sò 5
tutte a mmezzo co llui l’ho da spartí.
Anzi, er
fiasco che ll’oste me mannò
pe la causa che vvinze venardí,
io lo sturai, e llui se l’asciugò.
Li Cardinali
fanno er Papa, e ’r Papa
fa, cquann’è Ppapa lui, li Cardinali:
però sò ccome ravanello e rrapa,
come stivali e ppelle de stivali.
Cuesti tra
ttutti cuanti li su’ eguali
metteno in zedia la ppiù ttesta ssciapa;
e cquello pe cconventi e ttribbunali
si rradiche ce sò llui se le capa.
Cos’ha
ddunque da facce maravijja,
si ppijjati in un fasscio e cquesto e cquelli,
hanno sempre una scera de famijja?
Da zucche
vòte, o ppiene de granelli, 1
da ggente che nun za né sse ne pijja,
cos’hanno da sperà li poverelli?
Li cardinali
crepeno: e ppe cquesto,
come vede affilà ppiù d’un mortorio,
er Papa chiama l’antri in conciastorio,
pe stuccà er buscio e ffrabbicanne er resto.
Cusì,
ho vvisto ognisempre, da Pio Sesto
sino a cquer che cc’è mmó Papa Grigorio,
sti marignani 1 de Montescitorio
diventà ppeperoni 2 presto presto.
Doppo creato
er novo cardinale,
in conciastorio indegnamente s’usa
de ruprijje la bbocca; 3 e cquesto è er male:
perché, mmó
cc’una e mmó cco un’antra scusa,
nun cascherebbe tutto in un canale
cuanno avessi, per dio, la bbocca chiusa.
Che nnova
sc’è? nnun te l’avevo detto?
Nun zò ancora le bbujje 1 terminate,
c’ariecchete st’antre chiacchierate 2
contro de sto governo poveretto.
Nun potenno
ppiù avé cquadrini in Ghetto, 3
pe ppareggià l’introito co l’entrate
voleveno aristrigne le mesate;
e ttutti s’arivorteno ar proggetto!
E ddisceveno
jjeri scerti tali:
«Perché a nnoantri soli sto bber fatto,
e sse pagheno poi li cardinali?».
Ma cchi
pparla a sto modo è un cazzo-matto;
e averíano d’intenne st’animali
che cquella llí nun è mmesata: è ppiatto. 4
Calacce er
piatto a nnoi?! 1 parli pe ggioco:
me dichi bbuggiarate co la pala.
Calacce er piatto a nnoi?! Si cce se cala,
manco mettemo ppiú la pila ar foco.
Pe ssei
cavalli e ttre ccarrozze in gala,
già er quattromila-e-ccinquescento 2 è ppoco:
poi metti un po’ ssei servitori in zala,
un caudatario, un coco e un zottococo:
sguattero,
cappellano, cammeriere,
mastro de scirimonie, cavarcante,
cucchiere, credenziere e ddispenziere:
metti er
vestiario, e un pranzarello annante
de tre pportate come vò er mestiere;
che cce resta pe ddà a la governante?
Che spesce
t’ha da fà che sto scoparo
de pittore che ttiè cquel’arzenale
de ritratti, in un’ora o ar più in un paro
te fa ssenza vedello un cardinale?!
Pe cquesto
abbasta de pijjà un zomaro
e ddipignelo doppo ar naturale,
e tte pianti addrittura in un telaro
tutt’er Zagro Colleggio tal’e cquale.
Le Minenze e
li ciucci, ecco er motivo,
sò tutti cuanti de l’istessa scòla
e nnissuno sa ddi ssi è mmorto o vvivo.
Sò
ll’uni e ll’antri una sarciccia 2 sola:
sò ccome la cannella e ’r lavativo:
una spesce de Cola e mmastro Cola.
Er Tesoriere
disce ar Cammerlengo:
«Cuesta è ffaccenna mia; nun tocc’a llui».
Cuello arisponne: «Io sa’ ddove lo tiengo?
Cuesti sò ddritti mii; nun zò lli sui».
Poi
viè er Vicario, un antro majorengo, 2
e ddisce: « è ttutto
nullo; io nun ce fui».
E accusí, co sto vado e cco sto viengo
tu nun zai come fà l’affari tui.
Cqua inzomma
se spartischeno la cappa
de Cristo; e ppoi che sse la sò indivisa, 3
se la tira un coll’antro e sse la strappa.
Ma
ttutt’inzieme poi peleno er tordo:
e in cuesto li pòi dì lladri de Pisa 4
che a bbuggiarà cchi vviè vvanno d’accordo.
Chi un
bùscio 1 de bbottega cqua vvò uprí 2
prima de tutto je bbisogna annà
da Monziggnor Governatore, e llà
aspettà un anno che jje dichi: 3 Sí.
Finarmente
opri; e ecchete 4 de cqua
Monziggnor de la Grasscia pe ssentí
si cciài liscenza, 5 e cquanno, e ccome, e cchi:
e, vvisto tutto, te la fa sserrà.
Rimedi
st’antra: e ecchete 4 de sú
er Cardinal Vicario pe vvedé
si cc’è ggente che offenni er bon Gesù.
Quann’è
ppoi tutt’in regola, ch’edè? 6
scappa un editto; e ssenza ditte 7 ppiú
te se maggneno 8 er buscio e cquer che cc’è.
Ogn’editto e
ogni straccio che sse legge
te prometteno tutti Rom’-e-ttoma:
ma cquanno semo a scaricà la soma
s’ariducheno a ssono de scorregge.
Perché appena
pe Rroma esce una Legge, 1
ecco er zor A e ’r zor B ccor zu’ diproma:
e la Legge c’uscita era pe Rroma
s’arintajja, se castra e sse corregge.
Poi, cqua
ognuno commanna; e o ppe mmalizzia,
o ppe iggnoranza, o ppe rrispetti umani,
nun trovi un cazzo chi tte fa ggiustizzia.
Ecco in che
ppiede stanno li Romani.
E cquesta è una Città? cche! sta sporchizzia?!
Nò, cchiamela per dio Terra de cani.
Da dietr’a
Gghiggi, lí a le du’ salite,
sin ar cantone der Palazzo Mutto, 1
tra er coco e ll’oste ciasseguí 2 la lite
pe ’na visciga misera de strutto!
Er morto poi
passò a le Convertite 3
viscin’a Spada: 4 oh ddio cuant’era bbrutto!
pieno da cap’a ppiede de ferite
che ppisciolava sangue dapertutto.
E cché! ssemo
a li tempi de Nerone,
che le lite, per dio, tra li cristiani
nun z’abbino da fà mmai co le bbone?!
Che ssemo
diventati noi Romani
che ppe mmanco d’un pelo de cojjone
ciavemo da sbramà 5 ccome li cani!
Nun
c’è ggusto ppiù mmejjo che, cquann’ardi
de sete, d’annà a bbeve un fujjettino. 1
Io bevo poi dar fà ddell’arba 2 inzino
la sera a mmezzanotte e un po’ ppiú ttardi.
E mmetterebbe
er culo in zu li cardi
prima c’arinegà 3 cquer goccettino.
Senz’acquasanta sí, ma ssenza vino...
ma ssenza vino io?! Dio me ne guardi!
Nun avessi
Iddio fatto antro che cquesto,
saría da ringrazziallo in ginocchione,
e dda mannà a ffà fotte tutto er resto.
Bbasta de nun
uscí ttanto de sesto.
Si è ppeccato er pijjasse un pelliccione
è ppeccato ar piuppiú llescito e onesto.
Ah! er bene
che mme porta Monziggnore
è ccosa da nun crédese, Bbastiano.
T’abbasti a ddí cche, ppovero siggnore,
m’ha vvolzuto ammojjà co le su’ mano!
E bisogna
vedé si ccon che amore
cúnnola 1 el pupo mio che jj’è ffijjano! 2
Via, propio è un gran padrone de bbon core,
un gran bravo prelato, un bon cristiano!
E la notte
che Nnanna ebbe le dojje,
nun pareva che a llui fussino presi
cueli dolori in cammio de mi’ mojje?
Tutta la pena
sua, la su’ pavura,
era, perché la fesce de sei mesi,
che jje morissi in corpo la cratura.
Ustacchio,
1 la viggija de Natale
tu mmettete de guardia sur portone
de quarche mmonziggnore o ccardinale,
e vvederai entrà sta priscissione. 2
Mo entra una
cassetta de torrone,
mo entra un barilozzo de caviale,
mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
e mmo er fiasco de vino padronale.
Poi entra er
gallinaccio, poi l’abbacchio,
l’oliva dorce, er pesce de Fojjano, 3
l’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio.
Inzomma,
inzino a nnotte, a mmano a mmano,
tu llí tt’accorgerai, padron Ustacchio,
cuant’è ddivoto er popolo romano.
Sti poveri
canonichi stanotte
nun hanno fatto antro c’una vita:
canta che tt’aricanta! 1 eh a ffasse fotte
sta galerra per dio cuann’è ffinita!
Povere ggente!
tanto bbrave e ddotte,
si ddureno un po’ ppiú, pe lloro è ita!
Bbono che ppoi c’è er zugo de la bbotte
pe rrimétteje er zangue a la ferita.
Anzi,
stanotte, sciaripenzo mone, 2
sempre è stato a bbullí ccerto callaro 3
pieno d’acquaccia e petti de cappone.
E ppe cquesto
hai veduto, Orzola mia,
che, de sti preti sciorcinati, 4 un paro
ne curreva ogni tanto in zagristia.
Sussidj dar
Curato?! eh, Nanna!, penza
che cquanno sciannò 1 jjeri mi’ marito
a ppiagne, cuer cristiano imbastardito,
cuer corpaccio satollo ebbe cuscenza
d’arisponneje:
«Hai letto l’indurgenza
fijjo, ch’er Zanto padre scià 2 arricchito
chi ppentito contrito e cconvertito
diggiunerà pe ssanta penitenza?».
Ma nun
zò ccose da svejjatte er vommito?
Da pijjà un’arma, e a st’anime de cane
fajje, pe ccristo, mozzicasse er gommito? 3
Duncue,
cuanno la sera a nnoi sce 4 tocca
sentí li fijji a ddomannacce 5 er pane,
che 6 jje mettemo, un’indurgenza, in bocca?
Eccolo llí
cquer fijjo poverello
che ll’antro mese te pareva un fiore!
Guardelo all’occhi, a le carne, ar colore
si ttu nun giuri che nnun è ppiú cquello!
Sin da la
notte de cuer gran rumore,
da che er padre je messeno in Castello,
nun m’ha pparlato ppiú, ffijjo mio bbello:
me sta ssempre accusí: mmore e nnun more.
Sei nottate
sò 1 ggià cch’io nun me metto
piú ggiú, e sto ssempre all’erta pe ssentijje
si mme respira e ssi jje bbatte er petto.
Dio!, opri er
core a cqueste ggente, e ddijje
che vvienghino a vvedé ddrento a sto letto
tutto er male che ffanno a le famijje.
Che
mm’è la vita, da che sta in esijjo
cuell’innoscente der marito mio!
perché sto ar monno e nnun m’ammazza Iddio
mo cche ssò ssola e cche mm’è mmorto er fijjo?
Ah Vvergine
Mmaria der bon conzijjo,
mamma, nun m’abbadà: ché nun zò io,
è er dolore che pparla: ah! nnun zò io
si cco la Providenza io me la pijjo.
Llà
Ggiggio mio ggiocava: in cuesto loco
me se bbuttava ar collo: e cqui l’ho vvisto
a sparimme davanti a ppoco a ppoco!
Cosa saranno
le smanie de morte!
Chi ppò ddí la passion de Ggesucristo,
si er dolor d’una madre è accusí fforte!
Via, via da
mé ste fasce e ste lenzola
che cc’invortavo la speranza mia:
fuggite tutticuanti, annate via,
e llassateme piagne da me ssola.
Nun posso
ppiú: me se serra la gola:
nun zo 1 ssi er core... più in petto... sce sia...
Ah Ddio mio caro!... ah Vvergine Mmaria!...
lassateme dí ancora... una parola.
Come tu da la
crosce... o Ggesú bbono...,
volessi perdonà... ttanti nimmichi…,
io... nun odio li mii... e li perdono.
E... ssi in
compenzo..., o bbon Gesù... tte piasce...
de sarvà Ccarlo mio..., fa’ cche mme dichi...
una requiameterna... e vvivi in pasce.
Chiuso appena
l’apparto teatrale
stanotte la Madonna entra in ner mese:
e ffra cquinisci ggiorni pe le cchiese
principia la novena de Natale.
E ddoppo,
ammalappéna se sò intese
le pifere a ffiní la pastorale, 2
riecco 3 le commedie e ’r Carnovale:
e accusí sse va avanti a sto paese.
Poi
Quaresima: poi Pasqua dell’Ova: 4
e, ccom’è tterminato l’ottavario,
aricomincia la commedia nova.
Pijja inzomma
er libbretto der lunario,
e vvedi l’anno scompartito a pprova
tra Ppurcinella e Iddio senza divario.
Una vorta le
cchiese, Angelo mio,
tuttecuante ciaveveno li bbanchi:
ma mmó bbisogna c’arincreschi
perché ttrovi cqua e llà li muri bbianchi. 3
E ssan Marco 4
hai da stà ssu li tu’ fianchi
si nun te vòi sdrajà ccom’un giudio:
e ssi la Messa dura assai, per bio, 5
co sto tanto stà ssú, fijjo, te sscianchi. 6
Però a
ttutte le cose s’arimedia:
e cquanno te viè a ttufo 7 de stà in piede,
c’è er chirichetto che tte dà la ssedia.
E accusí in
de le cchiese oggi se vede
cuer che pprima vedevi a la commedia:
senza er cumquibbo 8 nun te metti a ssede.
Er Piovano,
dimenica, ha spiegato
drento a la spiegazzione der Vangelo,
che ddu’ porte pell’Omo disgrazziato
sò ssempre uperte: una in Chiesa, una in Cielo.
Pe st’urtima
lo dichi chi cc’è entrato:
in quanto all’antra je lo fa ddí er zelo.
Ma cchi nnell’ovo sa ttrovacce er pelo 1
pò aribbatte 2 le prediche ar Curato.
Nun pijjamo
le cose a la parola:
tutte le cose ar Monno hanno du’ facce;
ma ste du’ porte hanno una faccia sola.
Tu vva’ a le
cchiese de Palazzo: vacce:
e, ssi nun entri pe la gattarola,
vatte a ttrova la porta per entracce. 3
Io la lingua
latina nu la so,
ma mme disce er barbiere che la sa,
ch’er Canonico c’hanno fatto mo
quiggiú a la Bbocca-de-la-Verità, 1
cuann’in coro
coll’antri ha da cantà,
come l’uffizio fussi un pagarò, 2
inciafrujja ciascià cciscí cciosciò,
ma un cazzo 3 legge lui cuer che cce sta.
A sta
maggnèra 4 puro 5 io e ttu
faressimo er canonico accusí,
si abbasta a ssapé ddí ccescè cciusciù.
E a sta
ggente, per dio, che nnun za ddí
manco in latino er nome de Ggesù,
er pane nostro s’ha da fà iggnottí?! 6
C’è
stato un certo Papa san Grigorio
che ssapeva parlà rrosso e tturchino,
che cconosceva ogni sorte de vino,
e cquant’anime stanno in purgatorio.
Distingueva
chi aveva er zostenzorio, 1
l’ova cor pelo e ll’ova cor purcino
capiva er tempo, 2 e tte spiegava inzino
l’indovinelli de Monte-scitorio: 3
Profetizzava
er don de le petecchie:
sapeva indovinà le confessione,
e scoprí ll’anni de le donne vecchie.
E sti bbelli
segreti in concrusione
je l’annava a ssoffià ttutti a l’orecchie,
azzeccàtesce 4 chi?... bbravi! un piccione.
Viè,
si vvòi ride, viè cco mmé ddomani
drent’a Mmontescitorio 2 ar tribbunale,
e vvederai da té ccos’è un curiale,
spesciarmente de cuelli innoscenziani. 3
Un coll’antro
se dà de lo stivale,
se mózzicheno peggio de li cani:
ma ttutto resta llí; ché sti bbaccani
nun zò ppiú un cazzo poi ggiú pe le scale.
Li vedi
allora annà ttutti a bbraccetto,
fascènnose strisciate e ccomprimenti;
e ggnisuno piú abbada a cquer c’ha ddetto.
E l’ingiurie
ingozzate, e ll’accidenti,
sò ppartitelle ariservate in petto
pe ppoi mettele in conto a li crïenti.
Li mozzini 1
de Roma, sor Dodato, 2
propio nun hanno un fir 3 d’aducazzione.
E cquanno sò a l’udienza in cuer zalone
strilleno come stassino ar mercato.
Chi
vvò l’intìmo, chi la scitazzione,
chi cchiede er giuramento e cchi er mannato,
chi ingiuria er Cancejjere e cchi er Prelato;
e ttutti inzieme vonno avé rraggione.
Jeri, a la
fine, er Monziggnore mio,
fattose inzino in faccia pavonazzo,
sartò in piede e strillò: «Zzitti, per dio!
Ch’edè,
ssignori miei, sto schiaramazzo?
Se tratta cqua ch’è ggià un par d’ora ch’io
do le sentenze senza intenne un cazzo».
Stamme a
ssentí. Da cuarche ssettimana
vado a ppulí le scarpe la matina
a un avocato de strada Bbaccina 2
incirconciso
Oh
indovinesce un po’, Mmuccio, 5 indovina
che ggenio ha sto fijjol d’una puttana:
de vestimmese in coppola e ssottana 6
e bbiastimamme in lingua lattarina. 7
M’aricconta
le cause c’ha indifese: 8
me parla d’Accimetti 9 e dde somario, 10
de le lite smorzate e dde l’accese:
der Tribbunal
de Rota e dder Ficario: 11
e ’ggni matina me tierrebbe un mese
cor quietovive 12 de sto bber zalario.
Solo a
llettre, a bbijjetti e a mmomoriali
c’ho da portà (e tte dono l’immasciate),
bbisogna ch’io me magni le mesate
tutt’a fforza de scarpe e dde stivali:
ché er mi’
padrone è uno de sti tali
c’assisteno er villano, er conte, er frate,
er vescovo, la monica, e l’abbate:
bbasta che ssiino gonzi provinciali.
Lui
cià ttordi a ppelà dd’ogni paese;
e ttiè un libbraccio che jj’ha messo nome:
Libbro de conti de funzione e spese.
Pe ttutto
l’anno nun te dico come
frutta la bbarca; ma ccom’è sto mese
li rigali cquaggiú vviengheno a ssome.
L’antr’anno
er mi’ padrone lo spezziale
ebbe dar Brodomedico l’avviso
ch’er primo luneddí de carnovale
vierebbe a vvisitallo a l’improviso.
Allora lui,
ch’è un omo puntuale,
empí ddu’ bbocce o ttre dd’acqua de riso:
e a mmé ttoccò ’na bbucataccia ar viso
a ttutti li bbarattoli e ar mortale. 1
Ecco er
dottore er luneddí a mmatina.
«Tutto in regola ggià...». «Ttutto», arispose
lo spezziale, «ecco cqua la su’ bbropina».2
«Bbravo!
accusí mme piàsceno le cose».
E intanto s’acchiappò la su’ cartina,
la pesò ttra le mano, e l’aripose.
In d’una
cchiesa sopra a ’na piazzetta
un po’ ppiú ssù dde Piazza Montanara
pe la strada che pporta a la Salara,
c’è in nell’entrà una cosa bbenedetta.
Pe ttutta
Roma cuant’è llarga e stretta
nun poterai trovà ccosa ppiú rrara.
è una faccia de pietra che
tt’impara
chi ha ddetta la bbuscía, 2 chi nnu l’ha ddetta.
S’io mo a sta
faccia, c’ha la bbocca uperta,
je sce metto una mano, e nu la strigne,
la verità dda mé ttiella pe ccerta.
Ma ssi fficca
la mano uno in buscía,
èssi 3 sicuro che a ttirà nné a spigne
cuella mano che llí nnun viè ppiú vvia.
E nnun t’abbasta,
di’, bbrutta pe ttutto,
co cquelli ggiochi d’acqua in de la gola, 2
de vedemme scquajjà ccome lo strutto
che sse mette d’intorno a una bbrasciola;
c’adesso me
sce fai la bbannarola
che ss’arivorta all’ummido e a l’asciutto?!
Sí cche t’ho intesa io dajje parola
piano piano a l’orecchia a cquer frabbutto. 3
Neghelo si lo
pòi, neghelo, strega,
che jj’hai fatt’occhio de vienitte accanto...
Sentila, cristo mio!, nun me lo nega?!
Busciarda
infame! ah nnun credevo tanto!
Va’, cche possi morí cchi ppiú tte prega.
Senti, sce creperò: puro 4 te pianto.
Nun ce
sò ddonne de ggnisun paese
che ppòzzino stà appetto a le romane
ner confessasse tante vorte ar mese
e in ner potesse dí bbone cristiane.
Averanno er
zu’ schizzo de puttane,
spianteranno er marito co le spese;
ma a ddivozzione poi, corpo d’un cane,
le vederai ’ggnisempre pe le cchiese.
Ar monno che
jje dànno? la carnaccia
ch’è un zaccaccio de vermini; ma er core
tutto alla Cchiesa, e jje lo dico in faccia.
E ppe la
santa Casa der Zignore
è ttanta la passione e la smaniaccia,
che cce vanno pe ffà ssino a l’amore.
Du’ cose a
mmé mme piasceno, Carluccio,
che mme j’accennería li lampanari.
Una, e cquesta la sai, li piferari:
e ll’antra, li fratelli cor cappuccio.
Questi cqui
ppoi me sanno tanti cari
che vvorrebbe serralli in d’uno stuccio,
e ariponeli poi dove m’accuccio
a ffà er giallo da dà a li colorari.
Doverebbe la
ggente tuttacuanta
mettese cuer cappuccio a ccampanella
co cquer paro de bbusci che tt’incanta:
ché ddove
pòi trovà mmoda ppiú bbella
pe vvede sino in zettimana santa
de spasseggià pe Rroma er Purcinella?
Cuer
Giammaria che tt’inzurtò a Ttestaccio, 1
e mmo assercita l’arte de la spia,
passava mercordí dda Pescaria 2
co ttanto de tortore sott’ar braccio.
Ner
travedello, io che nun zo che ssia, 3
ma nu lo pòzzo sscerne cuer mustaccio,
arzo un zercio 4 da terra, e ppoi jje faccio:
«A la grazzietta padron Giammaria».
«Chi
è?» ddisce svortannose er gabbiano:
e, ppunf, in ne li denti io je rispose
co cquer confetto che ttienevo in mano.
«Nun ve
pijjate pena de ste cose»,
dico «perché cquest’è, ssor paesano, 5
la lingua de parlà co le minose».
Jjeri da bbon
cristiano pascualino, 1
pe ppaura de San Bartolomeo, 2
m’annai a cconfessà da cuer cazzeo
de padre Bbonifazzio a Ssan Carlino.
Prima je
disse che mme piasce er vino,
poi che ttiro un’ombretta ar culiseo;
e cquarche vvorta, pe mmutà un tantino,
sò de la riliggion der Manicheo.
M’accusai de
superbia ar fin de tutto.
Er confessore cqua: «Ffijjo, sei ricco?».
E cqua io: «Padre no, ssò ssempre assciutto».
«Fijjo,
cuann’è accusí, llassa fà, llassa»,
repricò er confessore: «io me sc’impicco
si sto peccato tuo nun te se passa».
Li preti,
ggià sse sa, ffanno la caccia
a ’ggni sorte de spesce de cuadrini.
Mo er mi’ curato ha mmesso du’ carlini 1
de murta a cchi vvò ddí ’na parolaccia.
Toccò
a mmé ll’antra sera a la Pilaccia: 2
che ggiucanno co ccerti vitturini,
come me vedde vince un Lammertini, 3
disse pe ffoja 4 «Eh bbuggiarà Ssantaccia!».
Er
giorn’appresso er prete ggià informato
mannò a ffamme chiamà ddar Chiricone,
e mm’intimò la pena der peccato.
Sur primo io
vorze 5 dí le mi’ raggione;
ma ppoi me la sbrigai: «Padre Curato,
bbuggiaravve a vvoi puro: ecco un testone».6
Hai ’nteso er
bullettone d’Argentina?
Ma nun zo cchi voranno èsse l’alocchi
d’annà a spenne sti quinisci bbaiocchi
pe ssentí a rrescità ’na canzoncina.
Sfido si sta
pivetta 2 sc’indovina
chi ha inventato li sfrizzoli 3 e li ggnocchi;
chi è nnato prima, o ll’ovo, o la gallina;
e ssi Ccristo ha ccreato li pidocchi.
E ddisce er
fijjo mio, c’ha lletto er Tasso
e ll’antre stampe che sse sò stampate,
che nnun c’è ppoi da fà tutto sto chiasso.
Perché ste
storie e st’antre bbuggiarate
che mmette fora lei pe pparé ll’asso, 4
gran bella forza! l’averà imparate.
Vivenno papa
Pio messe uguarmente
a Rroma un Presidente 2 per Urione. 3
Come fu mmorto lui, papa Leone
ristrinze ogni du’ Urioni un Presidente.
Ma a li sette
scartati puramente 4
je seguitò a ffà ddà la su’ penzione.
Poi venne un antro Pio d’antra oppiggnone 5
c’arimesse cuer ch’era anticamente.
Però
li sette Presidenti novi,
lui nu li ripijjò da li levati,
e pperò st’antri musi oggi sce trovi,
Nun
c’è mmejjo che cquanno se sparagna!
E accusí da cuattordisci pagati
mó ssò vventuno, e oggnun de cuesti magna.
Accidenti a
l’editti, a cchi l’inventa,
chi li fa, chi li stampa, chi l’attacca,
e cchi li legge. E a vvoi 2 st’antra patacca
schiccherata cor brodo de pulenta!
E addosso
all’ostarie! ggente scontenta,
fijji de porche fijje d’una vacca!
Si all’ostaria ’na purcia 3 sce s’acciacca,
cqua ddiventa un miracolo diventa!
Papa
Grigorio, di’ ar Governatore
che sto popolo tuo trasteverino
si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.
Noi
mànnesce
spènnesce 5 ar prezzo che tte va ppiú a ccore,
ma gguai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.
«Chi ssiete?»
«Un omo». «Come vi chiamate?»
«Biascio Chiafò». «Di qual paese siete?»
«Romano com’e llei». «Quanti anni avete?»
«Sò entrato in ventidua». «Dove abitate?»
«Dietr’a
Ccampo-Carleo».1 «Che arte fate?»
«Gnisuna, che ssapp’io». «Come vivete?»
«De cuer che Ddio me manna». «Lo sapete
perché siete voi qui?» «Pe ttre pposate».
«Rubate?»
«Ggià». «Vi accusa?» «Er Presidente». 2
«Ma le rubaste voi?» «Nun zò stat’io».
«Dunque
chi le rubò?». «Nu ne so ggnente».
«E voi da chi
le aveste?». «Da un giudio».
«Tutto vi mostra reo». «Ma ssò innoscente».
«E se andaste in galera?» «È er gusto mio».
Tu cconoschi
che ppecora è Ggiorgino,
e ssi è ffigura d’acciaccà un pidocchio:
ebbè, perch’era amico der facocchio
l’hanno fatto legà pe ggiacubbino.
Tutto pe
cquella faccia d’assassino
pe cquella spia che lo tieneva d’occhio.
Sì cche lo vojjo dí: Bbiascio Scazzocchio,
lui me l’ha ccaluggnato; e cc’indovino.
Sò
annata inzino a bbuttamme pe tterra
davanti a Mmonziggnor Logotenente, 1
pe rraccontajje chi mme fa sta guerra.
Sai
c’arispose lui? «Via, nun è ggnente:
tratanto er fijjo tuo vadi in galerra,
ch’è ssempre in tempo a uscí cquanno è innoscente».
Nò
ccento vorte, e mmille vorte nò:
er Papa cuesta cqui nu la pò ffà.
C’è bbona lègge pe ffàllo abbozzà: 1
e mmagara viè Iddio, manco lo pò.
Levà
er Papa le mance che cce sò
da sí cc’antichità è antichità?!
Si ppuro 2 la vedessi cuesta cqua,
tanto c’incoccería, 3 guardeme un po’! 4
Lègge
più ssagrosanta e indove c’è
de cuelle mance pe cchi sta a sserví
in Rota, in Zegnatura e in nel’A. C.? 5
Levà
le mance in tassa? 6 eh nu lo dí,
nu lo dí, ddecan Giachemo; perché,
si ddura Roma, ha dda durà ccusí.
Com’è
ito a ffiní cquer momoriale
c’appresentai a la Bbonifiscenza?
È ffinito accusí, ch’er Cardinale
prima vorze 1 sentí la Presidenza: 2
eppoi, doppo
tornato a Ssu’ Eminenza,
lo mannò a Mmonziggnore tal’e cquale,
scrivennosce accusí: «Pe sto Natale
venti pavoli all’urtima dispenza».
Monziggnore
lo diede ar Deputato
co sto riscritto: «Signor Emme e Zzeta,
sto sussidio che cqui vvienghi pagato».
Ma cquanno
agnedi
quer zor Emme me diede un colonnato,
e ll’antro je se perze tra le deta.
Nun
c’è ppiú ccarità, ffijja, oggiggiorno:
sò ttutti orzi 1 coll’anime de cani.
Come nun porti da dajje li spani 2
tu ppòi morí che nun je preme un corno.
Sercio 3
sta strada scento 4 vorte ar giorno
inzinenta 5 dall’arco de pantani: 6
e lloro? ogg’e ddomani, ogg’e ddomani:
e io santa pascenza, e cciaritorno. 7
Credi, si cce
sò ssanti in Paradiso
j’ho rrotto li cojjoni uno per uno: 8
ebbè? nun trovo mai ggnente indisciso! 9
Mó nun
c’è udienza, mó nun c’è ggnisuno:
o è ppresto, o è ttardi: un po’ è ffarro, un po’ è
riso, 10
e io logro le scarpe e sto a ddiggiuno.
Pe la
sòccita 1 mia de la vittura
de li carretti da carcà 2 la leggna
m’è ttoccato a ggirà ’na svojjatura 3
de scinque tribbunali de la freggna!
Sortanto pe
la carta de conzeggna
l’A. C. 4 ddu’ vorte, e ddua l’Inzegnatura! 5
Po’ in Campidojjo, e in Rota, e in zepportura
che ss’iggnottischi sta razzaccia indeggna.
Poi, come sto
llí llí pe la sentenza,
viè er Fiscal de le Ripe, 6 e in du’ segnetti
scassa tutto e jje dà dd’incompitenza. 7
E io ’ntanto
co ttutti sti ggiretti,
co sto ssciupo de tempo e dde pascenza,
vinze la lite e nnun ciò ppiú ccarretti.
Siggnora sí:
la zitella miggnotta
ha ffatto avé ar Vicario er zu’ spappiello 2
quarmente io l’ho infirzata in ner furello
e jj’ho uperto er cancello de la grotta.
Io j’arispose
che cquesta è una fotta, 3
perch’io nun ciò 4 ppiú ppenne in de l’uscello.
E llui mannò er cirusico a vvedello,
e a vvisità ssi llei l’aveva rotta.
«Pe mmé» disse:
5 «neppuro co li guanti
se tocca er mio»; ma cquella porca indeggna
se fesce smaneggià ddietro e ddavanti.
Vanno bbene
ste cose? E cchi jj’inzeggna
pe ccristo, a lloro che ssò ppreti e ssanti,
de discíde sur cazzo e ssu la freggna?
Tutti addosso
a sta povera galerra,
come si cchi cce va ccascassi er Monno!
Tutte ideacce storte, io te risponno;
perché ppuro 1 llaggiù c’è ccelo e tterra.
Nun è
ppiú mmejjo llà, cche stà in d’un fonno
de letto, o vvive matto, o mmorí in guerra?
Vedo che cchi n’uscí cce s’ariserra,
e nun è er primo caso né er ziconno.
Eppoi, cuanno
che mmai fussino vere
tutte ste tu’ storielle de malanni,
mentre invesce pò stacce un cavajjere;
caso er
Governatore te condanni
puro
e ppe ffà ccolomia 2 te scurta l’anni. 3
Sí, ssí, per
dio! sí, ssí, per cristo santo!
tu l’hai rubbato er fieno a le bbarrozze.
Ma prega Iddio te sciaritrovi accanto
che tt’arimanno co l’orecchie mozze.
Cos’è?
cche ddichi? Oh Vvergine der Pianto!
Tu le ficozze
Fa’ mmosca, 2 fa’; ché ssi tte dài sto vanto,
tu, ggranelletto mio, m’inviti a nnozze.
Senti chi
vvò rrugà! ssenti chi pparla!
La pietra de lo scannolo de Bborgo,
che ttutto cuer che ppesa è in de la sciarla!
Oh, ssai cuer
che tte dico? Abbi ggiudizzio,
o a la prima che ffai, che mme n’accorgo,
gatto mio bbello, io te sce levo er vizzio.
Me sò
attaccato ar primo campanello
io, perché ar Monno nun ce sò ccojjoni.
«Chi è?» «Amisci». «Chi ssete?» «Amisci bboni».
«Chi vvolete?» «Er zor Giorgio Stennarello».
«Sto nome,
uhm, qui nun ciàbbita, 1 fratello».
«Ma mm’hanno detto a Strada Bborgognoni. .
«Starà in cuarc’antro de st’antri portoni...».
«Chi ssa? Mi’ mojje poterà ssapello».
«Nina!».
«Ch’edè?» «Cqua un omo scerca un certo
Gior...». «Sta ar nummero diesci, a mmano dritta
su la svortata in cuer portone uperto.
Fatti otto
capi, in faccia a ’na suffitta
bbussi ar batocco: e ssi nun c’è, de scerto
pranza dall’oste che sse chiama Titta».
Checco, la
vòi finí? Fferma, Sceleste; 1
Toto, mo vviengo llà: zzitta, Nunziata.
E cche ddiavolo mai! forcine, creste!
Nenaccia, 2 dico a tté, ffuria incarnata!
Jeso! e
cch’edè, Mmadonna addolorata!
Se discorre che ggià ttiengo du’ teste!
Ma ddate tempo c’aritorni tata,
e vv’accommido er corpo pe le feste.
Io dico
ch’è una cosa, ch’è una cosa,
che cce voría la fremma de li Santi:
nun z’ariposa mai, nun z’ariposa!
Li sentite
bbussà l’appiggionanti? 3
Volete fà svejjà la sora Rosa,
che Ccristo v’ariccojji a ttutti cuanti?!
Commare mia,
sò ppropio disperata:
nun pòzzo ppiú ddormì, nnun trovo loco.
Da che ha ppijjato la passion der gioco
st’infame de Matteo m’ha aruvinata.
Cuer po’ dde
dota mia ggià se n’è annata
piú cche ll’avessi incennerita er foco:
e ssi vvedi la casa! appoco appoco
già mme l’ha ttutta cuanta svalisciata!
E jjerzera,
Madonna bbenedetta!
che spasimo fu er mio come a cquattr’ora
me lo vedde tornà ssenza ggiacchetta! 1
Ma la cosa
piú ppeggio che mm’accora,
sò ggravida, commare! Io poveretta
con che infascio sto fjo cuanno viè ffora?!
Ma ccome s’ha
da dí: ggira la terra,
cuanno che Ggiosuè cco ddu’ parole
disse: «In nome de Ddio, fermete, o ssole,
fermete, cazzo!, e ffa’ ffiní la guerra»?
Pe
rraggionà ccusí cce vò una sferra
che ppijji le tomare pe le sòle. 2
Chi nnun za che a Ppariggi in Inghirterra
sanno st’istoria cqui ttutte le scole?
Cuanno che
mme dirai che ppe st’arresto
de sole se metterno
l’antri che ll’aspettaveno ppiú ppresto,
cqua la
raggione è ttua: perché er divario
mutò ll’ore der pranzo e dde la scéna, 4
e bbuggiarò li conti der lunario.
Ma cquante
vorpe a cquelli tempi antichi!
Nun zenti che Ssanzone in un momento
agnede
pe sparagnà er granaro a li nimmichi?
E mmó, si ttu
nun cerchi e ffora e ddrento,
si nun giri, nun zudi, e nnun fatichi,
cosa te vòi pijjà? ppijji li fichi. 2
Si ne trovi una te pòi dí ccontento.
Ma ss’a li
tempi nostri nun ze trova
tante vorpe da fanne 3 un battajjone,
sia ringrazziat’Iddio: crescheno l’ova.
Cosa è
mmejjo? o una vorpa de Sanzone,
o una gallina che tte fa la cova?
Pijja la bbiocca 4 si nnun zei cojjone.
A le curte,
te vòi sbrigà d’Aggnesa
senza er risico tuo? Bbe’, ttu pprocura
d’ammazzalla viscino a cquarche cchiesa:
poi scappa drento, e nnun avé ppavura.
In zarvo che
tu ssei doppo l’impresa,
freghete der mannato de cattura;
ché a cchi tte facci l’ombra de l’offesa
una bbona scommunica è ssicura.
Lassa
fà: staccheranno la liscenza:
ma ppe la grolia der timor de Ddio
c’è ssempre cuarche pprete che cce penza.
Tu nun ze’ un
borzarolo né un giudio,
ma un cristiano c’ha pperzo la pascenza:
duncue, tu mmena, curri in chiesa, e addio.
Da cristiano!
Si mmoro e ppo’ arinasco,
pregh’Iddio d’arinasce a Rroma mia.
Vamm’a ccerca un paese foravia
dove se vòti com’a Rroma er fiasco!
Vamm’a ccerca
p’er monno st’aricasco
de poté ffà un delitto chessesia,
eppoi trovà una cchiesa che tte dia
un ber càmiscio 1 bbianco de damasco.
L’hai visto a
Ssan Giuvanni Decollato
cuello che ffesce a ppezzi er friggitore,
come la Compaggnia l’ha llibberato.
L’hai visto
con che ppompa e ccon che onore
annava in priscissione incoronato,
come potrebbe annà ll’imperatore? 2
Cià
mmille strade uperte un bon zovrano
che vvò pprovede un zuddito fedele.
Pò ffallo Cammerlengo de Fregnano,
o appartatore de l’asceto e ffele:
pò
mmannallo p’er monno a mman’a mmano
a scurtà li stuppini a le cannele;
e llui ammascherasse da Labbano
e ffà er tonto
Guarda er
marito de la bbella Nina:
hanno inventato un posto pe impiegallo
co ttrenta ggnocchi 2 ar mese de duzzina. 3
E, ortr’a
cquesto, un calessie cor cavallo
perché vvadi a Ppalazzo oggni matina
a avvisà ssi ffa ffreddo o ssi ffa ccallo.
Povero sor
Canonico! è schiattato:
se n’agnede
Come ch’ebbe er bijjetto de prelato
je pijjò un accidente, e bbona sera.
Li creditori,
appena fu ccrepato,
j’abbifforno la casa e cquanto sc’era;
perché llui pe spuntà cquer prelatato
ce se spese, a ddí ppoco, una miggnera. 2
Bbono c’a le
nipote ebbe cuscenza
d’ottenejje dar Papa sto conforto
de li scinqu’anni de sopravvivenza. 3
Sibbè
in cuesto er Capitolo scià storto, 4
discenno ch’è una granne impertinenza
d’eguajjà un prete vivo a un prete morto.
È un
gran birbo futtuto chi sse lagna
de le cose ppiú mmejjo der Governo.
Come! ner cor de Roma cuel’inferno
de le puttane de Piazza de Spagna?! 1
S’aveva da
vedé ’na scrofa cagna
d’istat’e utunno e pprimaver’e inverno,
su cquer zanto cuscino,
a cchiamà li cojjoni a la cuccagna?
Hanno fatto
bbenone: armanco adesso
se fotte pe le case a la sordina,
e ccor prossimo tuo come te stesso.
Mo ttutto se
pò ffà ccor zu’ riguardo
co cquella ch’er Zignore te distina;
e ar piuppiú cce pò uscí cquarche bbastardo.
Chi
vvò cchiede la monna a Ccaterina,
pe ffasse intenne da la ggente dotta
je toccherebbe a ddí vvurva, vaccina, 1
e ddà ggiú 2 co la cunna 3 e cco la potta.
Ma nnoantri
fijjacci de miggnotta
dìmo 4 scella, 5 patacca, passerina,
fessa, spacco, fissura, bbuscia, grotta,
fregna, fica, sciavatta, chitarrina,
sorca, vaschetta,
fodero, frittella,
ciscia, sporta, perucca, varpelosa,
chiavica, gattarola, finestrella,
fischiarola,
quer-fatto, quela-cosa,
urinale, fracoscio, ciumachella,
la-gabbia-der-pipino, e la-bbrodosa.
E ssi
vvòi la scimosa, 6
chi la chiama vergogna, e cchi nnatura,
chi cciufèca, tajjola, 7 e ssepportura.
Er cazzo se
pò ddí rradica, uscello,
ciscio, nerbo, tortore, pennarolo,
pezzo-de-carne, manico, scetrolo,
asperge, cucuzzola e stennarello.
Cavicchio,
canaletto e cchiavistello,
er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
attaccapanni, moccolo, bbruggnolo,
inguilla, torciorecchio, e mmanganello.
Zeppa e
bbatocco, cavola e tturaccio,
e mmaritozzo, e ccannella, e ppipino,
e ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.
Poi scafa,
canocchiale, arma, bbambino:
poi torzo, crescimmano, catenaccio,
mànnola, e mmi’-fratello-piccinino.
E tte lascio
perzino
ch’er mi’ dottore lo chiama cotale,
fallo, asta, verga, e mmembro naturale.
Cuer vecchio
de spezziale
disce Priàpo; e la su’ mojje pene,
seggno per dio che nun je torna bbene. 1
Nun ho
vvergogna a ddillo: oggi me moro
da la nescessità, ssora Felisce.
Sentite un po’ si cquarcuno ve disce
c’avessi mai bbisogno de lavoro.
Lo sapete
ch’io sò ppropio un tesoro:
tesso le francie, 1 cuscio le camìsce,
sò ssartora, scuffiara e stiratrisce,
fo le lettre, 2 e rinnaccio all’aco d’oro. 3
M’ingegno de
corzè, llavo merletti,
filo, aggriccio, ricamo er filundente,
e ttrapunto cuperte pe li letti.
E
ttrattannose poi de cuarche amico...,
co ’na scerta 4 pelletta trasparente...
fò... vvienite a l’orecchia e vve lo dico.
Cuanto mai se
pò scrive co la penna,
ortr’a la storia der Guerrin Meschino
e ll’antre cuattro de Paris e Vvienna,
Cacasenno, Bbertollo, e Bbertollino:
tutto cuer
che sse disce e cche ss’azzenna,
tutto cuer che indovina un indovino,
sò ccome un’allegria senza marenna 1
e ccome un pranzo che cciamanchi 2 er vino,
appetto ar
gran miracolo de Cristo,
che ccor un po’ de pane e un po’ dde pessce
seppe fà cquello che ggnisuno ha vvisto.
Fàmolo
adesso noi si cciarïesce! 3
Mò pe ste cose er pessce è un farzo acquisto,
perché l’uscello è mmó cquello che ccresce.
Raccontateme
un po’, ssor faccia-tosta:
da che vve vedo de marcià in zaraca, 2
avete armato 3 puro 4 la lumaca? 5
Dite la verità, cquanto ve costa?
E
cch’edè? un scallaletto de tommaca? 6
o spidiera? 5 o ccipolla? o ccallarosta? 5
Ma abbadate, perché cquanno se caca
sti cosi pe annà ggiú ssò ffatti apposta.
E a cche vve
serve llí cquell’aggnusdeo 7
co ’na catena c’aricorda armanco
er zettimo o l’ottavo ggiubbileo? 8
St’orloggio
in panza e sta saraca ar fianco
ve dà ll’aria d’un scribb’e ffariseo
che vvadi a mmette er bollo ar pane bbianco.
Nun passa
vorta ch’io nun ciariscoti 2
sparpaggnàccole 3 e rraschi a bbocche piene.
Bbisogna che sse penzino sti sscioti 4
ch’io sce tienghi la mmerda in de le vene.
E nun vonno
capí, ccestoni 5 vòti,
c’un giorno o ll’antro c’a ste bbelle sscene
me se scuajjeno, cristo, li sceroti, 6
bbutto capezza, 7 e mme ne vedo bbene.
Fremma ne vojjo
avé, ma er troppo è ttroppo:
e già ho ffatto capasce 8 er mi’ curato
che sta fregna 9 finisce co lo schioppo.
Lasseli
divertí, per dio sagrato!
Cent’a lloro un’a mmé: ma o pprima o ddoppo
s’hanno d’accorge ar brodo si è stufato. 10
Sin da cuanno
me venne la sdiddetta 1
vado in giro pe ccase ogni matina:
e nn’averebbe trove una ventina,
ma a tutte cuante sc’è la su’ pescetta. 2
Cuella che
sse sfittò jjeri a Rripetta 3
è un paradiso, ma nun c’è ccuscina,
l’antra c’ho vvisto mó a la Coroncina 4
ha una scala a llumaca stretta stretta.
Una a Ppiazza
Ggiudia 5 serve ar padrone:
le dua in Banchi 6 nun c’è ttanto male,
ma jje vonno aricresce la piggione.
La tua
è ppoca: cuella ar Fico 7 è ttroppa...
Bbasta, nun trovo un búscio pe la quale, 8
e sto ccome er purcino in de la stoppa; 9
perché er
tempo galoppa,
e ssi ccase sò a Rroma, o bbelle, o bbrutte,
cuante n’ha ffatte Iddio l’ho vviste tutte.
Guardela,
Tota, a cquel’ochiaccio ardito,
guardela a cquer ceffaccio de bbiscotto,
guardela a cquer cacciasse in ogni sito,
e ddamme torto poi quanno bbarbotto. 1
Nun zò
ddu’ mesi c’abbita cqui ssotto,
e ’r viscinato ggià la mostr’a ddito:
nun zò, Ttota, du’ mesi, e ggià mm’ha rotto
tre o cquattro vorte er manico ar marito. 2
Me dirai c’un
marito costa poco;
ma ffa’ ddurà sta vergna 3 un’invernata,
si cce va un occhio pe scallasse ar foco!
Lei lo
pò ffà pperché ccampa d’entrata,
e sfarza su le bbraccia de cuer coco;
ma cqua nun c’entra che rrobba pagata.
La vò
rregazza, la vò bbella, ricca,
bbona, donna de casa, de decoro...
Se sa: 1 cchi vva ccercanno sto tesoro,
nun trova mai la forca che l’impicca. 2
Si nne vede
una c’ha le mane d’oro, 3
subbito la facciata nun je cricca: 4
la vede bbella, e ssubito se ficca
ner cervellaccio che lo facci toro.
Una che
n’incontrò jjeri in un loco,
perch’era un po’ accimata, 5 ebbe pavura
che jje manni la casa a ffiamm’e ffoco. 6
Sai come ha da
finí sta seccatura?
Che, o resta scapolo, o a la fin der gioco
pijja in grazzia de ddio la scopatura.
Avemmaria... lavora...
grazia prena...
Nena, vòi lavorà?... ddominu steco...
uf!... benedetta tu mujjeri... Nena!...
e bbenedetto er frú... vvà cche tte sceco?... 1
fruttu
sventr’e ttu Jeso. San... che ppena!...
ta Maria madre Ddei... me sce fai l’eco?...
Ora pre nobbi... ma tt’aspetto a ccena...
peccatori... Oh Ssignore! e sto sciufeco 2
de sciappotto
3 laggiú ccome sce venne?
Andiamo: indove stavo?... Ah, ll’ho ttrovato:
Nunche tinora morti nostri ammenne.
Grolia padre... E mmó?
ddiavola! bbraghiera!
Ho ccapito: er rosario è tterminato:
finiremo de dillo un’antra sera.
Si vvò
un terno sicuro, Aghita mia,
attacca a mmezza-notte er Crielleisonne,
di’ in ginocchione poi ’na vemmaria
una per omo
Finito c’abbi
er Noscumproleppia,
di’: «Bbardassarre, Gaspero e Mmarchionne»:2
poi va’ ffora de casa e ttira via,
e ssi ssenti chiamà nun arisponne.
Va’ ddritto a
Ssan Giuvanni Decollato, 3
rescita un Deprofunnisi in disparte
all’anima dell’urtimo impiccato; 4
e cquer che
sentirai drento o a l’isterno
cerchelo doppo in ner Libbro dell’Arte; 5
e bbuggiaratte si nnun vinchi er terno.
Ecchen’un’antra
nova che mme porti!
Mo ar monno nun c’è stata la Sibbilla!
Ma nun zentissi 2 er giorno de li Morti
come lo disce chiaro la diasilla?
Tu abbada ar
coro de sti colli-storti,
cuanno, piú è grosso er moccolo, ppiú strilla;
e ddoppo du’ verzetti corti corti,
sentirai che vviè ffora una favilla.
Appresso alla
favilla esce una testa,
ch’è la testa de Davide; e in ner fine
viè una Sibbilla, e cquella antica è cquesta.
Va bbe’ che
cqueste sò storie latine;
puro la concrusione è llesta lesta:
la Sibbilla c’è stata, e abbasta cquine. 3
Tra le
trijje, linguattole 1 e sturioni
com’e cquelli ch’er Papa magna a ccena,
tra li merluzzi e ll’antri pessci bboni
de che ll’acqua der mare è ttutta piena,
ce sta un
pessce c’ha ttanti de zinnoni,
faccia de donna e ccoda de bbalena,
e addorme l’omo co li canti e ssòni;
e sto pessce se chiama la serena. 2
Disce er
barbiere 3 e ll’antre ggente dotte
che sta serena tutte le sonate
e le cantate sue le fa de notte.
Ecco dunque
perché le schitarrate
che ffanno li paini
le sentimo chiamà le serenate.
«Nonna,
adesso che mmamma ha ppartorito
ve vojjo addimannà ’na cosa, nonna.
Dite: com’esce gravida una donna?»
«Nipote mia, cor fiato der marito».
«E a mmamma
er pupo suo dove j’è uscito?»
«Da un ginocchio». «E cch’edèra 1 sta siconna
c’accennessivo 2 er lume a la Madonna?»
«Un antro pupo che nun è ffinito».
«E ll’omo
partorisce?» «Eh, cquarche vvorta».
«Ma è vvero c’una donna fesce un lupo,
e un’antra appena partorito è mmorta?»
«Sicuro». «E
pperché mmorze?» 3 «Pe lo sciupo 4
ch’ebbe in ner partorì, pperch’era storta».
«Nonna, me sa mmill’anni de fà un pupo».
«Mamma, pijjo
er baiocco a la canestra
perché ggià er mannataro 1 de la Morte
l’ho ssentito strillà ttre o cquattro vorte
giù in ner portone e ssotto a la finestra.
La lemosina,
ha ddetto la maestra
c’ar purgatorio je va a uprí le porte,
e ffa ll’anime sante íllere 2 e fforte
com’a nnoiantri er vino e la minestra.
Caso che nnoi
ste porte oggi l’uprimo,
mamma, cor un baiocco de soffraggio,
chi scappa fora?» «Chi sse trova er primo».
«Perché nun
l’ha l’inferno st’avantaggio?»
«Segno, fijja, che nnoi cuanno morimo 3
famo 4 pe annà a l’inferno un antro viaggio».
Viette 2
cqui a ppettinà, pporca, maligna,
perfida, cocciutaccia, 3 profidiosa. 4
Lo sai cuant’è cche nun ze fa sta cosa?
da st’ottobbre c’annassimo a la vigna.
Che sserve?
io strillo, e llei la pidocchiosa
m’arivorta le spalle e sse la ghigna!
Te vòi da vero fà vviení la tigna,
come si ffussi ggià ppoco tignosa? 5
Vale ppiú
cquer tantin de pulizzía
che nun zo cche mme dí: 6 ma a tté ssull’occhi
se tratta che tte viè la porcheria.
T’abbasti de
l’affare de li ggnocchi
c’hai fatti jjeri. In de la parte mia
sortanto sce contai sette pidocchi.
Hai sentito a
cquer faccia de bbruscotto 1
c’antra furtuna mo jj’è ccapitata?
Sposa Lalla 2 la fijja ch’è arrestata
de cuer Cencio 3 che mmorze 4 galeotto.
Se la
sò lliticata in zett’o otto,
perc’ortre de la dota a la Nunziata, 5
cuattr’antre Compagnie l’hanno addotata,
e mmó ttiè cquella che jj’è uscita al lotto. 6
Certi
cazzacci che ssanno li studi
vorebbeno sta cosa criticalla,
perché cce vonno a ttutti cuanti iggnudi.
Va bbe’ cche
ffijja a un galeotto è Llalla,
ma la su’ dota de trescento scudi
sò ttrescento raggione pe sposalla.
Succede
istessamente a mmi’ marito.
Si nun è una, è ll’antra sittimana,
turutuf 1 j’arïoca 2 la terzana,
che ssi lo vedi è ppropio arifinito.
Li ggiorni
che nun viè sta frebbe cana,
sta mmosscio e arresta llì ttutto anniscito; 3
e mme ggira pe ccasa cor marito, 4
freddo ppiú dde la pietra de funtana.
Cuann’esce er
zole, verz’er mezzoggiorno
tanto s’azzarda mezz’oretta a spasso;
ma cquanno piove me sta ssempre attorno.
La notte poi
lo lasso stà lo lasso.
Mo ffra de noi che cce pò èsse? un corno. 5
Sia pe l’amor de Ddio: fascemo passo.
Che! un
zervitore appetto d’un cucchiere 1
che ttiè in mano la vita der padrone?!
Un zervitore, c’o sta a ffà er portrone
sur cassabbanco, 2 o arregge er cannejjere! 3
Lo conosscete
poco er mi’ mestiere,
sor Decàne, 4 pe mmette er paragone:
e vve date a scropì 5 per un cojjone
fascenno co sta scòrza 6 er cavajjere.
Io guido li
ppiù nnobbili animali
ch’Iddio mettessi in ne la terra vòta,
e ttu ttiri ar padrone li stivali.
Tra li
cucchieri nun c’è ggente ssciota: 7
ma ttu e li pari tui sai cuanto vali?
cuanto un zomaro e un uditor-de-rota. 8
«Ma,
Eminenza, si vvò, llei pò aggiustalla:
m’ajjuti pe l’amor de la Madonna!
Sta supprica che cqui ggià è la siconna,
e intanto ho ffame e ddormo a Ssanta Galla».2
A ste parole,
da una stanzia ggialla
entra e ttrapassa una gran bella donna,
eppo’ un decane 3 co ’na conca tonna
e un ber cuccomo pieno d’acqua calla.
Er Cardinale
me se fesce rosso
com’un gammero cotto,
e nnun zeppe 5 ppiú ddì: «Fijjo, nun posso».
Ma ccome je
sscennessi allora un raggio
dar celo, pe llevammese da dosso
stese er riscritto, e sse n’annò ar bon viaggio.
Avete visto
l’editto, eh zio mio,
c’hanno attaccato mó a la Palommella? 1
Che bbella cosa! se discure ch’io
me sce sò storto er collo pe vvedella!
Annatel’a
vvedé vvoi puro, 2 zio,
che vvederete una gran cosa bbella.
C’è un P, un I, e un O, che vvò ddí Ppio,
po’ ott’antre lettre, e vonno di Gabbella!
Eppoi sce
sò le lettre zifferate 3
e ccento ggiucarelli tanti cari,
che vvoi de scerto 4 ve n’innamorate.
Eppuro 5
llí, tre osti e ddu’ fornari
ne disceveno cose da sassate...
Nun capischeno er bòno sti somari.
Lo sapevo! A
l’uscí dde cose nove
ecchete in moto le ggente curiose
a sfeghetasse pe vvedé ste cose
e cconossce er Chi, er cuanno, er come, e ’r dove.
Ce
n’accorgemo a cciccio 1 oggi a le prove
pe ste du’ tarantelle velenose. 2
Tutti vonno sapé cchi le compose:
ma er zor Chi ss’annisconne perché ppiove.
Si nun ce
fussi cqui Ppiazza-Madama, 3
’gni pettorosso 4 che ppatissce er vizzio
conosscerebbe er manico e la lama.
Puro, 5
si de sto Chi vvonno un innizzio,
si vvonno indovinà ccome se chiama,
lo vadino a ccercà nner frontispizzio.
Come tornai
da la Madon-dell’-Orto 2
co cquer pizzicarolo de la scesta, 3
agnede 4 poi cor mannataro 5 storto
ar Cimiterio suo che cc’è la festa. 6
Ner
guardà cqueli schertri 7 io me sò accorto
d’una gran cosa, e sta gran cosa è cquesta:
che ll’omo vivo come ll’omo morto
ha una testa de morto
E ho scuperto
accusí cche o bbelli, o bbrutti,
o ppréncipi, o vvassalli, o mmonziggnori,
sta testa che ddich’io sce ll’hanno tutti.
Duncue, ar
monno, e li bboni e li cattivi,
li matti, li somari e li dottori
sò stati morti prima d’èsse vivi.
Chi nun vede
nun crede, sor Valerio.
Io nun zo in cuar paese sce se possi
fà ppiú bbelli lavori, e ffini e ggrossi,
de cuelli de la Morte ar Cimiterio!
Ve dico propio
ch’è un affare serio
de sscejje li ppiú bbianchi e li ppiú rossi,
e ffà ppuro li fiori a fforza d’ossi!
Anime sante, che bber rifriggerio!
Come
vòi ch’er Zignore, si ppe ssorte
tutti sti ggiucarelli l’ha ssaputi
che ssò in zuffraggio de le ggente morte,
come
vòi, dico, che ssi ll’ha vveduti,
lui nun spalanchi subbito le porte
a cquell’anime sante, e nnun l’ajjuti?
Che
vvòi che sseguitassi! Antre campane
sce vonno, sor Mattia, pe cquer batocco!
L’ho ssentit’io ch’edèra
Ma ffréghelo, per dio, che uscello cane!
Va ccosa ha
d’accadé mmó a le puttane!,
de sentimme bbruscià cquanno me tocco!
Si è ttanto er companatico ch’er pane,
cqua ssemo a la viggija 2 de San Rocco. 3
N’ho ssentiti
d’uscelli in vita mia:
ma cquanno m’entrò in corpo quer tortore 4
me sce fesce strillà Ggesummaria!
Madonna mia
der Carmine, che orrore!
Cosa da facce 5 un zarto 6 e scappà vvia.
Ma nun me frega 7 ppiú sto Monzignore.
Fiori, eh
Nina? Ma ffiori tal’e cquale?
Fior de pulenta, 1 sí, propio de cuello
da tajjasse a ffettine cor cortello,
e ppoi méttelo in forno co le pale.
Me n’accorgo,
per cristo, a l’urinale
si cche ffiori m’hai messo in de l’uscello!
Sai si cche ffiori sò, ccore mio bbello?
Cuelli der giardinetto a lo spedale.
Eppoi se vede
chiaro a li colori,
ggiallo, rosso, turchino e bbarberesco,
che ste grazziette tue sò ttutti fiori.
E infatti,
guard’iddio t’arzi la vesta,
da cuelli fiori che cce tienghi in fresco
viè ffora una freganza che ti appesta. 2
Aghita,
senti: da un par d’anni bboni
l’ommini io ppiú li guardo e mmeno pòzzo 1
arrivajje a ccapì cche ssii quer bozzo 2
che ttiengheno tramezzo a li carzoni.
Pare, che
sso... ’na provatura... 3 er gozzo
che cciànno drent’ar petto li capponi...
o cquer coso 4 che ppènne a li craponi... 5
oppuro er piommo de la molla ar pozzo...
Ma appena
viè er cugnato de la sposa
a accompaggnà la sora Bbeatrisce,
propio je vojjo domannà sta cosa.
Ccusí bbon
giuvenotto è cquer Felisce,
che, vvedennome a mmé ttanta curiosa,
si cquarche ccosa sc’è, llui me la disce.
Àghita,
sai? je l’ho ggià detto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.
Quer coso
disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: 1 «E cch’edè 2 sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?».
Mo ssenti,
Àghita mia, quello che rresta.
Disce: «Fa ddu’ carezze a sto pupazzo».
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.
Perantro
è un gran ber 3 porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.
Tuta, 1
io da un pezzo lo sapevo quello
c’all’omminì je sta nne li carzoni,
pe vvia che ttra li vetri e lo sportello
li guardavo piscià pe li cantoni.
Oh, cche ppoi
se chiamassi o ccazzo, o uscello;
che cciavessi attaccati sti cojjoni;
e cche sti cazzi sò ttanti porconi,
io nun potevo, Tuta mia, sapello.
Come torna
Felisce, dijje, Tuta,
pe cche raggione quanno se strufina
sto cazzo o uscello su le veste, sputa.
Perch’io
stanno
piscià ar cantone, nun j’ho mmai viduta
sta sputarella, ma ’ggnisempre urina.
Àghita,
senti: jjeri ch’era festa
tornò Ffelisce, er cavajjer zerpente, 1
pe ddimme s’io sciavevo puramente 2
er gallo com’er zuo c’arza la cresta.
Io je disse
de no, ma ffinarmente,
pe llevajje sti dubbi da la testa,
ridennome de lui m’arzai la vesta
pe ffà vvedé cche nun ciavevo ggnente.
«E
cch’edè Ttuta? cqui cce tienghi un buscio»,
me disse lui: «viè un po’ in nell’antra stanza
ch’io co un aco che cciò tte l’aricuscio».
Poi me porta
de llà ddove se pranza,
cava er zu’ bbúschero, e a ffuria de struscio 3
me lo ficca pe fforza in de la panza.
«E cche
ssentissi, 1 Tuta, in ner momento
che Ffelisce te fesce quer lavore?»
«Cominciai a ssentí ttanto dolore,
che vvolevo scappà ppe lo spavento».
«Eppoi?»
«M’intese 2 come un svenimento
e inzieme a bbatte presto-presto er core».
«Bbè, ttira avanti». «Eppoi un gran brusciore».
«E allora?» «E allora er coso m’annò ddrento».
«E llui
tratanto?» «Se pijjava gusto
de metteme la lingua in de la bbocca,
e ccacciamme le zinne for der busto».
«E ttu?» «E
io, si mmaippiú llui me tocca,
nun vojjo ppiú ste bbrutte cose». «Eh ggiusto!».
«No, nu le vojjo ppiú». «Quanto sei ssciocca!»
«Tuta, si
vviè Ffelisce stammatina,
dijje che all’ora ch’io torno da scòla 1
guardi quanno che Mmamma sta in cantina,
e entri, c’ho da dijje una parola».
«E cche ccosa
vòi dijje, scivettola?»
«Ciò da parlà dde scerta 2 tela fina...».
«Ma ppropio propio tela, eh Aghitina?
no de quer coso longo che jje scola?»
«E ssi ffussi
accusí, cche cc’è dde male
de vedé si er giuchetto de Felisce
fascènnolo 3 co un’antra è ttal’e cquale,
o ssi ttu mme
sciai fatto la cornisce? 4
Eppoi tu ttanto 5 ggià cciai messo er zale, 6
e nnu lo vòi ppiú ffà». «Chi tte lo disce?».
Aghita mia, e
cche vorà ddí adesso
ch’è ggià er ziconno e mmommò er terzo mese
che nun vedo ppiú ssegno de marchese?
Aghita, di’, che mme sarà ssuccesso?
Oggnuna de
l’amiche che cciò intese
disce: «Vierà sta sittimana appresso»:
ma er pannuccio io però nun l’ho ppiú mmesso;
e lloro stanno a ride a le mi’ spese.
Ch’edè?!
ttu ppuro nun t’è ppiú vvienuto?!
Da cuanno, Aghita?, di’... Ppropio è un veleno
duncue er zugnà 1 dde quer baron futtuto!
Oh cche
llusce de Ddio! Mo l’ho ccapito
quer lavore ch’edè: ggnente de meno
che cquello che ppò ffa mmojje e mmarito!
Tuta mia
cara, come Mamma ha vvisto
ch’io nun davo ppiú ppanni cor rossetto,
m’è vvienuta a gguardà ddrento in ner letto,
m’ha ddetto vacca, e ppoi m’ha ddato un pisto. 1
Sia tutto pe
l’amor de Ggesucristo:
ha vvorzuto accusí Ddio bbenedetto.
Tutti guadagni de quer ber giuchetto
che cc’è vvienuto a ffà vvedé cquer tristo.
Tratanto io
sto accusí: vvommito e ttosso;
sino er pane, ch’è ppane, nu lo tocco,
e ppe la vita nun ciò ssano un osso.
Mamma spaccia
ch’è stato lo scirocco
che ha ffatto diventamme er corpo grosso;
ma ppoi me manna a vvilleggià a Ssan Rocco. 2
«Accúsati
figliuola». «Me vergogno».
«Niente: ti aiuto io con tutto il cuore.
Hai dette parolacce?» «A un ber zignore».
«E cosa, figlia mia?» «Bbrutto carogno».
«Hai mai
rubato?» «Padre sí, un cotogno».
«A chi?» «Ar zor Titta». «Figlia, fai l’amore?»
«Padre sí». «E come fai?» «Da un cacatore
ciarlamo». «E dite?» «Cuer che cc’è bbisogno».
«La notte
dormi sola?» «Padre sí».
«Ciài pensieri cattivi?» «Padre, oibò».
«Dove tieni le mani?» «O cqui o llí...».
«Non ti
stuzzichi?» «E cc’ho da stuzzicà?»
«Lì fra le cosce...». «Sin’adesso no,
(ma sta notte sce vojjo un po’ pprovà)».
«Padre...».
«Dite il confiteor». «L’ho ddetto».
«L’atto di contrizione?» «Ggià l’ho ffatto».
«Avanti dunque». «Ho ddetto cazzo-matto
a mmi’ marito, e jj’ho arzato 1 un grossetto». 2
«Poi?» «Pe
una pila che mme róppe 3 er gatto
je disse for de mé: “Ssi’ mmaledetto”;
e è ccratura de Ddio!». «C’è altro?» «Tratto
un giuvenotto e cce sò ita a lletto.
«E llí ccosa
è ssucesso?» «Un po’ de tutto.
«Cioè? Sempre, m’immagino, pel dritto».
«Puro a rriverzo...». «Oh che peccato brutto!
Dunque, in
causa di questo giovanotto,
tornate, figlia, cor cuore trafitto,
domani, a casa mia, verso le otto».
Sta piccola
cacona, 1 eh Ggiuacchino?
e ste cotte 1 che cqui pporti ar Curato?
Oggi propio pòi dí ccotto sporpato 2
da li capelli all’uggne 3 der detino.
Nun ce
sò gguai: 4 come se trova vino
da èsse fascirmente incanalato, 5
tu tte sce vòi inummidí er palato
sin che cce n’è una goccia in magazzino.
Bbravo!
perché sei omo da particce 6
co ddu’ cotte pe ggiorno: e cquesto è er modo
de falle mantiené ’ggnisempre gricce.
Cusí una tira
l’antra, e tte sce lodo:
che ssempr’è bbene for de le pellicce 1
de lassà un filo pe ppoi facce er nodo.
Vòi
’mparà a ffà cuadrini a la romana?
Ecchete in du’ parole la maggnera.
Da’ ttera rossa tu pe ppuzzolana: 1
metti la sòla vecchia tinta nera:
spaccia
acquavita nova de funtana:
scuajja un terzo de sego
fa’ vviení rrobba, e ffrega la dogana:
nisconni un piommo sotto a la stadera:
bbulli er
caffè dde cesci e dde fascioli:
venni 4 er barattoletto pe mmanteca:
appoggia 5 la semata de pignoli:
sfujjetta er
vino bbianco de sciufeca: 6
si ttu ccrompi, 7 opri l’occhi; e all’antri soli
fa’ ppijjà le tu’ cose a gattasceca. 8
Ar monno novo
è ccome ar monno vecchio:
cqua dde curiali sce ne sò sseimila;
e li pòi mette tutticuanti in fila,
ché ssempre è acqua cuer che bbutta er zecchio.
Ce sò
ppassato, sai?, pe sta trafila:
a ssentí a lloro, ognun de loro è un specchio;
ma o ccuriale, o mmozzino, o mmozzorecchio, 2
tutti vonno maggnà ne la tu’ pila.
Pe
ccarità, nnun mentovà Ssant’Ivo! 3
Ché o Ssant’Ivo o Ssant’Ovo,
dillo un prodiggio si ne scappi vivo.
Ma a
Ssant’Ivo sò angioli o ccuriali?
Curiali? ebbè, cquer che sparagni a spese
ar fin der gioco se ne va a rrigali.
Santaccia era
una dama de Corneto
da toccà ppe rrispetto co li guanti;
e ppiú cche ffussi de castagno o abbeto,
lei sapeva dà rresto a ttutti cuanti.
Pijjava li
bburini 2 ppiú screpanti 3
a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto:
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti
fasceva er fatto suo, uno dereto.
Tratanto lei,
pe ccontentà er villano,
a ccorno pístola e a ccorno vangelo
ne sbrigava antri dua, uno pe mmano.
E ppe
ffà a ttutti poi commido er prezzo,
dava e ssoffietto, e mmanichino, e ppelo
uno pell’antro a un bajocchetto er pezzo.
A pproposito
duncue de Santaccia
che ddiventava fica da ogni parte,
e ccoll’arma e ccor zanto 2 e cco le bbraccia
t’ingabbiava l’uscelli a cquarte a cquarte;
è dda
sapé cc’un giorno de gran caccia,
mentre lei stava assercitanno l’arte,
un burrinello co l’invidia in faccia
s’era messo a ggodessela in disparte.
Fra ttanti
uscelli in ner vedé un alocco,
«Oh», disse lei, «e ttu nun pianti maggio?» 3
«Bella mia», disse lui, «nun ciò er bajocco».
E cqui
Ssantaccia: «Aló, vvièccelo a mmette:
sscéjjete er búscio, e tte lo do in zoffraggio
de cuell’anime sante e bbenedette».
Per oggi,
Cuccio 1 mio, nun sfutticchiamo: 2
nun sfutticchiamo, no, ffàmo orazzione.
Nun zai oggi che ffesta scelebbramo?
La santa e immacolata Concezzione.
Doveressi
capí che cquanno Adamo
nun zeppe superà la tentazzione,
e sse maggnò cquer frutto de cuer ramo,
su in paradiso se serrò pportone.
Sin da cuer
giorno la madre natura
nun poté llavorà ffor de condanna
manco, se viè ppe ddí, mmezza cratura.
E ttra
l’uscelli e ssorche ch’Iddio manna,
nun fu assente 3 arcun’antra futtitura
che dde san Giuvacchino e dde sant’Anna.
A le
storielle tue io nun ce storcio: 1
duncue credi a le mie. Ggiggia e Ggrilletto
s’ereno chiusi a ttanto de scatorcio 2
pe cquer tal’affaruccio che tt’ho ddetto.
E ggià
staveno a mmette a lo spilorcio
der marito una penna ar cappelletto,
cuanno a cquer tipp’e ttappe 3 ecchete un zorcio
che scappa da un cuscino accapalletto.
Visto er
nimmico suo, subbito er gatto
pijja l’abbriva, s’aggrufa, se corca,
eppoi zompa sur letto ippisifatto. 4
Senti che
ccaso! cuella bbestia porca
nell’impito aggranfiò ttutt’in un tratto
un uscello incastrato in d’una sorca.
Come
sò le disgrazzie! Ggiuveddí
in d’un orto viscino a Bbervedé 1
ciannassimo un tantino a ddivertí
Pepp’er chiavaro, Bennardino e mmé.
Cuanto
stassimo alegri! Abbast’a ddí
che cce bbevessim’un barile in tre:
e vverzo notte, in de l’uscí de llí
pijjassimo er risorio
Ma ar
tornà a ccasa poi, ner zalí ssú,
cosa diavolo fussi io nu lo so,
sbajjai scalino e mme n’agnedi ggiú.
Ste scale nu
le vònno illuminà:
e ecchete spiegato, Picchiabbò,
come sò le disgrazzie a sta scittà.
Mancosiamale
che nnun zemo cani!
Già sta attaccato pe le sagristie
un bell’editto pe abbassà li grani
e ppe ffà tterminà le caristie.
Chi dduncue,
incomincianno da domani
inzin’ar giorno delle Befanie, 2
pregherà ppe li prencipi cristiani,
poi pe l’esartazzion de l’aresie
e ppe
l’estirpazzion de Santa Cchiesa:
dànnose, 2a co lliscenza, 2b ar culiseo 3
’na bbona snerbatura a la distesa;
abbasta che
nnun zii turco né abbreo
né de st’antra canajja che jje pesa; 4
er Papa j’arigala er giubbileo.
Er giubbileo 1
me piasce: e nnun confonno
come li frati er coro e ’r rifettorio.
Lui è bbono a cchi ttribbola in ner monno
e a cchi sta ttribbolanno in purgatorio.
Io
però ddico che ppapa Grigorio
doveva dà la tasta un po’ ppiú a ffonno;
perché, ccazzo, sto Deusinaddiutorio
nun è a Rroma né er primo né er ziconno.
Chi ccampa co
le mmaschere, fratello,
sto ggiubbileo nun ha da dillo un furto,
un’invenzion der diavolo, un fraggello?
Si st’anno er
carnovale fussi longo,
bbuggiarà er giubbileo: 2 ma è ttanto curto!
Bbasta, speramo che cce naschi un fongo. 3
Cqui nun
c’è da dà gguazza, 1 sor baggeo: 2
er Papa, grazziaddio, nun è un cojjone;
e ssubbito 3 c’ha mmesso er giubbileo
ciaverà avuto le su’ gran raggione.
Prima de
tutto cuer zu’ amico abbreo
che jje venne 4 un mijjaro pe un mijjone,
ggira ancora cqua e llà strillanno aeo 5
senza viení a la santa riliggione. 6
Ma cche stamo
a gguardà ll’abbreo Roncilli!
Ve pare che cce siino sott’ar zole
poc’antri ladri cqui da convertilli?
Ecco duncue
che ssenza èsse bbizzoco
se pò strigne er discorzo a ddu’ parole:
che un giubbileo pe ttanti ladri è ppoco.
Cqua nun
viengheno Ingresi c’addrittura
nun pijjino carrozze e ccarrettelle
pe annà a vvéde er Museo 2 de Raffaelle
e ttutti l’antri cuadri de pittura.
Cuelle facce
me pare de vedelle:
nun zò smontati ancora de vittura,
che incominceno ggià, bbotta sicura,
a invetrí ll’occhi e a ddí: Cche cosc’e ppelle! 3
Ar riviení
ppoi ggiù co cquer zomaro
de l’anticuario, a tté li paroloni
de Raffaelle, de cuer gran cuadraro!
Che bbella
forza de li mi’ cojjoni!
La bbravura l’ha avuta er coloraro
che jj’ha vvennuto li colori bboni.
M’aricconta
mi’ padre che l’Ingresi
c’ar zu’ tempo a li stati papalini
ce vienivano a ffà li milordini, 1
spenneveno da prencipi Bborghesi. 2
Ma bbisogna
che mmó cquelli paesi
abbino dato fonno a li cuadrini,
perché mmó sse la passeno a llustrini, 3
e bbiastímeno 4 poi d’avélli spesi.
Io m’aricordo
sempre, m’aricordo,
d’uno che mme maggnò la bbonamano, 5
e ppiú strillavo ppiú fasceva er zordo.
Io je disse
però dda bbon romano:
«Accidentacci in faccia ar zor Milordo
ch’è sbarcato a la chiavica de Fiano». 6
Bbravo, per
dio! Ma bbravo Ggiuvannino!
E cchi tte lo sapeva st’avantaggio
de fà cco ttanta grazzia er canterino?!
Mo mme n’accorgo che cc’è ppoco a mmaggio.
Ma abbada de
nun róppete er cantino,
ché allora, sora musica, bbon viaggio!
Saría un peccato, perché ccanti inzino
mejjo assai d’una nota de cariaggio.
Io sentivo
jjerzera st’orghenetto!...
e ffesce co mmi’ mojje: «Eh cquesto è ll’asso! 2
senti si cche vvolate! uh bbenedetto!».
Tratanto me
spojjavo passo passo,
e ffinarmente me n’aggnede
a ffatte 4 pe dde dietro er contrabbasso.
Pe cquante
case ch’io me sii ggirate,
fascenno er zervitore, inzino a mmone, 1
ho vviduto pe ttutto le padrone
’gnisempre o bbuggiarone, o bbuggiarate.
Le zitelle, o
da poco maritate,
l’ho vvidute oggnisempre bbuggiarone:
ma ppoi, passato er tempo der cojjone,
l’ho vvidute oggnisempre cojjonate.
Tu gguarda
cqui ar cammino sta spidiera, 2
che ggira e ggira e ffa ssempre un lavoro:
cusí vva pe le donne a una maggnera.
Sin che
cc’è ggioventú, l’argento e ll’oro
se lo pijjeno a ppeso de stadera:
cuanno sò vvecchie poi pagheno lòro. 3
Undiscimila
vergine, sagrato!
undiscimila, cazzo!, e ttutt’inzieme?!
Jèsummaria! ma vvedi cuanto seme
che ppoteva impiegasse, 1 annà spregato!
E a ttempi
nostri tanti che jje preme
de pescà un búscio arcuanto 2 conzervato,
d’undiscimila c’abbino pescato
nun ne troveno dua! Tutte medeme! 3
Undiscimila
vergine! che ppasto
da conzolà un mijjaro de conventi!
Tutte zitelle! Ma cchi è annato ar tasto?
Ce volemo
accordà? Pavolo, senti:
o ffra ttante zitelle sc’era er guasto,
o ereno per dio tutt’accidenti. 4
San Pavolo
era un zanto c’abbitava,
pe nnun pagà ppiggione, in d’una grotta;
e un corvaccio ogni ggiorno je portava,
pe ffàllo 2 sdiggiunà, mmezza paggnotta.
Disce, 3
sto corvo era una bbestia bbrava,
timorata de Ddio, e ggnente jjotta:
ma de li tozzi sciaveva 4 la cava
pe ttrovà ssempre una paggnotta rotta?
Io dico che
sto pranzo de san Pavolo
fussi tutta pavura der fornaro,
che ssott’ar corvo sce credessi er diavolo:
e accusí,
cquanno crebbe sant’Antonio,
de ste porzione je ne dassi un paro
pe spartille fra er diavolo e ’r demonio.
Dite un po’,
ggente mia, me pare scerto
d’avevve 2 ariccontato er fattarello
de cuer Zanto arimita, che un uscello
lo mantieneva a ppane in ner deserto.
Bbe’, in
cuant’ar corvo ho inteso dí cche cquello
spianava a cconto suo con forn’uperto,
e incirc’ar pane, a cquello c’ho scuperto,
je lo fasceva apposta de tritello.
Co sto par de
notizzie s’arimane 3
a ssapé che cquer povero arimita
sin che vvisse maggnò ppeggio d’un cane.
’Na cosa sola
nun z’è mmai schiarita
si la vita finí pprima der pane,
o ffiní er pane prima de la vita.
Pe nnun dí
cculo, ppòi dí cchiappe, ano,
preterito, furello, chitarrino,
patume, conveggnenze, signorino, 1
mela, soffietto, e Rrocca-Canterano. 2
Di’
ttafanario, culeggio-romano, 3
Piazza-culonna, 4 Culiseo, 5 cuscino,
la porta der cortile, er perzichino,
bbommè, 6 ffrullo, frullone e dderetano.
Faccia de
dietro, porton de trapasso,
er cularcio, 7 li cuarti, er fiocco, er tonno,
e ll’orgheno, e ’r trommone, 8 e ’r contrabbasso.
E cc’è
cchi lluna-piena l’ha cchiamato,
nacch’e ppacche, sedere, mappamonno,
cocommero, sescesso, e vviscinato. 9
Sempre ho
ssentito a ddí cche li paesi
hanno oggnuno una lingua indifferente, 1
che dda sciuchi 2 l’impareno a l’ammente, 3
e la parleno poi per èsse intesi.
Sta lingua
che ddich’io l’hanno uguarmente
Turchi, Spaggnoli, Moscoviti, Ingresi,
Burrini, 4 Ricciaroli, Marinesi,
e Ffrascatani, 5 e ttutte l’antre ggente.
Ma nnun
c’è llingua come la romana
pe ddí una cosa co ttanto divario,
che ppare un magazzino de dogana.
Per essempio
noi dimo ar cacatore,
commido, stanziolino, nescessario,
logo, ggesso, 6 ladrina 7 e mmonziggnore.
Bbe’!
Ssò pputtana, venno 1 la mi’ pelle:
fo la miggnotta, sí, sto ar cancelletto: 2
lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto:
c’è ggnent’antro da dí? Che ccose bbelle!
Ma cce
sò stat’io puro, sor cazzetto,
zitella com’e ttutte le zitelle:
e mmó nun c’è cchi avanzi bajocchelle
su la lana e la pajja der mi’ letto.
Sai de che
mme laggn’io? nò dder mestiere,
che ssaría bbell’e bbono, e cquanno bbutta 3
nun pò ttrovasse ar monno antro piascere.
Ma de ste
dame che stanno anniscoste
me laggno, che, vvedenno cuanto frutta
lo scortico, 4 sciarrubbeno le poste. 5
A mmé nun me
dí bbene de ste lappe 2
che vvanno co la scuffia e ccor cappotto 3
e mmarceno
piene d’orloggi, catenelle e cciappe:
lassamo
stà che ppoi nun cianno sotto
mezza camiscia da coprí le chiappe:
tutta sta robba sai da che ccondotto
je viè, Stèfino 5 mio? dar tipp’e ttappe.
Pe la strada
gnisuna 6 t’arisponne:
come poi j’arïesce d’anniscosto,
se faríano inzeppà da le colonne.
Ma a nnoi nun
ce se venne er zol d’agosto, 7
perché la castería 8 de ste madonne 9
sta ttutta sana in ner gruggnaccio tosto. 10
Faraone era
un re de sti frabbutti 1
che impicceno da sé ttutte le carte, 2
e vvolenno l’Abbrei schiavi o ddistrutti,
o l’affogava o li metteva all’arte.
Ma
Mmosè, che ppareva Bbonaparte,
a la bbarbaccia sua li sarvò ttutti,
e ffra ddu’ muri d’acqua, uno pe pparte,
se li portò pe mmare a ppied’assciutti.
Nell’acqua
annò bbenone, sor Giuvanni,
perch’er Marrosso stiede sempre uperto;
ma in terra cominciorno li malanni.
Ar meno
è una gran buggera de scerto
cuella de spasseggià pe cquarant’anni
e stasse a ffregà ll’orbo
A la su’
porcareccia era curato:
poi venne a Rroma prete a ’no spedale:
poi passò a ddí l’uffizzio a un burborato, 2
e a spórgeje 3 la notte l’urinale.
Pe cquesto
ottenne un ber canonicato
in d’una prima cchiesa patriarcale:
poi salí per impeggni a un vescovato;
e mmó er Papa lo sputa cardinale. 4
E a
’ggn’impiego de tutta sta sfilata, 5
chi jj’ha ttienuto l’occhi addosso ha ddetto
che ha mmutato ognisempre camminata.
Prima annava
ar galoppo, po’ ar passetto,
po’ a ccianche 6 larghe e a vvita sderenata; 7
e mmó ppare che bballi er minuetto.
La fede,
decan 1 Pavolo, oggiggiorno
dimolo puro 2 ch’è aridotta a zzero;
e ttutto cuello che pprima era vero
mó sse stiracchia e nnun z’osserva un corno.
Pe ’n
essempio, le feste ch’inventorno
li Papi antichi in tutto er monno intiero,
se rispetteno ppiú? Mmó er bianco è nnero,
mó er giorno è nnotte, e mmó la notte è ggiorno.
Disce la
fede: «Cuanno viè la festa,
stenéteve 3 dall’opere servile»:
lo vedi tu cche bbuggiarata è cquesta?
Ma dduncue
sti futtuti monziggnori
perché la festa tiengheno antro stile,
e ffanno faticà li servitori?
Ch’edè?
tte sei ’mpegnato a ccallaroste 2
l’avanzo er piú mmillesimo de testa?
E nnun t’abbasta che ssii mezza festa, 3
c’arrubbi puro la sarviett’a ll’oste? 4
A ffalla
mejjo io m’arzerebbe cuesta
pe mmostrà le mi’ 5 bbuggere anniscoste:
la zazzera, er zalame, l’ova toste,
la sbarratura, 6 e un tantinel de pesta. 7
Fa le su’
cose sto cazzaccio matto,
eppoi lassa scuperto l’artarino!
Sai c’hai raggione? Che nun c’era er gatto.
St’incerti
’ggna lassalli
e ll’antri preti ch’er Zignore ha ffatto,
ché ttocca a lloro de mostrà er bambino.
Sibbè
cche in vita sua cuann’ebbe er pranzo
mai nun potessi arimedià dda scena,
è stato sempre una gran testa amena,
e nn’ha avute de bbuggere 1 d’avanzo.
Oggi
ch’è bbiocco 2 e nnun pò ffa ppiú er ganzo, 3
dà in cojjonella 4 e nnun ze mette in pena;
e ’ggnicuarvorta che sse sente in vena
pe ffanne delle sue trova lo scanzo.
Ggiuveddí
ggrasso 5 sto gallaccio vecchio
co ccerti scenci che jje diede un prete
se vestí dd’abbataccio mozzorecchio. 6
Eppoi se
messe un specchio ar culiscete
co ste parole cqui ssott’a lo specchio:
Ve tiengo a ttutti indove ve vedete.
Lo volete
sapé? vve lo dich’io
perché Rroma se trova in tant’affanni:
ve lo dich’io perché Ddomminiddio
ce fa ppiove sta frega de malanni.
È
pperché er Papa s’è ffatto ggiudio
e nun ha ppiú de Papa che li panni:
è pperché li ggiudii da papa Pio 1
nun porteno piú in testa li ssciamanni. 2
Adesso se
sperava arfinamente 3
de védelo sto scànnolo levato,
ma, gguai pe nnoi, nun ze ne fa ppiú gnente:
perché ppapa
Grigorio c’ha ppijjato
tanti cuadrini da un giudio fetente, 4
j’ha vvennuto, per dio, Roma e lo Stato!
Cristoggesummaria,
cc’antro accidente! 1
Sete una gran famijja de bbruttoni.
E nnun méttete in pena ch’io cojjoni, 2
perché pparleno tutti istessamente.
Dar grugno de
tu’ padre a li meloni,
cuelli mosini, 3 nun ce curre ggnente:
e ar vedé mmamma tua, strilla la ggente:
«Monaccallà, ssò ffatti li bbottoni?». 4
Tu, senza
naso, pari er Babbuino: 5
tu’ fratello è er ritratto de Marforio, 6
e cquell’antro è un po’ ppeggio de Pasquino. 7
Tu e Mmadama
Lugrezzia, 7a a sti prodiggi,
v’amanca de fà cchirico Grigorio,
pe mmette ar mucchio 8 l’Abbate Luiggi.
Er venardí de
llà,
io incontranno ar Corzo Margherita,
je curze 2 incontro a bbracciuperte: 3 «Oh Ghita,
propio me n’annerebbe fantasia!». 4
Disce: «Ma
indove?». Allora a l’abborrita 5
je messe er fongo e la vardrappa mia, 6
e ddoppo tutt’e ddua in compagnia
c’imbusciassimo 7 drento ar Caravita. 8
Ggià
llí ppare de stà ssempr’in cantina: 9
e cquer lume che cc’è, ddoppo er rosario
se smorzò pe la santa dissciprina.
Allora noi in
d’un confessionario
ce dassimo una bbona ingrufatina
da piede a la stazzione der Zudario. 10
Ma cchi?
cquelli che vvanno ar Caravita
la sera, e cce se sfrusteno er furello? 2
Sò ttutti galantommini, fratello;
ggente, te lo dich’io, de bbona vita.
Cuarcuno, si
ttu vvòi, porta er cortello:
a cquarcuno je piasce l’acquavita:
cuarchidunantro è un po’ llongo de dita; 3
ma un vizzio, ggià sse sa, bbisogna avello. 4
Ma ppoi
tiengheno ttutti er mantellone,
e ccor Cristo e le torce cuann’è ffesta
accompaggneno er frate a le missione.
E ’ggni sera
e per acqua, e ppe ttempesta,
vanno pe Rroma cantanno orazzione
coll’occhi bbassi e ssenza ggnente in testa.
Er medico,
per èsse, 1 l’ha spedito,
perché ddisce c’ha ffràscico er pormone;
e ppò ttirà inzinent’a l’Asscenzione,
si a Ppascuarosa 2 nun ze n’è ggià ito.
Io
però ho ddetto a Nnanna: «A ttu’ marito
tu ffajje fà ’na bbona confessione,
e, in barba de sto medico cojjone
in cuattro ggiorni te lo do gguarito.
Lasselo
chiacchierà sto vecchio tanchero,
e intanto fatte véde sur lunario
propio er giorno ch’er zole entra in ner canchero.
Se va allora
tre ssere a ppiedi scarzi,
su e ggiú pe Rroma discenno er rosario,
e ddoppo s’arza lui cuanno tu tt’arzi».
Si un gallo,
fijja mia, senza ammazzallo
campa scent’anni, eppoi se mette ar covo,
in cap’a un mese partorisce un ovo,
e sta ddu’ antri mesi pe ccovallo.
Eppoi
viè ffora un mostro nero e ggiallo,
’na bbestia bbrutta, un animale novo,
un animale che nun z’è mmai trovo,
fatto a mmezzo serpente e mmezzo gallo.
Cuesto si
gguarda l’omo e sbatte l’ale,
come l’avessi condannato er fisco 1
lo fa rrestà de ggelo tal’e cquale.
Una cosa
sortanto io nun capisco,
ciovè ppe cche raggione st’animale
abbino da chiamallo er basilisco.
Siggnori, chi
vvò scrive a la regazza 2
venghino ch’io ciò cqua llettre stupenne.
Cqua ssi tiè ccarta bbona e bbone penne,
e l’inchiostro il piú mmejjo de la piazza.
Cqua
ggnisuno, siggnori, si strapazza.
Le lettre ggià ssò ffatte coll’N.N. 3
Basta mettérci il nome, e in un ammenne 4
chi ha ppresscia d’aspettà cqua ssi sbarazza.
Io ciò
llettre dipinte e ttutte bbelle.
C’è il core co la frezza 5 e cco la fiamma:
c’è il zole co la luna e cco le stelle.
Cuant’al
prezzo, tra nnoi ci accomodamo:
cuant’a scrive, io so scrive a ssottogamma: 6
duncue avanti, siggnori: andiamo, andiamo.
No,
ppascioccona, 2 io nun zò ttanto sscioto: 3
lo capisco ch’edè ttutta sta fiacca: 4
tu vvoressi appoggiamme 5 la patacca,
ma è ’na moneta ch’io nun ariscoto.
Tu vvorressi
attaccamme er tu’ sceroto, 6
ma ssu le carne mie nun ce s’attacca.
Io nun vojjo maggnà ccarne de vacca,
e nun me metto a ccasa er terramoto.
Sta’ cco la
pasce tua, fijja mia bbella,
perché ttu ggià lo so c’ortr’ar portone
drento ar vicolo ciai la portiscella.
Eppoi, dichi
pe mmé ttroppe orazzione:
io sò berlicche, 7 e ttu ’na santarella:
ce vò un omo pe tté mmeno bbirbone. 8
Propio cuesta
che cqui nnun ve la passo,
de dí cche sto governo è un priscipizzio.
Sor coso 1 mio, levàtevelo er vizzio
de laggnavve accusí dder brodo grasso. 2
Er
Zantopadre, pe ddiograzzia, è ll’asso, 3
è un testone, 4 è un papetto 5 de
ggiudizzio:
e ssi ariviè ssan Pietro a ffà st’uffizio,
lui se ne frega e sse lo porta a spasso. 6
Oggi (e cqua
vvedi cuant’è ssanto e ddotto)
voleva ggiustizzià er Governatore
scerti arretrati, che ssò ssette o otto. 7
Sai
c’arispose er Papa a Mmonzignore?
«Giustizzia?! che ggiustizzia; io me ne fotto:
ner giubbileo 8 se nassce e nnun ze more».
E ccento!
Dorotea mommó tte còccolo. 1
Cuanno parl’io pare che pparli Bbrega! 2
Me vòi fà sfeghetà? 3 Vvedi sta strega
si sse le va a ccercà ppropio cor moccolo! 4
Che cc’entra
mó si pporteno o nnò er boccolo! 5
Oggnuno cuesto cqua nun te se nega 6
c’a li capelli sui je dà la piega
che ppiú jje cricca: e lo capisce un zoccolo. 7
Cqua nun ze
tratta de capelli, o ccome; 8
né ssi li cardinali siin’abbati:
ma ttutt’er punto nostro era sur nome.
Duncue io la
dico a tté ccome l’ho intesa:
li cardinali sò accusí cchiamati
perché ssò ccardi de la Santa Cchiesa.
L’omo, cuanno
lo pijji a ppunto-preso, 2
lui te diventa subbito un cojjone.
E cciài da mette che nun è dda mone 3
che jje stava Luscía coll’arco teso.
Ccusí
è ssuccesso cuer ch’io m’ero creso: 4
tanto j’è annat’attorno er farfallone,
che un po’ un po’ che jj’ha ddato de gammone 5
lei te l’ha ffatto cascà ggiù dde peso. 6
Sí, sí,
ccapisco ch’è per lei ’na pacchia 7
d’avé sposato un omo accusí rricco
lei che nun cià dder zuo manco una tacchia. 8
Ma una
mojjetta che jje fa sto spicco,
sta cicciona de ddio, 9 sta bbella racchia 10
la poteva sperà cquer brutto micco?
Cuella
stradaccia 1 me la sò llograta:
ma cquanti passi me sce fussi fatto
nun c’era da ottené pe ggnisun patto
de potemme sposà cco mmi’ cuggnata.
Io sc’ero
diventato mezzo matto,
perché, ddico, ch’edè sta bbaggianata 2
c’una sorella l’ho d’avé assaggiata
e ll’antra nò! nnun è ll’istesso piatto?
Finarmente
una sera l’abbataccio
me disse: «Fijjo, si cc’è stata coppola, 3
provelo, e la liscenza te la faccio».
«Benissimo
Eccellenza», io j’arisposi:
poi curzi a ccasa, e, ppe nun dí una stroppola, 4
m’incoppolai Presseda, e ssemo sposi.
Povera fijja
mia! Cuer Zarvatore 1
bbisogna dì o cche ttiè ttroppa sostanza,
o mme l’ha ppresa pe ’n’imbottatore 2
pe scolàjjene drento in st’abbonnanza.
Da che llei
lo sposò, ssempre un lavore!
panz’e zzinna e dda capo zinn’e ppanza. 3
E li fijji a ’ggni madre je ne more,
ma pe Ggiartruda mia nun c’è speranza.
In cinqu’anni
otto fijji, e ttutti vivi!
E cche ccianno in ner corpo? Io me la rido
che sse dii ’n’antra coppia che l’arrivi.
Tre vvorte a
ffila gravidanza doppia!
Cueste nun zò bbuscíe: sto cacanido 4
e Ppippo soli nun zò nnati a ccoppia.
Ma ccome!
è ttanto tempo che tte laggni
che rrestavi pe sseme de patata, 1
e mmó che stai per èsse maritata
co cquello che vvòi tu, ppuro sce piaggni?
Mo cche cquer
catapezzo 2 te guadaggni,
me sce fai la Madonna addolorata!
Tu gguarda a mmé: m’ha ffatto male tata?
Sti casi ar monno sò ttutti compaggni.
Che ppaur’hai
der zanto madrimonio?
Nun crede, fijja, a ste lingue maliggne:
tu llassete serví, llassa fà Antonio.
E cquanno
sentirai che spiggne spiggne,
statte ferma, Luscía, perché er demonio
nun è ppoi bbrutto cuanto se dipiggne. 3
Davero
pònno dí ste mmaledette
«Bbuggiaravve, ecco fiori!». 1 Ma ddavéro
l’omo drento ar boccino 2 nun cià un zero,
e li scechi per dio fanno a ttresette!
Una carogna
che pp’er monno intiero
va imminestranno la pulenta
ch’è stata cuattro vorte in monistero 4
piena d’orloggi de Sacchesorette: 5
sta donna
porca ha ttrovo du’ Fedeli, 6
che, ppe sposalla lui, uno sc’impeggna
un prete, e ll’antro un frate d’Arescèli. 7
E
accusì in dua se litica una freggna
che pper èsse arimasta senza peli
nun dà mmanco la dota de Carpeggna. 8
Si vvò
imparà, ttu ddamme retta, damme;
e io te spiegherò ttutt’er zerrajjo.
Du’ serpenti sce sò ppieni de squamme
che ccianno un collarino cor zonajjo. 1
Poi
sc’è la salamandra, si nun sbajjo,
che ppò vvive tramezzo de le fiamme.
Doppo er leofante, ch’è ttutto d’un tajjo
senza le congiunture in de le gamme. 2
Poi
sc’è l’uscello che ttiè un rifettorio
immezz’ar petto suo pell’antri uscelli,
com’è cquello che sta ssopr’ar cibborio. 3
Doppo, e
cquesto sta ppuro in de l’avviso,
ce sò ddu’ pappagalli tanti bbelli,
che ttiengheno la razza in paradiso. 4
Disse uno un
giorno a ccerte ggente dotte:
«Spiegate cuesta cqui. Noi semo in zette,
e a ttavola oggni ggiorno sce se mette
venti fujjette 1 e ttrentasei paggnotte.
Ma cquanno
che svinassimo le bbotte 2
s’apparecchiò cco ssedisci sarviette:
e in tutti se finí tra ggiorno e nnotte
diesci paggnotte e ddodisci fujjette».
Pare una cosa
che ggnisuno intenna,
una cosa da mettese er braghiere, 3
che ppiú ssete
Eppuro oggi
è vvienuto un cavajjere
che l’ha pprovata a ccalamaro e ppenna,
e ccià mmesso er ziggillo un tesoriere. 6
Ner monno ha
ffatto Iddio ’ggni cosa deggna:
ha ffatto tutto bbono e ttutto bbello.
Bono l’inverno, ppiú bbona la leggna:
bono assai l’abbozzà, 1 mmejjo er cortello.
Bona la santa
fede e cchi l’inzeggna,
più bbono chi cce crede in der ciarvello:
bona la castità, mmejjo la freggna:
bono er culo, e bbonissimo l’uscello.
Sortanto in
questo cqui ttrovo lo smanco, 2
che ppoteva, penzànnosce un tantino,
creacce l’acqua rossa e ’r vino bbianco:
perché ar
meno ggnisun’oste assassino
mo nun viería 3 co ttanta faccia ar banco
a vénnesce mezz’acqua e mmezzo vino.
Tu ssempre
arrivi tardi e ttardi alloggi,
e nnun zai lègge manco er frondispizzio! 1
Cuer che ttiè addosso un prete ar giorno d’oggi
tutto scià er zu’ perché, ttutto er zu’ innizzio. 2
Me dirai: «Ma
l’anelli nun zò sfoggi?»
No, ssò sseggni der zanto sposalizzio
de la cchiesa e dder prete. «E cquel’orloggi?»
Pe ssapé ll’ora de cantà ll’uffizzio.
«E le
saccocce piene de piselli 3
nun vònno dí rricchezza?» Nun è vvero:
vònno dí ppane pe li poverelli.
«E cche
vvò ddí ssott’ar zucchetto nero
cuer tonno vòto immezz’a li capelli?»
Vò ddí: cqua cc’è zzero via zzero zzero.
Li preti
sò bbonissimi Siggnori,
ma nnun pe cquesto l’hai da crede ssciocchi.
Se la danno la pátina de ggnocchi,
ma cquella è ggnocchería tutta de fori.
Perché da
cuanno naschi inzin che mmori
er prete te sta ssú cco tanti d’occhi
pe vvedé cquer c’assaggi e cquer che ttocchi,
e ssi ffreghi, e ssi arrubbi, e ssi llavori.
Lui te vede
si vvienghi e ssi vvai via:
vede quer che sse vòta e cquer che ss’empie;
e tte fa da Spacoccio e Ccasamia. 1
Cuest’è
un male però che cchi ha cquadrini
je lo cura appricannoje a le tempie
un ceroto de pasta de zecchini.
Nun
pijjammete collera, Maria:
abbi pascenza, io nun ce credo un’acca.
Sarà cquello che vvòi, commare mia,
ma ppe ffàmmela bbeve è ttroppo fiacca.
Cojjoni! e
cquesto nun è mmal da bbiacca, 2
ma ssarebbe una nova mmalatia.
Che un prete possi fà una pirchieria! 3
Si l’appiccichi ar muro nun z’attacca. 4
Li preti che
smaneggeno er Ziggnore,
loro che lo commanneno a bbattecca,
hanno d’avé ste futticchiezze
Ma cc’hai
pijjato Roma pe la Mecca? 6
Li preti danno a ttutti e a ttutte l’ore.
Chiudeno l’occhi, e indove azzecca azzecca.
Mó
cc’è un editto c’a sta Roma caggna
je vonno ariggiustà ttutte le mura; 1
ma ssi nun è che cquarcuno sce maggna,
nun te pare, per dio, caricatura?
Se pò
ssapé dde cosa hanno pavura?
Che li Romani scappino in campaggna?
De li preti ggnisuno se ne cura,
perché ddrento in città sta la cuccaggna.
Si ppoi semo
noantri secolari,
sc’è bbisoggno de muri e de cancelli
pe ffacce restà ddrento a li rippari?
Pe ppoche
pecoracce e ppochi agnelli
dati in guardia a li can de pecorari
bbasta una rete e cquattro bbastoncelli.
M’ha ddetto
er Moro che mme venne er riso
che le Bbolle ch’er Papa de Turchia
rigala a cchi le crompa
dispenzeno a ttenute er paradiso.
Pe ddí la
verità, mme ne sò rriso;
ché mme pare una gran cojjoneria
d’annasse a pperde tra ccinquanta mia 2
dove t’abbasta de ficcacce er viso.
Pe
vvisità la grolia 3 tua, fratello,
te sce vorebbe la carrozza a mmolle
come annassi da Roma a Vviggnanello. 4
Pe mmé mme ne
tierría sei canne o ssette;
e dder resto, vennènnose ste Bbolle,
me ne farebbe fà ttante bbollette. 5
L’Apostoli
fasceveno fracasso
ché Ccristo er’ito via da sepportura;
quann’ecchete de fianco san Tomasso:
«Io nun ce credo un cazzo: è un’impostura».
Tratanto
Ggesucristo de bbon passo
se n’aggnede ar cenacolo addrittura,
indove un buscettin de serratura
je serví dde portone de trapasso.
«Ficca er tu’
dito in cuesta costa vòta,
ggiacubbino futtuto, e cqua ppòi vede
s’io sò arivivo, oppuro è una carota». 2
Allora San
Tomasso in piede in piede
prima annò ar tasto da perzona ssciòta, 3
e ddoppo rescitò ll’atto de fede.
Tiette la
lingua, Mèo: 1 nun è la prima
che mmanni mappalà 2 ssu le perzone.
Nu lo sai che ccos’è un’imprecazzione?
è ppiú ppeggio assai ppiú dd’una bbiastima. 3
Perché
cquesta er Zignore nu la stima
nemmanco pe ’na coccia de melone:
eppoi, bbeato lui, sta ttant’in cima
che nnun j’ariva a un pelo de cojjone.
Annà a
ddí a un Omo: fréghete in eterno!
Ma nnun capíschi er danno che jje porti
si ccasomai cuest’omo va a l’inferno?
Tra cquer
fresco a li poveri addannati
nun j’amancherebb’antro doppo morti
che dd’èssesce un tantino bbuggiarati.
Bbravo sor
Papa e ssor Governatore!
Bbravo sor Cammerlengo e ssor Vicario!
Bbravo sor Tesoriere e ssor Datario!
Bbrave sore ggentacce de bbon core!
Mettetesce
gabbelle a ttutte l’ore:
fate de ppiú, llevatesce er zalario:
biffatesce er cammino e ’r nescessario,
e vvennetesce inzino er giustacore.
E cquanno
semo tutticuanti iggnudi,
e cco le bbraghe nostre e le camisce
se sò accozzati scentomila scudi,
siccome a
Rroma sc’è ssempre chi scrocca,
se chiama un appartista, e jje se disce:
«Cqua, ssor ladro futtuto, uprite bbocca».
Pe
ggovernà 1 sti ggiacubbini, proprio
nun ze pò nné coll’ojjo né ccor brodo;
e ssippuro ciaccenni 2 er cornacopio
pe ccercà er dritto-filo, ah, 3 nnun c’è mmodo.
Er Papa c’ha
dda fà? mmó jje dà ll’opio,
e mmó jje bbatte e jj’aribbatte er chiodo:
ma ppe cquanto s’ingeggni a Mmodo Propio, 4
ancora suda e nnun pò ssciojje er nodo.
’Na vorta la
fa ssciapa, una la sala:
un giorno abbassa, un antro arza li pesi;
e sse spassa accusí ccor cresceccala. 5
Finarmente
oggi, doppo avecce intesi
li pettirossi co le penne in gala,
fa ccapo-logo tutti li paesi. 6
C’è un
uscello de razza de cuccú,
che ccanta sempre e pporta in testa un O,
che ttiè le spalle de color ponzò,
e ttutto bbianco poi dar mezz’in giú.
’Gnitanto
crepa e ppoi ritorna su,
e ccampa de zecchini e ppagarò: 2
che ppò ffà ttutto cuer che nnun ze pò;
e ccomparze a la morte de Ggesú.
St’uscello
bbianco e rrosso sempre scià 3
tanti corvacci neri intorn’a ssé
che de colore lui li pò ccambià.
’Ggnitanto
muta nome, e mmó ttiè un G:
nun ha fijji e lo chiameno Papà:
Ell’e lè, indovinate che ccos’è. 4
Pe ttutto
cuer che ssii spirituale
a nnoi nun tocca de parlà nnun tocca:
e un giacubbino solo, o uno stivale
pò èsse cuello che cce mette bbocca.
Puro, 1
volenno senza dinne male
mette l’occhi su cquella filastrocca
de messe che sse dicheno a Nnatale,
pare a la prima una gran cosa ssciocca.
Perché in
cual antro logo se sò vvisti
come drento a lo stommico d’un prete,
tre ffijjoli de Ddio, tre Ggesucristi?
Lassateli
sciarlà st’ommini dotti,
e mmettétesce sú 2 cquello c’avete
che ttrovannose in tre ffanno a ccazzotti.
Cuella festa,
Maria, che tte fottei,
aggnéde
e ccelebbrò cquer Don Libborio Mei 4
che sse maggnò la piastra ar cucuzzone. 5
Senti mó:
tterminato l’Aggnusdei,
tramezzo a un centinaro de perzone
s’accostorno all’artare scinqu’o ssei
che vvoleveno fà la commuggnone.
Ma er prete,
doppo conzumato er vino,
pe cquanto se fregassi 6 co le mano
nun poté rruprí mmai lo sportellino.
Però,
ar fin de la messa, Don Libborio
se fesce bbe’ ssentí ddar zagrestano:
«E cche ddiavolo sc’è ddrent’ar cibborio?».
Perché adesso
ha ttrovato cuarchiduno
che jje dà mmezza-piastra oggni futtuta,
come sò ccazzi d’un papetto 2 l’uno
se mette su li tràmpeni 3 e cce sputa. 4
Se crede
duncue sta siggnora Tuta
ch’io mancannome lei resti a ddiggiuno?
Ggnente, a la fin der gioco Iddio m’ajjuta
senza fà ll’averabbile
Lo so, lo so:
er zu’ tiro prencipale
è cch’er prelato suo muti colore;
ma antro culo sce vò ppe un cardinale.
E abbadi a
llei che ppuro 6 er monziggnore
cuanno semo a le feste de Natale
nu la lassi pe mmancia ar zervitore.
Nu lo sai si
cch’edè sta puzzolana, 1
c’ha ccuperto de fanga mezzo mijjo?
È pperché ll’antro jjeri sta puttana
de principessa ha ppartorito un fijjo!
Si ttu ppoi
bbutti doppo la campana
sur monnezzaro un granello de mijjo, 2
te spojjeno la casa sana sana,
e ssi rrughi 3 te fotteno in esijjo.
Nun zerve
cqua de mozzicasse er dito:
la legge 4 è pp’er cencioso: e cche tte credi?
annerà ssempre come sempre è ito.
Vedi mó ssi
cche bbuggera! ma vvedi!
Perché ssú la siggnora ha ppartorito,
noi ggiú cciavemo da infangà li piedi.
Ma un
galantomo senza un’arte in mano
a li tempi che ssò ccome la sfanga?
Pretenneressi ch’io pijji la vanga
e vvadi a llavorà ccome un villano?
Tu ddamme un
po’ de tempo ch’er Zovrano
me provedi e mme levi da la fanga;
e allora vederai s’io sò una stanga, 1
o ppago chi ha d’avé dda bbon cristiano.
Io fui bbono
a ttirajje la carrozza 2
ar zor Grigorio, e llui fa l’ingiustizzia
de nun damme un quadrino che lo strozza.
E mme lassa
li fijji pe mmalizzia
a ppiaggne nott’e ggiorno a-vvita-mozza, 3
che jje se vede in faccia l’armestizzia. 4
Un giorno che
arrestai 1 propio a la fetta, 2
senz’avé mmanco l’arma d’un quadrino,
senti che ccosa fo: curro ar cammino
e roppo in cuattro pezzi la paletta.
Poi me
l’invorto sott’a la ggiacchetta 3
e vvado a spasso pe Ccampovaccino 4
a aspettà cquarche ingrese milordino 5
da dajje una corcata co l’accetta. 6
De fatti,
ecco che vviè cquer c’aspettavo.
«Signore, guardi un po’ cquest’anticajja
c’avemo trovo jjeri in de lo scavo».
Lui se ficca
l’occhiali, la scannajja, 7
me mette in mano un scudo, e ddisce: «Bbravo!».
E accusí a Rroma se pela la cuajja.
Dichi 1 è
rregazza, tiè le carne toste,
ha da empisse le zinne pe la pupa!
Ma llei se maggnería puro le groste
de san Lazzero:
Doppo pranzo
sortanto a callaroste
lei se ne spiccia 4 una padella 5 cupa!
T’assicuro, Cristofeno, che ll’oste
co la posta de noi propio sce ssciupa. 6
Perch’è
ppassato er tempo der panbianco: 7
nun zemo ppiune a cquel’età ffutura 8
che nnun mettevi mai la mano ar fianco, 9
cuanno
l’osti, tenenno la scrittura
scritta cor gesso, ar ripulí dder banco
mannàveno li conti in raschiatura.
Uscii cuer
giorno che ppapa Leone
fu incoronato: 1 ma tte do un avviso,
che mmejjo cosa che de stà in priggione
sí e nnò ppò ttrovasse in paradiso.
Llí mmaggni
pane, vino, carne e rriso,
e ll’oste nun te mette suggizzione:
trovi in cammera tua tutto prisciso,
senza pagà nné sserva né ppiggione.
Llí ddrento
nun ce piove e nnun ce fiocca, 2
e nnun c’è nné ggoverno né ccurato
che tte levino er pane da la bbocca.
Llí nun
lavori mai, sei rispettato,
fai er commido tuo, e nnun te tocca
er risico d’annà mmai carcerato.
L’entrata 1
c’hanno messo a le cupelle 2
ve lo dich’io ch’edè: ttutto un ripicco 3
der Tesoriere, perché nun c’è er micco 4
che jje dà aggratis da rempí la pelle.
Ma ssi sto
grillo in testa io me lo ficco,
lui da mé nun ce pijja bbaiocchelle: 5
ché a la fine er Governo è ttanto ricco
da fregasse de tutte le gabbelle.
Se sa, vvanno
a pportà ste grazzianate 6
a li piedi der Papa, e ’r Papa appizza, 7
perché li strozzi nun zò mmai sassate.
Er Papa
è un cane avanti de ’na pizza:
si sse la maggna, con chi la pijjate?
O ccor cane, o cco cquello che l’attizza.
Bbon
capo-d’ajjo
Nun c’è arisposta? e cche vvor dí? vve fanno? 2
Eh oggi s’ha da vive in alegria
e nnun pijjasse de ggnisun malanno.
Anzi, io
volevo, per nun dí bbuscía,
che ffascessimo inzieme un contrabbanno;
ché cquer che se fa oggi, sposa 3 mia,
poi se seguita a ffà ppe ttutto l’anno. 4
Tutti li
gusti hanno da èsse a ccoppia
in sto ggiorno; e inzinenta in paradiso
se dà a li santi la pietanza doppia.
E pperché er
Papa ha mmesso er giubbileo? 5
Perché er bambin Gesú ss’è ccirconciso,
e ’r fijjolo de Ddio s’è ffatto ebbreo.
Sor Natale,
se maggna sto torrone? 2
Sor Natale, se maggna sto pangiallo? 3
Per arregges’in piede co sto callo
sc’è ggran nescessità de cose bbone.
Io da
jjerammatina a ccolazzione
nun ho mmaggnato ppiú cc’un portogallo 4
e sto dd’allor’impoi sempr’a ccavallo
pe ppoté ffà ’na bbona indiggistione. 5
Duncue vedete
voi si ccon che ccore,
trovannome, diograzzia, a ppanza vòta,
io potería dà ssotto e ffamme onore.
E cquanno ho
ddato l’abbriva a la rota,
le fijje vostre ponno stà a l’odore,
ch’io nun je fo rrestà mmanco la dota.
Sin da tre
mmesi avevo avuto er posto
de bbidè
e li sori accademichi bbirboni
me l’hanno arilevato a mmezz’agosto.
Che
vvòi commatte 4 llà! ttutti padroni:
sempr’uno la vò allesso e un antro arrosto.
Ma ne trovino un antro pe cquer costo
che li servivo io de sei testoni.
Crederò
che cquer po’ dde pratichezza
c’ho de portà bbijjetti, a sto paese
nun z’avessi da prenne pe mmonnezza. 5
Trovà
un bidè pe ssei testoni ar mese?!
Sora Accademia mia, nun z’arippezza. 6
Sce pò annà Bbrega de Piazza Fernese. 7
O de riffe, o
de raffe, 2 inzino a mmone
sempre cuarche ffiletto 3 s’ariduna.
Jer’assera arivonno pe ffurtuna
du’ ggiuncate in froscella 4 p’er padrone.
E io, pe
spartí ggiuste le porzione,
una ne fesce vede a lloro, e una
oggi che ggrazziaddio nun ze diggiuna
me la sò mmaggnat’io pe ccolazzione.
Me sò
arinato! 5 Eh ssi nun fussi lei 5a
che mme lo mette sú, ccor ziggnor Pavolo
Dio sa l’incerti che cciabbuscherei.
Ma llei?
saette! nott’e ggiorno un gnavolo. 6
Va stitica 7 ppiù ppeggio de l’Abbrei, 8
e ssa indove che ttiè la coda er diavolo. 9
Bascia
subbito llí cquela paggnotta
ch’è ccascata davanti ar cacatore.
Nu lo sai, bbrutta fia 1 de ’na miggnotta, 2
eh? cch’er pane è la faccia der Zignore?
Che bbelle
scuse de la freggna! Scotta!
Ciavería 3 gusto t’abbrusciassi 4 er core.
Va’ ggiú a ccasa der diavolo, marmotta,
e averai da godette antro scottore.
E mmó ccome
la metti? sottosopra?,
che tte se pozzino 5 stroppià le mane:
uh! bbenedetto er nerbo e cchi l’addopra.
Vortela,
6 strega, da la parte tonna,
perché, ccor cul in zú, ssappi ch’er pane
fa ppiaggne Ggesucristo e la Madonna. 7
Che mme dava
er zor Conte oggni matina?
La carità cche nnun ze nega ar cane.
Cquarche ppezzo avanzato de gallina,
un piattin de minestra e un po’ de pane.
E ppe ttutto
sto sono de campane 1
sce s’aveva d’annà ppuro in cuscina,
che mmanco è a ppiana-terra, ma arimane
sei scalini ppiú ggiú de la cantina.
Io nun
parlavo mai perch’ero muto,
ma jjeri che scottava la cucuzza
nun me potei tiené de strillà ajjuto!
Che bbella carità
de la Merluzza! 2
Perché Ddomminiddio m’ha pproveduto
de parlà, cc’è da fa ttutta sta puzza! 3
La donna,
inzino ar venti, si è ccontenta
mamma, l’anni che ttiè ssempre li canta:
ne cressce uno oggni scinque inzino ar trenta,
eppoi se ferma llí ssino a cquaranta.
Dar
quarantuno impoi stenta e nnun stenta,
e ne disce antri dua sino ar cinquanta;
ma allora che aruvina pe la sscenta, 2
te la senti sartà ssubbito a ottanta.
Perché, ar
cressce li fijji de li fijji,
nun potemmo èsse ppiú ddonna d’amore,
vò ffigurà da donna de conzijji.
E allora er
cardinale o er monzignome,
che jj’allissciava er pelo a li cunijji,
comincia a rrescità da confessore.
La donna
tiè un’usanza bbenedetta,
che inzinenta che ttrova a ffà l’amore,
s’ingeggna cor pennello e ccor colore,
e cco pperucche, e stoppa e vvita stretta.
Ma appena li
sciafrujji 1 de toletta
nun smòveno 2 ppiú er cazzo a ggnisun core,
incomincia a ddà ll’anima ar Ziggnore,
e a ttrincià 3 ll’antre donne co l’accetta.
Nun dico
ggià che ssi le carne mossce
svejjassino a cquarcuno l’appitito,
lei se schifassi d’allargà le cossce;
nò,
vviengo a ddí che Ccristo è appreferito,
perché a Rroma oggni donna lo conossce
che ppe le vecchie è ll’urtimo partito.
Hai le
paturne, 1 eh Pimpa? 2 Me dispiasce,
perché ho da fatte una dimanna bbuffa:
si mmai sciavessi con tu’ bbona pasce
’no scampoletto de patacca 3 auffa. 4
Già lo
sapevo: tu nun zei capasce
de fà ggnisun servizzio a cchi nun sbruffa. 5
E io dirò ccome che disse Arbasce:
duncue, reggina, addio: tiecce 6 la muffa.
Nun è
vvero ch’io sii duro de reni: 7
propio nun ciò un bajocco, da cristiano, 8
pe ppoté ffatte 9 l’accession 10 de bbeni.
Ma ssenza la
tu’ chiavica de Fiano, 11
cuanno me sento li connotti pieni
cqua cciò ddu’ freggne auffa, una pe mmano.
Io nun
zò, mmojje mia, tanto merlotto,
ma mme sò ttrovo co le spalle ar muro. 1
Propio er giudisce, lui, venne ar casotto! 2
Che jj’avevo da dí? «Sse servi puro». 3
E cce vorze
fà er conto, er galeotto!
Me diede du’ zecchini e un pezzoduro;
e llassò er zervitore de sicuro
pe ffàsseli aridà ssotto cappotto. 4
Puntuale er
decane 5 torcimano, 6
come le ggente se ne furno ite,
me fesce un ghiggno e ppoi stese la mano.
Che cce
vòi fà? sò stoccate 7 pulite,
trucchi d’abbilità, 8 stile romano.
Ma, ar meno, ce darà vvinta la lite.
Te disse 1
de quer giudisce de ddio 2
che ppe ffà un ber presepio ar zu’ regazzo
s’aggranfiò 3 un giorno in ner casotto mio
’na caccoletta 4 de trentun pupazzo?
Tu
ggià de scerto te sei creso 5 ch’io
doppo quer fatto, senz’antro strapazzo,
guadaggnasse la lite cor giudio:
e ppe l’appunto ho gguadaggnato un cazzo.
Quer fariseo
co la su’ faccia pronta
m’appoggiò 6 ’na sentenza da mascello,
e cciò avuto accusí cciccia pe ggionta. 7
Ma ssenti mó
cche ggalantomo è cquello,
e la ggiustizzia sua si 8 cquanto conta:
me sò appellato, e l’ho vvinta in appello.
Già le
sapemo tutte le cuarelle 1
che smòveno 2 cqua e llà li ggiacubbini;
ch’er Governo è una torre de Bbabbelle:
che tutto l’ojjo va ne li lumini: 3
ch’er
Zantopadre è un capo d’assassini:
che dder popolo suo ne vò la pelle:
che cquanno l’omo nun ha ppiú cquadrini
l’arricchisce cor cressce le gabbelle:
che cqua
ssemo in ner Ghetto de la Rua: 4
che li sudditi porteno l’imbasti, 5
e ’r vino se lo bbevono uno o ddua...
Che?! Aspetta
6 ar Papa de toccà sti tasti,
perché ne sa ppiú er matto a ccasa sua
ch’er zavio a ccasa d’antri: 7 e cquesto abbasti.
Ccusí
vviengheno a ddí li ggiacubbini
ar Gran Zommo Pontescife Grigorio:
«Che tte fai de li Stati papalini
dove la vita tua pare un mortorio?
Va’, e
tt’upriremo palazzi e ggiardini,
t’arzeremo una statua d’avorio,
te daremo un mijjone de zecchini,
te faremo stà ssempre in rifettorio».
Ma er Papa a
sta bbellissima protesta
de palazzi, de statua e mmijjone
je dà st’arispostina lesta lesta:
«Vojantri me
pijjate pe ccojjone.
Io sempr’ho inteso ch’è mmejjo èsse testa
d’aliscetta che ccoda de sturione». 2
Lo capisco
ch’er monno è ppien de guai
e cch’è un logo de pianto e ppinitenza;
ma ppenà ssempre e nnun finilla mai
roppería puro er culo a un’Eminenza.
Se fa ppresto
a pparlà; mma, cculiscenza 1
tu cche me fai ste chiacchiere me fai,
tu cche pprèdichi all’antri la pascenza,
di’, cquanno viè la vorta tua, tu ll’hai?
Va’ ssempre
co li stracci che mme vedi:
cammina pe la fanga co sta bbua 2
de scarpe che mme rideno a li piedi: 3
campa ’ggni
ggiorno co un bajocco o ddua;
e ppoi penza de mé cquer che tte credi,
e ggòdete la fremma a ccasa tua.
Nu lo posso
soffrillo, nu lo posso:
me fa vviení li frauti 2 da l’abbíla. 3
È ricco-maggna, 4 e ttiè un landàvo 5 addosso
che dde li bbusci n’averà ssei mila!
Lui, pe
ffà er brodo, drento in de la pila
sai che cce bbulle oggni matina? un osso.
Mette er vino in dell’acqua pe ttrafila, 6
e ppe ingannà la vista addopra er rosso.
E ccià
ddu’ viggne poi, du’ svojjature, 7
che ggireno tre mmijja in tonno in tonno:
tiè una bbella ostaria for de le mure:
e mmó ha
ccrompato da padron Rimonno
cuer gran negozzio suo de le vitture
pe Ttivoli, Subbiaco, 8 e ttutto er monno. 9
Chiara, pijja
er mi’ rosso, e ffamo un ovo,
che ddoppo, ar tempo suo sc’eschi er purcino.
Guarda, er chicchirichí 1 sgrulla 2 er cudino:
su, ppollanchella 3 mia, mettete ar covo.
Nu lo vedi,
Chiaruccia, er m’arimovo 4
c’ha ggià arzata la penna ar mannolino? 5
Alò, damo du’ bbòtte a mmarruncino: 6
arm’e ssanto, e accusí mme l’aritrovo! 7
Che ddichi de
l’inferno?! Ahú ggabbiane 8
che vve dànno a d’intenne che Pprutone
facci li matarazzi co ste lane!
Senti che
nnova sc’è: «Ffior de limone,
si Ccristo nun perdona a le puttane,
er paradiso lo pò ddà a ppiggione». 9
Semo stati a
vvedé ssu a la Rescèli 1
er presepio, ch’è ccosa accusí rrara,
che ppe ttiené la ggente che ffa a ggara
ce sò ssei capotori 2 e ddu’ fedeli. 3
L’angeli, li
somari, li cammeli,
si li vedete, llí stanno a mmijjara:
c’è una Grolia 4 che ppare la Longara; 5
e cce se pò ccontà lli sette sceli. 6
Indietro
sc’è un paese inarberato 7
dove sarta sull’occhi un palazzino,
che ddev’èsse la casa der curato;
e avanti, in
zu la pajja, sc’è un bambino,
che mmanco era accusí bbene infassciato
er fío de Napujjone 8 piccinino.
S’ha da
lodà li frati perché ffanno
cuer presepio che ppare un artarino. 2
Tu lo sai che ssò ffrati, e vvai scercanno
si sta notte arimetteno er bambino!
Io voría che
pparlassi cuer lettino,
cuele stanzie terrene indove vanno;
e vvederessi, ventotto de vino, 3
che lo vonno arimette tutto l’anno.
Ggià,
cche spesce
che ggodeno sti poveri torzoni,
je se gonfi la groppa a la verdacchia?
Ortre c’ar
rivedé li bbardelloni, 6
e a l’ingrufà ssi ccapita una racchia, 7
è un gran commido annà ssenza carzoni!
Oggni
cuarvorta ch’io metto er barbozzo 1
ar finestrino der confessionario
sotto a cquer ber cuadruccio der Carvario,
m’acchiappa un ride 2 da strozzamme er gozzo:
perch’è
una sscena de sentí un pretozzo, 3
che ppare che sti’ a ssede ar nescessario,
damme 4 una terza parte de rosario,
e ddí tt’assorvo poi per quant’un bozzo. 5
Er rosario lo
dà ppe ppinitenza:
ma cche cc’entra cuer bozzo in confessione?
Propio nun c’entra un cazzo, abbi pascenza.
Guasi guasi
io diría 6 c’ha un po’ rraggione
chi sse l’intenne co la su’ cusscenza
invesce de pijjà st’assuluzzione.
Citazzione o
riscetta, in concrusione
me la fesce 1 spiegà dda lo spezziale.
Disce: 2 «Hai d’annà da un cert’Abbate Tale, 3
ch’è ’r curiale contrario, ar Confalone». 4
Io me faccio
inzeggnà strada e pportone,
vado, me scibbo 5 otto capi de scale,
bbusso, viengheno a uprí, cchiedo er curiale,
e jje dico: «Ch’edè sta Citazzione?».
Lui la
guarda, e ppoi disce: «Ah nun zò io
che cqua vviè pper legabbile, 6 ma cquello
che sta in cuest’antro studio accost’ar mio».
Inteso tanto,
io me caccio er cappello
a st’omo pieno de timor de Ddio;
perch’è ggiusto: oggni aggnello ar zu’ mascello. 7
Pe
ccarnovale, hai ’nteso, Madalena,
c’antra cazzata 1 fanno a Ttordinona? 2
Una commedia ggnente bbuggiarona,
che jj’hanno messo nome Anna Bbalena! 3
Eh? sse
pò ddà una cosa ppiú ccojjona?
Eppoi fa spesce 4 si la ggente mena!
Ma ccome s’ha da mette su la sscena
una Bbalena-in-musica in perzona?!
Disce 5 che
ssta bbestiola piccinina
un re sse l’era presa pe pputtana,
e ppoi la fesce incoronà reggina.
Nun ciamanc’antro
6 mó, ppe ddilla sana, 7
che annassi er Papa, e ccoll’acqua marina
je la fascessi diventà ccristiana.
Appena er
Papa disse chiaramente
che, ssenza arimedià ssubbito ar male,
la Santa-Sede annava a lo spedale,
cuanno nun je pijjassi un accidente;
de posta
oggni prelato e ccardinale,
oggni patrasso e oggnantra bbona ggente, 1
cùrzeno 2 tutti cuanti istessamente
co la lingua de fora ar Qui-orinale. 3
E ttutti,
incomincianno dar Vicario,
disseno 4 ar Papa: «Io do la mi’ abbazzia
pe rriempicce 5 er vòto de l’orario». 6
Cuest’è
una storia che nnun è bbuscía.
Sor Indovinagrillo 7 der Diario, 8
dite la vostra, c’ho ddetto la mia. 9
Strilleno le
province tutte cuante
ch’er zor Papa, a l’impieghi, arza la feccia;
e ’r zor Papa fa orecchia da mercante, 1
e llassa pivolà 2 lla crapareccia. 3
Va bbe’
cc’oggni Prelato oggi è ggargante, 4
ma è ppuro gran faccenna penzareccia 5
de trovà un prete che nnun zii bbirbante.
Tempo de caristia, pane de veccia. 6
Ecchete 7
poi perché nnoi poverelli
ciavemo da iggnottí 8 ttutti sti cardi,
ch’er zor Papa poteva prevedelli.
Mó li vorebbe
fà ppassi gajjardi:
ma ssó ccastell’in aria sti castelli.
Farà un buscio nell’acqua: 9 è ttroppo tardi.
È vvero
che nnoi semo sderelitti, 1
ma ccosa ha dda fà er Papa co sta freggna 2
de debbiti, de smosse 3 e dde delitti
tutto pe vvia de sta settaccia indeggna?
Dico, cos’ha
da fà? Pprova, s’ingeggna,
va ttra una goccia e ll’antra, 4 attacca editti,
opre e sserra bbottega, impeggna e speggna,
s’ajjuta co l’apparti e cco l’affitti. 5
Però,
ppe quanto dichi e cquanto facci,
pe cquanto s’arranchelli
la pietra nun ze move, e ssò affaracci.
Ah! ddisse
bbene un omo che ddisceva
c’oggi l’editti cqua ssò ttutti stracci
che un Papa mette e un stracciarolo leva.
Sò
inutile, 1 fijjolo, sti lamenti:
s’ha da sentille a ddoppio le campane. 2
Er Papa sce vorría tutti contenti,
ma sbajja tra la pecora e ttra er cane.
Li proverbi e
’r Vangelo sò pparenti:
si ttu li vòi scassà cche cciarimane?
Ggià sse sa cche cchi ha ppane nun ha ddenti,
e cchi ha ddenti a sto Monno nun ha ppane. 3
Che cqua li
somaroni empieno er gozzo
lo disse puro ar Papa un Cardinale,
e cche, invesce, a cchi ssa jj’amanca er tozzo.
E er Papa sto
discorzo pien de sale
lo sentí co la mano sur barbozzo: 4
se stiede zitto, e nnun ze l’ebbe a mmale.
Cuanno se
vede ch’er Governo nostro
cammina senza gamme, 1 e ttira via:
cuanno se vede che mmanco Cajjostro 2
saprebbe indovinà cche ccosa sia:
cuanno er Zommo
Pontescife cià mmostro 3
che cqualunque malanno che sse dia
s’abbi d’arimedià co un po’ d’inchiostro,
co un po’ d’incenzo e cquattro avemmaria:
cuanno se
vede che lo Stato sbuzzica, 4
e cch’er ladro se succhia tutto er grasso,
e ’r Governo lo guarda e nnu lo stuzzica;
tu allora che
lo vedi de sto passo,
di’ cch’er Governo è ssimil’a una ruzzica, 5
che ccurre cure sin che ttrova er zasso.
Vedenno er
Papa come se sta ffreschi
pe ccausa de la smossa 1 framasona,
ha cchiamato una frotta 2 de todeschi
pe gguardajje a Bbologgna una corona.
E ddoppo, lui
che ssa ccosa se peschi 3
pe nnun perde lo Stato a la carlona,
ha ingozzato una frotta de Franceschi, 4
che jje ne guarda un’antra in faccia a Ancona.
E ddoppo, er
russio, er brussio e ll’ingresino
manneranno tre ffrotte pe ppescetta 5
a gguardajje la terza a Ffiumiscino. 6
E intanto, in
mezzo a Rroma bbenedetta
je guardeno er triregno e uno e ttrino
li Carbonari 7 ar porto de Ripetta. 8
Disceva er
Papa a cchi jje stava intorno:
«Ah ffijji, fijji mii, fijji mii cari,
me pare ar fine ch’è arrivato er giorno
che smorzamo li moccoli
Ggià
stanno pe arivà li Carbonari
pe ccòscese 2 da loro er pane ar forno.
Dunque addio, fijji mii, fijji mii rari:
io scappo; e appena che vvò Iddio, ritorno.
Cqua le mi’
carte. Questo è ’r passaporto:
cuesto è ’r carteggio co Ddio bbenedetto:
cuesta è la fede der Papato corto. 3
Cuella der
bon costume? È in carta bbianca.
Cuella der mi’ bbattesimo? Sta in Ghetto. 4
Cuella de stato libbero? 5 Ciamanca». 6
Vojantri sete
ggente c’a sto Monno
ce sta in celi scelòrimi 1 e ppiú ppeggio.
Nò, ar primo 2 sò ccurriali de Colleggio: 3
cuelli de Rota 4 viengheno ar ziconno:
l’Innoscenziani
5 ar terzo; e cquesti ponno
piú dell’antri fà stragge e sscenufreggio; 6
sibbè 7 cc’abbino tutti er privileggio
de sporverà 8 la bborza de chi vvonno.
Cqua,
vvieniteme appresso ar tribbunale,
crape 9 che nun capite un accidente,
e gguardate che cc’è ssu ppe le scale. 10
Li vedete
cuer boia e cquer paziente?
Lo sapete chi ssò? Cquello è un curiale
che scortica la pelle d’un criente.
Quinto nun
ammazzà: ccusí ttiè scritto
su la guainella 1 oggni uffisciar 2 der Papa,
che, ssi li manni
in dodisci nun tajjeno una rapa.
Pe vvia 4
che ammazzà er prossimo è ddelitto,
e in cammio 5 è ggrolia 6 de sarvà la capa,
7
er Vicario de Ddio, ch’è un omo dritto, 8
mette in guardia a le pecore una crapa. 9
Oggnun de
st’uffisciali, duro duro,
co cquelli bbaffi de gatto-mammone,
pare dí: er monno nun è ppiú ssicuro.
Ma ss’hanno
sto tantin de protenzione, 10
come er protenne e ddà la testa ar muro
nun ze nega a ggnisuno, 11 hanno raggione.
Cuarchiduno 3
l’inzorfa. 4 Ar primo editto 5
er Zanto Padre fesce troppo er vappo 6
pe sbiancasse 7 accusí. Cquest’antro aggrappo 8
in un Papa saría troppo delitto.
Nun bastava
ch’er zale era in affitto, 9
che mmó a lo sgarro 10 sce s’accressce er tappo?!
Per dà a cquattro assassini un antro impappo 11
s’arifrigge la carne a cchi ggià è ffritto?!
Che sserve
che ttre ggiorni l’appartista
l’abbi ancora da dà ppe cquer che ccosta,
si ll’orzarolo 12 nun lo tiè ppiú in lista?
Armanco,
13 pe le lettre de la posta,
li ricchi o pponno fanne 14 una provista,
o scrive sempre e nnun pijjà risposta.
Hai ’nteso in
de l’editto 1 si cche ggnocchi 2
fa ingozzà er Papa ar popolo fedele?
Che snerbature co ttutti li fiocchi 3
che mmanco se daríano a Ssammicchele? 4
Mó vvò
mmaggnà st’antri pochi bbajocchi.
Ma ggià, cchi ne la panza sce tiè er fele,
nun ce vonn’antro che bbabbussi e alocchi
per aspettasse che jje cachi er mele.
Te laggni! ma
ssicuro che mme laggno,
e la bbocca che cciò 5 nnun me la cuscio:
ogn’editto che vviè, ssempre compaggno!
Eppoi, cosa
te credi? co sto sfruscio 6
de chiacchierate e dde gabbelle, un raggno,
ch’è un raggno, nun lo cacceno dar buscio. 7
Dico: 1
«Se pò pparlà ccor Padr’Ilario?».
Disce: «Per oggi no, pperché cconfessa».
«E ddoppo confessato?» «Ha da dí mmessa».
«E ddoppo detto messa?» «Cià er breviario».
Dico: «Fate er
servizzio, Fra Mmaccario,
d’avvisallo ch’è ccosa ch’interessa».
Disce: «Ah, cqualunque cosa oggi è ll’istessa,
perché nnun pò llassà er confessionario».
«Pascenza»,2
dico: «j’avevo portata,
pe cquell’affare che vv’avevo detto,
ste poche libbre cqui de scioccolata...».
Disce:
«Aspettate, fijjo bbenedetto,
pe vvia che, cquanno è ppropio una chiamata
de premura, lui viè: mmó cciarifretto». 3
Vedi: cuer
Chiricozzo sciorcinato 2
mó bbasciava la man’ar Zagrestano:
cuesto la bbascia mo ar Zotto-curato;
e cquesto mó la va a bbascià ar Piovano.
Cuesto la
bbascia ar zu’ Padre Guardiano,
e cquesto ar Provinciale, c’ha bbasciato
la mano ar Generale, che la mano
bbascia lui puro ar Vescovo e ar Prelato.
E ’r Vescovo
e ’r Prelato è ttal e cquale,
ché, ppe bbascià la mano, cure addietro,
com’un can da mascello, ar Cardinale.
E a cchi la
bbascia sto fijjol d’un mulo?
La bbascia ar Zanto-Padre su a Ssan Pietro.
E ’r Papa a cchi la bbascia? A Bbasciaculo. 3
Le funzione
eccresiastiche, Compare,
è vvero che ssò ttutte a bommercato;
ma ssu ccertune nun ciò mmai fiatato, 1
e ccert’antre me pareno caggnare.
Te pare poca
bbuggera, te pare,
ch’er Papa prima d’èsse incoronato
s’abbi da mette a ssede ariposato
co le chiappe der culo in zu l’artare? 2
E ’r par de
bbasci c’oggni cardinale
j’àpprica llí ttramezzo a le colonne,
me saperessi dí cquello che vvale?
Te lo
dich’io, si ttu nun zai risponne.
Sò una zuppa coll’acqua 3 tal e cquale
che cquanno se sbasciucchieno tra ddonne.
Me
pèrdeno er rispetto perché io
porto la riverèa 1 da servitore?
Ma ddiino tempo, ch’er padrone mio
sta llí llí pp’èsse fatto monziggnore.
E ggià
mm’ha ddetto che, ssi ppapa Pio
pe un par d’anni de ppiú ccampa e nnun more,
lui spera ggià cco l’agliuto de Ddio
d’avé er cappello e arimutà ccolore.
Poi, chi ssa?
un callo e un freddo... un freddo e un callo, 2
co ste leggne che cqui sse fa la soma:
tutto dipenne da Monte-Cavallo. 3
E allora
disce 4 che mme dà er diproma
de cavajjer de Roma e Pportogallo, 5
pe ffamme arispettà dda tutta Roma.
Cosa só li
prelati eh, cavarcante?
Cosa sò li padroni eh? ll’hai sentito
che ttestament’ha ffatto cuer gargante, 2
cuer zomaraccio carzat’e vvestito?
Paga in vita
ar marito de Violante,
e a mmé cche ssò ppiú anziano der marito,
e jj’ho ffatto da bboja e dd’ajjutante, 3
nun me lassa nemmanco er bonzervito! 4
A Rromaccia
bbisoggna èsse cornuto,
bbisoggna avé ppe mmojje le miggnotte,
pe vvédese provisto e bbenvorzuto. 5
Bbasta, lui
’ntanto s’è ito a ffà fotte, 6
e io sò vvivo. Cor divin agliuto, 7
cuarche ccosa farò: ffeliscia notte. 8
Chi ddisce
mal de tutti, e nnun arriva
a ddistingue ricotta da caviale:
chi mmette tutt’assieme in un pitale
la ggente bbona e la ggente cattiva;
pe llevajje
er veleno a la saliva
bbisoggnería portallo a ’no spedale
dov’hanno scritto mó ss’un Cardinale
’na lapida de marmo in pietra viva.
Si ffussi
piena de bbuscíe de pianta, 1
la ggente ggià sse ne sarebbe accorta,
perché dde sscema nun ce n’è ppoi tanta.
Li cardinali
sò ttutti una torta;
e sse ne pò ttrovà ssino a ssettanta
deggni de lapidalli uno a la vorta.
S’io fussi
ricco, e avessi case cuante
finestre aveva er Duca Mondragone, 2
e vvolessi caccià un appiggionante
che sse schifassi de pagà ppiggione;
mica
lavorería de scitazzione
pe appiccicamme addosso er visscigante
d’un mozzorecchio e un giudisce cojjone,
che ssò ccome ch’er boja e ll’ajjutante:
invesce der
curzore co la frasca 3
mannería ’n archidetto a l’abborita 4
a ddí: «Scappate, ché la casa casca».
E ar momento
avería casa pulita:
perché ll’omo nun stima antra bburrasca
che cquella che lo cojje in de la vita.
M’aricconta
Raponzolo, 2 er lacchè
de l’Incarcato d’Astra, 3 che mmó cqui
è vvienuta una Russia 4 dar Qui-e-llí, 5
che vva ggiranno er Monno in zabbijjè. 6
Oggni ggiorno
lei pijja otto caffè
mogano 7 vero, e ddiesci er luneddì:
e cquelle notte che nnun pò ddormì,
tiè ttutti svejji pe ssentì cc’or’è.
Sta matta
immezzo ar cèlebbre 8 nun vò
mmarito, pe nnun fasse indomminà, 9
e nnun pò vvede 10 l’ommini, nun pò.
E ppe ggode 11
la vita in libbertà,
co li su’ gran quadrini inzino a mmó
va ffascennose 12 un Feto 13 pe ccittà. 14
Jer notte, a
mmezzanotte, su a Ccimarra, 2
aggnédero 3 pulito
e ffésceno un ber buscio in ner portone
de cuer bravo maestro de chitarra.
Sfilato che
ppoi n’ebbeno la sbarra,
j’entronno in casa senza suggizzione;
e jje portonno via tutto er mammone, 5
ammazzanno lui prima pe ccaparra.
Cuesto lo so
ppe bbocca de Noscenza, 6
serva der morto, c’arimase viva
agguattànnose sotto a una credenza.
Ma ssò
ccose da fasse in commitiva?
Nun fuss’antro, dich’io, l’impertinenza
d’ammazzà un galantomo che ddormiva!
Sarebbe
bbuffa che stanno 2 ar finale
der giubbileo 3 de Pascua Bbefania, 4
mó jje vienissi st’antra fernesia 5
de progorallo
Direbbe
allora pe la parte mia
ch’er Zanto-Padre nostro è ssenza sale,
e cch’er Romano lo conossce male
levannoje sti ggiorni d’allegria.
Adesso
c’oggni cosa va a ccartoccio, 7
sciamancherebbe 8 puro 9 un Papa sscemo
che inibbissi quarc’ora de bbisboccio! 10
Pe cquesto er
Campidojjo 11 lui medemo
currerebbe a Ssampietro a ppregà er Boccio 12
de dacce la liscenza che rridemo. 13
Nun ce se
crede ppiú! ssemo arrivati
a un tempo accusí iniquo e accusí ttristo,
che la mannàra 1 cqui dde Papa Sisto
nun potería purgà ttanti peccati.
Cuali popoli
antichi hanno mai visto
ammascherasse 2 li preti e li frati?!
E ar vedé sti vassalli ammascherati
nun z’ha dda dí vviscino l’Anticristo?
Che sserve
che la Cchiesa inviperita
li chiami indietro a ssòno de campane,
si la su’ vosce nun è ppiú ssentita?
Che sserve
sii la mmaschera inibbita
a ffrati, preti, chirichi e pputtane,
e all’antre ggente de cattiva vita? 3
Vedi cuer
Cazzabbúbbolo, 1 commare,
che nnun c’è pporta uperta che cce capa,
e, ccor cappello in zur boccino, 2 pare
un gigante co un fongo s’una rapa?
Cuello
è un cappone senza cuajjottare: 3
cuello è un crastato 4 con vosce de crapa; 5
cuello nun è ccommare né ccompare;
ma un mezzo maschio, un musico der Papa.
Eppuro
è pprete; e cco cquer zu’ voscino
pò ddí mmessa, si ttiè ne li carzoni
du’ granelli incartati ar borzellino.
Perché
dícheno tutti li Canóni 6
che Ccristo nun pò annà ssur pane e ’r vino
che a la vosce che vviè dda li cojjoni.
Ssí, mme l’ha
ddetto er confessore mio;
e un omo che nun crede ar confessore
nun speri, per cristaccio, cuanno more,
d’avé la grazzia der perdon de Ddio.
Si nun ce
credi tu, cce credo io
da bbon cristiano e indeggno peccatore:
e aringrazzio Ggesú dde tutto core
de nun avé la fede d’un giudio.
Ssí, mme l’ha
ddetto er mi’ Padre Curato
com’e cquarmente sce sò ttante e ttanti
che ffotteno cor diavolo incarnato.
E lleggenno
le vite de li Santi,
se trova chiaro ch’è dda sto peccato
che ssò nnati in ner Monno li Ggiganti. 1
Su’ Eminenza,
pe cquanto l’investivo,
nun vorze damme 1 mai ggnisun conforto.
Quello però cche nnun ha ffatto vivo,
dímo 2 la verità, ll’ha ffatto morto.
E cchi
spacciassi mó cch’era cattivo,
direbbe male e jje farebbe torto;
perché, è vvero, er zussidio è un po’ stantivo,
ma ttratanto sti stracci oggi li porto.
E ppoi
c’è stato er moccolo 3 e ’r papetto 4
pe ddijje 5 un tesprofunni 6 attorn’attorno
ar catafarco che ppareva un letto.
Tutti sti
lugri 7 nun zò mmica un corno: 8
e cce vorebbe che Ddio bbenedetto
se raccojjessi 9 un Cardinale ar giorno.
Tra le spalle
d’un sguizzero 1 e un curiale,
sibbè 2 cc’avessi tutto er corpo pisto,
jeri, a Ssampietro, er gran Ponte-ficale,
pezzo sí, ppezzo nò, ttanto 3 l’ho vvisto.
E vvedde 4
quanno ar Papa un Cardinale,
cor una faccia da bbecco futtristo, 5
salito sopr’ar trono cor piviale,
je diede un bascio come Ggiuda a Ccristo.
Questo se
chiama dà la pasce, 6 Meco; 7
ma ssi cche 8 ppasce a li Papi viventi
diino sti rossi pò ccapillo un ceco.
Ché mmentre
er Papa che li vò ccontenti
se spènzola pe ddijje er zu’ Pasteco 9
loro, in core, risponneno: «Accidenti».
C’è a
Rroma un Omo, ch’io, si nnu lo sai,
nun te potrebbe confidà cchi ssia:
sortanto te dirò cch’è ddotto assai,
e vviè ggiú dda la costa der Messia.
Cuest’omo
granne, trovannose in guai
pe vvia de cuella porca guittaria, 1
ha inventato un rimedio, che ttu mmai
nun l’hai sentito in cusscenzina mia. 2
Lui
scià 3 un palazzo, che dda scirca a vventi
secoli frabbicò 4 ccert’archidetto
che cce vorze 5 alloggià lli disscennenti.
Lui duncue a
sto palazzo che tt’ho ddetto,
je fa adesso levà lli fonnamenti
pe ffacce 6 un antro piano sopr’ar tetto.
Sta scopa
nova, ch’entranno ar governo
sce 2 voleva arricchí ttutt’in un botto, 3
per urtimo cudino der cazzotto 4
mó cce bbuggera a ttutti in zempiterno.
Sarà
una prova de core paterno
de chiamà un ladro e dd’affittajje er lotto:
sarà cquer che vvò llui; ma mme ne fotto
ch’io co st’apparto 5 cqui ggiuco ppiú un terno.
Fascenno
l’appartista er zu’ mestiere,
chi rriccapezza ppiú ccucca né nnosce 6
tra ll’astrazzione 7 farze e cquelle vere?
De fufiggne 8
tra er nummero e la vosce
già nne fasceva tante er tesoriere!
Penza cosa pò ffà cchi ppiú jje cosce! 9
Propio
è una smania de trincià la pelle
de sti servi de ddio cuer dinne 2 tante!
Se chiama propio un volé ffà l’entrante
sopra le cose senza mai sapelle!
Guarda su
cquella porta cuanti e cquante
poverelli affamati e ppoverelle
preparà li cucchiari e le scudelle
pe la bbobba 3 avanzata ar zoccolante.
Senza li frati,
che ttu cchiami avari,
come farebbe inzomma a ttirà vvia
sta frega 4 de scudelle e dde cucchiari?
Sèntime:
infin che cc’è una porteria
che ss’opri a ssatollà li secolari,
nun pò vvédese ar monno caristia.
Preso cuer
bottoncin de sol-limato 2
che mme diede sta bbestia de spezziale,
m’incominciai de posta
e ffesce 4 tra de mé: ssò ccuscinato. 5
Subbito curze
6 er Medico, er Curato,
e ddu’ abbatacci o ttre dder tribbunale:
e ppoi me straportonno
dove addrittura fui sagramentato.
Lí,
Ddolovico, principiorno a spiggne 8
co li vommitativi, 9 e ddoppo a ddajje 10
co li purganti, e ppoi co le sanguiggne.
Venti libbre
de sangue! eh? cche ccanajje!
L’esercito der Papa nun ce tiggne
la terra manco in trentasei bbattajje.
Cuesto
oggnuno lo sa: ppila intronata
va ccent’anni pe ccasa: 1 e tte l’ho ddetto.
Mó mm’accorgio 2 però cch’er poveretto
sta vviscino a ssonà lla ritirata. 3
Già
ffin dar tempo che sposò Nnunziata
le scianche je fasceveno fichetto; 4
e ffinarmente s’è allettato a lletto
perch’era ppiú ll’usscita che ll’entrata.
Nun
tiè ppiú ffiato da move le bbraccia:
e cchi lo va a gguardà ssu cquer cusscino,
je vede tutta Terrascina
Io metterebbe
er collo s’un quadrino
che nnu la cava: e ggià la Commaraccia
secca de Strada-Ggiulia 6 arza er rampino. 7
Come! nun
zentì mmessa?! Ah ggaleotti!
Nun zapéte che Iddio, chi nnun ha intese
ner monno o ttrenta o ttrentun messe ar mese,
l’imbrïaca de llà dde scappellotti?
Che
ddiscurrete de ggeloni rotti,
cuanno che ppe ddiograzzia a sto paese
sò assai meno le case che le cchiese:
cuanno le Messe cqui ffanno a ccazzotti? 1
Ve pare
questa mó vvita cristiana,
sori bbrutti fijjacci de mi’ mojje,
pe nnun divve 2 fijjacci de puttana?
La Santa
Messa è uguale che la bbiada;
perché ddisce er cucchiere, che cce cojje, 3
che Mmessa e bbiada nun allonga strada. 4
Nostròdine
1 cor zanto Madrimonio 2
sem’iti a vvisità Ssanta Pressede, 3
e ddoppo a Ssammartino, 4 e ddoppo a vvede 5
a bbenedí le gubbie a Ssant’Antonio. 6
Er prete era
cuer pezzo de demonio 7
de don Pangrazzio, e stava in cotta in piede
a aspettà cco l’asperge 8 che la fede
je portassi le bbestie ar mercimonio.
Porchi,
somari, pecore, cavalli,
s’aïnaveno 9 tutti in una turma,
pieni de fiocchi bbianchi, e rrossi e ggialli.
E ddon
Pangrazzio, fascenno 10 una toppa 11
de quadrini, strillava a cquella sciurma: 12
«Fijji, la carità nnun è mmai troppa».
Domani se
santifica a Ssan Pietro
un zanto stato frate a Ssan Calisto,
che ssu li santi pò pportà lo scetro,
e ha ffatto ppiú mmiracoli de Cristo.
Tra ll’antri,
a un ceco, duscent’anni addietro,
che accattava oggni ggiorno a Pponte Sisto,
lui je messe 1 un ber par d’occhi de vetro,
e dda cuer giorn’impoi scià ssempre visto.
‘Na donna
senza gamma de man manca 2
se maggnò la su’ effiggia in ner pancotto,
e in men d’un ette je spuntò la scianca. 3
A un’antra
donna j’apparze in cantina,
e jje diede tre nummeri p’er Lotto:
lei ggiucò er terno, e vvinze una scinquina.
Fra tutti li
miracoli ppiú bbelli
er mejjo è dder Beato Galantino,
che ddiede er volo a uno spido d’uscelli
bbell’e arrostiti ar foco der cammino.
Come vedde
volà li su’ franguelli,
figurateve l’oste fiorentino!
Dicheno c’arrivò ppe rritenelli
sino a offrí ar Zanto un mezzo bbicchierino!
«Nun zerve
che mme preghi e cche mme guardi»,
rispose er Zanto: «io parlo verbus-verbo. 1
P’er vino, co li debbiti ariguardi,
lo bbeverò
ppe nnun paré ssuperbo:
ma ppe l’uscelli, fijjo caro, è ttardi.
Vanno a Ssan Pietro, 2 e ggià stanno a Vviterbo».
Cos’è
er braccio de Ddio! mannà un fischietto 1
contr’a cquer buggiarone de Golia,
che ssi n’avessi avuto fantasia,
lo poteva ammazzà ccor un fichetto! 2
Eppuro,
accusí è. Ddio bbenedetto
vorze mostrà ppe ttutta la Ggiudia 3
che cchi è ddivoto de Ggesú e Mmaria
pò stà ccor un gigante appett’appetto.
Ar véde 4
un pastorello co la fionna,
strillò Ggolia sartanno in piede: «Oh ccazzo!
sta vorta, fijjo mio, l’hai fatta tonna».
Ma er fatto
annò cch’er povero regazzo,
grazzie all’anime sante e a la Madonna,
lo fesce cascà ggiú ccome un pupazzo.
Te fischieno
l’orecchie? 2 Oh vva’ le teste! 3
E a mmé, ssi ccasomai, me rode er naso. 4
Tu in testa sciài li scrupoli: io le creste. 5
Potemo sbarattà ccaso pe ccaso.
Le cose noi
le famo leste leste,
nò, Titta? Tu ssei bbirbo e fficcanaso:
io me metto li panni de le feste: 6
du’ còccole, 7 e tte faccio perzuaso.
Chi mmena er
primo lui mena du’ vorte:
duncue, all’erta, ch’io sò llesto de mano,
e li cazzotti li provedo a sporte.
Nun ha da
preme
si mmi’ mojje me fa lle fusa-torte.
Eppoi, che cc’è da dí? Nnassce un cristiano.
Accidenti,
per dio! cuesta è la prima
che mm’è ssuccessa in ventott’anni e mmezzo.
Cosa ve dole ? v’ho llevato un pezzo
de nobbirtà? vv’ho dditto una bbiastima? 2
Pe ddu’
parole che ssò entrate in rima
fate sta puzza, 3 e jje roppete er prezzo, 4
dànnome 5 der gruggnaccio verd’e mmezzo, 6
cuanno oggnuno Iddio sa ccosa me stima!
A mmé ttisico
marcio! a mmé cceroto!
a mmé stinchetto co cquarc’antra cosa,
che vve conzòli un fir 7 de terramoto!
Io c’ho una
guancia tanta appititosa,
che ssi viè Rraffaelle Bbonaroto
la pijja a ccalo 8 pe ccolor de rosa!
Sentite,
fijja mia: voi sete bbona,
sete bbella, e accusí vvia discurrenno; 2
ma cche abbiate da dà ssempre in canzona,
sta bbuggera, per cristo, io nu l’intenno. 3
A mmé
mm’abbasta un’intoccata, un zenno,
pe indovinà cche ccampanella sona.
Io capisco per aria, e nnun me venno 4
pe cquello che nun zò, 5 ssora cojjona.
S’io pe
ccianche 6 ho ddu’ ossi de presciutti,
nun c’è bbisoggno de fà ttante sciarle:
oggnuno abbadi a ssé: Ddio penza a ttutti.
E vvoi che a
zzirlivarli e zzirlivarle 7
v’infagottate du’ costati assciutti
che nun c’è dda sazzià mmanco le tarle?
Duncue sto
sor Maestro Sgazzerallo 1
er Romano lo pijja per un gonzo 2
cuanno sce 3 vò appettà ppe pprimo bballo
er gioco der cerino e ddon Alonzo. 4
Sarà
ppropio un ber véde un pappagallo 5
de marcià a ppiede e a cavallo ar bigonzo!
Anzi, s’io fussi in lui, pe annà a cavallo
je metterebbe la bbardella a un stronzo.
E ppoi, pe
cconciabbocca, Dio sagrasco, 6
sc’è la bbalena
la ggionta de tre ggobbi de ricasco. 8
Ma ccazzo! un
gobbo è un gobbo, e cquer che vvòi;
ma indove trovi un gobbo de damasco, 9
si ssò ttutti de carne com’e nnoi?!
Er riscritto
disceva: Antonio Ulivo
sino da ggiugno scorzo è ggiubilato.
Dunque io curze a pijjà er cuantitativo,
che ffasceva er currente e ll’arretrato.
Disce:
«Indov’è la fede der curato
che ffacci vede che vvoi sete vivo?»
«Oh bbella! e io chi ssò, ssiat’ammazzato,
io che parlo, cammino e ssottoscrivo?».
Guasi m’era
vienuta bbizzarria
de ddajje er calamaro
com’attestato de la vita mia.
Nun je stavo
davanti a cquer burzuggno? 2
Pascenza avessi avuto fantasia
d’avé una prova ch’ero vivo a ggiugno.
Passò
er tempo che nnoi tresteverini
co la ggiacchetta in collo e ’r fuso in mano,
arrivàmio 2 inzinenta a li confini
de le chiappe der Monno, e ppiú llontano.
Ar giorno
d’oggi er popolo romano
pare una nuvolata de moschini,
che, ssi vvai a vvedé lli bburattini,
n’acciacchi mille sbattenno le mano.
Povera Roma,
a cche tte serve er fuso?
Pe ffilà le carzette a un cardinale!
anzi nemmanco t’è ppiú bbono a st’uso.
Pe vvia che
ttutta la corte papale
vò robba foristiera; e intanto ha er muso 3
de facce 4 pagà a nnoi cuello che vvale.
Antro che
rrobbi-vecchi!, antro c’aéo! 1
Don Diego c’ha studiato l’animali
der Muratore, 2 e ha lletto co l’occhiali
cuanti libbri stracciati 3 abbi ar museo,
disce ch’er
Ghetto adesso dà li palj 4
pe vvia c’anticamente era l’ebbreo
er barbero de cuelli carnovali
a Testaccio 5 e ar piazzon der culiseo. 6
Pe ffalli
curre, er popolo romano
je sporverava 7 intanto er giustacore
tutti co un nerbo o una bbattecca
E sta curza,
abbellita da sto pisto,
l’inventò un Papa in memoria e in onore
della fraggellazzion de Ggesucristo.
Sbozza 2
pissciona, che cco cquer scuffiotto
me pari un mostacciolo de Subbiaco, 3
cosa te vai sciarlanno co Cciriàco
ch’io stammatina sò ccotto e stracotto? 1
Pe un po’ de
bbrillo 1 e ttrillo 1 e dd’allegrotto
te la potría passà, mma nnò ubbriaco.
Senti l’erre: 4 io de té mme ne stracaco,
e strafrego, e strabbuggero, e strafotto.
Vòi
’n’antra prova tu cche nnun è vvero
ch’io sii sporpato? 1 io sciò la provatura 5
d’un bon cavicchio da slargatte er zero. 6
Nò,
nnò, ciumàca, 7 nun avé ppavura:
pe tté ppuro un’armata è un monistero.
La tu’ schifenzaría te fa ssicura.
Chi
vvò ssapé er re Ddàvide chi ffu,
fu er Casamia 1 der tempo de Novè, 2
che pparlava co Ddio a ttu pper tu,
e bbeveva ppiú vvino che ccaffè.
Chi ppoi
cuarc’antra cosa vò ssapé,
vadi a ssentí la predica ar Gesú, 3
e imparerà che pprima d’èsse re
era un carciofolà 4 dder re Esaú. 5
E a cchi nun
basta de sapé ssin qui,
e cquarc’antra cosetta vò imparà,
legghi la Bbibbia, si la pò ccapí;
e
imparerà ch’er re ccarciofolà
dar zàbbito inzinent’ar venardí
je piasceva un tantino de fregà.
Tante bardòrie
1 e ttanti priscipizzi
pe vvia c’oggni du’ preti un paro fotte!
Tutti li mappalà 2 ttutte le bbòtte
a sti poveri còfeni
Cuann’è
un vizzio er fregà, bbrutte marmotte,
dateme un omo che nnun abbi vizzi:
diteme cuale cazzo nun z’addrizzi
fra ttanto pipinaro 4 de miggnotte.
Doppo che
Iddio lo sa cquanto fatica,
ha dda invidiasse 5 ar prete poverello
cuer boccon de conforto d’un’amica?!
No: ssi
vvoleva Iddio dajje 6 er cappello
a lluminetto, e llevajje la fica,
l’averebbe creato senz’uscello.
Figurete a
sto morto si cche mmorto 1
j’hanno trovato in cassa li nipoti!
Da cuann’era prelato io m’ero accorto
che llui tirava a incummolà mmengoti. 2
Tutti ladri
sti santi sascerdoti
sin c’ar monno je va ll’acqua pe ll’orto: 3
cuanno crepeno poi, tutti divoti
pe strappà da San Pietro er passaporto.
Co cquattro
Messe spalancajje er celo?!
sarebbe com’a ddí: Ccristo è imbriaco,
o nnun za legge er libbro der Vangelo.
Un ricco in
paradiso? io me ne caco.
Piú ppresto crederebbe 4 c’un camelo
fussi passato pe ’na cruna d’aco.
Cuante mai
riliggione sce sò 1 state
da sí cche mmonno è mmonno, e cce ponn’èsse,
cristiani mii, sò ttutte bbuggiarate
da nun dajje un cuadrin de callalesse. 2
Tutte ste
freggne, 3 com’ha ddetto er frate,
s’annaveno a ffà fotte 4 da se stesse,
cuann’anche Iddio nu l’avessi fregate 5
co ’na radisce che sse chiama Ajjesse. 6
Noi soli semo
li credenti veri,
perché ccredemo ar Papa, e ’r Papa poi
sce 7 spiega tutto chiaro in du’ misteri.
L’avvanti 8
er turco, l’avvanti er giudio
un’antra riliggione com’e nnoi,
da potesse 9 maggnà ddomminiddio!
Morte scerta,
ora incerta, anima mia.
La Morte sa ttirà ccerte sassate
capasce de sfasscià ll’invetrïate 1
inzino ar Barbanera e ar Casamia. 2
Contro er
Ziggnore nun ze trova spia;
epperò, ggente, state preparate,
pe vvia che Ccristo cuanno nun sputate 3
viè ccome un ladro 4 e vve se porta via.
Li Santi, che
ssò ssanti, a ste raggione
je s’aggriccia la carne pe spavento,
e jje se fa la pelle de cappone.
Un terremoto,
un lampo, un svenimento,
un crapiccio 5 der Papa, un cazzottone,
pò mmannavve a ffà fotte in un momento.
Panza ha
scannato Meo, ma ssur lommetto 3
ccià 4 ttre bbusci lui puro, e jje va mmale;
e ttrattanto ha ordinato er tribbunale
stii pe ssicure carcere in der letto.
Io lo vedde 5
passà pp’er Cavalletto 6
cuanno lo straportonno
Era in ne la bbarella tal’e cquale
c’un morto steso drento ar cataletto.
Titta crese 8
c’annassi 9 troppo forte,
e cquer tritticamento 10 de bbudella
te je potessi accaggionà la morte.
Nun me
vienghi a pparlà llui de bbarella
a mmé cche cce sò ito tante vorte:
sce 11 se va mmejjo assai ch’in carrettella.
Doppo che ppuro
st’anno ggentirmente
er Zanto Padre e ’r Cardinal Vicario
ciaveveno 2 accordato un po’ de svario 3
pe ttienecce 4 du’ ggiorni alegramente
c’è
una commedia 5 che nun za de ggnente,
che ssaría mejjo a rrescità er rosario.
Tutto pe cquella piggna 6 d’impressario, 7
che nnun vò spenne 8 pe ppagà la ggente.
È una
testa-de-ferro! e cche mme preme?
Io, cuanno er fin de’ conti è uno strapazzo,
metto le cause tutte cuante inzieme.
Scropí er
culo pell’antri 9 è dda regazzo:
se guarda er frutto e nnun ze guarda er zeme.
Testa de ferro! di’ ttesta de cazzo!
Me
s’aricorda, sí, mme s’aricorda:
fu una sera der mese de frebbaro,
propio er giorno che ddiédeno la corda
ar padre de Sciamorro er tinozzaro.
Noi
entrassimo 1 inzieme a Ppallaccorda, 2
che ss’accenneva allora er lampanaro,
e llassassimo 3 llí cquela bbalorda
de fora a sbattajjà 4 ccor chiavettaro. 5
Che ggusto
d’annà a spenne 6 li cuadrini
pe stà ddrent’a un parchetto sola sola
co ttutti li su’ fijji piccinini!
Nun pareva la
Mastra co la scola?
Nun pareva la bbiocca e lli purcini?
Nun pareva er baril de San Nicola?
Nonna, a li
tempi ch’èrimo frittura 1
e jje sfilamio 2 la conocchia e ’r fuso,
se schiaffava 3 una mmaschera, e cco st’uso
sce 4 fasceva stà bboni e avé ppavura.
Me capischi?
È ll’età cquella che scuso:
cos’ha da fà una povera cratura
cuanno sta sgangherata 5 prelatura
nun pò vvéde 6 le mmaschere sur muso?
Leva cuer po’
de mmaschere, che rresta
der Carnovale? un torzo lisscesbrisscio, 7
un urinale che nnun abbi vesta.
Ma sti
cazzacci cqui ppieni de pisscio
ar Papa j’arivòrteno 8 la testa
come fussi una bboccia ar gioco-lisscio. 9
Avevo sempre
inteso ch’è ppeccato
no cquello ch’entra in bocca, ma cquer ch’essce.
Vedenno 2 che sto pessce indemoniato
ne li ggiorni de magro sempre cresce: 3
essennome a
l’incontro 4 immagginato
ch’er maggnà ttartaruche è un maggnà ppessce,
io le maggnavo in pasce; ma er Curato
m’arispose sta pascua: «M’arincressce».
«Ma cquesta,
padre mio, me sa un po’ d’agro: 5
li Pavolotti 6 nun faríano 7 peggio,
c’hanno da cuscinà ssempre de magro?»
«Fijjo caro,
voi dite un zagrileggio:
nun è llescito a vvoi d’entrà in ner zagro:
si 8 lle maggneno loro, è un privileggio».
’Na setta de
garganti 2 che rrameggia 3
e vvò ttutto pe fforza e cco li stilli:
un Papa maganzese 4 che stangheggia, 5
promettènnosce 6 tordi e cce dà ggrilli.
’N’armata de
todeschi che ttraccheggia
e cce vò un occhio a ccarzalli e vvestilli: 7
un diluvio de frati che scorreggia
e intontissce 8 er Ziggnore co li strilli.
Preti
cocciuti ppiú dde tartaruche:
edittoni da facce 9 un focaraccio:
spropositi ppiù ggrossi che ffiluche:
li cuadrini
serrati a ccatenaccio:
furti, castell’in aria e ffanfaluche:
eccheve
Bbasta, o
ccorpa der forno, o dde la mola,
er fatto sta cche la paggnotta ar forno
sce la danno ppiú ppiccola oggiggiorno
de cuelle de San Biascio e Ssan Nicola. 1
Tratanto er
Papa se ne va in cariola,
e dde tutti sti guai nun ne sa un corno:
ché ppe la lega der zu’ bber contorno
nun je se pò appuntà mmezza parola.
Le bbettole,
li forni, li mascelli,
strilleno ar lupo, 2 e sconteno li torti
cor zangue de noantri 3 poverelli.
E nnoi
c’avemo li cuadrini scorti, 4
tenémose 5 da conto li cortelli,
che de sti tempi sò zzecchini storti. 6
Cos’è,
ccorpo de ddio, sor caffettiere,
c’ancóra nun me date sti grostini?
Volete véde 1 c’agguanto 2 un bicchiere
e vve lo fo vvolà ssu li dentini?
Ma vvarda 3
sti fijjacci d’assassini
si cche bber modo d’abbadà ar mestiere!
Io viengo cqui a ppagà li mi’ quadrini,
e vvojj’sse servito de dovere.
Sicuro, sor
cazzeo, che ddico bbene:
sicuro, sor mustaccio 4 de falloppa,
che mme se scalla er zangue in de le vene.
Cuann’uno
spenne, 5 una parola è ttroppa;
duncue mosca, 6 per cristo, e ppoche sscene,
o vve faccio iggnottí 7 sta sottocoppa.
Li grostini
cor tè! Vvoi sete franco:
ebbè? cce vojjo li grostini, cazzo:
e li vojjo pe mmé e ppe sto regazzo;
e li vojjo de ppiú dde pane bbianco.
Io so cche
ll’arte mia nu la strapazzo:
sto ar banchetto pe ttutti, e nnun j’amanco;
e nnun fo ccom’e vvoi, che ddrent’ar banco
stat’a mmette li conzoli in palazzo.
Scrive!
Guardate llí cc’arifreddori! 1
Scrive! E ttratanto nun ze tiè dde vista
a cquer c’hanno bbisoggno l’aventori!
Che mme ne
fotte 2 de la vostra lista?!
Cuanno avevio pe scrive sti furori,
ve dovevio impiegà ppe ccomputista.
Oh, adesso
che vvienite co le bbone,
è un antro par de maniche, 1 fratello.
Mo vve sò schiavo, ve caccio er cappello,
se toccamo er cinquanta, 2 e vva bbenone.
Cqua nnun ze
fa ppe ddí, ccore mio bbello...
Ecco llí: la capischi la raggione?
Oggnuno ha le su’ propie incrinazzione:
a cchi ppiasce la trippa, e a cchi er budello.
Tu ffai er
caffettiere, e tte strufini
le deta su l’inchiostro: io ’r carzolaro,
e mme va a ggenio er tè cco li grostini.
Io nun ho
ggnisun odio ar calamaro:
lo dichi lui 3 che vva ssu li puntini, 4
perch’io nun vojjo er zangue mio 5 somaro.
Io nun tiengo
de fijji antro che cquesto:
duncue vojjo ch’impari a llegge e a scrive;
e accusí mmai j’amancherà dda vive,
e averà in culo er monno e ttutt’er resto.
Bbast’a
ffà le su’ cose sbrigative:
bbast’arzasse a bbon’ora, e èsse lesto,
timorato de Ddio, lescit’e onesto,
e attento a nnun pijjà ppieghe cattive.
Tratanto io
piaggno sempre; e ttra cquarc’anno
io servo grazziaddio tant’avocati,
che in cuarche llogo me l’imbusceranno. 1
Provisto er
fijjo, coll’occhi serrati,
e ssenza sturbo de ggnisun malanno,
dormirò li mi’ sonni ariposati.
Io e ll’asino
mio!
ve sce ficcate voi pe Ccacco immezzo. 2
In ogni freggna 3 sce mettete un pezzo
der vostro, e jj’appricate la scimosa. 4
Ma,
ffratèr caro! e ssete stato avvezzo
co sto po’ dd’arbaggía 5 prosuntüosa?
Tutto sapete voi! ggnente ha la dosa, 6
si pprima voi nun je mettete er prezzo!
«Io vado, Io
viengo, Io dico, Io credo, Io vojjo:
l’ho ffatt’Io, l’ho vvist’Io, sce sò annat’Io...».
pe ttutto sc’entra l’Io der zor Imbrojjo.
Chi ssete
Voi? la tromma der Balío,
er Papa, Marc’Urelio in Campidojjo, 7
la Santa Tirnità, Ddomminiddio?!
Cencio
aggnede
Vespa d’Olanna 2a poi sartò de bbotto
pe ddecane 3 cor Duca Sasso-cotto, 3a
che ss’incattolicò pe ssentí mmessa.
Doppo un anno
passò cco la Duchessa
Scefallova 3b a ttienejje 4 uno sscimmiotto:
poi lo pijjò cquer gran Prencipe dotto
de Piggnatosta 4a pe la su’ Contessa.
Ma
ggià, dda cuanno perze 5 Napujjone, 5a
e scappò vvia Quitollis, 5b era stato
lacchè dder General Lavacojjone. 5c
E ffinarmente
adesso è accommidato
co cquella prencipessa de Bbarbone, 5d
che sse sposò cco un nostro intitolato. 5e
Er padre
è ggiubbilato
de la reggina morta de le Trujje,
che ss’è ttrova
E, ssi
vvòi l’allelujje
de sto bber zarmo e dde sti nomi matti,
in Piammonte 7a tiè un zio co Sciacquapiatti: 7b
senza che tte
commatti 8
a ssapé cche cquest’antro è un’anticajja 9
der Cardinal Dejjorgheni 9a e Ssonajja. 9b
Ih che ha
rrubbato poi?! tre o cquattr’ombrelli,
cuarc’orloggio, e cquer po’ de fazzoletti.
Pe cquesto s’ha dda fà ttutti sti ghetti 1
com’avessi 2 ammazzato er Reduscelli?! 3
Bbe’,
è lladro; ma li ladri, poveretti,
nun z’hanno da tiené ppiú ppe ffratelli?!
Si Cchecco è un lupo, indove sò l’aggnelli?
Nun c’è ch’er zolo Iddio senza difetti.
Tant’e
ttanti, Eccellenza, a sto paese
arrubbeno pe ccento de mi’ fijjo,
e ssò strissciati, 4 e jje se fa le spese!...
Io sempre je
l’ho ddato sto conzijjo:
«Checco, arrubba un mijjone; e ppe le cchiese
sarai San Checco, e tt’arzeranno un gijjo».
Ar Monno s’ha
da dí bbene de tutti,
lodalli, 1 e rricoprinne 2 li difetti:
e nnò a mmezze parole e a ddenti stretti,
ma a bbocc’uperta e pparoloni assciutti. 3
Cuanno se
parla d’ommini frabbutti, 4
bbisoggna sostené cche ssò angeletti:
si un giorno, in paradiso, fra ll’eletti,
volemo aritrovà bboni costrutti. 5
E nnun
fà ccome Cchecca 6 la Ghironna 7
che ttajja e ccusce, 8 e ttirerebbe ggiune 9
de la virginità dde la Madonna:
mentre che
ppoi laggiú a le Scinque-lune 10
(nun zii pe mmormorà) la bbona donna
se fa ffotte 11 dar popolo e ’r commune.
Ma ccome ha
da stà bbene, sciorcinato, 2
cuanno, per cristo, è bbestemmio 3 dar vino?
Ognicuarvorta che nun va appoggiato
casca si ll’urta un’ala d’un moschino.
Ha le
grandole 4 gonfie, è accatarrato,
nun tiè mmanco ppiú un pelo in ner cudino,
campa de melacotte e ppangrattato,
e sta ppiú ssecco che nnun è un cerino.
Avess’io la
patacca 5 de dottore,
lo metterebbe 6 ar zugo de la bbótte,
pe ffallo 7 aringrassà ccome un ziggnore.
Vorrebbe
imbriacallo ggiorno e nnotte,
ché dd’incaconature 8 nun ze more:
e jje direbbe 9 poi: «Vatte a fà fotte».10
’Na notte
diluviosa de ggennaro
a Ggrillo er zediaretto a Ssan Vitale
tutt’in un botto j’ariprese er male
dell’omo-bbestia, der lupo-manaro.
Ar primo
sturbo, er povero ssediaro
lassò la mojje e ccurze 2 pe le scale,
e ssur portone diventò animale,
e sse n’aggnede
Tra un’ora
tornò a ccasa e jje bbussò;
e cquela sscema, senza dí cchi è,
je tirò er zalissceggne, 5 e ’r lupo entrò.
Che
vvòi! appena fu arrivato sú,
je s’affiarò
la sbramò 7 ssenza fajje dí Ggesú. 8
Lui je lo
disse: 9 «Tu
bbada de nun uprí, ssi nun te chiamo
tre vvorte, ché ssi nnò; Rrosa, te sbramo».
Cuanno aveva
sto ramo 10
d’uprì, ppoteva armanco
dajje una chiave femmina addrittura. 12
Vedessi 2
er zor Cajella 3 spirlongone, 4
er zor Palamidone 5 stennardino, 6
come stava a smiccià 7 cco ll’occhialino
er babbio 8 e ’r fiocco de le mi’ padrone?
Vedessi
cuanno fesce er bell’inchino,
e cco le granfie 9 de gatto mammone
se cacciò er fongo 10 for der coccialone, 11
che jje sce venne appresso er perucchino?
Che zzeppi
tiragrosi 12 eh? ma cche zzanne!
che zzoccoli! 13 che stinchi! che llenterne! 14
Nun pare una tartana a Rripa-granne? 15
La padroncina
mia nu lo pò sscerne 16
e ssi 17 lo sposa, pover’omo a ccanne!
Rivedemo la storia de Lioferne. 18
Porco bbú e
vvia, 1 tu cce sei stato a ccena,
e a mmé ’na pulentina rada rada
m’ha da serví de semmola e de bbiada, 2
e mme fai puro 3 la cantasilena! 4
E cche!
mm’hai trova
io che tte fo da Marta e Mmadalena?! 6
Ma abbada 7 veh, pporcaccio a ppanza piena,
c’una le paga tutte, Angiolo: abbada.
Io sto a
ccroscetta, 8 e llui torna acciuffato 9
co ’ggni sorte, pe ddio, de mastramucci! 10
Ah! nnun fà 11 ccorna a tté ppropio è ppeccato!
Sta’ attenta,
fijjo, 12 perch’io sarto er fosso. 13
Hanno ggià uperto l’occhi li gattucci: 14
io fo tiratte 15 er cazzo ar pettorosso. 16
Né de mé né
de té ssanno 2 ste carte,
st’editti de gabbelle e ggiubbilei,
ste ladrerie, sti ggiubbilate-dei 3
dove er Papa vò ssempre la su’ parte.
Aveva ppiú
ggiudizzio Bbonaparte,
che ssenza tanti ggiri e ppiaggnistei
disceva ar monno: «Questo tocca a llei»;
e bbuggiarava tutti a uso d’arte.
Er Papa
è ccerto una perzona dotta,
ma ’ggnicuarvorta prubbica una legge,
fa ccome la padella: o ttiggne, o scotta. 4
Ccusí: 5
Vviva er Pastor, viva la gregge,
viva er cucchiere e ll’animal che ttrotta,
viva chi scrive e bbuggiarà cchi llegge.
Voi sete
furistiere, e nnun zapete
come a Rroma se cosceno le torte. 1
Un omo cor cappuccio 2 è ccome un prete
che jje piasce d’avé ppiene le sporte. 3
Cuanno a
pportà li morti voi vedete
o er Zoffraggio, o le Stimite, o la Morte, 4
avete d’abbadà, ssor coso, avete
si er fratellume canta piano o fforte.
Nun v’ha da
intenerí la pinitenza
der zacco, de la corda e dde li zoccoli:
cuelle sò ttutte smorfie d’apparenza.
Li fratelloni
nun zò ttanto bbroccoli 5
da seppellí li morti pe ccusscenza:
ma cce vanno p’er peso de li moccoli.
Jeri venne da
mé ddon Benedetto
pe ffamme 1 arinnaccià cquattro pianete;
e vedenno un riarzo drent’ar letto,
me disse: «Sposa, 2 cqua cche cce tienete?
Io j’arispose
che cciavevo er prete 3
pe nnun stamme
e llui sce partí 5 allora: «Eh, ssi 6 vvolete,
sò pprete io puro»: e cqua fesce l’occhietto.
Capite, er
zor pretino d’ottant’anni
che stommicuccio aveva e cche ccusscenza
cor zu’ bbraghiere e cco li su’ malanni?
Ma ssai che
jje diss’io? «Sora schifenza,
che ccercate? La freggna che vve scanni?
Io non faccio peccato e ppinitenza».
Cuanno te lo
dich’io, credelo, cattera!
Le cose che ddich’io sò ttutte vere.
La serva c’annò vvia da Mastro Zzattera
se fasceva scopà ddar Cancejjere.
Lei lo
fasceva entrà ttutte le sere,
e ssi bbussava lui, 1 la sora sguattera 2
da bbrava puttanella der mestiere
l’annisconneva drento in de la mattera. 3
Una sera
però cche vvenne er Mastro
co la chiave, trovò stesa Luscia
cor pittore a ddipíggnela a l’incastro. 4
Sai che jje
disse lui? «Ggentaccia indeggna,
la mi’ casa nun è ccancellaría
da stipolà strumenti de la freggna». 5
A
Ddommine-covàti sc’è un ber zasso
piú bbianco d’una lapida de latte,
cor un paro d’impronte de sciavatte, 2
che ppareno dipinte cor compasso.
Llí, un
giorno, Ggesucristo annanno
trovò ssan Pietro, che, ppe nnun commatte 4
cor Re Nnerone e st’antre teste matte,
lassava a Rroma er zu’ Papato grasso.
«Dove vai,
Pietro?», 5 disse Ggesucristo.
«Dove me pare», er Papa j’arispose,
come avería risposto l’Anticristo.
Io mó nun
m’aricordo l’antre cose;
ma sso cch’er zasso ch’io co st’occhi ho vvisto
Cristo lo siggillò cco le carcose. 6
O llima,
1 o rraspa, de sei anni o ssette
santa Rosa era sciuca 2 e annava a scola,
e ffascenno 3 la cacca a la ssediola
tirava ggiú mmiracoli a ccarrette.
Ecchete un
temporale! Le saette
fioccheno che cce vò la bbavarola: 4
cuanto scrocchia, per dio, ’na castaggnola 5
dove lei lavorava le solette. 6
Che ffa llei!
stenne un braccio piano piano,
e, ccome fussi un tacco o uno spunterbo, 7
striggne e tt’acchiappa la saetta in mano.
Si 8 era
un’antra, 9 meritava er nerbo;
ma llei co Ddio ciaveva er soprammano 10
santa Rosa de Lima de Viterbo. 11
Come se
pò ddí ppeste de la fede,
cuann’Iddio da li sette tabbernacoli
sce 2 manna 3 tanti santi che ssò oracoli
da fà ppuro dí ssí cchi nun ce crede?
Presempio,
un miracolo solo in tre miracoli,
un spettacolo solo in tre spettacoli,
ché nun zerve a intiggnà: 5 bbisogna scede. 6
Dico tre
ppalle de carne de core,
c’a una, a ddua, a ttre, cchi vva a ppesalle,
peseno sempre un’oncia ar pesatore,
e cchi le
cose sa bbene aggiustalle
disce che nnun pò avé pprova mijjore
la Santa Tirnità 7 che ste tre ppalle.
San
Zirvestro, finiti scerti chiassi,
volenno 1 viení a Rroma a ccose leste,
disse a una bbella mula co le sceste:
«Curre, 2 per Dio, ch’er vento nun te passi».
A la mula je
preseno le creste; 3
e cco ggnente de ppiú che de tre ppassi,
lassanno le pedate su tre ssassi, 4
se ne venne sin qui dda Sant’Oreste. 5
Cristo! Senza
speroni e ssenza brijja,
ma ssolo co la frusta de la fede
pe ’ggni passo volà ssedisci mijja!
Inzomma,
cazzo, la faccenna aggnede 6
che, o sta mula era er diavolo o la fijja,
fesce er viaggio in tre ssarti, 7 e spregò un piede.
La Bbibbia,
ch’è una spesce 1 d’un’istoria,
disce che ttra la prima e siconn’arca
Abbramo vorze 2 fà dda bbon Patriarca
n’ojjocaustico
Pijjò
dduncue un zomaro de la Marca,
che ssenza comprimenti e ssenza bboria
stava a ppassce 4 er trifojjo e la scicoria
davanti a ccasa sua come un Monarca.
Poi
chiamò Isacco, e ddisse: «Fa’ un fasscetto,
pijja er marraccio, 5 carca er zomarello,
chiama er garzone, infílete er corpetto,
saluta Mamma,
scercheme 6 er cappello;
e annamo via, perché Ddio bbenedetto
vò un zagrifizzio che nnun pòi sapello».
Doppo fatta
un boccon de colazzione
partirno tutt’e cquattro a ggiorno chiaro,
e ccamminorno sempre in orazzione
pe cquarche mmijjo ppiú dder centinaro.
«Semo
arrivati: aló, ddisse er vecchione,
«incòllete er fasscetto, fijjo caro»;
poi, vortannose in là, ffesce 1 ar garzone:
«Aspettateme cqui vvoi cor zomaro». 2
Saliva
Isacco, e ddisceva: «Papà,
ma dditeme, la vittima indov’è?».
E llui j’arisponneva: «Un po’ ppiú in là».
Ma cquanno
finarmente furno sú,
strillò Abbramo ar fijjolo: «Isacco, a tté,
faccia a tterra: la vittima sei tu».
«Pascenza»,
disce Isacco ar zu’ padraccio;
se bbutta s’una pietra inginocchione,
e cquer boja de padre arza er marraccio
tra ccap’e ccollo ar povero cojjone.
«Fermete,
Abbramo: nun calà cquer braccio»,
strilla un Angiolo allora da un cantone:
«Dio te vorze 1 provà co sto setaccio...».
Bbee, bbee... Cchi è cquest’antro! 2 è un pecorone.
Inzomma,
amisci cari, io ggià ssò stracco
d’ariccontavve er fatto a la distesa.
La pecora morí: fu ssarvo Isacco:
e cquella
pietra che mm’avete intesa
mentovà ssur piú bbello de l’acciacco,
sta a Rroma, in Borgo-novo, in d’una cchiesa. 3
Sentite bbene
a mmé, ssora Terresa:
è in ne le feste ppiú pprivileggiate
che sse vede le ggente bbattezzate
si 2 ssanno li proscetti 3 de la Cchiesa.
È
cquello er tempo de fà bbona spesa:
cuello è ’r tempo de fà bbone maggnate.
Senza dorci, 4 e ppappine, e ccioccolate
Iddio se l’averebbe pe un’offesa.
La Cchiesa in
du’ parole se la sbriga;
e ppe spiegacce 5 er gusto der Zignore
disce: Servite dommine in lettiga. 6
Nun vedessivo
7 er giorno de Natale
che bber pranzetto scelebbrò er Priore
co vventinove preti e un cardinale?
Sí, ll’ho
ssentit’io puro 1 all’Orfanelli 2
sta gran messa a ccappella co li sòni
d’obboli, 3 de trommette, de trommoni,
de violini, violoni e vvioloncelli.
E nnun
zò 4 mmejjo assai li ritornelli 5
su cquelli nostri cari calasscioni,
che ssentí ’na gabbiata de capponi 6
che 7 tutt’er bono è nnun avé ggranelli?
E llui che
stava immezzo a dajje sotto
co la bbotta obbrigata, nun pareva
che imminestrassi 8 l’ojjo der cazzotto?
Co cquer zu’ muso
color de sciscerchia
dava a la sorfa sua 9 ’na scerta leva,
come discessi: 10 «A vvoi, tanta de nerchia!». 11
Sor Luca,
manna
che jje mettete le riscette in pronto,
pe vvia c’adesso che nnun sta ppiú mmale
vò vvede 4 tutto e vvò ssardà 5 ll’ammonto.
Disce accusí
che nnun je fate er tonto: 6
che cce seggnate puro er zervizziale,
ma cche pperantro in ner mannajje 7 er conto
nun je mannate un conto da spezziale, 8
E
ssoprattutto je preme mortissimo 9
che in test’ar conto pe pprimo capitolo
nun je date la bbotta d’illustrissimo;
perché nnun
ve vorrebbe mette a ccoppia
cor Medico, che ddannoje 10 sto titolo
j’ha vvorzuto 11 appoggià lla tassa doppia.
La donna che
nnun vò, vàttela a ffrega!
Mica er fregà ssò ffiaschi che ss’abbotteno.
Tutte le fiche ar Monno che sse fotteno
s’hanno perché nnun c’è cchi tte le nega.
Le donne che
nun vonno uprí bbottega
sò sserpe, furie, arpíe, tizzi che scotteno:
te sgraffieno la faccia, te scazzotteno...
chi ttrova er buscio pe scopalle? Bbrega? 1
E Mmaria de
le Grazzie? e la Madonna?
Sta in Chiesa a Pport’Angelica er quadretto
cor Pē-Gē-Rē 2 che jj’attaccò una donna.
Lei sta
ddipinta a ccossce larghe a lletto,
e un omo co una mano su la monna
tiè cco ddu’ deta 3 un ber garofoletto. 4
Santa Pupa
è una santa che ddavero
je peseno, pe ccristo, li cojjoni; 2
e appett’a llei tanti santi bbarboni
nun zò, 3 Terresa, da contalli un zero.
Va a ddí a li
fijji tui che ssiino bboni!
Lo so io co li mii si mme dispero,
e mme spormóno 4 er zanto ggiorno intiero:
senza de lei Dio sa li cascatoni!
Eppuro,
je vedi mai una cannela accesa?
j’opre ggnissuno un buscio de cappella?
Furtuna e
ddorme: 6 ecco ch’edè, 7 Tterresa;
e ssan Pietro, che ddiede in ciampanella, 8
ruga, e ttiè er culo in cuer boccon de cchiesa!
Già,
ttu ssei stato sempre un miffarolo:
dichi la verità ccome le riffe.
Ma de sta cosa sola io me conzolo,
che nnun ce cucchi ppiú cco le tu’ miffe.
Cuesta nu la
diría manco Bbargniffe:
sta bbuggiarata la pòi dí ttu ssolo.
Levate mano, via, dateje er ziffe,
sor carotaro mio, sor fuffarolo.
Ma ddavero
sce tienghi senza testa,
pe vvienicce a ccarzà st’antra sciavatta,
che ll’antichi adoraveno una Vesta?
Oh annateve a
ccercà cchi la sbaratta!
Oh vvienite davanti a mmezza festa,
e ddatela a d’intenne ar Padre Patta.
Te maravijji
e vvai discenno in piazza
ch’er Curato vò ffatte 2 sposà Tteta,
senza volé ccapí cche la regazza
l’ha ddata a ttutti pe ccipoll’e bbieta. 3
Che spesce 4
t’ha da fà ssi tte strapazza
un tiranno che pporta la pianeta?
Che spesce t’ha da fà cc’abbi sta razza
la test’uperta 5 come una segreta?
Co cquesti
vàcce cor bemollo, 6 amico.
Co li preti nun giova er bell’umore:
abbada a cquer che ffai veh, Ddoluvico. 7
Vòi
vince 8 er punto tuo senza rimore? 9
Lassa le bbrutte, 10 e ffa cquer che tte dico:
impiómmelo, 11 per dio: dajje er tortore. 12
Te ggiuro,
Iggnazzio, ch’è ffaccenna seria
co sti du’ prelatacci de la bbua: 1
è ccosa propio da sputà un’alteria 2
p’èsse 3 pagati de la robba sua.
Oggniggiorno
se trova sta miseria
che stanno in Coro a ccantà ttutt’e ddua:
Dommine mea melappia mea aperia
e ttòssa mea nun z’abbi in laude tua! 4
Li preti,
dichi tu, ssò bburattini!
Sò bburattini un cazzo, perché cquelli
nun rubbeno a ggnisuno li quadrini.
E cquesti
hanno li cori e li sciarvelli 5
pe ffà mmejjo la parte d’assassini,
e bbuggiarà li poveri fratelli.
Li bburattini
nun maggneno pane
e nnun beveno vino a ttradimento,
li bburattini nun vanno a pputtane,
e nnun danno a ggnisuno farzamento. 1
Cuelli, per
dio, nun zoneno campane
pe ffà er cristiano futtuto e ccontento;
e nnun zò 2 ccome st’anime de cane
che vvénneno 3 la crosce e ’r zagramento.
Come, per
cristo! A un omo che jj’avanza,
dàjje 4 la porta in faccia, e curre in Coro
pe llevajje la bborza e la speranza!
Sú, er zangue
de la vita e dder lavoro
dàmolo 5 tutto ar grasso d’una panza.
Mojje, fijji, sorelle: è ttutto loro.
Va bbè
1 dde lamentasse 2 co rraggione,
ma cchi sse laggna a ttorto è un cazzo-matto.
Er Monno è una trippetta, 3 e ll’omo è un gatto
che jje tocca aspettà lla su’ porzione.
Tutto cuer
che cc’è ar Monno, chi l’ha ffatto?
Ggesucristo: lo sa ppuro 4 un cojjone.
Ggesucristo però dduncue è ’r padrone
d’empicce
Ma
Ggesucristo, sor cazzaccio mio,
lo sapete chi è llui? è, ssora sferra,
la terza parte de domminiddio.
Duncue nun
zerve a ffà ttante parole:
si er Zanto-padre è un Gesucristo in terra,
è ttutto suo pe cquanto vede er Zole. 6
Chi discessi,
1 fijjoli, ch’er Papato
a sti tempi è un boccone da invidiallo,
diría 2 spropositoni da cavallo
e ppotria risicà dd’èsse impalato.
Oggi un Papa,
la quale è ddiventato
come chi ppijja carte su lo spallo,
che ssucchia l’ovo 3 come avessi un callo, 4
dev’èsse compatito e nnò invidiato.
E
ddev’èsse accusí, pper dio de leggno,
perché sto servitor de servitori
nun porta per un cazzo 5 er zu’ trerreggno.
Cuello
è un zeggno de pena e dde dolore,
un vero seggno de passione, un zeggno
de la coron 6-de-spine der Ziggnore.
Tu
vvòi sapé pperché li Cardinali
useno cuell’usanza de l’ombrelli,
e pperché ppoi sti settanta fratelli
co l’ombrelli nun porteno stivali?
Cuesti
sò 1 ppe nnoi poveri animali,
e ssò ppe lloro ariservati cuelli,
pe mmostrà cc’a nnojantri 2 poverelli
tocca l’acqua che vviè dda li canali.
E nnun te
pare che ssii vero tutto?
Nu lo vedi c’a nnoi sce 3 piove addosso,
e sti servi de Ddio stanno a l’assciutto?
Ah! pper dio
santo è un ber colore er rosso!
Ma cce vorebbe poco a ffallo 4 bbrutto,
bbruscianno chi lo porta, inzino all’osso!
Ch’edè
1 er colore che sse vede addosso
a ste settanta sscimmie de sovrani?
Sí, ll’addimanno
sangue de Cristo? Nò: dde li cristiani.
È er
zangue de noi poveri Romani
che jje curre a li piedi com’un fosso,
cuanno sce 3 danno in gola cor palosso 4
come se fa a le pecore e a li cani.
Ner zangue de
noi pecore sta a mmollo
cuella porpora infame; e a nnoi sta sorte
tocca, per dio, da presentajje er collo.
Epperò
le patente de sta Corte
sò ttutte in carta-pecora e ccor bollo:
che pprima bbolla, 5 e ppoi condanna a mmorte.
Non
piussurtra, 1 Anna mia: semo a lo scorto: 2
è spiovuto er diluvio de confetti.
Ecco li schertri
l’urtimo soffio. Er carnovale è mmorto.
Già
ssona er campanon de lo sconforto, 4
e ggià st’acciaccatelli 5 pasticcetti 6
vanno a ccasa a ordinà li bbrodi stretti
d’orzo, ranocchie e ccicorietta d’orto.
E ccurri, e
bballa, e bbeve, e ffotte, e bbascia!
Ggià ssò ttutti scottati: ma stasera
da la padella cascheno a la bbrascia. 7
Domani
è la manguardia 8 de le Messe
co la pianeta pavonazza e nnera,
domani ar Mementò-cchià-ppurvissesse. 9
Pe ffà
da bbon cristiano, e sscontà in chiesa
tante scopate, tanti pranzi e ccene,
e ttutte st’antre invanità tterrene,
ho ppreso er cenneraccio a Ssant’Aggnesa. 2
Nun
dubbità che ssò cascato bbene! 3
ch’er prete, forze 4 pe ffamme 5 un’offesa,
in cammio 6 d’appricammene 7 una presa,
m’ha inzuccherato er ggruggno a mmano piene.
Penza si a
mmé, cche nun maggno cresscioni
che mme faccino fà lla pisscia fresca, 8
me s’è scallato er pisscio a li cojjoni!
Figuret’io
che sò come una lesca! 9...
Ma cche vvòi dí? sti preti sò sturioni
che sfassceno le rete a cchi li pesca.
Capite er zor
fischietto, 1 er zor piviere, 1
er zor ciscio, 1 er zor schizzo dilicato, 1
come lavora, 2 come fa er mestiere,
che bber trucchio da dritto 3 j’ha ttirato?!
Prima de
tutto lui s’è incoppolato 4
la fijja fijja-sola 5 der curiere,
eppoi è ito come un cavajjere
a ffà la su’ spontaggna 6 ar Vicariato.
E ’r Notaro
c’ha intesa la faccenna
ne la maggnera 7 che dev’èsse intesa,
subbito carta, calamaro e ppenna!
Brevi-e-sverbi
8 er pivetto 1 se l’è ppresa;
e cco ttutto ch’er padre nu l’intenna,
l’ha sposata a la faccia de la Cchiesa. 9
Io,
fratèr caro, nun ho ggnente ar zole:
campo de bbraccia, e ffaccio er callararo, 1
duncue a llui je vennei 2 ttre ccazzarole,
una marmitta, un cuccomo e un callaro.
Je li diede
ché nnun credevo l’ommini sciriole
da scivolà dde mano ar ciriolaro,
e sbarattajje in faccia le parole.
Ma er fatto
sta che ccorre un mese, corre
un anno, dua, sce 5 vado, sciaritorno…6
Ah, 7 dde verbo pagà nnun ze discorre.
Heh,
ffinarmente, ffratèr caro, un giorno
ch’ero stufo de tutto st’irre orre, 8
prese 9 un curiale e mme lo messe 10 intorno.
Nu l’avesse 1
mai fatto! Sto curiale,
fratèr caro, era un ber baron futtuto;
e ppe mme ssaría stato meno male
de scrive: aút aút, 2 chi ha aúto ha aúto. 3
Cuadrini, je
n’ho ddati co le pale:
tempo, n’ha ppreso cuello c’ha vvorzuto: 4
e ssai com’è ffinita? Er tribbunale
disce c’ho da mostrà cquer c’ho vennuto! 5
Ma ggnente,
fratèr caro: sc’è dde peggio:
sto sor abbate caccia un conto adesso,
un conto, c’hai da dillo 6 un zagrileggio!
Le scentinare
7 se curreno 8 appresso:
e oggni addio che jj’ho ddato a lo spasseggio 9
me sce 10 l’ha mmesso drento pe un congresso.
Davanti a la
ferrata, 1 indove è un mese
ch’io pe ddebbiti aggnede carcerato, 2
stammatina a bbon’ora m’ha affermato 3
un todescotto che mm’è pparzo ingrese.
Disce:
«Cual’è er palazzo der Zenato?».
Dico: «Me pare cuesto ar mi’ paese». 4
Disce: «Cuant’anni sò 5 cch’è ffrabbicato?».
Dico: «Da la repubbrica francese».
Ma ssò
ccuriosi assai sti furistieri!
Disce: «Come se chiama er Zenatore?».
Dico: «Se chiama Don Palazzo Artieri». 6
Disce: «E
cche uffiscio tiè cquesto Signore?».
Io la finii allora: «Ha ddu’ mestieri:
lava le mano ar Papa 7 e sta a l’odore». 8
È
vvero, sí, cc’a Ttordinone 1 er ballo
nun vale manco un pelo de la monna;
ma nnun ze pò nnegà cche cc’è una donna
che ffa ssarti ppiú bbelli d’un cavallo.
E ll’antra
donna co cquer manto ggiallo
ch’essce a ccantà dda dietro a una colonna,
nun ha una bbella vosce da siconna?
nun ha una bbella vosce de metallo? 2
Io, Pepp’er
matto, er Guercio e li du’ osti
sce l’annassimo a ggode 3 jerassera
a un parc’ar sesto che ss’affitta a pposti.
E ddiscessimo
4 tutti a una maggnera: 5
sti canterini cqua ssò ttutti tosti, 6
e dda arzajje 7 una statua de scera.
Sò 2
bbello accusí nnero? eh? ddi’, sò bbello?
Nun paro 3 er Mannataro de la Morte?
Stamo in guai, cammerata, ma in guai forte:
sò ffinite le scene
Er padrone ha
sserrato mezze porte,
e ccià 5 mmesso sto scencio 6 sur cappello,
pe vvia ch’è mmorto er zoscero ar fratello
de la mojje der fijjo de la corte.
Tu nun hai da
guardà ll’Immassciatore
si 7 rride co nnoantri e sse ne fotte:
abbasta che ppe nnoi piaggni er colore.
Tratanto hai
da sapé che sto dolore
ha da durà tre mmesi e mmezza notte:
poi mettemo er coruccio ar cacatore. 8
Nove mesi a
la puzza: poi in fassciola 1
tra sbasciucchi, 2 lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio,
cor torcolo 5 e l’imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia
er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalía, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vvormijjoni. 6
Poi
viè ll’arte, er diggiuno, 7 la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er zol
d’istate, la neve d’inverno...
E pper urtimo, Iddio sce 8 bbenedica,
viè la Morte, e ffinissce co l’inferno.
Tutto dipenne
1 da la luna ar Monno,
cuanno è in frusso e rifrusso co le stelle.
Sempre, tra er primo cuarto e ttra ’r ziconno
l’acqua in celo sce sta tra ppelle e ppelle.
Si 2 ppoi
vedete la luna in ner tonno 3
e le nuvole fatte a pecorelle, 4
potete puro 5 dí, Mmastro Rimonno, 6
ch’er tempo vojji piove a ccatinelle.
Tutte ste
cose me l’ha ddette Antonio,
perché er padrone suo tiè ddu’ strumenti,
chiamati, uno er Tremò, 7 ll’antro er Baronio.
8
Disce che
cquelli dicheno 9 li venti
er callo, er freddo, la neve, er demonio,
e ttutte l’antre sorte d’accidenti.
Li discorzi
sò 1 ccome le scerase,
che ne pijji una e tte viè appresso er piatto.
Accusí li discorzi: uno è l’abbase 2
d’un antro, e un fatto t’arichiama un fatto.
Parlàmio
3 de li frati der Riscatto:
cuesto portò a l’editto su le Case: 4
sto discorzo annò ar zorcio: questo ar gatto:
questo ar Governo, e ssempre ppiú se spase.
Dar Governo
passassimo 5 ar zomaro:
da questo ar Cardinale, e all’ombrellino
rosso che ttiè ppe mmostra e ppe rripparo.
Dar rosso
s’annò 6 ar bianco: e ’r fornarino
disse ch’er Papa bbianco è un mulinaro
che ccerca de tirà ll’acqua ar mulino. 7
Er Papa 1
aveva un dolore puttano
a un dente maggellanico 2 o ccanino;
e ppe sservisse 3 d’un dentista fino,
chiamò dda la Ritonna 4 er Ciarlatano.
Subbito
annò a Ppalazzo er Castellino 5
a vvede er dente guasto der zoprano; 6
e lo cacciò ccor un corpo 7 de mano,
mejjo che ffussi stato un zuccherino.
Nostro
Siggnore, o er Papa, ch’è ll’istesso,
perch’è er padrone de tutta la ggente,
nun vorze un cazzo 8 fà gguardasse appresso: 9
e disse:
«Bravo! nun ciai fatto ggnente: 10
ecchete scento ggnocchi; 11 e ssin d’adesso
te dichiaramo Cavajjer der dente». 12
Cuarche ccosa
sarà. Llei la regazza
ggià è dda Pascua de llà 1 cche cce parlava,
2
sin che la madre, ch’è una donna bbrava,
lo chiamò ssú pperché nnun stassi
E mmó cche
llei je stira e cche jje lava,
lui je sce fa lo stufo e la strapazza:
e llei s’accora, e ppiaggne che ss’ammazza,
che cce l’ho vvista fà ssino la bbava.
Cuant’a
ppijjalla, disce che la pijja;
ma Ddio me perdonassi li peccati
com’avrà dda penà, ppovera fijja!
Abbasta,
madrimòni e vvescovati,
eh? ddico bbene o nnò, ssora Scescijja? 4
sò ttutti cuanti in celo distinati. 5
Cosa dite?!
Io sposà cquela zoppaccia?!
Che?! a mmé cquer Toto-tuppete? 1 sbajjate:
vojjo stajole 2 dritte io pe annà a ccaccia:
me piasceno le scianche 3 arissettate. 4
Avanti de
pijjà ste ssciabbolate 5
io me vorebbe 6 fà ssegà le bbraccia:
vorebbe prima un’indurgenza in faccia
co mmille quarantine 7 de sassate.
Nu la vedi,
per cristo, come ggioca
de griffo e dde risbarzo 8 sta naticchia? 9
nu la vedi, per dio, come arïoca? 10
Nu le scibba 11
mïodine 12 ste freggne
che cce vojji 13 la zeppa e la cavicchia
pe mmetteje d’accordo er zalissceggne. 14
Pijjatela per
oro sta schifenza,
ma pper oro de bbollo 2 veh, oro fino,
oro passato ggiú pp’er Pellegrino, 3
oro colato 4 cor cocciòlo 5 e ssenza.
Ma ssicuro,
è una donna de cusscenza
che nnun diría 6 de nò mmanco ar rabbino;
e ttutt’assieme poi mezzo lustrino 7
è cquello che ppò ffà la pinitenza. 8
L’arte
ggnisuno la sa ppiú de lei,
che ggià ssapeva fà lla puggnettara
pe li portoni de scinqu’anni o ssei.
E dde dodisci
a ppiazza Montanara, 9
tra ccattolichi, e tturchi, e mmanichei, 10
sce 11 curreva inzinenta la pianara. 12
Un gran
predicatore ha ppredicato
oggi a la cchiesa de Sant’Agustino!
Sentime: 1 un antro Padre Remolino
nun c’è oro che ppòzzi 2 èsse pagato.
Pe pperzuade
nun è una cosa bbona, Ggiuacchino,
sto bbon zervo de Ddio parla latino
e sse smazza 4 che ppare un spiritato.
T’abbasti
cuesto cqui, cche a l’improviso
ha ddato sopr’ar purpito un cazzotto
che mm’ha ffatto strillà: «Ppòzzi èsse impiso!». 5
Che aratore,
6 per dio! che omo dotto!
Sino è arrivato a ddí cche in paradiso
nun pò entracce 7 oramai che un cacasotto! 8
Sò
mmorti du’ prelati, 1 du’ angeletti,
du’ ggioje, du’ tesori, du’ modelli:
ma ppropio, credi a mmé, ddu’ santarelli
da métteli 2 p’erliquie
Ereno ar
Monno tanto guittarelli,
che appena hanno lassato, poveretti,
drento a ccerti sfassciumi de cassetti
cento mijjoni, ar piú, dde quadrinelli. 5
E vvòi
sapé li poveri prelati
sti pochi quadrinelli messi a pparte
a cchi in grazzia de ddio l’hanno lassati?
Va a ccerca
drento in ner libbro dell’arte 6
dodisci e ssettantotto, e, cconfrontati,
troverai tanto da sbrojjà 7 le carte.
Cuer Prelato,
1 cuer cazzo de somaro
che mmorze 2 de pulenta 3 francescana,
sappi che llassò arrede fittucciaro 4
don Fregaddio, cuell’antra bbona lana.
Sentito er
testamento der Notaro,
fesce 5 er marito d’Anna la frullana:
«Vòi scommette 6 ch’er prete miggnottaro 7
dà ttutto a cquarche ffijjo de puttana?».
Bbe’, er
prete oggi ha ccacciato una cartuccia
che ddisce: «Io chiamo a tté, ddon Sperandio:
tu cchiama er fijjo che mm’ha ffatto Annuccia».
E er cornuto
mó escrama, 8 e ll’ho intes’io:
«Che bbon prete! ha spiegato la fittuccia 9
tutta in testa de Peppe er fijjo mio».
Cuanno 1
t’ho cchiesto scusa è una sscemenza 2
che ffai 3 sto ghetto 4 e cce bbestemmi Cristo.
Tu ssei puro 5 un regazzo 6 de cusscenza
pe nnun crede 7 un compaggno accusí ttristo.
Cuanno t’ho
ddetto io nun t’avevo visto,
sc’è bbisoggno de bbattesce in credenza? 8
Me te metti de dietro, e ssi tte pisto
li piedi, è ccorpa 9 tua, abbi pascenza.
Subbito che
lo sai che ssei de vetro,
nun ficcamme 10 le zampe tra li piedi,
ch’io sciò 11 ll’occhi davanti e nnò dde dietro.
Eppoi, crede 12
de mé cquello che ccredi;
ma ttu cquanno te bbuggera Don Pietro,
dimme la verità, Nnino, 13 lo vedi?
Che vvolete
voantri 1 pappagalli
stà a mmette pecca
Pe mmé li tempi antichi bbuggiaralli,
ma ppe tteatri Iddio li bbenedichi.
In pratea,
3 nun te dico portogalli,
ma ppotemio 4 maggnà ppuro 5 li fichi,
tratanto ch’er tenore de li bballi
scannava un venti o un trenta re nnimmichi.
Si vvedemio 6
un compaggno in piccionara, 7
lo potemio chiamà dda la pratea,
e, ssenza offenne 8 Iddio, facce 9 caggnara.
Ma mmo sti
schertri 10 e li mortacci loro
sce vorríano
ricuscicce la bbocca all’aco d’oro. 12
Che
vvò’ annà! Ttordinone 1 è una porcara
che mme pare er teatro de le palle: 2
va’ a Crepanica: 3 è cchiuso. Va’ a la Valle,
e nnun ce trovi ppiú la piccionara. 4
Pe
ccocciòli 5 viè ffora una caggnara
de lanternini-a-ojjo de le stalle! 6
Ar zoffione 7 je schiaffeno a le spalle
un zoffiettone da soffià la fiara! 8
Vò’
annà in pratea? te danno un bullettino
che ppe ttrovatte er posto hai d’annà a scola
e imparatte a l’ammente l’abbichino! 9
Llí ppoi come
un pupetto in vesticciola,
sbarrato fra ddu’ tavole e un cusscino,
fai la cacca e la pisscia a la ssediola! 10
Sora Mmaschera
1 mia, sete un cojjone.
Me parerebbe, sangue d’un giudio,
che nn’abbi da sapé ddomminiddio
un po’ ppiú dde chi ha ffatto Tordinone. 2
E ssi
ssò 3 ggrasso, sce 4 n’ho ccorpa 5 io?
Potevio 6 fà ppiú granne le porzione.
Cuann’io spenno, 7 pe ccristo, er mi’ testone, 8
vojjo un posto adattato ar culo mio.
E in che
ddanno 9 ste tavole, ste fotte 10
de tramezzi, che un omo sce s’attappa
come fossi er turaccio d’una bbotte?
Cqua er culo
mio nun c’entra e nnun ce scappa;
e ppe ddà ggusto a vvoi, sore marmotte,
io nun me tajjo una fetta de chiappa.
Li culi
sò 1 un pell’antro 2 e vvanno a ccoppia
un grasso e un magro, come li capponi.
Ne viè uno, e li bbusci je sò bboni:
ne viè un antro, e cce vò ppietanza doppia.
Vedi ch’idea
de fà sta filastroppia 3
de scatolette de li mi’ cojjoni,
ch’er zecco sce se sguazza li carzoni,
e ’r grasso o nnun ce cape, o cce se stroppia.
Inzomma, sor
cazzaccio, io nun v’adulo:
un de le dua: o li mi’ sei lustrini, 4
o un posto a cchiappe mie. Asino, o mmulo.
Che
cc’è da ride cqua, ssori paini? 5
È mmejjo a ddà li cuadrini p’er culo,
ch’er culo, com’e vvoi, pe li cuadrini.
Sor
Presidente mio, per avé ddetto
ste poche cose che ssò ttutte vere,
cuela 2 nidata llà dde panze-nere 3
me minacciorno inzino er cavalletto.
Se fesce
avanti un ber 4 cherubbignere, 5
me messe, bbontà ssua, le man’in petto,
e ssenza manco arrenneme 6 er bijjetto
me cacciò ffora come un cavajjere.
Perché,
ddich’io, nun fanno come in chiesa,
che cchi nun vò li bbanchi sc’è la ssedia?
Pe pparte mia 7 me la sarebbe 8 presa.
Ma cquesta
intanto come s’arimedia?
Ho da bbuttà l’incommido e la spesa,
e llassajje 9 er testone 10 e la commedia?
Che angeli
che ssò! 1 cche pputtanelle!
oh bbenemío che bbrodo de pollanche!
Je metterebbe 2 addosso un par de bbranche
da nun fajje restà mmanco la pelle.
A vvedelle
arimòvese,
co cquelli belli trilli de le scianche 4
tremajje
come ggiuncate drento a le froscelle! 6
Che mmodo de
guardà! cche occhiate ladre!
Mó vvedo c’ha rraggione er prelatino
che ha mmannato a ffà fotte 7 er Zanto-Padre:
e bbuttanno 8
la scorza 9 e ’r collarino,
d’accordo co la fijja e cco la madre
cià 10 ffatto er madrimonio gran-destino. 11
Ierassera
cuer 2 bon pezzo de fica
de la reggina, doppo avé ccantata
una canzona tutta smerlettata, 3
se bbuttò a ssede 4 pe la gran fatica.
Ma nnun te
crede che cascassi 5 mica
sur una ssedia nova, cammerata:
de cazzi! era la ssedia inargentata
c’arippresenta una ssediona antica.
Era l’istessa
ssedia in carne e in ossa,
c’avemo visto da tant’anni addietro
cor cusscino obbrigato
Bbuggiaralla,
per dio, si 8 è antica assai!
Me pare er Catredone de San Pietro,
che nnun ze roppe 9 e nnun ze tarla mai!
La sai la
gran notizzia? Anna Bbalena 2
cuella donna co ttanta de ficona, 3
che ccantava in commedia a Ttordinona, 4
è ddiventata omo, e sse lo smena.
Credi che tte
cojjoni, Madalena?
In ste cose che cqui nnun ze cojjona.
È ppropio, diventata Omo in perzona
cor ciscio 5 che jje fa lla cannofiena. 6
Ma ccome fu?
Bbisoggna dí, Ssan Marco, 7
ch’er nome istesso de cuann’era donna 8
l’aiutassi a ppassà ssott’a cquell’arco. 9
Cuest’arco
pò ffà ppuro un Manfrodito: 10
e ddev’èsse 11 accusí 12 cche la Madonna
diventassi 13 da sé mmojje e mmarito.
La fijja a
Ttordinone 1 de cuer vecchio
che nnun je vò ffà mmette er cappelletto, 2
pe vvia de scert’affari d’un vertecchio 3
che ttrovorno co llei drent’in nel letto:
sí, Romea, la
regazza de Ggiujjetto,
che sse 4 fà ccojjonà dda un mozzorecchio,
e ccanta in zepportura un minuetto
accimata 5 ppiú mmejjo c’a lo specchio;
jerassera era
tanta arifreddata,
che ffesce annà la musica a ccazzotti,
e nnun pareva mai risusscitata.
Se pò
ccantà ttossenno, 6 eh ggiuvenotti?
Meno male saría fà una cantata
co le moroide o li ggeloni rotti.
Ho dda
ricurre?
dimme
Ho dda ricurre! Cuanto sei cojjona!
Me voressi 5 mannamme
Sto ladro
è una bbravissima perzona,
un bon ciarvello, 7 un omo de ggiudizzio,
che gguarda sempre addosso a Ccaglio e Ttizzio, 8
eppoi curre ar Governo 9 e sse spassiona. 10
Governatore e
spie sò 11 ttutt’un ballo:
sò ccome li bbatocchi e le campane:
sò la favola tua der cescio e ’r gallo. 12
Cane, sorella
mia, nun maggna cane. 13
Duncue, è mmejjo a stà zzitti, e dde lassallo
fà er zu’ mestiere e gguadaggnasse 14 er pane.
A un Vescovo,
e, dde ppiú, ppredicatore,
che ppecca un po’ d’ussuria 1 e un po’ de gola, 1a
je mannò jjermatina un creditore
un curzoretto a ddijje una parola.
Figurateve er
Zanto Monziggnore!
Cominciò a sfoderà dde cazzarola, 2
eppoi, volenno 3 convertí er curzore,
pijjò ppe ccroscifisso una pistola.
«Che
mmaggnèra 4 d’offenne 5 er tribbunale»,
er curzore strillava, «e ppe vvennetta 6
maneggià vvoi st’armacce temporale?!».
E er Vescovo:
«Te pijja 7 una saetta,
l’ho ffatta diventà spirituale
perché in nome de Ddio l’ho bbenedetta».
Vergine
bbenedetta der Rosario 2
voi che ccon zette spade 3 immezzo ar core
v’incontrassivo
a mmorí mmorto in crosce in zur carvario;
moveteve a
ppietà dd’un zervitore
che jj’amanca 6 inzinenta 7 er nescessario:
fateje cressce 8 un scudo de salario
pe ppagà la piggione all’esattore.
Voi lo sapete
ch’io servo un prelato
che mm’ha ppromesso in oggni ammalatia
de lassamme, 9 si mmore, 10 ggiubbilato.
Duncue, o
bbeata vergine Mmaria,
benedite la vojja che ha mmostrato:
riccojjetelo 11 presto; e accusí ssia.
In zagristia
de cuella bbona ggente
de Sant’Onofrio 1 cianno 2 un riliquiaro
che ffanno vede
che nnun capischi o cche nnun credi ggnente.
Drento a sto
coso c’è ariposto un dente,
ma ppotete dí ppuro 4 un dente raro, 5
che ppare mezza pietra de staggnaro, 6
e aveva a ttempi sui trentun parente.
San
Cristofeno mio co sta famijja
sce fasceva una vorta colazzione,
cuanno nun era tempora o vviggijja.
Prese duncue
le ggiuste proporzione,
noi potemo escramà cco mmaravijja:
accidenti che ppezzo de freggnone!
San
Cristofeno è un zanto grann’e ggrosso
un po’ ppiú dd’un facchino de Ripetta, 1
che a ppiedi scarzi 2 e cco le ggente addosso
passava un fiume come la bbarchetta. 3
Forzi 4 sto
fiume sarà stato un fosso,
o una pianara, 5 oppuro una vaschetta:
ma io nun posso dilla
che ttal’e cquale a mmé mm’è stata detta.
Ecchete un
giorno un regazzino bbionno: 7
lui lo passò, ma ddoppo du’ zampate
san Cristofeno grosso annava a ffonno.
«Per cristo!
e ccosa sò 8 ste bbuggiarate»,
strillava er Zanto; «e cche cciò 9 addosso, er Monno?!
Fregheve, fijjo mio, come pesate!».
A un
Spaggnolo, che 1 ttutto ar zu’ paese
era uguale c’a Rroma, o assai ppiú bbello,
gujje, colonne, culiseo, castello,
palazzi, antichità, ffuntane e cchiese,
io vorze 2
fajje 3 un giorno un trucchio 4 bbello
pe pprovà dde levajje ste pretese:
aggnede
un ber 8 paro de mmànnole 9 d’aggnello.
Le metto in
d’uno stuccio, e ppoi lo chiamo.
Dico: «Vedete voi sti du’ cojjoni?
Sò li dua soli che ttieneva Adamo».
A sta bbotta
lui parze un po’ imbriaco:
poi disse: «cuesti cqui ssò rreliquioni;
ma ar mi’ paese avemos er caraco».
A Ssan
Francesc’a Rripa 2 una matina
me disse un frate amico mio che lloro
fra ll’antre erliquie tiengheno un tesoro:
e ssapete ch’edè? ’na mmannolina. 3
Ha ingrossato
le chiappe Caterina! 4
E sto frutto che vvale a ppeso d’oro
lo corze 5 Adamo un giorno de lavoro,
e lo sarvò 6 ppe nnoi drent’in cantina.
Duncue sta
mmannolina, a cchi cce vede,
è ppiú antica ch’er vino e ll’imbriaconi,
è ppiú vvecchia der Papa e dde la fede.
Ma ccome
l’hanno avuta sti torzoni?
Ner diluvio de ddio bbisoggna crede 7
la tienesse Novè ttra li cojjoni. 8
Ciuccio 1
futtuto, ggiacubbino indeggno!
che ddanno ne pò usscì ssi cc’è la vosce
che pp’er Monno cor leggno de la crosce
potrebbe fasse 2 un magazzin de leggno?
Ggià
ppotrebb’èsse 3 ppiú vvosce che nnosce, 4
o una miffa de vescovi d’ingeggno;
ma ppoi, vero che ssii, sor brutt’ordeggno, 5
che ddanno je pò ffa? ccosa je nòsce? 6
Le vennessi 7
puranche er rigattiere,
io nun ce so ttrovà ggnisuno stàcolo 8
che ssiino tutte cuante crosce vere.
Nun pò
Iddio dar zu’ santo tabbernacolo
mortipricanne 9 le mijjara intere
pe ffacce 10 venerà ccrosce e mmiracolo?
Tra ll’antre 2
erliquie che tt’ho ddette addietro
c’è ll’aggnello pascuale e la colonna:
c’è er latte stato munto a la Madonna,
ch’è ssempre fresco in un botton de vetro.
C’è
ll’acqua der diluvio: c’è lla fionna 3
der re Ddàvide, e ’r gallo de san Pietro:
poi c’è er bascio de Ggiuda, e cc’è lo sscetro
der Padr’Eterno e la perucca bbionna. 4
Ce sò
ddu’ parmi 5 e mmezzo de l’ecrisse 6
der Carvario, e cc’è un po’ de vita eterna
pe ffà er lèvito
C’è er
moccolo che aveva a la lenterna 8
Dio cuanno accese er zole, e ppoi je disse:
«Va’, illumina chi sserve e cchi ggoverna».
Io scercavo
una vorta cuarche 1 llume
pe ssapé er certo e le raggione vere
perché li preti cor loro incenziere
un coll’antro 2 s’accècheno 3 de fume.
Trovai
defatti un bon pinitenziere
che mme spiegò che cquesto è un pio costume
pe ddà un zeggno d’amore e ttenerume, 4
de rispetto, de stima e dde dovere.
Si 5 dduncue
un po’ de fume è un zeggno schietto
de tenerume e amore, e, ccoll’inchino,
de dovere, de stima e dde rispetto;
pijjanno 6
pe l’orecchie oggni pretino,
li farebbe 7 inchinà ttutti sur tetto
cor gruggno s’una cappa de cammino.
Perché er
Vescovo porta er pastorale?
Pe mmostrà cche nnoi semo pecorone
da illuminasse
pe ccorpa 2 der peccato origginale.
Chi mm’ha
ddetto accusí nnun è un stivale,
e jje do cquarche ffilo de raggione;
perché, a striggne li panni,
er torto è ssempre torto, o bbene, o mmale.
Ma pperché
cquarche ppecora je scappa,
in cima ar pastorale scià 4 un rampino
che ll’arriva in ner collo e lla riacchiappa:
e pijjannola 5
doppo p’er cudino, 6
je dà ddu’ carci in culo, uno pe cchiappa,
che sse chiameno er resto der carlino. 7
«Cuanto sta
bbene er Papa! cuant’è bbello!
che appitito che ttiè nner rifettorio!
Ma cche ssalute ha sto Papa Grigorio!
Cuesto campa una bbotte e un sgummarello!». 2
Piano, piano:
e cch’edè?! 3 Spara Castello?!
C’è er funtanon de San Pietro Montorio?! 4
Voréssivo 5 godé st’antro 6 mortorio?
Voréssivo vedé sto mortiscello?
Basta,
Lesandro mio: bbasta, Mazzocchio:
nun ne dite de ppiú, fijji mii cari,
perché ccor tanto dí, ppoi viè lo scrocchio. 7
Ggià,
sti Papi de Ddio, sti su’ vicarj
dovrebbeno portà ccontro er mal occhio
er pel der Tasso come li somari. 8
Azzecca 2
che tte porto, Caterina:
ma, ttiettela 3 da conto e ccustodita.
Guarda, cuesta è una santa dissciprina
c’ho rruspato 4 stasera ar Caravita. 5
Tu addopra 6
questa cqui ssera e mmatina,
si da li fijji sei disubbidita;
e vvederai che la bbontà ddivina
te darà ggrazzia de mutajje vita.
Mena senza
pietà: sfrusta, Ninetta,
senza pavura mai de fajje male,
perché la dissciprina è bbenedetta.
E li mannassi
puro
penza c’oggni frustata è una bbolletta
d’indurgenza in articolo papale.
Inzomma,
cazzo, se pò avé sto bbascio?
se pò ttastà un tantino er pettabbotto? 1
Ma nnun avé ppavura, che ffo adascio:
cuanto che ssento 2 che cce tienghi sotto.
Ciai 3 scrupolo?
e dde cosa? E cche! tte fotto?!
Semo parenti? Sí, ppe vvia der cascio:
cuggini de cuggini: cascio cotto: 4
parenti come Ggnacchera e ssan Biascio.
Parenti,
ggià! cche scrupoli der tarlo! 5
Per un bascio co mmé ttanta cusscenza,
eppoi te fai fischià 6 ddar Padre Carlo.
Ma cche
ccredi? che Cristo abbi pascenza
d’abbadà ssi tte bbascio, o ssi tte parlo?
A ste cojjonerie manco sce 7 penza.
L’ommini de
sto Monno sò ll’istesso
che vvaghi 2 de caffè nner mascinino:
c’uno prima, uno doppo, e un antro 3 appresso,
tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno
sito, e ccaccia spesso
er vago grosso er vago piccinino,
e ss’incarzeno 4 tutti in zu l’ingresso
der ferro che li sfraggne in porverino. 5
E ll’ommini
accusí vviveno 6 ar Monno
misticati 7 pe mmano de la sorte
che sse li ggira tutti in tonno in tonno;
e mmovennose 8
oggnuno, o ppiano, o fforte,
senza capillo 9 mai caleno a ffonno
pe ccascà nne la gola de la Morte.
Cuelli morti
che ssò 1 dde mezza tacca 2
fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte, 3
vanno de ggiorno, 4 cantanno a la stracca,
verzo la bbúscia 5 che sse l’ha dda iggnotte. 6
Cuell’antri,
de Siggnori e dde fijji de miggnotte, 10
sò ppiú cciovili, 11 e ttiengheno la cacca 12
de fuggí er Zole, e dde viaggià dde notte. 13
Cc’è
ppoi ’na terza sorte de figura,
’n’antra spesce 14 de morti, che ccammina
senza moccoli e ccassa in zepportura.
Cuesti semo
noantri, 15 Crementina,
che ccottivati
sce 17 bbutteno a la mucchia de matina.
La sai la
gran disgrazzia ch’è ssuccessa
a Rrocco er capo-presa, 1 eh Furtunato?
Lui stava ar naviscello ch’è arrivato,
e la mojje era ita a ssentí mmessa.
Ebbè,
er pupo 2 c’aveveno lassato
ar focone cor fijjo de l’ostessa,
pe inchinasse
cascò ssur foco, e cce restò ggelato. 4
Penza si 5
cquanno aritornò la madre
dev’èsse stato er giorno der giudizzio, 6
e ssi cche inferno ar riviení dder padre!
Perde 7 un
fijjo accusí, 8 ccerto, è un zupprizzio; 9
ma cche faressi
ch’esponeno 11 li fijji ar priscipizzio?
Er chiodarolo
mio, cuer Mastr’Aggnello
dove sce crompo 1 sempre le bbollette,
tiè un foconcin de ferro che cce mette
a rroventà lli chiodi da martello.
Pare un
fornello, ma nnun è un fornello:
è un coso come sò 2 le coppolette;
e ddisce lui che anticamente cuello
era un ermo 3 de cuarche 4 ammazzasette.
Chi ssa
cquante scittà, cquanti nimmichi
averà ffatto diventà ttonnina 5
chi pportava cuell’ermo a ttempi antichi!
E mmó cche li
sordati e ll’uffizziali
nun ammazzeno ppiú, ffa dda fuscina 6
pe bbollette e ppe cchiodi de stivali.
Tra le
cuattro Vertú cch’er Monno spera
c’averíano 1 d’avé li cardinali 2
sce 3 sta ddipinta la Ggiustizzia vera
come l’hanno da fà li tribbunali.
Tiè in
mano uno spadone e una stadera:
carca 4 un aggnello sotto a li stivali:
e sta bbennata 5 co una bbenna nera,
cuann’io, pe mmé, jje mettería 6 l’occhiali.
Ma ccome,
cristo!, ha da trovà la strada,
cusí orba la povera Ggiustizzia,
de contà ll’once e dde calà lla spada?
Come
pò vvede 7 mai si la malizzia
de li curiali je dà ggrano o bbiada,
e ss’è zzucchero-d’orzo o rregolizzia?
Pe avé mmesso
accusí 2 ppe mmattería 3
’na mano a Ddorotea sotto la vesta,
c’era da dàmme 4 una fujjetta
e mmannà ssottosopra l’ostaria?
Dímmelo tu:
perch’è ffatta la festa?
pe stà un po’ da cristiani in alegria:
pe mmaggnà, bbeve, e rride in compaggnia:
e nnò ppe offenne Iddio, pe ffà la cresta. 6
S’averebbe
d’annà cco li cortelli
duncue addosso ar cristiano oggni momento!
Semo fratelli, o nnun zemo fratelli?
Cuant’ar
conzento, io je lo do er conzento;
ma er nun avejje 7 sfranto li granelli, 8
cuesto è, ccumpare mio, cuer che mme pento.
Nun zo
mmannalla 1 ggiú: ppropio a sto tasto
me sento diventà llo sputo amaro.
Pussibbile ch’io sii sempre er zomaro
che in oggn’incontro ho da portà ll’immasto? 2
Sò
ccreditore o nnò dder barrozzaro?
J’ho ffatto er pasto, o nnun j’ho ffatto er pasto? 3
E un Presidente ha da finí er contrasto:
«Abbi un po’ d’impicchea, 4 fijjo mio caro!».
Che tte ne
pare de sta bbell’idea?
Doppo, dio santo, che nnun pijjo un cazzo,
m’amancassi 5 du’ fronne 6 d’impicchea!
E nnun
è er medemissimo 7 strapazzo
de cuanno me cacciorno da pratea?
S’ho da famme impiccà, pprima l’ammazzo.
M’ha
rriccontato Rosica, er curzore
che sta ddrent’ar Governo
ch’er zoppo a cquella che cce fa l’amore
j’ha ddato una propina 2 de veleno.
Freghelo,
Ggesú Cristo Nazzareno
unico Siggnor nostro redentore!
che ppropine der cazzo! è mmejjo a ffieno,
a ppajja, a ttorzi: armanco 3 nun ze more.
Pènzete
si cche proscessettaccio sopraffino
li preti te j’inzubbieno 6 nell’ossa!
Penza si
Mmastro Titta ombrellarino, 7
co la pírola 8 sua de cina-grossa 9
nun je farà ppassà ttutto er morbino!
Si ha
ccacca?! 1 lei? nun je se pò ddí ggnente,
nemmanco «che bbell’occhi avete in fronte».
È ssuperbiosa come un accidente,
piú cche ssi ffussi de cristal de monte.
Gran brutto
fà cco llei da protennente! 2
lei nun vò ppe mmarito antro 3 che un conte.
Penza mo ttu cche ppò sperà un minente 4
che sta a ppescà cco la bbilancia a pponte. 5
Oh, ppe
bbellezza poi, propio è ssciarmante; 6
e pponno appett’a llei dàsse 7 pe vvinte
guasi staria pe ddí ll’anime sante.
Ché nnun
è ccome ste facce dipinte
de Siggnore de grinza, 8 che ssai cuante
porteno cul de stracci e zzinne finte.
Tajjo
rancico? 1 ebbè, ccome lei vò:
ma ppe la robba cosa sc’è da dí?
Cuesta è ppelle d’Osanna. 2 Come oibbò!
Vitellino d’Osanna, ggnora sí.
Vienghi ar
lume, Madama, e gguardi cqui
si cche apparecchio, si cche bber ponzò;
e ho ttant’onore de potejje dí
che ddrento Roma antro che io 3 sce ll’ho.
Puzza?! oh
Ggesú! lla vallonea se sa
c’ha cquer tanfetto: ma in du’ ggiorni o ttre
come che 4 ssente l’aria se ne va.
Care ste scarpe?! Ah, lo so io ch’edè: 5
Madama nun ha vvojja de carzà.
Un scudo nun ze pò: ccosteno a mmé.
Un Medico
bbruggnano
scent’ommini, 2 e ll’ha mmessi a lo spedale:
mica cche ssiino st’ommini ammalati,
ma ppe impedijje che nnun stiino male.
Potríano
ammascherasse
e accusí, ddioneguardi, ammascherati
pijjasse 4 una frebbaccia accatarrale,
e mmorí, ddioneguardi, accatarrati.
«Bbisoggna
prevedelli li malanni»,
lui disce; «e a ttemp’e lloco un lavativo
conzerva er culo e ffa ccacà ccent’anni».
Sto dottore
chi è? ccome se chiama?
Er nome nu lo so, ma sso cch’è vvivo
e sta ar Palazzo de Piazza Madama. 5
Disse er
Zurtano a un tar governatore:
«Impicchete, vassallo, e tte perdono».
Er vassallo arispose ar Gran-Ziggnore:
«Dàmme un anno de tempo, e tte la sòno».
E ggià
er padrone nun sta ppiú ssur trono:
già ccià 2 mmesso le chiappe er zervitore:
e attenti, mordivói, ché mmó vviè er bono, 3
strillò er giudio che sse cacava er core.
Visto er
Granturco a ppassà gguai lo sscetro,
messe 4 er tesoro suo sopra un carretto,
e scappò vvia co le puttane addietro.
Er Papa ha
ppianto, e jj’ha scritto un bijjetto,
discenno: 5 «Fijjo mio, curre
dove se pò accordà Ccristo e Mmaometto».
C’averà
ffatto Ggenova, ché er frate
tre vvorte, jjeri a mmessa, co cquer laggno
disse: «Affettamus Genova»; 1 e ’r compaggno
tre antre vorte repricò: «Llevate»?
Ma sse ponno
sentí ppiú bbuggiarate?
Cristo, si vvedo cuesta, io me li sfraggno!
E cche ssò 2 le scittà, ttele de raggno,
paste frolle, miggnè, 3 ffichi, patate?!
Affettà
er monno a uso de salame!
Levallo, sant’iddio, come ar cammino
pò llevasse 4 er cuperchio da un tigame!
Raschià
Ggenova mó ccor temperino,
cuanno 5 ar tempo che cc’era er brigantame
nun zeppeno spianà mmanco Sonnino! 6
Tra ttante
secchità, 1 ttra ttanti ggeli,
essenno 2 nescessario un po’ de callo, 3
ggiuveddí a ssera sc’è 4 un festin de bballo
drento a la frateria de la Resceli. 5
Dove
stroppieno in Coro li Vangeli,
fra Ffottivento e ’r Padre Bbuggiarallo
accoppieranno una gallina e un gallo
tra li frati pelosi e ssenza peli.
Accoppiati un
patrasso e un fratiscello,
s’uprirà a ssòno d’orgheni 6 er festino
co la lavannarina e ’r sartarello. 7
Se
bballerà ttutta la notte, inzino
ch’er Generale a ssòn de campanello
rifarà ttutti maschi a mmatutino.
Smorzato er
Zole e sfracassato er Monno,
tutte le ggente che la terra ha ffatte
anneranno
dove sce ponno entrà cquanti che vvonno.
Tra er padre,
er fijjo, er nonno e lo sbinnonno, 2
vecchi bbavosi e ccrature de latte,
ommini de ggiudizzio e tteste matte,
nun ce sarà nné pprimo né ssiconno.
Llà
ttutti-cuanti iggnudi e ssenza panni
rinassceremo come Adamo e Eva,
e averemo d’avé ttrentatré anni. 3
Chi mmorze
4 de ppiú età jje se ne leva:
li piccinini se sò ffatti granni:
duncue oggnuno averà cquello c’aveva.
Gran
bell’arte è er pittore, lo scoparo,
er giudisce, er norcino, 1 er rigattiere,
er beccamorto, er medico, er cucchiere,
lo stroligo, er poveta e ’r braghieraro.
Piú
mmejj’arte è er cerusico, er barbiere,
er coco, er votacàntera, er notaro,
er ciarlatano, er Curiale, er chiavaro,
e ll’oste, e lo spezziale e ’r funtaniere.
Stupenna
è ll’arte de chi ssona e ccanta,
cuella der banneraro 2 e dder zartore,
e ttant’antre da dí ffino a mmillanta.
Ma la prima
de tutte è er muratore,
ché cquanno s’arifà 3 la Porta-Santa
capo-mastro chi è? Nostro Siggnore. 4
Indov’antro 2
c’a Rroma se pò vvede 3
le cacatomme de San Zebbastiano,
dove una vorta er popolo cristiano
fesce a nnisconnarello 4 pe la fede?
In cuer zagro
Arberinto, 5 chi cce crede,
trova d’erliquie 6 un cimiterio sano:
e cqui abbusca uno stinco, e llí una mano,
llà un osso-sagro, e una ganassa, e un piede.
Dov’è
er lume perpetuo che sse smorza
ar zentí ll’aria, 7 llí ss’ariccapezza
corpi-santi da venne 8 e empí lla bborza.
Si un
schertro 9 nun è ttutto, s’arippezza;
e cquanno è ffatto un martire pe fforza,
indovinela-grillo, 10 e sse bbattezza.
Mica
sò 1 bboni l’ossi sani soli
pe ffà ll’erliquie e ffrabbicà 2 li santi,
ma inzino li tritumi somijjanti
a ffarro e ttarlature de piroli.
Li nostri
fratiscelli e ppretazzoli
fanno un riduno 3 de st’ossetti sfranti,
e li pisteno inzieme tutti-cuanti
all’uso d’una sarza 4 de piggnoli.
Sfravolati 5
che ssiino in farinaccio,
se canta un Zarmo, 6 e mmentre che sse canta
se passa la farina pe ssetaccio.
Con oggni
dosa 7 poi de scinqu’o ssei
libbre, e mmezza fujjetta 8 d’acqua-santa,
ecco fatta la pasta d’Aggnus-dei. 9
Chi ffiotta,
chi pperzeguita, chi intiggna, 1
chi mmaneggia la crosce e cchi er cortello,
chi pperde la pascenza e cchi er ciarvello,
chi rresta iggnudo e cchi ingrassa la viggna. 2
Tratanto er
Zanto-padre, poverello,
è la stanga-de-mezzo, 3 e ssi la sbiggna
d’appricà er piommacciolo
dite puro 5 c’ha in culo farfarello. 6
Coll’aco, co
le forbisce e la stoppa,
oggi er Papa è un’ebbrea 7 che ccusce e ttajja,
e cqua mmette una pezza e llà una toppa.
Ma ccome
acconcerà ttanta canajja?
Vattel’a ppesca! 8 La caggnara è ttroppa.
Quint’azzecca: 8 indovina indovinajja.
Pe strappacce
2 le penne co la pelle
ciaspetteno 3 cor vischio a ttutte l’ora:
sce 4 fanno la cappiola scurritora 5
a uso de rondoni e rrondinelle.
Tutte le
smorfie e le parole bbelle,
e cquella bbocca a rriso ch’innamora,
tutte appostatamente 6 escheno fora
pe ttiracce 7 dar corpo le bbudelle.
Tienete er
fiato a vvoi cuanno li neri
ve spasseggeno 8 intorno a ttorme a ttorme:
pijjate in mano lo spassapenzieri.
Voi lo
sapete, fijji, che cconforme
cuer ch’io ve dico sò 9 li fatti veri:
epperò ccarta canta e vvillan dorme. 10
Giacubbinacci
che ccovate in petto
l’arbaggía 1 de sfreggnà 2 la Santa Cchiesa
senza volé 3 cche llei facci un fischietto
pe cchiamà Ggesucristo in zu’ difesa,
l’editto de
Papà 4 ll’avete letto?
la scummunica sua l’avet’intesa?
Conzolateve duncue coll’ajjetto 5
c’avete fatto una gran bell’impresa!
La Cchiesa
fischia, Cristo nun è ssordo,
li Romani sò ttutti papalini,
e la Santità Ssua nun fa er balordo.
E ppe ffotte
6 voantri 7 ggiacubbini,
già er Zanto-padre e nnoi semo d’accordo:
lui dà indurgenze e nnoi dàmo quadrini.
Tutti li
bbullettoni e bbullettini
che se vedeno a Rroma appiccicalli
o ddall’ommini veri, o bburattini,
pe ccommedie, pe mmusiche e ppe bballi,
chi tte li
caccia fora scennerini,
chi li fa rrossi, e cchi li tiggne ggialli:
chi ll’arza pavonazzi, e cchi tturchini,
pe ddà mmejjo sull’occhi e ccojjonalli.
Per oggni
pantomina 1 sc’è un colore
che ss’usa d’appricà 2 ssu la pescetta 3
de chi tte disce che vvò ffasse 4 onore.
E ll’editti
accusí dde la farzetta
che rrescita sto Papa de bbon core,
de che ccolore sò? dde verd’aspetta. 5
Cristiani
indilettissimi, l’inferno
è una locanna senza letto e ccoco,
ch’er bon Iddio la frabbicò abbeterno
perché sse popolassi appoco appoco.
Cuanti Santi,
in inzoggno, 1 la vederno, 2
dicheno che ssibbè 3 ppiena de foco,
nun c’è un’ombra de lusce in gnisun loco,
e cce se trema ppiú cche ffussi inverno.
Sur porton de
sta casa de li guai
sce sta a llettre da cuppola un avviso,
che ffora disce sempre, e ddrento mai.
Ggesú mmio
bbattezzato e ccirconciso,
arberghesce 4 li turchi e bbadanai, 5
e a nnoi dàcce 6 l’alloggio in paradiso.
Disce Don Pio
che cquanti forestieri
pronottaveno 1 un giorno a la locanna,
avanti d’annà a ccena e a ffà la nanna
se fàvano 2 sciacquà lli piedi neri.
E st’usanza
vor 3 dí cquella lavanna
che ssu a Ppalazzo fesce er Papa jjeri,
pe ddà un esempio all’osti e llocannieri
de pulí 4 ll’aventori ch’Iddio manna.
Un antro 5
esempio che ddà er Papa all’oste
è cche ddoppo er maggnà nnun z’avería 6
mai e ppoi mai da fà ppagà le poste. 7
Sibbè 8
cc’oggi San Pietro 9 è un’osteria,
dove un’annata sana de bbatoste 10
fa scontà un pranzo che sse porti via.
Io poi nun
faccio er zuperbioso, 2 e cquanno
m’incontro ar Monno a nnun zapé 3 lle cose,
ricurro da le ggente talentose,
e ssu ddu’ piedi, aló, jje le dimanno.
Diteme un
po’, ccom’imparai l’antr’anno
a ffà aggnusdei co le su’ vere dose? 4
Dite, da chi imparai cuer c’arispose
San Pietro a Ddio? 5 Da quelli che lo sanno.
Ccusí la
Scala-Santa. Don Libborio
me la spiegò cquann’io je la chiedei
drent’ar cortile de Monte-scitorio.
La
Scala-Santa, don Libborio Mei 6
disce ch’era un Pretorio, e cch’er Pretorio
era er Monte-scitorio 7 de l’ebbrei.
Nun vojjo
lavorà: ccosa ve dole? 2
Pe sta vita io nun me sce sento nato.
Nun vojjo lavorà: mme sò spiegato,
o bbisoggna spregacce 3 antre 4 parole?
A ddiggiuno
sò ffiacco de stajole; 5
e ddoppo c’ho bbevuto e cc’ho mmaggnato,
tutto er mi’ gusto è dde stà llí sdrajato
su cquer murello che cce bbatte er Zole.
Cuanno che
ffussi dorce la fatica,
la voríano 6 pe ssé ttanti pretoni
che jje puncica 7 peggio de l’ortica.
Va’
Le sante sce se 10 gratteno la fica,
e li santi l’uscello e li cojjoni.
Eh cche mme
preme a mmé ssi sse 2 conzagra
oggi le crosce illuminate in Chiesa!
Manco la santa Messa oggi l’ho intesa
pe sta porca futtuta de polagra.
Eppoi che
ffunzion’è? ’na festa magra
de du’ cudrini, 3 pe ddí assai, de spesa;
oggni pilastro una cannela accesa;
’na messaccia 4 cantata: ecco la Sagra!
Oh, mmojje
mia, nun me scoccià le palle.
Ste funzione io le vener’e arispetto,
ma cquanno è una scert’ora, bbuggiaralle.
Io so che
cciò 5 la crosce de sto letto,
porto la crosce tua sopra le spalle,
e ggnisuno m’accenne un moccoletto.
Ar Bervedé
cc’è ppoco. 1 Er Papa vola
che ppe vvolate 2 manco Ggentiloni! 3
Ma in partita è ttareffe, 4 e ffa cciriola, 5
ché li falli sò assai piú de li bboni. 6
Che sserve
che nnoi poveri cojjoni
je seggnamo le cacce?
de mannà ssempre a sguincio 8 li palloni,
si ll’impatti è pper dio grasso che ccola. 9
Ggiuchi a
ppassa-e-rripassa, o ccor cordino, 10
dà llui solo l’inviti e le risposte, 11
e vvò stà ssempre lui sur trappolino. 12
Cuann’è
all’onore 13 poi, fa ccerte poste 14
scerte finte, 15 c’a èss’io Tuzzoloncino 16
je darebbe er bracciale in de le coste.
Ne le partite
toste 17
o nne le mossce 18 s’ingeggna, er bon prete
cor vadi e vvienghi, e cquale la volete. 19
Tira sempre a
la rete 20
cuann’è in battuta, e nnun fa mmai un arzo
o rribbatti de primo o dde risbarzo. 21
Ar
chiamà 22 cchiama farzo;
e ssi 23 er quinisci 24 penne 25 da la
tua,
procura de tornà ssempre a le dua. 26
Ha una regola
sua
oggni tanto de dà ffora una messa 27
pe ffàtte ariddoppià la tu’ scommessa;
e cco sta
jjoja 28 fessa,
qualunque cosa er cacciarolo 29 canti,
sce gonfia li palloni
Indov’èlli
3 sti preti santarelli
che nunn metteno a ttajja li cristiani?
Indov’èlli sti parrichi 4 granelli 5
che nnun zanno spojjà lli parrocchiani?
Indov’èlli,
per dio, dimme, indov’èlli,
si ssò 6 ttutti ppiú ccani de li cani?
Guarda er curato mio dell’Orfanelli 7
che cce divora a ttutti sani sani!
Senti un po’
cquesta, e nnun rimane statico. 8
Cuanno morze 9 mi’ padre d’un bubbone,
vorze fasse 10 pagà ccrosce e vviatico. 11
Io lo dico da
mé cche ssò un cojjone
e dde ste forche cqui bbojja mar-pratico, 12
ma cchi ha ppagato mai la commuggnone?! 13
E ttu
ddàjjel’a ddodisci! 1 E cco mmé
nun tienghi antri 2 discorzi da caccià,
ch’er zanto madrimonio e lo sposà?
Ste sciarle, sorcia mia, 3 tiettel’a tté.
Ma pperché,
mma pperché! la vòi sapé
la santa iggnuda e vvera verità?
Nun vojjo mar 4 de testa: eccola cqua:
nun me piasceno corni: ecco er perché.
Oh, ll’hai
saputo? Sei contenta mó?
Ma ccazzo! cuanno te le vòi sentí,
sentile: ch’io nun zò 5 mmica un c, o, co. 6
Sempre una
cosa m’hai sentita dí:
l’amore sí, mma er madrimonio no:
pe mmojje no, mma ppe pputtana sí.
Forze
che vvai scercanno 3 le zzaggnotte
Vòi fotte? eh ffotte co le tu’ cristiane
senza offenne 5 accusí Ddio bbenedetto.
Cqua per
oggni duzzina de Romane
un otto o un diesci te guarnissce er letto:
e cche pòi spenne? 6 Un pavolo, un papetto,
e dd’un testone poi te sciarimane. 7
Eppuro tu
ssei bbattezzato, sei:
e nnun zai che cquann’uno è bbattezzato
nun pò ttoccà le donne de l’ebbrei?
E una vorta
c’hai fatto sto peccato
hai tempo d’aspettà 8 lli ggiubbilei
se 9 more, fijjo mio, scummunicato.
Che
ggobb’è 2 ttanta ggente? Eppuro, Cola,
cuer Zeta 3 llí, cquer ciníco 4 de donna
chi ddiría 5 mai ch’è ttanta fijjarola 6
che li pisscia a bbizzeffia da la monna?
M’aricordo cuann’era
primarola: 7
noi pregamio 8 Sant’Anna e la Madonna;
e llei ’n d’un Credo, 9 e cco una dojja sola,
bbuttò ggiú la cratura e la siconna. 10
Cuanno
è ggràdiva 11 lei, sai che ddiventa?
un tommolo, 12 e in zur fà 13 dde gomma lastrica 14
la panza je fa ttrippa 15 e sse sbrillenta. 16
Nu la
guardà ssi è rridotta a mmar-termini: 17
nun zò stati li parti, ma una castrica 18
che ll’ha ffatta arrestà 19 ppiena de vermini.
Er Zantocchio
2 che bbascia le paggnotte,
che ttutte le matine sente messa,
che le notte che cc’è la mezza-notte 3
nun maggnería cuer ch’è una callalessa, 4
c’ha scrupolo
a ssentí pparlà dde fessa,
e abbruscerebbe vive le miggnotte, 5
mentre che in verb’articolo de fotte
lo schiafferebbe in culo a un’Abbatessa;
invesce de
pagamme 6 er zangue mio,
pijja er pessce, e mme disce chiar’e ttonno:
«N’averai tanta grolia avant’a Ddio».
E io, che
nnun ciabbozzo, 7 j’arisponno:
«Sta moneta nun curre in ner cottío. 8
La grolia in Celo, e li quadrini ar Monno».
Se 2 pò
ffregà 3 Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,
un treàto, 4 una fiera, un’allegria.
Va’ dda la
Pulinara
curri da la Corzía a la Cuccaggna: 7
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce
sò ttre ffuntane inarberate: 8
cqua una gujja 9 che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago 10 cuanno torna istate.
Cqua ss’arza 11
er cavalletto 12 che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Zitto, Don
Fabbio mio, pe ccarità!
se 1 chiameno staggione queste cqui?
State chiuse, un callaccio da crepà:
state uperte, un ventaccio da morí.
Fora, ve
viè la fanga inzino cqua:
drento, è una vita che vve fa ammuffí.
Ringrazziamo la Santa Tirnità 2
ch’è un Zanto grosso: e cc’antro s’ha da dí?
Ne la
ggiornata cuarche ccosa fo:
ciò 3 la novena der bambin Gesú...
ricamo.., e ttiro via com’Iddio vò.
Ma ssi 4
la sera nun vienissi tu
a ffà cquer fatto e arillegramme un po’,
Don Fabbio mio, nun ne potrebbe 5 ppiú.
Ah, 1
nnun è ggnente: è un nuvolo che ppassa.
Eppoi nun zenti che nnun scotta er zole? 2
Eppoi, come a mmé er callo nun me dole
nun piove scerto. Ah, è una ggiornata grassa.
Mentre
portavo a ccasa le bbrasciole, 3
c’era una nebbia in celo bbassa bbassa...
Lo sai, la nebbia come trova lassa: 4
nun pole 5 piove, via, propio nun pole.
Lo capimo da
noi, sora ggialloffia, 6
che cquanno è ttempo rosso a la calata,
ne la matina appresso o ppiove o ssoffia.
Io nun vedde
però nne la serata
le stelle fitte: duncue, ar piú, bbazzoffia 7
pol’èsse oggi, ma nnò bbrutta ggiornata.
Uh!
cch’edè 2 ttanta folla a la parrocchia?
Perch’entri tutta eh! nunn j’abbasta un’ora.
E in sta cchiesa piú cciuca 3 d’una nocchia
sai cuanti n’hanno da restà de fora!
Senti, senti
la porta come scrocchia! 4
Guarda si 5 ccome er gommito lavora!
Ma pperché ttanta ggente s’infinocchia 6
drento? Ah è vvero, sí, sí, è la cannelora. 7
Ecco perché
er facchino e ffra Mmicchele
usscirno dar drughiere 8 co una scesta 9
jeri de moccoletti e dde cannele.
Tra ttanta
divozzione e ttanta festa
tu a ste ggente però llevejje er mele 10
de la cannela, eppoi conta chi rresta.
Oggi, a
fforza de gómmiti e de spinte,
ho ppotuto accostamme ar butteghino 1
de la Madonna de Sant’Agustino, 2
cuella ch’Iddio je le dà ttutte vinte.
Tra ddu’
spajjère 3 de grazzie 4 dipinte
se ne sta a ssede 5 co Ggesú bbambino,
co li su’ bbravi orloggi ar borzellino,
e ccatene, e sscioccajje, 6 e anelli e ccinte.
De bbrillanti
e dde perle, eh ccià 7 l’apparto: 8
tiè vvezzi, tiè smanijji, e ttiè ccollana:
e dde diademi sce 9 n’ha er terzo e ’r quarto.
Inzomma,
accusí rricca e accusí cciana, 10
cuella povera Vergine der Parto 11
nun è ppiú una Madonna: è una puttana.
Senti
st’antra.
sce 2 stanno scerte Moniche bbefane,
c’aveveno pe vvoto er contentino
de maggnà ttutto-cuanto co le mane.
Vedi si una
forchetta e un cucchiarino,
si un cortelluccio pe ttajjacce 3 er pane,
abbi da offenne Iddio! N’antro tantino
leccaveno cor muso com’er cane!
Pio Ottavo
però, bbona-momoria, 4
che vvedde una matina cuer porcaro,
je disse: «Madre, e cche vvò ddí sta storia?
Sete state
avvezzate ar Monnezzaro?! 5
Che vvoto! un cazzo. A ddio pò ddàsse groria 6
puro 7 co la forchetta e ccor cucchiaro».
Se pò
ssapé cche ddiavolo se freghi 1
la ggente? Io sò 2 ppe mmé bbell’e ccontrito
che sto povero Monno s’è ammattito,
e cce vò un Aguzzino che lo leghi.
Guarda, per
cristo, a cchi ddanno l’impieghi,
e ssi 3 sto caso s’è mmai ppiú ssentito!
oh Menicuccio, azzecca 4 un po’ cchi è ito
a ffà er Zoprano, 5 e ggovernà lli Greghi.
Opri
l’orecchie, Menicuccio mio:
incoronato de mortella e llàvero 6
j’hanno mannato un bavero, 7 per dio!
E li Greghi
pe Rre ppijjeno un bavero,
uno scarto d’un zacco d’un giudio, 8
che sse pòzzi 9 addormí ssenza papavero.
Bbenedetto
sia sempre quelle scianche 1
che cce portorno er Papa Cappellaro!
Ammalappena ch’io sentii lo sparo, 2
disse: ecco a Rroma le gabbelle franche.
Ce l’ha
mmannato 3 un angiolo! e cquann’anche
nun fossi 4 bbono de trovà un ripparo
a li guai nostri, è ssempre un Papa raro
piú dd’un bon oste e dde le mosche bbianche.
Suda
frascico, 5 e ppiaggne, e sse dispera,
arrocchia 6 editti, e impasta, e inforna e sforna,
pe bbuttà ttutto ggiú cquello che cc’era.
Ma, oh ddio,
vò rrinunzià! cché nnun je torna 7
de fà sta vita da matina a ssera,
pe ccosa poi? per avé mmazza e ccorna. 8
Er callo 1
che dd’istate ciariscalla 2
Dio fa cche dda la terra se sollevi
e ar tornà dde l’inverno l’ariscevi 3
la terra, c’ha la forma d’una palla.
Ecco spiegato
perché vvedi, Lalla, 4
che ll’acqua ch’essce da Funtan-de-Trevi
e oggn’acqua che cce lavi e cche cce bbevi,
d’istate è ffredda, eppoi d’inverno è ccalla.
Tu discorri
co mmé, fijja, discorri;
e ssappi c’ar bicchiere inummidito
j’intraviè 5 ccom’a tté cquanno che ccorri.
Appena
l’acqua fresca te l’ha empito
ar bicchiere je s’opreno 6 li porri, 7
e ssuda: seggno che nnun è ppulito.
Sta
vecchiaccia cqua in faccia è er mi’ spavento:
nun fa antro 1 che incanti e inciarmature, 2
fattucchierie, stregonerie, fatture,
sortileggi e mmaggie, oggni momento.
Smove li
fattijjoli
e oggni notte, sopr’acqua e ssopr’a vvento 4
er demonio la porta a Bbenevento
sotto la nosce de le gran pavure.
Llí cco le
streghe straformate
bballa er fannango, 6 e jje fanno l’orchestra
li diavoli vestiti da Cajjostri. 7
Tutte le
sere, io e lla Maestra,
ar meno pe ssarvà lli fijji nostri,
je mettémo la scopa a la finestra. 8
«Coso, hai
cosato er coso ch’er Zor Coso
cosò jjerzera in quela cosa tonna!». 1
Eh a sto sciangotto 2 tuo tanto curioso
ma cchi ddiavolo vòi che tt’arisponna? 3
Io sce
vorebbe vede 4 la Madonna
o cquarche Ssanto ppiú mmiracoloso,
si ppotessi sbrojjà sta bbaraonna 5
de sciarle che mme fai senza riposo.
Coso, cosa,
cosato!... Ma, Vvincenza,
come protenni 6 poi che cchi tte sente
nun te ridi sur muso? abbi pascenza!
Come te
perzuadi che la ggente
t’abbi da intenne! 7 Cuant’a mmé, in cusscenza,
nun capisco davero un accidente. 8
Sò 1
ccoggnomi da mettese 2 Bbuffoni,
Tonti, Vassalli, Giacobbini, Squajja,
e Mmaggnatordi, e Pporcari, e Ccanajja,
Cicciaporci, Cacò, Cciucci e Ffregoni?!
S’hanno da
chiamà ll’ommini Sbarajja,
Tartajja, Tartajjini, e Ttartajjoni,
Cacurri, Uscelli, Cacasce, Cojjoni,
Quarantotto, Ciovè, Ppazzi e Ppazzajja!
Sò
nnomi da cristiani l’Asinelli?
li Cavalli sò nnomi da cristiani?
e li Lupi, e li Gatti e li Porcelli?
Sentisse 3
dí pe strada: eh sor Villani,
sor Ciavatta, sor Fuga, sor Granelli,
sor Pelagalli mio! sor Castracani!
Disiderà
li fijji, eh sora Ghita?
Sí, ppe le bbelle ggioje che vve danno!
Prima, portalli in corpo guasi un anno:
poi, partorilli a rrisico de vita:
allattalli,
smerdalli: a ’ggni malanno
sentisse 1 cascà in terra stramortita:
e cquanno che ssò ggranni, oh allora è ita:
pijjeno sú er cappello, e sse ne vanno.
Cqua nnun ze
pò scappà da sti du’ bbivi:
si ssò ffemmine, sgarreno oggni tanto:
si ssò mmaschi, te viengheno cattivi.
’Gniggiorno
un crepacore, un guaio, un pianto!...
E vvòi disiderà li fijji vivi?!
No, nnò, Ccommare: Paradiso Santo!
Iddio disse a
Nnovè: «Ssenti, Patriarca:
tu cco li fijji tui pijja l’accetta,
e ssur diseggno mio frabbica un’arca
tant’arta, tanto longa, e ttanto stretta.
Poi fa’ un
tettino, e ccròpisce 1 la bbarca
com’e cquella der Porto de Ripetta; 2
e ccom’hai incatramato la bbarchetta,
curri p’er Monno, acchiappa bbestie, e imbarca.
Vierà
allora un diluvio univerzale,
c’appett’a llui la cascata de Tivoli
parerà una pissciata d’urinale.
Cuanno poi
vederai l’arco-bbaleno,
cuell’è er tempo, Novè, cche tte la sscivoli, 3
scopi la fanga, e ssemini er terreno».
Liofanti,
purce, 1 vaccine, leoni,
pecore, lupi, lepri, cani, uscelli,
mosche, vorpe, 2 galline, orzi, 3 stalloni,
sorci, gatti, majali e ssomarelli.
Cascio,
carnaccia, scorze de meloni,
granturco, conciatura, osse, tritelli,
trifojjo, canipuccia, bbeveroni,
e ffieno, e ccore-pisto e vvermiscelli.
Tutte ste
cose, e ttant’artre nun dette,
messe 4 inzieme Novè ddrento in nell’Arca
che la mano de Ddio doppo chiudette. 5
Un anno e
ppassa 6 galleggiò la bbarca!
E ffra cquer guazzabbujjo come annette? 7
Dimannàtelo, ggente, ar bon Patriarca.
Du’ ggiorni
doppo er fatto der cortello
pe vvia de cuella Madalena affritta 1
se presentò un Abbate e ’r Bariscello 2
drent’ar mi’ catapecchio 3 de suffitta.
Disce: «Che
nnome avete, bberzitello?». 4
Dico: «Una vorta me chiamavo Titta». 5
Disce: «Ma Ttitta cuale?» «Titta cuello
che sse pulissce er cul co la man dritta».
Cqua
cciarlonno 6 un tantino tra dde sé;
e ddoppo, disce: «Chi cce sta cqui ggiú?
Dico: «La fia 7 der coco de Sciamblè». 8
Disce: «Ho
capito; e bbon zuàr monzú». 9
fesceno 10 com’er Corvo de Novè
c’annò
Bizzoche
farze, 2 bbrutte corve nere,
che nnun zete 3 ppiú bbone pe mmiggnotte,
perché invidiate mó a le ggiuvenotte
cuello che vvoi fascévio 4 pe mmestiere?
Sicuro,
tiengo in casa un forestiere:
sto forestiere sta cco mmé oggni notte;
stanno 5 co mmé, ppe bbontà ssua, me fotte:
e sto fotte me dà mmorto 6 piascere.
C’è
dda scannolizzasse 7 pe ste cose?
Trovanno 8 un cazzo ar caso de fottérve,
le faressivo 9 voi le schizziggnose? 10
Nu lo sapete,
bbrutte vecchie corve,
che cchi ccià 11 er commido e nnun ze ne serve,
nun trova confessore che l’assorve? 12
Che mmanna 2
eh Nino? Iddio te bbenedichi:
pròsite, 3 porco mio: bbon prò tte facci. 4
Tièlli 5 pe tté: nun zerve che li spacci:
nun è rrobba da scèdese 6 all’amichi.
Senza
sturbamme 7 co li tu ficacci,
trovo a ppiazza-Navona tanti fichi
da fanne 8 scorpacciate, com’e pprichi 9
ch’empieno 10 le valisce
Lo stommico,
Grazzie: obbrigato: se li maggni lei:
sò 14 ffichi de l’Ortaccio, 15 e ttant’abbasta.
Monghi,
ciscíni, cardilatti e mmei 16
me pareríano
co sti fichi ingrassati da l’ebbrei.
Una ggiornata
come stammatina,
senti, è un gran pezzo che nnun z’è ppiú ddata.
Ah bbene mio! te senti arifiatata:
te s’opre er core a nnun stà ppiú in cantina! 1
Tutta la
vorta 2 der celo turchina:
l’aria odora che ppare imbarzimata: 3
che ddilizzia! che bbella matinata!
propio te disce: cammina-cammina.
N’avem’avute
de ggiornate tetre,
ma oggi se pò ddí 4 una primavera.
Varda che ssole va’: 5 spacca le pietre.
Ammalappena
c’ho ccacciato er viso
da la finestra, ho ffatto 6 stammatina:
«Hâh! cche ttempo! è un cristallo; è un paradiso».
C’aria
serrata! oh ddio che ttemporale!
Guarda, guarda San Pietro cor cappello! 1
Oh cche ttempo da lupi! oh cche ffraggello!
Eh cqua ssemo ar diluvio univerzale.
Ogni goccia
che vviè ppare un canale:
fa un’acqua a vvento, un piove
che nnun pòi tiené ssú mmanco l’ombrello,
e ssi ll’arregghi 3 uperto nun te vale.
Er celo
è nnero nero com’in bocca:
e, o vvadi immezzo o accosto a le gronnare, 4
credi sempre de stà ssotto a una bbrocca.
Le pianare 5
sò ffiumi e nnò ppianare:
ggià nnun c’è ppiú una chiavica che imbocca,
e ’r fiume cressce che Rripetta 6 è un mare.
Che
sperpetua! 7 Nun pare
che Iddio vojji ruprí 8 le cataratte,
e scateni li diavoli a ccommatte? 9
E cche ffai,
Ggiosaffatte?
Eschi da casa mó ppe ffà ddu’ passi?!
Chi nnun l’ha sse la scerca, e ttu lla lassi! 10
Co sti nuvoli
bbassi
speri che slarghi e cche tte dii ’no scanzo?!
Tu vvòi fà la tu’ fine a Pporto-d’Anzo. 11
Ma aspetta a
ddoppo-pranzo:
stamo a vvede 12 un po’ ppiú: llassa che sfoghi;
ché cco sta lússcia 13 cqua, fijjo, t’affoghi.
Sí, ppe
vvoantri 1 è un’invernata bella
ma ppe mmé ’na gran porca de staggione.
Io so cche co sto freddo bbuggiarone
nun me pòzzo 2 fermà lla tremarella. 3
Fischia
scerta ggiannetta 4 ch’er carbone
se strugge come fussi carbonella. 5
E annate a vvede 6 un po’ cche bbagattella
de zazzera c’ha mmesso Tiritone. 7
Sempre hai la
goccia ar naso, e ’r naso rosso:
se sbatte le bbrocchette 8 che ttrabballi:
tramontane, per dia, 9 ch’entreno all’osso:
stai ar foco,
t’abbrusci e nnun te scalli:
se’ iggnudo avessi 10 un guardarobba addosso...
E cchiameno l’inverno? bbuggiaralli!
Uff! che
bbafa 2 d’inferno! che callaccia!
Io nun ho arzato un deto 3 e ggià ssò 4 stracca:
oh cche llasseme-stà! 5 ssento una fiacca,
che nnun zò bbona de move 6 le bbraccia.
Sto nnott’e
ggiorno co li fumi in faccia,
sudanno
che inzino la camiscia me s’attacca
su la pelle. Uhm, si ddura nun ze caccia. 8
Ho ttempo a
ffamme 9 vento cor ventajjo,
a bbeve 10 acqua e sguazzamme
è ttutto peggio, perché ppoi me squajjo.
P’er
maggnà, ccrederai? campo de pane.
E nnun te dico ggnente der travajjo
de ste purce, 12 ste mosche e ste zampane. 13
’Na caliggine
come in cuest’istate
nu la ricorda nemmanco mi’ nonno.
Tutt’er giorno se smania, e le nottate
beato lui chi rrequia e ppijja sonno!
L’erbe, in
campaggna, pareno abbrusciate:
er fiume sta cche jje se vede er fonno:
le strade sò ffornasce spalancate;
e sse diría 2 che vvadi
Nun trovi
antro 4 che ccani mascilenti
sdrajati in ’gni portone e ’ggni cortile,
co la lingua de fora da li denti.
Nun piove
ppiú dda la mità dd’aprile:
nun rispireno ppiú mmanco li venti...
Ah! Iddio sce scampi dar calor frebbile! 5
Nun ha
ffrebbe? 1 e cche ssò 2 cquelli gricciori 3
che sse 4 sente oggni notte a ora tarda?
Nun sta mmale? e cche ssò cquelli colori
ggiall’e nnero che ppare una cuccarda?
Pe pparte mia
5 vorebb’èsse bbusciarda,
ma abbasta de vedé, ssori dottori, 6
come straluna l’occhi e ccome guarda,
pe ppotejje 7 intimà: ffijjo, tu mmori.
Che sserve de
passalla in comprimenti?
Je puzzava la vita? 8 e mmó la sconta,
e ll’anima la tira co li denti. 9
Lui 10 le
cose io le scàtolo 11 da tonta 12
ha ttempo mó a ppijjà 13 mmedicamenti:
nu la rippezza 14 ppiú, nnu la ricconta. 15
Er padre suo
bbon’anima 2 cuell’orto
me lo vennette 3 lui mentr’era vivo
e ggià ccurreno ott’anni da che è mmorto
ch’io l’ho scritto ar Castrato 4 e llo cortivo. 5
Cuant’ecchete,
6 ch’edè? 7 scappa sto storto,
e mme scita
E er giudisce, ch’è un prete, me dà ttorto,
discenno 9 ch’er contratto era allessivo. 10
Cento scudi
pe un orto che vva a mmille
protenne 11 lui che ssò ccómprite 12 ladre
da facce un baffo sopra 13 e dda punille, 14
E a
Ggiacobbe, che un piatto de lenticchia
je crompò ttutto l’asso 15 de su’ padre,
chi jje l’ha mmessa mai st’antra 16 cavicchia? 17
Che
or’è? cche or’è? È una cosa che tt’accora.
Nu le sentite, sposa, le campane?
Lo sapete 1 che or’è, ssora Siggnora?
È ll’ora che le donne sò pputtane.
È
ll’ora istessa de jjeri a cquest’ora,
e cche ssarà ppe mmorte sittimane.
Nun ve state a ppenà, 2 sposa: è abbonora,
perché bbutteno ancora le funtane.
È
ll’ora de nun rompe 3 li cojjoni:
è ppropio l’ora de damme 4 de bbarba:
è ll’ora ch’io ’mminestro 5 cazzottoni.
È
ll’ora, sposa mia, che ssi vve garba
cascheno li crepuscoli
da mó inzinenta a lo schioppà 6 ddell’arba. 7
Ggià,
la strada sur Mascello, ecco de bbotto
sce s’infroscia 4 abbrivata 5 una carrozza
co un gentilomo in abbit’e ppancotto. 6
Llí er
cucchieraccio fijjo de ’na zozza 7
senza dí a vvoi davanti, 8 e dde gran trotto,
sapenno 9 ggià cch’er poverello abbozza, 10
t’acchiappa un vecchio e tte lo mette sotto.
Le
ròte je passonno s’una zampa,
ché ffu pportato a ccasa mezzo morto,
e ddisce ch’è un miracolo si 11 ccampa.
De tutto
è stato fatto er zu’ rapporto:
ma cche tte credi? er cucchiere la scampa,
ché, sse sa, cchi vva a ppiede ha ssempre torto.
Ciavemo 1
su a Ppalazzo un Cardinale 1a
c’ha ppe ppadrone un nostro Romanello, 1b
e ffra ttutte le cariche papale
tiè er posto er piú maggnàtico e ’r piú bbello. 1c
Ma
rrinunzianno 2 er posto prencipale
per annà a ffà er guardiano d’un cancello, 3
dimanno
addirittura in ner core 5 der ciarvello.
Zitti,
però, cché nnun rinunzia un cazzo;
e cquann’anche volessi 6 da gabbiano 7
dà un carcio
in zu lo
scrive, 10 er Romanello nostro
je sfilería 11 la penna da la mano
sbaffannoje 12 le deta 13 co l’inchiostro.
Hai tempo a
mmutà 2 ppesi a la bbilancia,
c’ar fin de conti, a nnoi, pesa e rripesa,
sce 3 tocca sempre de parà la guancia
sott’a li schiaffi de la Santa Cchiesa.
Cualunque
legge nova avemo intesa,
nun dubbità, tutt’hanno la su’ francia. 4
Duncue, o ppatí, o mmorì: 5 cquesta è la mancia
che cce venne a intimà Ssanta Terresa.
Er Papa e li
su’ preti taratufoli 6
sò bbelli e bboni a mmaneggià li nerbi,
ma ppe ffà bbone Legge 7 un par de sciufoli. 8
Lo so er
Papa, lo so ccome s’arrampica: 9
lui se fa fforte co sti du’ proverbi:
chi fferra inchioda, e cchi ccammina inciampica. 10
Zitti:
vò mmorí er diavolo! Er Governo
sce ne manna 1 una bbona arfinamente. 2
Eppoi dite ch’er Papa è un accidente,
un Neronaccio, un Zènica, 3 un Liunferno. 4
Ce saranno le
mmaschere, uguarmente
che ssott’all’antri papi se vederno... 5
Come?! ch’è stato?! oh ccorpo de l’inferno!
l’editto nun viè ppiú?! nnun c’é ppiú ggnente?!
Ah ggriscio,
6 rafacano, 7 pataccone! 8
cuello ch’è oggi nun è ppiú ddomani!
Ah Ppapa de du’ facce pasticcione!
Figurete a
sta nova li Romani!
le bbiastime 9 se spregheno. Uh bbastone,
che pperdi tempo immezzo de li cani!
Ne la Morte
de Ddio la luna e ’r zole
co la famijja bbassa de le stelle
se messeno er coruccio; 1 e ccastaggnole
s’inteseno per aria e zzaganelle. 2
E cquesto
vonno dí cquelle mazzole
e cquelli tricchettracche e rraganelle 3
che sse fanno, pe ddillo in du’ parole,
de leggno, ferro, canna, crino e ppelle.
Er chiasso
che cce fâmo 4 è stato un voto
per immità cco li su’ soni veri
cuello der temporale e ’r terramoto.
E pperché
Ccristo è mmorto, e oggi e jjeri
vedessivo 5 arrestà ll’artare vòto
sino de carte-grolie e ccannejjeri.
C’è
mmó a Rroma un dentista, un giuvenotto
nato a Vvienna in dell’isola de Como:
un medicone, un ciarlatano dotto,
che sse potría legà ddrento in un tomo.
Lui strappa
denti de sopra e dde sotto
tutti eguarmente a un pavolo per omo. 1
Chi sse ne caccia poi diesci in un botto,
ha ll’undescimo auffa: 2 eh? cche bbrav’omo!
Venne 3 inortre
un zegreto pe ddu’ ggiuli 4
ch’è un’acqua bbona assai pe ddà ssoccorzo
a cchi è esposto a li carci 5 de li muli.
Bbasta
intíggnesce 6 un pezzo de sfilarcio 7
e strufinasse, 8 o dde succhianne 9 un zorzo 10
un momentino prima d’avé er carcio.
Oh, 1
cquanno lei me parla d’un brillante,
c’intennemo, 2 e nnun ciò 3 ggnente in contrario;
ma nnò cquanno me disce un zolitario,
credenno de parlà cco un iggnorante.
Drent’a un
libbro ch’io sempre me sce svario 4
c’è: er zolitario è un vermine c’ha ttante
canne de vita, o un passero, o un birbante
che ccampa cor diggiuno e ccor breviario.
Cuer che ppoi
disce la padrona mia
ch’io nell’essenza 5 sua je l’ho ttruffato,
la mi’ padrona disce una bbuscía.
In cuesto io
nun ciò ccorpa 6 né ppeccato:
l’anello suo je l’ho pportato via,
perché nnun je l’avessino 7 arrubbato.
Io te sto
ssempre appresso, e ttu, Ggiascinta,
m’arivorti 2 le spalle, e ffai la tonta. 3
Tu ddichi ch’io sò bbirbo; e ttu ssei finta:
chi è ppiú bbirbo de noi? famo la conta.
Tu ssei la
bbirba, fijja, e dde che ttinta 4
ché vvedennome
e nnun volenno 7 mai dàmmela 8 vinta,
ciài 9 sempre a mmano cuarche scusa pronta.
Un giorno
è lla Madonna de l’Assunta:
un antro 10 hai sonno, e ssò 11 bbuscíe de pianta:
un antro er coso mio tiè ttroppa punta.
Mó ssei
zitella! Ahú, 12 «Ffiore de menta,
cuanno vierà cquela ggiornata santa
ch’er prete ve dirà: Ssete contenta?». 13
’Na
Regginella annanno
a ccaccia in d’una macchia ariservata,
vede una bbestia nera che ss’inchina
fra le frasche, e cce 3 resta arimpiattata.
Presto pijja
la mira la Reggina,
e, ppúnfete, je dà ’n’archibbusciata;
e ggià ssu cquella bbestia mmalandrina
tiè la siconna 4 bbotta preparata.
«Oh ddio, sagra
Maestà, nnun m’accidete»,
strillò una vosce for de la verdura:
«io nun zò 5 un porco, Artezza mia, sò un prete».
La Reggina a
sto strillo ebbe pavura;
e jje disse: «Aló, in gabbia; 6 e imparerete
a spaventamme in corpo la cratura».
Perch’è
annata mi’ mojje a le Scalette? 1
Perch’er zu’ Prelatuccolo è una piggna, 2
che ar tempo bbono promette promette,
e appena vede er nero se la sbiggna. 3
Ccusí
ssuccede a cquelle poverette
che li preti je zappeno la viggna:
pe cquesti nun ze troveno lancette
che jje pòzzino 4 fà mmezza sanguiggna.
Si er zu’
amico nun era un piggna-verde,
e ddava ar vicariato un po’ de taffio, 5
nun aveva Luscìa ggnente da perde. 6
Ma ssi llui
ciariviè 7 ccor zu’ pataffio
de cuelle du’ croscette de le mmerde,
me j’affiàro 8 ar gruggnaccio, e jje lo sgraffio.
S’è
una gran testa!? ah nnò?: 1 pporta er cudino: 2
veste de nero come un carbonaro:
sa vventitré pparole de latino:
canta l’istorie come un istoriaro:
sòna
un’arietta o ddua sur mannolino:
rifà
inzomma er zu’ sciarvello è, in ner piú ffino,
piú ggrosso d’un bancon de mascellaro. 4
Annate
piú cche li servitori de commedia,
che nne potrieno empí mmille credenze.
Stanno 6
viscino a llui cuanno che pparla,
sempre cuarche struzzione 7 s’arimedia: 8
si nun fuss’antro
Io
riparlà cco llui?! che? Mme ne fotto.
Nu lo sai che mm’ha ffatto cuer ruffiano?
Disse «Lello, una presa»; e io gabbiano
je presento la scatola de bbotto.
Lui stenne
justa-solito 1 la mano,
ippisi-fatto 1 poi la passa sotto,
e llí ssan-bruto 1 me je dà un cazzotto
che mme la fa zzompà 2 ddu’ mía 3 lontano.
Ciavevo
4 messo allora tre bbaiocchi
de mezzo Sanvincenzo e mmezz’Olanna,
che mme volorno
Tutto pe
ccorpa 6 ggià de chi ccommanna,
che nun vò che sse portino li stocchi,
dove che cce voría bbainetta
La Mammana
protenne 2 che la pupa 3
me sta ssempre accusí strana e ffurastica, 4
perché la zinna mia è ttroppa cupa, 5
e ’r mi’ calo 6 è una spesce de scolastica. 7
Cuant’ar
tiro, eh cche vvòi! pare una lupa:
s’attacca ar caporello, 8 e mme lo mastica,
e jje dà nnotte e ggiorno, e mme lo ssciupa, 9
che mme scià 10 ffatto ggià ppiú dd’una crastica.
11
Oh vvadino
12 mó a ddí: chi ha mmojje ha ddojje!
Nun zo ssi cce pozz’èsse 13 paragone
si 14 ppeni piú er marito che la mojje.
Vienghino
15 cqui a ssentí er farzo-sbordone 16
ch’io canto cuanno er petto me s’accojje, 17
e ddíchino 18 chi ha ttorto e cchi ha rraggione.
Sta in
priggione, ggnorzí, 2 ppovero storto!
Io da l’abbíle 3 sce faría 4 la bbava.
Sta in priggione: e pperché? pperché ccantava
jer notte: Maramào, perché ssei morto. 5
Ebbè?
ssi 6 è mmorto er Papa? e cche cc’entrava
de dì cche ccojjonassi 7 er zu’ straporto? 8
E cché! ttieneva l’inzalata all’orto
er Zanto-Padre? e cché! fforze 9 maggnava?
Teste senza
merollo: 10 idee brislacche. 11
Duncue puro a ccantà cce vò er conzenzo
de sti ssciabbolonacci a ttricchettracche!
Io me sce
sento crèpa 12 da la rabbia.
«Ma», ddisce, «è bben trattato»: eh, bber compenzo
d’avé la canipuccia e dde stà in gabbia.
La
Verità è ccom’è la cacarella,
che cquanno te viè ll’impito 1 e tte scappa
hai tempo, 2 fijja, de serrà la chiappa
e stòrcete 3 e ttremà ppe rritenella.
E accusí, ssi
la bbocca nun z’attappa,
la Santa Verità sbrodolarella 4
t’essce fora da sé dda le bbudella,
fussi tu ppuro un frate de la Trappa. 5
Perché ss’ha
da stà zzitti, o ddí una miffa 6
oggni cuarvorta sò le cose vere?
No: a ttemp’e lloco d’aggriffà ss’aggriffa. 7
Le bbocche
nostre Iddio le vò ssincere,
e ll’ommini je metteno l’abbiffa?
No: ssempre verità: ssempre er dovere.
Dichi tu c’a
sto Monno nun ce pozzi 1
tiené er piede in du’ staffe 2 chi cce vive,
e a uso de li nostri bbarilozzi
er Monno cacci 3 peperoni e olive.
L’ommini,
dichi tu, sò 4 uguali a ppozzi,
o ppieni d’acque bbone o de cattive.
Oh a cquesta scerca un po’ cchi te sciabbozzi 5
perch’io nun te la pòzzo 1 sottoscrive.
Dunque, a
cquer che tte va pp’er coccialone, 6
cuanti maggneno pane, tutti cuanti
o ssò ggente cattive o ggente bbone.
E vvoressi
7 legà ttutti in du’ fassci,
un fasscio vertüosi, uno bbirbanti!
E li cazzacci, ohé, ddove li lassci?
Cqua avemo
sei Spedali, e ttutti granni 1
che cce sei medicato e stai bbenone.
Si ttrovi cuarchiduno 2 che tte scanni,
ciai 3 lo Spedàr de la Conzolazzione: 4
ciai San
Giachemo, 5 senza che tt’affanni,
si gguadaggnassi mai cuarche bbubbone:
c’è Ssan Spirito 6 poi e Ssan Giuvanni 7
che ccura ammalatie d’oggni fazzione.
Hai la
tiggna? te pía 8 San Galigano, 9
dove tajjeno 10 auffa 11 li capelli
mejjo de Rondinella 12 er babbilano. 13
Finarmente
sce sò li Bbonfratelli: 14
ma cqui nun pò appizzacce 15 oggni cristiano.
Cuesto nun è Spedàr da poverelli. 16
Oh cche rride
2 co Cciscia-Pacchiarella!
Noi fàmio 3 ar verde siconno 4 er costume,
e o nnotte o ggiorno, o ar lume o ssenza lume
nun me poteva cojje in ciampanella. 5
Jer’ar giorno
a la fine, poverella,
doppo tamante 6 prove annate in fume,
venne a ssapé cch’io ero ito a ffiume
a nnotà 7 ssolo solo a la Renella. 8
Credenno
subbito lei, pe ccòjjeme in freganti, 11
curre a la riva, e ddisce: «Oh, ffora er verde».
E llesto io
j’arisponno: «Un momentino».
E accusí iggnudo me je faccio avanti
cor finocchio attaccato ar pennolino. 12
Che vvor dí
sto succhià, bbrutti paíni? 2
Che sso, mmai ve rodessi 3 er terenosse! 4
Sò ffía 5 de bbona madre, e a mme le sbiosse 6
nun me le sona chi nnun cià 7 cquadrini.
Co nnoi li
scarzacàni? 8 heh heh, cche ttosse! 9
che ccatarro da marva 10 e zzuccherini! 11
Sori sfrizzoli 12 agretti e ttenerini, 13
cqua nun c’è ppasso c’a le bborze grosse.
Si sse
metteno 14 ar torchio li corpetti,
nun ce sprèmeno l’arma d’un baiocco
da sfamasse
e cce
viengheno
Succhiatelo tra vvoi co li culetti,
contentanno 17 accusí mmànico e ffiocco. 18
Caro sor
Bonascópa,
Voi che ffate li cquadri a ssotto-scianca, 2
dico, diteme un po’, cquanto sciamanca 3
a sporcà sta mi’ stanzia bbenedetta?
Me pare
ch’è un ber pezzo che ss’aspetta,
e ssarebb’ora de passà la bbanca. 4
Eh cchi ssete, un pittore o un artebbianca, 5
che vve pijji, diograzzia, una saetta?
Pe cquattro
sgraffi schiccherati a sguazzo 6
nun avería mai creso 7 d’impiegacce 8
tutte ste cuattro tempore der cazzo.
Che cciavete
State a mmette li conzoli in palazzo,
sor sbaffa-culi, sor impiastra facce?
Lo sapevo da
un pezzo, scioscia mia, 1
che cquanno er zacerdote s’è apparato, 2
oggni cosa c’ha ppresa in zagristia
tiè anniscosto er zu’ bber ziggnificato.
Perantro, te
confesso er mi’ peccato, 3
sta cosa sola nun zo ddí cche ssia:
ciovè 4 che mmentre scèlebbra un prelato
j’abbino da tiené cquella bbuscía. 5
Eppuro,
6 cazzo, su st’usanza fessa 7
le poteveno dí cquattro parole
pe ssciferà una cosa ch’interessa.
Uhm, mai
8 nun fussi cqua ddove je dole, 9
che li vescovi fora de la messa
co le bbuscíe 10 sce ggireno le mole.
Oggnuno ar
Monno ha cquarche ddivozzione:
tutti adoreno er zu’ Sant’avocato.
Li frati vonno bbene a Ssan Lupone, 1
e li preti a Ssan Dazzio 2 e Ssan Donato. 3
Chi ddisce un
paternostro ar bon Ladrone,
chi vvò Ssan Maggno 4 e cchi Ssan Libberato, 5
e ’r Papa nostro che nun è ccojjone
tiè ppe ssé Ssan Filisce e Ffurtunato. 6
Li servitori
pregheno San Giobbe,
le donne San Cornelio e Cciprïano, 7
e ttutti li paini 8 San Giacobbe.
Er zanto de
li guìtti è Ssan Bassano; 9
e oggni Re c’a sto Monno se conobbe
ricurze
A
nnegà ttutto sce vò 1 un ber 2 coraggio!
Si llei però sse vò ppijjà sto svario, 3
troverà in ner festivo 4 e in ner lunario
l’invenzion de la crosce ar tre de maggio.
Anzi,
potrebbe lei fà ttutt’un viaggio,
e ccercà ppuramente
e vvedrà che cquer giorno in zur Carvario
fu inventata la crosce pe un assaggio.
E ariusscí
l’invenzione tanta bbella,
che dda cuer giorn’impoi s’è ssempre detto
che nnun ze po ssarvà cchi nnun vò avella. 7
Pe cquesto
sce sò 8 ccrosce in oggni tetto,
cuppola, campanile, arma, cappella,
casa, saccoccia, 9 pissciatore 10 e ppetto.
La mejjo cosa
che a Ccampo-Vaccino
se fascessi
fu a ppied’a ccampidojjo una priggione,
che ttutti sce parlaveno latino.
Cuer logo se
chiamava er Mammerdino;
e nnun credete a mmé cche ssò un cojjone,
ma ffatevene fà la spiegazzione
da un certo Avocatuccio piccinino. 3
È
ppropio cuella la priggione, indove
sce fotterno 4 San Pietro carcerato
prima c’annassi a le Carcere nove. 5
E llui sce
fesce 6 cuer pozzo affatato, 7
che dda tant’anni, o ttempo bbono, o ppiove,
è ssempre pieno e nnun z’è mmai vôtato.
Eppoi me
sposi, eh? Ppovero sciuchetto, 2
fàteme un po’ ssentí ccor un detino
si vv’amancassi mai cuarche ddentino!
Sciavete mamma? Volete er confetto?
Bravo er zor
cascamorto innoscentino!
Co ste bbelle promesse de l’ajjetto, 3
se scerca 4 d’abbuscà cquarche ffiletto, 5
eppoi fume de cappa de cammino. 6
Dàmmela
e ppoi te sposo: quant’è ccaro!
Er patto è ggrasso assai, ma nun me torna: 7
rivienite a li trenta de frebbaro.
E ttant’e
ttanto me credevi sciorna? 8
Nò cco mmé: 9 tte conosco, bbicchieraro. 10
Cqua, pprima de sposà, nnun ce s’inforna.
De li
fratelli bboni è vvero, Teta,
che ssi ne trovi dua sò ccasi rari;
ma li mii! li mii poi sò ppropio cari
com’e ddu’ catenacci de segreta.
Storti,
1 scontenti, 2 menacciuti, avari:
tutto li fa strillà, ttutto l’inquieta...
E ttu mme dichi: «Sei ’n’accia de seta»! 3
Vatte a ingrassà cco sti bbocconi amari.
Cualunque
sciafrería 4 porteno addosso
tutto ha da usscí dda ste povere mane:
e Iddio ne guardi si jje chiedo un grosso. 5
Io ’r
cammino, io la scopa, io le funtane...
Cuann’è la sera nun ciò 6 ssano un osso!
Inzomma, via, sce 7 schiatterebbe un cane.
Sí, intavola!
Tra Ggaspero e Pprezziosa
er madrimonio è bbell’e intavolato.
Ma cche vvòi che tte dichi? Mo una cosa,
mo un’antra, è stato sempre arispostato. 1
Voleveno
sposà ppe Ppascua-rosa, 2
e cce fu cquella picca der Curato.
Doppo, venne la roggna de la sposa:
doppo lo sposo aggnéde 3 carcerato:
mó
ss’è incajjato er punto 4 de la dote,
ch’inzinenta 5 ch’er Papa nun ritorna
sta indemoniata, 6 e nnun ze pò ariscote. 7
Cuest’è
la cuarta vorta che sse storna.
Già, madrimoni! Hai tempo uggne 8 le rote,
sempre er diavolo sc’entra co le corna.
Sor
Bragalisse 1 mio, con cuell’occhiali
voi sce 2 vedete meno d’un pupazzo.
Li Sagramenti tutt’e ssette uguali?!
Ve posso dí cche nnun è vvero un cazzo.
Pe
cconfessà, li sagri tribbunali
sò ssempre uperti: bbattezzi un regazzo,
l’acqua sta ssempre in ordine: t’ammali,
e ll’ojjo-santo te lo danno a sguazzo. 3
Nun
c’è antro ch’er zanto madrimonio
c’ha li tempi províbbiti, e vviè a èsse 4
mezzo de Cristo e mmezzo der demonio.
Fregamo tutto
l’anno e vvoi e io,
e li preti sce serreno le fesse 5
da fotte in grazzia der Ziggnor’Iddio.
Ihii, llassa
fà a llei pe ccomprimenti.
E mmica te pasteggia o tt’aripassa, 1
sai? La su’ lingua è ccome una matassa,
che ttiri un capo e tte ne trovi venti.
Lei sputa
cuello che jje viè a li denti.
Sei ’na saraca, 2 e ddisce che ssei grassa:
nun hai ggnisuno ar monno, e tte sfracassa
co le grannezze de li tu’ parenti.
Piú de jjerzera
Ma ssenti, Madalena, a sta sciufeca 5
si ppe llodà cche ffantasia je pijja!
C’era la sora
Teca. 6 «Ah ssora Teca»,
disce, «che ggran bell’occhi ha vvostra fijja!».
Oh ttu azzécchesce 7 un po’: la fijja è cceca.
Appena un
angelaccio de li neri
pijjò l’impunità, ssarva la vita,
Iddio chiamò a l’appello una partita
de Troni, Potestà e Ccherubbiggneri. 1
E ttratanto
fu ssubbito imbannita 2
’na Legge 3 contr’all’osti e llocannieri
che ttienessino
senz’avvisà la Pulizzia pulita.
Poi San
Micchel’Arcangelo a ccavallo
de gran galoppo, a uso der Croscifero,
uscì cco uno Stennardo bbianch’e ggiallo.
E ddoppo er
zono d’un tammurro e un pifero,
lesse st’editto: «Iddio condanna ar callo 5
l’angeli neri e ’r Capitan Luscifero».
Letto
l’editto, oggn’angelo ribbelle
vorze 1 caccià lo stocco, e ffasse 2 avanti;
ma Ssan Micchele bbuttò vvia li guanti,
e ccominciò a sparà lle zzaganelle.
L’angeli
allora, coll’ale de pelle,
corna, uggne, 3 e ccode, tra bbiastime e ppianti,
tommolorno
che li schizzi arrivaveno a le stelle.
Cento secoli
sani sce metterno 5
in cuer gran capitommolo e bbottaccio
dar paradiso in giú ssino a l’inferno.
Cacciati li
demoni, stese un braccio
longo tremila mijja er Padr’Eterno,
e sserrò er paradiso a ccatenaccio.
Nun zò
2 da Papa, nò, ttante sciarlette.
Oh, llui studi un po’ ppiú: llegghi er Vangelo;
e vvederà, ssi mai, che ppuro in Celo
sce sò stati li torbidi e le sette.
E ssi nnun
era, dioneguardi, er zelo
de San Micchele co le su’ saette,
l’angeli a Ddio je daveno le fette, 3
te lo dich’io, da rivedejje er pelo.
Anzi
aringrazzi lui cuer zerra-serra:
ché ssi nnò cchi lo sa cche antra piega
pijjaveno l’affari in Celo e in terra?
Nun ze fa
ssegatura senza sega.
Duncue er Papa pò ddí cche cquella guerra
j’ha ddato campo a llui d’uprí bbottega.
«Pe vvéde
1 cosa sc’è ssopr’a le stelle
che sse pò ffà?» disceveno le ggente.
Fesce uno: «E cche cce vò? nnun ce vò ggnente:
fabbricamo la torre de Bbabbelle.
Sú,
ppuzzolana, carcia, mattonelle...
io capo-mastro: tu soprintennente...
lavoramo, fijjoli, alegramente!...».
E Ddio ’ntanto rideva a ccrepa-pelle.
Già
ssò ar par de la crosce de San Pietro,
cuanno, ch’edè?! jje s’imbrojja er filello, 2
e invesce d’annà avanti vanno addietro.
Gnisuno ppiú
ccapiva l’itajjano;
e mmentr’uno disceva: «Cqua er crivello»
l’antro je dava un zecchio d’acqua, in mano.
Ma lo sai de
cuer cefolo 2 de Peppe?
Nun z’è incazzito 3 appresso a cquella zozza 4
piú ppeggio d’un turaccio de tinozza?
Io m’intese 5 ggelà cquanno lo seppe. 6
Cià
una scrófola in gola che la strozza;
un fiato che jj’odora de ggileppe, 7
e un petto, un petto poi, che ssan Giuseppe
je sc’è ppassato sú cco la pianozza. 8
Tiè
ssott’ar collo un par de catenacci 9
che sse potrebbe chiudesce 10 una stalla.
Bbravo Peppetto mio! bbon pro jje facci.
Er gnocco
j’ha ccrompato 11 una casuppola
e cquanno ciaverà 12 speso una spalla, 13
si ll’appesta je dii de bbarb’in cuppola.
Ma cche
ppolagra 1 e ppannarisce: 2 senti:
tu ne pòi mentovà ssino a ddomani,
ma uno spasimo simile a li denti,
cristoggesummaria, manco a li cani!
Pe mmé sso
cch’io da diesci ggiorni a vventi,
ciò
E acqua de la Scala, e mmarva, e inguenti,
e sèntisce 4 chierurghi, e cciarlatani!
Ggnente: ppiú
cce ne faccio, e ppiú mme dòle.
Cuer che ppoi me fa rride è Ddelarocca. 5
Disce: «Mettéte la radica ar zole».
Ma indove se
pò ddà ppiú ccosa ssciocca!
L’ho er tempo io d’impiegà ddu’ ora sole
llí a bbocc’uperta, e cco le deta in bocca?
Che
bbell’abbilità, cche bbella groria
de sapé rrescità sta filastroccola!
Cuanto faressi mejjo èsse una zoccola,
e nnun vienicce
Che mme ne
preme un cazzo de l’istoria:
a mmé mme piasce de vive a la bbroccola,
senza stamme
e impicciamme 4 li fili a la momoria.
E cche! ho da
fà er teolico, er profeta,
ho da incide le statue, li quadri,
m’ho da mette la mitria, la pianeta?!
Bast’a ssapé
cc’oggni donna è pputtana,
e ll’ommini una manica de ladri,
ecco imparata l’istoria romana. 5
Presa a
Ppiazza de Ssciarra 2 la scipolla
dall’ortolano, e, llí accanto, er presciutto,
le paggnottelle e ’r pavolo de strutto,
annavo
Quanto
m’accosto a un omettino assciutto,
che stava a ppijjà er Cracas 5 tra la folla:
«Faccia de grazzia, indov’è cche sse bbolla?» 6
«Eh, a Rroma, nu lo sai?», disce: «pe ttutto».
Doppo,
ridenno, 7 m’inzeggnò ll’uffizzio.
Ma ttratanto 8 capischi che ffaccenna?
che stoccatella a nnostro preggiudizzio?
Ma ssai cche
jje diss’io? «Sor coso, intenna, 9
ch’è vvero che ccertuni hanno sto vizzio,
ma cquer tutti lo lassi in de la penna».
Senti, te
vojjo dà ssette segreti
su la distribbuzzion de li peccati.
L’avarizzia è er peccato de li preti,
e ll’usuria er peccato de li frati.
La superbia
impallona li poveti
pe li loro sonetti stiracchiati:
e la gola incazzissce 1 li tre cceti
de Cardinali, Vescovi e Pprelati.
Le donne
attempatelle hanno l’invidia:
li cavajjeri cojjonati, 2 l’ira;
e l’impiegati pubbrichi l’accidia.
Striggni poi
tutto er zettenàrio, e ccapa: 3
mettelo 4 drent’ar bussolo, e ppoi tira:
cualunque pijji nun sta bbene ar Papa.
Eh
ggià, ttutti li guai, tutti li scarti 2
sò ppe ccausa der Papa a sto paese:
e nnun fuss’io che nn’aripìo li cuarti, 3
lo voríano 4 schiattato in mezzo mese.
Li Cardinali
fanno troppe spese:
è er Papa. S’arisenteno l’assarti: 5
è er Papa. S’arricchischeno le cchiese:
è er Papa. S’ariddoppieno l’apparti:
è er
Papa. Tutto er Papa, sciorcinato! 6
Lui cressce le gabbelle, cala er pane,
frega 7 er zuddito, bbuggera 8 lo Stato!...
Come! cuesto
è er linguaggio che ss’addopra
cor Crist’-in-terra, eh fijji de puttane?
Zitti: e ar Papa, per Dio, ’na pietra sopra. 9
Me chiedi si
2 ccom’è cch’er terzo e ’r quarto
ch’ereno 3 ggià er ritratto der malanno,
mó ccrompeno 4 li titoli e tte vanno
in carrozz’a bbommè tutt’in un zarto:
subbito,
bbello mio, ch’è ppiú dd’un anno 5
che mmonteno la scala de l’apparto, 6
deven’èsse 7 saliti tant’in arto
che nnun ze vedi 8 ppiú cquello che ffanno.
Er
Caporal’Andrea, ch’è un artijjere,
disce: «A la bbomma 9 bbast’a ddàjje 10 foco,
e ’r resto va da sé ccom’er dovere».
Pe nnun
mutà ffurtuna a ppoc’a ppoco,
ma ddiventà addrittura cavajjere,
cqua nnun ze n’essce: o ffurti, o apparti, o ggioco.
Fijja, nun ce
1 sperà: ffatte 2 capasce
che cqua li ricchi sò ttutti un riduno; 3
e un goccio d’acqua nun lo dà ggnisuno,
si tte vedessi 4 immezzo a una fornasce.
Tu bbussa a
li palazzi a uno a uno;
ma ppòi bbussà cquanto te pare e ppiasce:
tutti: «Iddio ve provedi: annate in pasce».
Eh! ppanza piena nun crede ar diggiuno.
Fidete,
5 fijja: io parlo pe sperienza.
Ricchezza e ccarità ssò ddu’ perzone
che nnun potranno mai fà cconosscenza.
Se 6
chiede er pane, e sse trova er bastone!
Offerímolo
è un conforto che ddà la riliggione.
Che ccos’ho,
cche ccos’ho! Nun ve l’ho ddetto
mill’antre vorte ggià cche nun ho ggnente?
C’ho da fà? Pe ddà ggusto ar zor gaudente,
m’ho da mett’a bballajje 2 un minuetto?
Bbe’, ssi
llei se la sona, 3 io fo un balletto.
Ma ssò bbuffe l’idee c’hanno le ggente!
Cuanno che stanno loro alegramente
vonno c’oggnuno ridi
Io ve la
canto un’antra vorta sola,
ch’io nun ho ggnente; e ssippuro l’avesse, 5
nu ne direbbe a llei mezza parola.
Caso dunque
lei tiè cquarch’interresse
da sbrigà cco la sora Luscïola,
vadi, 6 ché ttanto noi semo l’istesse.
Nun è
da dí ppe cquesto ch’io me stracchi:
no, er bene je lo vojjo, e Ddio sa cquanto.
Piú ppresto 2 di’ cche ccasomai la pianto,
c’è er ber 3 motivo suo c’arzo li tacchi. 4
Nun
m’è mmojje, e ggià ho ssempre spavuracchi,
che mme tocca de stà ccoll’ojjo-santo
in zaccoccia. 5 E ssi ttanto me dà ttanto, 6
figuramose 7 un giorno li pennacchi! 8
Sei propio
caro tu cco la tu’ fiacca: 9
«Nun te mette ste purce in de l’orecchie». 10
Cuesto, compare, nun è mmal da bbiacca. 11
Cuanno che
jje ne va, 12 ggiovene o vecchie,
la fanno je cuscissi 13 la patacca:
e ppe imbrojjatte 14 poi, sò mmozzorecchie. 15
Oh bbenedetto
chi ha inventato er letto! 1
Ar Monno nun ze dà ppiú bbella cosa.
Eppoi, ditelo voi che sséte sposa.
Sia mille e mmille vorte bbenedetto!
Llí ttra un
re de corona e un poveretto
nun c’è ppiú regola. Er letto è una rosa
che cchi nun ce s’addorme s’ariposa,
e ssente tutto arislargasse 2 er petto.
Sia d’istate
o d’inverno, nun te puzza:
pôi stacce 3 un giorno e nnun zentitte 4 sazzio,
ché ar monno sc’è ppiú ttempo che ccucuzza.
Io so
cc’appena sciò 5 steso le gamme, 6
dico sempre: Signore t’aringrazzio;
e ppoi nun trovo mai l’ora d’arzamme. 7
Ce sò
li Presidenti 1 pe ’ggni urione, 2
ma è ccome nun ce fussino, 3 fratello.
Cuesto sta ar foco a rriscallasse: 4 cuello
sente e rrisente, e nnun dà mmai raggione:
uno se fida
d’un ispettorello...
Basta, nun vojjo fà mmormorazzione.
Fatt’è cch’er fijjo de le propie azzione
sta ssempre tra l’ancudine e ’r martello.
T’aricordi lo
schiaffo che mme diede
Marco? Tu mme discessi: «Va’, Ccremente, 5
va’ a rricurre, 6 pe ccristo»; e io sciaggnéde. 7
Lo sai che
mme concruse 8 er Presidente?
«Oh vvia te l’avrà ddato in bona-fede:
nun me fate impiccià co st’accidente». 9
Ecco propio
er discorzo che mme tenne
parola pe pparola er mi’ avocato.
«Pe rraggione, hehei! sce n’hai da venne, 3
ma er giudisce, che sserve?, nun c’è entrato.
Monziggnore,
fijjolo, nu l’intenne. 4
Ma ssai che jj’ho ffatt’io? me sò appellato.
E sta’ cquieto, ché cquello che sse spenne 5
t’ha dda èsse 6 poi tutto aringretato». 7
Cqua intanto
sò ttre mmesi che sse squajja; 8
e ssi ddura accusí, ttra un antro mese
se finissce a ddormí ssopr’a la pajja.
Brutti
affaracci er méttese
Si tt’incocci, 10 pòi perde 11 la bbattajja:
e, ssi tte stracchi, bbutti via le spese.
La
Verità assomijja ar giuramento
cuanto s’arissomijjeno du’ fave.
Una de loro è ccome er fonnamento
de la frabbica, e ll’antro è ccome er trave.
Epperò
cqua sse ggiura oggni momento.
Li Cardinali ggiureno in Concrave;
e ’r Papa ggiura poi sur Zagramento
cuanno pijja er trerregno co le chiave.
Giureno
tistimonj, liticanti,
giudisci, frati, preti, e ’ggni gginìa: 2
ché er giurà mmanna 3 sempre un pass’avanti.
E pperché in
prova de nun dí bbuscía
st’usanza de ggiurà cc’è in tutti-quanti,
la santa Verità sse 4 bbutta via.
Sei mesi fa,
la bbaronessa Moma 1
se n’entrò dda un Mercante che cconossce,
e dde morletti e dd’antre robbe frossce, 2
nun fo bbuscía, ne caricò una soma.
Ma pperché
aveva le saccocce mossce,
guajo c’accade spesso spesso a Rroma,
fesce: 3 «Nun dubbità, ssò ggalantoma:
pagherò ttutt’assieme cor filossce».
Cuant’ecco,
venardí, tutto compito, 4
er Mercante cor conto de le dojje.
«Portatelo», lei disce, «a mmi’ marito».
Ma er zor
Barone, poco avvezzo a ssciojje, 5
visto cuer conto, tutto inviperito
j’arispose: «Portateto a mmi’ mojje».
Tutte ste
bbussolone e bbussolette
che vvedete cqua e llà, ssor Libberato,
stanno impostate pe ppotecce mette 2
le lemosine, e ssò 3 lleggno spregato:
perché o nnun
c’è un cristiano bbattezzato
che ttienghi 4 ppiú st’usanze bbenedette,
o ssippuro 5 se dà cchi ha imbussolato,
’ggna 6 guardà ppoi chi vvòta le cassette.
Poveri
sagrestani e ccammarlenghi!
Trovannose 7 davanti a cquer ber quadro
io vorebbe 8 vedé cchi sse trattienghi. 9
O ssii sacco,
o ssii cotta, o ssii pianeta,
l’occasione, se sa, ffa ll’omo ladro,
e li quadrini sporcheno te deta.
Nun ce
pòzzo stà ppiú; 2 nnun trovo loco:
in sta casa sce sò 3 ttroppi scompijji.
Cuanno aritorna Lei c’ha pperzo 4 ar gioco,
pare propio una furia co l’artijji.
Vò
ccenà e nnun cenà: strapazza er coco:
mena a le donne: fa svejjà li fijji:
mó nnun arde er chenchè: mmó ppuzza er foco...
nun c’è inzomma con chi nnun ze la pijji.
Butta via li
bbonè, straccia li guanti;
e ll’abbiti cqua e llà nne fa una spasa, 5
bestemmianno er Ziggnore co li Santi.
Poi, per
urtima bbotta de catubba, 6
pijja quadrini dar Mastro de Casa, 7
che ddiesci je ne dà, ddiesci n’arrubba.
Co ste
bbellezze e cco st’annà
tratanto che vvor dí, 3 ssora Sciscijja? 4
Tutti ve vonno e ggnisuno ve pijja;
e vve tocca a rrestà ssempre a la coda.
Nun ve lodate
tanto, bbella fijja,
perché a Rroma a la ggente che sse loda
je dimo 5 noi: chi sse loda se sbroda, 6
e trova chi jj’arrenne la parijja.
Perché avete
vent’anni e ’r culo tonno, 7
oggnantra donna appetto vostro è un torzo?
Chi ha pprudenza l’addopri, io v’arisponno. 8
Riccomannàteve
a Ssan Carl’ar Corzo,
che vve curri 9 la vita, e ppo’ a sto Monno
state a vvedé ssi vve vò 10 mmanco un orzo. 11
Brungia!
2 E cco cquella pelle de somaro,
che sséguiti a ddormí ssi tte s’inchioda,
fai tanto er dilicato? Ih, un freddo raro!
nun ze trova ppiú un cane co la coda!
Ma ccazzo!
Semo ar mese de ggennaro:
che spereressi? 3 de sentí la bbroda? 4
L’inverno ha da fà ffreddo: e ttiell’a ccaro
ch’er freddo intosta 5 l’omo e ll’arissoda. 6
E ss’hai ’r
zangue de címiscia
de ggiorno sce sò 8 bbravi scardinoni
da potette 9 arrostí ccome un porchetto;
e dde notte
sce sò ll’antri foconi
c’addoprava er re Ddàvide in ner letto
pe ppijjà cco ’na fava du’ piccioni. 10
Oh bbona!
che li Papi, ar riscéve 2 li trerreggni
fascéveno aridà 3 ttutti li peggni
che li Romani aveveno impeggnato.
Prima io
dunque che ffussi spubbricato 4
er Papa novo da sti rrossci 5 indeggni,
m’aggnéde
e cce fesce 8 du’ pranzi ar Tavolato. 9
C’avevo da
sapé, ffijji mii bbelli,
ch’er Papa dovessi èsse 10 un Cappellaro 11
che sformassi 12 sta razza de cappelli? 13
Cazzo!
annajje
de nun ridà li peggni de ggennaro! 16
Cuesta sí cche mm’arriva ar cuderizzo! 17
Come
s’impiccia 2 sta maggnata, eh Aggnesa,
l’urtimo marteddí dde Carnovale?
Famo 3 accusí: ttu ffiggne 4 de stà mmale,
e bbolla 5 li cristiani in cuarche cchiesa.
Mannamo
6 intanto a ppiaggne 7 Anna e Tterresa
cuanno viè Monziggnore pe le scale:
e io me farò scrive 8 un mormoniale 9
per ottiené un zussidio da l’Impresa. 10
Cqua ttutti
sò mmerangole, 11 ma ppuro 12
basta, commare, a ssapé ffà la sscena,
cuarche ccosa se ruspa 13 de sicuro.
Pe mmé vvojjo
annà a lletto a ppanza piena;
e pprima me daría 14 la testa ar muro,
che cchiude 15 un Carnovale senza scena.
Se va ggiú?
1 Mmanco-male. Io sciò 2 ggilè.
Hoh, mmiracolo! bbazzica de otto.
Ah, tte sa dduro d’avé arzato un re?
Che! voressi 3 oggni mano er bazzicotto?!
L’antra
partita m’hai lassato a ttre,
e ho avuto da pagà mmarc’e ccappotto;
e ppe uno scarto che vviè bbene a mmé,
c’è bbisogno der lòtono 4 e dder fiotto!? 5
Vado per uno.
Vôi? Asso, cavallo.
Vôi? Dua, quattro... Ma ppropio t’arranchelli 6
pe rripijjà ddu’ carte su lo spallo!
Credi de
vince 7 pe la mano, eh mulo?
Cuella l’aveva puro Cafarelli, 8
e nnun fu bbono de pulisse er culo.
Eh
’ggnicuarvorta 2 che sse sii 3 guastata
la massima 4 der zangue, sora Nina,
sce vo antro che ppírole 5 de china
pe aridà 6 la salute a un’ammalata!
Guarda
Checca: se trova mediscina
ner Monno che in cuer corpo nun c’è entrata?
C’è ppiú ddonna de lei mejjo trattata,
che nnun j’amanca er latte de gallina?
Eppuro,
ècchela llí. Cquann’io sciaggnede 7
jerzera a rriportajje 8 er biribbisse, 9
me parze 10 d’avé avanti un mort’in piede.
Tiè
ddu’ gamme accusí: 11 ttanta de panza...
Uhm, ssi er male da sé nnun fa un ecrisse, 12
pe llei dar tett’in giù 13 nnun c’è speranza.
Povera
Chiapparella! Ah, nnun c’è ccaso: 2
tutte hanno da succède
Bruscià una donna coll’acqua de raso, 4
perché jj’ha ddato un po’ de mar-francese!
Come disce?
5 chi vva ppe le maese, 6
viè la su’ vorta che cce bbatte er naso.
Se sa, st’affari vanno bbene un mese,
e in d’un giorno se resta perzuaso. 7
Lei m’ha
impestato: ebbè? cche scusa fiacca!
E llui poteva entracce in camisciola, 8
nun conosscenno
Eppò
adesso sarà la donna sola
a attaccà la pulenta che ss’attacca?
e a nnoi chi cce l’attacca? San Nicola?
Come io nun
zò cristiano! Io fo la spesa,
oggni ggiorno der zanto maritozzo. 1
Io nun cenavo mai, e mmó mme strozzo
pe mmaggnà ott’oncia come vò la cchiesa. 2
Ciò
avuta la scaletta, 3 e mme sò ppresa
pe l’amor de Ggesú ssin ar barbozzo 4
una pianara o ddua d’acqua de pozzo,
e ll’acqua Iddio lo sa cquanto me pesa.
Io fo ar zu’
tempo li portoni rotti
co la mazzola: 5 io, ssciorte le campane, 6
sparo la divozzione de li bbotti.
Io pijjo
pascua pe mmé e le mi’ poste; 7
e, ppe ttappo 8 dell’opere cristiane,
fo bbenedí er zalame e ll’ova toste. 9
Fa’... che
ggusto!... spi... Zzitto! ecco er cannone!
Abbasta, abbasta, sú, ccaccia l’uscello.
Nu lo senti ch’edè? spara Castello: 1
seggno ch’er Papa sta ssopra ar loggione. 2
Mettémesce
3 un’e ll’antro in ginocchione:
per oggi contentàmesce, 4 fratello.
Un po’ ar corpo e un po’ all’anima: bberbello: 5
pijjamo adesso la bbonidizzione.
Quanno ch’er
Zanto-padre arza la mano,
pòi in articolo-morte 6 fà li conti
a ggruggn’a ggruggno coll’inferno sano.
E nnun guasta
che nnoi semo a li Monti, 7
e ’r Papa sta a Ssan Pietr’in Vaticano:
oggi er croscione suo passa li ponti. 8
De le
pizzicarie che ttutte fanno
la su’ gran mostra pe ppascua dell’ova, 2
cuella de Bbiascio a la Ritonna 3 è st’anno 4
la ppiú mmejjo de Roma che sse trova.
Colonne de
casciotte, che ssaranno
scento
ricamata a ssarcicce, e llí cce stanno
tanti animali d’una forma nova.
Fra ll’antri,
in arto, sc’è un Mosè de strutto,
cor bastone per aria com’un sbirro,
in cima a una Montaggna de presciutto;
e ssott’a
llui, pe stuzzicà la fame,
sc’è un Cristo e una Madonna de bbutirro
drent’a una bbella grotta de salame.
Me fanno ride
a mmé: nnun penzà ar male!
Io so ch’er prete da cuela 2 ficona
de Contessa sc’è stato un’ora bbona
a bbenedijje 3 inzino l’urinale.
E dda mé ssu
la porta de le scale
’na sbruffata d’asperge a la scappona,
eppoi parze 4 ch’er diavolo in perzona
je soffiassi in ner culo un temporale.
Er chirico
però, cche la sapeva, 5
rimase arreto cor zu’ bber zecchietto
pien d’acqua-santa e dde cuadrini a lleva. 6
«Ho ccapito»,
fesc’io, «sor chirichetto:
finissce cor pagà: ggià sse sapeva.
Affogamo per dio st’antro papetto».
A ttempo de
l’ebbrei c’oggni storiaro
sapeva ppiú er futuro ch’er passato,
Balaàmme, all’usanza d’un frustato
cavarcava a ccavallo d’un zomaro.
Er ciuccio
1 pe un zocché 2 ss’era affermato; 3
e ’r profeta menava. 4 «Eh ffrater caro,
perché mme fate lo scontent’amaro?».
je disse er poverello martrattato.
«Avessiv’occhi
5 com’avete mano, 6
potressivo 7 vedé cchi cc’è cqui avanti,
e snerbamme 8 le chiappe un po’ ppiú ppiano».
Forze 9
ve farà spesce 10 Iddio sa a cquanti
che li somari parlino itajjano:
cazzo! in latineria sce ne sò ttanti!
La prima
notte, per avé una prova
si 1 la sposetta mia fussi curiosa,
je disse: «Oh, ffra le cossce io sciò 2 una cosa
che nnun hai da sapé. Gatta sce cova». 3
Poi finze de
ronfà. 4 Cquanto 5 la sposa,
sapenno forzi 6 che cchi ccerca trova,
me venne ar tasto der zalame e ll’ova,
che ppe le donne sò rrobba golosa.
Figuret’io
che nnun perdono mai!
Je sartai sopra; e llí cco lo spadone
in d’un ammèn-gesú 7 la bbuggiarai.
Dillo tu,
Achille mio, ebbe 8 raggione?
Nun vennero accusí ttutti li guai
ch’Iddio sciarigalò 9 ppe cquer boccone?
Senz’Eva e
Adamo, e ssenza er pomo entrato
in cuelle inique du’ golacce jjotte, 1
pe nnoi poveri fijji de miggnotte 2
nun ce saría né mmorte né peccato.
L’omo
averebbe seguitato a ffotte
cualuncue donna c’avessi incontrato,
e er Monno saría tutto popolato
da mezzoggiorno inzino a mmezzanotte.
E ccome
all’omo, la medema sorte
saría puro 3 toccata a oggn’animale,
pe nnun mette 4 l’esempio de la Morte.
E invesce der
giudizzio univerzale,
saría vienuto Iddio parecchie vorte
a ddà una slargatina ar materiale.
Dico, faccia
de grazzia, 1 sor Abbate:
si er padr’Adamo nun maggnava er fico,
e nnun ce fussi mó st’usaccio antico
de fà tterra pe ccesci 2 e ppe ppatate;
ciovè,
3 cquanno le ggente che ssò nnate
nun morissino 4 mai; de grazzia, dico,
cosa succedería 5 si cquarc’amico
se pijjassi
Come?!
Ggnisuno peccherebbe?! eh ggiusto!
Che bber 7 libber’arbitrio da granelli 8
si 9 Adamo solo se cacciassi 10 un gusto!
Bbe’,
llassamo er menà, llevamo er vizzio:
me spieghi duncue che ssaría 11 de cuelli
che cascassino 12 ggiú dda un priscipizzio.
Si ppe 1
cqualuncue bbuggera ggnisuno
nun potessi
me levi un antro dubbio, de che gguai
saría 3 pell’omo a stà ssempre a ddiggiuno.
Lei, sor
Abbate, ha da capí cche oggnuno
potrebbe maggnà ppoco, o ggnente, o assai,
strozzà ppuro 4 le pietre, e ccasomai 5
bbeve 6 er veleno senza danno arcuno.
E ccome
cresscerebbe uno a ccroscetta? 7
E a cche jje servirebbe er pane e ’r vino,
e ttutta st’antra grasscia bbenedetta?
Ma cquer che
ppreme è de sapé er distino
che Iddio sciavessi 8 dato a sta bbuscetta 9
dereto, co lliscenza, ar perzichino. 10
A le fichette
de scinqu’anni o ssei
lei vò cche ggià jje vienghino li fumi,
perché ss’abbada 1 poco a li custumi,
e jje se parla chiaro: uhm! nun zaprei.
A lo scuro le
fie! 2 ma ccara lei,
si a Rroma sce sò 3 accesi tanti lumi
pe illuminalle, in tutti li patumi 4
de cazzi e de cojjoni a li musei!
Basta
l’uscello solo d’un pupazzo,
basta la forma de st’uscello solo
pe ffajje indovinà ll’arte der cazzo.
Ce vò
antro che ffronna sur cetrolo!
Bisoggnería cropí 5 ffronna e rrampazzo 6
co mmutanne, carzoni e ffarajolo.
Se vede bbe’
che a la scòla de Roma sei novizzio.
Che ffa 3 cc’ar tempo che llui era frate
avessi oggni vertú co ggnisun vizzio?
Già
cchissà ste vertú cquale sò state;
ma ppijjamole senza preggiudizzio:
nun zai tu cquante cose sò mmutate
da la natura der diverz’uffizzio?
Prima era
frate: adesso è ccardinale;
e cchiuncue tiè er culo in sto Colleggio
puzza de Papa; e cquesto è nnaturale.
Duncue me
pare chiaro er privileggio
c’ha un zant’omo d’annà dda bbene in male,
e, ssi ll’ajjuta Iddio, da male in peggio.
Li Papi, er
primo mese der papato,
sò, un po’ mmeno o un po’ ppiú, ttanti cunijji. 1
Oggnuno t’arinzucchera er passato:
tutti-cuanti t’infioreno de ggijji.
Ma ddajje
tempo c’abbino imparato
a ffà er mestiere e a mmaneggià li stijji: 2
aspetta che ss’avvezzino a lo stato:
lassa un po’ cche jje creschino l’artijji;
e allora fra
er pasvòbbi 3 e ’r crielleisonne,
cuer nuvolo de ggijji te diventa
garofoli, pe ddio, de scinque fronne. 4
Er ricco
ssciala, 5 er ciorcinato 6 stenta:
strilli ggiustizzia, e ggnisuno risponne;
e ppoveretto lui chi sse lamenta.
Dicheno er
Papa ch’è ccattivo, 1 e cquello
ha una bbontà dda nun potesse crede. 2
Badat’a vvoi, nun j’imprestate fede
a cchi pparla accusí ssenza vedello.
Io
pòzzo dí 3 cc’ar lago de Castello 4
me je bbuttai pe tterra; e llui me diede,
con rispetto parlanno, a bbascià er piede
co un’umirtà ppiú ppeggio d’un aggnello.
Nun basta:
mentr’io stavo in ginocchione,
s’incommidò er zant’omo d’arzà un braccio
e ddàmme 5 puro 6 la bbonidizzione.
Piú:
pperch’io stavo llí ccome uno straccio,
se scanzò llui medemo, e un zovranone
lassò a mman dritta un povero cazzaccio.
Quell’esse,
pe, ccú, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che nun vonno dí ggnente, compitate.
M’aricordo
però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno
arfine me te venne l’estro
de dimannanne 1 un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che
mm’arispose don Furgenzio:
«Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,
Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio».
Ve vojjo dí
una bbuggera, ve vojjo.
Er giorno a Rroma ch’entra carnovale
li ggiudii vanno in d’una delle sale
de li Conzervatori
e ppresentato
er palio prencipale
pe rriscattasse da un antico imbrojjo, 3
er Cacamme 4 j’ordissce un bell’orzojjo 5
de chiacchiere tramate de morale.
Sta
moral’è cch’er ghetto 6 sano sano
giura ubbidienza a le Legge e mmanate 7
der Zenato e dder popolo romano.
De cuelle tre
pperucche inciprïate
er peruccone allora ch’è ppiú anziano
arza una scianca e jj’arisponne: «Andate».
Perché er zor
Dezzio 2 senza move 3 un deto 4
va ssempre bben carzato e bben vistito?
Lo volete sapé? pperch’è mmarito
de la mojje d’un prete: ecco er zegreto.
Er bon deggno
eccresiastico, anni arrèto, 5
lo conobbe pe un giovene compito:
je messe amore, e jj’asseggnò ppulito
er frutto de la viggna de Corneto.
Cuanno vedete
un omo sfaccennato
che vve fa lo screpante 6 e ’r zostenuto,
guardate avanti a ttutto s’è ammojjato.
S’è
scapolo, ha cquarch’antr’arma d’ajjuto:
o ll’uggna 7 longhe, o ffra ddenti e ppalato
un pezzetto de carne un po’ ppizzuto.
Cuanno se
disce poi nun ce se crede!
Come vòi crede
de preti, che li cani che ssò 2 ccani
viengheno 3 piú ssinceri, hanno ppiú ffede?
Senti er
curato mio che mme succede. 4
Com’oggi m’approvò 5 cche li cristiani
è ppeccato de fotte; 6 e llui domani
ballava su la panza de Pressede.
Ma
ggià dar capo viè ttutta la tiggna; 7
ché ssi 8 un po’ ne mannassino
je se potría intorzà 11 cquarche ffufiggna. 12
«Come va»,
jje diss’io, «Padre Filisce?».
E llui rispose: «Lei facci, 13 sor mastro,
nò cquer ch’er prete fa ma cquer che ddisce».
Sii Bbreve o
llongo, ssii Bbolla o bbolletta,
a ste cose sc’è er Papa che cce penza.
Pe mmé te pòzzo dí 1 cche ll’indurgenza
beato lui chi ne pò avé una fetta.
Cuest’è
una marcanzia che sse dispenza
aggratis a la ggente poveretta:
abbast’a rrigalà cquarche ccosetta
a cquello che tte stenne 2 la liscenza.
Pe cqualunque
peccato se scantini, 3
c’è un’indurgenza c’arimedia a ttutto,
fora c’ar tanfeggià 4 dde ggiacubbini.
Nun
c’è indurgenza a sti fijji de mulo;
e cco sto Papa chi vvò ffacce er brutto, 5
te dich’io, trova er naso p’er zu’ culo.
Ha osservata,
monzú, llei ch’è ffrancese,
cuella statua c’arresta 2 da sta mano
drent’in fonno a Ssan Pietr’in Vaticano,
sott’ar trono de Pavolo Fernese?
La fanno d’un
pittore de Milano,
e ttanta bbella, ch’un ziggnore ingrese
’na vorta un zampietrino 3 sce lo prese
in atto sconcio e cco l’uscello in mano.
Allora er
Papa ch’era Papa allora
je fesce fà ccor bronzo la camiscia
che cce se vede a ttempi nostri ancora.
Cuantuncue
sce sò ccerti c’hanno detto
che nnun fussi 4 un Milordo su sta sciscia 5
de pietra a smanicà, 6 mma un chirichetto. 7
Oh tteste,
vere teste da testiera!
Tante sciarle pe ddí ccome se more!
Du’ frebbettacce,
’na stirata de scianche, 2 e bbona sera.
Da sí 3
cc’oggni cazzaccio fa er dottore,
e sputa in càtreda, e armanacca, e spera
de pesà ll’aria drento a la stadera,
se n’hanno da sentí dd’oggni colore.
Perché
ll’occhio d’un morto nun ce vede?
Perché cquanno che ll’anima va in strutto,
nun lassa ar posto suo ggnisun’erede.
E mmentr’er
corpo spiggionato e bbrutto
è ssord’e mmuto e nnun z’arregge in piede,
lei cammina da sé, pparla, e ffa ttutto.
Te
scojjoneno?! 1 oh vvarda 2 ch’ingiustizzie!
Tu cche nun pòi trovà ddonna compaggna!
che ttratti tutte case maggnatizzie,
cuante che cce ne sò ddove se maggna!
Te
disprezzono?! oh ffijji d’una caggna!
loro! pieni de tàccoli 3 e mmalizzie!
A tté! che cquanti fanno l’esercizzie 4
l’obbrighi a rrisercià 5 ppiazza de Spaggna! 6
Svergoggnà
tté! se pò ssentí de peggio?!
Tu cche llavori er manico a le spazzole
a ttutti li pivetti 7 der Colleggio!
Conzólete:
8 sei Tuta, 9 e ttant’abbasta.
Tu ssei come le perle scaramazzole:
er peccato è dder buscio che le guasta.
Sii detto tra
pparentis: 1 accidenti!
t’abbasta mai de famme 2 stà cqui ffora?
S’ha d’aspettà de ppiú, ppe ddina nora?
Bell’ora de viení a l’appuntamenti!
Sí!
vvent’ora, e la picca: 3 propio venti!
Come intocca mommó 4 ssò vventun’ora.
Venti e ttrecquarti sò ssonati allora
che Ssucchiella t’ha ttrovo
Bravo!
dàmosce 7 un po’ una scallatina. 8
Va’ vva’! 9 eh ssicuro che vva addietro un mese!
Nu lo senti per dio che nnun cammina?
Tu sguercete
E aribbatte 11 co cquello, oggni matina,
che rregola l’imbrojji der paese. 12
Oh, ddunque,
a rivedendosce, 1 sor Nino:
un zaluto a la sora Ggiosuarda.
Nun bevo, grazzie; ’ggna 2 c’arzi la farda... 3
Cojjoni! è mmezzoggiorno: antro 4 che vvino!
Ciò
stammatina un frate galoppino 5
che cquanno che mm’appoggia la libbarda, 6
vò ppranzà ar tocco in punto; e ssi sse 7 tarda
un ette, va in decrivio oggni tantino.
Cosa volete!
è confessor de Rosa,
e nn’ha in corpo una bbona fattarella. 8
Cacciallo! Parería 9 ’na scerta cosa!...
Lui
viè a rrifuscilasse 10 le bbudella
’ggni 11 dimenica: e ddoppo, io co la sposa 12
l’ariporto ar convento in carrettella.
Cesere,
ssceggni 2 ggiú dda la funtana.
Dio mio, che rrobba! cuanto sei cattivo!
Capo-d’abbisso, alò, bbestiaccia cana!
Eh in cuer corpo che cciài! 3 l’argento vivo?!
Sscivola,
4 sí, ffijjol d’una puttana:
svícola, 4 no, cch’io tanto nun t’arrivo!
Bbasta, sciariparlamo
lo vederai che llettera je scrivo. 6
Ma indove se
pò ddà, ccresta mancina,
un vivolaccio, una facciaccia pronta
compaggn’a tté? Vva’ vvia, presto, cammina.
Ohé, tte
vedo, sai? mica sò ttonta... 7
E mmo cosa te freghi
Guàrdelo llí ssi ccome se panonta! 10
M’arispose
accusí: «Ssentite, sora
Nanna (pe ddí ccome me disse lei),
disce, io nun zò nné rricca e nné ssiggnora,
disce, d’avecce attorno sciscisbei;
ma cquanno
semo, disce, a una scert’ora,
disce, a ccontacce 1 li partiti, ehéi,
disce, io ve pòzzo dí 2 che ssi 3 Lleonora
sce n’ha avut’uno, io sce n’ho avuti sei.
E ssi 3
nnun me sò ancora maritata,
cuesto, disce, vor dí cche mm’arincressce
de staccamme 4 accusí dda Mamm’e Ttata.
Ma llei dar
fatto der decan 4a de Flessce, 5
disce, ariposa, e nnun z’è ppiú svejjata;
e cchi ddorme, se sa, 6 nnun pijja pessce». 7
M’aricorderò
ssempre la matina
de cuell’ammazzataccia coscrizzione.
Stàmio 2 tutti inzeppati in d’un Zalone 3
aspettanno la nostra chiamatina.
Tiramio
4 allora for da un bussolone
una palla co ddrento una cartina:
sott’a un spesce 5 poi de quajjottina,
ce misuramio 6 come er borgonzone.
Io tirai sú
er ventuno, e cquanno aggnéde 7
a mmisuramme 8 senza scarpe, intese 9
c’un fariseo strillò: «Ll’è zinque piede».
Ma ddoppo
grazziaddio m’ariformonno, 10
perch’ero níobbe; 11 e in capo a mmezzo mese
ebbe 12 la grazzia d’arimane 13 ar monno.
Don Diego
aveva preso ar Pellegrino 2
du’ anni fa una pisida d’argento,
senza che ll’argentiere in pagamento
je potessi scarpí 3 mmezzo cuadrino.
Lui je
tastava er porzo 4 oggni momento;
e ppe nnun dajje prausa, 5 annava inzino
a rrèggeje
cuanno che straportava 7 er zagramento.
E ddon Diego?
Arrotava. 8 Arfine in fretta
serrò jjeri er cibborio der Ziggnone,
e sse messe
Ito in
bottega poi der creditore,
je disse: «Aló, ffinimo 10 sta scoletta. 11
Eccheve 12 carcerato er debbitore».
Mi’ nonna
è una mammana, e mm’aricconta
c’ar monno tutte-cuante le crature
ch’escheno for de le madre-nature
un po’ mmeno o un po’ ppiú ddoppo la monta,
ciànno
2 un budello indove sta l’impronta
der bellícolo nostro; e ddisce pure
che, ssenza scerte tale legature,
p’er feudo 3 che scappò lla morte è ppronta.
Cosa volemo
dí dd’Adamo e dd’Eva
che nnun è usscito 4 da ggnisuna fica?
Sto bbudello l’aveva o nnu l’aveva?
Che tte ne
pare? Sce saría pericolo
c’a ddipiggne sta coppia tant’antica
s’avessi 5 da piantà ssenza bbellícolo?
Avanti de
maggnà ll’omo e la donna
de cuer frutto chiamato er ben’e ’r male,
l’un e ll’antro 1 era iggnudo tal e cquale
com’e Ccristo legato a la colonna.
Ma appena che
lo spirito infernale
je fesce fà la prima e la siconna,
loro 2 subbito mésseno 3 la fronna
indove noi mettemo l’urinale.
Duncue
bbisoggna dí cche cquarche ccosa
c’ha er ben’e ’r male de corrisponnenza
l’abbi cor dumpennente e vvarpelosa.
Antrimenti
ch’edera 4 sta sscemenza 5
d’annasse
Nun zò 8 ll’istessi co la fronna o ssenza?
E ttu sforma:
1 e ttu mmastica veleno:
sfòghete sorfarolo, appicciafoco:
dàmme 2 der birbo, si 3 vvassallo è ppoco;
ma ffàmme 4 dì le mi’ raggione armeno. 5
Sí,
l’arepríco, 6 tu ssei troppo pieno
de testesso medemo pe un bizzoco.
Ce vò antro che affrigge
la Madòn der rosario e ’r Nazzareno!
Bbisoggn’avé
un schizzetto 8 de prudenza
e nun fa 9 er brodoquamqua 10 pe le case,
pe rróppeje la bbuggera
Compatisse
13 un coll’antro: 14 ecco l’abbase
de la fede de Ddio: ché l’innoscenza
cominciò ccor primm’omo, e llí arimase.
Domani
è ll’asscenzione: ebbè, sta notte
Nostro Siggnore pe bbontà ddivina
se ne ssceggne 1 dar celo a la sordina,
mentre che ll’univerzo o ddorme, o ffotte;
e vva ppe
ttutte le maése 2 rotte,
discenno 3 ar grano: «Alò, ppassa e ccammina: 4
l’acqua diventi latte, eppoi farina, 5
pe ddiventà ppoi pasta, e ppoi paggnotte».
Ecco a li
bbagarozzi la raggione
che jj’accennémo 6 addosso li scerini,
cantanno er curri curri bbagarone. 7
Ecco perché
sse mette li lumini
a le finestre de le ggente bbone: 8
perché Ccristo nun batti a li cammini.
Er Lanarino
1 è bbravo: io sciacconzento. 2
Ma ssi ssentissi 3 tu a li tre Mmoretti 4
er zoppo che futtuto farzamento 5
je dà, cce resteressi
Eh, sse
discurre, cristo pe li tetti!,
che jjerzéra, accusí ppe ccomprimento,
bbuttò ggiú ccert’ottave de sonetti,
ch’er Tasso sciavrìa 7 fatto un istrumento.
Cantò
’na qualità de povesia,
che ppareva c’Appollo e tutt’er Monte
Parnaso fussi entrato all’osteria.
Sce fesce la
cascata de Fetonte,
la morte de Sanzone e dde Golia,
Muzzio Scevola all’ara e Orazzio ar ponte,
la bbarca de
Caronte,
er vol de Cruzzio 8 drent’a la voraggine,
e l’incennio de Roma e dde Cartaggine.
Donne mie
care, avetesce 2 pascenza:
io ve porto pe mmé un amor da cane; 3
me ve vorrebbe 4 tutte a la cusscenza;
e avanti a vvoi 5 rinegherebbe 6 er pane.
Ma ppuro,
7 fra mmé e vvoi in confidenza,
bbe’ cche 8 vve maggnerebbe 9 sane sane,
sii detto co la bbona e cculiscenza, 10
sete in grazzia de ddio troppe 11 puttane.
Lassamo da
una parte la Madonna,
ch’è un zanto che nun è dda nominasse, 12
e annàtemene a ttrova 13 la siconna. 14
De le bbone,
fra ll’arte e ffra le bbasse,
ammalappena su sta terra tonna
ce ne sò ccento secche e ccento grasse.
Ecco
l’istoria de Pepèa de Toto. 2
Avenno visto da un par d’anni arreto
c’attenneva
de principià la cura de l’asceto.
Le prime
vorte ne pijjava un deto, 5
po’ un gotto mezzo pieno e mmezzo vòto,
e ffinarmente, come vò 6 er zegreto,
ne bbeveva oggni ggiorno un terramoto.
Beve che
tt’aribbeve, 7 appena empito
un barile, era subbito votato;
e accusí è ito pe ddu’ anni, è ito.
E ppoi che
bbonifizzio n’ha ccacciato?
C’a fforza de sta cura oggi ha ffinito
cor finí nne la cura der curato.
Dove set’ito,
sor Cianchette-a-zzeta? 1
a mmessa? propio a mmessa? ebbè, sta messa
in che cchiesa, e a cche ora v’è ssuccessa?
De che ccolore è stata la pianeta?
Ar Pianto?
2 nò; pe vvia 3 che cc’era Teta
nell’istess’ora e in ne la cchies’istessa.
De bbianco? nò, pperch’è mmorta l’ostessa,
lassannose 4 pe llei 5 bbona moneta.
Però
er discorzo pare corto corto:
si 6 nun ha vvisto a tté la lavannara,
e ttu in ner Pianto nun hai visto er morto,
se pò
striggne, 7 e scommettesce 8 magara, 9
che ttu, ppe stammatina, brutto storto,
sei stato a ssentì mmessa a la Salara. 10
La mi’
padrona (e mmica sce prosume) 1
frabbica scerti cuadri de pittura,
che ssi vviè
pe rrabbia, te dich’io, se bbutta a ffiume.
Ha inventato
una spesce 3 de custume
d’arberi, co una sorte de figura
de bbestie, che nnun fo ccaricatura
te faríano 4 sbascí 5 dde tenerume. 6
È
llesta, che ddipiggne per assarto;
e averessi da vede 7 cuer cuadrone
che ffesce jjeri a ttredisciora e un cuarto.
Er
giorn’avanti lei me mannò a ttrova 8
un Monzú a ddimannajje un’istruzzione
pe ffà la lusce de la luna nova.
Chi è
sto bbrutto vecchio caccoloso,
che in logo de stà in pasce in zepportura,
succhia co la bboccaccia er caporello 2
de cuella donna, come una cratura?
Chì
è sta vacca che nnun ha ppavura
de dà er latte a cquer po’ dde bbambinello,
che ppare er Merdoccheo de la Scrittura,
o, cquanno nun è llui, pare er fratello?
A mmé ppuro
3 me piasce sto succhietto;
ma ppe cquanto me spremo in comprimenti,
ggnisuna bbalia vo attaccamme 4 ar petto.
Cuello
averà ccent’anni, io nnun n’ho vventi
er zuo sta bbasso, e ’r mio sarta 5 sur tetto:
duncue? sarà er motivo de li denti.
Nun ha da
preme
Ebbè, ssi 3 nnun zò bbella, sò ppiascente;
e ssi nun piascio a vvoi, piascio a antra ggente.
Ve garbeggia accusì, ssor cacarella? 4
Le bbellezze
l’ha ttutte Marí-Stella,
che dda tanto che ffa la protennente, 5
ancora nun ha ttrovo 6 un accidente
pe pperde 7 er brutto nome de zitella.
Fuss’omo io,
fijjolo, co sti lumi
de luna, 8 nun starebbe
cuanto c’a la salute e a li custumi.
Ché
ggià 10 ste bbelle nun ce pòi commatte; 11
e mmessa che ppoi j’abbi la capezza,
de scarpe er tempo te le fa cciavatte. 12
Sora
Caterinella! ebbè? cche ffamo? 2
se maggna o nnun ze maggna sti confetti?
Che ddiavolo! sti sposi bbenedetti
stanno ancora in der cazzo ar padr’Adamo?
Me pare un
pezzo che bbuttate er lamo, 3
ma vve viengheno 4 sú ppochi pesscetti:
è un pezzo che ffischiate all’uscelletti,
ma ssò ffurbi e nnun zènteno 5 er richiamo.
Eppuro nun
zei guercia e nnun zei storta;
e cchi mmai mormorassi, 6 Iddio ne guardi,
che nun zai cacà ffijji da la sporta,
basta che ttu
pportassi sti testardi
a Ssanspirito-in-Zassi 7 una sor vorta 8
li faressi 9 restà ttutti bbusciardi.
Giacubbini
somari, state in tono,
ché ddoppo er zole pò vviení er tempaccio.
Nun ve fidate tanto de cuer braccio
der Papa che vve dà ssempre er perdono.
Nun dite: «Er
Zanto-Padre è un omo bbono»:
bbon omo nun vò ddí ssempre cazzaccio;
e ssi una vorta o ll’antra roppe er giaccio, 1
trista la mmerda che ffa ppuzza ar trono!
Er Papa,
è vvero, ha mmorto ggentilesimo, 2
ma un po’ de mosche ar naso che jje vanno,
ve ne dà ttante pe cquant’è er millesimo. 3
Giacubbini
somari, stat’all’erta:
nun ve mettete sur caval d’Orlanno: 4
omo a ccavallo sepportura uperta. 5
Io, dijje
de la sposa der fijjo de Vincenza,
c’ho vviaggiato una vorta in diliggenza
inzin’a un po’ ppiú in zú dde la Merluzza. 2
E cche llí
bbisoggnava, co lliscenza,
tiené le chiappe, pe ssentí cche ppuzza
de vacchetta e vvernisce! E llei sce ruzza 3
a scramà 4 che la pippa è una schifenza.
Tre ggiorni
prima che lle’ usscissi in zanti, 5
je s’incordò la panza p’er sospetto
ch’io je fuss’ito co un zicàrio 6 avanti.
Pènzete
7 dunque che ssaría de lei,
si jj’entrassi 8 de posta 9 sott’ar letto
la diliggenza mia cor tir’a ssei.
Arrivato a
l’età dde la raggione
Ggesucristo entrò a sguazzo
e sse fesce 2 cristiano, fedelone,
cattolico, apostolico, romano.
Poi se
n’annò ccor croscifisso in mano
predicanno a ’ggni sorte de perzone
che cchi nun z’è ssciacquato er coccialone 3
vederà er paradiso da lontano.
L’unica fu la
Vergine Mmaria
che sse sarvò 4 ssenz’èsse bbattezzata,
perché, a cquanto se sa, mmorze 5 ggiudia.
E la cosa
è bbenissimo aggiustata.
Nun aveva bbisoggno de lesscía 6
chi nnascé 7 ccome un panno de bbucata. 8
Terminata che
ffu ll’urtima scena, 2
Cristo diede de piccio
la conzagrò, la róppe, 4 e, appena rotta,
cummunicò un e ll’antro
E ss’ha da dí
cche ppropio stassi
pe ddà la su’ fettina a cquer marmotta
de Ggiuda (vojjo dí Ggiuda Scariotta),
che annò a ffa cquer tantin de cannofiena. 8
Poi lui puro,
9 viscino a la passione,
pe mmorí cco li santi sagramenti,
se maggnò da sestesso in cummuggnone.
S’intenne
10 ggià cco ttutti l’ingredienti;
ciovè 11 ddoppo una bbona confessione,
pe rregola dell’antri 12 pinitenti.
Morto er
Ziggnor’Iddio da bbon cristiano,
oggni apostolo vivo, a ppiede a ppiede,
se messe
cor zacco in collo e ccor bastone in mano.
Uno aggnede
un antro
a Nnepi; e in ner viaggià, ccome succede,
véddeno 4 tutto er Monno sano sano.
Naturarmente,
ar Monno, oggni paese
aveva la su’ lingua, chi spaggnola,
chi ttodesca, chi rrussia, e cchi ffrancese.
Eppuro 5
quelli co una lingua sola
se fesceno 6 capí dda chi l’intese,
che nun ze ne spregò mmezza parola.
Quelle
quattro parole de latino
hanno, dico, d’avé ttanto valore
de mutà mmezzo càlisce de vino
ner zangue che sverzò 2 Nnostro Siggnore!
Nun badanno
3 c’ar gusto e cc’ar colore,
se diría: 4 questa è rrobba de Marino; 5
ma nnun badanno a la vista e ar zapone,
s’ha da ggiurà: cquest’è ssangue divino.
Ma co la cosa
6 che sto sangue arresta 7
ner calisce der prete tal e cquale
che ffussi 8 ancóra er zugo de l’agresta; 9
io voría
dimannavve 10 si 11 un bucale 12
de vino conzagrato po ddà in testa
de chi sse lo bbevessi, 13 e ffajje male. 14
È de
fede c’appena una cratura 2
scappa for da la picchia, 3 er Padr’eterno
la mette a nnavigà ssott’ar governo
d’un Angelo e dd’un diavolo addrittura. 4
Uno de loro
st’anima prucura
de dàlla 5 ar paradiso, uno a l’inferno,
sin che sse vedi 6 chi gguadaggna er terno 7
ner giorno che vva er corpo in zepportura.
Liticàtase
l’anima ar giudizzio,
oggnuno de li dua serra bbottega, 8
pe nun rifà mmai ppiú sto bbell’uffizzio.
Oh mmò
ttira li conti, amico mio,
sopr’ar Gener’umano, e vva’ cche ffrega 9
d’angeli e dde demoni ha ffatt’Iddio!
Mentre in ne
l’angonía 1 tira er fiatone, 2
se 3 vede er peccatore accant’ar letto
er diavolo a mman dritta co un libbrone,
e ll’angiolo a mman manca co un libbretto.
Nell’uno e
ll’antro 4 sta ttutto er guazzetto 5
de le cose cattive e dde le bbone
c’abbi 6 fatto in zu’ vita er poveretto:
penzieri, parole, opere e omissione.
Lui se voría
7 scusà, mma Iddio nun usa
de sentí le raggione de chi mmore,
e lo manna
Cusí in terra
er Vicario der Ziggnore
fa cco li vivi; e nnun intenne 9 scusa
da ggnisuno, 10 ossii ggiusto o ppeccatore.
Ggnente: nun
c’è ppietà: nnun m’arimovo. 1
Io pe la tiggna, 2 bbella mia, sò ll’asso. 3
Ho ppiú ttostezza io mó cco llei, che un zasso
che ffascessi a scoccetto cor un ovo. 4
Pe nun
guardalla mai quanno la trovo,
vado tutto intisito 5 e a ggruggno 6 bbasso,
come un pivetto 7 che la festa a spasso
sa d’avé addosso er vistituccio novo.
Lei m’aveva da
fà mmeno dispetti:
m’aveva da tiené mmejjo da conto,
e ffàsse 8 passà vvia tanti grilletti. 9
Io sposalla?
è impossibbile: nun smonto. 10
Sc’è ttropp’onore tra li mi’ parenti
perch’io vojji pe llei fàjje 11 st’affronto.
O sii femmina
o mmaschio, o bbello o bbrutto
farò cquer che vvorà Ddio nipotente.
Bbasta sii san’e llibbero: ecco tutto.
Der resto nun m’importa un accidente. 1
Nun
c’è stato che un caso assciutt’assciutto 2
de sapé pprima d’èsse 3 partorente
s’era omo o ddonna er benedetto sfrutto
der tu’ ventr’e ttu jèso. 4 Ma la ggente,
che
vvò ffà in oggni cosa l’indovina,
protenne 5 da la forma de la panza
de travede si 6 cc’è ggallo o ggallina.
Nun ce
potrebbe stà una misticanza
d’un passeretto e dd’una passerina 7
da fà ttra lloro un’antra 8 gravidanza?
Sete curioso
voi! Avevio 2 fame
e nnun c’era antro 3 da maggnà, nnun c’era!
Queste nun zò 4 rraggione pe jjerzera!
De tempora un par d’ova in ner tigame?! 5
Nò,
nnò, mmanco 6 una fetta de salame.
Iddio nun porta in mano la stadera.
Com’è rrobba províbbita, chi spera
ne la pochezza è un giacubbino infame.
Vedi: si
ppuro 7 avessi, padron Biascio, 8
le vertú dde millanta Salamoni,
tant’e ttanto 9 ar maggnà bbiggna annà adascio.
10
Perché,
ffratello, in quell’antri carzoni 11
pesa ppiú un ovo e una grosta de cascio
che ttutte ste Vertú dde li cojjoni.
Vedi mai nove
o ddiesci 2 cor palosso
attorno a un ber 3 cocommero de tasta,
che inzinamente 4 che cce sii rimasta
’na fetta da spartí, ttajja ch’è rrosso? 5
Accusí er
Monno: è ttanto granne e ggrosso,
e a nnove o ddièsci Ré mmanco j’abbasta.
Oggnuno vò er zu’ spicchio, e ppoi contrasta
lo spicchio der compaggno e jje dà addosso.
E
llèvete 6 li scrupoli dar naso
che nnoi c’entramo per un cazzo: 7 noi
semo monnezza 8 che nnasscémo a ccaso.
Ar piuppiú
ciacconcedeno 9 er ristoro
de quarche sseme che jje casca, eppoi
n’arivonno 10 la mmànnola 11 pe llòro.
Semo fritti,
o rreggina: 2 er zor Grigorio
vò arimette 3 le scedole de carta: 4
eppoi nun lo mannate a ffasse squarta 5
co ttutto er zu’ piviale e ’r fardistorio!
Si
e cce fa ttutti cavajjer de Marta; 8
ma un po’ c’aridà ssú, 9 vviè 10 e
cciaribbarta 11
pe ffijji de Pasquino e de Marforio. 12
Eh a sta
maggnèra 13 cqui ttutti sò bboni
a ppagà cchi ha d’avé, ssenza ch’aspetti:
che bbella forza de li mi’ cojjoni!
Una risma de
carta a scaccoletti,
e ecco le mijjara e li mijjoni
pe sserví da quadrini e ffazzoletti. 14
Sto 2
prelato a la fijja der zartore,
che cciannava a stirajje 3 li rocchetti,
je fesce vede 4 drent’a un tiratore
una sciòtola 5 piena de papetti, 6
discennoje:
7 «Si vvòi che tte lo metti, 8
sò ttutti tui 9 e tte li do dde core».
E llei fesce bbocchino e ddu’ ghiggnetti,
eppoi s’arzò er guarnello
Terminato
l’affare, er zemprisciano 11
pe ppagajje 12 er noleggio de la sporta, 13
pijjò un papetto e jje lo messe
Disce: «Uno
solo?! e cche vvor dí sta torta? 15
Ereno tutti mii!...» 16 - «Fijjola, piano»,
disce, «sò ttutti tui, uno pe vvorta». 17
A Ssaspírito
in Zassi,
pien d’acquavita de le sette peste, 2
sc’è a mmollo una cratura co ddu’ teste,
come che ll’arma der ministro Appone. 3
Er cerusico
nostro de l’Urione, 4
che ste fotte 5 le spiega leste leste,
m’ha ddetto ch’è un buscèfolo, 6 e cche cqueste
sò ccose che cce vô la spiegazzione.
Abbasta,
dico, o ssii scefolo o ttonno,
vojjo vede 7 ar giudizzi’ univerzale
co cquanti nasi ha da rinassce 8 ar Monno.
Si n’ariporta
dua, bber 9 capitale
da paradiso! e ssi uno, er ziconno,
dico, indove arimane, a lo spedale?
Er cane? a
mmé cchi mm’ammazzassi 1 er cane
è mmejjo che mm’ammazzi mi’ fratello.
E tte dico c’un cane com’e cquello
nun l’aritrovi a ssono de campane.
Bbisoggna
vede 2 come maggna er pane:
bbisoggna vede come, poverello,
me va a ttrova 3 la scatola e ’r cappello,
e ffa cquer che noi fàmo 4 co le mane.
Ciaveressi da
èsse 5 quann’io torno:
me sarta 6 addosso com’una sciriola, 7
e ppare che mme vojji dà er bon giorno.
Lui
m’accompaggna le crature a scòla:
lui me va a l’ostaria: lui me va ar forno...
Inzomma, via, j’amanca la parola. 8
Nun dico che
nun vai 1 da Monziggnore,
ché de raggione tu cce n’hai d’avanzo:
dico che nun ce vai de doppo-pranzo,
perch’è arta la pasqua, 2 Sarvatore.
Quell’è
er tempo ch’er povero siggnore
fa un po’ de ròtti 3 sur zofà de ganzo: 4
e llui se pijja quer tantin de scanzo 5
pe ddà 6 udienza a le pupe 7 e ffà l’amore.
Oppuramente
8 ruzza 9 cor caggnolo,
o s’aritira in stanzia a ccontà er morto, 10
o bbiastima 11 tra ssé dda sol’a ssolo.
Nun
ciannà 12 ddunque a or d’indiggistione, 13
ché la matina, è vvero, pò ddà 14 ttorto,
ma er doppo-pranzo nun dà mmai raggione. 15
Un curato da
mette 1 appett’a cquesto
quanno lo pôi trovà ccerchelo puro, 2
dotto compagn’a llui, lescit’e onesto,
inzomma un zanto appiccicato ar muro.
Addimànnelo
3 ar chírico: ecce testo: 4
lui te pò ddì ssi 5 cquanto è mmuso duro,
e ssi ppe mmette 6 li sciarvelli
er vicolo 8 lo trova de sicuro.
È un
vero Salamone: 9 e lo sa Rrosa
si in articolo affari de cusscenza
vò la santa ggiustizzia in oggni cosa.
Lei se
10 fasceva fotte da Ggiuvanni,
e llui pe ffajje 11 fà la pinitenza
j’ha 12 bbuggiarato un fijjo de sett’anni. 13
Bbast’a vvede
2 sto bboja de Curato
si 3 ccome seppellí Bbonaventura!
che ffussi puro 4 stato scopatura,
l’averebbe ppiú mmejjo bben trattato.
Ma cquanno
che ccrep’io, per dio sagrato,
vojjo fà stenne 5 una bbrava scrittura
che bbuttannome drento in zepportura
me sce mettino bbello arissettato.
Bbisogn’èsse
ggiudii 6 pe nnun capilla 7
che ffa ppiú ccosa 8 er zeppellicce 9 bbene
che de cantacce
Perch’io
sentivo dí ssempre da Nonno
che ll’anima arimane in de le pene
come ch’er corpo suo casca a sto monno. 11
Settimo nun
rubbà. 1 Cquesto è un proscetto 2
da ficcàsselo 3 bbene in de la mente;
epperò, Ggnazzio, 4 nun rubbà mmai ggnente,
quanno er bisoggno nun te scià 5 ccostretto.
E, a la
peggio, abbi un po’ de ggiudizzietto
de nun fàttene 6 accorge 7 da la ggente;
ché ar fin de fine er comparí innoscente
è ssempre mejjo assai der cavalletto. 8
La profession
der ladro è bbella e bbona;
ma ddar momento c’arincrebbe a Ddio
è ddiventata un’arte bbuggiarona.
Pe cquesto
dàmme 9 retta, Ggnazzio mio:
piú ppresto 10 c’arrubbà, scrocca, cojjona, 11
campa d’innustria, e ffa’ ccom’e Ddon Pio.
Dichi 2
quer che jje 3 pare chi ggoverna,
a mmé mme piasce de fregà, ccompare;
e le puttane me sò ttante 4 care,
che le vado a scavà cco la lenterna. 5
Nun fregheno
l’uscelli all’ari’esterna?
nun fregheno li pessci in fonn’ar mare?
dunque io vojjo fregà cquanto me pare,
e ffregamme 6 si mmai 7 la vit’eterna.
Mentre
ch’Iddio m’ha ddato sto negozzio,
è sseggno che jj’aggarba in concrusione
ch’io lo maneggi e nnun lo tienghi in ozzio.
Ma ssii
8 peccato: ebbè? ssò 9 ssempre leste
’na bbona confessione e ccummuggnone 10
pe ffà ppasce co Ddio tutte le feste.
Er zanto
madrimonio? er pijjà mmojje?
accidentacci a cchi ne disce bbene.
Ar ripenzà ar passato, me s’accojje 1
la massima 2 der zangue in de le vene.
È
mmeno male de passà in catene
mill’anni, senza mai potesse ssciojje: 3
è mmejjo a vvive 4 drent’a un mar de dojje
tutto pien de bbubboni e ccancherene.
Li crapicci,
li ghetti, 5 li scompijji...
Ma, ssenza che tte sfili la corona,
bbasta er mal de le corna e dde li fijji.
Eppoi, fussi 6
la mojje cosa bbona,
ciaverebbe 7 pe ssé mmesso l’artijji
sta razzaccia de preti bbuggiarona.
Er Papa
tiè 2 una scerta portiscella
pe ddove verzo sera un par de spie
je 3 vanno a rrescità le lettanie
e a sputasse 4 pormoni e ccoratella.
Llí jje
bbutteno ggiú ’ggni marachella 5
de teatri, caffè, ccase, ostarie...
e, mmezze verità, mmezze bbuscìe,
ciànno 6 sempre da dì cquarche storiella.
Ecco da che
ne nassce quarche vvorta
che tte vedi li zzaffi
è ttutto pe vvertú dde quella porta.
E cchi
ssò 8 ste du’ spie? Vall’a indovina. 9
Oggni lingua oggidí cche nun zii 10 morta
pò èsse 11 un de li dua che tte cuscina. 12
E
aringrazziam’Iddio: mancozimale. 2
Oh ttiette 3 poi dar rinegà la fede!
Ciavemio 4 quer boccon de marciapiede
d’affittacce 5 le ssedie er Carnovale;
nonziggnóra:
viè 6 er Zagro tribbunale
de le strade, e cch’edè? 7 cce vô ffà ccrede, 8
perché la ggente nun ze metti a ssede, 9
ch’er Corzo 10 come stava stassi 11 male.
E ssubbito,
aló, 12 mmano a li picconi,
e pper aria sto povero scalino.
Perché ppoi? pe ingroppà 13 cquattro maggnoni.
Ma inzinenta
s’ha da roppeje
Ah! ppe cquer cristo, è un gran porco distino!
Dico, pe
ccristallino fino fino, 2
quanno ve n’anneressivo
Ma nun v’abbasta mai, eh sor paino,
de sgranà 4 le mi’ povere paggnotte?
Viè
ppe ddu’ ggiorni, e mmommó 5 ssemo inzino
da sei mesi e un po’ ppiú cche ggiorn’e nnotte
me se ròsica l’osse crud’e ccotte,
manco s’io fussi er fío 6 der Re Ppipino.
Disce:
t’agliuto
E cquelle ch’arifate a la cassetta? 10
e cquell’antre che vv’èrivo 11 anniscoste?
Quest’è
ccome er rosario de Ninetta, 12
quanno contempra 13 l’agliuto de coste
de la Madonna a Ssant’Elisabbetta. 14
Pe mmé
ssò stufa 1 de stà 2 ssur cantone
a ccosce 3 callaroste e ccallalesse.
Eppoi, cqua sse pò ddí, 4 ppe cche interresse?
sfiatasse 5 un anno pe abbuscà un testone! 6
Ôh, ssi
7 Ddio me provede, in concrusione
vojjo mette 8 un telaro, e annà in calesse.
Ccusí, cquanno me cricca 9 de stà a ttesse 10
ciò 11 er capitale mio: nun ho rraggione?
Eppoi, ’na
donna ch’abbi 12 er zu’ telaro
e ssappi 13 tesse la su’ bbrava tela,
nun è ppiú mmejjo d’un callarostaro?
Eppoi, questo
dich’io: s’io sò de vela 14
in cammio 15 d’un mestiere a ffanne 16 un paro,
chi mme lo po inibbí? 17 vvenno 18 le mela.
Tu sta’
attenta a le mosche, Nastasía, 1
mentr’una nun ze 2 move e una cammina,
che ammalappena questa j’è vviscina,
je zompa su la groppa e ttira via.
Accusí 3
è la cumprisione 4 mia:
ch’io vedenno 5 una femmina, per dina!,
si nun je do una bbona incarcatina 6
me parerebbe d’èsse in angonia. 7
Lo sa l’Urion
8 de Monti s’io sce tiro, 9
e lo pò ddí cco ttutta la raggione
ch’io sò la mosca che vva ssempre in giro.
E istesso
10 lo sa ttutta la Caserma
de Scimarra, 11 che ttu ddrent’a l’Urione 8
sei l’antra 12 mosca che sta ssempre ferma.
Io ne le cose
ho ssempre avuto er vizzio
de volenne 1 pescà lla su’ raggione.
Ccusí vviengo imparanno un priscipizzio
de vertú, cche nnemmanco Salamone. 2
Nerbigrazzia,
3 perché ssotto l’innizzio 4
de la figur’umana der piccione
sc’è lo Spiritossanto? Er mi’ ggiudizzio
me n’ha ffatta trovà la spiegazzione.
Er piccione
è un volàtico 5 focoso,
che rruga ruga, 6 bbecca bbecca, e ar gioco
de l’ingrufà 7 nnun trova mai riposo.
Che vve
ppare, cristiani? Ecco spiegata
la storia der cenacolo e dder foco,
e de quer che ssuccesse a la Nunziata.
Vorzi 1
annà a ttrova
mi’ padre, mi’ cuggnato e mmi’ fratello,
che ppe vvertú dde quarche ffurtarello
stanno in galerra, grazziaddio, bbenone.
Quanno un
cherubbiggnere
disce: «Le vostre carte, bberzitello». 6
Dico: «Che ccarte?» e mme caccio er cappello,
volenno fajje intenne 7 la raggione.
Nun ce fu
Ccristo né Ssanta Maria: 8
bbisoggnò ttornà a Rroma carcerato,
e ddormí ppe ttre nnotte in Pulizzia.
Ma, er Monno,
Iddio lo fesce spalancato.
Dunque adesso ch’edè sta fernesia 9
de carte, che cce l’ha ttutto sbarrato?
Ier notte a
sson de quattro mmannolini 1
noi cantàmio
Io discevo: «Accidenti a li paini», 4
e ll’antri risponneveno: «Accidenti».
Quant’ècchete
5 una man 6 de Galantini, 7
e ddisce: «A ccasa, aló, 8 ssori Minenti», 9
come si 10 cquelli porchi ggiacubbini
fussi ggente da fàcce 11 comprimenti.
Li Galantini
de chi ssò 12 ssordati?
der Papa. E er Papa mó li framasoni
nun l’ha cquanti che ssò 13 scummunicati?
Ma ddunque, quanno
li sudditi bboni
mànneno 14 un accidente a st’addannati,
perché mmó jje se scoccia li cojjoni? 15
’Gni 1
prete, predicanno 2 pe le cchiese,
disce: «Cchi bbene fa, bbene aritrova».
Sí, ssur cazzo, io risponno. A sto paese
mó ss’è inventata una ggiustizzia nova.
Ste meravijje
se 3 saranno intese
quann’er er gallo che ffetava l’ova.
Ma dda sí cch’ 4 er Governo è un Maganzese, 5
si 6 mmiracoli fai manco te ggiova.
Specchiateve
in Antonio. Stammatina,
perché ammazzò la mojje (che arfin’era
carne sua) nun è annato in quajjottina? 7
Ecchelo
8 er ber 9 compenzo, e in che maggnera 10
s’è ppremiato er Cristiano che pper dina 11
portò ar piede der Papa una bbanniera. 12
Lo sapémo
1 che ttutti sti carretti
de gabbie de galline e cceste d’ova
viengheno 2 da la Marca: ma a cche ggiova
de sapello a nnoantri 3 poverelli?
Pe nnoantri
la grasscia nun ze 4 trova.
Le nostre nun zò 5 bbocche da guazzetti.
Noi un tozzo de pane, quattr’ajjetti, 6
e ssempre fame vecchia e ffame nova.
Preti, frati,
puttane, cardinali,
monziggnori, impiegati e bbagarini:
ecco la ggente che ppô ffà li ssciali.
Perché ste
sette sorte d’assassini,
come noantri fussimo animali,
nun ce fanno mai véde 7 li quadrini.
È una spesce
1 de quer che mm’è 2 successo
a mmé, llí da l’Impresa a la Missione.
Passava un prelatino; e un lanternone 3
de decanaccio 4 je vieniva appresso.
Io je stese 5
la coppola; e cquer fesso 6
sai che mme disse? «Fatica, portrone.
Ma eh? ssò 7 ppropio sscene? Er bove adesso
disce cornuto all’asino.
Dimme 9
portrone a mmé, ppe ccristallina, 10
che cquanno viè 11 la sera che mme corco
nun me sento ppiú ll’ossa de la schina! 12
Mentre che
llòro, fijji de miggnotte, 13
fanno la vita der Beato Porco
tra annà in carrozza, maggnà, bbeve 14 e ffotte.
Fijjo, nun
biastimà: 1 zzíttete fijjo:
nun dí 2 ste buggiarate 3 co la pala. 4
Cqua a Rroma un zervitore che ss’ammala,
si 5 ccerca agliuto, 6 ar piú ttrova conzijjo.
A mmé, a ’na
frebbe 7 che mme prese in zala
la mi’ padrona m’intimò l’esijjo,
parlannome lontan da mezzo mijjo
cor naso tutto pien de madrigala. 8
Me portai
quattro mesi de terzane,
commattenno 9 la morte co la vita,
senza un bajocco da crompamme 10 er pane.
E cquanno
aggnéde,
pe rripijjà la riverèa, 12 quer cane
der cammio 13 restò in rollo, 14 e ffu ffinita.
Eh, bbisoggna
trovàccese, 2 Sor Diego,
ar caso che vve tajjino 3 er boccino. 4
Se 5 fa ppresto de dillo: 6 io me ne frego; 7
ma, ar fatto è un’antra sorte de latino. 8
Oh incirca a
le vertú, nnun ve lo nego,
un assassino è ssempre un assassino.
Però, 9 la vita, nun zo ssi mme 10 spiego,
tanto va a ssangue
M’aricorderò
ssempre un marvivente, 13
che l’aveva davero er cor’in petto,
e cche la Morte je pareva ggnente.
Eppuro,
14 ar punto de perde 15 la vita,
spennolava 16 la testa sur carretto,
che sse 17 sarebbe creso 18 un Gesuita.
Lassa ste
vanità: llassele, sposa. 2
Ar monno, bbella mia, tutto finissce.
Come semo arrivati ar profiscissce, 3
addio vezzi, 4 addio fibbie, addio ’ggni cosa.
Quanto te
5 credi de fà la vanosa
co ste pietrucce luccichente e llissce?
Diescianni, venti, trenta; eppoi? sparissce
la ggioventú, e cche ffai, povera Rosa?
Er tempo,
fijja, è ppeggio d’una lima.
Rosica sordo sordo e tt’assottijja,
che 6 ggnisun giorno sei quella de prima.
Dunque nun
rovinà la tu’ famijja:
nun mette a rrepentajjo 7 la tu’ stima.
Lassa ste vanità; llassele, fijja.
Dàjjela
1 co sto lòtono 2 futtuto.
Pe mmé nun zo 3 ccapí ccosa v’importa.
«E ccos’aveva? E dde che mmale è mmorta?»
De mancanza de fiato: ecco saputo.
Sarà
er male ch’er medico ha vvorzuto. 4
Uno n’ha dda viení cche cce se 5 porta.
So cch’è spirata, e mmanco 6 se n’è accorta,
e ss’è ttrova 7 de llà ccome sto sputo. 8
Ihí che
gguai! Nun me ne pijjo io
che mm’era mojje, e vv’affriggete voi!
Bbisoggna fà la volontà de Ddio.
Credo che
mm’abbi 9 messe tante corna,
pe ddílla
che mmó ssalut’a mmé ffin c’aritorna.
V’appetterà
er piovano ch’è ppeccato
de dí a uno: «Te pijji un accidente».
Nun ce credete: nun è vvero ggnente:
sò ttutte cacheríe 2 der zor Curato.
Che 3
bbene je se 4 fa ccor dí
«Pòzzi 6 èsse 7 santo, pòzzi avé
un papato»?
Chi era sciorcinato 8 è cciorcinato,
e oggni cosa arimàne istessamente.
La vita
nostra è in mano der Ziggnore;
e nnoi potémo dí cquer che cce cricca, 9
ché cquanno Iddio nun vo, ll’omo nun more.
Se 10
sente puro
«Siino impiccati», e ddijjelo 12 de core;
ma un ricco, dite un po’, cchi vve l’impicca?
Quanto me 1
fanno ride 2 tant’e e ttanti
co le su’ divozzion de doppo morte!
E llimosine, e mmesse, e llumi, e ccanti,
e llasscite, e indurgenze d’oggni sorte!
Nun hanno
fatto mai ccusì li Santi.
Bbisoggna in vita empìssele le sporte.
Er bene, si lo vòi, 3 mànnel’avanti 4
a ffàtte 5 largo e spalancà le porte.
Sapete Iddio
de llà ccosa v’intòna
quanno er bene sciarriva pe ssiconno? 6
«Annate 7 via, canajja bbuggiarona.
La robba
vostra me la date adesso,
perché l’avévio 8 da lassà in ner Monno,
e nnun potevio 9 strascinalla appresso».
Oggi se
dà ccomincio 1 all’ottavario
de li poveri Morti; e ddite puro 2
che ttra ppredica, moccoli, e rrosario,
se 3 vòta er purgatorio de sicuro.
Se sa,
quarche ppízzico ar culo è nnescessario.
Quarche smaneggio tra la porta e ’r muro
serve a li vivi pe un tantin de svario.
Ecco er fine
de tante bbaraonne 5
de regazze che vvanno pe le cchiese.
Quest’è ’r carnovaletto de le donne.
Tutte
sciànno 6 piú o mmeno er zu’ racchietto, 7
e llí, ssiconno 8 er genio der paese,
fanno l’amore senza dà ssospetto.
È una
sscèna, per dio, propio una sscèna.
Ma ttutte ar tempo mio s’ha da vedelle!
Pe quattr’ossacce senza carn’e ppelle
s’ha da pijjà la ggente tanta pena!
E ttutti
fanno sta cantasilèna: 1
È llui: nun è: ssò cquelle: nun zò cquelle:
è Rraffaelle: nun è Rraffaelle...
E ttutt’er giorno la Ritonna 2 è ppiena.
Certo, nun
dubbità, ssò ccasi serj!
Come c’a Rroma sciamancassin’ossa 3
tramezz’a un venti o un trenta scimiteri!
Trovi uno
schertro
Ebbè, ssenza de fà ttanti misteri,
aribbuttelo drento in de la fossa.
Sabbit’a
ssera 1 un medico todesco
in pubbric’osteria disse che ll’ossa
c’hanno aritròvo a Ssisi
so 3 dd’una donna, e nnò de San Francesco.
Io, sentenno 4
sta bbuggera, me n’esco: 5
«Bbravo, sor froscio 6 mio: dítela grossa.
Seguitate accusí, ssor pippa-rossa, 7
ch’un giorno poi ve 8 manneranno ar fresco. 9
Nun zapéte
ch’er Papa, er Pap’istesso
pe llegà la linguaccia a ttant’e ttanti,
ha spaccato la crosce in zur proscesso?
C’è
mmó ggnent’antro da risponne? 10 avanti.
Questa voría 11 sentí, cch’un Papa adesso
nun conoschi ppiú ll’ossa de li santi».
Doppo morta
mi’ madre, io da zitella
fascevo le mi’ sante devozzione 2
da un certo Padre Bbiascio 3 bbennardone, 4
che mm’annava 5 inzeggnanno 6 st’istoriella.
Me disceva
accusí: «Ffijja mia bbella,
trall’opere cattive e cquelle bbone
bbisoggna abbadà bbene all’intenzione,
pe nnun confonne 7 mai questa co quella.
Ecco, pe
ssemprigrazzia, 8 io te do un bascio.
Si 9 ttu lo pijji per offenne 10 Iddio,
questo, fijja, è peccato; e vvàcce adascio. 11
Ma ssi ttu
nner pijjatte 12 er bascio mio
vòi dà ggusto ar Ziggnore e ar Padre Bbiascio,
pijjelo, 13 fijja, e ffa’ ccome facc’io».
Madraccia
sscellerata! a una cratura
annajje
metteje 3 er culo su lo scallaletto
eppoi menajje 4 su la scottatura?!
Legallo a un
luscernario inzin che ddura
la sperella der zole in cim’ar tetto;
e un tantino che ppiaggne, poveretto,
fà 5 li bbòtti pe mmétteje 6 paura?!
Che ste
barbererìe le facci un padre
che ppò ddì: cquesto nun è ffijjo mio,
tant’e ttanto s’intenne: 7 ma una madre!
Ma una
madraccia che ll’ha ppartorita
e jj’ha ddato er zu’ sangue! Ah nnò, pper dio,
nò, ttra le tigre nun z’è mmai sentita.
Viè a
vvéde 1 le bbellezze de mi’ Nonna.
Ha ddu’ parmi 2 de pelle sott’ar gozzo:
è sbrozzolosa 3 come un maritozzo
e trittica 4 ppiú ppeggio d’una fronna.
Nun
tiè ppiú un dente da maggnasse 5 un tozzo:
l’occhi l’ha pperzi
e er naso, in ner parlà, ppovera donna,
je fa cconverzazzione cor barbozzo.
Bbracc’e
ggamme sò 8 stecche de ventajjo:
la vosce pare un zon 9 de raganella: 10
le zinne, bborze da colacce 11 er quajjo. 12
Bbe’, mmi’
nonna da ggiovene era bbella.
E ttu dda’ ttempo ar tempo; e ssi 13 nun sbajjo,
sposa, 14 diventerai peggio de quella.
Bbella
dimanna! 1 «De che ssò 2 le stelle?».
Io sciò 3 una rabbia sciò cche mme sciaccoro. 4
Bbasta avé ll’occhi in fronte da vedelle
pe ppotello capí. Ssò ttutte d’oro.
Che tte ne
pare? nun è un ber lavoro
c’ha ffatto Ggesucristo, eh Raffaelle?
Mette 5 per aria tutto quer tesoro,
che sse 6 move da sé! cche ccose bbelle!
Questo sí,
ssò un po’ ttroppe 7 piccinine,
perché dde tante nun ce n’è mmanc’una
che nnun pàrino 8 occhietti de galline.
Che jje
9 costava a Ddio? poca o ggnisuna
fatica de crealle, per un díne, 10
granne, 11 ar meno che ssii, come la luna.
Chi vve
1 sente a vvoantri 2 commedianti,
tutti nasscete scime de Siggnori.
A ccasa avete serve e sservitori,
e Ttata 3 viaggia cor curiero avanti.
E cqua
pregate poi Cristo e li Santi
de fà ppiove 4 ar teatro l’aventori,
sinnò 5 ar zor oste e all’antri creditori
je se dà ppagarò-pper-antrettanti
Tutti fate er
mestiere pe ccrapiccio:
ma ttratanto se 6 va ppe nnove mesi
dell’anno in carzoncini de terliccio. 7
Tutti ricconi
a li vostri paesi.
Però in zaccoccia nun ce n’è uno spiccio,
né un antro da spiccià. Cce semo intesi.
Ch’edè
1 er Curato? È un pezzo de carnaccia
co nnove bbusci 2 messi in zimmetria.
Li primi dua je serveno de spia
pe ssapé ddove ha da slongà lle bbraccia.
Dua piú
ssotto, poi fà cquer che sse sia, 3
che ttanto a ccasa tua lui sce li caccia.
Dua sò uperti a cchi jj’empie la pilaccia, 4
e un antro 5 è ppe pportà la carestia.
L’ottavo,
nero nero e ffonno fonno,
sta llí ammannito per rriempí ’ggni tanto
de puzza-e-vvento e dde rimore 6 er Monno.
E
ll’urtim’è ppe ffà vviení le dojje,
sempre in vertú de lo Spiritossanto,
drento a la panza de le nostre mojje.
Antro 2
s’ar Papa io je volevo bbene!
Io so cche in de l’affare der trentuno,
quann’era all’orlo d’arrestà
j’avería 4 dato er zangue in de le vene.
Ma da quer
temp’in poi fa ttante sscene
sto sor Mossciarellaro der bell’uno, 5
ch’io (e sta cosa nun la dí a ggnisuno) 6
me ne frego de lui ppiú cche dde mene. 7
Viè a
Rroma dar bell’uno e ddar ber-dua 8
a ffà er cazzaccio! 9 Poteva, pe ccristo,
stà a vvenne 10 le fusajje a ccasa sua.
De tanti
ggiacubbini, uno impiccato,
uno ch’è uno, nun ze m’è mmai visto!
È un Papa questo che ppòzzi èsse 11 amato?
Er Papa
d’oggi, Iddio lo bbenedichi,
è un omo, crede
È un papetto 2 de core e de sciarvello 3
d’avé in ner culo l’antri 4 Papi antichi.
E ggnisuno
pò ddí 5 cche nun fatichi:
ché nun fuss’antro questo, poverello,
quanti lavori ha ffatti fà in castello
pe ssarvacce 6 la panza pe li fichi.
Lui se veste
da sé: llui s’arispojja:
lui tiè in testa quer pezzo de negozzio
che cce vorebbe sotto la corojja. 7
Lui trotta:
lui ’ggni ggiorno empie un cestino
de momoriali... E ddichi 8 che sta in ozzio,
quanno, Cristo-de-Ddio, pare un facchino!
Io Papa?!
Papa io?! fussi cojjone! 1
Sai quant’è mmejjo a ffà lo scarpinello?
Io vojjo vive
e nnò a mmodo de tutte le nazzione.
Lèveje
inchiodeje 4 le chiappe s’un zedione,
mànnelo
e cco le guardie a vvista a lo sportello:
chiudeje
6 l’osteria, nègheje 7 er gioco,
fàllo sempre campà cco la pavura
der barbiere, der medico e dder coco:
è
vvita da fà ggola e llusingatte? 8
Pe mmé, inzin che nun vado in zepportura,
maggno un tozzo e arittoppo le sciavatte. 9
Perza 1
ch’ebbe la lite, er zor Marchese
disse a la mojje: «Cqua, Mmarchesa mia,
bbisogna fà un po’ ppiú de colomia, 2
mette 3 ggiudizzio, e arisegà le spese».
De fatti,
cominciorno a ccaccià vvia
li maestri der fijjo: poi s’intese
ch’aveveno calato un tant’er mese
a le paghe de sala e scuderia.
Doppo de
questo scassorno dar rollo 4
tutti li famijjari ggiubbilati,
ch’uno s’annò
Inzomma,
poverelli, e striggni e strozza,
de tanti sfarzi nun ze sò llassati 7
ch’er casino, er teatro e la carrozza.
Lui la
intenne 2 accusí? Ddàjjela vinta:
tanto co llòro er repricà nnun vale.
Tanto come che ffai sempre fai male.
Li padroni sò 3 ttutti d’una tinta.
Ppiú dder
mio? Disce: «Scerca a Ggrotta-pinta, 4
nummero tale, er carzolaro tale,
e ddíjje che mm’allarghi sto stivale,
e cche ggià cquesta che mme fa è la quinta».
Io curro,
5 vedo s’una porta nova
scritto Bottierre, 6 che vvo ddí 7 bbottaro,
torno a ppalazzo, e ddico: «Nun ze 8 trova».
E llui
s’infuria, me dà dder zomaro,
me sbatte in faccia una manata d’ova,
e pprotenne 9 che llí cc’è un carzolaro.
Io che
ssò 2 vvecchio e ho ssempre visto, fijja,
come vanno le cose de sto Monno,
co ccerti casi io nun me sce confonno;
e nun me fanno un cazzo maravijja.
Questa
è un’ammalatía che a cchi jje pijja
lo fa ddiscorre 3 e nun je roppe 4 er zonno:
e cce sò 5 ttanti che, ddormenno, ponno
fà oggni faccenna e ccamminà le mijja.
Dunque nun
c’è ggnisuna inconcrudenza 6
che sta regazza, in ner pijjajje er male,
parli e rrisponni 7 come una sentenza.
Io ho sservito
tant’anni un Cardinale
che in oggni venardí che ddava udienza
risponneva dormenno tal’e cquale.
La madre pe
nnun fàlli 1 viení ggrassi,
poveri disgrazziati siggnorini,
li governa a l’usanza de purcini:
e Ddio guardi de noi chi jje ne dassi. 2
Guardeli llí!
nnun pareno 3 compassi,
manichi de palette, tajjolini, 4
tiri de campanelli? Accusí ffini
farebbeno pietà ppuro
Ecco poi che
vvor dí, 6 mmadracce infame,
nun métteje 7 lo stommico a bbon’ora
d’accordo co la gola e cco la fame:
ché cquanno
co st’iniqua educazzione
sò 8 ppoi prelati e ccardinali, allora
crèpeno, grazziaddio, d’indiggistione.
Oh, ssai che
tt’ho da dí? ssei ’na cojjona, 1
che nnun ze ne pò ddà ll’antra 2 compaggna.
Tu ssudi, e ttu’ marito te bbastona.
Tu abbuschi er pane, e ttu’ marito maggna.
Sposa, 3
da’ retta a mmé: ffa’ la portrona:
arza la cresta: e cquanno lui se laggna,
risponni sempre co la su’ canzona:
«Fatica, bbello mio: porco, guadaggna».
Tu
mm’arisponnerai che nun te torna 4
per via de quell’affare... E ttu in sto caso,
fàtte un regazzo, 5 e mmetteje 6 le corna.
C’è
ggiusto 7 mi’ fratello, che ttu ssai
s’è ggiuvenotto che jje rode er naso, 8
e tte pò arimedià ttutti li guai.
Nun ce
vò mmica tanto, Monziggnore,
de stà llí a ssede
e dde dí: 2 cquesto è rreo, quest’è innoscente.
Er punto forte è de vedejje er core.
Sa cquanti
rei de drento hanno ppiú onore
che cchi de fora nun ha ffatto ggnente?
Sa llei che cchi ffa er male e sse ne pente
è mmezz’angelo e mmezzo peccatore?
Io sò
3 lladro, lo so e mme ne vergoggno:
però ll’obbrigo suo saría de vede 4
si 5 ho rrubbato pe vvizzio o ppe bbisoggno.
S’avería
6 da capí cquer che sse 7 pena
da un pover’omo, in cammio 8 de stà a ssede
sentenzianno la ggente a ppanza piena.
Disce: Meo,
3 nun trincià! 4 Cazzo, io nun trincio,
ma mmanco 5 pe pparlà cchiedo liscenza.
Io li guai me li pijjo co ppascenza:
ma gguardàteve poi quanno comincio.
Doppo, per
dio, che la Bbonifiscenza 6
cià 7 ffatto sudà ssangue ar Monte-Pincio 8
co ttanti scavi e ttanti muri a sguincio,
mó cche mmori de fame, usa prudenza!
Curre er mese
mommó cche ffàmo festa.
E cche! cce lo commanna er Zarvatore
che cce fàmo 9 acciaccà le nosce in testa? 10
S’ha da
tiené, 11 fijjacci de puttane,
du’ mila bbraccia e ppiú ssenza lavore, 12
e un mijjaro de bbocche senza pane!
Dico:
«Ch’edè, 1 rregazze, che ccurrete 2
cor piant’all’occhi e li capelli sparzi
pe la fanga de Roma a ppiedi scarzi
rescitanno er rosario? 3 eh? ccos’avete?».
M’arisponne
una: «Sta mmorenno un prete,
e nnoi pregam’Iddio; perché ppò ddarzi
ch’in grazzia de Maria lui s’arïarzi
san’e ssarvo: e pperò nnun me tienete 4».
M’avessi
5 detto un capo de famijja,
m’avessi detto er padre, er zu’ dolore
m’avería 6 fatto dí 7 ppovera fijja!
Ma ss’ha da
piaggne 8 perché un prete more?!
Pe mmé, 9 ppozzi 10 morí cchi sse ne pijja; 11
e ssii fatta la gròlia 12 der Ziggnore.
Ggira er Zole
o la Terra? Uh ttatajjanni 1
imbottiti de rape e ccucuzzole!
Abbasterebbe a gguardà inzú, bbestiole,
senza stasse
Invesce de
spregà ttante parole,
dite, chi è cche dda un mijjone d’anni
essce sempre de dietro a Ssan Giuvanni
e vva ddietr’a Ssan Pietro? 3 eh? nnun è er Zole?
Ch’edè
4 cquer coso tonno 5 oggni matina
che vve passa per aria su la testa?
Dunque è la terra o ’r Zole che ccammina?
Sippuro
6 nnun è er dubbio che vve resta,
vedenno 7 oggni Minente 8 e oggni paína 9
nun poté arregge
Chi ha
ffrabbicato 1 Roma, er Vaticano,
er Campidojjo, er Popolo, 2 er Castello?
Furno Romolo e Rmemolo, Marcello,
che ggnisun de li dua era romano.
Ma un e
ll’antro 3 volenno esse 4 soprano 5
de sto paese novo accusí bbello,
er fratello nimmico der fratello
vennero a ppatti cor cortello in mano.
Le cortellate
aggnédero
e Rroma addiventò ddar primo ggiorno
com’è oggi, una Torre-de-Bbabbelle.
De li
sfrizzoli 7 oggnuno ebbe li sui:
e Rroma, quelli dua la liticorno, 8
ma vvenne er Papa e sse la prese lui.
Sor
Giacubbino mio, tutte le palle
nun riescheno tonne, io ve l’avviso.
Ancòra sce sò 1 ssanti in paradiso
che a la Cchiesa je guardeno le spalle.
Abbasta,
abbasta quer c’avete riso:
mó vviè l’inacqua lagrimàr’in valle. 2
Adesso è ’r tempo de le facce ggialle,
sor giacubbino mio, gruggno d’impiso. 3
Sentirete che
nnespole, 4 fijjolo,
oggi ch’er Papa pe ggrazzia de Ddio
chiama cqua li su’ amichi der Tirolo.
Lassàteli
arrivà, cché ssubbit’io
ve viengo a ddà er bon giorno, e vve conzolo
co cquattro stoccatelle a ggenio mio.
Morto
Tufò d’una stoccata presa
sur canton de le Stalle de Corzini, 1
e Bbasville ar trapasso de l’Impresa, 2
d’un tajjo de rasore a li destini; 3
la setta de
francesi ggiacubbini,
pijjannose 4 ste morte pe un’offesa,
spidí a Rroma una truppa d’assassini
a llegà Bbraschi er capo de la Cchiesa.
Doppo
incirc’a ddiescianni, Napujjone
mannò a ffà la scalata a Cchiaramonti,
perché nnun era un Papa framasone.
E, ppe
ffà er terzo, mó li carbonari
vorebbeno vienissene 5 ónti ónti 6
ppizzicasse 7 Papa Cappellari;
quanti
sò 8 ccari!
Nun dubbità pperò cche stanno freschi;
e in Itajja sce sò 9 bboni Todeschi.
Li chírichi
de Roma? crosc’e spine! 2
Dove te vòi 3 scavà ppeggio gginía?
Uno ruffiano, uno gatto, uno spia,
uno... inzomma canajja senza fine.
Ggiucheno a
zzecchinetto
se scoleno oggni sempre l’ampolline:
vonno bbene a le ggente pasqualine 5
e vvenneno 6 er bijjetto a cchissesia.
Cor
butteghino 7 de le ssedie, intanto
àzzichen’ 8 oggni donna, o cce ssii tata,
o Mmamma, o Nnonna, o er cornutello accanto.
Serveno Messa
ch’è un zocché 9 dde tristo;
e cconnischeno
coll’ojjo de le lampane de Cristo. 11
Propio
bbisoggna dí cc’all’Angeletto,
ar Moro, ar Gallo, e in quarc’antra ostaria
m’abbino bbattezzato 1 pe ’na spia
che ttiè oggni cosa ariservat’in petto.
Che ccosa
m’ho da intenne 2 io si 3 er Messía
è nnato prima o ddoppo de Maometto,
oppuro de Mosè? Vvadino in Ghetto
a ffà ste sciarle: vadino in Turchia.
Sò
4 impicci da sbrojjà ddoppo tant’anni?
L’omo nun pò ssapé cche cquer c’ha vvisto:
ma eh? nun dico bbene, sor Giuvanni?
Prima o
ddoppo, cchi vvòi che jje n’importi?
Bbasta, o Mmosè, o Mmaometto, o Ggesucristo,
quello ch’è ccerto è cche ssò ttutti morti.
È
vvero ch’er marito era un gran brutto
vecchio bbavoso, ma ttratanto Ghita 1
pò ddí 2 cch’è nnata carzata e vvistita, 3
e a sposallo scià ttrovo 4 er zu’ costrutto. 5
Eh, mmica
ggnente! l’ha llassata in vita
donna e Mmadonna espotica 6 de tutto,
padrona de godesse 7 er lusufrutto
dell’asso, 8 de l’entrata e dde l’usscita.
Ôh, in
quant’ar capitale, er morto ha ddetto
c’ha da rimane
che mmó ha ddu’ anni, e ppropio è un bel racchietto. 11
Si 12 è
ppoi fijjo de lui vattel’a ppesca. 13
Perantro ha la medema incornatura 14
tutta der zor Girolimo requiesca.
Dímoje 2
marfrancese
oppuro scolazzione o ggomorrea,
fatt’è ch’è stata una gran ladra idea
d’attossicacce 4 un gusto accusí bbello.
Bbastassi
5 ar meno quer che ffesce quello, 6
c’avanti d’ingrufasse 7 Dorotea,
un giorno pijjò un po’ de vallonea,
aggnéde
Che
nn’ariccorze? 10 Un ber par de cojjoni. 11
Co ttutta la su’ concia ariverita,
sce 12 s’empí de pulenta 13 e dde tinconi.
Senza
contacce 14 poi trall’antri mali,
ch’un omo co sta concia pe la vita,
si ha mmojje, c’ha da fà? ffijji o stivali?
Te se
sò infrascicate? 2 Ôh adesso sbuffa.
È ccalata la piazza? 3 Ôh mmó bbarbotta. 4
Che tte discevo? Le fruttajje in grotta
tanto la va 5 mma ppoi fanno la muffa.
Mica c’abbi
da dà la robba auffa, 6
ma cquanno te sce scappa la paggnotta 7
da’ mmano e sbarza via: nun èsse jjotta. 8
Nun venni, e vvò’ abbuscà?! 9 cquanto sei bbuffa!
Li negozzi
sò 10 bbestie de du’ code.
Una te pò ffà rricca: una te frega. 11
Ecco perché cchi sse contenta gode. 12
Sai che mme
canta sempre mi’ marito?
«A invecchià ttroppo er fonno de bbottega
sce s’arimette 13 poi nicch’e ppartito». 14
Ma cche
ffatti se 1 senteno, eh Strijjozzo?
Manco fussimo 2 ar tempo de Nerone.
Legà in der zonno un povero padrone
e bbuttallo in camiscia drent’ar pozzo!
Striggneje,
sarv’oggnuno, er gargarozzo
co un fazzoletto bbianco de cottone! 3
ficcajje un stracc’in bocca, e cco un bastone
incarzajjelo ggiú ssino in der gozzo!
Pe
arrubbà cquattr’argenti e cquarc’anello
c’era bbisoggno mó, ffijji de cani,
de fà ttutto st’orrore de sfraggello?
Volete
ammazzà un omo oggi o ddomani?
Eh bbuggiaravve, pijjate un cortello
e ammazzatelo ar meno da cristiani.
Ma
Mmonziggnore, quanno un padre affritto 1
chiede ggiustizzia in pubbrico palazzo,
nun arrivo a ccapí ssi 2 ccon che ddritto
s’abbi da merità ttanto strapazzo.
Viè
una scrofa 3 e ccaluggna er mi’ regazzo,
e io, povero padre, ho dda stà zzitto
perché nnun mostro er corpo der dilitto?
Cosa averebbe 4 da mostrajje? er cazzo?
Lei l’ha
impestato, eppoi, bbrutta marmotta,
je s’ha da crede, 5 Iddio la bbenedichi,
ch’è stato er fijjo mio che jje l’ha rrotta!
Ôh,
Mmonziggnore, vò cche jje la dichi?
me maravijjo assai c’a ’na miggnotta
li prelati je faccino l’amichi.
Sete 1
zitella, sí: ccome ve 2 pare:
zitella, zitelluccia, zitellona:
deggna inzomma de stà ssopr’a l’artare
co ssanta Margherita da Cortona.
Peccato che
la luna in mezz’ar mare
quarche mmese nun essce, e vve cojjona; 3
e cche spesso, a Ssaspirito, er compare
curre a una rota, mette drento, e ssòna.
Der rimanente
ve se 4 vede in faccia
che vvoi sete zitella a bbocc’uperta 5
a un dipresso in zur gusto de Santaccia. 6
E ffussivo
magara 7 puttanella,
nun avenno 8 marito è ccosa scerta
che v’hanno da chiamà ssempre zitella.
Oh, ssor
Paterni, 2 l’avemo sentiti
a Llibberti sti su’ 3 musicaroli;
e ssa cche jj’ho da dí? llei se 4 conzoli
che ppropio arimanessimo intontiti. 5
Che angeli!
che zzuccheri canniti! 6
che ccanàri, per dio!, che rrosiggnoli!
Pareno 7 llí ddavanti a li coccioli, 8
’na soffitta de gatti inciamorriti.
Dove nun lo
dicessi 9 er butteghino
che llí ddrento se 10 canta una commedia,
ar zentí 11 cquel’inferno ar Babbuino 12
currería
13 ’r bariggello 14 spaventato,
currería la Mammana co la ssedia,
currería l’ojjo santo cor curato.
Chi
vvò cconossce 2 er fior de le famijje,
entri a rrifasse 3 l’occhi in sto portone,
e vvienghi a vvede
si cche ffrega 5 d’argenti e dde mobbijje.
Cqua ggioje
pe la mojje e ppe le fijje:
cqua parchetti a la Valle e a Ttordinone: 6
cqua vviaggi e scampaggnate oggni staggione:
cqua ccavalli da sella e dda parijje.
E rrifreschi,
e accademie, e ttavolini
co li ppiú mmejjo ggiochi der paese,
dove nun curren’antro 7 che zzecchini.
Inzomma tra
sti sfarzi e ttra ste spese
s’ha da stà ppe ccapí cquanti quadrini
pò avé un Mastro-de-casa d’un Marchese. 8
Ce saranno le
mmaschere quest’anno?
A mmé mme 1 disce er mozzo de Caserta
che llui ha inteso a ddí ppe ccosa scerta
da ’na spia amica sua, che cce saranno.
È vvero
che le spie sò 2 ggente asperta, 3
che li fatti che ll’antri 4 nu li sanno
tanto imbrojjeno loro e ttanto fanno
che l’arriveno a vvede
Puro, in
quanto a le mmaschere, sor oste,
ho ppavura c’arrestino
perch’er Papa nun vò ffacce anniscoste.
Er crede
7 e lo sperà ssò ccose bbelle;
ma a sto monnaccio nun c’è de sicuro
che ddu’ cose: la morte e le gabbelle.
Che
ffarà a Rroma er popolo romano
adesso che jje more er Zenatore? 2
Come faranno, adesso che llui more,
li vassalli de Cori e Vvitorchiano? 3
Che
ffarà adesso er povero sovrano
der Vicario de Ddio nostro Siggnore,
senza sta prima carica d’onore
che lo vadi a sserví dda lavamano? 4
E ccome se
farà ggiuveddí-grasso,
che nun ce sarà ppiú cchi bbatti er Corzo
fra le carrozze che jje danno er passo? 5
Quieti pe
ccarità, cché, llui crepato,
nun mancherà de scerto un antro torzo 6
da méttelo
È
mmorto er Zenatore: e ddrent’ar mese
chi ddisce che ssii fatto Bbarberini,
chi Ssantacrosce, chi Ssolòfro Orzini, 2
chi Ppatrizzi, 3 e cchi er Prencipe Bborghese. 4
Ma er Papa,
che ttiè in testa le protese
che ccacciò ffora er Prencipe Corzini, 5
ha ppavura che cquelli siggnorini
rivojjino er commanno der paese. 6
Forzi, 7
come una vorta era er custume,
metterà in Campidojjo un zu’ nipote, 8
negozziante de paste e nnegrofume. 9
Dunque, si
10 cquesto cqua ssa er zu’ dovere, 11
per entrà in grazzia ar zio uggni le ròte 12
ar cavajjer Ghitano er cammeriere. 13
Ôh, vvojjo
dàvve 1 una gran nova, vojjo:
che ffinarmente er Papa stammatina
ha ffatto senatore Garavina, 2
e ttra ggiorni lo stalla
E ggià
in Cancellaria se stenne 4 er fojjo
de privileggi in carta bbergamina, 5
ciovè cche aspetta
quanno fa ar Papa da assistent’ar zojjo.
In quanto poi
si 8 ppijjerà ppossesso,
questo dipennerà dda la saccoccia: 9
ché ggià, lo pijji o nnò, ttant’è ll’istesso.
Li riquisiti
per entrà in funzione
sò 10 una bbrava perucca
un par de guanti bbianchi, e un ber rubbone. 12
C’è
un’antra nova. Doppo la quarella 1
der bastardo de casa Scesarini, 2
che sse vò ffà 3 ppe fforza una sorella
pe llevajje er casato 4 e li quadrini,
mó a
l’improviso scappa fora quella
piú strepitosa tra Ccorzini 5 e Orzini, 6
pe vvede
de ganzo e ’r peruccone
Pe mmé nnun
ce farebbe 11 indifferenza 12
tra st’Orzini e Ccorzini. In concrusione
uno tiè un C de ppiú, ll’antro 13 n’è ssenza.
Defatti er
liticasse 14 un peruccone,
che nnun ha ppiú ggnisuna incompitenza, 15
propio è una lite da C, o, co, ccojjone.
Quanno nun
z’abbi 2 da poté ffidasse 3
manco 4 ppiú de siggnori e dde prelati,
nun c’è dda fà ggnent’antro 5 che bbuttasse 6
pe tterra, cristo mio, pe ddisperati.
Bbravo!
perché le stime ereno bbasse,
e vvedevo li tomi arilegati,
io mó avevo da crede 7 che ste casse
de libbri vecchi fussino arrubbati.
Cresi 8
che, mmorto er padre, er prelatino
volessi 9 bbastonà 10 la libbraria
pe ccrompaccese 11 un schioppo e un carrettino. 12
Che
ssò 13 io? er profeta de l’urione 14
pe ssapé 15 che li libbri che ddà vvia 16
monziggnore li scrocca a la lauzzione? 17
Quello?! Ma
ppropio lui?! Jeso, 1 che ssento!
Io casco dalle nuvole, Terresa.
Quer vecchietto che stava sempre in chiesa
inginocchione avanti ar Zagramento?!
Un quartino,
quattr’onc’e mmezz’e ppiú dde sol argento!
Ggnente de meno ch’er mille pe ccento!
Oh questa mó è la prima che ss’è intesa.
Fregheli, che
assassini che sse danno!
Fà ste lusúre, 3 e ppoi maggnasse 4 er peggno
l’istesso ggiorno che ffinissce l’anno!
Uh ffuss’io 5
Papa! a st’animacce porche
je vorebbe imparà ssi dde 6 che lleggno
se frabbica 7 la scala de le forche.
Sotto
dell’antri 1 Papi, er rimanente
c’avanzava a sta lupa de l’Impresa, 2
lo fasceva serví la Santa Cchiesa
pe llemosine a nnoi povera ggente.
Ma, a ggiorni
nostri, un Papa ppiú ccremente, 3
discenno 4 c’a la Cammera je pesa
d’avé da seguità ttutta sta spesa,
serra le porte e nnun vò ddà ppiú ggnente.
Ecco la
carità de sto Governo.
Eccola la ggiustizia che ss’inzeggna
da sti diavoli esscíti da l’inferno.
Tutto se
scola 5 sta fajola 6 indeggna.
Tutto cqua sse 7 priscípita in eterno
ner pozzo de la gola e dde la freggna.
Bartolomeo,
tu pparli a la carlona.
De sti ggiri che cqui 1 ssei poco pratico.
Pari vienuto cor grobbo-arrostatico 2
dar paese dell’ícchese in perzona. 3
Cosa sce
trovi d’arimane statico 4
s’hanno unita la Grasscia co l’Annona?
È sseggno che sta ggente bbuggiarona
vò mmaggnattese 5 er pane e ’r companatico.
L’istessa
cosa incircuncirco accade
de le Strade e dell’Acque. Abbi ggiudizzio
d’arifrette, 6 e tte 7 vojjo perzuade. 8
S’è
mmess’inzieme l’un e ll’antro uffizzio,
perché er Guverno pe scopà le strade
ha ppijjato er diluvio ar zu’ servizzio.
Come! e in un
tempo de tanto fraggello,
che, ssi rridemo noi, 1 puro 2 è ddilitto,
er Papa che sse stampa 3 accusí affritto
se ne va intanto a vvilleggià a Ccastello! 4
Mentr’er
tesorierato è ttanto guitto
che nnun c’è in cassa manco un quadrinello, 5
là sse spenne mijjara
tutto er palazzo, 7 e ’r Monno ha da stà zzitto!
Dove scime de
Papi 8 hanno passate
tante staggione cor mobbijjo vecchio,
nun pò sta cchi pper dio jjeri era frate! 9
Romani mii,
10 specchiateve in sto specchio
e ccapite che ttutte le sscimmiate 11
che ffa llui, sò bbuscíe 12 da mozzorecchio. 13
Che mmutino
oggni mese un Tesoriere,
questa, pse, 1 ttant’e ttanto je se passa, 2
perché er zegreto de spojjà la cassa
lo sanno tutti e in tutte le maggnere. 3
Per un modo
de dí, cquello è un mestiere
fratèr-carnale 4 de la nebbia bbassa,
ché, cquanno arriva, come trova lassa, 5
e lo pò ffa cqualunque cammeriere.
Quer che dde
tante teste entra in ggnisuna 6
è cch’er Governatòre
s’abbi 8 d’arinnovà ccome la luna.
Nun lo vedete
chiaro, ggente mie,
che nun je pò rriusscí 9 ddrent’in un mese
nemmanco de contà ttutte le spie?
Oh gguarda mó
cche ttirannia tiranna
de nun portamme 2 er brodo a mmodo mio!
Io vojjo er brodo com’Iddio commanna, 3
ché dder mi’ corpo sò 4 er padrone io.
Doppo tutto
sto po’ dde bbuggerío 5
de sta diarella 6 de sscialapp’e mmanna,
vonno ruzzacce, 7 corpo d’un giudio!,
cor 8 un brodo ch’è llongo mezza canna.
Bbe’? mme la
vôti, o nnò, la sputarola?...
Eh ttira un po’ ppiú in zú cquer capezzale...
Cazzo! t’ho ddetto una cuperta 9 sola.
E mmó indove
me ficchi l’urinale?
Ah! un’antra vorta ch’Iddio me conzola, 10
bbuggiarà cchi nun more a lo spedale.
Ôh, 2
ppenzateve 3 un po’ ccome volete
ch’er reggno ar Papa je l’ha ddato Iddio,
io sto cco le parole de don Pio:
«Sete cojjoni assai si cce 4 credete».
E Ggesucristo
ar popolo ggiudio
sapete che jje disse? eh? lo sapete?
«Io sò vvienuto in terra a ffà da prete,
e nnun è dde sto Monno er reggno mio».
Che bbella
cosa saría 5 stata ar Monno
de vede 6 er Nazzareno a ffà la guerra
e a scrive 7 editti fra vviggijja e ssonno!
E, dde ppiú,
mmannà ll’ommini in galerra,
e mmette 8 er dazzio a le sarache e ar tonno
a Rripa-granne 9 e a la Dogàn-de-terra. 10
Sora sposa,
2 che! avete er pidiscello, 3
che mme 4 state color de terroriana? 5
Ve s’è ssciorto er bellicolo
Dite eh? vve s’arivòrtica er budello? 8
La volete
sapé, ccore mio bbello?
A vvoi v’amanca quarche ssittimana. 9
Lo sapete ch’edè? Voi, sora Sciana, 10
sete matta in ner mezzo de ciarvello.
Come sarebb’a
ddí? ccosa ve dôle? 11
Animo, fora, fàteve usscí er fiato. 12
Forte: nun masticamo le parole.
L’avete detto
a mmé cche ssi’ impiccato?
E io ve dico ste du’ cose sole:
fate per voi, perch’io, fijja, ho spallato. 13
Tu nun
capisco indov’abbi la testa.
Hai tanta fernesia 1 de fatte 2 sposa,
e nun zai che cqui a Rroma nun c’è ccosa
che ssii cosa piú ffascile de questa.
Vòi
marito? E tu àrzete 3 la vesta,
pijjete in corpo una zeppa-bbrodosa, 4
eppoi va’ ddar Curato, e ddijje, 5 Rosa:
«Padre, ajjutate una zitella onesta».
Er prete te
dirà: «Cche ccos’è stato?».
Tu allora piaggne, 6 e ddijje: «Un traditore
de l’innoscenza mia m’ha ingravidato».
E cqui accusa
qualunque che tte cricca; 7
ma abbada, 8 pe rriusscínne 9 con onore,
d’accusà ssempre una perzona ricca.
Fra ttanti
sturbi, er Papa s’è anniscosto
ner Palazzo-der-Papa, e llà in giardino
spasseggia, fischia, e ppoi ruzza 2 un tantino
cor un prelato suo garbàt’e ttosto. 3
Lo porta a un
gioco-d’acqua accost’accosto
e tte lo fà abbaggnà ccome un purcino;
e arriva ar punto de mettéjje 4 infino
drent’in zaccoccia li pollastri arrosto.
De le vorte
4a lo pijja sott’ar braccio,
poi je fa la scianchetta, 5 e, ppoverello,
je leva er piommo 6 e jje fa ddà un bottaccio. 7
Accusí er
Papa se 8 diverte; e cquello
s’ammaschera da tonto 9 e ffa er pajjaccio
pe mmerità l’onore der cappello.
Jeri Su’
Santità ccor zu’ bbuffone 1
ggiucanno
(vedi er diavolo mó ddove se caccia!),
je successe sto caso bbuggiarone.
In ner mentre
ggià aveva arte 5 le bbraccia
la gattasceca 6 pe ccalà er bastone,
er Papa s’inchinò ggiú a ppecorone 7
pe llevajje 8 la pila de llí in faccia.
Ghitanino
9 che vvedde 10 er zor don Màvero 11
in quell’atto, ffu llesto a strillà: «Ffoco», 12
ma er tortóre 13 era ggià ssopr’ar camàvero. 14
Ecco come finischeno
ste ruzze: 15
che la ggente in nell’ímpito 16 der gioco,
tira a le pile e ccojje a le cucuzze.
Immezzo
all’orto mio sc’è un arberone,
solo ar Monno, 2 e oramai tutto tarlato:
eppuro 3 fa er zu’ 4 frutto oggni staggione
bbello a vvede, 5 ma ascerbo e avvelenato.
Ricconta un
libbro che dda quanno è nnato
è vvienuta a ppotallo 6 oggni nazzione;
ma er frutto c’arifà 7 ddoppo potato
pizzica che nemmanco un peperone.
Quarchiduno
8 me disce d’inzitallo, 9
perché accusì er zu’ frutto a ppoc’a ppoco
diventerebbe bbono da maggnallo.
Ma un
Carbonaro amico mio me disce 10
che nnun c’è antro 11 che ll’accetta 12 e ’r foco,
perché er canchero sta in ne la radisce.
Sor avocato
mio, er punto forte
c’ariccomanno
è de spuntà 2 cche nun me vienghi addosso
quella puttana de condanna a mmorte.
Perché,
ppotenno 3 avé lla bbella sorte
d’annà in galerra e dde sartà cquer fosso, 4
c’è ssempre poi quarche zzucchetto rosso 5
che in galerra che ssei t’opri 6 le porte.
E ssi mmai
7 pe ffà spalla
bbisognassi 9 er zoccorzo d’una vesta,
spennete puro 10 la mi’ mojje Aggnesa.
Ch’io
sò ssicuro ggià cch’er zu’ 11 demonio
nun je vojji 12 caccià scrupoli in testa
de nun difenne 13 er zanto madrimonio.
Ecco quello
ch’edè: 2 nne li contratti
quarche vvorta io patisco d’estrazzione; 3
e llei 4 lo sa cche li scervelli estratti 5
spesso in ner contrattà vvanno a ttastone.
Ccusí
ssuccesse a mmé: nner fà li patti
nun ce messe 6 abbastanza irrifressione; 7
e nnun stiede
somijjanti hanno un prezzo d’affrizzione. 9
Vennenno
10 er quadro mio, nun me penzavo 11
che cquer quadro potessi èsse d’utore, 12
e, cquer ch’è ppeggio, d’un utore bbravo.
Se figuri
13 s’io davo per un pavolo
du’ ritratti dipinti da un pittore,
de San Micchel’arcangelo e dder diavolo. 14
Cqua ’ggni
du’ ggiorni o ttre ppe ssittimana
c’ar padrone j’arriva la gazzetta,
nun ze sent’antro a ddí 1 cche la Fajetta
scombussola la Francia sana sana.
Pussibbile,
2 per dio, c’a sta puttana
nun j’abbi da pijjà mmai ’na saetta!
Nu l’impiccheno mai sta mmaledetta,
che vvò atterrà la riliggion cristiana?
L’istesso
è dde l’Ingresi co cquer Billo:
ché sto ladro futtuto l’arrovina
e ancora nun arriveno a ccapillo. 3
Bbenedetta la
Corte papalina,
che ar meno questo cqui bbisoggna díllo 4
dà ppane ar boja e sse mantiè rreggina!
Che mme
1 parlate a mmé dde vocazzione
e dde voti perpètuvi 2 e ssinceri!
Bbisoggnería 3 ch’Iddio fussi un buffone
pe ddisdí 4 oggi quer che ddisse jjeri.
Quann’er Papa
ariuprí li Monisteri
che l’aveva serrati Napujjone, 5
quante Moniche annorno 6 volentieri
a ffasse riammurà? 7 Cquattro bbabbione. 8
Tutte l’antre
9 che ppréseno la scorza 10
poc’anni prima, er Papa in ner Convento
ce le dovette aricaccià ppe fforza.
Tutto questo
perché? Pperch’è un strapazzo
de volé ddà
in quel’età cche nnun capissce un cazzo.
Ohé! Mmaria!
dichi 2 davero o bburli?!
bbirba cojjona, pe nnun ditte 3 ssciocca.
Nun piascé 4 la Foresta de Minzurli, 5
quanno la fa 6 cquer pezzo de pasciocca! 7
Te dico che
cquell’argheno 8 de bbocca
sce 9 tirava su er core co li curli: 10
e hai mai visto la neve quanno fiocca?
Fioccaveno accusí ll’apprausi e ll’urli.
La gran furia-de-popolo
era tanta
che ppropio la pratea de Tordinona 11
se moveva e ttremava tutta-quanta.
Bbenedetta,
per dio, st’Angiolonona! 12
bbenedetta sta strega che cc’incanta!
bbenedetto quer fischio 13 che la sona! 14
Ggià
sse 2 sa, ppe nnoi poveri affamati
a sta macchia che cqua 3 nnun ce se 4 penza:
e cchi aricurre
sempre se sente a ddí: 7 «Ssò 8 tterminati».
Vedo intanto
però ttutti li frati,
c’ortre 9 la loro bbrava possidenza,
pe inzeppà 10 la cantina e la dispenza
hanno sempre bbon’ordini pagati. 11
Disce:
«Quest’è un compenzo de quer tanto
che cquanno se levorno 12 li conventi
monzú Jannette 13 je venné
E accusí,
mmentre er zecolaro 15 abbozza, 16
er fratiscello, co li su’ 17 fetenti
voti de povertà, mmarcia in carrozza.
No, a mmé
cquer che mme tufa, 1 sor Luviggi,
è de sentí una scorfena bbacocca 2
de scuffiaretta, che nun za uprí bbocca
senza métteve
Che
ssarà sto paese de prodiggi
c’a le scuffiare guai chi jje lo tocca?
Io sce scommetteria 4 ch’è una bbicocca, 5
da entrà in cortile der Palazzo Ghiggi. 6
Ma ccazzo! a
Ffrancia indove sc’è una Ronzi 7
com’a Rroma? E ppe ccristo, a li romani
tutto je se pò ddí, ffora che ggonzi. 8
Eppuro,
9 oh bbona! st’anima sconfusa 10
nun va ddiscenno 11 co li su’ ruffiani
che a vvedella cantà llei sce s’ammusa?! 12
Bbe’,
mmettémo 2 che ssia; dimo, 3 Vincenza,
che li Francesi avessino 4 raggione.
Fàmo caso, 5 si vvòi, che Nnapujjone
cqua cce potessi addomminà
Che ccosa ne
viería 7 pe cconzeguenza?
C’oggi nun ze faría 8 Papa Leone,
e a li sordati pe sparà er cannone,
nun je daría 9 ggnisuno l’indurgenza.
Poi, che
disse a l’apostolo er Messia?
«Voi sete Pietro, e ssu sta pietra sola
ce vojjo dificà 10 la Cchiesa mia». 11
E nnun ce
vò che ’na testa de leggno
pe nnun capí cche ssotto la parola
de quella Cchiesa s’ha da intenne 12 er Reggno.
Sí, ccommare:
pe ggrazzia der Ziggnore
e de sant’Anna mó ttutt’è ffinito.
Si ssapessi 2 però cquanto ho ppatito!...
Vergine! e cche ssarà cquanno se more? 3
E cco ttutto
sto tibbi 4 de dolore
c’è ttanta rabbia de pijjà mmarito?!
E ammalappena 5 avemo partorito
ce la famo arifà?! 6 Cce vò un gran core.
Ricconta la
Mammana, che cc’è stata
’na Santa, che li Papi la mettérno 7
drent’ar Martirologgio pe Bbeata,
che ppe
ddà a le su’ Moniche arto arto 8
un essempio der cruscio 9 de l’inferno,
l’assomijjava a li dolor der parto.
Oh! io dico
pe mmé cch’er giudïolo
che ssiconno 1 lo stile de l’antr’anni
sabbito battezzorno a Ssan Giuvanni, 2
nun abbi avuto un battesimo solo.
Saría
ggiudizzio de tené un fijjolo
drent’a li Cacatummeni
de tutta la caterba 4 de malanni
che vve lo ponno fà mmorí ebbreolo?
Un accidente
5 solo, Iddio ne guardi,
che ppijjassi
faría pentí dde bbattezzallo tardi.
Pe cquesto io
ve discevo, Sor’Antonia,
ch’er battesimo vero è cquello primo,
e in ner Zabbito-santo è ccirimonia.
No, nno, cce
n’ho d’avanzo de le pene
de sta bbrutta casaccia mmaledetta,
che da sí 2 cche ce sto, ccredeme, 3 Bbetta, 4
io nun ho avuto ppiú un’ora de bbene.
Cqua
cciò 5 abbortito: cqua cciò perzo 6 Irene:
cqua cciò impeggnato inzino la cassetta: 7
cqua mmi’ marito pe un fraudo
me l’hanno messo a spasseggià in catene.
Cqua inzomma
te so ddí, ccommare mia,
credessi d’annà ssotto ar Colonnato
de San Pietro, tant’è, vvojjo annà vvia. 10
Ché ar meno
llà nnun ce sarà un curato,
c’a ’ggni pelo che ffate d’alegria
ve viè a mmette
La rosa-d’oro
che cqui er Papa oggn’anno
bbenedisce in ner giorno de dimani, 1
lui la manna
che ssempre quarche ccosa j’aridanno. 3
Bben inteso
però cche ssi 4 nnun fanno
le cose da cattolichi romani,
la rosa nun je va: ché sti sovrani
nun z’hanno mai d’arigalà, 5 nun z’hanno.
Er
portà cquella rosa è un grann’onore;
e ppe cquesto se sscejje un principino
c’ha ffinito li studi, o un Monziggnore.
E cce
s’abbada 6 tanto, che pperzìno 7
nell’anno trentadua Nostro Siggnore
ce mannò er zu’ bbarbiere Ghitanino. 8
A
infirzà 2 cquattro sciarle pe ffà un laggno
contr’a cchi è ppiú de noi, nun ce vò ggnente.
Se disce presto: lui maggna, io nun maggno:
sò ccanzoncine che sse sanno a mmente.
Nun
dubbità, ffarebbe un ber guadaggno
Su’ Eminenza a ssentí ttutta la ggente,
che, cchi bbatte pe ssé cchi pp’er compaggno,
tutti sciànno 3 da dí cquarc’accidente. 4
Leva l’ora
der pranzo e dde la scena, 5
l’ora de la trottata e dde la messa,
la predica, l’uffizzio, la novena,
concistori,
cappelle, pinitenze,
e cquarche vvisituccia a la bbadessa;
che ttempo ha da restà ppe ddà l’udienze?
Disce er
padrone mio che cce sò 2 ingresi
c’oggni tantino attaccheno la posta,
e a le du’ a le tré 3 vviengheno apposta
da quer cùlibbus-munni 4 de paesi,
nun antro
5 che ppe vvede
la Cascata der Màrmoro, 7 discosta
sei mîa 8 da Terni, indove sc’è anniscosta 9
’na grotta 10 che 11 cce vò li lumi accesi.
Guarda mó
ss’io volesse 12 tiené ppronte
oggnisempre le gubbie ar carrozzino
pe un po’ d’acquaccia che vviè ggiú dda un monte!
O ssai che
cce voría? 13 Che l’Avellino 14
(ché cquesto è er nome che jje dà er zor Conte)
in cammio 15 d’acqua scaricassi 16 vino.
Chi ha
cquadrini è una scima de dottore,
senza manco sapé scrive né llègge: 1
pò sparà indove vò rròtti e scorregge,
e ggnisuno da lui sente er rimore. 2
Pò avé
in culo li ggiudisci, la Lègge,
l’occhio der Monno, la vertú, e l’onore:
pò ffà mmagaraddio, 3 lo sgrassatore,
e ’r Governo sta zzitto e lo protegge.
Pò
ingravidà oggni donna a-la-sicura,
perché er Papa a l’udienza der Giardino 4
je bbenedisce poi panza e ccratura.
Nun
c’è ssoverchiaria, nun c’è rripicco,
che nun passi coll’arma der zecchino.
Viva la faccia de quann’-uno-è-rricco!
Tra la mandra
de tanti alletterati
io nun ho ancora trovo 2 chi mme dichi 3
si a li tempi che cc’ereno l’antichi
l’ommini se vistiveno d’abbati.
Io so
cc’Adamo, pe li su’ peccati,
se vistí cco le fronne de li fichi;
e Ccristo, Erode, e ll’antri su’ nimmichi
nun vistirno da preti né da frati.
Poi venne a
Rroma Romolo e Mmaometto,
ma ggnisun de li dua cor collarino,
co la chirica e ccor farajoletto.
Dunque chi
ll’ha inventato sto lumino? 4
A vvoi, sori dottori de l’ajjetto, 5
fateve avanti a stroligà 6 un tantino.
Oh cche
jjoja!
che ppe ttutte le cchiese e ll’ostarie
io nun zent’antro 3 co st’orecchie mie
che ppiaggn’er morto 4 e ppredicà 5 mmalanni.
Bbe’?
cch’è ssuccesso? Indove sò sti danni,
ste ruvine, sti guai, ste caristie?
Tutte maliggnità, ttutte bbuscíe, 6
tutte invenzione, spavuracchi e inganni.
Sino ch’er
Papa va in villeggiatura,
e sta (Ddio je l’accreschi) alegramente,
se pò ppuro dormí 7 ssenza pavura.
Caso
contrario, lui ch’è un omo-fatto,
timorato de Ddio, dotto e pprudente,
sparaggnerebbe e nnun farebbe er matto.
Io e Mmoma,
che bbelli quadri avemo visto, tata! 3
Uno era Ggesucristo a la colonna,
e ll’antro 4 la Madonna addolorata.
Tata mia,
quela povera Madonna
che spada ha in de lo stommico infirzata!
E ’r Gesucristo gronna 5 sangue, gronna
che ppare propio una vasca sturata.
Ve dico,
tata, ch’io nun ho mmai visto
fra cquanti Ggesucristi sce sò
chi ppòzzi 7 assuperà 8 cquer Gesucristo.
Ma la Madonna
poi!... È vvero, Moma?
Tiè un par de calamari 9 e un gruggno pisto, 10
che sse 11 strilla addrittura: «È un’ecce-oma».
12
Ve lo diremo
noi chi ssò 2 sti zzeri
che mmarceno
e in carzettacce 5 nere de 6 strapazzo
pe ffodera a cquer par de cannejjeri. 7
Quelli
sò ttutti-quanti cammerieri,
cammerieri segreti de Palazzo; 8
e a Rroma, grazziaddio, sce n’è uno sguazzo 9
da ingravidà un mijjón de monisteri.
Ve lo diremo
noi chi ssò ste turbe
a mmezz’abbate e mmezzo monziggnore:
sò pprelati de titolo estra-urbe. 10
C’oggni
tantino, pe mmutà er colore
de le carzette, da ggentacce furbe
vanno a la viggna e llí sse fanno onore. 11
Ggià
cche ssete 1 ar proposito, sor Marco,
de tutte le storzione 2 e mmaggnerie
che cqui sse 3 fanno in delle sagrestie
a ttitolo de cortra e ccatafarco;
sentitene mó
un’antra 4 de le mie.
Jeri un Conte, ch’è pprimo Maniscarco 5
in de la Corte d’un gran Re Mmonarco,
annò 6 ddar Papa co ddu’ bbrutte zzie.
Come v’ho
ddetto, sto sor Conte aggnede, 7
e llui co le su’ zzie sazziorno l’occhi
addoss’ar Papa e jje bbasciorno er piede.
Tornato a
ccasa, un scopator zegreto 8
je portò un conto de sei bbelli ggnocchi 9
a ttitolo de logro 10 de tappeto. 11
Io sò
2 ppalaferniere, 3 e in conseguenza
credo de stà a Ppalazzo in certo sceto 4
da èsse 5 ar caso de sapé oggni peto 6
de quanto s’ha da fà ppe avé l’udienza.
Nun volenno
7 èsse arimannati arreto 8
bbisoggna abbino tutti l’avertenza
de scrive
quello ch’er Papa ha da sentí in zegreto.
Dette c’ha
oggnuno le bbudella sua,
stenne 10 er Mastro-de-Cammera un quinterno
de nomi, e ’r Papa ce ne sscejje dua.
A ttutti l’antri
11 nun je tocca un corno;
perché er Papa ggià ssa cche in un governo
nun ce ponn’èsse che ddu’ affari ar giorno.
È
ggiusto, dichi tu? ggiusto la luna! 1
Ma ccome! ar Papa tre ggenufressione,
e ar Zagramento poi, ch’è er zu’ padrone,
su l’artâre sí e nno jje ne fann’una!
Sai tu er
Papa qual è la su’ furtuna?
c’a sto Monno io sò un povero cojjone;
ché stassi
lui de le tre nnun n’avería ggnisuna.
Disce: «Nun
è ppe mmé, mma pp’er carattere».
Ah, ll’antr’ommini dunque e ll’antre donne
sò ttutti appett’a llui sguatteri e sguattere?
Quanno porta
sta scusa bbuggiarossa, 4
forzi nun za cche jje se pò arisponne 5
che un Papa è ccom’e nnoi de carn’e dd’ossa.
Sai che
ddisce 2 sta perzica-durasce? 3
«Ho fatto tanto pe arrivà ar Papato,
che mmó a la fine che cce sò arrivato
io me lo vojjo gode
Vojjo bbeve
5 e mmaggnà ssino c’ho ffato:
vojjo dormí cquanto me pare e ppiasce;
e ar Governo sce penzi chi è ccapasce,
perch’io nun ce n’ho spicci 6 e ssò Ppilato». 7
Lui nun l’ha
un cazzo 8 er maledetto vizzio
de crede 9 che cquer bon Spiritossanto
j’abbi dato le chiave pe un zupprizzio.
E le cose
accusí vvanno d’incanto. 10
Mó la pacchia 11 è la sua: poi chi ha ggiudizzio
quanno ch’è ppapa lui facci antrettanto. 12
Perzuasi
oramai che ar Papa novo 2
nun je ponno dí bbirbo e nné ssomaro,
sai c’antra iniquità jj’hanno aritrovo? 3
Che, essenno stato frate, è un Papa avaro.
A sta ggente
che ccerca er pel nell’ovo
io je vojjo fà vvéde 4 chiaro chiaro
com’un quattr’e cquattr’otto, e jje l’approvo, 5
che ssò ttutte carote da notaro.
E cqueste che
ddich’io sò storie vere,
perché abbasta a gguardà, tteste de cazzo,
come paga le bbarbe ar Cammeriere. 6
Je le paga
accusí, cche cquer regazzo
da quarche mmese in qua cch’era un barbiere,
ggià ha ccrompato 7 tre vviggne e un ber palazzo.
Tre nnotte
fa, un Patrasso francescano
ariccontava a una su’ grann’amica
ch’è ppiú mmejjo avé er culo in zu l’ortica
che de stà in un Convento a ffà er guardiano.
Questi
dicheno pragras 1 der Zovrano:
quelli sò ddisperati pe la fica:...
inzomma disce lui ch’è una fatica
d’arinegacce 2 er nome de cristiano.
Disce che ppe
sti frati farabbutti 3
lo stà 4 bboni la notte in dormitorio,
er zilenzio, er cantà, ssò affari bbrutti.
La ppiú ppena
perantro, er piú mmartorio,
er piú ssudore, è aridunalli 5 tutti
la matina e la sera ar rifettorio.
Avete visto
mai ne la staggione
tra er fin d’aprile e ’r principià dde maggio
come le rondinelle faccennone
ricominceno a nnuvoli er passaggio?
Ccusí appena
ch’er Papa ha er ber coraggio
de fà a Rroma quarc’antra 1 promozzione,
se vedeno 2 cqua e llà mmettese
li Vescovi scordati in d’un cantone.
E ttutti co
la faccia piaggnolosa
vanno a Ppalazzo pe ttentà la sorte
de ruspà 4 lloro puro 5 quarche ccosa.
Presto
però ss’accòrgeno a la Corte
che la Cchiesa che ppreseno 6 pe sposa 7
li vò a lletto co llei sino a la morte.
Sarà
ppoi tutto vero, eh sor Giuvanni
quello che cciaricconteno 1 li preti
c’un giorno li padriarchi e li profeti
sapeveno campà nnovescent’anni?
Dunque, o
allora nun c’ereno malanni,
o cqueli vecchi aveveno segreti
pe rrestà ssempre ggioveni. Ma cquieti, 2
perc’oggi st’arte faría 3 troppi danni.
Dàmme
4 de fatti un fijjo a la ssediola 5
de scinquant’anni, e ppe ddí un tempo corto,
mànnelo 6 de scent’anni ancora a scòla;
va’ a
sperà, cco st’esempi, in ner conforto
che ccrepi un papa che tte pijja in gola,
va’ a ffà ddebbiti allora a-ttata-morto! 7
Ohé,
Ggiachimantonio! oh scicoriaro!
come te tratta Marzo? Nu lo senti
si cche rrazza de buggera de venti?
Semo tornati ar mese de ggennaro.
Come potemo
1 poi èsse 2 contenti?
Stam’ 3 alegri, ch’è ppropio un gusto raro!
Un giorno bbulli 4 che ppari un callaro, 5
l’antro 6 ggiorno che vviè sbatti li denti.
Ha rraggione
er Ziggnore ch’è ppeccato
de dí a llui, ch’è er padrone, bbuggiarallo;
ché ssi nnò 7 ggià cce l’avería 8 mannato.
9
Quanno er
Monno voleva frabbicallo, 10
nun era mejjo avello 11 frabbricato
da fàcce 12 o ssempre freddo o ssempre callo? 13
Dunque, quer
che ffascéveno una vorta
pe ffiume un venti e ppiú bbufole in fila,
adesso lo fa er fume d’una pila,
e ll’arte mó dder bufolaro è mmorta.
Disce anzi
che la ggente oggi s’è accorta
che cquer fume, un mill’ommini e un du’ mila,
co un par de rôte a uso de trafila,
pe cche 1 mmare se sia, lui li straporta.
Pegg’è
cche mmó ppe le carrozze vonno
nun ce sii ppiú bbisoggno de cavalli,
e ’r fume le strascini in cap’ar monno.
Eppuro un
tempo aveveno er custume
li nostri bboni vecchi, bbuggiaralli,
de dí cch’er ggnente s’assomijja ar fume.
Chi è
cquer brutto llà cco un zazzerino
lisscio, per dio, che ffa vvergoggna a un cardo
che cciabbino 2 impiccato pe ccudino
un filetto de codica 3 de lardo?
Vergine Santa
mia! ppiú mme lo guardo
e ppiú lo pijjo p’er Mago Sabbino,
o er Burfecane, o er gran Pietro Bbailardo 4
che vvienghi
Guarda che
ssorbettiere
guarda che ssottocoppa 9 de cappello!
guarda che inchiostri de camísce bbianche!
Currete,
ggente, currete a vvedello:
po’ attaccatelo a un fico pe le bbranche,
e nnun ce vierà ppiú mmanco un uscello. 10
Nò...
Tte dico de nò... Ggnente... Sò 1 ssorda...
Nun te credo... Cuccú 2... Ssò ttutt’inganni...
Oh sfiatete 3... E cche sserve che tt’affanni?...
Me fai ride 4... De che?! 5... Scusa bbalorda...
Ve l’ho
ppromessa? E cchi sse n’aricorda?
Passò cquer temp’Enea, 6 siggnor Giuvanni.
Me sce sò sbattezzata 7 pe ttant’anni...
Ma cche tte credi? de damme la corda? 8...
Bbravo!
propio accusí: mme fa la luna...
Vadi: 9 e cchi lo trattiè? 10 La porta è
uperta.
Vadi puro a ttrovà 11 st’antra 12 furtuna.
Anzi, sa
cc’ha da fà? 13 Nne li carzoni,
pe ppassà ppresto una furtuna 14 scerta,
sce se metti 15 una nosce-a-ttre-ccantoni. 16
È
mmatta? E ttu cche jje faressi? 2 Ar Monno
tante 3 teste sce sò ttanti scervelli.
E gguai si, bella mia, tutti l’uscelli
conosscessino er grano, 4 io t’arisponno. 5
Er bell’e ’r
brutto sai qual’è? ssiconno 6
che vvedémo li gruggni 7 o bbrutti o bbelli.
Pe sta raggione, quer che vonno quelli
tu pportelo a cquell’antri, e nnu lo vonno.
Mettemose
8 una mano sopr’ar petto 9
e vvederemo poi che de quell’arbero
chi ppiú cchi mmeno oggnuno ha er zu’ rametto. 10
E nun ze
danno 11 mojje accusí storte, 12
c’hanno, in zeggno d’amore, er gusto bbarbero
d’èsse 13 accoppate e bbastonate a mmorte?!
E aricacchia!
1 Dall’antra 2 sittimana
ch’è rriannato
viè 4 cquer brutto pivetto 5 intirrizzito
tutte le notte a bbatteme 6 la diana.
Oh ccazzo! e
cche ssarò? cquarche pputtana
che ttira er zalissceggne 7 per invito?
Nò, cojjone, sta’ llí, mmore 8 ingriggnito, 9
sin c’aritorni a scòla a la campana. 10
Ôh, sserra la
finestra, Ggiuvacchino,
ch’io mommó 11 ddo de piccio 12 ar pitaletto
e l’ammollo per dio come un purcino.
Che sse vadi
a ffà fotte sto pivetto;
e nnoi, tratanto che llui fa er zordino, 13
spojjamosce de presscia 14 e annàmo
Perché
ll’antr’anno in certa priscissione1
sce successe un tantin d’ammazzamento, 2
mo ar tronco 3 e a lo stennardo 4 sto scontento
de Papa j’ha da dà l’inibbizzione! 5
Leva tronco e
stennardo, e in un momento
nun ce resta ppiú un cazzo divozzione.
Sarebbe meno male in cuncrusione
de levà dda la coda 6 er Zagramento.
Ner
portà bbene lo stennardo e ’r tronco
llì sse vedeva l’omo, eh sor Diopisto? 7
e ssi uno era svertro 8 oppuro scionco. 9
Ma mmó cche
nnun c’è ppiú ttronco e stennardo
e nun ce resta che cquer po’ de Cristo, 10
le priscissione io?! manco le guardo.
Domani
è Ssan Giuvanni? Ebbè ffío 1 mio,
cqua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e ffattucchiere
pe la quale 2 er demonio è er loro ddio, 3
se
straformeno
c’a la finosomia 5 de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi riffigurà 6 ppiú dd’un giudio. 7
E
accusì vvanno tutti a Ssan Giuvanni,
che llui è er loro Santo protettore,
pe la meno che ssia, da un zeimilanni. 8
Ma a mmé, cco
’no scopijjo 9 ar giustacore
e un capo-d’ajjo 10 o ddua sott’a li panni,
m’hanno da rispettà ccome un Ziggnore.
Nun ciannassi
ché cquesta è ppe le Madre ora canonica
de curre
con una lanca 6 da lupo-scerviero.
Figúrete che
jjeri quela Monica
che jje premeva tanto un gatto nero, 7
ar zentí 8 la campana, è ppropio vero,
se sgarrò 9 ppe scappà ttutta la tonica.
Si 10
ttu jje porti adesso la carnaccia,
nun ze’ arrivato e ggià la portinara
pijja la porta e tte la sbatte in faccia.
Piú ppresto,
11 quanno mai, 12 vacce magara 13
a or 14 de Coro, e ggnisuno te caccia.
Impara, fijjo, a stà in ner Monno, impara.
Ma io voría
1 sapé sta sciarlatana
che 2 ppormoni se tiè ddrent’ar budello,
e cchi è stata la porca de mammana
che cquanno nacque je tajjò er filello. 3
Nun è
ita a ddí in pubbrica funtana
c’a mmé nnun me s’addrizza ppiú l’uscello?!
che mm’imbrïaca una fujjetta sana?!
ch’io nun zò bbono a mmaneggià er cortello?!
Lassela
capità sott’a cquest’uggne, 4
e lo sentirà llei, per dio sagrato,
che cce s’abbusca
No, 7
la rabbiaccia che mme passa er core
ecco qual è: cche llei m’abbi toccato
in ner debbole mio ch’è ssu l’onore.
Quant’ecchete
«Peppe», disce «e ttu vvienghi?». Io j’arisponno: 5
«No», ddico, «nun ce viengo, perc’ho ssonno».
E llui: «Oh vvia, pe mmezz’oretta sola».
Bbasta,
accusí da parola in parola
un po’ uno e un po’ ll’antro m’imbrojjonno. 6
Entramo er Colonnato, 7 e in fonn’in fonno 8
travedémo 9 er Picchietto e Cchicchiggnola.
Eppoi dereto
er fratello de lei, che jje se maggna
la mità 11 dder negozzio de puttana.
Come je
sem’addosso, 12 lui se svortica. 13
Io allora je faccio: 14 «Eh? cche ccuccagna!
Tanto pela chi ttiè cquanto chi scortica». 15
Adàscio:
2 adàscio!: ehéi, nun v’inquietate:
via, nu lo farò ppiú, bbona zitella.
Che sso! 3 Ffussivo 4 mai la tarantella, 5
che ssartate 6 sull’occhi e ppuncicate! 7
Nun ve
vienivo a ddà 8 mmica sassate:
ve volevo appoggià 9 una smicciatella, 10
e ppoi, si ccaso 11 ve trovavo bbella,
le cose ereno mezz’e accommidate. 12
E vv’annate a
pijjà ttutta sta furia?!
Ggèssummaria! nun me credevo mai
che mmó a Rroma er guardà ffussi un’ingiuria.
Ôh, ffinímolo
13 un po’ sto tatanai. 14
Cqua dde regazze nun ce n’è ppenuria.
La puzzolana 15 è a bbommercato assai.
Di’,
animaccia de turco: di’, vvassallo:
di’, ccoraccio d’arpía, testa de matto:
nun t’abbasta no er male che mm’hai fatto,
che mme vòi strascinà ppropio a lo spallo?! 2
Arzà
le mano a mmé!? 3 ddiavolo fàllo! 4
pròvesce un po’, cche ddo de mano a un piatto
e ccom’è vvero Cristo te lo sbatto
su cquela fronte che cciài fatto er callo. 5
Nun
vòi dà ppane a mmé, bbrutto caroggno?
Portelo ar meno a st’anime innoscente
che spireno de freddo e dde bbisoggno.
Tira avanti
accusí: ffalle ppiú bbrutte.
Dio nun paga oggni sabbito, 6 Cremente;
ma ppoi viè cquella che le sconta tutte.
Scusi,
siggnore: lei ch’è ttanto ricco,
sappi 1 ch’io sò 2 un mercante de salume,
che ttutto er mio se n’è sparito in fume
pe un naviscello che mm’è annato a ppicco.
Ho una fame,
ho, cche nun ce vedo lume;
e ttanto ha da finí ggià cche mme ficco
quarc’arma in gola, e, bbugiarà, 3 mm’impicco,
ch’io sò in proscinto de bbuttamme
Speravo in
Dio che cquarche ccreditore
ar meno me mettessi 5 carcerato:
ggnente: nun c’è ppiú ccarità, ssiggnore.
Ma ddunque un
omo ha da morí affamato
a ’ggni modo, o ppe fforza o pper amore,
senz’avecce 6 né ccorpa 7 né ppeccato?
Ôh, vvolete
sentilla
e cche vv’uprimo 3 er core schietto schietto?
Che vvoi fussivo un brutto capitale 4
ggià l’avémio maggnato 5 da un pezzetto.
Quer che ppo’
adesso masticamo male 6
è cc’una scerta mmaschera 7 scià 8 ddetto
che vv’ingeggnate puro cor zoffietto 9
pe ffà un giorno la fin de le scecale. 10
O ssii
caluggna o nnò, cquesto 11 io nun c’entro.
Er cert’è cc’un brigante 12 com’e vvoi
quanno che vva a ssoffià 13 sta in ner zu’ scentro. 14
O ssii
caluggna o nnò, vvisscere mie,
questo ve pòzzo 15 assicurà, cche a nnoi
nun ce va a ssangue er zangue de le spie.
Ecco llí er
fumantino 2 ammazzasette:
lui sce faría scappà 3 ssubbito er morto.
A oggn’ette, 4 eccolo llí, llui tajja corto, 5
e aló, 6 mmano a li tòni e a le saette!
E pperc’hai
la raggione te vòi mette 7
da la parte der torto?! ggià, 8 dder torto,
der torto, sissiggnora. 9 E cche cconforto
sce trovi a rruminà ttante vvennette? 10
Queste
sò mmattità 11 dda regazzoni.
Via, bbutta ggiú cquer zercio: 12 animo, dico,
o tt’appoggio du’ carci
Eh, cqua nun
ze fa ll’omo. 14 Co mmé, amico,
sc’è ppoco da rugà. 15 Dde li bbruttoni 16
sai che cconto ne fo? Mmeno d’un fico.
Aibbò,
1 nun zò 2 le ssciabbole e le spade
che ddistingueno er torto e la raggione.
Te l’inzeggnerò io quello c’accade,
fijjo, in ner liticà ttra ddu’ perzone.
Chi nun ha
ttorto, pò pparé un leone,
ma ppuro in de l’urlà ccerca le strade
de viení ar dunque, e, mmó cco un paragone
mó cco un antro, 3 de fàtte perzuade. 4
Quer c’ha
ttorto però strilla ppiú fforte:
tajja a mmità 5 er discorzo e scappa via,
e in de lo scappà vvia sbatte le porte.
In quanto
all’arme poi, sò una pazzia
per rrimette 6 ar crapiccio 7 de la sorte
tanto la verità cche la bbuscía. 8
Caso 1
volessi uprí cquarc’ostaria
bbisoggna sempre procurà, Ffichella,
che llí accosto ce sii ’na portiscella,
pe n’essempio, ecco llà, ccome la mia.
Questa te
serve ggià per annà via:
però la ppiú 2 rraggione de tienella 3
è ppe ffà entrà la ggente in ciampanella 4
la festa, e ccojjonà la Pulizzia.
Chi
ccià 5 sta porta, se po’ ddí a ccavallo. 6
Si ppo’ 7 er fruss’e rrifrusso de la ggente
dàssi
tu nun te stà
Bbast’a ttoccà la mano 11 ar maresciallo
12
e mmannà 13 un bariletto ar Presidente. 14
Specchiamose
e imparamo 3 chi ssei, monno mazzato. 4
Ddà ddà, nnun ce n’ha ppiú. Bbe’, cchi ha sscialato
j’arimprovera mó lle troppe spese.
E allora
avess’inteso 5 p’er paese...
Chi, er rifresco era scarzo e sscellerato:
chi, er palazzo era male ammobbijjato:
chi, cce voleva ppiú ccannele accese!...
Quanno
dài da maggnà, ddài sempre poco.
Casca in miseria, e ttutti: «Eh nnaturale:
accusí aveva da finì er ber gioco».
Sí, ppovero
padrone, hai fatto male
a mmannà 6 la tu’ robba a ffiamm’e ffoco
per chi inzino 7 t’inzurta
Bbe’,
ssò 1 ccontenta, sí: vva’, Ssarvatore:
fa’ ccome vòi e cquer ch’Iddio t’ispira.
Anzi, io direbbe de portà Ddiomira,
ch’è in d’un’età da intenerijje 2 er core.
Bútteteje
prega, marito mio, piaggne, 4 sospira:
bbada però cche nun te vinchi l’ira...
Lassamo fà: cce penzerà er Ziggnore.
Si tte 5
caccia, nun famme la siconna. 6
Ricordete
soffrilo pe l’amor de la Madonna.
Ce semo
intesi eh Sarvatore mio?
Va’, cch’Iddio t’accompagni. Un bascio, fijja.
Addio: fa’ ppiano pe le scale: addio.
Uhm, de
llà ha da viení! 2 Cco cquer cornuto 3
de mi’ marito, ch’è da San Martino 4
che nun m’ha ddato ppiú mmezzo quadrino, 5
starebbe grassa io 6 senza un ajjuto!
E
cciaringrazzio 7 Iddio cor capo-chino,
e cce faccio le crosce co lo sputo, 8
c’a ppasqua-bbefanía 9 me sii vienuto
sto po’ de stacco 10 d’abbituccio fino.
Nun credessi
11 però, ccommare mia,
che... mme spiego? che sso!... Ddio me ne guardi
e la bbeata Vergine Mmaria!
È
vvero che llui viè 12 cquanno sò 13 ssola,
ma cce viè cco li debbiti ariguardi, 14
e nnun c’è mmai da dí mmezza parola. 15
Gode, gode,
1 caroggna bbuggiarona.
Bbrava! strilla un po’ ppiú, strilla ppiú fforte.
Troja, fàtte 2 sentí: vva’, pputtanona,
spalanca le finestre, opre 3 le porte.
Mó è
ttempo tuo: oggi vò a tté 4 la sorte.
Scrofa, lassela fà 5 ssin che tte sona.
’Na vorta ride er ladro, una la corte;
e la cattiva poi sconta la bbona.
Te n’ho
ppassate troppe, foconaccia: 6
ecco perché mm’hai rotta la capezza,
vacca miggnotta, e mme le metti in faccia.
Ma
schiatterà er tu’ porco de prelato,
e allora imparerai, bbrutta monnezza 7
cosa vò ddí un marito assoverchiato.
La mi’
difficortà nnun sta ssur detto
«Omo a ccavallo sepportura uperta». 1
Questo ar monno lo sa ppuro 2 Ciscetto 3
che pproverbio vò ddí rregola-scerta. 4
Intennevo
5 sortanto ch’er giacchetto 6
diede seggno de mente poco asperta 7
ner riccontà che cquer polletro
bbuttò ggiú lo scozzone de Caserta. 9
Ecco le su’
parole vere vere:
«Er polletro llí ar Ghetto de la Rua 10
fesce dà un crist’in terra 11 ar cavajjere».
S’ha da
ingozzà sta bbuggiarata sua?
Cavajjere a un scozzone de mestiere?
Che ccavajjere? er cavajjer dell’ua? 12
Una vorta pe
ssempre: In certi guai 1
co mmé nun z’aripete una saetta. 2
Io sò 3 amico e ccompare de Carletta, 4
e ddiscenno 5 Carletta, ho detto assai.
Le vertüose
lui? si ccasomai 6
pò ccommannalle 7 se pò ddí a bbacchetta, 8
perché jje fa da mmaschera e staffetta,
e dda quarc’antra cosa che nun zai. 9
Me disce
dunque lui che le Cantante,
che vviaggeno p’er Monno oggni momento,
vanno co un zonatore tutte quante. 10
Perché,
indove che sò, 11 vvonno avé ttutte,
o de notte o de ggiorno, uno strumento
che jje dii cor bemollo 12 e ’r zorfautte. 13
Nun ve la
venno 1 mica pe ssicura,
ma ccome io puro l’ho ccrompata 2 adesso;
perché cciò 3 er mi’ gran dubbio c’a un dipresso
fussi ’na cojjonella 4 o un’impostura.
Dicheno
5 c’uno che vojji èsse 6 ammesso
pe mmano de ggiustizzia in prelatura,
avanti d’annà in opera e in figura
è cchiamato, e jj’incarteno un proscesso. 7
Io
l’oppiggnone mia ggià vve l’ho ddetta:
chi vvolete che ssii tanto cojjone
da fasse 8 appiccicà cquela pescetta? 9
Co sto
proscesso sai quante perzone
invesce d’abbuscà 10 la mantelletta
saríeno asposte
Ciò
1 er momoriale che mme fu arimesso
dar Zanto-Padre a mmonziggnor Ciafrella? 2
Bbe’, jjeri m’incontrai propio in lui stesso
sott’a la casa de Maria Fichella.
Subbito curro
e mme je faccio appresso.
Dico: «Eccellenza, io sò 3 cquer tar Panzella
che vorebbe sapé ccos’è ssuccesso
de quela grazzia si ppotessi avella». 4
Lui prima me
squadrò cco l’occhialino;
eppoi co ccerti termini sguajati
m’arispose: «Lei vadi ar zu’ cammino».
E io: «Saette
a ttutti li prelati,
monziggnore mio caro, e mme j’inchino:
mejjo soli che mmal accompaggnati».
E ha
rraggione er curato. Ar zor dottore
je sta bbene de dí cche l’accidente 1
c’ammazzò cquer prelato su’ criente
j’è arincressciuto e jj’ha ttrafitto er core.
La cosa va da
sé. Ssi 2 Mmonziggnore
nun aveva sta su’ presscia fetente 3
poteva in vita avé ccommodamente
venti o ttrent’antre 4 mmalatie mijjore.
Er discorzo,
pe un medico, cammina:
ma un Curato è ddiverza; 5 e llui vorebbe
che mmanco 6 se trovassi 7 mediscina.
Perché,
mmettemo 8 nun ze dassi 9 frebbe 10
da morí, bbona sera Caterina: 11
un Curato, per dio, che 12 mmaggnerebbe?
E cc’affari
vòi fà? ggnisuno more:
sto po’ d’aria cattiva è ggià ffinita:
tutti attaccati a sta mazzata vita...
Oh vva’ a ffà er beccamorto con amore!
Povera cortra
1 mia! sta llí ammuffita.
E ssi 2 vva de sto passo, e cqua er Ziggnore
nun allúmina un po’ cquarche ddottore,
la profession der beccamorto è ita.
L’annata
bbona fu in ner disciassette. 3
Allora sí, in sta piazza, era un ber vive, 4
ché li morti fioccaveno a ccarrette.
Bbasta...;
chi ssa! Mmatteo disse jjerzera
c’un beccamorto amico suo je 5 scrive
che cc’è cquarche speranza in sto Collèra.
Er guajo
1 nun è mmica che cqui oggn’anno
ar Governo 2 nun fiocchino 3 proscessi:
li delitti, ppiú o mmeno, sò l’istessi, 4
e, ppe ggrazzia de Ddio, sempre se 5 fanno.
Ecchelo
6 er punto indove sta er malanno:
che mmó li ggiacubbini se sò 7 mmessi
drent’a li loro scervellacci fessi 8
ch’er giustizzià la ggente è da tiranno.
Nò
cc’abbino 9 li preti st’oppiggnone: 10
sempre però una massima cattiva,
dàjje, dàjje, 11 la fa cquarch’impressione.
E accusí, ppe
llassà 12 la ggente viva
s’innimmicheno er boja, ch’è er bastone
de la vecchiaja de li Stati. Evviva!
Vedi quann’
1 er demonio nun ha ggnente
da penzà a ccasa sua, si cche 2 ffervori
pe rruvinà nnoantri 3 muratori
fa vviení ne la testa de la ggente!
S’ha da
inventà un Oremus propiamente
p’er terremoto! ch’è un po’ de vapori
che sse 4 vònno fà strada pe usscì ffori,
cosa siggnoriddio tant’innoscente!
E ccome fussi
5 poco, s’ha da mette 6
sti filacci de ferro in oggn’artura, 7
pe rroppe li cojjoni
Cristo! lo
capirebbe una cratura: 9
co tutte st’invenzione mmaledette
nun ze 10 chiama un peccà ccontro natura?
Ciamancàvio
1 mó vvoi, sori cazzacci,
co sti vostri segreti e cciafrujjetti 2
pe distrugge 3 le scímisce 4 e ll’inzetti
drent’a li matarazzi e a li pajjacci. 5
Pe vvoantri
6 saranno animalacci,
ma ppe cchi ccampa cor rifà li letti
le scimisce pe llui sò animaletti
che Ddio l’accreschi e cche bbon pro jje facci.
Nun è
nné er primo caso né er ziconno,
che un letto pe ddu’ vorte in un’annata
s’è avuto d’arifà 7 dda cap’a ffonno.
Pe cquesto la
bbon’anima de Tata 8
rifascenno 9 li letti co mmi’ Nonno,
sce lassava 10 una scímiscia agguattata. 11
Che bbelli
tempi, sí! cquanti sò 1 ccari!
More 2 de fonghi tu e li tempi bbelli.
Cristo! nun piove mai! Dílli fraggelli
sti mesi assciutti, e nnu li dí ggennari.
Se discorre
3 che nnoi in tre ffratelli
che ttenemo bbottega d’ombrellari,
drent’a ddu’ mesi cqui a li Bbaullari, 4
nun z’è aggiustato c’ott’o nnove ombrelli.
Sto novembre,
ar vedé ll’arco-bbaleno 5
je lo disse
«Accidenti, Mitirda! 7 ecco er zereno!».
E mm’arispose
lei: «Bbrutto seggnale!
ché ppe nnoi sce vorebbe armén’arméno
rivienissi 8 er diluvio univerzale».
Se vede bbe’
1 cche ssei poveta, e vvivi
co la testa in ner zacco. Er friggitore
che cquest’anno ha er concorzo er piú mmaggiore
e nnun c’è ffrittellaro che l’arrivi,
è
Ppadron Cucchiarella. Ôh, ddunque, scrivi
un zonetto pe llui, tutt’in onore
de quer gran Zan Giuseppe confessore,
protettor de li padri putativi. 2
Cerchelo
longo, 3 e nun compone 4 quello
che ffascessi 5 l’antr’anno
e ttrovassi
Ner caso
nostro sce voría 8 un zonetto
a uso de lunario, da potello 9
stampà in fojjo, e, cchi vvò, ppuro a llibbretto. 10
Ch’er
mercordí a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, 1 bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun
c’è ggnente da dí. Ma ste scanzìe
da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu ppijja un
libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto pe cquarc’ora in mano,
dimme 2 s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che
ppredicava a la Missione er prete?
«Li libbri nun zò rrobba da cristiano:
fijji, pe ccarità, nnu li leggete».
Cipicchio, er
Correttor 1 der Zeminario,
’ggniquarvorta me trova, m’aripete:
«Fijjo, in qualunque stato che vvoi sete
l’imparà cquarche ccosa è nnescessario».
Pe ste raggione
io mó studio er lunario,
e cciò 2 imparato ggià cche le pianete
c’ha ssu la panza e ssu la schina er prete,
nun ze pò dîlle 3 un zemprisce 4 vestiario.
Trovo a bbon
conto in ner lunario mio
scerti 5 pianeti: e nnun zaranno fiaschi
c’abbi abbottati in paradiso Iddio.
Quann’è
accusí, da sti pianeti maschi
e ste pianete femmine, dich’io,
quarche ccosa bbisoggna che ne naschi.
Antro 1
che nnobbirtà! Cchiunque guitto
cqui ha mmess’a pparte un po’ de bbajocchella, 2
subbito, aló, carrozz’e ccarrettella,
e a la ppiú ppeggio la pijja in affitto.
Tre ggiorni
Papa io, dio serenella! 3
te je vorrebbe appiccicà un editto
che in ner papato mio fussi dilitto
reo de morte l’annà ppuro in barella.
Cristo le
scianche 4 ve l’ha ffatte rotte?
Marceno
Camminate da voi, bbrutte marmotte.
L’ommini, o
ricchi o nnò, ssò ttutti uguali:
dunque a ppiede, fijjacci de miggnotte, 7
e llograte le scarpe e li stivali.
Lo
stracciarolo a vvoi ve pare un’arte
da fàlla 1 bbene oggnuno che la facci?
Eppuro ve so ddí, ssori cazzacci,
che vierebbe in zaccoccia
La fate
accusí ffranca er mett’a pparte
co un’occhiata li vetri e li ferracci,
a nnun confonne 3 mai carte co stracci,
e a ddivide 4 li stracci da le carte?
Nun arrivo a
ccapí ccom’a sto Monno
s’ha da sputà ssentenze in tuttequante
le cose, senza scannajjalle a ffonno.
Prima de dí: cquer
tar Papa è un zomaro,
o cquer tar stracciarolo è un iggnorante,
guardateli a Ssampietro e ar monnezzaro. 5
Quer fijjo
mio ch’è sservitor de piazza
e ss’ingeggna un tantin de Sciscerone,
fa una vita in sti mesi che ss’ammazza,
e mmanco ha ttempo de maggnà un boccone.
E l’Ingresi
d’adesso sò una razza
ma una razza de lappe bbuggiarone,
che ppe un scudaccio ar giorno ve strapazza
come le case che ppò avé a ppiggione.
E a
Ssampietro! e a Ssampavolo! e ar Museo!
mó a Ccampidojjo! mó a la Fernesina! 1
e ccurre 2 ar Pincio! e ccurre a Culiseo!...
Cominceno, pe
ccristo, la matina
a la punta dell’arba, sor Matteo,
e vviè nnotte c’ancóra se cammina.
Nun
c’è er padrone: ha avuta una chiamata
pe ccurre
a Ppasquino
c’ho intes’a ddí cche ssii frebbe 3 maliggna.
Eppoi pijja
un straporto 4 e vva a ’na viggna
for de ’na scerta 5 porta ch’è sserrata, 6
a ccurà ’na cratura co la tiggna,
che da un mese nun l’ha ppiú vvisitata.
A
pproposito!... oggi entra carnovale!
Ebbè, vvoi lo trovate a or de 7 Corza 8
drento da Scesanelli 9 lo spezziale.
Ché oggn’anno
in quer frufrú 10 dde la ripresa
quarche ddisgrazzia ha d’accadé ppe fforza,
e ppe ggrazzia de ddio s’è ssempre intesa. 11
Ggirava un
viggnarolo oggi a mmercato
co un fico fresco in mano. «Ohé», jj’ho ddetto,
dico: «quanto ne vòi?». Disce: «Un papetto». 1
Dico: «Un papetto solo?! È arigalato». 2
Quattro
lustrini 3 un fico, si’ bbrusciato!
du’ ggiuli un fico, ladro mmaledetto!
Eh cquanno abbi lui vojja d’un fichetto, 4
je lo do auffa 5 io ppiú a bbommercato.
Eppuro 6
sce s’è ttrovo 7 llí un zomaro
che mme sfrusciava: 8 «Oh, nnun è ccaro mica:
uh, in sta staggione nun è ggnente caro».
Io lo capisco
che cce vò ffatica
pe ttrovà un fico fresco de ggennaro;
ma cco un papetto ciài puro una fica.
Dio nun vojji,
ma er birbo me cojjona.
Se chiama modo er zuo de fà l’amore?
Se conossce a li seggni de bbon core
er bene che vve porta una perzona.
Specchiateve
in quer bravo Monziggnore
che vvò bbene davero a la padrona:
guasi nun passa vorta che llui sona
che nnun porti un rigalo de valore.
Ce vò
antro 1 che smorfie de la monna!
Fatti, e nnò cciarle, fatti hanno da èsse 2
pe mmette
Un omo che
vv’abbòtta de promesse
che ffinischeno in zero, è cchiar’e ttonna
che ttutto er zu’ finaccio è ll’interresse.
S’io nun
càpito llí a la vemmaria, 2
era antro male er zuo che de sciamorro! 3
E llei te posso dí cche ss’io nun corro
l’aveva fatta la cojjoneria.
Io parlo de
la su’ iggnoranteria:
de la su’ imprudentezza io te discorro.
T’hai da penzà 4 cche sse 5 legava un porro
co la seta color-come-se-sia! 6
Subbito je
strillai: «Fermete, Nena: 7
cosa te vai scercanno 8 co st’acciaccia 9
de seta, un tantinel de cancherena? 10
Nun zentissi
11 er Cerusico d’Artèmis 12
come ridenno 13 te lo disse in faccia?
Pe li porri sce vò 14 la seta cremis». 15
E ppe
cquattro moroide, 1 Caterina,
ce sudi da la pena a ggocci’a ggoccia?!
E tte vòi rotolà ssera e mmatina
sopr’a sto letto tuo com’una bboccia?!
Ecchete
2 cqua ’na castaggna porcina: 3
tu pportela 4 co tté ssempr’in zaccoccia:
ma nun t’hai da straccà: ttieccela, Nina, 5
e tte dich’io ch’er male te se scoccia. 6
Tu ppropio
vederai che tte l’incanta,
e jj’averai d’accenne le cannele 7
peggio che ffussi 8 er quadro d’una Santa.
Io cor
zegreto mio de ste castaggne
ner tempo che ssò stata a Ssammicchele 9
ciò arifiatato 10 un monno 11 de compaggne.
Lei bbene; ma
a la pupa, 1 poverella,
su la muscola propio der nasino
je s’è scuperta una vojja de vino
che ppare usscito mó dda la cupella. 2
Ma
ggià ho ddetto che ppijji una padella
c’abbi 3 fritto un bon anno sur cammino,
e cce la facci 4 strufinà un tantino
oggni sera pe mman d’una zitella.
E ll’ho ppuro
avvisata che nun giova
quela strufinatura, si oggni vorta
nun ce s’addopra una zitella nova.
Però
sta cosa a llei nun je n’importa,
pe vvia che 5 de zitelle se ne trova
da fanne 6 quer che vvòi drent’oggni porta.
L’occhio
è un coso de carne che cce vede,
quanno sc’è er lume, e sta ddrent’a ’na fossa.
Ecco spiegato quer che tte succede
pe sta frussione tua che tte s’è smossa. 1
Mó vvenímo ar
rimedio ch’è dde fede.
Tu appiccíchete 2 un pezzo d’ostia rossa
sopr’a le tempia; e cquesto nun pòi crede 3
come tira l’umore ch’è in dell’ossa.
Si ppoi fussi
4 orzarolo 5 e nnò ffrussione,
se cusce l’occhio: ciovè, 6 nun ze cusce,
ma sse disce pe un modo d’aspressione. 7
Abbasta de
pijjà ll’aco infilato
e ffiggne 8 de cuscí, tte s’aridusce 9
l’orzarolo 10 che ssubbito è ppassato.
Era du’ ora,
e stavo ar mi’ bbanchetto
a ccuscí un tacco a una sciavatta 1 fina,
quanto... bbún! ssento un botto a la vetrina, 2
eppoi: «Se pò appiccià 3 sto moccoletto?».
Io do un
zarto 4 e cch’edè?! 5 vvedo un pivetto 6
tutto-quanto impiastrato de farina,
che sse 7 sporge co un pezzo de fasscina
tra li fojji 8 stracciati, inzino ar petto.
M’arzo,
9 agguanto 10 una forma, apro, esco fora,
vedo una cosa bbianca, e, incecalito, 11
do una formata in testa a una siggnora.
Lei fa uno
strillo: io scappo; ma er marito
m’arriva, e mme ne dà, cristo!, c’ancora
me sce sento er groppone indormentito.
Li Romani,
nun feta 2 una gallina,
nun pisscia un cane, e nnun ze move un pelo,
che jje pare che ssii la marmottina
tutta legat’a ggiorno in d’un camelo. 3
Chi è
sta patanfrana 4 de Reggina!
la sora Pocalissa der Vangelo?!
Chi è sto Re! cquarche bbestia turchina?!
quarche ffetta de Ddio sscesa dar celo?!
Currete, sí,
ccurrete, pettirossi, 5
che ttroverete du’ cosette rare:
che vvederete un par de pezzi grossi.
L’avete
visti? Ebbè? cche vve ne pare?
Chi 6 antro 7 mostro sc’è cche cce la possi
pe le chiappe 8 der monno e in cul’ar mare?
È
aritornato a Rroma sto malanno
der re der reggno de le du’ Sscescijje, 2
nipote de quel’antro Fiordinanno
che ccottivava 3 li merluzzi e ttrijje. 4
E ccià
5 cco llui 6 la mojje sua, quer panno
lavato, 7 che nun fa ffijji, né ffijje,
perché er marito j’arigàla 8 oggn’anno
trescenzessantascinqu’o ssei viggijje. 9
Tu me
dimannerai pe cche mmotivo
lui la tiè ttrenta e ttrentun giorno ar mese
senza métteje
A sta dimanna
io t’arisponno, Antonia,
quer c’hanno scritto ar Palazzo Fernese: 12
Casa Der Babbilano
Rom’antich’e mmoderna!
E a li libbrari
cqua jj’è lléscito un libbro de sto nome?
Eh ccamminate via, bbestie da some,
pe nnun dàvve 1 er diproma de somari.
Rom’antich’e
mmoderna! Propio cari!
Ma in che ccervello ha da sartà! mma ccome!
drent’ar monno sce só ddunque du’ Rome?!
Oh ddatela pe ggionta a li lunari.
Rom’antich’e
mmoderna! oh cquest’è bbella!
Mó adesso Roma s’è ffatt’un’amica!
Ma ss’una è cquesta cqua, l’antra indov’ella? 2
Bbravi! Roma
moderna, e Rrom’antica!
Sarebbe com’a ddí: «Vostra sorella
lo pijja ne la freggna e nne la fica».
Monziggnor
Tesoriere ch’è ccrepato,
quanno stava a la stanga der timone 2
e mmaggnava su ttutte le penzione, 3
le gabbelle, l’apparti e ’r mascinato; 4
volenno
5 fà una bbona confessione
(ché da un pezzo nun z’era confessato)
se n’aggnede 6 da un prete sganganato 7
drent’in ne l’Oratorio a la Missione. 8
Mentre
sputava li su’ rospi, in chiesa
sce se trovava un povero cristiano
c’aveva avuto un torto in ne l’Impresa. 9
Come st’omo
che cqua 10 vvedde 11 er gabbiano 12
der confessore co la mano stesa,
«Nu l’assorve», 13 strillò: «fferma la mano!».
C’è
cchi intiggna 1 che cqua li Cardinali
anticamente se chiamorno 2 Cardi,
e cche ddoppo, li Papa un po’ ppiú ttardi
j’aggiontorno quer termine de Nali.
Ar contrario
se 3 troveno antri 4 tali
che incòcceno che quelli sò bbusciardi; 5
e sto nome nun vonno che sse guardi
come scriveno mó li scritturali.
Dicheno c’ar
principio li Cristiani,
nun ze sa ppe cche ssorte de raggione
li chiamorno accusí: li Ladri-cani. 6
Ma ppoi co
l’imbrojjà la riliggione,
quelle lettre, un po’ oggi e un po’ ddomani,
s’impicciorno, e nne viè sta cunfusione.
Pippo, 1
Nicola, Gaspero, Rimonno, 2
Giammatista, 3 Grigorio, Furtunato,
currete a ssentí ttutti si sse ponno 4
spaccià ccojjonerie ppiú a bbommercato.
Er monno,
ggente mie, nun è ppiú ttonno:
nun è ppiú ffatto in quattro parte. È stato
scuperto adesso ch’è vvienuto ar monno
’n antro 5 pezzo de monno appiccicato!
Va 6
cche sto quinto quarto c’hanno trovo, 7
o sse lo sò inzoggnato, 8 o ll’hanno visto
coll’occhio ar búscio
E ha da
èsse 11 accusí: pperché, ppe ttristo, 12
si ppurcini sce sò 13 ddrent’a st’antr’ 14 ovo,
dovería 15 rincarnasse 16 Ggesucristo.
Er
lacchè dder ministro San-Tullera, 1
pe ddà a vvedé cch’è una perzona dotta,
disce c’a Ffrancia accant’a ’na paggnotta
ce nassce un omo 2 e cche sta cosa è vvera.
Mettétela
addrittura in zorbettiera 3
sta cazzata, 4 e soffiatesce ché scotta.
Dunque un omo ch’edè? 5 ’na melacotta,
un fico, ’na bbriccocola, 6 ’na pera?!
Pe
cquant’anni sò scritti in ner lunario
da sí cc’Adamo se strozzò 7 cquer pomo,
nun z’è vvisto accadé tutt’er contrario?
Lui nun parli
co mmé cche ffo er fornaro.
Che nnaschi una paggnotta accant’a un omo
sò cco llui, 8 ma cquell’antra è da somaro.
Questa? eh
nnemmanco è ffanga. Pe vvedella
s’ha d’annà
indov’abbito io; ché ssi 3 nun voli
ce trapassi in barchetta o in carrettella.
Ce fussi
armeno un po’ de serciatella
attorn’attorno, quattro serci soli,
da mette er piede e annà ssott’a li scoli
de le gronnàre! 4 ma nemmanco quella.
Pe rricrami
5 ne fàmo 6 oggni tantino;
e allora ècchete 7 dua cor un treppiede
un cannello coll’acqua e un occhialino.
E a sti
scannajji 8 tu cce pijji fede:
ebbè, sò 9 ggià ddiescianni cor cudino 10
e la serciata ancora nun ze vede.
Seggna:
1 uno er Croscifisso a Ssan Marcello, 2
dua quello de li Padri Passionisti,
tre er Cristo der Gesú: 3 poi doppo ho vvisti
li dua der Pianto 4 e dder Zarvatorello, 5
che ffanno
scinque: eppoi la Morte, 6 e cquello
der Culiseo. 7 Dunqu’io, tra bboni e ttristi,
ho vvisitato sette Ggesucristi: 8
er conto è cchiaro pe cchi ttiè ccervello.
Eppoi,
guarda: io sò usscito co un carlino: 9
a oggni Croscifisso j’ho bbuttato
un bajocco in ner zòlito piattino:
e mmó
ddrent’in zaccoccia m’è arrestato
mezzo bbajocco,... ebbè, ssor chiacchierino,
quanti Nostrisiggnori ho vvisitato?
Sor don
Tobbía, ma cche vvor dí che cquanno
entra la sittimana de Passione
voantri 1 preti fate sta funzione
d’aricoprí le crosce cor un panno?
Tenete
Ggesucristo tutto l’anno
sopr’a cquer zanto leggno a ppennolone, 2
e mmó che ssaría frutto de staggione
ve sciannate
Si
Ggesucristo more, poverello,
che cc’entra quelo straccio pavonazzo
che jje sce fate fà a nnisconnarello?
Zitto, nun ho
bbisoggno de sapello.
Questo vor dí cche nun avete un cazzo
da penzà, ppreti mii, for c’ar budello.
Giuseppe Gioachino Belli
Tutti i Sonetti romaneschi
Vol. 2°
Indice 1144. Le funzione de la
sittimana-santa 1145. Er Mestiere faticoso 1146. L’indurgenze
liticate 1147. Er Ziggnore e Ccaino 1148. Er ziconno peccato 1149. L’impeggni de le
carrozze 1150. Er Cardinale de
pasto 1151. Er canonicato bbuffo 1152. La visita der Papa 1153. La lavanna 1154. L’ova e ’r zalame 1155. L’illuminazzion de
la cuppola 1156. La ggirànnola
der 34 1157. Li fochetti 1158. La lezzione de lo
scortico 1159. L’impusturerie 1160. La donna
fregàle 1161. La straportazzione 1162. Er governo de li
ggiacubbini 1163. Le scramazzione de
li ggiacubbini 1164. Li Vicarj 1165. La risposta de
Monziggnore 1166. La scéna de
Bbardassarre 1167. ’Na resìa
bbell’e bbona 1168. Er testamento der
pasqualino 1169. L’amico de Muccio 1170. Li du’ ggener’umani 1171. Er Maestro de
l’urione 1172. La lezzione der
padroncino 1173. Li quadri de pittura 1174. Li nuvoli 1175. Io 1176. Er madrimonio de
Scefoletto 1177. Lo straporto der
burrò 1178. La lègge 1179. La ggiustizzia
ingiusta 1180. Er leggno
privileggiato 1181. Le catture 1182. Papa Sisto 1183. La stampijja der
Zantàro 1184. Le furtune 1185. La fatica 1186. La fijja dormijjona 1187. Er Castoro 1188. Li vini d’una vorta 1189. Li tempi diverzi 1190. Li teatri de
primavera 1191. Angeletto de la
Madalena 1192. Er Corzo arifatto 1193. Lo stroligo 1194. L’onore 1195. La gratella der
Confessionario 1196. L’iggnoranza de
Mastr’Andrea 1197. Lo sposalizzio de la
Madonna 1198. Le fijje ozziose 1199. La visita de la
Sor’Anna 1200. Er Contino 1201. La caggnola de Lei 1202. Er Dottore somaro 1203. Er bijjetto d’invito 1204. La povera Nunziata 1205. Le bbestie der
Paradiso Terrestre 1206. Chi la tira, la
strappa 1207. Li frati de
Grottaferrata 1208. Er monnezzaro
provìbbito 1209. Avviso 1210. La sarvazzion
dell’anima 1211. L’Arbanista 1212. Er capo de casa 1213. Lo spóso de Checca 1214. Lo spóso de Checca 1215. Er rompicollo de mi’
sorella 1216. La prima gravidanza 1217. Se more 1218. Un zegreto
miracoloso 1219. La canonica 1220. La cantonata der
forestiere 1221. Er viaggio der Papa 1222. Li Cavajjeri 1223. La bbona spesa 1224. I vasi di porcellana 1225. I vasi di porcellana 1226. Li vasi de
porcellana 1227. Le stimite de San
Francesco 1228. Santa Filomena 1229. Er linnesto 1230. Le Campane 1231.
Le serpe 1232.
La morte de Stramonni 1233. Li canterini
nottetempi 1234. Er cedolone der
Vicario 1235. La Scittà
eterna 1236. La Compaggnia de
Santi-petti 1237. Er pranzo a
Ssant’Alèsio 1238. La nasscita de Roma 1239. La colazzione nova 1240. Er tumurto 1241.
Er pesscivénnolo 1242. Er primo peccato
contro lo Spiritossanto 1243. L’udienza de li du’
Scozzesi 1244. Li reggni der Papa 1245.
Er zervitor de Conzurta 1246. La scala de li
strozzi 1247. Er frate 1248. La Messa de San
Lorenzo 1249. La Messa de San
Lorenzo 1250. L’assciutta der 34 1251. La festa de San
Nabborre 1252. Er rispetto a li
suprïori 1253. Er bùscio de
la chiave 1254. La bbona nova 1255. Li dannati 1256. Le du’ sentenze 1257.
Er Ziggnor farzàrio 1258.
Li sparaggni 1259. L’essempio 1260. L’omo e la donna 1261. Lo scummunicato 1262. La prudenza der
prete 1263. L’Olivetani 1264. Li Monichi
Mmaledettini 1265. L’ore canoniche 1266. Er miracolo de San
Gennaro 1267. Er battesimo der
fijjo maschio 1268. Li sordati bboni 1269. L’arme
provìbbite 1270. Li Prelati e li
Cardinali 1271. La difesa de Roma 1272. Li parafurmini 1273. Le mmaledizzione 1274. Lo spunto de cassa 1275.
L’Uditor de la Cammera 1276. Li dilitti
d’oggiggiorno 1277. Li studi de li
regazzi 1278. Er motivo prencipale 1279. Er Confessore mio 1280. Le lemosine p’er
terremoto 1281. La carità
ccristiana 1282. La ggiustizzia pe li
frati 1283. Monte-scitorio 1284. Er modo de
provisione 1285. Un’opera de
misericordia 1286. La bbonifisciata 1287. Er negroscopio
solaro andromatico 1288. Er Cardinale
caluggnato 1289. La carta bbollata 1290. Er rilasscio 1291. L’invito der Papa 1292. Le cacciate de
sangue 1293. La luna 1294. La mi’ nora 1295. Le bbotteghe der
Corzo 1296. Li morti scuperti 1297. Li Bbeati 1298. Li Maggni 1299. Lo stufarolo
appuntato 1300. La lottaría nova 1301. La lottaría nova 1302. La sperienza der
vecchio 1303. Le connotture de
Roma 1304. Li debiti 1305. La spia a l’udienza 1306. La ppiú mmejj’arte 1307. Er decoro de la
mediscina 1308. Er Chirico de la
Parrocchia 1309. Monziggnor
Maggiordomo 1310. Zia 1311. Er peccato de San
Luviggi 1312. Er Coco 1313. Lo scardino perzo 1314. Un ber gusto romano 1315. Li bbattesimi de
l’anticajje 1316. Er vino e ll’acqua 1317. La caccia der Padre
Curato 1318. La povera Terresa 1319. Quinto,
perdonà l’offese 1320. Primo,
conzijjà li dubbiosi 1321. La ggnocchetta 1322. Li San Giuvanni 1323. Li Santi freschi 1324. Li miracoli 1325. La famijja de la
sor’Aghita 1326. La serva nòva 1327. Sonate campane 1328. Lo spasseggio der
paíno 1329. Er deposito der
Conte 1330. La riliggione
spiegata e indifesa 1331. Er zagramento
ecolòmico 1332. L’ottobbre der 34 1333. Er capo invisibbile
de la cchiesa 1334.
Er funerale d’oggi 1335.
Er cardinal camannolese 1336. Er cardinal
camannolese 1337. Er cardinal
camannolese 1338. Er cardinal
camannolese 1339. La bbestemmia
reticàle 1340. La bbellezza 1341. La golaccia 1342. Er zor Giuvanni
Dàvide 1343. Er zor Giuvanni
Dàvide 1344. La sovranezza 1345. La pratica de Pietro 1346. L’impinitente 1347. Le bbone intenzione 1348. L’amico de Papa Grigorio 1349. Le risate der Papa 1350. La scampaggnata 1351. Er pranzo der
Vicario 1352. La Causa Scesarini 1353. Er tribbunal de Rota 1354. Titta a Ttitta 1355. Un zentimento mio 1356. [Un zentimento mio:]
Risposta 1357. La mi’ regazza 1358. Er frutto de la
predica 1359. Lo stufarello 1360. Che ttempi! 1361. L’annata magra 1362. La carità 1364. La cassa de sconto 1365. La gabbella de
cunzumo 1366. La serva de casa 1367. Er piú in ner meno 1368. La musica de la
padrona 1369. Er zartore 1370. Er beccamorto de
casa 1371. Li fiottoni 1372. Er terremoto de sta
notte 1373. Sentite, e mmosca 1374. Le sueffazzione 1375. Er fagotto pe
l’ebbreo 1376. La ggiustizzia ar
Popolo 1377. L’immaggine e
ssimilitudine 1378. La bbattajja de Ggedeone 1379. Li Monni 1380. L’anime 1381. Li rinegati 1382. Una risuluzzione 1383. La spiegazzione der
Concrave 1384.
Er nôto 1385.
L’arte fallite 1386. La bbellezza de le
bbellezze 1387. L’estri de li
francesi 1388. Una fatica nova 1389. Er bordello scuperto 1390. La fila de li
Cardinali 1391. Un carcolo
prossimativo 1392. La lista 1393. L’affarucci de la
serva 1394. Don Micchele de la
Cantera 1395. L’elezzione nova 1396. Li comprimenti 1397. Li sscimmiotti 1398. La prima origgine 1399. La sscerta der Papa 1400. La lègge der
diesci novembre 1401. La carità
ccristiana 1402. Er Curato bbuffo 1403. Er gatto girannolone 1404. Le Minenze 1405. L’Abbrevi der Papa 1406. L’abbito nun fa er
monico 1407. Er ferraro 1408. Le crature 1409. Er dottoretto 1410. Le raggione secche
secche 1411.
Er Museo 1412.
Er re de nov’idea 1413. Lo scolo der 34 1414. 3 Gennaio 1835 1415. 1835 1416. Er duca e ’r dragone 1417. Er duca e ’r dragone 1418. Er bullettone de
Crapanica 1419. La calamisvà
de Valle 1420. Li mariti 1421. Er disinteresse 1422. Li portroni 1423. La tariffa nova 1424. Li pericoli der
temporale 1425. L’arrampichino 1426. La bbocca de
mmèscia 1427. Una ne fa e ccento
ne penza 1428. La fiaccona 1429. Vent’ora e un quarto 1430. L’anima der Curzoretto
apostolico 1431.
Er fijjo de papà ssuo 1432. Lo sbajjo massiccio 1433. Le conzolazzione 1434. Li stranuti 1435. L’usanze bbuffe 1436. Una smilordaria
incitosa 1437. La medicatura 1438. La medichessa 1439. Li vecchi 1440. Er cel de bbronzo 1441. La gabbella de la
carne salata 1442. L’arisposta de Teta 1443. Er bello è
cquer che ppiasce 1444. Un pezzo e un po’, e
un antro tantino 1445. Er fistino de la
Bbanca Romana 1446. L’educanne de San
Micchele 1447. Le cose der Monno 1448. L’editto su li poverelli 1449. Er giusto 1450. Chi ss’attacca a la
Madonna nun ha ppavura de le corna 1451. Er discorzo de
l’agostiggnano 1452. La nottata de
spavento 1453. Che vvita da cani! 1454. La Rufinella 1455. Le visite der
Cardinale 1456. Er colleggio fiacco 1457. Er temporale de jjeri 1458. Er Carciarolo 1459. La mojje invelenita 1460. Le sciarlette de la
Commare 1461. La mormorazzione 1462. Sò ccose che
cce vanno 1463. La cratura in
fassciòla 1464. La curiosità 1465. Er mistiere
indiffiscile 1466. La vedova affritta 1467. La morte de Tuta 1468. La mojje der
giucatore 1469. Li fijji cressciuti 1470. Le Suppriche 1471. La lavannara 1472. La vecchia trottata 1473. La sposa de
Pepp’Antonio 1474. Ricciotto de la
Ritonna 1475. Er mortorio de la
sora Mitirda 1476. La sepportura
ggentilissima 1477. Er parchetto commido 1478. Le purce in ne
l’orecchie 1479. Le lettanie de
Nannarella 1480. L’ammalatia der
padrone 1481. Le dimanne a ttesta
per aria 1482. Er fijjo
tirat’avanti 1483. La mojje ggelosa 1484. La mojje marcontenta 1485. Er marito stufo 1486. La sposa ricca 1487. Ménica dall’ortolano 1488. La Mamma prudente 1489. Li studi der
padroncino 1490. Li du’ ordini 1491. Tutto cambia 1492. L’ottavario der
catachisimo 1493. Er zoffraggio de la
vedova 1494. Tòta dar
mercante 1495. La spiegazzione de
li Re 1496. Li Tesorieri 1498. La bbona stella 1499. Er Papa frate 1500. Li crediti 1502. La distribbuzzion de
li titoli 1503. Er Vicario novo 1504. Guerra fra ccani 1505. La crausura de le
Moniche 1506. Er galateo cristiano 1507. Er galateo cristiano 1508. Er zucchetto der
Decàn de Rota 1509. Li ggiochi
d’Argentina 1510. Le scuse de Ghetto 1511. Tristo a cchi ttocca 1512. Un conzijjo da amico 1513. La ggiustizzia der
Monno 1514. La morte der zor Meo 1515. Li padroni de Roma 1516. Un’erlíquia
miracolosa 1517. Er Padraccio 1518. Le cappelle papale 1519. Er zeporcro in
capo-lista 1520. Er giuveddí e
vvenardí ssanto 1521. Nun c’è
strada de mezzo 1522. La padrona bbizzoca 1523. Er mette da parte 1524. L’oste 1525. L’oste 1526. La Santa Pasqua 1527. La commare
accipùta 1528. Le cose a
ìcchese 1529. Li Cardinali ar
Concistoro 1530. La visita d’oggni
ggiorno 1531. San Vincenz’e
Ssatanassio a Ttrevi 1532. Er tribbunale der
Governo 1533. Sentite che ccaso 1534. La donna filisce 1535. Er proscetto
pasquale 1536. La Cchiesa da
confessasse 1537. La lezzione de Papa
Grigorio 1538. Trescento ggnocchi
sur zinale 1539. Er geloso com’una
furia 1540. La dipennenza der
Papa 1541. La bbocca der Cardinale
novo 1542. L’uscelletti de
razza 1543. La gricurtura 1544. Er momoriale pe la
dota 1545. Li du’ testamenti 1546. La morte der Rabbino 1547. Er masso de pietra 1548. Nostro Siggnore a
Ffiumiscino 1549. La mano reggia 1550. Le Vergine 1551. Cristo a la Colonna 1552. Una dimanna d’un
Ziggnore 1553. Er missionario
dell’Innia 1554. Un antro viaggio der
Papa 1555. Un antro viaggio der
Papa 1556. Un antro viaggio der
Papa 1557. Un antro viaggio der
Papa 1558. Er viaggio all’estro 1559. Er Papa omo 1560.
Le paterne visscere 1561. L’aricreazzione 1562. Lo spojjo 1563. Fra Ffreghino 1564. La casa de Ddio 1565. Terzo, ricordete de
santificà le feste 1566. Er diavolo a
cquattro 1567. Er marito arisoluto 1568. Regole contro
l’imbriacature 1569. Li canali 1570. La favola der lupo 1571. Le resíe 1572. Monziggnore,
sò stato ferito 1573. Lo scordarello 1574. Er chiacchierone 1575. Er chiacchierone 1576. La ficcanasa 1577. La purciaròla 1578. La notizzia de
telèfrico 1579. Er debbitore der
debbitore 1580. La divozzione 1581. Er zervitor de lo
Spaggnolo 1582. Er zervitor de lo
Spaggnolo 1583. Er Cardinale
solomíto 1584. Er Papa in anim’e
ccorpo 1585. L’arte moderne 1586. Er zole novo 1587. Le mmaledizzione 1588. Er perampresso 1589. Le perziane 1590. Er lutto p’er capo
de casa 1591. Perummélo, dímm’er
vero 1592. La scummunica 1593. Li ggiochi de la
furtuna 1594.
Chi è ccausa der zu’ mal piaggni se stesso 1595. Pijja sù e
rrósica 1596. Er fruttarolo 1597. La crudertà
de Nerone 1598. Er legge e scrive 1599. La scianchetta
Santissima 1600. Lo sbarco fratino 1601. Bbone nove 1602. Er tistimonio
culàre 1603. Le seccature der
primo piano 1604. La statura 1605. Una
capascitàta a cciccio 1606. Parenti, tiranni 1607. Er dilettante de
Ponte 1608. Le speranze de Roma 1609. Lui sa er perché 1610. Nun c’è
rregola 1611. La cura sicura 1612. L’accimature de la
padrona 1613. Er conto tra ppadre
e ffijjo 1614. Le creanze a ttavola 1615. La modestia in
pubbrico 1616. Er corzè de
la scalandrona 1617. Er zervitore e la cammeriera 1618. Li commenzabbili der
padrone 1619. Quer che cce
vò cce vò 1620. Quer che cce
vò cce vò 1621. Rifressione immorale
sur Culiseo 1622. Chi ccerca trova 1623. Er proggnostico de
la sora Tecra 1624. L’ammalato
magginario 1625. Er cimiterio de San
Lorenzo 1626. Er frutto de le
gabbelle grosse 1627. Un inzoggno 1628. La cremenza
minchiona 1629. Madama Lettizzia 1630. Li spaventi de la
padrona 1631. La cuggnata de Marco
Spacca 1632. Li nobbili 1633. Oggnuno ha li sui 1634. La Madonna de la bbasilica
libbreriana 1635. La Madonna de la
bbasilica libbreriana 1636. Li Papi de punto 1637. L’ubbidienza 1638. Er giovene
servizzievole 1639. Chi mmistica
màstica 1640. L’incontro de le du’
commare 1641. Er vistí de la
ggente 1642. La zitella ammuffita 1643. L’avaro 1644. L’avaro 1645. Er boccone liticato 1646. Le man’avanti 1647. La Madòn de
la neve 1648. Er ceco 1649. La primaròla 1650. La primaròla 1651. Er traccheggio 1652. Le chiamate
dell’appiggionante 1653. Vatt’a ttené le mano 1654. L’inguilino antico 1655. Le lode tra ddonne 1656. Er cacciatore 1657. La serva e la
criente 1658. Li salari arretrati 1659. Un pavolo bbuttato 1660. L’amore de li morti 1661.
Er pupo 1662.
Er pupo 1663.
Er bon core de zia 1664. La datìva
riddoppiata 1665. Le visscere der Papa 1666. La risípola 1667. Li vitturini de
piazza 1668. Er comprimento a la
siggnora 1669. La partenza pe la
villeggiatura 1670. Er ritorno da la
villeggiatura 1671. La notizzia de bbona
mano 1672. La prima cummuggnone 1673. L’affari de la
finestra 1674. La bbòtta der
zor Pippo 1675. La faccenna de
premura 1676. La Serenata 1677. Er padre e la fijja 1678. La povera mojje 1679. La famijja poverella 1680. Un fattarello
curioso 1681. Li canti
dell’appiggionante 1682. Lo sposo de Nanna Cucchiarella 1683. Er campo 1684. Er lunario 1685. Er legator de libbri 1686. Er zervitore
marcontento 1687. Er passaporto der
milanese 1688. Mariuccia la bbella 1689. Le mormorazzione de
Ggiujano 1690. La luscerna 1691. La luscerna 1692. La vesta 1693. La visita de
comprimento 1694. Er congresso tosto 1695. L’abbozzà de
li secolari 1696. Er francone
tutto-core 1697. La Sabbatína 1698. Er passa-mano 1699. L’Àrberum 1700. Checchina
appiccicarella 1701. L’amica de mane
lònghe 1702. Amalia che ffa da Amelia 1703. Er medico de
l’Urione 1704. Er convalisscente 1705. Bbrutti e scontenti 1706. L’oppiggnone diverze 1707. La priscissione der
23 Settembre 1708. Cosa fa er Papa? 1709. La risposta de
Monziggnore 1710. La vista curta 1711. L’entróne der teatro |
1712. Una fettina de Roma 1713. La riliggione der
tempo nostro 1714. La pietra de carne 1715. Er prete de la
Contessa 1716. Er principio 1717. Er parto de la mojje
de Mastro Filisce 1718. La donna gravida 1719. L’incoronazzione de
Bbonaparte 1720. Cattive massime 1721. La matta che nun
è mmatta 1722. La vedova
dell’ammazzato 1723. La vedova
dell’ammazzato 1724. Villa Bborghese 1725. Er caval de bbronzo 1726. Er mejjo e er peggio 1727. Le smammate 1728. La colómma de mamma
sua 1729. L’urtimo bbicchiere 1730. Chi era? 1731. Er pranzo da nozze 1732. Er pilàro 1733. L’Avocato Cola 1734. Li conti co la
cusscenza 1735. Lo spiazzetto de la
corda ar Corzo 1736. La lettrícia 1737. Semo da capo 1738. Er padre de
Ghitanino 1739. La mano reggia 1740. Li troppi ariguardi 1741. L’amore de le donne 1742. Lo strufinamento de
la Madonna 1743. Ch’edèra? 1744. Le funzione de
Palazzo 1745. L’assaggio de le
carote 1746. Le cuncrusione de la
Rescèli 1747. Nino e Ppeppe a le
Logge 1748. Li ggeloni 1749. [Er còllera
mòribbus] 1750. [Er còllera
mòribbus] 1751. [Er còllera
mòribbus] 1752. [Er còllera
mòribbus] 1753. [Er còllera
mòribbus] 1754. [Er còllera
mòribbus] 1755. [Er còllera
mòribbus] 1756. [Er còllera
mòribbus] 1757. [Er còllera
mòribbus] 1758. [Er còllera
mòribbus] 1759. [Er còllera
mòribbus] 1760. [Er còllera
mòribbus] 1761. [Er còllera
mòribbus] 1762. [Er còllera
mòribbus] 1763. [Er còllera
mòribbus] 1764. [Er còllera
mòribbus] 1765. [Er còllera
mòribbus] 1766. [Er còllera
mòribbus] 1767. [Er còllera
mòribbus] 1768. [Er còllera
mòribbus] 1769. [Er còllera
mòribbus] 1770. [Er còllera
mòribbus] 1771. [Er còllera
mòribbus] 1772. [Er còllera
mòribbus] 1773. [Er còllera
mòribbus] 1774. [Er còllera
mòribbus] 1775. [Er còllera
mòribbus] 1776. [Er còllera
mòribbus] 1777. [Er còllera
mòribbus] 1778. [Er còllera
mòribbus] 1779. [Er còllera
mòribbus] 1780. [Er còllera
mòribbus] 1781. [Er còllera
mòribbus] 1782. [Er còllera
mòribbus] 1783. Marta e Mmadalena 1784. La maggnera de
penzà 1785. L’assarti 1786. Er pontificabbile 1787. Er lalluvióne der
paesetto 1788. Er fervorino de la
predica 1789. La folla pe le
lettre 1790. L’incontro de mi’
mojje 1791. La morte de Madama
Lettizzia 1792. Er tempo de francesi 1794. L’urtimo ggiorno de
carnovale 1795. L’editto su le feste 1796. L’editto su le feste 1797. L’incennio ne la
Mèrica 1798. Er rifresco der zor
Giachemo 1799. Er baliàtico
de Ggiggio 1800. Ar zor abbate
Montanella 1801. Un quadro d’un
banchetto 1802. Er capitolo 1803. La morte de Fieschi 1804. Li ritratti de lujjo 1805. La festa der Papa 1806. Er fatto de la Con
v’entri 1807.
Er bene der Monno 1808.
Er Beato Arfonzo 1809.
Papa Grigorio a li scavi 1810. Er peggno in
campaggna 1811. L’affare spiegato 1812. La festa mia 1813. L’indoratore 1814. Er Cardinal
protettore 1815. L’omo de monno 1816. Er regazzo in
zentinella 1817. Ar zor dottor
Maggiorani 1818. La cuscina der Papa 1819. La cantina der Papa 1820. Una sciavatta 1821. Le speranze der
popolo 1822. Er zettàrio
condannato 1823. Er deserto 1824. Li scopatori
imbrojjati 1825. Le donne litichíne 1826. Le donne litichíne 1827. Le donne litichíne 1828. Er zegréto 1829. Le donne a mmessa 1830. La pantomína
cristiana 1831. Er grosso a Bbervedé 1832. La carità
ddomenicana 1833. Er capezzale 1834. Er Miserere de la
Sittimana Santa 1835. Er miserere de la
Sittimana Santa 1836. Li pinitenzieri de
San Pietro 1837. La Tirnità de
Pellegrini 1838. La messa in copia 1839. Er zantissimo de
Monte-Ccavallo 1840. La bbenedizzione der
Zàbbito Santo 1841. La regazza in fresco 1842. Er prete 1843. Le confidenze 1844. La vedova der
zervitore 1845. Er male compenzato
dar bene 1846. Er merito 1847. L’immassciata bbuffa 1848. La mollichella a
ggalla 1849. La commuggnone in
fiocchi 1850. L’ammalatìa
de mi’ mojje 1851. L’arma de Papa
Grigorio 1852. Le gabbelle 1853. La Bbonifiscenza 1854. Ar zor Abbate
Bbonafede 1855. La strolomía 1856. La faccia der Monno 1857. Er bon governo 1858. Certe parole latine 1859. Er ceroto de Papa
Grigorio 1860. Chi fa, ariscéve 1861. Chi fa, ariscéve 1862. Er ritorno da
Castergandorfo 1863. Le gabbelle de li
turchi 1864. Li ggiudizzi 1865. Mastro Grespino 1866. Mastro Grespino 1867. Li padroni
bbisbètichi 1868. Ar zor Lesandro
Tavani 1869. Ar zor professor Pavolo
Baròni 1870. L’amiscizzia vecchia 1871. La commare 1872. L’amore e l’accordo 1873. Er ritratto der Papa 1874. La bbefana 1875. L’ammalaticcio 1876. L’incontro der
decane 1877. Er passo de le
carrozze 1879. Er Carnovale der 37 1880. Er Carnovale der 37 1881. Sant’Agustino lo
mett’in dubbio 1882. La mammana in
faccenne 1883. Er niverzario de
l’incoronazzione 1884. Er Mercante pe Rroma 1885. Er Mercante pe Rroma 1886. Er mercantino a
Ccampo-de-fiore 1887. Lo spazzino ar
caffè 1888. Lo staggnaro a
mmercato 1889. Li moccoletti der 37 1890. Li moccoletti der 37 1891. L’appiggionante
servizziose 1892. Lo scatolaro 1893. Lo scatolaro 1894. L’arisoluzzione de
don Mariotto 1895. Er nobbile de fresca
data 1896. Er primo gusto der
Monno 1897. Chi la fa, l’aspetta 1898. Le montaggne nun
z’incontreno 1899. Le grazziette de
Mamma 1900. Oggni uscellaccio
trova er zu’ nido 1901. Li dilettanti del
lotto 1902. Li dilettanti del
lotto 1903. Li dilettanti del
lotto 1904. Li gatti
dell’appiggionante 1905. La nipote pizzuta 1906. Er marito
pascioccone 1907. Er zor Cammillo 1908. Er compositore de la
stamparia 1909. El cappellaro 1910. L’imbiancatore 1911. La pavura 1912. Le piggionante
sussurrone 1913. La cuscína de sotto 1914. Un gran guaio grosso 1915. Er padrone
bbon’anima 1916. L’erede 1917. Er deposito p’er
padre 1918. La frebbe
maggnarella 1919. La cunculina rotta 1920. Er conto de le
posate 1921. Er bicchieraro a la
Ritonna 1922. La disputa ar
caffè 1923.
Er fijjo d’oro 1924.
La correzzion de li fijji 1925. Le truppe de Roma 1926. L’amiche d’una vorta 1927. Li connimenti 1928. Er mal de petto 1929. La mojje
dell’ammalato 1930. La visita
all’ammalato 1931. La toletta de la
padrona 1932. Li cavajjeri de la
fame 1933. Er civico de corata 1934. Er tumurto de
Terrascina 1935. Er viatico de
l’antra notte 1936. La priscissione a
Ssan Pietro 1937. La caristía der 37 1938. La caristía der 37 1939. Le commediole 1940. La vitaccia de li
Sovrani 1941. Er zor Diego
acciaccatello 1942.
La commuggnon de bbeni 1943. Er Pangilingua 1944. Li cani d’un prete 1945. Er rimedio pe lo
Stato 1946. L’abbonnanza pe
fforza 1947. Una cosa chiama
l’antra 1948. Er fattarello de
Venafro 1949. Un ber quadro a
sguazzo 1950. Er campanone de
Monte-scitorio 1951. Un detto de detto 1952. L’amiscizzia der
monno 1953. Le maggnère
che ttúfeno 1954. Er modello 1955. Le rassomijjanze 1956. La perpetuvella de
la ggiuventú 1957. La perpetuvella de
la ggiuventú 1958. La fede de bboni
custumi 1959. La sartora scartata 1960. Le vite 1961. Er rispetto 1962. Er Padrone padrone 1964. L’allonguzzione der
Papa 1965. L’aribbartatura der
capoccio 1966. Perzona che lo
pò ssapé 1967. Er famijjare
sporca-padrone 1968. Le lode de la Sora
Nanna 1969. Er giuramento 1970. L’aspèttito
de la ggiustizzia 1971. L’aspèttito
de la ggiustizzia 1972. La governante der
Governatore 1973. La
caramaggnòla d’Argentina 1974. Lo sfrappone 1975. La stretta de jjer’a
nnotte 1976. Er disgrazziato 1977. E cciò li
tistimònî 1978. Er zervizzio de gala 1979. Er ritratto der zor
Filippo 1980. La pizza der compare 1981. Un paragone 1982. Li rivortósi 1983. Li penzieri dell’omo 1986. La mi’ causa 1987. La canterina de la
Valle 1988. L’operazzione da la
parte der cortile 1989. Una svista 1990. La festa sua 1991. «Questo ggià
lo sapémio dar decane» 1992. Comprimento 1994. «Ahà, rriecco
l’acqua! E ’ggni tantino» 1995. Ar zor
come-se-chiama 1996. Er Duca saputo 1997. Monziggnor de
l’Annona e Ggrasscia 1998. Er Cardinale da vero 1999. L’incontro der
beccamorto 2000. L’occhi der Papa 2001. L’Urion de Monti 2002.
Er viaggio de Frosolone 2003. La commedia der
Trocquato 2004. Er corpo der dilitto 2005. La gatta-morta 2006. Ce sò bbaruffe 2007.
Er bardassaccio de mane
longhe 2008. Le smosse de quella
bbon’anima 2009. La lavannara
zzoppicona 2010. Li fijji a
pposticcio 2011. La governante de
Monziggnore 2012. Nove bbèstie
nòve 2013. La vennita der brevetto 2014. Er lionfante 2015. Tre mmaschi e nnove
femmine 2016. Er naso 2017. La fittuccia 2018. Er ricramo 2019. Li teatri de mó 2020. Er fruttarolo e
l‘Abbate 2021. La Madòn
dell’arco de Scènci 2022. Er cammerata de li
Siggnori 2023. La compassion de la
commare 2024. L’arisoluzzione 2025. ’Na ssciacquata de
bbocca 2026. Sentite che
ggnacchera 2027. L’accordi 2028. Le ficcanase 2029. Tra er
càncher’e la rabbia 2030. Er regazzo de
bbottega 2031. L’innustria der
mestiere 2032. Le carrozze a
vvapore 2033. Le fattucchieríe 2034. Li collarini 2035. Er tartajjone
arrabbiato 2036. La Scerriti 2037. La caccia
provìbbita 2039. La partenza der
primo bbattajjone 2040. L’arrivo der
riggimento 2041. Er Papa a Ssan
Pietro 2042. Er Papa a Ssan
Pietro 2043. Er pane per antri
denti 2044. Er fijjo maschio 2045. La fijja
ammalorcicata 2046. Dar tett’in giú 2047. La cojjonella de la
ssciabbolotta 2048. Li miracoli der pelo 2049. Li comprimenti de le
lavannare 2050. Er trafichino
ingroppato 2051. La lista de le mance 2052. L’incontro der ladro 2053. Lo
sscialacòre 2054. Mastr’Andrea vedovo 2055. La Mamma curiala 2056. La regazza lassata 2057. L’accoppatura 2058. La portrona nova 2059. Li ladri pagati 2060. Le bbotteghe serrate 2061. Li casotti novi 2062. Li casotti novi 2063. La novena de Natale 2064. Er proveditore de
Sant’Ann’in borgo 2065. Er conto de la
locanna 2066. Er fattorino
immriàco 2067. Quarantatré nnomi
der zor Grostino 2068. La minchionella 2069. La mojjetta de bbon
core 2070. La donna arrubbata 2071. La vecchia cocciuta 2072. La diana de la
povera ggente 2073. Le furtune de li
bbirbi 2074. Le caluggne contr’er
governo 2075. L’art’e bbasso 2076. Una serenata 2077. Li quadrini ben
impiegati 2078.
Er bon core de don Cremente 2079. Er talentaccio de
casa 2080. La vita de la
padrona 2081. Le massime de la
padrona 2082. La fijja stroppia 2083. La robba trovata 2084. L’impicciatorio der
Padre Curato 2085. La scarrozzata de li
cardinali novi 2086. Er cariolante de la
Bbonifiscenza 2087. Li scrupoli de li
mi’ stivali 2088. La bbanna de Termini 2089. L’innamorati 2090. Una bbrusciatella de
bbone grazzie 2091. Er zervitore novo 2092. La libbertà
de cammera sua 2093. La spiegazzion de le
staggione 2094. L’innurto novo 2095. Pasqua bbefania La viggijja de pasqua bbefania 2096. Pasqua bbefania La notte de pasqua bbefania 2097. Pasqua bbefania La matina de pasqua bbefania 2098. Le devozzione de la
padrona 2099. Er predicatore de
chiasso 2100. Er cottivo 2101. Er volo de
Simommàgo 2102. [Er volo de
Simommàgo] 2103. [Er volo de
Simommàgo] 2104. [Er volo de
Simommàgo] 2105. [Er volo de
Simommàgo] 2106. Lo svejjatore 2107. Er padrone bbona
memoria 2108. L’editto de nov’idea 2109. Er testamento der
bizzoco 2110. Lo scaricabbarili
der Governo 2111. [Come va, Geremia?»
«Sempre l’istesso»] 2112. Li frati 2113. Le cose sue de la
padroncina 2114. La compassion de le
disgrazzie 2115. L’aria cattiva 2116. Lo scortico de
Campomarzo 2117. Le regazzate de li
Romaggnoli 2118. Er passetto de Castel-sant’angiolo 2119. Li sordati 2120. Grigorio e
Nicolò 2121. La vita da cane 2122. Er morto ingroppato 2123. Er prete capr’e
ccavoli 2124. Er Cavajjer de
spad’e ccappa 2125. Er paneriggico de
san Carlo 2126. Er proscède
d’Aggnesa 2127. Er Papa in ner
Corpusdommine 2128. Lo sposalizzio de
Mastro-l’ammido 2129. La fede a ccartoccio 2130. L’entrat’e usscita
der purgatorio 2131. Er passo de la
ggiustizzia 2132. Er discorzo
chiaro-chiaro 2133. L’appartamento de la
padrona 2134. Le lettaníe der
viatico 2135. Le zzampane 2136. Er marito de
ggiudizzio 2137. La sposa de Titta 2138. Ajjuto e conzijjo 2139. Er parchetto de la
deputazzione 2140. Er credito contro
Monziggnore 2141. La madre der
condannato 2142. La mediscina
piommatica 2143. La mediscina
piommatica 2144. Er bracciante
marcontento 2145. Una bbiastéma der
Crèdo 2146. Un caso da carbone
bbianco 2147. Er bizzoco farzo 2148. Er Papa ner Giuveddí
Ssanto 2149. La Tirnità de
pellegrini 2150. Er cardinale bbono 2151. La smania de
sposà 2152. Sesto, nun formicà 2153. Er padrone
scoccia-zzarelli 2154. La gabbella der
zabbito santo 2155. Le carte per aria 2156. L’affitti pe la
ggirànnola 2157. Er bon partito 2158. Li malincontri 2159. Li cardinali in
cappella 2160. Le creanze
screanzate 2161. L’aggratis e er picchinicche 2162. Er guazzarolo
sbiancato 2163. La pinitente che
storce 2164. La mutazzion de nome 2165. L’orazzione esaudite 2166. La faccia de la luna 2167. Er zomaro 2168. La bbirbata der
Curato 2169. L’affari de Stato 2170. La morte co la coda 2171. La vénnita der
cardinale morto 2172. Ar zor Lello Scini c’oggi
diventa omo 2173. Er papa bbon’anima 2174. Er papa novo 2175. L’orloggio 2176. Er papa pascioccone 2177. Er nome der Papa 2178. Er càmmio de
nome 2179. L’udienza prubbica 2180. Preti e ffrati 2181. Le feste de li santi 2182. Li nimmichi de papa
Grigorio 2183.
Er papa bbono 2184.
La salute der papa 2185. Er Papa in de
l’incastro 2186. Li vívoli in
zaccoccia 2187. Er Vicario vero de
Ggesucristo 2188.
La Tor de Babbelle 2189. Er cavajjerato 2190. Er viaggio a
Bbettelemme 2191.
Er giubbileo der 46 2192. Una bbella penzata 2193. La raggione der
Caraccas 2194. Er maestro de li
signorini 2195. L’ugurî de sto monno 2196. La scechezza der
Papa 2197. L’ariscombússolo der
Governo 2198. Er tibbi de Piazza-Madama 2199. Er zenato romano 2200. Le cariche nove 2201. Don Zaverio e don
Luterio 2202. La mojje de
l’impiegato 2203. Er poverello de mala
grazzia 2204. [«Io, per brio,
saperebbe volentieri»] 2205. Le vecchie-pupe 2206. L’età de la
padrona 2207. La piccosità 2208. La testa de bbona
momòria 2209. Er difenzore de
matrimoni 2210. La sbiancata 2211. La mutazzion de
sscena 2212. La patente der
bottegaro 2213. La spesa pe ppranzo 2214. Er passo de la
scuffiarina 2215. La sposa de Mastro
Zzuggno 2216. L’amica de core 2217. Er furto piccinino 2218. Er furto piccinino 2219. La bazzica 2220. Er vino de padron
Marcello 2221. L’arisseggnazzione 2222. Er piggionante der
prete 2223. L’enfitemus 2224. [Lui, doppo un anno
e ppiú cche sta ingabbiato] 2225. La bona vecchiarella 2226. La casa de la
ricamatora 2227. [«Anzi,
appostatamente ciài d’annà»] 2228. La vojjosa de marito 2229. Un matrimonio
filisce 2230. Er Papa e li frati 2231. Un piggionante d’un
piggionante 2232. Li panni stesi 2233. Er fatto de la fijja 2234. La bbatteria de
cuscina 2235. La serva e ’r
cappellano 2236. Le limosine
demonetate 2237. L’urtone 2238. La congregazzione 2239. Una visita de
nov’idea 2240. Er zampietrino
nîobbe 2241. La lingua francese 2242. Lo sgrinfiarello
affamato 2243. Un rompicollo 2244. Le nozze scuncruse 2245. Er guardaportone 2246. La sposa de
Mastr’Omobbono 2247. La mamma uscellatora 2248. La vedova
aringalluzzita 2249. Er girello de Mastro
Bonaventura 2250. [«E io che ancora
nun ho mmai possuto»] 2251. L’ordinazzione p’er
Carnovale 2252. L’inzoggno d’una
regazza 2253. L’inzoggno d’una
regazza 2254. Er tempo materiale 2255. Le corze de
carnovale 2256. Le mmascherine
pulitucce 2257. Er primo giorno de
quaresima 2258. Er frate scercante 2259. Er tempimpasce 2260. Anticajja e
pietrella 2261. Lo svicolo der
discorzo 2262. L’appuntamenti su la
luna 2263. Un fischio d’aria 2264. La bbriscola 2265. Er ladro d’onore 2266. Er fornaro fallito 2267. La passata ar
momoriale 2268. La regazza piccosa 2269. Er bon core 2270.
La commare de l’aritirato 2271. La praticaccia 2272. La povera
sciorcinata 2273. La povera
sciorcinata 2274. L’innustria pe la
dota 2275. Li quadrini sudati 2276. L’arte der
campà auffa 2277. Er
ribbarta-compaggnia 2278. La musicarola 2279. [«Sora Crestina mia,
pe un caso raro»] |
Io sempre avevo inteso predicà
cch’er Ziggnore era morto un venardí,
e cche ddoppo tre ggiorni che mmorí
vorze
Com’è st’istoria?
E adesso vedo cqua
schiaffallo
e ’r giorn’appresso lo vedo ariarzà 3
sopr’a la crosce e aripiantallo 4 llí!
E ’r zabbit’
s’arileva
se canta er Grolia, 8 e nnun ze piaggne ppiú.
Queste
sò ttutte bbuggere c’a mmé
me pareno resíe, 9 perché o nun fu
ccome se disce, o ss’ha da fà ccom’è.
Arivienghi
1 mo a ddí cquer framasone
che, ffra ttutti li prencipi cristiani
cattolichi postolichi romani,
er Zantopadre nostro è er piú pportrone.
Ggià
jjeri ha ddato ’na bbonidizzione: 2
un antra n’ha da dà ddoppo domani: 3
eppoi lavanne
e mmisereri, e ppranzi, e ppriscissione! 6…
Io nun zo ssi
7 dda quanno s’è inventata
l’arte de faticà, se sii mai trova
una vita, per dio, ppiú strapazzata.
Povero Papa
mio! manco te ggiova
lo sscervellatte 8 co sta ggente ingrata
pe ffà oggni ggiorno un’indurgenza nova.
Quanto a le
carte poi de l’indurgenza
ch’er Papa fa bbuttà ggiú ddar loggione, 1
trattannose d’affar de riliggione
nun ce vò un cazzo tanta conveggnenza.
Saría bbella
che ddoppo la pascenza 2
d’aspettà un’or’e ppiú ssu lo scalone, 3
quanno poi viè 4 vvolanno er cedolone
s’avessi d’acchiappà cco la prudenza!
Chi ppijja
pijja: e llí vvedi er cristiano:
lí sse scopre chi ha ffede e cchi ha rrispetto
pe le sante indurgenze der zovrano.
Io so cc’a
fforza de cazzott’in petto
e dd’èsse, 5 grazziaddio, lesto de mano,
sempre ne porto via quarche ppezzetto.
«Caino! indov’è Abbele?». E
cquello muto.
«Caino! indov’è Abbele?».
Allora quello:
«Sete curioso voi! chi ll’ha veduto?
Che! ssò 1 er pedante io de mi’ fratello?»
«Te lo
dirò ddunqu’io, bbaron futtuto:
sta a ffà tterra pe ccesci: 2 ecco indov’èllo. 3
L’hai cuscinato 4 tú ccor tu’ cortello
quann’io nun c’ero che jje dassi ajjuto.
Lèvemete
5 davanti ar mi’ cospetto:
curre p’er grobbo 6 quant’è llargo e ttonno,
pozz’èsse 7 mille vorte mmaledetto!
E ddoppo avé
ggirato a una a una
tutte le strade e le scittà dder monno,
va’, ccristianaccio, a ppiaggne
Ch’er zor
Caino doppo er fatto d’Eva
ammazzassi 2 quer povero innoscente,
fin qui nnun c’è dda repricacce 3 ggnente:
questo è un quattr’e cquattr’otto, e sse sapeva.
La gran
difficortà cch’io tiengo in mente
e cche ggnisuno ancora me la leva,
è ccome mai Caino conossceva
che le bbòtte ammazzassino 4 la ggente.
Prima de
quella su’ bbricconeria
gnissun omo era mai morto ammazzato,
e mmanco morto mai d’ammalatia.
Volemo dunque dí cche ddar peccato
de maggnà un fico pe jjottoneria
er genio d’ammazzà nnaschi imparato?
Eh sor
banchiere, 1 e mmó in che ddà sto chiasso?
Poveraccio! ve pijjeno le dojje?
Vienite a llavorà de paste sfojje 2
propio in ner zito 3 che cciamanca 4 er passo?
C’ho da
sterzà, 5 ll’anima tua?! pe cojje 6
ne le vetrine 7 e ffà cquarche sconquasso?!
Come ho da passà avanti? indove passo?
su la freggnaccia sporca de tu’ mojje?
Da’ addietro tú,
ccornuto bbuggiarone:
tiè cquela frusta a tté, ddico: va’ ppiano:
vòi sfonnamme 8 la cassa cor timone?
Nun me
fà ssceggne 9 ggiú, lladro ruffiano,
ché, ppe ccristo de ddio, t’arzo un pormone 10
da imparatte
Cristo, che
ddivorà! Ccome ssciroppa 2
quer Cardinale mio, Dio l’abbi in pasce!
E la bbumba? 3 Cojjoni si jje piasce!
Come ssciúria, 4 per dio! come galoppa!
Quello? è ccorpo da fà bbarba de stoppa 5
a un zei 6 conventi: ché ssaría capasce
de maggnajjese er forno, la fornasce,
er zacco, er mulo, e ’r mulinaro in groppa.
Lui se sfonna
7 tre llibbre de merluzzo,
quann’è vviggijja,
capite si cche stommichi de struzzo? 9
Oh a lui
davero er don 10 de l’appitito
lo sarva dar peccato de la gola,
perché appena ha mmaggnato ha ggià smartito. 11
Azzecca
1 un po’ Ssanta Maria Maggiore
a chi oggnisempre dà un canonicato?
Ar re de Spaggna, cazzo!, omo ammojjato,
cosa che ttanto dispiasce ar Ziggnore!
E ar passà
dde la bbanca 2 averà ccore
sto sor canonichetto incoronato,
senz’esse 3 stat’in coro e avé ccantato,
de scibbasse 4 la paga de cantore?
Io je diría:
5 vienite in de la stalla 6
com’e ll’antri voi puro,
co la bbarretta e la pelliccia in spalla.
Che!
cciamancheno 8 preti, a sto paese,
da pijjasse 9 qualunque bbonifizzio
per la raggione de quer tant’-ar-mese?
Io ve dico
ch’er Papa stammatina
s’è ffatto roppe 1 un po’ ppiú ppresto er zonno
e cco ddu’ leggni sui, prim’e ssiconno,
è vvorzuto annà a ttrova 2 la Reggina. 3
Epperò
ss’ha da fà ttanta marina? 4
Perch’er Papa è er prim’omo de sto Monno,
dunque li Papi, a ssentí a vvoi, nun ponno
nemmanco visità la ggente fina?
Spalancate
l’orecchie: uprite l’occhi:
li sentite llaggiú li campanelli?
Quella ch’edè? 5 la cummuggnon’in fiocchi. 6
Ah, un Dio
pò vvisità li poverelli,
e nnò un Papa li re? Ppezzi de ggnocchi!
Li sovrani nun zò 7 ttutti fratelli?
St’anno che
la lavanna 1 è stata in Chiesa
de san Pietro, all’artar de san Proscesso, 2
sò vvorzuto annà
s’era in ner modo che ss’è ssempre intesa.
Oh bbe’,
Fficona, te saressi cresa 5
che li Papi arrivassino 6 a st’accesso 7
de fà ttredisci Apostoli? E ’r permesso
chi jje l’ha ddato de fà a Ddio st’offesa?
L’Apostoli de
Cristo in ner Cenacolo
nun hanno mai passato la duzzina,
e mmó er Papa vò ffà st’antro miracolo!
Tredisci! oh
gguarda llí! ttredisci un cavolo!
Nun z’aricorda 8 er Papa che, pper dina,
quer zu’ tredisci è er nummero der diavolo? 9
A oggni
pasqua che vviè, 1 ppropio st’usanza
pare, che sso... cche mm’arieschi 2 nova.
Non ze fa ccolazzione e nnun ze pranza
si mmanca er piatto de salame e dd’ova.
Mica parlo
per odio a sta pietanza,
ché, ssi 3 vvolete, un gusto sce se 4 prova;
e, cquanno nun fuss’antro, 5 la freganza 6
c’un zalame pò ddà, ddove se trova?
Io dico de
l’usanza der custume
de mannà ssempr’a ccoppia ov’e ssalame:
questo è cch’io scerco chi mme dassi 7 un lume.
Uhm, quarche
giro sc’è: 8 ssi nnò 9 ste Dame
l’averebbeno ggià mmannat’ 10 in fume 11
mentre a l’incontro n’hanno sempre fame.
Tutti li
forestieri, oggni nazzione
de qualunque paese che sse sia,
dicheno tutti-quanti: «A ccasa mia
sce se fa ggran bellissime funzione».
E nun dico
che ddichino bbuscía:
forzi, 1 chi ppiú, chi mmeno, hanno raggione.
Ma cchiunque viè a Rroma, in cuncrusione,
mette la coda fra le gamme, e vvia.
Chi 2
ppopolo pò èsse, 3 e cchi ssovrano,
che cciàbbi 4 a ccasa sua ’na cuppoletta
com’er nostro San Pietr’in Vaticano?
In qual antra
scittà, in qual antro stato
c’è st’illuminazzione bbenedetta,
che tt’intontissce 5 e tte fa pperde 6 er fiato?
Ce fussi
2 a la ggirànnola jjerzera?
Ma eh? cche ffuntanoni! eh? cche scappate!
quante bbattajjerie! 3 che ccannonate!
cristo, er monno de razzi che nun c’era!
E la vedessi
4 quela lusce nera
c’ussciva da le fiamme illuminate?
Nun paréveno furie scatenate
che vvienissin’ 5 a ffà nnas’e pprimiera? 6
E ll’Angelo
7 che stava in de l’interno
de quer fume co ttutto er zu’ palosso, 8
nun pareva un demonio de l’inferno?
E ’r foco
bbianco? e ’r foco verde? e ’r rosso?
Disce 9 che inzino a cquelli der Governo
je parze 10 avé sti tre ccolori addosso! 11
Ner Musoleo
d’Ugusto 2 de Corea 3
sce se 4 fanno fochetti tanti bbelli 5
co razzi, co ffuntane e cco ggirelli,
che cchi nun vede nun pò avenne 6 idea.
Bboccetto
7 mio, bbisoggna vede quelli
che ccosa 8 co la porvere 9 se crea.
Antro 10 ch’er foco tuo de la Chinea 11
ch’era robba da fà rride 12 l’uscelli. 13
Sapete si
cch’edè, 14 ssor brutto mostro?
Voantri 15 vecchi avete sempre in bocca
le maravijje der tempaccio vostro.
Ma mmó vve
tocca d’abbozzà, 16 vve tocca;
e cquelle maravijje ar tempo nostro
le mettémo a ccovà sott’a la bbiocca.
Mojje mia, le
notizzie c’hai da prenne 1
quanno te manna Iddio quarche ppollastro 2
è dde sapé dda quelli der Catastro
cosa abbi ar zole, 3 e ssi sta bbene a ppenne.
Com’è
ingroppato 4 e ttiè ccore de spenne, 5
tu sséggnelo addrittura ar libbro-mastro:
poi scappo fora io, e tte lo castro
sin c’abbi un vaso da potesse venne. 6
Sto latino er
Marchese mi’ padrone
l’aripete oggni ggiorno a la Marchesa;
e le cose cammìneno bbenone.
E vvanno
tutt’e ddua tanto d’intesa,
c’a un pollastro che cqui ffanno cappone
nun je rest’antro 7 che pportallo 8 in chiesa.
Io l’ho
inzurtato?! 1 io j’ho bbevuto er vino?!
io j’ho ddato er coggnome de caroggna?!
Pò pparlà Ffrancatrippa e Ffrittellino
si 2 st’impusturerie lui se l’inzoggna. 3
E llui
vò ammazzà a mmé? propio la roggna
te j’ha ddato de vorta in ner boccino. 4
M’ammazzerà ssu la piazza dell’oggna
dov’ammazza li fii der re Ppipino. 5
Diteje ar zor
abbate Tuttibbozzi 6
che sse tienghi la lingua tra li denti
e ste sciarle che cqui sse l’aringozzi. 7
Perché sse
ponno dà ccert’accidenti
c’abbi trovo er zu’ bboja che lo strozzi
lui e le mmerde de li su’ parenti.
Io la matina
stò ssempre a ddiggiuna:
sortanto pijjo ammalappena usscita
un par de bicchierini d’acquavita
lí accant’a l’Ostaria de la Furtuna.
Oh, ar piú,
ssi 2 all’ostaria sc’è cquarchiduna
oppuro quarchiduno che mm’invita,
entro, e ppe nnun sgradí 3 bbevo du’ dita;
ma cch’io maggni, ah, nnu lo pò ddí ggnisuna.
Me predicava
sempre mamma mia
che cquer cibbo ccusí a stommico vòto
pò ffà vviení una bbona ammalatia.
Oh a ppranzo
sí, er mi’ piatto me lo voto
che cce pare passata la lesscía: 4
a ppranzo sò davero un terremoto.
Ventiscinqu’anni
fa, cche li Francesi
fesceno 2 la scalata a Ppapa Pio,
Tata 3 piaggneva perché Ttoto 4 e io,
siconno lui 5 nun ce n’erimo presi. 6
«Lo so»,
ddisceva lui, «che dda sei mesi
io nun ho ppane da dà ar zangue mio;
ma nun sta ppeggio quer zervo de Ddio
in man de quela razza de paesi?».
E
cch’edèreno 7 poi sti patimenti?
Nun aveva er zu’ pranzo e la su’ scena,
servitori, carrozze e appartamenti?
Ce vorrebbe
èsse io 8 ccusí strazziato,
da fà oggni ggiorno la trippaccia piena,
e la sera trovà ttutto pagato.
Iddio ne
guardi, Iddio ne guardi, Checca,
toccassi 1 a ccommannà a li ggiacubbini:
vederessi 2 una razza d’assassini
peggio assai de li Turchi de la Mecca.
Pe
aringrassasse 3 la panzaccia secca
assetata e affamata de quadrini,
vederessi mannà cco li facchini
li càlisci de Ddio tutti a la zecca.
Vederessi sta
manica de ladri
raschià ddrent’a le cchiese der Ziggnore
l’oro da le cornisce de li quadri.
Vederessi
strappà ssenza rosore 4
li fijji da le bbraccia de li padri,
che ssaría mejjo de strappajje er core.
Nun ze
sent’antro 2 da li ggiacubbini
(che o rromani de Roma, o fforestieri,
tielli 3 tutti una macchia d’assassini,
carne da bboja e ggaleotti veri);
nun ze sente
dí antro a sti paini
c’oggi li Papa sò ttiranni neri
che sse n’escheno for da li confini
cor gastigà inzinenta 4 li penzieri.
Si jje piasce
l’ajjetto: 5 tanto bbene:
s’ha da puní inzinenta l’intenzione,
e accusí 6 nnun faranno tante sscene.
Un Papa
è un visce-ddio; e dde raggione
ha da tené nne l’accordà le pene
tutte quante l’usanze der padrone.
Cqua
cc’è un vicario de Ddio nipotente: 1
c’è un Vicario, 2 vicario der vicario:
e pper urtimo c’è un Vicereggente 3
vicario der vicario der vicario.
Ste
distinzione cqui ttiettel’a mmente
pe nnun sbajjà vvicario co vvicario:
ché una cosa è vvicario solamente,
antra cosa è vvicario de vicario.
Ccusí er
primo commanna sur ziconno, 4
er ziconno sur terzo, e ttutti poi
commanneno su ttutto er Mappamonno.
Tira adesso
le somme come vòi,
smovi er pancotto, e ttroverai ner fonno
che cchi ubbidissce semo sempre noi.
Io je disse
1 accusí: «Ccellenza mia,
sò 2 ito a cchiede 3 pane a ttanta ggente,
che, ccreda in Gesucristo, propiamente
sò ar punto de cascà in ne l’angonia». 4
E llui, quel’animaccia
de Turchia,
sai cosa fesce pe nnun damme 5 ggnente?
Pijjò, ccane, er bellissimo spediente
de fàcce 6 l’inquietato e curre 7 via.
Eh, Cchecco
mio? te la saressi cresa 8
una bbarbaria uguale de sta sorte?
Da un Prelato! A la porta d’una Cchiesa!
Semo arrivati
a un tempo, che la Corte
der Vicario de Ddio se chiama offesa
dar libberà un fratello da la morte!
Me maravijjo
assai de Bbardassarre,
che vvedenno er manone affumicato
ciannò a cchiama 2 Danielle! un disperato
che ne sapeva men de Putifarre.
Fussi
stat’io! in du’ parole marre 3
je l’averebbe 4 subbito spiegato.
Com’era scritto? Mane Tescer Fiarre?
Ce vvò ttanto? Domani
t’essce er fiato.
Che! fforzi
5 è una bbuscía? ma ccatterina, 6
me pare ch’er zor re dde Bbabbilonia
nun arrivassi 7 manco a la matina.
Un profeta ha
d’annà ssubbito ar quonia, 8
e nnò mméttese 9 a ffà ’na sciarlatina,
che ppo’ ar fin de li conti è una fandonia. 10
Quarche
vvorta la ggente de talento
spaccia cojjonerie ccusí llampante,
mastro Pio mio, che nnoi ggente iggnorante
manco nu le diressimo 2 a le scento. 3
Nun piú cche
jjeri a la Rescèli, 4 drento
la portaría, fra Ccommido 5 er cercante
ne seppe tirà ggiú ttant’e ppoi tante,
da fà scannalizzà ttutt’er convento.
Tra ll’antre
fotte 6 aggnede 7 a ddicce, 8 aggnede,
che sta canajja che nun crede in Dio
è un’Apostola 9 vera de la fede.
Dunque chi ha
ffatto er Credo, mastro Pio,
sarà adesso quer ch’è cchi nun ce crede!
Poterebbe parlà ppeggio un giudìo?
Torzetto
l’ortolano a li Serpenti 2
prometteva oggni sempre ar zu’ curato
c’a la su’ morte j’avería lassato
cinquanta scudi e ccert’antri 3 ingredienti.
Quanto, un
ber giorno, lui casc’ammalato
e ccurreveno ggià cquinisci 4 o vventi
tra pparenti e pparenti de parenti
a mmostrajje 5 un amore indemoniato. 6
Ecchete
7 che sse venne all’ojjo-santo;
e ’r curato je disse in ne l’ontallo: 8
«Ricordateve, fijjo, de quer tanto... »
Torzetto
allora uprí ddu’ lanternoni, 9
e jj’arispose vispo com’un gallo:
«Oggne oggne, 10 e nnu mme roppe 11 li cojjoni».
Eh, Mmuccio
mio, si 2 nun ce provi mai,
come vòi fà ffurtuna in ne l’amore?
Te l’ha da chiede 3 lei?! Tu ffàtte 4 core,
pròvesce 5 co ffranchezza, e vvederai.
Ecco, Muccio,
er conzijjo ppiú mmijjore
che tte pò ddà un amico che ttu hai.
Pròvesce: e cche ssarà? Ggià ttu lo sai
che ffra Mmodesto nun fu mmai priore. 6
Queste
sò 7 ccose che cce vò ttalento.
In ste sorte d’affari èssi 8 contrito
che tutto nassce da capí er momento.
La donna? Un
zartarello, 9 una bbevuta,
un crapiccio, una stizza cor marito,
pìjjel’allora, e tte la do ffuttuta.
Noi, se sa,
1 ar Monno 2 semo ussciti fori
impastati de mmerda e dde monnezza. 3
Er merito, er decoro e la grannezza
sò ttutta marcanzia 4 de li Siggnori.
A su’
Eccellenza, a ssu’ Maestà, a ssu’ Artezza
fumi, patacche, titoli e sprennori;
e a nnoantri 5 artiggiani e sservitori
er bastone, l’imbasto e la capezza.
Cristo
creò le case e li palazzi
p’er prencipe, er marchese e ’r cavajjere,
e la terra pe nnoi facce de cazzi.
E cquanno
morze 6 in crosce, ebbe er penziere
de sparge, 7 bbontà ssua, fra ttanti strazzi, 8
pe cquelli er zangue e ppe nnoantri 5 er ziere. 9
Dimme 2
cojjone a mmannà 3 ppiú Ffilisce 4
da quer zomaro llà dde don Nicola,
che mme l’ha ffatto addiventà un’alisce, 5
e intanto m’arimane una bbestiola.
V’abbasti mó
sta bbuggiarata sola
der zor maestro, che mmi’ fijjo disce
che ccert’antri 6 regazzi de la scòla
lui l’ha mmessi a studià ssu le radisce. 7
Ma cche
ddiavolo, cristo!, sce s’impara
da ’na radisce, o rrossa, o nnera, o bbianca?
che ppizzica e ffa ffà 8 la pisscia chiara.
Io me fo
mmaravijja der Zovrano,
che mmanna 9 a ffà la scòla un faccia-franca
nat’e ccreato pe mmorí ortolano.
Mó hanno
messo er piú fijjo granniscello 1
a la lingua itajjana. Oh ddi’, Bbastiano,
si 2 nun ze chiama avé pperzo er cervello
d’imparà l’itajjano a un itajjano.
Lo sento sempre
co un libbraccio in mano
dí: er fraggello, ar fraggello, cor fraggello,
der zovrano, er zovrano, dar zovrano:
e ’ggnisempre 3 sta storia, poverello!
Sarà
una bella cosa, e cquer che vvòi;
ma a mmé me pare a mmé cche ste parole
sò cquell’istesse che ddiscémo 4 noi.
Si ffussino
indiffiscile 5 uguarmente
come che ll’antri 6 studi de le scòle,
io nu ne capirebbe 7 un accidente. 8
Dunque, pe
ddíttela 1 a l’usanza nova,
all’unnisci 2 sò 3 ito cor padrone
a vvéde 4 addietr’a llui l’asposizzione
de li quadri a lo studio de Canova. 5
Crédeme,
6 Scricchio mio, che cce se trova
robba da fà vviení le convurzione.
Ma er piú cche mm’è ppiasciuto era un Cristone,
che ppoterebbe empí ttutta st’arcova.
Disce
c’arippresenta un mezzo bbusto
che l’ha ddipinto tutto cor pennello
un regazzotto che sse chiama Ugusto. 7
Er padrone scramava:
oh bbravo! oh bbello!
E io te ggiuro che cciò 8 avuto un gusto
piú cc’avessi aritrovo 9 mi’ fratello.
Stateme
bben’attente, che vve vojjo
spiegà cche ssò 1 li nuvoli, sorelle.
Sò ttante pelle 2 gonfie, ugual’a cquelle
che cqui a Rripetta 3 sce se 4 mette l’ojjo. 5
Me sò
ffatto capí? Ddunque ste pelle
s’empieno d’acqua e de tutto l’imbrojjo
de grandine e dde neve. Oh, mmó vve ssciojjo 6
er come Iddio pò ffà ppe sostenelle.
Iddio manna
7 li spiriti folletti, 8
che soffiannoje sotto co la bbocca,
li vanno a ssollevà ssopr’a li tetti.
Si in questo
9 quarche nnuvolo se tocca,
sce se fanno cqua e llà ttanti bbuscetti, 10
e allora piove ggiú, ggrandina e ffiocca.
E io? Nun
t’aricordi che rrisposta
che jje seppe 1 fà io? Sí ttu, ma io
j’aridisse tratanto er fatto mio,
come fussi una lettra de la posta.
Bbe’,
arrotavi: 2 ma ccorpo d’un giudio;
nu la fesce po’ io la faccia tosta? 3
Chi jje lo diede er puggno in d’una costa?
nu je lo diede io, sangue de ddio?
Ah, ttu ssolo
nun sformi? 4 e fforz’ 5 io sformo?
E ssi 6 ttu nner giucà stai a la lerta, 7
io me pozzo 8 avvantà 9 che mmanch’io dormo.
Io so cche
ïo co sta manina uperta
io pijjo er deto 10 che mme pare, e ll’ormo 11
io nu lo tiengo mai pe ccosa scerta.
Ha ppreso
mojje, sí, una bbella donna!
nò storta, ggnente guercia, ggnente gobba...
propio, in cusscenza mia, ’na bbona robba,
un fioretto in zur fà 1 dde la Ghironna. 2
È
cquella che nun maggna antro che bbobba 3
perch’ha ddato li denti a la Madonna:
quella che nnoi chiamàmio 4 a la Rotonna, 5
pe li cancheri sui, la ggnora Ggiobba.
Quella in
perzona: quella in carn’e in ossa.
E vve pare mó a vvoi che Ccefoletto
nun abbi trovo una furtuna grossa?
Oggnuno ar
monno tiè li fini sui:
e llui tiè cquello de godesse a letto
un fraggello che ssii tutto pe llui.
Com’è?
ddite davero, o ccojjonate? 2
Sete annata 3 de casa a li Leutari?! 4
Nun tienete ppiú ll’antra 5 a li Ssediari
che 6 vve pagava la piggione er frate?!
Nun abbitate
piú ccome st’istate 7
in quelli stanziolini tanti cari,
dove fascévio 8 tanti bboni affari
a un testone 9 pe vvisita e sscialate?
Prima credo
però dd’èsseven’ 10 ita,
da st’antra donna che cc’è entrata adesso
ve siate fatta dà lla bbon’usscita. 11
Perché, a ddí
poco, ar meno un zei pe ccento
voi ve lo meritate, sora Ghita, 12
a ttitolo de posto e d’avviamento.
La
lègge a Rroma sc’è, 2 ssori stivali:
io nun ho ddetto mai che nun ce sia:
ché er Governo ha ttrescent’una scanzia
tutte zeppe de bbanni-ggenerali. 3
E mmanco
vederete caristia
d’abbati, monziggnori e ccardinali
giudisci de li sagri 4 tribbunali,
da impiccavve 5 sur detto d’una spia.
La mi’
proposizzione è stata questa,
c’un ladro che ttiè a mmezzo chi ccommanna
e ccià 6 donne che ss’arzino la vesta,
rubbassi
7 er palazzon de Propaganda, 8
troverete er cazzaccio 9 che l’arresta,
ma nun trovate mai chi lo condanna.
Nonziggnora:
sta vorta, 1 sora Nina, 2
fate quivico 3 voi. Sentite er fatto,
e vvederete poi ch’è un cazzo-matto
che mmerita d’annà a la Palazzina. 4
La cosa sta
accusí: jjer’a mmatina
monziggnore me fesce ammazzà er gatto,
perch’era ladro, e annava quatto quatto
a rrubbajje la carne de cuscina.
Nu lo sapeva
lui ch’er gatto mio
pativa de quer debbole, com’hanno
tutti li gatti c’ha ccreat’Iddio?
Mentre de
ladri cqua cce n’è un riduno 5
che rrubbeno quadrini tutto l’anno,
e nnun je disce mai ggnente ggnisuno.
Largo, sor
militare cacarella: 2
uprimo 3 er passo, aló, 4 ssor tajja-calli:
ché sti nostri colori ner’e ggialli
nun conoschen’un cazzo 5 sentinella.
Sò
Ccasa-d’Austria, 6 sò, ddio serenella! 7
Dich’e abbadat’a vvoi, 8 bbrutti vassalli,
perch’io co sta carrozza e sti cavalli
pozzo entrà, ccasomai, puro in Cappella. 9
E ddoman’a
mmatina, sor dottore,
ciariparlamo 10 poi co Ssu’ Eccellenza
davant’a Monziggnor Governatore.
Guardate llí
ssi 11 cche cquajja-lommarda 12
da soverchià er cucchier 13 d’una Potenza,
e nun portà rrispetto a la cuccarda! 14
M’arrivò
inzino a ddí 1 un cherubbiggnere 2
che mmó lloro 3 li ladri, anche a ttrovalli 4
magaraddio sull’atto der mestiere,
nun ze 5 danno ppiú ppena d’acchiappalli,
perch’er
Governo se pijja er piascere,
carcerati che ssò, 6 dd’arilassalli; 7
e un ladro er giorn’appresso è un cavajjere,
che ffischia bbrigadieri e mmaresscialli.
Dimola 8
fra de noi, for de passione,
ner rissciojje 9 li ladri e ll’assassini
me pare ch’er Governo abbi raggione.
Li locali
sò 10 ppochi e ppiccinini,
e ssenz’ariservà cquarche ppriggione
dov’ha da mette 11 poi li ggiacubbini?
Fra ttutti
quelli c’hanno avuto er posto
de vicarj de Ddio, nun z’è mmai visto
un papa rugantino, un papa tosto, 1
un papa matto, uguale a Ppapa Sisto. 2
E nun zolo
è dda dí cche ddassi er pisto 3
a cchiunqu’omo che jj’annava accosto,
ma nnu la perdonò nneppur’a Ccristo,
e nnemmanco lo roppe 4 d’anniscosto. 5
Aringrazziam’Iddio
c’adesso er guasto
nun pò ssuccede 6 ppiù cche vvienghi un fusto 7
d’arimette 8 la Cchiesa in quel’incrasto. 9
Perché nun ce
pò èsse 10 tanto presto
un antro 11 papa che jje pijji 12 er gusto
de méttese 13 pe nnome Sisto Sesto.
Stammatina, a
Ssampietro, a ssedisciora, 2
sc’è 3 nnata una bbellissima bbaruffa,
perché un zantaro strillava de fora:
«Scinque Santi a bbaiocco, e ’r Papa auffa». 4
Defatti,
5 cazzo, è una gran cosa bbuffa
quella che ss’abbi 6 da permette 7 ancora
una bbusciarderia che ssa dde muffa,
dove er Zovrano maggna e nnun lavora.
Va auffa er Papa? Auffa un par de palle.
So
cch’er Concrave de Papa Grigorio
ce costò bbone bbajocchelle ggialle.
Pe cquesto la
stampijja der zantaro
era un bravo limbello inframmatorio, 8
d’abbruscialla 9 pe mmano de notaro.
Ne l’usscí
dda la cchiesa, appena ho ttocco 1
co sto piede una sojja de scalino
vedo un coso 2 che lluccica: m’inchino...,
e ssapete ch’edèra? 3 era un majocco. 4
Io, de
raggione, nun fui tanto ggnocco
de lassallo 5 stà llí, nnò ssor Fillino?
Ma mmentre ero a rriccòjjelo, 6 un paíno 7
disse: «Furtuna e ddorme»: 8 e entrò a Ssarrocco. 9
Furtuna e ddorme!
io fesce: 10 eh nnun c’è mmale.
La furtuna l’ho pprova, 11 e ssarà mmejjo
che mmó pprovi er dormí cqui ppe le scale.
Oh
azzeccàtesce 12 un po’ cche cc’è de bbello
de sta furtuna mia? che mm’arisvejjo,
e mm’aritrovo llí ssenza cappello.
Nun te senti
a ssonà cche st’angonia 1
da l’abbati cor furmin’a ttre ppizzi: 2
«Fijji, trovate a ffaticà, ppe vvia 3
che ll’ozzio è ’r padre de tutti li vizzi.
Loro 4
penzino a ssé: ppe pparte mia
io l’aringrazzio de sti bboni uffizzi.
Io er giorno accatto, 5 e ppo’ a la vemmaria
pe ddormí, a Rroma, sce sò bboni ospizzi. 6
Jeri anzi un
prete ch’è ssempr’imbriaco 7
me fesce: 8 «Ar manco, 9 fijjo mio, lavora
pe ammazzà er tempo». Ma io me ne caco.
E
jj’arispose: 10 «Sor don Fabbio Sponga 11
ammazzatelo voi, perch’io finora
vojjo la vita che mme pari 12 longa».
Alegría, sú
1 cch’è ttardi: animo, fora.
T’arincressce d’arzatte 2 eh? tt’arincressce?
Vojjo propio vedé ssi tt’ariessce
de stà a lletto inzinent’ 3 a vventun’ora.
Nun zei tu er
gruggno de fà la siggnora
chi ddorme, bbella mia, nnun pijja pessce. 4
Portronaccia, essce 5 da quer letto essce:
di’ l’orazzione, 6 vèstete, 7 e llavora.
Guardate llí!
nnemmanco la vergoggna!
stà 8 a ccovà tuttaquanta la matina,
senz’arifrette 9 a cquer che ciabbisoggna. 10
Ma
attacchetel’ar deto, 11 Caterina;
ché ssi cce 12 provi ppiú, bbrutta caroggna,
te fotto 13 a ppan’e acqua ggiú in cantina.
L’animali lí
ssotto a cquer tettino
immezz’a la piazzett’a Mmonte-d’oro 1
fasceveno vedé ppuro 2 er castoro,
che cce se fa 3 ccor pelo er castorino. 4
E ddisceva un
custode cchiacchierino
che st’animali in ner paese loro
frabbicheno le case co un lavoro
che mmanco l’archidetto Bborronino. 5
Dunque,
siconno lui, 6 bbestie e archidetti
mo ssò 7 ttutt’uno, e cchi vvò ffà un palazzo
bbasta che cchiami un par d’animaletti.
Discessi
8 muratori, via, magara, 9
je lo perdonería: 10 quantunque, cazzo,
chi jje stampa lo schifo e la cucchiara?
A ttempi
ch’ero regazzotto, allora
ereno l’anni de ruzzà ccor vino:
ché sse fasceva er còttimo, ar Grottino, 1
de bbeve 2 a ssette e a ssei cuadrini l’ora.
E
mm’aricorderò ssempr’a Mmarino, 3
indove tutti l’anni annàmio 4 fora
d’ottobre a vvilleggià cco la Siggnora, 5
e cce stàmio 6 inzinent’ 7 a Ssammartino.
Llí nnun
c’ereno vini misturati
co cciammelle de sorfo, 8 e cquadrinacci, 9
e mmunizzione, 10 e ttant’arti 11 peccati.
Bevevio 12 un quartarolo, 13
e ddiscevio: 14 essci:
e er vino essciva: e vvoi, bbon prò vve facci, 15
’na pissciata, e ssinceri com’e ppessci.
Nò,
Zzinforiano mio, nun è ll’istesso.
Er vive 1 allora sarà stato bbello;
ma a sti tempi che cqui nnun è ppiú cquello,
una vorta c’arriveno a st’accesso. 2
Eh
Zzinforiano, un pover’omo adesso
è l’affare medemo 3 d’un aggnello
tra le granfie 4 der lupo: e ppe un capello 5
v’attarfieno 6 e vv’ammolleno 7 un proscesso.
Er pane,
è ccaro: er vino, un tant’a ggoccia:
la carne, Iddio ne guardi! e le gabbelle
ve tiengheno 8 pulita la saccoccia.
Co sto bber
9 governà dde nova stampa
che ne vonno de noi sino la pelle,
è un miracolo cqua ccome se campa.
Li teatri de
Roma sò ariuperti,
ciovè 1 la Valle 2 e ’r Teatrino Fiani. 3
In quanto a Ccassandrino 4 li Romani
dicheno a cchi cce va: «Llei se diverti». 5
Ma ppe la
Valle state puro 6 scerti 7
che mmanco se farebbe a li villani.
Madonna, che ccantà! ccristo, che ccani! 8
peggio assai de li gatti de Libberti. 9
Disce: la
terza sera nun fischiorno.
Chi aveva da fischià? li chiavettari?
Si 10 er teatro era vòto com’un corno!
Bbast’a ddí
cch’er Governo ha ssopportate
quattro sere de rajji 11 de somari,
eppo’ ha ddetto a Ppaterni: 12 Oh ariserrate. 13
Stante quer
terremoto de ruvina,
ch’er popolo li poveri cantanti
un po’ ppiú ll’ammazzava tutti quanti
co l’impressario appresso e la Reggina, 2
er Governo ha
mmannato 3 stammatina
li maestri Grazzioli e Ffioravanti 4
pe vvedé ssi ll’antr’ 5 Opera cammina
e ssi er teatro pò ttirasse 6 avanti.
Stiino dunque
contenti li romani,
ché cco ddu’ antri concertini soli
l’opera nova pò annà ssú ddomani.
St’antri
cantanti poi, disce Grazzioli
che ssi nun zò addrittura cani cani,
manco sò rrosiggnoli rosiggnoli.
Ggià
cche ssemo cascati in sto discorzo,
chi dde li nostri vecchi s’aricorda
che ssii vienuta mai l’idea bbalorda
de scirconnà dde chiavichette er Corzo? 1
Tratanto, pe
sto sfasscio, uno c’abborda
a le bbotteghe, ha da strillà ssoccorzo
s’un pontiscello ppiú stretto d’un torzo,
come che ffussi 2 un ballerin’in corda.
Nun c’era
prima er chiavicon de Fiano?
nun c’era er chiavicon de l’Incurabbili,
e ’r chiavicon der Colleggio Romano? 3
Nun bastaveno
ppiú ttre cchiaviconi,
bbellissimi, grannissimi e pparpabbili
peggio de tre ttrapassi de portoni?
Va’ in d’una
strada, indove sce se fa
cquarche gran scavo in de la terra, e ttu
vederai che ggnisuno sa ppassà
si nun z’affaccia e ssi nun guarda ggiú.
Che conziste
1 sta gran curiosità?
Nun è la terra ggiú ccome che ssú?
Cosa spera la ggente in quer guardà?
che sse scopri 2 er burrò dde Bberzebbú?
Ma
cquest’è ’r peggio ch’io nun zo ccapí,
che ssibbè 3 nnun c’è un cazzo da vedé,
invetrischeno l’occhi, e stanno llí.
Er monno
dunque è ppiú cojjon de mé
che mme ne sto su sta loggetta, e cqui
gguardo in celo le stelle e cquer che cc’è.
Nun te
pòi fà un’idea si cquanto, Rosa,
io rido a l’incontrà cquarche ccazzaccio,
che pportanno un ziggnore sott’ar braccio
je pare èsse lui puro quarche ccosa.
E nnun za
cch’er ziggnore s’ariposa
sopr’a la vita sua com’uno straccio;
e ssi jje ficca llí cquer catenaccio,
è ppe la su’ portronaria fecciosa.
L’onori, chi
li vò bben’acquistati,
se l’ha da fà da lui; e nnun bisoggna
gonfiasse 1 de st’onori appiccicati.
Ché l’onore
nun è ccome la roggna
che ss’attacca ar toccà. Lli strufinati
nun ve dànno né onore né vvergoggna.
Un confessore
vecchio e ttabbaccone,
che sse chiamava er padre Semmolella,
aveva fatto fà la su’ gratella
da oprí e cchiude siconno l’intenzione.
E cquanno
capitava in confessione
’na pinitente ggiuvenotta e bbella,
l’upriva adasciadascio, 1 e intanto quella
fasceva l’atto suo de contrizzione.
Quer
ch’imbrojjassi co ste donne er tristo
e ste donne imbrojjassino cor frate,
pe ddí la verità nnun z’è mmai visto.
Se sa ssolo
che ddoppo confessate
annaveno a l’artare a ppijjà Ccristo
co le labbra e le guance stabbaccate.
Quanto sete
curiale 1 mastr’Andrea!
Ma ppropio ve dich’io cche mme n’avete. 2
Una scittà 3 che cce commanna 4 un Prete
pò cconfettà 5 la nazzionaccia ebbrea?
Nu lo sapete
voi de cos’è rrea?
Nu ne sete ar currente, nu ne sete?
Si ccert’antichità nnu le sapete,
metteteve a sserví ll’abbate Fea. 6
Nun ve
sovviè dd’un certo tar 7 Carvario,
e dde scert’antri 8 fatti c’aricconteno 9
li quinisci misteri der rosario?
Studiate,
mastr’Andrea: fate da omo;
e imparerete che l’Ebbrei mó sconteno
quello c’aveva d’accadé pp’er pomo.
La santissima
Vergin’Annunziata,
inteso c’averebbe partorito,
se diede moto de pijjà mmarito
pe ffà ar meno quer fijjo maritata.
E nun stiede
1 a bbadà ttanto ar partito,
perché ggià la panzetta era gonfiata:
ma a la prima occasione capitata
stese la mano, e ffu ttutto finito.
Su cquesto
viè a cciarlà la ggente ssciocca.
Disce: «Poteva ar meno sposà cquello
che nun fascessi 2 bbava da la bbocca».
Nun dicheno
3 però cch’er vecchiarello
accant’a cquer pezzetto de pasciocca
j’arifiorí la punta ar bastoncello.
Ecchele!
1 sempre co le man’in mano!
Se le maggna l’accidia: le vedete?
Nun ze pò llavorà? ddunque leggete
quarche ccosa struttiva da cristiano.
Ciavéte tante
favole! ciavete
l’istorie che vv’ha ddato don Ghitano
de le vergine doppie, che cquer prete
disce che ppropio è un libbro da Surtano. 2
Vergine
doppie, sí: cche cc’è da ride?
vò ddí cch’è un libbro cc’ha ggran robba drento,
sore bbrutte crestose 3 cacanide. 4
Ma
ggià, vvojantre 5 nun capite un zero.
Sbeffate tutto, sore teste ar vento,
e ste cose se troveno davero.
Sor’Anna! e
cche mmiracoli? E cchi è stato
che vve scià 1 spinta? l’Angelo Custode?
Nun ze ne sa ppiú ppuzza! 2 Eh, ggià, bbeato
chi vve vede e ffilisce chi vve gode.
Guardela!
mejj’assai de l’an passato.
Tutte le sciafrerie... tutte le mode...
Oh vvoi potete dí dd’avé ppescato
quela luscertoletta de du’ code. 3
Vecchia?! eh
cche vecchia: vecchi sò li panni,
e nnò vvoi, che cchi ssa... cquarche bbamboccio
ggià a cquest’ora... Ch’edè? 4 vvoi scinquant’anni?!
Bbe’, e
cquesto che vvor dí? vvò ddí cc’ar monno
ggià vv’è ariusscito de votà un cartoccio, 5
e mmó da bbravi pe vvotà er ziconno. 6
Chi? er zor
Contino? Chi? l’amico novo
de la padrona, ossia de li padroni?
È una bborza co ttanti de cojjoni 1
piena d’oro e dd’argento come un ovo.
Mica ggnente
si è nnobbile! 2 Lu’ ha ttrovo 3
certe cartacce in certi credenzoni,
che ccanteno che vviè dda li bbaroni
effeccettera; e ggià cquesto l’ha pprovo. 4
Lui le lingue
der monno? le sa ttutte.
Parlà dd’asscenza 5 a llui?! Sete imbriache?
V’arisponne inzinenta ar zorreutte.
Lui viaggi?!
È stato all’Indie-pastinache,
ne la Rabbia-petrella 6 e in Galigutte, 7
a rrimette le corna a le lumache.
La mi’
padrona? eh! cchi nun j’arispetta 2
la su’ caggnola de razza martesa, 3
sia puro chi sse sia, 4 pò ffà la spesa
de quattro torce e dd’una cassa stretta.
Lei? la caggnola?
ce va a la toletta,
se la tiè a lletto, se la porta in chiesa...
inzomma, via, chi incontra la Marchesa
è ccerto d’incontrà la caggnoletta.
Bbisogna vede
5 li bbasci, bbisoggna
sentí le parolette che jje disce:
e la ladra, e la bbirba, e la caroggna...
Dove se
pò ttrovà un amore come
quel’amor che cce porta, sor Filisce,
a mmette 6 a una bbestiola er nostro nome?
Córpa 1 sua. E pperché llui nun ze
2 spiega?
Pe cche rraggione l’antra sittimana
rispose ar mi’ discorzo in lingu’indiana
quanno me venne a vvisità in bottega?
Dico: «Diteme
un po’, ssor dottor Bréga,
pò ffà mmale er cenà, cco la terzana?».
Disce: «Abbasta sii robba tutta sana,
tu ppòi puro 3 scenà; cchi tte lo nega?».
Me maggnai
dunque sano 4 un paggnottone
casareccio, un zalame, ’na gallina,
’na casciotta, un cocommero e un melone.
Lui, cazzo,
aveva da parlà itajjano,
e rrisponneme 5 a mmé cquela matina:
maggna robba inzalubbra, 6 e vvàcce 7 piano.
C-a-cà,
r-i-rí, ccarí, n-a-nà, ccarina,
v-e-vè, n-i-ní, vení t-e-tè, venite
d-o-dò, m-a-mà, domà, n-i-ni... 1
ssentite?
me disce 2 c’ho dd’annacce 3 domatina. 4
S-o-sò,
l-a-là, sola. Capite?
Monziggnore me vò, 5 zzi’ 6 Caterina,
sola, come sciannava 7 la spazzina 8
prima c’avess’er posto a le Pentite. 9
Lui
m’averà dda dì cquarche pparola
che nun avete da sentilla 10 voi,
epperò scrive che cce vadi 11 sola.
Lassàtemesce 12 annà,
13 zzia mia, ché ppoi
si mm’arigala 14 ar ritornà dda scòla 15
ce spartimo 16 er rigalo tra de noi.
Misure Quantità Versi scanditi Sillabe |
JAMBO ¡ ¯ cecà er vuevè en deodò em 1. 2. |
JAMBO ¡ ¯ rirì ninì mamà 3. 4. |
JAMBO ¡ ¯ carì en venì doma en 5. 6. |
JAMBO ¡ ¯ nanà teetè ninì 7. 8. |
JAMBO ¡ ¯ cari veni doma 9. 10. |
CESURA + na, te ni. 11. |
v. 1 v. 2 v. 3 |
Misure Quantità Verso scandito Sillabe |
ANFIMACRO ¯ ¡ ¯ essosò 1. 2. 3. |
ANFIMACRO ¯ ¡ ¯ ellalà 4. 5. 6. |
DATTILO ¯ ¡ ¡ sola. Ca 7. 8. 9. |
SPONDEO - + pite? 10. 11. |
v. 5 |
Nun te fa
ccompassione eh? cciorcinata! 2
Ma ssi 3 ssapessi tutte le su’ pene...
che a fforza de dà vvia, 4 nun j’è arrestata 5
una goccia de sangue in de le vene!...
Chi ssciala
6 sai chi è? Ssai chi sta bbene?
La zia scèca 7 e la sòscera 8 ammalata.
Quelle davero hanno le case piene;
ma nnò llei, no la povera Nunziata.
Lei, poverella, da sí cch’er marito 9
fesce pe ccausa de le su’ puttane
l’accessione 10 de bbeni e annò ffallito,
nun ce se vorta
11 a cconzolalla un cane!
E cce sò 12 ggiorni che mmanco 13 ammuffito
14
pò ddí 15 la sera com’è ffatto er pane.
Prima
d’Adamo, senza dubbio arcuno
er ceto de le bbestie de llà ffori
fascéveno 1 una vita da siggnori
senza dipenne un cazzo 2 da ggnisuno.
Ggnente
cucchieri, 3 ggnente cacciatori,
nò mmascelli, 4 nò bbòtte, nò
ddiggiuno...
E rriguardo ar parlà, pparlava oggnuno
come parleno adesso li dottori.
Venuto
però Adamo a ffà er padrone,
ecchete 5 l’archibbusci e la mazzola,
le carrozze e ’r zughillo 6 der bastone.
E cquello
è stato er primo tempo in cui
l’omo levò a le bbestie la parola
pe pparlà ssolo e avé rraggione lui.
Fatto Adamo
padron de l’animali,
incominciò addrittura a arzà l’ariaccia. 1
Nun zalutava, nun guardava in faccia...
come fussino 2 llà ttutti stivali.
Nun
c’er’antro 3 pe llui che ccan 4 da caccia,
caval 5 da sella, scampaggnate, 6 ssciali, 7
priscissione 8 coll’archi trionfali,
musiche, e ccianerie 9 pe la mojjaccia. 10
E l’animali,
a ttutte ste molestie,
de la nescessità, ccome noi dimo, 11
fasceveno vertú, ppovere bbestie.
Nun ce fu cch’er Zerpente, che, vvedute
tante tiranneríe, disse p’er primo:
«Mó vve bbuggero io, creste futtute».
Er
Padr’Abbate de Grottaferrata, 1
fratozzo bbianch’e rrosso e bbadialone,
in circa un anno fa ppe ccolazzione
j’appoggiorno una bbona archibbusciata.
De quella nun
morí, cché ssan Nilone 2
stornò la bbotta e nnun je fu azzeccata:
ma ppo’ invesce schiattò ppe ’na bbirbata 3
che jje seppe fà er Papa in d’un cantone.
E adesso er
Zantopadre in quer convento
fa ffà un bravo proscesso a la sordina 4
a cquanti frati che cce stanno drento.
Va’ a
indovinà cche ddiavolo d’intrecci 5
se saranno imbrojjati, eh Crementina?
Io, pe mmé, ddico: affari fregarecci.
Pagà
ddièsci scudacci de penale
io pover’omo che nun ciò 2 un quadrino!
io che nemmanco posso bbeve vino
antro 3 che cquanno vado a lo spedale!
Eppuro 4
me toccò a bbuttà un lustrino 5
pe ffamme stenne 6 drent’ar momoriale
le raggione da disse 7 ar tribbunale
de le Strade, indov’è cquell’assassino.
Je sce
discevo: «Monziggnore mio,
quanno Lei trova er reo, voi gastigatelo:
ma er monnezzaro nun ce l’ho ffatt’io».
E ssai che
mm’arispose quer Nerone?
«Questo nun me confínfera: 8 arifàtelo: 9
ch’io nun vojjo sentí ttante raggione». 10
Bra-man-do —
il — Rev-do — Ven-le 2— Mo-na-ste-ro
de — San-ti — Cos-ma virgola e — Da-mi-a-no
ven-de-re virgola o — af-fit-ta-re — un — pi-a-no
d’u-na — su-a — ca-sa virgola e — l’in-ti-e-ro
or-to virgola
il — qua-le — gi-a-ce — a — ma-no
man-ca virgola e — al — nu-me-ro — tre-zero 3
del — Vi-co-lo — Ster-ra-to — al — ci-mi-te-ro
di — San — Spi-ri-to virgola con — va-no
per — stal-la
punt’e vvirgola si — av-vi-sa
tut-ti virgola e — sin-go-li — as-pi-ran-ti
virgola che — do-ma-ni — al-la — pre-ci-sa
o-ra — d’o-re
— uno — sette 4— re-sta — in-gi-un-to
al — No-ta-ro — del — Lo-co — Sig. 5 — Bri-gan-ti... 6
Che sse vadi a ffà fotte, e mmetto er punto.
Pe ssapé er
pezzo de ggener’umano
potútose 1 sarvà ssenza bbattesimo,
guardate sur lunario in che mmillesimo
er Redentore entrò ddrent’ar Giordano.
L’istess’anno,
in ner giorno medemesimo 2
che Ggesucristo se fesce cristiano,
finí ar monno er Decaccolo 3 pagano,
e ccominciò a ddà ffora er Cristianesimo.
Tutt’er
gener’umano ch’era morto
sin’a cquer punto senza crede 4 in Cristo,
s’era sarvato e sse trovava in porto.
Ma dde li
morti da quer giorn’impoi,
o Ebbrei, o Turchi, o Fframmasoni, tristo
chi nun ha ll’acqua com’avemo noi.
No, ssor Luca
mio caro: du’ cassette
tutta-nosce, imbrunite e ffilettate,
nun ve le posso fà ssi 1 nun me date
la granne unisci scudi e ll’antra sette. 2
Men d’accusí
nnun ve le posso mette; 3
e ccredeteme a mmé cche ssò arrubbate. 4
Maa, 5 averete du’ cose arissettate 6
com’e ddu’ orloggi de Sacchesorette. 7
Voi vedete er
lavore; e ppoi sur resto,
ggiulio 8 ppiú, ggiulio meno, tra de noi
nun ce sarà cche ddí: nnun parlo onesto?
Dunque accusí
arrestamo. 9 Quella sciuca 10
l’averete oggi a otto, e ll’antra poi
pe ppasqua. Oh, arivedendosce 11 sor Luca.
Presto, a
ccena, per dio, bbrutte marmotte,
ché ddomani è la Santa Concezzione.
Nu lo sapete, vacche bbuggiarone,
ch’entra er diggiuno e cc’è la mezzanotte? 1
Ch’edè
sto lavorà? Cche mme ne fotte 2
si nun ze sarda 3 er mese de piggione! 4
Quer che mme preme a mmé è la riliggione,
e nnò un cazzo 5 er pagà, ssore miggnotte. 6
E ttu,
ccaroggna, allevi le tu’ fijje,
Cristo sagrato, senza dajje mano 7
a cconossce 8 le feste e le viggijje?
Quanno che
ssenti mentovà Mmaria,
disce la Santa Cchiesa a cchi è ccristiano,
nun dimannà ssi cche vviggijja sia. 9
Senti, senti
lo sposo che ppia 2 Checca 3
si 4 ccome se la gode e sse la canta.
Nun dubbità cc’azzecca bbene, 5 azzecca!
Lui canta, e cquella sona, eh sora Santa?
Bbisoggna che
l’acconcio, 6 e tutta-quanta
la bbiancheria c’ha llei, nova de zecca, 7
e ttant’artra su’ robba-de-l’ottanta 8
lui la credi piovuta da la Mecca. 9
Ma
ggià, un cardèo 10 che sposa una puttana,
che ha da capí? 11 Llui trova la paggnotta
bell’e ccotta e sfornata, e sse la sgrana. 12
Bada
però co sta sfornat’e ccotta,
sposino mio der tinche, 13 ché cchi spana 14
scerte grazzie de ddio 15 spesso se 16 scotta.
Che tte
discevo io de quello sposo
ch’er giorn’avanti de pijjà una galla 1
se credeva er piú omo furtunoso
pe la raggion de la paggnotta calla?
Bbe’,
ll’hanno fatto ggià ttonno-de-palla; 2
e affamato com’è, sporco e ccencioso,
si 3 nnun dorme la notte a Ssanta Galla, 4
manco ha una cuccia da pijjà rriposo.
La mojje
intanto, quella porca zozza, 5
co le mijjara de padron Cammillo
ride a le su’ miserie, e vva in carrozza.
E er Curato
che ffa? Bbisoggna dillo: 6
o è ’r re de li cojjoni, oppuro strozza; 7
perché oggn’anno bbattezza un codiscillo. 8
Pijjà
mmojje! e cche ccià? 2 ccià un par de monghi. 3
Co cquer tanto c’abbusca 4 in stamperia
in cammio de sazzialla 5 all’osteria
la pò abbottà de virgole e dditonghi.
Io je l’ho
ddetto a llei, che sse disponghi
a ccampà de sbavijji 6 e ccarestia,
e cche sse pò attaccà a ssanta Maria, 7
ma ffaranno le nozze co li fonghi. 8
E llei?
ggnente: cocciuta 9 com’un corno.
Lo vò, 10 ccredessi 11 de morí affamata.
Dunque, schiavo: se pijjino, 12 e bbon giorno.
E ssai cosa
je canta Mamma e Ttata,
e ttutti li viscini de cqua intorno?
«Servo, sora cucuzza-maritata». 13
Arifretti,
1 Costanza, che ssei mojje,
e, avenno 2 avuta ggià cquarche mmancanza,
si er bonificio 3 tuo nun z’arissciojje 4
è ssegno, fijja mia, de gravidanza.
Dunque,
abbada 5 a nnun stríggnete 6 la panza,
e nnu stàtte 7 a smarrí ppe un po’ de dojje.
E ccasomai te vieníssino vojje,
nun te toccà la faccia, 8 sai Costanza?
E ssi 9
vvai a Ssan Pietro, io te conzijjo
de díjje a la scappona 10 un paternostro
a la lontana ar men de mezzo mijjo.
E nun
guardàllo 11 mai quer brutto mostro,
c’avessi 12 Iddio ne guardi da fà un fijjo
moro come che llui ppiú de l’inchiostro. 13
Nun zapete
2 chi è mmorto stammatina?
È mmorto Repisscitto, 3 er mi’ somaro.
Povera bbestia, ch’era tanto caro
da potecce 4 annà in groppa una reggina.
L’ariportavo
via dar mulinaro
co ttre sacchi-da-rubbio de farina,
e ggià mm’aveva fatte una diescina
de cascate, perch’era scipollaro. 5
J’avevo
detto: nun me fa 6 la sesta;
ma llui la vorze fà, 7 pporco futtuto;
e io je diede 8 una stangata in testa.
Lui fesce
allora come uno stranuto, 9
stirò le scianche, 10 e tterminò la festa.
Poverello! m’è ppropio dispiasciuto.
Sor Eluterio
1 mio, tutti st’inferni
c’ardeno 2 le scittà dda cap’a ffonno,
succedeno pe vvia 3che li Governi
ciànno 4 gusto, e ssò lloro 5 che li vonno.
E accusí
ddopp’er primo viè er ziconno,
e oggni ggiorno diventeno ppiú eterni:
quanno, 6 senza spregà ttanti quinterni
de carta scritta, pò aggiustasse 7 er monno.
Lo saperebbe
8 io, sor Eluterio,
er rimedio sicuro che ssan-brutto 9
rissetterebbe 10 l’ossi ar cimiterio.
Eccolo in du’
parole assciutt’assciutto. 11
Bbisoggnerebbe penzà un po’ ssur zerio 12
a cquer che sse pò ffà ppe aggiustà ttutto.
Oggi a
ppiazza-colonna verzo sera
passava in biga cor giacchetto 2 addietro
er fratel de quel’antro 3 c’a Ssan Pietro
porta er Papa p’er naso, e ffa pprimiera. 4
Quanto 5
je se fa avanti tetro tetro
un pezzo d’omo 6 co una faccia nera,
e jj’intona: «Ah, avanzaccio de galera,
te vojjo sfraggne 7 er muso com’un vetro».
Eppoi
cià aggionti 8 tant’antri 9 malanni
de sto calibbro, che, ffuss’io 10 quer tale,
nun me voría 11 trovà nne li su’ panni.
Perch’è
mmejjo a ssoffrí cqualunque male,
è mmejjo a mmannà ggiú 12 ttutti l’inganni,
che inzurtà in piazza un cammerier papale. 13
Lei
crederà, mmilordo, che la ggente
che ggià ha pijjato pasqua, o cche la pijja,
sii tutta ggente che ss’ariconcijja
de core co Ddio padre onipotente.
Eppuro la
faccenna va artrimente,
e ne stamo lontani mille mijja.
Cqua, appena li bbijjetti 2 sò in famijja,
servo, sor Dio; nun ze ne fa ppiú ggnente.
La fia 3
fotte, la madre je tiè mmano,
la serva rubba, l’usuraglio strozza,
e l’impiegato bbuggera er zovrano.
La medema
onestà, ll’istessa stima, 4
le solit’arte pe mmarcià in carrozza:
tutto inzomma arimane com’e pprima.
’Ggni momento
una nova, 1 padron Diego!
’ggni ggiorno je se smoveno 2 antre vojje.
Facci un po’ cquer che vvò, cch’io me ne frego
acquasi ppiú de lui che dde mi’ mojje.
Mó adesso a
l’improviso je se ssciojje 3
de trottà a Ttivoli, e ffà ppoi lo sprego 4
d’annà a Ssubbiaco 5 e ccurrese a rriccojje 6
pe ccinque ggiorni o ssei ner zagro spego. 7
E accusí ppe
ste su’ villeggiature,
pe st’esercizzi sui, 8 lassa 9 er governo
in man de scerte sorte de figure.
Forzi 10
lui spererà ddrent’a l’interno
de quela grotta e in quele sante mure
d’arrubbà cquarche llume 11 ar Padr’Eterno.
E a vvoi da
bbravi! 1 Cavajjeri jjeri,
cavajjer oggi, e ccavajjer domani!
E ssempre cavajjeri: e li sovrani
nun zanno antro che ffà cche ccavajjeri.
Preti, ladri,
uffizziali, cammerieri,
tutti co le croscette a li pastrani. 2
E oramai si 3 le chiedeno li cani,
dico che jje le danno volentieri.
S’incavajjèra
mó cqualunque vizzio:
vojjo ride però, cco ttanto sguazzo 4
de cavajjeri, ar giorno der giudizzio.
Quanno che
Ggesucristo, arzanno 5 er braccio,
dirà: «Ssiggnori cavajjer der cazzo,
ricacàte 6 ste crosce, 7 e a l’infernaccio».
Ma eh? cche
spesa! appena me l’ideo! 1
Tre ppiastre un sciallo ch’è una tel-de-raggno! 2
Ggnentedemeno 3 c’ha ppreso el còmpaggno
la governante del zor don Matteo!
E mme lo
confessò ppuro 4 l’ebbreo
che llui nun cià 5 un bajocco de guadaggno.
Pe ffortezza poi... disce ch’è fustaggno, 6
e cche ppe mmoda, se pò ddà al museo.
Me lo capisco
inzin da mé, cc’a spenne 7
ciò ppropio la paggnotta 8 e ffo pprodiggi:
e la robbaccia a mmé nnun me se venne. 9
Eh, ss’io
fussi una donna de quadrini!
M’abbasterebb’er core a li luviggi
fàjje fà la figura de zecchini. 10
Firenze,
Signor Giacomo Ginori.
Le due casse, condotta Pietro Vico,
porcellane mi giunsero; ma, amico,
enormi prezzi e pessimi lavori.
Tanto in genere. In specie poi vi dico
quanto ai campioni due, vasi da fiori,
mal dorati, bruttissimi colori,
poca solidità, disegno antico.
Ricevuta la
lettera 2 vi scrivo,
ponetene sei scudi a mio dovere
diffalcando in fattura l’eccessivo!
E accusandovi
ben condizionati
i colli, sono al vostro buon piacere,
Roma 6 Luglio 32. Cagiati.
Ma llei gli
osservi se cche vvasi! Costa
piú il porto a mmé, cche a llei tutto il campione.
Non si lasci sfuggir quest’occasione,
ch’io glieli do pper acquistar la posta. 2
Colori a
ffuoco, ggiàa, 3 smalto di crosta: 4
glieli mantengo io, siggnor Barone,
per porcellana vera del Giappone,
fabbrica di Pariggi e ffatti apposta.
Venti scudi,
dio mio!, valgono a ppeso.
Che bbei due capi! Lei, caro siggnore,
bbenedirà il danaro che ccià 5 speso.
Mi
maraviglio. Io glieli mando a ccasa,
e llei dopo a ssuo comodo... Ho l’onore:
servitor suo: mi favorisca spesso.
Jjeri er
padrone mio crompò 2 ddu’ vasi
dipinti a ttinta verde e oro ggiallo,
che ssenza le campane de cristallo
je sò ccostati venti scudi o gguasi. 3
Anzi li
chiama lui rari sti casi,
ché vventi scudi vale uno a bbuttallo:
quantunque er conte Rubbi e ’r dottor Gallo 4
nu ne pareno troppo perzuasi.
Tu ssai si
5 ppe ccontratti sce sò 6 ometti
da mett’appetto 7 a cquelli du’ siggnori,
che rraschieríeno 8 er lustro a li papetti. 9
Dicheno
dunque che sti vasi iggnudi,
ciovè 10 ssenza campane e ssenza fiori,
ponno ar giusto valé ttredisci scudi.
Appena san
Francesco se 2 fu accorto,
avenno 3 inteso scircolà una vosce,
der 4 come Ggesucristo morí mmorto
tutt’inchiodato e ccroscifisso in crosce,
penzò
un tantino e sse n’aggnéde 5 all’orto;
e llí sse messe 6 a ddí ssott’a una nosce: 7
«Oh ttoccassi 8 a mmé ppuro 9 er ber 10
conforto
de sopportà un dolore accusí atrosce!»
Era mejjo pe
llui, co ste volate, 11
che ffascessi 12 li conti senza l’oste; 13
ma ll’oste sc’era, e ddiede gusto ar frate.
E llui ccusí
dda scert’arme anniscoste 14
ciabbuscò 15 ccinque bbelle stillettate,
a le mano, a li piedi, e in de le coste.
È
ariscappata fòra un’antra santa,
bbattezzata pe ssanta Filomena:
che de miracoloni è ttanta piena,
che in men d’un crèdo 2 ve ne squajja 3 ottanta.
Quello poi
ch’è una bbuggera ch’incanta
è cche li fa ppe bburla, ch’è una sscèna!
A cchi annisconne 4 er pranzo, a cchi la scéna... 5
e ttant’antri 6 accusí, nnòvi de pianta.
Mó la senti
viení, mmó ttorna vvia:
mó tte se mette a rride 7 accap’al letto:
mó tte fa cquarcun’antra mattería.
Dicheno
ch’è una santa, e ll’hanno detto
puro 8 li Preti; ma ppe pparte mia
io la direbbe 9 un spirito folletto.
Sia
bbenedetto li Papa Leoni,
e ssin che cce ne sò, 2 Ddio li conzoli;
c’ha llibberato li nostri fijjoli
da st’innoccolerie 3 de vormijjoni. 4
Vedi che
bell’idee da framasoni
d’attaccajje 5 pe fforza li vaglioli
pe ffajje arisvejjà 6 ll’infantijjoli 7
e stroppiàcceli 8 poi, come scroppioni! 9
Iddio
scià 10 mmessa la Madre Natura
su st’affari, coll’obbrigo prisciso
de mannà 11 cchi jje pare in zepportura. 12
Guarda mó,
ccazzo!, pe ssarvajje 13 er viso
da du’ tarme, 14 se 15 leva a una cratura 16
la sorte d’arrobbasse 17 er paradiso. 18
Le
campàn 1 de le cchiese, sor Grigorio,
sò 2 dde metall’infuso 3 e bbattezzate,
e vve fanno bbellissime sonate
a cchi ha cquadrini da pagà er mortorio.
Nun
c’è ddiasilla, o pprego, o rrisponzorio 4
che, ar modo che le cose sò aggiustate,
pozzi mejjo d’un par de scampanate
delibberà cchi ppena in purgatorio.
Da la
condanna ch’er bon Dio je diede
je se ne scala un anno pe oggni tocco,
e ggiacubbino sia chi nnun ce crede.
E ppe cquesto
quassú, cchi nnun è ssciocco,
ner morí llassa l’obbrigo a l’erede
che jje ne facci dà ttanti a bbajocco.
È
ppropio vero, è ppropio vero, Santa,
ch’er monno s’è svortato. E nnu lo senti
che llui tira le bbòtte a li serpenti,
e l’archibbuscio suo nun je s’incanta?
Cent’anni
fa... ma cche ccent’anni!, ottanta...
dínne meno: quaranta, trenta, venti,
diescianni addietro, st’ommini imprudenti
staveno freschi! e mmó llui se n’avvanta. 1
Una serpa,
una lipera, un cerviotto, 2
c’ammiravi o ppe tterra o ddrent’a un búscio, 3
t’inciarmava 4 la porvere de bbotto. 5
E nnun
c’er’antro 6 pe vvieninne 7 a ffine
che ccaricà lo schioppo o ll’archibbuscio
cor nome de Ggesú ssu le palline.
È
mmorto er gran cerusico Stramonni:
e lo Spedàr de la Conzolazzione 2
nun ze pò cconzolà dda la passione
che jje scià 3 ffatto ggià perde li sonni.
Oh cquello
era davero un omminone
de studi profonnissimi e pprofonni!,
che ssi 4 ar monno vieniveno du’ monni,
guariva a ttutt’e ddua la scolazzione.
Nun ze
trovava a Rroma antro cerusico
che conoscessi 5 mejjo la maggnèra 6
de crastà 7 un galantomo e ffàllo 8 musico.
Tiggne,
roggne, sassate, cortellate...
annàvio 9 da Stramonni, e bbona sera:
v’ereno in quattro zompi 10 arimediate.
Si 2
dda du’ ora inzino a ssei d’istate,
e in ne l’inverno inzin’a ssett’e a otto,
voi sentite pe strada un giuvenotto
sorfeggià mmille ariette sfiorettate,
tramezzo a
ttanti trilli e sgorgheggiate
potete puro 3 dí: «Cquer musicotto
ha una pavura che sse 4 caca sotto»;
e er grancio, ve dich’io, nu lo pijjate. 5
Jerzera uno
cantava a la Missione: 6
«Alesandro che ffai?», 7 e all’aria bbujja
se sentí rrepricà: «Ccaco un boccone».
Avete visto mai
ladro e ppatujja?
accusí llui: pijjò, ccristo, un fugone,
che annò a sbatte le corna in de la gujja. 8
Chi
ttiè la robba de quer prete morto,
d’adess’impoi, cor cedolone àscido
c’ha attaccato pe Rroma er zor don Prascido, 1
sta ffresco come la scicoria d’orto.
Ché scórto
2 l’asso 3 d’otto ggiorni, scórto,
er Papa cor zu’ santo bbeneprascido 4
lo condanna addrittura a mmorí ffrascido, 5
senza che pprima se ne fussi accorto.
La scummunica
è uguale ar marfrancese,
che tte penetra l’osse a la sordina,
e tte manna a fà fotte 6 in men d’un mese.
Chi
ssarà ll’animaccia ggiacubbina,
che nnun ridii 7 le cose che ss’è pprese
doppo der cedolon de stammatina? 8
Gusto sce
l’averebbe io, 1 sor Topaj, 2
che Rroma tra cqualunque priscipizzio
campassi 3 inzino ar giorno der giudizzio
e ppuro 4 un po’ ppiú in là ssi ccasomai. 5
Ma ssempre ha
ttorto marcio er zor don Tizzio,
che la preposizzione 6 c’avanzai
ner dí cche sta scittà ppò ppassà gguai,
sii dilitto d’annàcce 7 a Ssant’Uffizzio.
Dunque, pe
llui, la riliggione e Rroma
sò ddistinate inzieme a una cascata
come cascheno l’asino e la soma?!
Dunque la
riliggione a st’abbatino
nun je pò arregge si nun è affonnata 8
sopr’a Ppiazza-Navona e ar Babbuino?! 9
«Mattia! chi
bbestie sciai 1 nell’Osteria
che sse senteno 2 urlà ccome li cani?»
«Sciò 3 l’Arcàdichi 4 e Argòlighi
5 romani,
che un po’ ppiaggneno e un po’ ffanno alegria». 6
«E cche
vvò ddì Arzigoghili, Mattia?»
«Vò ddì: ggente che ssa; bboni cristiani,
che ssull’arco dell’Arco-de-Pantani
te sce ponno stampà una libbraria».
«Ma cqui cche
cce sta a ffà ttutta sta soma
de Cacàrdichi o dd’antro 7 che jje dichi?»
«Fa una maggnata perch’è nnata Roma». 8
«Ahà,
9 ho ccapito: sò li Santi-Petti,
che ttra lloro se gratteno, 10 e l’Antichi
li suffragheno a ffuria de fiaschetti». 11
In morte di
Geronimo nostro
O
Santi-petti, o primi arcadi eroi,
d’ogni savere
e gentilezza ostello,
in cui lodiam
quanto di raro e bello
formar seppe
Natura e prima e poi:
spenta
è la luce che mostrava a noi
carità
benedetta di fratello
sulla omerica
fronte ove il suggello
fu di spregio
d’ognun fuor che di voi.
Levate alto
gli omèi, le genitali
blandizie
vostre, e i modi lusinghieri
onde fra voi
vi divolgate uguali.
E come
già rendeste allo Alighieri,
date
suffragio a lui di Parentali
fra il
pianto, rosolacci ed i bicchieri.
Ricconta
l’ortolano de li Frati
de Sant’Alèsio sur Monte Ventino,
che ll’Argògoli 2 c’oggi 3 sce sò 4
stati
a esartà 5 Rroma co ppietanze e vvino,
cerconno
6 tutto jjeri affaccennati
da qualunque scurtore o scarpellino
una Lupa da espone 7 a l’invitati
ner posto che sse 8 pianta er trïonfino.
Ma ppe cquanto
ggirassino, 9 fratello,
sto ritratto de Roma (nescessario
dove se maggna) nun poterno avéllo. 10
Però,
in zu’ vesce 11 e cco ggnisun divario,
j’ha sservito bbenissimo er budello
de Su’ Eminenza er Cardinal-Vicario. 12
Oh Farzacappa,
oh Gazzoli, oh Dandini, 1
vedéssivo 2 li nostri Cardinali
come staveno attenti co l’occhiali
a gguardà l’improvisi 3 a li Sabbini? 4
E cquanno
inciafrujjorno 5 scerti tali
quelli lòro ingergacci 6 de latini,
li vedévio 7 a ddà ssotto co l’inchini
pe nun fàsse conossce 8 pe stivali?
E cquanno
quer povèta scarzacane 9
strillava evviva Roma, eh? ccome allora
s’ammazzaveno a sbàtteje le mane! 10
Pe
llòro infatti bbenedetta l’ora
ch’è nnata Roma a rrigalajje 11 un pane
arrubbato a cchi ppena e a cchi llavora.
S’io vojjo
fà una bbona colazzione,
empio la notte un bicchier d’acqua pieno,
opro li vetri, 1 lo metto ar zereno, 2
eppoi vado a rronfà ccome un portrone.
La matina che
vviè, ppijjo un cantone
de paggnotta arifatta 3 (che ppiú o mmeno
fo avanzamme 4 la sera quanno sceno), 5
l’inzuppo, lo pasteggio, 6 e sto bbenone.
Che
vvòi sentí! caffè, ggramola, 7 panna, 8
zabbujjone, 9 spongato, rossi-d’ova?
te sa dd’oggni sapor come la manna.
Domani, Nanna
mia, tu vviemme a ttrova, 10
e ssenza tanti comprimenti, Nanna,
tu ssentirai ’na colazzione nova. 11
Ch’è
stato? uh quanta ggente! E cch’è ssuccesso?
Guarda, guarda che ffolla ar Conzolato! 1
Volémo dí cche cc’è cquarc’ammazzato?
Nò, ssarà un ladro co li sbirri appresso.
Pò
èsse forzi 2 che sse sii incenniato...
ma nnun ze vede fume. O ssii ’n ossesso?
Ah, nnemmanco, pe vvia c’ar temp’istesso
tutti guarden’in zú. 3 Dunque ch’è stato?
S’arivòrteno
4 mó ttutti a mman destra...
Vedi, arzeno le mane. 5 Oh! ffussi un matto
che sse vojji bbuttà da la finestra!
Rideno!... Oh
ccristo! je vienghi la rabbia!
nu lo vedi ch’edè? 6 Ttutto er gran fatto
è un canario scappato da ’na gabbia.
Un lustrino
2 li scèfoli?! Un grossetto 2
li merluzzi in ste razze 3 de ggiornate?!
Attaccàtesc’er voto, 4 sor pivetto, 5
che vvoi, questi che cqui, nnu li cacate.
Oh
ffàteme er zervizzio, annate in ghetto
a ccontrattà cco li par vostri, annate; 6
e cquanno avete er borzellino agretto,
scerte grazzie-de-ddio nu le guardate.
Puzza?! Ve
puzzerà un tantino er culo.
Lo sapete pe vvoi quello c’odora?
Un frittarello de cojjon de mulo.
Guardate si
7 cche stommichi da pessce!
Maggnate la pulenta; e ccusí allora
vederete ch’er pranzo v’arïessce. 8
Cari
cristiani mii, de le tre mmute 1
de peccati mortali cor pistello, 2
er piú ppeccato prencipale è cquello
de la disperazzion de la salute.
Spesso, in
punto de morte, io ho vvidute
animacce ppiú nnere d’un cappello
aritirate su pper un capello
ar momento llí llí dd’èsse futtute. 3
Nun
c’è peggio assassino o sgrassatore,
che nun possi abbrillà 4 ccom’una stella
pe la misericordia der Ziggnore.
E un Beato
Leonardo, p’er zu’ tanto
disperà nne l’affar de Gammardella,
nun ze poté ssarvà, bbello che ssanto. 5
O ssiino du’
Scozzesi, o ddu’ Scozzoni,
in tutte le maggnère 2 èssi 3 contento
ch’è un gran piccolo 4 seggno de talento
quer méttese 5 a ggirà ssenza carzoni.
Dunque ar
paese de sti du’ porconi
bbisoggna dí cche nun ce tiri vento;
perché, ssi cce tirassi, 6 oggni momento
j’annerebbeno in mostra li cojjoni.
E un Papa che
cconossce le creanze
s’è ppotuto arisorve 7 a ddà l’udienza
a sta sorte de manichi-de-panze? 8
A rrisico,
9 per dio!, ch’in zu’ presenza,
ne l’inchinasse 10 o in antre scircostanze,
j’avessino da fà cquarche schifenza!
È
ttanto vero ch’er Papa è Mmonarca
fin de Ggerusalemme e cce commanna,
ch’io co st’orecchie ho inteso a Ppropaganna 1
che llui sempre sce 2 nomina er Padriarca.
«Dunque»,
disce, 3 «perché nnun ce lo manna 4
come manna li vescovi a la Marca?».
Perché cce sò li turchi e nnun cià 5 bbarca
da fàllo straportà, 6 ssora Susanna.
Anzi er Papa,
sentitesce 7 Don Zisto,
è ccapo urbisi e ttòrbisi, 8 inzin dove
sò ccapi er Padr’Eterno e Ggesucristo.
V’abbasta, o
vv’abbisoggneno antre 9 prove?
Tristo cului che sserra l’occhi! Tristo
chi nun capissce mai scinqu’e ttre nove!
Voi, sor
abbate, 2 sti duscento scudi
l’avete da caccià ccome un ziggnore.
Chi vve scià 3 ffatto fà ggovernatore
senza manco la fede 4 de li studi?
Nun fui io
ch’inventai a Mmonziggnore 5
c’avévio 6 mojje e cquattro fijji iggnudi?
Io bbisoggna er campà cche mme lo sudi
io povero cristian de servitore.
A mmé er
padrone nun me dà ssalario;
e li rigali de le grazzie poi
l’ho ppuro 7 da spartí ccor zegretario. 8
Voi che
ddiscévio? 9 «A ccose terminate
Duscento piastre, Checco, 10 sò 11 pper voi».
La nomina sta cqui? ddunque pagate.
Caro lei, va
a ttentà li capoccioni, 2
e ffiotta 3 poi si jj’arïessce 4 male?!
Cqua ppe sti ggiri 5 sce sò 6 le su’ scale
come da le suffitte a li portoni.
Offerenno
7 zecchini e ddobboloni
addrittura ar zoggetto prencipale
che ttiè in mano la penna ar Cardinale,
c’è dd’abbuscasse un carcio 8 a li cojjoni.
Er
Zegretàr-de-Stato 9 ha er zu’ mezzano:
questo ha er zuo: l’antro un antro; e la strozzata
s’ha da spiggne 10 a l’inzú dde mano in mano.
Er piú
ggrosso, se sa, nnaturarmente
se vò ssempre tené a la riparata 11
de poté ddí cche nnun ha avuto ggnente.
Che
ccos’è un frate? Un frate è un ciarafano 1
morto ar Monno, a la carne, a le ricchezze,
ar commanno, a li spassi, a le grannezze,
e oggnantra spesce 2 de conzorzi’umano.
E un omo de
sta sorte ste capezze
de Cardinali lo fanno sovrano,
padron de tutti, co le casse in mano,
e cco ttanti cannoni a le fortezze?!
E avete
temp’a ddí vvoi che a l’asscenza 3
de governà la bbarca de lo Stato
sc’è lo Spiritossanto che cce penza.
Ché lo
Spiritossanto, sor ciufèco, 4
da uniscianni 5 a sta parte è ddiventato
tutt’er ritratto d’un franguello sceco. 6
Un giorno, a
Ssan Lorenzo, entrò un ziggnore
e aggnéde 2 in zagristia co un colonnato, 3
acciò un prete sciavessi 4 scelebbrato
una messa d’un scudo de valore.
Er prete in
ner momento fu ttrovato:
la messa se 5 cantò a l’artar-maggiore;
e un’anima purgante ebbe l’onore
de volà in paradiso a bbommercato.
Ma appena er
prete se cacciò la vesta,
accortose la piastra ch’era farza, 6
attaccò un Cristo, 7 e ffesce una protesta.
E ll’anima
sarvata ebbe er martorio,
stante la messa che nnun j’era varza, 8
de tornassene 9 addietro in purgatorio.
Dico:
«Vorebbe fàvve dì 1 una messa
pell’anima de tata 2 poverello:
ma un scudo sano nun ce ll’ho, e ppe cquello
’na mezza-piastra nun ve viè ll’istessa?»
«Mezza-piastra?!»,
risponne Don Marcello:
«Ma ccome vòi che un’anima sii messa
in paradiso pe ’na callalessa? 3
Nò, ppropio nun ze pò, 4 ccore mio bbello».
Dico:
«Andiamo, la pago du’ testoni». 5
Disce: «Fijjo, assicurete ch’è ppoco,
e nnemmanco j’uprimo 6 li portoni».
«Via», dico,
«un antro ggiulio». 7 Lui allora
me concruse cor dí 8 cche dda quer foco
pe mmen d’un scudo nun ze scappa fora.
C’è
antro 2 da penzà cche a ffà li pianti
perché nnun piove in nell’Agro-romano,
perché la secca manna 3 a mmale er grano,
e pperché mmoriremo tutti quanti.
Questi
sò ttutti guai pe l’iggnoranti.
Quello che ddeve affrigge 4 oggni cristiano
è cch’er Zagro Colleggio nun è ssano 5
e ccià ttredisci Titoli vacanti. 6
Su’
Santità vorebbe provedelli,
ma, ffra ttanti prelati, indove azzecchi
pe ddà le teste a ttredisci cappelli?
Però,
cquanno de mejjo nun ze trovi,
in ner pesà li cardinali vecchi
sc’è 7 da pijjà ccoraggio pe li novi.
Fatta ’na
spizzicata 2 de bbaruffa 3
co li sordàti, pe ppassà le porte,
potetti io puro 4 avé la bbella sorte
de sentí in chiesa quattro soni auffa. 5
La musica era
un merangolo-forte
da dílla 6 co raggione Opera-bbuffa:
e ccantò mmessa monziggnor Camuffa, 7
uno de quelli che ccondanna a mmorte.
Da Diacono sce
fesce Don Ortica,
quello che quarche vorta se 8 conzagra
una libbra de grosta e de mollica. 9
E ’r
zudiacono fu cquella faccia agra
de Don Pio Scamonèa, che ttiè la fica 10
pe mmediscina ar mal de la polagra.
Chi mmette sú
2 er padrone? Uno è cquer zozzo 3
bbrutto vecchio bbavoso cataletto
der zor Mastro-de-Stalla: e a llui ggià ho ddetto
che ttant’ha da finí cch’io me lo strozzo.
L’antro poi
che l’inzòrfora 4 è un pivetto 5
c’un mes’addietro j’amancava er tozzo, 6
e mmó cch’è entrato in scuderia pe mmozzo,
tiè una ruganza 7 da Cacàmme-in-ghetto. 8
E nnu lo
vò ccapí cch’io sò ccucchiere, 9
e cc’ho ppiú età de lui, e cche ppe cquesto
lui m’ha da rispettà ccom’è ddovere.
Lo soo,
10 ttutta farina 11 der vecchiaccio.
Ma io te ggiuro, da quell’omo onesto
che mme posso avvantà, 12 cch’io je la faccio. 13
Gran nove! La
padrona e cquer Contino
scopa de la scittà, spia der Governo,
ar zòlito a ttre ora se chiuderno
a ddí er zanto rosario in cammerino.
«Ebbè»,
cominciò llei cor zu’ voscino,
«sta vorta sola, e ppoi mai ppiú in eterno».
«E cche! avete pavura de l’inferno?»,
j’arisponneva lui pianin pianino.
«L’inferno
è un’invenzion de preti e ffrati
pe ttirà nne la rete li merlotti,
ma nnò cquelli che ssò 2 spreggiudicati».
Fin qui
intesi parlà: poi laggni, fiotti,
mezze-vosce, sospiri soffogati...
Cos’averanno fatto, eh ggiuvenotti? 3
Dunque nun
c’è ppiú inferno! alegramente.
Ecco er tempo oramai de fasse 1 ricchi.
Dunque er dellà 2 è un inzoggno 3 de la
ggente,
e nnun resta ch’er boja che cc’impicchi.
Sgabbellato 4
l’inferno, ar rimanente
se saperà ttrovà chi jje la ficchi.
Li ggiudisci nun zò 5 Ddio nipotente,
e cqui abbasta a spartí bbene li spicchi. 6
La
lègge, è vvero, è una gran bestia porca;
ma l’inferno era peggio de la lègge,
e ffasceva ggelà ppiú dde la forca.
L’onor der
monno? e cche ccos’è st’onore?
Foco de pajja, vento de scorregge. 7
Er tutto è nnun tremà cquanno se 8 more.
Fijji, a
ccasa der diavolo se 1 vede,
tutt’in un mucchio, facce, culi e ppanze,
e ggnisuno llaggiú ppò stacce a ssede 2
co le duvute 3 e ddebbite distanze.
Figurateve mó
ccosa succede
fra cquelle ggente llà ssenza creanze!
carci 4 spinte, cazzotti: e ss’ha da crede 5
scànnoli 6 d’oggni sorte e ggravidanze.
Sí,
ggravidanze: e cchi ppò ddí er contrario?
quanno se sa cc’ar giorno der giudizzio
ce s’annerà cco ttutto er nescessario?
Ommini e
ddonne! oh ddio che ppriscipizzio!
Come a l’inferno er Cardinal Vicario
troverà mmodo da levajje 7 er vizzio?
Er tribbunale
der Governo, 1 Arbina, 2
aveva data ar genero de Rosa
la condanna de morte ggnominiosa
co la fuscilazzione in de la schina. 3
Ma la Sagra
Conzurta, 4 ppiú ppietosa,
ne la congregazzion de stammatina
j’ha mmutata la pena in quajjottina, 5
morte che ppe l’onore è un’antra 6 cosa.
E
ttant’è vvero che la grazzia è ffatta,
ch’io mentre stavo cor lacchè de Francia 7
sott’a la Madonnella de la gatta, 8
ho vvisto er
servitore der Ponente 9
entrà ccurrenno 10 pe ppijjà la mancia 11
ner porton de la mojje der pazziente. 12
Un
pasta-de-cojjoni, un scopa-cchiese,
che, ppe ccerta raggion de l’ottoscento, 1
seppe a ffuria d’apparti 2 in un momento
da copista viení cconte o mmarchese, 3
avenno 4
impasticciato un istrumento, 5
tre ssittimane fa stava a le prese
co la giannarmeria. 6 Ma a sto paese
ricchezza e nnobbirtà nnun va mmai drento.
Rimediò
ttutt’er guasto un cardinale 7
(confessor de la mojje che jje piasce)
scrivenno 8 sto bbijetto ar Tribbunale:
«Ir 9
ziggnor Conte mio nun è ccapasce
di fà cquello c’ha ffatto in criminale;
e lo lassino 10 vive 11 in zanta pasce».
L’omo de
colomía 2 le provisione
se le fà cco ggiudizzio a ttemp’e lloco,
e sta ssempre a la lerta 3 all’occasione
che le ccose che vvò, ccostino poco.
Tu gguarda,
pe pportatte 4 un paragone,
padron Intrujjo Sbrodolini er coco:
come viè istate, lui crompa 5 er carbone
pe l’invernata ch’è ppiú ccaro er foco.
E cquanno
annò ffallita la drughiera, 6
e li su’ creditori, ar tribbunale,
je fésceno 7 incantà ttutta la scera,
tu
tt’aricorderai c’un cardinale
se la prese pe ssé quanta sce n’era
pe ffàsse 8 a bbommercato er funerale. 9
Conzideranno 1
come sò accidiosi 2
sti pretacci maliggni e ttraditori:
esaminanno 3 quanto sò rrabbiosi,
jotti, 4 avari, superbi, e fottitori;
ripijji un
po’ de fiato, t’arincori,
t’addormi ppiú ttranquillo e tt’ariposi:
perché li loro vizzi 5 piú ppeggiori
serveno a illuminà lli scrupolosi.
È er
Crero 6 che cc’impara 7 a ffà ll’istesso,
er Crero, c’ha scordato er gran proscetto
d’amà er prossimo suo com’e ssestesso.
Mentre li
preti offènneno 8 er decoro
e la lègge de Ddio j’è mmorta in petto,
chi vvorà rrispettà la lègge lòro?
«Sí»,
strillava, «è ggiustizzia da galerra 1
che nnoi povere donne disgrazziate
sempre avemo da èsse soverchiate
come fússimo statüe de terra.
Voiantri
purcinelli de la Scerra
date fora l’editti, predicate,
dite messa, assorvete, ggiustizziate,
e, ppe gionta de ppiú, ffate la guerra.
Cos’ha, ppiú
de la donna, un galeotto
d’omaccio, pe pprotenne 2 in oggni caso
de stà llui sopra e dde tiené 3 llei sotto?
Cos’ha dde
ppiú? una mano, un piede, un stinco,
una bbocca, un’orecchia, un occhio, un naso?».
Allora io: «Nu lo sapete? un pinco». 4
Nun prenno 1
pasqua: ebbè? scummunicato
ho ppiú ffed’io, 2 che un Giuda che la prenne; 3
perché un bijjetto se crompa e sse venne, 4
e er chirico 5 ne sa ppiú der curato.
E nnun ce
vò 6 ggran testa per intenne 7
ch’er corpo de Ggesú Ssagramentato
tanti vanno a mmaggnasselo 8 in peccato
come le colazzione e le merenne. 9
E ss’io pe
nnun commette 10 un zagrileggio,
nun essenno indisposto 11 a cconfessamme, 12
soffro l’infamia, er tabbellone, 13 e ppeggio,
credo
d’èsse 14 ppiú ffijjo de la Cchiesa,
che cquelli che sse crompeno 15 le fiamme
co un boccone 16 o ttre ppavoli de spesa. 17
Ssceso er
Bambin de la Resceli, 1 e appena
fattoje 2 er lavativo d’ojjo 3 e mmèle,
cominciò a ppeggiorà, ppovera Nena, 4
e a vvení ggialla com’è ggiallo er fele. 5
Che ffo
allora! esco e ccrompo du’ cannele: 6
e ssudanno a ffuntane 7 da la pena,
curro 8 in chiesa a pportalle a Ddon Micchele
per accènnele 9 a Ssanta Filomena. 10
Lui se
l’acchiappa, 11 e ddoppo, «Fijjol mio»,
me disce, «vostra mojje a cche sse 12 trova?».
Dico: «Llí llí ppe ddà ll’anima a Ddio».
E llui: «De
cazzi ch’io la fò sta prova!
Rïeccheve 13 li moccoli, perch’io
nun vojjo scredità una Santa nova».
Io, er mi’
fijjo granne e mmi’ fratello
erimo 1 tutt’e e ttre ccapi-ortolani
dell’orto de li Padri Olivetani
che nnun c’è ar Monno un orto accusí bbello.
Ma vvenuto a
rreggnà sto gran cervello
de Don Mauro, 2 noi poveri cristiani
semo stati cacciati com’e ccani,
propio come caggnacci de mascello.
E pperché?
pperché er Papa ha avuto vojja
de sopprime 3 sti Monichi, e mmó adesso
fa l’inventario, e, bbontà ssua, li spojja.
E pperché
ll’ha ssoppressi e ll’ha spojjati?
Pe ffà a spese dell’Ordine soppresso
piú rricchi li su’ antichi cammerati. 4
Novanta
Padr’Abbati sascerdoti,
sedenno tutti quanti in ordinanza
siconno 2 la misura de la panza,
hanno fatto Capitolo. E sse 3 noti
ch’er motivo
de tanta aridunanza
è stato pe ddiscide 4 e mannà a vvoti
si 5 ar pranzo de sta Regola de sscioti 6
sce se 7 dovessi 8 cressce 9 una pietanza.
Cristo! che
bbattibbujjo 10 bbuggiarone!
Chi pparlava de carne, e cchi de pessce;
e ggnisuno capiva la raggione.
Puro 11
a la fine s’è vvenuto in chiaro
che la pietanza nun ze possi 12 cressce,
ma in logo d’una se ne creschi 13 un paro.
Lo so cche
sta 1 canajja bbuggiarona
va in coro ar matutino, Sora Teta, 2
e cce 3 va a pprima, a tterza, a ssest’e a nnona,
e ’r doppo-pranzo a vvesper’e a ccompieta.
Ma vve 4
credete voi che, cquanno sona
quela campana, ggnisuno 5 s’inquieta
pe sscéggne a ddí 6 l’uffizzio o la corona,
o a mmettese 7 la cotta o la pianeta?
Oggni frate
va in Coro, perché llui,
(sii vergoggna, o ppulitica, o ppavura)
nun vò ddí all’antri 8 li penzieri sui.
Che ssi
9 Ffra Ppio, Fra Mmarco o Ffra Grigorio
fussi 10 er primo a strillà: Cche sseccatura!,
currerebbeno 11 tutti ar rifettorio.
Come
però er miracolo c’ho vvisto
cor mi’ padrone a Nnapoli, di’ ppuro 1
che cquant’è ggranne er Monno, Mastro Sisto,
nun ne ponno succede 2 de sicuro.
Usscí un
pretone da de-dietro un muro 3
co un coso 4 pieno de sanguaccio pisto,
e strillò fforte a ttante donne: «È dduro».
E cquelle: «Sia laudato Ggesucristo».
E ddoppo, in
ner frattempo ch’er pretone
se smaneggiava 5 er zangue in quer tar 6 coso,
le donne bbiastimaveno orazzione. 7
Finché cco
sto smaneggio e nninna-nanna 8
er zangue diventò vvivo e bbrodoso 9
com’er zangue d’un porco che sse 10 scanna.
Cosa
sò 1 sti fibbioni sbrillantati, 2
sto bber cappello novo e sto vistito?
Sta carrozza ch’edè? 3 cch’edè st’invito
de confetti, de vino e dde ggelati?
E li
sparaggni tui 4 l’hai massagrati,
cazzo-matto somaro sscimunito,
perché jjeri tu’ mojje ha ppartorito
un zervitore ar Papa e a li su’ frati?!
Se 5
fa ttant’alegria, tanta bbardoria, 6
pe bbattezzà cchi fforzi 7 è ccondannato,
prima de nassce, 8 a cojje 9 la scicoria!
Poveri
scechi! 10 E nnun ve sete accorti
ch’er libbro de bbattesimi in sto Stato
se potería 11 chiamà llibbro de morti?
Subbito c’un
Zovrano de la terra
crede c’un antro 1 j’abbi tocco 2 un fico, 3
disce ar popolo suo: «Tu sei nimmico
der tale o dder tar 4 re: ffàjje 5 la guerra».
E er popolo,
pe sfugge 6 la galerra
o cquarc’antra grazzietta che nnun dico,
pijja lo schioppo, e vviaggia com’un prico 7
che spedischino in Francia o in Inghirterra.
Ccusí, pe li
crapicci 8 d’una corte
ste pecore aritorneno a la stalla
co mmezza testa e cco le gamme storte.
E cco le vite
sce se ggiuca 9 a ppalla,
come quela puttana 10 de la morte
nun vienissi da lei 11 senza scercalla. 12
Je 1
sta bbene a st’infami framasoni,
e ’r Governo è un gran omo de punilli. 2
Impareranno a rriportà 3 li stilli
e li verdúchi drento a li bbastoni.
E ha
rraggione de dí 4 Ppadre Perilli 5
che ddu’ anelli da piede a li carzoni 6
sò, 7 ddoppo de la forca, lli ppiú bboni
medicamenti pe gguarí li grilli. 8
E ggià
cch’er Papa storce 9 de curalli
drento in ne lo spedàr 10 der cimiterio,
vadino a scopà Rroma, 11 e bbuggiaralli.
Chi pporta
l’arme ha da morí in catene,
eccett’a nnoi 12 che in tanto diavolèrio 13
si pportamo 14 er cortello, è a ffin de bbene.
Pìjjete
gusto: guarda a uno a uno
tutti li Cardinali e li Prelati;
e vvederai che de romani nati
sce ne sò 1 ppochi, o nnun ce n’è ggnisuno. 2
Nun ze 3
sente che Nnapoli, Bbelluno,
Fermo, Fiorenza, Ggenova, Frascati...
e cqualunque scittà lli ppiú affamati
li manna 4 a Rroma a ccojjonà er diggiuno.
Ma ssaría
poco male lo sfamalli
er pegg’è cche de tanti che cce trotteno 5
li somari sò ppiú de li cavalli.
E Rroma,
indove viengheno 6 a ddà ffonno,
e rrinnegheno Iddio, rubben’e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der Monno.
Co ttutto che
a Ssan Pietro sc’è un Papaggno 1
che cce tratta da passeri e cce pela,
e dda settantadua torzi de mela
un antro ne viería sempre compaggno,
puro 2
abbasso la testa e nnun me laggno
quann’essce quarch’editto che tte ggela;
e cqui a Rroma sce sto pperché oggni raggno
è attaccato e vvò bbene a la su’ tela.
E io nun
faccio com’e vvoi, nun faccio,
c’ar piú mménomo assarto de gabbella
ve se sente strillà: Cche ppaesaccio!
Che ccorpa 3 sce n’ha Rroma poverella
si un governo affamato allonga er braccio
e vve se viè a vvotà ppila e scudella?
Tenételi da
conto sti puntali
de ferro inarberati a ’ggni cantone!
Come si 1 anticamente, sor cojjone,
nun usassino 2 ar monno temporali.
Avete tempo
d’inventà invenzione:
li fraggelli de Ddio sò ssempre uguali.
E lo sperà cche un furmine nun cali
pe uno spido, 3 è un mancà dde riliggione.
Li veri
parafurmini cristiani
pe trattené pper aria le saette
e ccaccià vvia li furmini lontani,
nun zò
4 mmica sti ferri da carzette,
ma ssò li campanelli loretani, 5
le campane, e le parme 6 bbenedette.
Monziggnor
nostro cor messale in mano
du’ schizzi d’acqua-santa e cquattro strilli,
è annato fora a mmaledí li grilli
e a pproibbijje 1 de maggnasse 2 er grano.
Circ’a
l’inibbizzione de lo spano 3
nun je se pò 4 impuggnà ssenza cavilli;
ma, ar mi’ poco ggiudizzio, er maledilli
nun me pare un’azzione da cristiano.
Grilli,
tiggnòle, bbagarozzi e rruche 5
sò ccrature 6 de Ddio come che nnoi:
sola diverzità cche ssò ppiú cciuche. 7
Eh ccome
dunque Monziggnor Croscifero
pò mmaledilli, e ppredicacce 8 poi
ch’è inzin peccato a mmaledí Lluscifero?
«Santo Padre»,
disceva er Tesoriere,
«è vvòto 1 er piatto p’er Zagro Colleggio».
E cqui er Papa annò in bestia, e strillò ppeggio
che nnun strilla un garzon de caffettiere.
E sformava
2 a rraggione. Un gabbeggliere 3
nun ha dd’avé mmai vòti in ner conteggio,
tanto ppiú ppe cchi ggode er privileggio
che jje s’abbi 4 da empí ppiatto e bbicchiere.
Co cquella
sarza poi de San Bennardo 5
c’un cardinale se tiè 6 ssempre addosso,
voi fà cch’er piatto suo soffri 7 ritardo?
Va’ a
ccercà adesso quer ch’è ggiusto! Ggiusto
fu impiccato a la Storta; 8 e un Pettorosso
pò ffà ssantificà ppuro 9 l’ingiusto.
L’A. C.
nnovo, in ner ceto de prelati
è un de quelli de li tajji 2 vecchi,
e sse pò ddí 3 lo specchio de li specchi
de li galantomoni inciprïati.
Vedi come lo
tratteno l’abbati
scortichini, attacchini e mmozzorecchi? 4
Tutti je 5 vanno a ffà ssalamelecchi 6
e averàbbili, 7 a sconto de peccati.
«Co ttante
spremiture de limoni», 8
me disceva un copista de Notaro,
«pare che sta canajja lo cojjoni.
E llui nun ze
n’accorge: anzi l’ha a ccaro,
perché, ffra ll’antri 9 su’ nummeri 10 bboni,
a ccervello sta peggio d’un zomaro».
Don Marco fu
cconvinto d’adurterio,
e er Papa l’assorvé ccome innoscente.
Diede in culo a li fijji de Saverio,
e er Papa disse: «Nun è vvero ggnente».
Ha ffatto
stocchi, 1 furti, e un diavolèrio
de fede farze contro tante ggente,
e er Papa se n’e usscito 2 serio serio:
«Nun ci vojjamo crede un accidente».
Arfine jjeri
pe vvoler divino
una spia je soffiò ste du’ parole:
«Santo Padre, don Marco è ggiacubbino».
E er zanto
Padre, in ner momento istesso,
sentennose 3 toccà ddove je dole,
lo condannò da lui 4 senza proscesso.
Su a
Ttermini, 1 un regazzo de talento
avenno visto quarc’antro regazzo
esercitasse a ddà llezzione ar cazzo,
provò llui puro, e sse trovò ccontento.
E nnun
volenno ar primo spirimento
lassà in terra li segni de lo sguazzo,
scolò ttre vvorte er zugo der rampazzo
in un bicchiere, e lo lassò llí ddrento.
Du’ ggiorni
doppo che sse fu istruito,
tornò a vvede quer brodo de sostanza,
e lo trovò ffetente e inverminito.
Allora er
bravo regazzin de Termini
disce: «E sta robba io sciò ddrent’a la panza?!
A tté, a tté, mmano mia: fora sti vermini».
A
gguardà bbene, er Papa, appress’a ppoco,
è un omo fatto d’ossa, carne e ppelle,
co la bbocca, li denti e le bbudelle,
e li membrucci sui tutti ar zu’ loco.
Èccheve
1 la raggion de le gabbelle:
pe vvia che 2 li quadrini che ddà ar coco
acciò jje metti 3 un po’ de pila ar foco,
nun je ponno fioccà ggiú dda le stelle.
Paga poi
lavatura e stiratura,
lumi, vestiario, spie, preti d’ajjuto,
stalla, e ddu’ fronne 4 de villeggiatura;
com’ha da
vive 5 er povero Siggnore?
Manna 6 un editto, e ddisce: «Ho rrisoluto,
popolo mio, de rosicatte 7 er core».
La viggijja
der nome de Maria,
viscino a mezzoggiorno, un de li frati
francescani minori ariformati
me portò a cconfessamme 1 in zagristia.
Dico er
confideor, raschio, e ppoi via via
j’incomincio a sfilà li mi’ peccati:
e er frate co li gommiti appoggiati
stava a ssentí la confessione mia.
Quann’ecco,
incirca a la mità 2 de quella,
den den dèn, den den dèn, for de la porta
se 3 sente sbatoccà 4 una campanella.
Hai visto er frate?
S’arza sú addrittura,
strillanno: «Un’antra 5 vorta, un’antra vorta,
perché adesso ho un affare de premura».
Terminata la
quèstuva, 2 e indivisi 3
tutti quanti li fonni aridunati,
sei mijjara de bbravi colonnati
furno spidite ar Vescovo d’Assisi. 4
Figurateve
lui! Visti e ccontati,
je pàrzeno 5 sei mila paradisi:
eppuro, 6 a ddílla in termini priscisi 7
li danni nun zò ancora arimediati.
Ma annatesce
8 a pparlà! «Ssori cojjoni»,
v’arisponne, «l’ho spesi mejjo assai
ner fà una compaggnia de Scenturioni». 9
Bbasta, o sii
vero o ’na bbuscía 10 ggiocosa,
er terremoto come ll’antri guai
pe li vescovi è bbono a cquarche ccosa. 11
È
arrivato a l’orecchie der Governo
quarmente er zotto-coco der Farcone, 1
che pprima ha vvinto un ambo e ddoppo un terno,
j’abbi dato li nummeri un stregone.
Su sta vosce
la Santa Inquisizzione,
ch’è nnimmica ggiurata de l’inferno,
j’ha mmannato sei ottime perzone
pe vvisitallo con amor fraterno.
Entrata a
ccasa sua sta bbrava ggente,
j’ha ccominciato a ddí: «Fijjolo, zitto:
se 2 fa ppe bbene tuo: nun temé ggnente».
Defatti er
capo, sibbè 3 aveva er dritto
de manettallo, ha ppresi solamente
li quadrini der corpo der dilitto.
In primo
logo, un frate, anche a vvolello
pien de dilitti e ccarico de fijji,
un governo eccresiastico è ppe cquello
senz’occhi, senz’orecchie e ssenz’artijji.
Inortre li
Conventi hanno un fraggello 1
d’arberinti 2 e dde tanti annisconnijji, 3
che mmànnesce 4 qualunque bbariscello 5
e mme tajjo la testa si 6 lo pijji.
Finarmente,
te vojjo anche concede
ch’er frataccio sii trovo e ccarcerato
quer ch’imbrojjeno poi come se 7 vede?
Malappena er
bisbijjo s’è acquietato,
je muteno convento, e cche ssuccede?
Chi ha aúto ha aúto, 8 e cquer ch’è stato è stato.
Fra ttutti li
ppiú mmejjo palazzoni
Monte-scitorio è un pezzo siggnorile.
Tiè bbannerola, orloggio e ccampanile,
co un grossissimo par de campanoni:
ventiscinque
finestre, e ttre pportoni
fra cquattro colonnette incise 2 a ppile, 3
du’ cancelli de fianco, un ber cortile,
funtana, scala-reggia e ggran zaloni.
L’unica cosa
sola che ffa ttorto
ar Papa che cciarzò 4 li tribbunali,
è cche nun ciàbbi 5 fatto aggiuggne un orto.
Nun zapeva
quer zommo Sascerdote
quant’abbino bbisoggno li curiali
d’un zito pe ppiantacce 6 le carote?
Nnò,
nnò, er Papa è un bon diavolo, Bbibbiana:
è un’animella, è un angiolo, è una sposa; 1
e ssi 2 in oggi a nnoi pecore sce 3 tosa,
è sseggno c’ha bbisoggno de la lana.
Ma ha
pprudenza, ha ppulitica, e ’ggni cosa
la stronzidera 4 bbene a la lontana;
e cquello che pprincipia a la Bbefana 5
se lo rumina ancora a Ppasqua-rosa. 6
Heeh, l’amico
scerasa 7 ha ggran pavura
de ste pressce der cazzo, perché er furbo
sa cch’er trotto dell’asino nun dura.
Lui tratanto
fa er male; e doppo, er bene
vierà ccor tempo. E nnun zaría 8 ppiú sturbo
d’avé pprima li gaudi e ppoi le pene?
Frall’opere
chiamate da l’abbati
de le misericordie corporale
che ar giorno der giudizzio univerzale
n’averemo da èsse 1 esaminati,
c’è: Ssesto
visità li carcerati;
ma cquer proscetto 2 nun è ssempre uguale,
ggiacché ppe ccerti carcerati vale
e ccert’antri 3 sò invesce accettuati. 4
Semprigrazzia,
5 er Governo è dd’oppiggnone 6
che pp’er povero ladro e ll’assassino
s’abbi 7 d’avé ariguardi e ccompassione.
Ma in quanto
ar carbonaro e ar giacubbino
s’hanno d’abbandonà ddrent’in priggione
senza dà rretta un cazzo ar Belarmino.
L’introito de
stasera è a bbonifizzio
tutto der capo-comico Avarino 2
che ppe li bball’in corda è un ballerino
da mettesce le mane er Zant’Uffizzio.
Chi nun vede
la carca ar butteghino!...
Propio è un ammazzamento e un priscipizzio:
perché sta ggente ha cquer mazzato vizzio
de volé cche sse crompi 3 er bullettino.
Hanno
attaccato un cartellone ggiallo
piú sbillongo 4 d’un telo de lenzolo,
da lèggese 5 un po’ a ppiede e un po’ a ccavallo.
E ddicheno
che ddisce che cc’è er giro
der Zole attorn’ar grobbo, e in fine er volo
de Mercurio, de Frora e dde Zzaffiro. 6
Mettémo da
’na parte, mastro Bbiascio,
l’ascéto che cce noteno 2 l’inguille:
lassamo stà la porvere der cascio
piena d’animalacci a mmill’a mmille.
Dove a
ggiudizzio mio merita un bascio
quer negroscopio è ar vede 3 in certe stille
d’acqua ppiú cciuche 4 de capi de spille,
cressceve 5 tanti mostri adasciadascio.
Questa
è la cosa a mmé cche mm’ha incantato,
e bbenedico sempre e in oggni loco
er francesce 6 e ’r papetto 7 che jj’ho ddato.
Questo
è cc’ho ggusto assai d’avé scuperto,
perché ggià ll’acqua me piasceva poco,
ma dd’or impoi nun me la fa ppiú ccerto.
Nun j’abbasta
a l’arètico scontento 1
de mormorà cch’er Cardinàr Vicario 2
maggna otto vorte ppiú dder nescessario,
e ccirca ar beve 3 poi bbeve pe ccento.
Se va ppuro
4 inventanno er temerario
che l’Eminenza Sua tiè uno strumento
che indovina er zereno, l’acqua, er vento,
la grandina, la neve e ’r tempo vario.
Anzi, arriva
a l’accesso 5 de scommette 6
che cco cquello strumento Su’ Eminenza
sce 7 regola l’ingergo 8 a le collètte.
Ché ssi
9 er búggero 10 suo disce: diluvia,
er Cardinale subbito dispenza
una collètta d’appetènna-impruvia. 11
Pe cquer
rospo carissimo der bollo
che ffanno in cima a la carta bbollata,
un fojjo ha da costà una pavolata! 1
Arrabbieli, per dio! rotta de collo!
Mezzo
fojjetto solo io l’ho ppagata
quanto du’ llibbre de merluzz’a mmollo.
Vedi come te succhieno er merollo! 2
E ssò ppreti? e ssò ggente conzagrata?
Ar zaggio de
sei pavoli er quinterno,
pe ccrompanne 3 una risma che nn’ha ottanta, 4
nun t’abbasta la vincita d’un terno.
Co ttutto
questo, va’ a rriscòde 5 ar Monte,
e nnemmanco sce trovi l’acqua-santa!
Cosa, pe ccristo, da bbollalli in fronte.
Pe avé ssorte
bbisoggna èsse bbirbanti
pe cquelli soli nun ce sò mmai pene;
ma ariveriti e cco le mano piene
se ne vanno groriosi e ttrïonfanti.
Specchiamose
1 in st’arètichi 2 furfanti:
l’aveveno ingabbiati 3 tanto bbene,
e mmo invesce de metteli 4 in catene
l’arimanneno 5 a casa tutti quanti. 6
Io noto er
Papa, io. Doppo avé ttanto
fatto er foco dall’occhi, all’atto pratico
s’è ccalato le braghe come un zanto.
Come se
7 spiega mò er cavajjeratico 8
dato a la sbirraría che pportò er vanto
d’arrestalli? Fu un estro mattamatico.
Hanno mille
raggione li Cristiani
a nun crédesce 1 ppiú ’na mmaledetta, 2
quanno Papi, che ssò Ppapi e Ssovrani,
danno in cojjonerie 3 ggiú cco l’accetta. 4
Du’ rivortósi
peruggini cani, 5
capasci a ffà mai mai 6 puro 7 l’acquetta, 8
eschen’oggi de carcere, e ddimani
er zor Papa l’avvisa che l’aspetta.
Uno lo so de
scerto che cciaggnede; 9
e ’r Papa, doppo avello bbenedetto,
sce se deggnò cche jje bbasciassi 10 er piede.
Si 11
cquer piede era mio, Checco, te ggiuro,
je sonavo pe ccristo un carc’in petto, 12
c’uno je ne dav’io e un antro 13 er muro.
E appress’a
la sanguiggna, Giammatista,
fai la cojjoneria d’appennicatte? 1
Bbada, ché mmó a ddormí ssoffre la vista
e tte ponno cascà le cataratte.
Epperò
ddisce un medico culista 2
che in certi casi è mmejjo le miggnatte,
perché, cquer zangue... me capischi?... acquista...
Ma ggià, cche vòi discorre 3 a ccose fatte?
Pe mmé, er
toccà la vena, io sò un minchione,
ma nnun m’è mmai piasciuto, ché la bbotta
spesso spesso te va a ssuperazione. 4
E ammalappena
entra in ner mese 5 Imperia,
vojjo dí a cquer cerusico marmotta
ch’er zangue je lo cacci da l’alteria. 6
O ne sa ppoco
er zor dottor Gioconno,
o a nnoantri 1 sce tiè 2 ppe ttanti micchi. 3
Ggià, sti dottori che sse fanno 4 ricchi
nun ce n’è uno mai propio de fonno.
La luna
popolata com’er Monno!
Chi ccià da èsse, 5 er boia che l’impicchi,
drent’in un grobbo che un po’ è ffatto a spicchi,
un po’ sparissce, e un po’ 6 ddiventa tonno?
Eh ssí cch’er
Papa sarebbe cojjone,
caso llassú cche cciabbitassi ggente, 7
de nun spidicce 8 un Vescovo in pallone.
Lui sce lo
mannerebbe a spass’a spasso,
quann’anche nun fuss’antro, 9 solamente
pe le liscenze de maggnà de grasso.
Mi’ fijjo,
sí, cquel’animaccia fessa 2
che ffu pposcritto 3 e annò a la grann’armata
è ttornato uffizziale e ha rriportata,
azzecca 4 un po’! una mojje dottoressa.
Si 5
ttu la senti! «È un libbro ch’interressa...
Ggira la terra... La luna è abbitata...
Ir tale ha scritto un’opera stampata...
La tal’antra 6 è una bbrava povetessa...».
Fuss’omo,
bbuggiarà! mma una ssciacquetta 7
ha da vienicce 8 a smove 9 li sbavijji 10
a ffuria de libbracci e pparoloni!
Fili, fili:
lavori la carzetta:
abbadi a ccasa sua: facci li fijji,
l’allatti, e nun ce scocci 11 li cojjoni.
P’er Corzo
sc’è una frega 2 senza fine
de libbrari, armaioli, perucchieri,
sartori, machinisti, caffettieri,
orloggiari e mmercanti de pannine.
Ortre poi le
modiste e le spazzine,
e antiquari, e arbanisti 3 e cchincajjeri,
sc’è un famoso negozzio de bbraghieri
indisposti 4 in bellissime vetrine.
D’avanti a
tutte ste bbotteghe nostre
omo o ddonna che ppassi, è ccaso raro
che nnun s’affermi 5 a ccontemprà lle mostre.
E de tanti
paini 6 e ttante sciane, 7
dar zolo 8 disgrazziato bbraghieraro,
nun zo 9 cche ssia, nun ce s’afferma un cane.
Hoh 1
bbe’ vvolevo dí 2 che li Curati
fussino de scervelli accusí storti
da permette 3 l’usanza che li morti
d’or impoi se portassino 4 incassati. 5
Ggià
un cristiano è vvergoggna che sse 6 porti
da quelli facchinacci sfrittellati: 7
e ppoi li spojji 8 se 9 sò ssempre usati
pe rregalía da dà a li bbeccamorti.
Piano: e
cquanno c’un morto è in de la cassa,
com’ha er vivo l’esempio che sse more?
chi lo pò indovinà cquello che ppassa?
Disce: questo
è un parlà dda mozzorecchio. 10
Sarà; mma ar meno t’arifiati er core
de vede 11 er morto s’è ggiovene o vvecchio.
Nun è
cche nnun ce ssiino Bbeati
deggni e stradeggni de fà un passo avanti:
er paradiso sbrullica 1 de frati
che mmoreno de vojja d’èsse Santi.
Nun è
cch’er Papa se li sia scordati,
come se scorda de li nostri pianti:
ché anzi, doppo avelli 2 proscessati,
voría cannonizzalli 3 tutti quanti.
La raggione
che ancora li tiè addietro
ne la grolia sceleste, 4 è la gran spesa
de la funzione che cce vò a Ssan Pietro.
Eccolo er
gran motivo, poverini:
la miseria. E li Santi de la Cchiesa
nun ze ponno creà ssenza quadrini.
Pijjo un
posto ar Teatro der Pavone
e cce trovo pe ffarza Carlo Maggno.
Entro in chiesa a la predica, e un fratone
me bbutt’avanti san Grigorio Maggno.
M’affermo
1 dar zantàro 2 in zur cantone,
e sta vennenno 3 un zan Leone Maggno.
Vàdo a l’Argàdia 4 a rripijjà er padrone,
e ssento nominà Llesandro Maggno!
Cazzo! e ssi
5 a cquer che ddicheno, sti maggni
sò 6 ssovrani, e pperché sti distintivi?
Li sovrani nun zò ttutti compaggni?
Saranno o un
po’ ppiú bbelli o un po’ ppiú bbrutti:
ponn’èsse o mmeno bboni o ppiú ccattivi;
ma articolo maggnà, mmaggneno tutti.
A
tajjà in linci e squinci 2 fra ccompaggni
panze-nere 3 par mii 4 cosa sciabbusco? 5
Viè 6 la sera però ttra er lusch’e ’r brusco 7
mentre servo li nobbili a li bbaggni.
Sentirai llí
che pparoloni maggni!
Llí tte n’accorgerai come m’infusco 8
a sfoderà ssentenze e a pparlà ttrusco 9
quanno me pò ffruttà bbravi guadaggni!
Senti che
rrispostina arimbrunita 10
appricai jjer a ssera a un Cardinale
che ddimannò ssi 11 ll’acqua era pulita.
«Questo,
Minenza, è un barzimo illustrale, 12
che annetterebbe 13 ir pelo in de la vita, 14
senza fà ttorto a llei, puro 15 a un majale».
’Ggni
ggiorno, accetto er venardí, 1 ar palazzo
de la casa Teodoli, 2 un’arpia
de chincajjere 3 fa una lottaria
co una ròta che svòrtica un regazzo. 4
Li bijjetti
appremiati hanno un spegazzo 5
cor nummero der premio che sse pía. 6
L’antri 7 sc’è scritto Alegri. Alegri un cazzo!
Sce ne fregamo assai de st’alegria.
Bell’alegria
d’entrà cco ddu’ lustrini, 8
tirà ddu’ bbijjettacci, e ttornà ffòra
co le fischiate in cammio 9 de quadrini.
Eppoi che
ppremi sò 10 cquanno c’hai vinto?
Figurete c’un prete tirò un’ora,
e abbuscò 11 ddu’ speroni e un culo finto. 12
Ma ccazzo! a
un prete che nnun va a ccavallo
dàjje 1 pe ppremio un paro de speroni
è ccome a un maressciallo de dragoni
schiaffajje 2 addosso un pivialone ggiallo.
Fussino
3 state fibbie da carzoni,
un braghiere, un messale, bbuggiarallo! 4
ma dd’un par de speron da maressciallo
che sse ne fa? un impiastro a li cojjoni?
Passanno
5 adesso a un zimile scannajjo
tra er zascerdote e cquer ziconno 6 premio,
trovo ch’ er culo-finto è un antro 7 sbajjo.
Perché un
prete che vvojji èsse 8 sincero,
ve dirà: «Dda ste cose io nun zò stemio; 9
ma mmetteteme avanti un culo vero».
Eh ffijji
cari, date udienza a Nnonno:
ne l’età vvostra pare tutto bbello:
ma ccresscete, cresscete un tantinello,
e ccapirete poi che ccos’è er Monno.
Vederete
oggnisempre ch’er ziconno
fa la scianchetta 1 ar primo e ’r terzo a cquello.
Vederete un abbisso e un mulinello
de tradimenti che nnun ha mmai fonno.
Vederete un
Governo che ffa editti
e llassa la vertú mmorí dde fame,
mentre vanno in trïonfo li dilitti.
E ccome l’oro
co l’argento e ’r rame
dati da Ddio pe ssollevà ll’affritti, 2
serveno invesce a un mercimonio infame.
Naturale c’arfine
se sò 1 rrotti
li connotti de tutti li bbottini:
subbito che sse 2 fa ttutto a ccazzotti 3
pe schiaffasse 4 in zaccoccia li quadrini.
Si 5
er Governo ordinanno li connotti,
nu li fascessi 6 mette 7 accusí ffini, 8
nun vederessi 9 mó sti pissciabbotti 10
schizzà ffora cqua e llà ddove cammini.
Ecco cosa
succede a li paesi
dove er vino dà in testa a cchi ccommanna:
le funtane nun butteno du’ mesi.
Piú de li
funtanoni de San Pietro?
Da che er Papa sta llà, tte pare, Nanna,
c’abbino l’acqua de quarc’anno addietro? 11
Nun zò
1 mmorto: sò 2 stato un anno e mmezzo
carcerato pe vvia d’un creditore
che ddoppo avemme limentato 3 un pezzo
m’ha abbandonato con mi’ gran dolore.
Io a sta vita
sce sò 4 ttanto avvezzo,
c’oggni vorta che in grazzia der Ziggnore
faccio un debbito novo e ariccapezzo
de tornà ddrento, me s’allarga er core.
Che vviggna!
maggnà e bbeve 5 alegramente
a ttutta cortesia de chi tt’avanza:
dormí 6 la notte, e ’r giorno nun fà 7 ggnente:
stà
8 in tanti amichi a rride 9 in d’una stanza,
o a la ferrata 10 a cojjonà la ggente...
Ah! er debbituccio è una gran bella usanza!
Verzo l’un’or
de notte, ossia le sette,
come che mm’ordinò Vvostr’Eccellenza,
me n’andiedi 1 al caffè cc’ha la liscenza
di tené nnel retrè ttante gazzette.
E llì
cco la mia bbrava indiferenza
nun mi fesci sfuggí nneppuro un ette
di quante cose mai fussero dette
da poté rriferirle oggi a l’udienza.
Trall’altre
un milordino 2 sbarbatello
disse che ddon Migguele ha ffatto male
di rubbà la corona a ssuo fratello.
Sto
pasticcetto è ffiglio d’un curiale,
studia filosofia, porta il cappello
bbianco, ha li bbaffi... Inzomma è un libberale.
Da principio
fascevo l’ortolano:
male. Me messe 1 a ffà er libbraro: peggio.
Risòrze 2 allora de mutà mmaneggio,
e mme diede 3 ar mestiere der ruffiano.
In questo, te
confesso da cristiano,
nun zolo sce 4 guadaggno, ma ssaccheggio:
e un terzo ar meno der Zagro-Colleggio
vonno la marcanzia da le mi’ mano.
Io servo
Monziggnori, io Padr’Abbati,
io maritate, io vedove, io zitelle...
e ll’ho ttutti oggnisempre contentati.
Perch’io
sò 5 onesto e nun tiro a la pelle,
l’ommini mii 6 sò 7 rricchi e intitolati, 8
e le mi’ donne pulitucce e bbelle.
Fu addrittura
una frebbe inframmatoria,
e ’r medico me dava er zorforato. 1
E ssi 2 nnun era Iddio che mm’ha ajjutato,
io ggià ssarebbe 3 er zor bona-momoria. 4
Come dico,
ero ggià bbell’e astremato, 5
quanno un zupprente, 6 vedenno st’istoria,
me fa ssette sanguiggne e ottiè la groria
d’avemme, se pò ddí, 7 arisusscitato.
Ma cche! er medico stenne un momoriale
contr’er zupprente pe la su’ inzolenza
de fà ssette sanguiggne a cchi sta mmale.
Ebbè,
er zupprente fu ccacciato, senza
poté ssapé ssi è llegge de spedale
che ss’abbi d’ammazzà ppe cconvegnenza.
Padre Curato
mio, nun ce s’inquieti:
cqua in chiesa sua sce sò 1 ttroppe funzione;
e ssortanto pe sbatte 2 li tappeti
sce voríeno 3 du’ bbraccia da Sanzone:
senza er commatte
4 co llor antri 5 preti,
tutte bbrave e ddeggnissime perzone,
ma ppuro... 6 che sso io... tanti 7 indiscreti,
che Ddio ne guardi oggni fedèr 8 cojjone.
Io dunque, pe
ffà un’arte ppiú mmijjore,
ho arisoluto de mutà li panni
de chiricozzo in quelli de sartore.
Ccusí, cco
l’aspertezza 9 che ss’acquista
a fforza de dà 10 ppunti, in un par d’anni
posso passà ar mestier der computista. 11
Ohé! Gguai a
Ppalazzo. Er Zanto-Padre
è vvienuto a scoprí cch’er Maggiordomo,
che in tuttoquanto er resto è un galantomo
ha un tantinello le manine ladre.
Disce 1
che sto ggenietto er pover’omo
l’ha pportato dar corpo de su’ madre,
e cche n’ha ffatte tante e ttonne e cquadre,
che cchi ssa scrive 2 pò stampanne 3 un tomo.
Nun è
mmica che sfassci li cassetti:
sortanto in de li conti de le frabbiche 4
sta a mmezzo co l’artisti e ll’archidetti.
E ’r Papa,
che nnun manca de scervello,
c’ha ffatto! Ha ddetto du’ parole arabbiche
su in concistoro, e jje 5 darà er cappello.
Che sse
vojjino 1 bbene, che da un mese
lui se la porti a spasso oggni matina,
che vvadino a ffà cquarche scappatina
pe li macchiozzi de villa-bborghese,
sin qui cce sto:
2 mma cche sse siino prese
scert’antre 3 libbertà, nnun me cammina. 4
Questo, credete scerto, sora Nina,
sò ttutte sciarle e invidie der paese.
Pe llui,
5 ppò ddarzi che jje l’abbi chiesta:
ciaverà fforze provo: 6 nun zaprei:
ma in quant’a mmi’ nipote, è ttroppa onesta.
E cche llui
né ttant’antri sciscisbei
j’abbino mai potuto arzà la vesta,
questo è ssicuro, e mme l’ha ddetto lei. 7
San Luviggi
Conzagra 1 (si ssò 2 vvere
l’istorie de quer mostro d’innoscenza)
pe avé ppreso da lui 3 senza liscenza
poca porvere e un miccio a un zu’ 4 artijjere,
sibbè
cch’era 5 un riccone e un cavajjere
n’ebbe tanto dolore a la cusscenza,
che ppiantò er monno e ffesce pinitenza
peggio che ffussi 6 un ladro de mestiere.
E adesso un
colonnello, un capitano,
scortica vivo vivo un reggimento,
e jj’arrubba la paga der zovrano;
e tte lo vedi
annà 7 cquieto e ccontento
cor zangue che jje gronna 8 da le mano, 9
senz’ombra de rimorzo e ppentimento.
Voi, fijjo
caro, ne sapete poco.
Che mme parlate de lingua latina,
Mattamatica, Lègge, Mediscina!...
sò 1 ttutte ssciaparie: 2 studi pe ggioco.
Cqui è
ddove l’omo se conossce: ar foco.
Cqui ar fornello un talento se scutrina. 3
La prima scòla in terra è la cuscina
er piú stimato perzonaggio è er coco.
E cquanno un
coco soffre un torto, spesso
er Monno (e sso bbe’ io quer che mme dico)
lo viè a cconziderà ffatto a sse stesso.
Bbasti a ssapé
cch’er mi’ padrone antico
tanto bbenvisto, appena ebbe dismesso
er coco, a vvoi!, nun je restò un amico.
Cosa scerchi?
er marito? 2 E ffai sta spasa 3
de sciafrujji 4 che ppare un arzenale?!
Quieta: lo troverai. Mica è un detale: 5
mica un marito è un zeppo de scerasa. 6
Si 7
ll’avevi oggi, e nun ha mmesso l’ale
pe vvolà vvia, pòi èsse 8 perzuasa,
fijja mia bbenedetta, che la casa
annisconne e nnun rubba: eh? ddico male?
Io puro
9 un giorno m’ero perza 10 un pavolo:
e azzecca 11 indove poi me lo trovai?
In zaccoccia. Eh sse sa: rruzze der diavolo.
Tu ddi’ er
zarmo Cqui-abbita, 12 Lonora; 13
e all’acqua de Venanzio 14 vederai
che sto bbuggero 15 tuo scapperà ffora.
Tutta la nostra
gran zodisfazzione
de noantri 1 quann’èrimo 2 regazzi
era a le case nove e a li palazzi
de sporcajje 3 li muri cor carbone.
Cqua
ddiseggnàmio 4 o zziffere 5 o ppupazzi, 6
o er nodo de Cordiano 7 e Ssalamone: 8
llà nnummeri 9 e ggiucate d’astrazzione, 10
o pparolacce, o ffiche uperte e ccazzi.
Oppuro 11 co un bastone, o un zasso, o un chiodo,
fàmio 12 a l’arricciatura quarche sseggno,
fonno in maggnèra 13 c’arrivassi ar zodo. 14
Quelle
sò 15 bbell’età, pper dio de leggno!
Sibbè cc’adesso puro 16 me la godo,
e ssi 17 cc’è mmuro bbianco io je lo sfreggno. 18
Su
l’anticajja a ppiazza Montanara
ciànno 2 scritto: Teatro de Marcello. 3
Bbisoggna avé ppancotto pe ccervello,
pe ddí una bbuggiarata accusí rrara.
Dove mai li
teatri hanno er modello 4
a uso d’una panza de callara? 5
Dove tiengheno 6 mai quele filara 7
de parchetti de fora 8 com’e cquello?
Pàssino
un po’ da Palaccorda e Ppasce: 9
arzino er nas’in zú, 10 bbestie da soma:
studino llí, e sse faccino capasce. 11
Quell’era un
Culiseo, sori Cardei. 12
Sti cosi tonni 13 com’er culo, a Rroma
se sò 14 ssempre chiamati Culisei.
Io nun
pòzzo 1 soffrí ttutte ste lite 2
c’hanno sempre da fà Cciocco e Ffreghino,
si 3 cche ccosa è ppiú mejjo, o ll’acqua o ’r vino.
Du’ parole e ssò 4 ssubbito finite.
Chi lloda
l’acqua, io je direbbe: «Dite:
pe bbeve 5 un mezzo 6 ve sce vò 7 un
lustrino. 8
Pe un bicchier d’acqua poi cor cucchiarino 9
v’abbasta un mille-grazzie, e vve n’usscite.
Dunque che vvale ppiú? cquella c’allaga
Piazza-Navona 10 auffa, 11 e cce se ssciacqua
li cojjoni, o cquell’antro che sse 12 paga?
E
ffinarmente, a vvoi: 13 cqua vve do er pisto. 14
Ch’edè, 15 ssori cazzacci, er vino o ll’acqua,
che vve pò ddiventà ssangue de Cristo?».
Va’ a ccérca
1 com’er frate abbi saputo
der mi traghetto 2 co la fía 3 d’Ugusto! 4
Vàll’a ccapí chi sse sii 5 preso gusto
de dàjje 6 er grimardello per ajjuto!
Io so cche
mm’entrò in casa muto muto,
e cce comparze 7 in de la stanzia, ggiusto
ner mentre ch’io j’arillacciavo er busto,
che 8 cce fesce stremí, 9 ffrate futtuto!
Visto che
mm’ebbe in quer frangente, er frate,
co un voscion da caggnaccio de mascello,
strillò: «Bbestia bbú e vvia, 10 che ccosa fate?»
«Padre curato
mio, lei nun ze 11 studi
de famme 12 spaventà», ddico: «fo cquello
che ppredicate voi. Vesto l’iggnudi». 13
Ar véde
1 una racchietta 2 accusí bbella
de ventun anno e mmanco 3 bben compito
piaggne 4 tanto la morte der marito
che gguasi 5 lla lassò mmezza zitella,
io che, nnun
fo ppe ddí, 6 ssò 7 un’animella 8
me sentii tutto quanto intenerito,
e mme messe 9 a studià cquarche ppartito
c’arilegrassi 10 un po’ sta vedovella.
In poco tempo
a ffuria de conforti
perzuasi la povera Terresa
che ssò mejjo li vivi de li morti.
Ecco spiegati
li mi’ gran dilitti.
Semo arrivati a un tempo che la Cchiesa
condanna puro 11 er conzolà ll’affritti! 12
Lor antri
2 riliggiosi hanno un bon gozzo
pe strillà in chiesa e ppredicà la pasce.
Quanno se 3 tratta co ggente incapasce
de capilla, a cche sserve er predicozzo?
A mmé ppuro
4 la guerra nun me piasce,
e ppe cquesto oggni sempre abbozzo abbozzo. 5
Manch’io 6 nun pòzzo 7 sscèrnele 8
nun pòzzo,
st’anime uguale a pperziche durasce. 9
Dove j’ho
ffatto poi tutto st’inzurto?
J’ho ddetto c’ha una mojje che la venne. 10
Sò 11 ccose, queste, da pijjasse 12 in urto?
Voría 13
ner caso mio védesce 14 un frate.
Lui m’ha in odio: raggione nu l’intenne:
pasce nu la vò ffà... Ddunque? Stoccate.
Viè
2 Nninetta 3 e mme disce: 4 «È cquarche
ggiorno
ch’er fijjo de la sora Nastasía
me fa rrigali, e cquanno Meo 5 sta ar forno
m’entra in casa a ppregà cche jje la dia.
Da una parte,
commare, io nun vorría 6
díjje 7 de sí, pe nnun fa a Mmeo sto corno.
Da un’antra parte poi, commare mia,
come díjje de nò ssi mme viè 8 intorno?
Di’, cche
faressi 9 tu ne li mi’ panni?» 10
«Pe mmé, jje la darebbe», 11 io j’arispose,
«senza lassamme 12 tormentà mmill’anni».
Lei allora
annò a ccasa, e jje la diede:
e dda quer giorn’impoi, vanno le cose
che l’assaggia chiunque je la chiede.
’Na regazza
arrivata a ssediscianni
senza conossce 2 er perno de l’amore
fra ttutti li miracoli ppiú ggranni
díllo er miracolone er piú mmaggiore.
Ebbè,
sta rarità, mmastro Ggiuvanni,
sto mmostro de natura, sto stupore,
è (ssarvo er caso che nnun ziinno 3 inganni)
la fijja de Bbaggeo l’accimatore. 4
Si 5
cc’inganna, è una lappa 6 da punilla
cor méttejelo 7 in corpo; e ss’è ssincera
bbisoggna fà de tutto pe istruilla.
Io le so
ccerte cose; io sò rromano.
L’inzeggnà a l’ignoranti 8 è la maggnera 9
de fasse aggiudicà 10 vvero cristiano.
Nun
c’imbrojjamo co le spesce. 1 Piano.
Un conto è Ssan Giuvanni Evangelista,
un antro 2 conto San Giuvan Batista,
e un antro San Giuvanni Laterano.
Er primo
è cquello c’ha la penna in mano,
l’uscello 3 fra le gamme 4 e ffa la lista.
Er ziconno 5 è la statua c’hai vista
che bbattezza er Ziggnore in ner Giordano.
Er terzo finarmente è un Zan Giuvanni
che nun ze pò ssapé 6 cchi bbestia sia, 7
e nu l’ho mmai capito in quarant’anni.
Sii chi
ddiavolo vò, 8 cquesto nun preme.
Però cquer Laterano è una pazzia
c’abbi da dí 9 ddu’-San-Giuvanni-inzieme. 10
Dàteme,
a sto proposito, un convento
de fratiscelli oppuro 2 monichette,
che ddoppo morte ar meno un zei pe ccento
nun faccino miracoli a ccarrette.
Chi
gguarissce una piaga, chi arimette
li pormóni spariti, chi ttiè 3 er vento,
chi ffa ppiove, 4 chi smorza le saette,
e cchi uno e cchi un antro spirimento.
Ccusí er
monno se 5 popola de santi:
er Papa sta in faccenne: er ziggnor diavolo
se 6 mozzica la coda; e sse 7 va avanti.
Che ssi
8 a sti tempi manco per inzoggno 9
nu 10 ne fa nné Ssan Pietro né Ssan Pavolo,
è sseggno che nun n’ha ppiú de bbisoggno.
Li miracoli,
caro sor Donato,
l’hanno sempre da fà li Santi novi;
perché a questi pò èsse 1 che jje ggiovi,
e li vecchi hanno bbell’e assicurato.
Chi
vvò 2 adesso miracoli li trovi
in quarche Vvenerabbile o Bbeato;
ma a ccercalli in un zanto staggionato
è inutile inzinenta 3 che cce provi.
Nun vedete
l’Apostoli, sor coso,
da quanto tempo hanno finito er patto 4
e sse sò 5 mmessi in stato de riposo?
Benché Ssan
Pietro nun abbotta fiaschi,
e ll’urtimo miracolo l’ha ffatto
a ttempi nostri in ner Palazzo Bbraschi. 6
Quant’a
ffamijja, sí, stamo 2 in famijja;
ma nnò cche Nnanna sii mi’ fijja. Quella
è ffijja de Nunziata mi’ sorella
che vventun anno fa mmorze 3 a Scandrijja. 4
E cquella
ggiuvenotta è Ttetarella 5
fijja de Nanna, e fijja de la fijja
de Nunziata bbon’anima, che ppijja
marito a Ccarnovale. Io sò zzitella.
Io, come ve
discevo, sto cco llòro
pe vvia c’una zitella er vive sola
nun c’è all’occhio der Monno er zu’ decoro.
Inzomma, io
nun ciò 6 ffijji: ecco finito:
perché, dditelo voi, Sora Nicola,
come se 7 ponno fà ssenza marito?
Perché
ssò 1 ita via? sò ita via
pe ’na sciarla c’ha smossa er viscinato.
Ma io, nun fo ppe ddí, cc’è bbon Curato
che ppò ttestà 2 ssu la connotta mia.
Oh, in quanto
ar cuscinà, cquello che ssia
pe mminestra, allesso, ummido e stufato,
nun fo ppe ddí, cce sfido un coco nato,
spesciarmente a llestezza e ppulizzia.
Poi
scopà, sporverà, rrifà li letti,
votà, llavà li piatti, fà la spesa,
tirà ll’acqua, ssciacquà ddu’ fazzoletti...
Lei,
siggnora, me provi: e nnun zò Aggnesa, 3
si 4 llei, nun fo ppe ddí, ttra ddu’ mesetti
nun benedisce er giorno che mm’ha ppresa.
Guarda,
guarda chi è! La sora Teta!
Me penzavo c’avessivo 2 trovati
qui da noi li scalini inzaponati,
pe ppiantacce 3 accusí ccome la bbieta.
È
vvero che l’anelli sò 4 ccascati,
ma ppuro sciarimaneno le deta. 5
Eh, ccapisco: dall’A sse ssceggne 6 ar Zeta.
Santi vecchi vò ddí 7 ssanti scordati.
Oh cqui ssí
8 cchi nun more s’arivede, 9
o vviè er quarantasette 10 prim’estratto.
Ma ssete 11 propio voi? ce posso crede?
Sti
pover’occhi mii ppiú li spalanco
e ppiú mme pare un zoggno. Uhm, quest’è un fatto
da fàcce 12 un zeggno cor carbone bbianco. 13
Ch’edè,
2 ssor fischio, 3 sto sú-in-giú? Pijjate
l’acqu’a ppassà? 4 cce saría mai pericolo? 5
Pe vvostra bbona regola, sto vicolo
nun è aria pe vvoi. Dunque sviggnate.
E ppe
ffàvve capasce, 6 in prim’articolo
cqua nnun c’è un cazzo 7 quer che vvoi scercate:
e cce voleno 8 poi scerte stoccate
da entrà in culo e rriusscí ffor der bellicolo. 9
E nun zerve
de bbatte la scianchetta, 10
capite? ché mmommó, 11 ppe Ccristo d’oro,
ve ne do la porzione che vv’aspetta. 12
Oh gguardate
un po’ cqua cche bber lavoro!
Vonno puro 13 un tantin de rezzoletta 14
co ttante vacche de mojjacce 15 loro. 16
Eccolo cqua!
cchi nun ha ffatto un cazzo 2
su la terra, e ssi 3 ha ffatto ha ffatto male,
vivo, carrozze servitú e ppalazzo:
e mmorto, arme pitaffio e ffunerale!
E un padre-de-famijja
puntuale
che mmore de fatica e de strapazzo,
passa da le miserie a lo spedale,
e ddar letto a la fossa! oh Mmonno pazzo!
Ma er tempo
è ggalantomo: e un po’ de marcia
d’un Conte nun pò ffà cch’er zu’ deposito
o pprima o ppoi nun ze converti in carcia. 4
Allora, addio
bbuscíe, 5 titoli e bboria:
e de tanti trofei mal’a pproposito
sparirà dde cquaggiú ffin la memoria.
S’io fussi
prete o ffrate, e avessi vosce
deggna de fà ddu’ strilli a le missione,
e de sputamme un’ala de pormone
in onor de la grolia de la crosce,
sfoderería
2 ’na predica ferosce
pe spiegà cche la Santa Riliggione
se pò 3 arissomijjalla a un tavolone
de sceraso, de mògheno 4 o de nosce.
Tutto sta avé
bbon stommico e bbon braccio
da maneggiajje la pianozza 5 addosso
e ddajje er lustro a fforza de turaccio.
E siccome a
le vorte pò ssuccede 6
d’imbatte 7 in quarche nnodo un po’ ppiú ggrosso,
sciarimedia 8 lo stucco de la fede.
Quer frate
missionario der Ciappone 2
che cconverte li Turchi ar gentilesimo,
e nnun arriva a ttempo cor broccone
a mminestrajje l’acqua der battesimo,
dijje da
parte mia che llui medesimo
s’è ddata la patente de cojjone,
perché ffa una fatica pe un millesimo
che ssaría troppa a bbattezzà un mijjone.
Dove predica
lui? Risponni, dove?
In campaggna? Ebbè, aspetti in sta campaggna
de predicacce 3 un giorno che vvò ppiove.
E, appena che
ddiluvia, opri 4 la bbocca,
arzi la mano su la turba maggna,
intoni un bravo Vebbattizzo, e tocca.
La gran
raggione, e vve ne do le prove,
ch’er ber 1 tempo d’istate ancora dura,
è pperché er Papa sta in villeggiatura
a mmette 2 in corzo le su’ doppie nove.
Vederete
c’appena s’arimove 3
pe ttornà a Rroma in abbito e ttonzura,
darà lliscenza a la Madre Natura
de subbissacce 4 a ttutti, e ffarà ppiove. 5
Che ffa cche
li mercanti de campaggna
inzeppino collètte in de le messe?
Tanto, o ppiove o nun piove, er Papa maggna.
E cquanno
maggna er Papa, oh ccazzo poi
me pare un’inzolenza st’interresse
de chiede 6 l’acqua a Ddio pe mmaggnà nnoi.
Che ddanno fa
la caristìa, Sor Gui,
oggniquarvorta er zanto Padre è ssazzio?
A l’abbonnanza chi cce mette er dazzio?
Nun è llui capo e nnoi li membri sui?
Fatt’è
cch’er zor Orazzio e ttoperazzio
da lui sempre arincípieta: 2 per cui
quanno er pane che cc’è, bbasta pe llui,
bbast’a ttutti e Ssiggnore v’aringrazzio.
La Santa
Cchiesa è ccome er corp’umano.
Ha la testa, la bbocca, er gargarozzo, 3
li su’ piedi, er zu’ torzo e le su’ mano.
Io lo provo
in me stesso er paragone,
e sso cche cquanno la mi’ testa ha er tozzo, 4
le gamme 5 mie sò sverte 6 e ccontentone.
Le messe de li
morti che la cchiesa
fa ccelebbrà ppell’anime purgante,
danno sempre er zu’ frutto tutte quante
senza pavura de bbuttà la spesa.
Perché, ssi
1 pp’er zuffraggio se sii presa
quarc’anima groriosa e ttrïonfante,
Iddio lo svorta 2 all’antre 3 anime sante
che stanno ancora tra la bbrascia 4 accesa.
Ecco: la
messa che Ppapa Grigorio
manna 5 oggi a Rraffaelle, 6 sur zupposto
che stii da trescent’anni in purgatorio,
Iddio, caso
ch’er Papa nun c’ingarri, 7
l’appricherebbe a un’antr’anima arrosto:
presempio 8 a cquella de monzú Vvicarri. 9
Quer bon
zervo de Ddio c’ha la figura
d’un vesscigon de strutto inzanguinato
o un zacco de farina siggillato
co la scera de Spaggna all’upertura;
inzomma quer zor
Prascido 1 garbato,
che ssenza avé ddormito in prelatura
sartò 2 er convento e sse 3 trovò
addrittura
ar penurtimo zompo 4 der Papato,
vonno che in
grazzia de li sei fiaschetti
che sse succhia 5 oggni ggiorno da uniscianni 6
come bbeveratori d’uscelletti,
sii morto
d’accidente a l’improviso.
E ssi 7 ffussi bbuscía? 8 Dio jje ne manni 9
pe ccressce 10 un antro Santo in paradiso.
Sí, amichi,
finarmente stammatina
s’è sparza la staffetta da per tutto
che ss’è vvotato er zacco de farina,
che ss’è squajjato er vesscigon de strutto.
Grigorio
piaggne, e vvò apparasse 1 a llutto
pe ffàjje 2 un funerale a la Sistina;
bbe’ cche 3 la Morte pe sto caso bbrutto
s’avería 4 da bbascià ddove cammina.
Un po’ ppiú
cche ccampava er Cardinale,
er vino che sse 5 trova a sto paese
nun arrivava manco a ccarnovale.
Io Papa
ordinería 6 che ttutt’un mese
se cantassi 7 er Tedèo pe ffunerale
der quonnam Cardinal Camannolese. 8
Che mmorte
arruvinosa! 1 che ggran danno!
Er Zanto Padre ha bben raggione s’urla,
e ssi 2 in ner caso suo bbeve e ss’inciurla 3
pe ssoffogà le fotte che jje fanno. 4
Cardinali,
capisco sce 5 ne stanno,
ma a rrimpiazzà un Vicario nun ze 6 bburla;
e pprima che sse 6 peschi un antro 7 Zzurla
sc’è da bbuttà la rete pe cquarc’anno.
Dove se
6 trova un antro soggettone
de novanta descine 8 com’e llui
che a vvedello v’incuti suggizzione?
Dove, cristo,
se 6 metteno le mane
pe rrïuní li riquisiti sui
ne l’arivede er pelo a le puttane? 9
Che ssii
1 crepato Zzurla è nnaturale
c’ar Papa je dev’èsse arincressciuto,
e cciabbi provo 2 er piú ddolore acuto
c’a la morte d’oggn’antro Cardinale.
Sò
ccressciuti compaggni: hanno bbevuto
a un bicchiere e ppissciato a un urinale:
sò stati ssempre assieme ar bene e ar male,
come in bocca la lingua co lo sputo:
assieme a
scôla, assieme a lo spasseggio,
assieme in rifettorio, assieme in coro,
assieme a Rroma e in ner zagro Colleggio:
assieme in
ner Concrave e in Concistoro...
senza dí ggnente 3 poi der privileggio
d’assorvese 4 le zacchere tra llòro.
Purtroppo
è vvero, Ciammarúco mio:
tra li cristiani sc’è ttanta iggnoranza,
che sse senteno 1 in quarche ccircostanza
preposizzione 2 indeggne d’un giudio.
Nun piú
ttardi de jjeri, cqui, in sta stanza,
su sta ssedia, er padrone de mi’ zio,
lui, co la bbocca sua, disse c’a Ddio
j’amancheno 3 la fede e la speranza.
Dio senza du’
vertú! Ddio senza fede!
E vvò cche ll’omo credi 4 in lui, penzanno 5
che llui stesso p’er primo nun ce crede?
Iddio senza
speranza! E in che mmaggnèra 6
s’ha da sperà la vit’eterna, quanno
lui che cce l’ha ppromessa nu la spera?
Che ggran
dono de Ddio ch’è la bbellezza!
Sopra de li quadrini hai da tenella: 1
pe vvia 2 che la ricchezza nun dà cquella,
e cco cquella s’acquista la ricchezza.
Una cchiesa,
una vacca, una zitella,
si 3 è bbrutta nun ze 4 guarda e sse disprezza:
e Ddio stesso, ch’è un pozzo de saviezza,
la madre che ppijjò la vorze 5 bbella.
La bbellezza
nun trova porte chiuse:
tutti je fanno l’occhi dorci; e ttutti
vedeno er torto in lei doppo le scuse.
Guardàmo
li gattini, amico caro.
Li ppiú bbelli s’alleveno: e li bbrutti?
E li poveri bbrutti ar monnezzaro. 6
Quann’io vedo
la ggente de sto Monno,
che ppiú ammucchia tesori e ppiú ss’ingrassa,
piú 2 ha ffame de ricchezze, e vvò una cassa
compaggna ar mare, che nun abbi fonno,
dico: oh
mmandra de scechi, 3 ammassa, ammassa,
sturba li ggiorni tui, pèrdesce 4 er zonno, 5
trafica, impiccia: eppoi? Viè ssiggnor Nonno
cor farcione 6 e tte stronca la matassa. 7
La morte sta
anniscosta 8 in ne l’orloggi;
e ggnisuno pò ddí: 9 ddomani ancora
sentirò bbatte 10 er mezzoggiorno d’oggi.
Cosa fa er
pellegrino poverello
ne l’intraprenne 11 un viaggio de quarc’ora?
Porta un pezzo de pane, e abbasta quello.
Io
sciò 1 a la Valle 2 du’ coristi amichi
che vvonno c’anni fa er zor Dàvide era
un tenorone da venne in galera 3
tutti li galli e li capponi antichi.
Ma ppe
cquanto ho ssentito jjer’a ssera,
me pare bben de ggiusto che sse dichi 4
ch’è ddiventato un vennitor de fichi
o un chitarrinettaccio de la fiera. 5
Fa er nasino,
6 ha un tantin de raganella, 7
sfiata a ccommido suo, ggnavola, stona,
e sporcifica er mastro de cappella.
Quanno la
vosce nun ze tiè 8 ppiú bbona,
invesce de cantà la tarantella
se sta a ccasa e sse disce la corona.
Un ladro che
sse 1 ttrovi, poverello,
cor laccio ar collo e ’r boja su le spalle,
si 2 in quer punto j’annassi pe le palle
la vojja 3 de cantavve 4 un ritornello,
sarebbe un
zuccherino appett’a cquello
che ccanta adesso da tenore a Vvalle,
co ccerte note sue d’assomijjalle
ar chiudese e a l’uprisse 5 d’un cancello.
E llui, che
ssa in cusscenza quer che vvale,
e, ppe cquanto s’ajjuti a rregolizzia,
trema pe la staggion de carnovale,
co cchi
jj’arimettesse 6 er fiato in bocca
sce spartiría 7 d’accordo e de ggiustizzia
li du’ mila scudacci che sse scrocca.
Regazzi, io
ggià da jjeri ve l’ho ddetto:
ve l’ho avvisato puro 1 stammatina:
ve l’aripeto mó: zzitti, per dina:
li sovrani portateje rispetto.
Fijji,
abbadat’a vvoi, c’ortre ar proscetto 2
de Santa Cchiesa e a la Lègge divina,
c’è er guaio de la Santa quajjottina, 3
si 4 è ppoco la galerra e ’r cavalletto.
Je casca a un
omo una corona in testa?
Ecchelo 5 in faccia a li veri cristiani
diventato er ziggnore de la festa.
Perché, ccome
li soggni de la notte
sò immaggine 6 der giorno, li sovrani
sò immaggine de Ddio guaste e ccorrotte.
Pietro,
lassela stà: 1 Ppietro, che ffai!
bbada, nun disprezzà li mi’ conzijji:
penza ch’è mmaritata, e cche ttu pijji
n’amiscizzia pe tté ppiena de guai.
Tu tt’accechi
accusí pperché nnun zai
doppo tanti tremori e annisconnijji 2
che ggran pena sia quella d’avé ffijji
e nnun potelli chiamà ffijji mai.
Tu nnun
conoschi, Pietro mio, l’affanno
dell’èsse padre e dder vedé ccarezze
che sse le gode un antro 3 per inganno.
Tu nnun
capischi, nò, ccome se 4 langue
ner dové ssopportà le tirannezze
fatte sull’occhi propî ar propio sangue.
Confessamme!
e de che? per che ppeccato?
perché ho spidito all’infernaccio un Conte?
perché ho vvorzuto scancellà 1 l’impronte
de l’onor de mi’ fijja svergoggnato?
Bbe’, una
vorta che mm’hanno condannato
nun je rest’antro che pportamme a Pponte. 2
È mmejjo de morí ddecapitato,
che avé la testa co una macchia in fronte.
Ma ssi 3
ddoppo er morì cc’è un antro monno,
nò, sti ggiudisci infami e sto governo
nun dormiranno ppiù ttranquillo un zonno;
perché oggni
notte che jje lassi Iddio
je verrò avanti co la testa in mano
a cchiedeje raggion der zangue mio.
Va spargenno
1 lo sguattero de Fressce 2
ch’er Papa in trent’annetti, e mmanco tanto,
co l’ajjuto de Ddio, si jj’arïessce, 3
vò ariddrizzà le gamme 4 a ttutto quanto.
Certo, er
penziere è un gran penziere santo,
e vvederemo che ddiavolo n’essce.
Però, bbeato chi cciarriva! e intanto
maggna, cavallo mio, ché ll’erba cressce. 5
Ma in
quest’antri 6 trent’anni, Angelo, dimme,
che sse fa, 7 ssi 8 oggniggiorno t’aricacchia 9
un guaio novo e un novo colaimme? 10
In
quest’antri trent’anni a nnoi sce 11 tocca
la bbenna, 12 er catenaccio e la mordacchia,
sull’occhi, su l’orecchie e ssu la bbocca.
Che ddorme!
dorme un cazzo. 1 Er Papa è svejjo
e pporta la bbattuta der zorfeggio,
e in cento mila Papa io ve lo sscejjo 2
p’er piú Ppapa gajjardo 3 in ner conteggio.
Lo so, vvoi
me direte, sor Cornejjo: 4
perché ddunque lui gode er privileggio
de fà ttutte le cose pe la mejjo,
e ttutto quanto j’ariessce in peggio?
Nun ce
vò mmica l’àrgibbra 5 a rribbatte 6
scerte difficortà cche mme se facci. 7
Queste le sanno puro 8 le sciavatte. 9
Ecco er
perché: un Pontescife, fijjolo,
nassce com’e nnoi poveri cazzacci
co ddu’ cojjoni e cco un ciarvello solo.
Er Papa ride?
Male, amico! È sseggno
c’a mmomenti er zu’ popolo ha da piaggne. 1
Le risatine de sto bbon padreggno
pe nnoi fijjastri 2 sò ssempre compaggne.
Ste facciacce
che pporteno er trireggno
s’assomijjeno tutte a le castaggne:
bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,
muffe de drento e ppiene de magaggne.
Er Papa ghiggna? Sce sò gguai per aria:
tanto ppiú cch’er zu’ ride 3 de sti tempi
nun me pare una cosa nescessaria.
Fijji mii
cari, state bbene attenti.
Sovrani in alegria sò bbrutti esempi.
Chi rride cosa fa? Mmostra li denti.
Nun
pòi crede 1 che ppranzo che ccià 2 ffatto
quel’accidente 3 de Padron Cammillo.
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:
ma un pranzo, un pranzo da restacce 4 matto.
Quello
perantro 5 c’ha mmesso er ziggillo
a ttutto er rimanente de lo ssciatto, 6
è stato, guarda a mmé, ttanto de piatto
de strozzapreti 7 cotti cor zughillo. 8
Ma a
pproposito cqui de strozzapreti:
io nun pozzo 9 capí ppe cche rraggione
s’abbi da dí cche strozzino li preti:
quanno oggni
prete è un sscioto 10 de cristiano
da iggnottisse 11 magara in un boccone
er zor Pavolo Bbionni 12 sano sano.
Nun è
er primo Vicario né er ziconno
che dde viggijj’e ttempora se sbajja,
e cconfonne er merluzzo co la quajja,
l’arenga e ’r porco, la vitella e ’r tonno.
Fijjo, li
Cardinali de sto monno,
e ttant’antra conzimile canajja,
tiengheno la cusscenza fatta a mmajja
da potella stirà ccome che vvonno.
E cquesti
sò cquell’uteri 1 de vento
che ss’ha d’accompaggnalli co le torce
come fussino un antro 2 Sagramento!
Capàsci
a un pover’omo che cce storce 3
de fasselo 4 dà in tavola ar momento
cuscinato in guazzetto, o in agr’e ddorce.
Naturale
ch’er Prencipe Turlonia
ha d’aristà 1 affilato e ttasciturno:
se 2 tratta mó cche in ner ziconno turno
la Sagra Rota ha da portallo ar quonia. 3
Dunque
machinerà cquarche ffandonia
e cquarc’antro bber trafico nutturno, 4
come li primi imbrojji che cce furno
pe mmannà la raggione in Babbilonia.
Vedi quante
sentenze e cquanta ggente
pe abbassà l’arbaggía a sti bboni mobbili,
che nun vonno un espurio pe pparente!
E jje s’hanno
d’avé ttanti ariguardi
quanno, per Cristo, er ceto de li nobbili
è ttutto un spedalone de bbastardi! 5
Per la quarta
proposizione rotale
che
accaderà il...
nella causa
di filiazione e adizione alla paterna eredità
fra il duca
Lorenzo Sforza Cesarini e i coniugi Torlonia pel loro figlio Giulio
Sotto gli
auspici di cotal 1 che adorna,
bestemmiando,
l’umano col divino,
nell’arena
rotal Giulio Sforzino 2
la quarta
volta a battagliar ritorna.
Creda il
mondo però, seppur non torna
lo inchiostro
in latte e l’acqua fresca in vino,
che don
Giulio, e donn’Anna e don Marino 3
saran
disfatti e n’avran mazza e corna.
E tempo
è ben che cessi il vitupero
di madri e di
sorelle snaturate
che infaman
sé per offuscare il vero.
Oh Giudici di
Dio, voi le salvate,
ributtando il
rossor dell’adultero
sull’avarizia
e sul mentir d’un frate. 4
1
Il conte Monaldo Leopardi di Recanati, autore del famoso
opuscolo intitolato Appendice alla Causa celebre, dove paragona in certo
modo la veracità della duchessa Gertrude Sforza a quella della Beata
Vergine sul fatto del loro concepimento. 2 Don Giulio Torlonia,
nipote, pel lato materno, dell’ultimo duca Salvatore Sforza, il quale lo
istituí erede in pregiudizio del proprio fratello Lorenzo, dichiarato bastardo.
I commensali de’ Torlonia si dilettano di chiamarlo lusinghevolmente il
piccolo Sforza, di che viene Sforzino. 3 Anna Sforza e
Marino Torlonia, genitori dello Sforzino. 4 Il molto reverendo padre
Pier Luigi dell’Angiolo Custode, carmelitano scalzo (fratello di Enrico
Giuliani odierno drudo o marito di coscienza della vecchia duchessa Gertrude),
il quale rivelò un’antica confessione della buona dama, onde col
consenso di lei fondare la miglior prova del concepimento adulterino del di lei
figlio Lorenzo.
Liticà
a Rroma io?! Fussi ammattito.
A mmé la Sagra Rota nun me frega. 1
Me se 2 maggnino puro 3 la bbottega,
io nun fo ccausa un cazzo: 4 ecco finito.
Sai quanto
stai ppiú mmejjo a bbon partito
davanti a un tribbunale che tte lega?
Ché ssi ar meno ggiustizzia te se nega,
te tiengheno 5 un parlà cc’abbi capito.
Ma in Rota!
in primi 6 parleno latino,
poi ’ggni tanto te stampeno un degreto,
che un giorno disce pane e un antro 7 vino.
Quanno infine
sei spinto ar priscipizzio,
c’è cquer porco puttano de segreto,
che nnun zai manco chi tte fa er zervizzio.
Senti, mi’ nome. 2 Fin da quanno io ero
tant’arto, 3 me disceva Mamma mia:
«Fijjo, in gnisun incontro che sse sia 4
nun dí mmai nero ar bianco e bbianco ar nero.
Pe cqualunque
vernisce je se dia,
quello ch’è ffarzo nun diventa vero.
Co li padroni tui vacce sincero,
e nun fà cche tte trovino in buscía». 5
La santa
Verità ssai quante pene
m’ha sparaggnate ar monno? Un priscipizzio. 6
L’ho ssempre detta e mme ne trovo bbene.
Quest’è
ddunque er gran punto ch’io te prèdico,
pe ssarvà onore e ppane in ner zervizzio.
Tu ppisscia chiaro e ffa’ le fiche ar medico. 7
Voi dateme
una donna, fratèr caro,
che nun abbi un pannuccio, un sciugatore,
un fazzoletto, un piatto, un pissciatore,
una forchetta, un cortello, un cucchiaro.
Voi datemela
iggnuda e ssenza un paro
de scarpe, o una scopetta, o un spicciatore,
in d’un paese che nun c’è un zartore,
un spazzino, un mercante, o un carzolaro.
Fatela senza
casa e ssenza tetto:
fate de ppiú cche nun conoschi foco,
e nnun zappi 1 che ssia ssedia né lletto.
Figurateve
mò tutta la zella 2
c’ha d’avé sta donnetta in oggni loco,
eppo’ annateme a ddí 3 cch’Eva era bbella.
Nun dite male
d’Eva, perché Eva
fesce da mojje ar primo padr’Adamo:
e nnoi, quanti in ner monno sce ne stamo 1
nun nasscemio 2 si 3 llei nu lo voleva.
È
stata sporca? Ebbè? cquesto nun leva
che nnoi l’ariverimo e arispettamo;
e ccome tutte fronne de quer ramo
ricasca sopr’a nnoi quanto fasceva.
Io poi dico
c’ha ttorto chi l’accusa;
e mme credo 4 ch’Iddio j’averà ddato
la pulizzia come l’asscenza 5 infusa.
E
cquann’anche accusì nnun fussi stato,
so cche la pulizzia c’adesso s’usa
è vvenuta pe ccausa der peccato.
Te
l’acconcedo: 1 me fa un po’ ammattí:
è un tantino furastica, lo so:
e ’ggniquarvorta j’addimanno un zì, 2
lei me s’inciuffa 3 e mme dà in faccia un no.
Co ttutto
questo, lassete 4 serví:
fajje puro risponne 5 quer che vvò.
Ma a ppedibus, 6 per dio, scià 7 da vení;
e a la longa pò annà, mma jje la fo.
A bbon conto
jerzera ggià cce fu
un pass’avanti; e ffidete 8 de mé
che ggià bbatte la strada pe l’ingiú.
Bbasta,
pijjamo un po’ cquer che mme dà:
ccontentamose 9 mó de quer che vviè;
e pp’er restante Iddio provederà.
Letto ch’ebbe
er Vangelo, in piede in piede
quer bon Padre Curato tanto dotto
se 1 piantò cco le chiappe sul paliotto
a spiegà li misteri de la fede.
Ce li
vortò de sopra e ppoi de sotto:
ciariccontò 2 la cosa come aggnede; 3
e de bbone raggione sce ne diede
piú assai de sei via otto quarantotto.
Riccontò ’na carretta de parabbole,
e cce ne fesce poi la spiegazzione,
come fa er Casamia doppo le gabbole. 4
Inzomma, da
la predica de jjeri,
ggira che tt’ariggira, in concrusione
venissimo 5 a ccapí cche ssò mmisteri.
Sto a spasso,
2 grazziaddio sto a spasso, Checco.
E inzin’a ttanto c’averò er tigame 3
de bbobba 4 dar convento de le Dame
de Tor-de-Specchi, ho vvinto un terno a ssecco. 5
Che sserve? A la fatica io nun ciazzecco: 6
quasi è ppiú mmejjo de morí de fame.
E cquer fà ttutto l’anno er faleggname
nun è vvita pe mmé: ppropio me secco.
Sò
stato mozzo, sempriscista, coco...
Ar fin de conti 7 [poi] me sò ddisciso
de capí cche un ber gioco dura poco.
Uhm, quer zempre
reggina è un brutto ingergo:
e nnemmanco annerebbe 8 in paradiso
pe nnun cantà in eterno er Tantummergo.
E nnun zenti
che llússcia? 1 nu lo vedi
si cche ffresco 2 viè ggiú da li canali?
Co st’inferno che cqui, 3 ccosa te credi?
Manco è bbono l’ombrello e li stivali.
Cristo!
quanno se 4 mette a ttemporali
je dà ggiú cco le mano e cco li piedi.
Ah! er zole 5 in sti diluvî univerzali
lo mettemo da parte pe l’eredi.
Oh annate a
rregge 6 a scarpe co st’acquetta.
Le sòle ve diventeno una sponga: 7
le tomarre 8 un bajocco de trippetta:
bast’a ddí
9 cch’è da un mese c’a Rripetta 10
sce 11 corre fiume quant’è llarga e llonga,
e ’r pane je lo porteno in barchetta.
Ce lamentamo
tanto eh, ggente mia,
perché st’anno nun c’è vvino né ggrano?
E avemo core d’accusà er Zovrano
che nun vò pprovibbì la caristia?
Acquietateve
llà, pporchi bbú e vvia.
Sò cquesti li discorzi der cristiano?
Se lo merita er popolo romano
d’avé la grasscia 1 ar forno e all’ostaria?
Cqua ffurti,
cqua rresie, congiure e ssette;
cqua ggioco, cqua pputtane, ozzio e bbiastime, 2
cqua inzurti, tradimenti, arme e vvennette!...
Si 3
nnun c’è un vago d’ua, 4 si nnun c’è spiga
de grano, nun è er Papa che cciopprime: 5
è la mano de Ddio che cce gastiga.
Ma cche, oggi
sei sceco? 1 Sì, ssì, cquello:
quer vecchio stroppio 2 e ccor un occhio pisto
che ccià 3 steso la mano: nu l’hai visto?
Presto, vàjje a pportà sto quadrinello.
Fijjo mio,
quanno incontri un poverello
fatte conto 4 de véde 5 Ggesucristo;
e cquanno un omo disce ho ffame, tristo
chi nun je bbutta un tozzo ner cappello.
Chi ssa cquer
vecchio, co li scenci sui,
che un anno addietro nun avessi 6 modo
la carità de poté ffalla 7 lui?
E nnoi, che
ggrazziaddio oggi maggnamo,
maggneremo domani? Eccolo er nodo.
Tutti l’ommini sò ffijji d’Adamo.
Ggesú mmio, pe
li meriti der pranzo
de le nozze de Cana, e in divozzione
de la vostra santissima passione
esaudite sto povero Venanzo.
Date la
providenza ar mi’ padrone,
e ffate, o bbon Gesú, cc’abbi uno scanzo 1
da potemme 2 pagà cquer che jj’avanzo
pe èsse 3 stato co llui troppo cojjone.
Dateje la
salute, o Ggesú mmio,
acciò nun crepi cor mi’ sangue addosso,
cosa da famme arinegacce 4 Iddio.
E ppe cquesta
preghiera che vve faccio
dateje presto un cappelletto rosso
eppoi l’eterna grolia a l’infernaccio.
Dar Popolo pe
annà a li Du’ Mascelli
su la Piazza de Spaggna a mmano manca
in fonno a la piazzetta Miggnanelli,
ve viè de petto una facciata bbianca.
Llí, a
llettere ppiú ggranne de ggirelli
tutti indorati, sce 2 sta scritto: Bbanca
Romana. Ebbè, ccurrete, poverelli,
ché de príffete 3 llí nnun ce n’amanca.
Sta bbanca
inzomma è una scuperta nova
pe ddispenzà cquadrini a cchi li chiede
in qualunque bbisoggno s’aritrova.
Sortanto
sc’è 4 cche sta Bbanca Romana,
com’ha ddetto quarcuno che cciaggnéde, 5
capissce poco la lingua itajjana.
Fu inzomma
che ar partí da Stazzanello
la sora Pasqua la commare mia
me diede un zanguinaccio, e Nnastasia
se lo vòrze agguattà ssotto ar guarnello.
Ce ne venímio
1 bberbello bberbello,
quanno propio a l’entrà de Porta Pia,
fussi caso o cc’avessimo la spia,
ce vedemo affermà 2 dda un cacarello. 3
Lui, visto er
bozzo, schiaffò ssotto un braccio
e ll’aggnéde 4 a ttastà ddove capite
co la scusa de prenne er zanguinaccio.
Come finí?
ffiní sta bbuggiarata
ch’io perze tutto, e ppe nnun fà una lite
me portai via mi’ fijja sdoganata. 5
Ha ttutte le
vertú cch’è nescessario
pe bben zerví la nobbirtà rromana.
È mmatta, è strega, è spia, è lladra, è
cciana, 1
e ppe bbuscíe 2 nun ce la pò er lunario.
Si 3
ppoi volemo seguità er rosario,
er padrone lo serve da puttana,
la padrona la serve da ruffiana,
e ccusí ss’aritrippica 4 er zalario.
Inortre sce
saría 5 n’antra 6 catasta
de difettucci e ttutti a bbommercato;
ma vve sbrigo: è una serva, e ttant’ abbasta.
E nno ppe
ggnente 7 da tant’anni addietro,
le serve in ner pretorio de Pilato
sò state mmaledette da San Pietro.
Vedi quer
marinaro cor cappotto
e un cappello de sòla tonno tonno
che sta in quer naviscello in fonno in fonno
rosicannose un pezzo de bbiscotto?
Ebbè,
cquer marinaro, ch’è un pilotto, 1
m’assicurò jjerzera che sse 2 ponno
trovà ccerti paesi in cap’ar monno
dove oggn’omo che nnassce è un ottantotto. 3
Cristo! che
rrazza de trippetta santa
ha d’avé llí una donna! In diesci parti 4
fa ddiesci fijji e ssò ottoscentottanta!
Eppuro,
5 cqui da noi, quarche bbuffone
ve negherà cche Iddio fatto in tre quarti
pò èsse un zol’Iddio 6 in tre pperzone.
Je disceva er
Maestro Confidati, 1
mentr’io stavo a ppulí li cannejjeri, 2
che tutti li soggetti, o ffinti o vveri,
se 3 ponno mette 4 in musica adattati.
Lui
scià 5 mmesso scinqu’ommini affamati
d’una Commedia der zor Dant’Argèri; 6
e, un anno prima, a Ssan Filippo Neri,
sce messe 7 l’oratorio 8 de li frati.
Io medémo
9 ho ssentito un capponcello 10
ner vespero a Ssan Pietro, er primo sarmo,
de méttesce una ssedia e uno sgabbello. 11
E la padrona
mia s’è pperzuasa
de facce mette 12 venti canne e un parmo
de scitazzione der padron de casa.
Ricco un
zartore mó?! Stateve quieti.
A sti tempacci che o nun c’è llavore,
o nnun ze 1 paga, chi ffa st’arte more
de la morte che ttocca a li poeti.
Quanno che li
Padriarchi e li Profeti
se 1 squarciaveno addosso er giustacore,
quello sí cch’era er tempo c’un zartore
se 1 poteva arricchì ccome li preti.
Poi, bbast’a
vvede 2 l’accommida-panni
si cche ffrega in ner ghetto de la Rua 3
n’è ssaputa restà ddoppo tant’anni.
Lo so, lloro
averanno arippezzato:
ma, arittoppa arittoppa un mese o ddua,
finarmente er zartore era chiamato.
Lo sai chi
è cquello che jj’ho ddetto addio
e mm’ha arisposto senza comprimenti?
Quell’è un marchese, un aventore mio:
inzomma, è un antro 1 de li mi’ crïenti.
Eh! ssemo
amichi antichi assai, perch’io
j’ho ssotterrati tutti li parenti;
e ll’urtimo l’antr’anno è stato un zio
che ll’arricchí mmorenno d’accidenti.
Sappi
ch’è un gran bravissimo siggnore
che ppaga li mortorî da sovrano,
come faranno a llui quanno che mmore.
Pe cquesto io
spero che nun zii 2 lontano,
co l’ajjuto de Ddio, d’avé l’onore
de seppellillo io co le mi’ mano.
Tutti a sto
Monno só ppieni de vojje,
e ggnisuno è ccontento der zu’ stato.
Er marito se laggna d’avé mmojje
e lo scapolo invidia er maritato.
Quer
ch’è llegato se 1 vorebbe ssciojje; 2
quer ch’è ssciorto vorebb’èsse legato;
e oggnuno v’aricconta le su’ dojje
che nun ciànno 3 né ccorpa 4 né ppeccato.
La mi’
padrona e la mi’ padroncina,
ponno appunto serví ppe mmette 5 fora
la mostra de sta bbella palazzina. 6
La madre,
semprigrazzia, 7 a ttutte l’ora
smania d’èsse chiamata siggnorina:
la fijja poi de diventà ssiggnora.
Sí,
tterremoto, sí: nnun te cojjono.
Drent’a la stanzia mia che ssemo in tanti
scià 1 svejjati d’un zarto 2 a ttutti quanti,
e ttu, gghiro 3 fottuto, hai sto bber 4 dono?
Ggnente de
meno che 5 cc’è pparzo un tono
che ccià 1 ffatto chiamà ttutti li santi!
Antro 6 che camminà ll’appiggionanti!
È stato un terremoto bbell’e bbono.
Tant’è
vvero, che, cquanno è usscito Toto, 7
ne la bbottega de padron Grigorio
j’hanno detto: «Hai sentito er terremoto?».
Chi ddisceva
ch’è stato annullatorio,
e cchi ddisceva d’attaccacce 8 er voto
perché invesce è vvienuto succurzorio.
Istoria de
Don Màvero. 2 Lui era
fijjo d’un artebbianca 3 pirolese 4
che gguadaggnava trenta ggiorni ar mese
cor buzzico, 5 lo schifo 6 e la stadera.
Vedenno
dunque che in ner zu’ paese
è un cojjone capato 7 chi cce spera,
pe ffà ssorte pijjò la strada vera,
e ss’aggnéde 8 a vvistí Ccamannolese. 9
Da frate poi
fu eletto Ggenerale,
e slargò er dindarolo, 10 e ssímir 11 cosa
arifesce 12 creato Cardinale.
Finarmente
è ssalito ar terzo scelo. 13
Mó cch’è Bbeatitudine sce 14 tosa,
e er zu’ bbarbiere sce dà er contrapelo.
Io me
sò 1 avvezzo a ttutto in vita mia,
fora c’a cquella porca de piggione.
Pe cquanto abbino fatto, Annamaria,
nun ciò 2 ppotuto mai pijjà ppassione.
A st’usanza
che cqui, nnun zo cche ssia,
addrittura nun ciò indisposizzione.
Propio me sa dd’antipaticheria:
propio nun me sce sento vocazzione.
Pe ’n
esempio, li frati a ppoc’a ppoco
s’avvezzeranno tutti ar rifettorio,
ar zuscidume, 3 a la pigrizzia, ar gioco.
Cottuttosciò,
4 mme ggiura un Cappuccino
che nun fanno mai l’ossa a cquer martorio
de sentisse 5 svejjà pp’er matutino.
Ecco che cce
s’abbusca 1 a sserví ddonne,
massimo 2 quanno sò cciucce 3 da some.
Lei m’aveva da dí nnome e ccoggnome
perch’io nun me sciavesse da confonne. 4
Lei
però, ssecca secca, m’arisponne
«Se 5 chiama Aronne». Sí, ddico, ma ccome...
E llei da capo m’aripete er nome,
e mme pianta strillanno: «Aronne, Aronne».
A sta
risposta io me n’aggnede 6 in Ghetto,
e ar prim’Aronne che mme fu inzeggnato
je lassai la pilliccia e ’r fazzoletto.
Oh ccazzo! ho
da capí pper incantesimo?!
Lei m’aveva da dí ppuro 7 er casato
e nnò ssortanto er nome de bbattesimo. 8
Disce ch’er
monno è bbello perch’è vvario.
Pe sta raggione io vorze 2 una matina
annammene 3 a vvedé la quajjottina 4
ch’è ssuccessa a la crosce der Carvario.
Trovai
ggià ppronto er boja cor vicario, 5
e sse 6 stava pe ddà la tajjatina:
quanno ecco un frate co ttanta de schina 7
che mme viè a rripparà ccome un zipario.
«Padre»,
dico, «levateve d’avanti...»
ma in quer frattempo, tzà, sse 8 sente un bòtto
che ffa ddà uno strilletto a ttutti quanti.
Me slongo, e
vvedo ggià ffinito er gioco.
Bbravi! Ma un’antra 9 vorta io me ne fotto
d’annamme 10 a scommidà ppe ttanto poco.
Tutti a
immaggine sua?! Fra Sperandio,
avétesce 1 un po’ ffremma, io ve la sfravolo. 2
Me lo vienissi a ddì ppuro 3 San Pavolo,
je daría 4 der cazzaccio a ggenio mio.
Sicconno
5 voi, ar conto che ffacc’io,
vieressimo 6 a sti termini der cavolo
che inzino, attent’a mmé, cche inzino er diavolo
sii stato fatto a immaggine de Ddio.
Eh cche
vvòi 7 Santi Padri e Ssante Madre!
Ste sorte de resíe, 8 frate mio caro,
sò rresíe puro in bocca a un Zanto Padre.
Si 9
Iddio se presentassi co l’immaggine
c’ha ddato a un ortolano o a un cicoriaro,
me parerebbe er Dio de la bburraggine.
Li trescento
ggiudii de Ggedeone
se n’aggnédeno 1 dunque a ffil a ffila
armati inzin’all’occhi d’una pila,
d’una fiaccola drento, e dd’un trombone.
Arrivati poi
llà, ccome che sfila
la truppa de li bballi a Ttordinone,
girònno 2 tante vorte in priscissione,
che de trescento parzeno 3 tremila.
Quanno tutú,
ttutú, lle pile rotte,
torce all’aria, trescento ritornelli,
e li nimmichi ggiú ccom’e rricotte.
E mmó ttutti
st’eserciti cojjoni
invesce d’annà in guerra com’e cquelli,
se metteno 4 a spregà ttanti cannoni!
Che
tt’impicci Fra Elia?! Tutti li grobbi 1
che stanno sparzi pe li sette sceli 2
sce se 3 troveno ebbrei, turchi e ffedeli
come in ner nostro? Miserere nobbi!
Tu mme dichi
una cosa che mme ggeli.
Vedi quanti Abbacucchi, quanti Ggiobbi,
quanti Santi Re Ddàvidi e Ggiacobbi,
e quanti Merdocchei, Caini e Abbeli!
Vedi
quant’antre 4 vecchie co l’occhiali!
quant’antri cappuccini co le sporte!
e cquant’antri peccati origginali!
Cristo!
quant’antri re! quant’antre Corte!
freggna! quant’antri Papi e Ccardinali!
cazzo! quant’antre incarnazzione e mmorte! 5
L’anime cosa
sò? ssò spesce 1 d’arie.
Dunque, come a li piani e a le colline
se danno 2 l’arie grosse e ll’arie fine,
sce 3 sò ll’anime fine e ll’ordinarie.
Le prime
sò ppe li Re, le Reggine,
li Papi, e le perzone nescessarie:
quell’antre 4 poi de qualità contrarie
sò ppe la ggente da contà a dduzzine.
Pe sto Monno
la cosa è accommidata;
ma in quell’antro 5 de llà cc’è ggran pavura
che sse svòrtichi 6 tutta la frittata.
Perché
Ccristo, e Ssan Pietro er zu’ guardiano,
s’hanno d’aricordà ffin ch’Iddio dura
che cchi li messe 7 in crosce era un zovrano.
Ecchene
1 un antra 2 che cciò 3 ttanto riso.
Tre o cquattro feste fa, Ppadre Avaristo
drento a li Scento-preti 4 a pponte Sisto
ce diede in de la predica st’avviso:
c’oggni (ve
porto er zu’ parlà pprisciso)
c’oggni cristiano c’arinega Cristo,
fussi anche er Papa, nun farà l’acquisto
de la grolia der zanto Paradiso.
Du’ sbajji.
Er primo, c’un Papa a l’entrata
potessi èsse 5 cacciato da San Pietro,
che nun faria 6 st’azzione a un cammerata.
L’antro
sbajjo è, cch’er zor Chiavone-ggiallo
puro 7 un de noi sciarimannassi 8 addietro
doppo quer fatto de la serva e ’r gallo.
Er frate
zzoccolante Fra Mmodesto,
che li libbri li sa ttutti a mmemoria,
m’ha rriccontato una gran bell’istoria
successa in ner papato de Pio Sesto.
Disce lui
dunque, e lo sostiè, che cquesto
prima d’annà a ggodé l’eterna groria
vorze 1 annà a Vvienna a ggastigà la bboria
d’un re cche ccamminava troppo presto.
Arrivò,
cce parlò, jje disse tutto;
e, cquann’ebbe finito, er Re ttodesco
disce che jj’arispose assciutto assciutto:
«Pio Sesto
mio, vatte a ffà fotte, e ddamme... » 2
Allora er Papa cche cconobbe er fresco 3
ritornò cco la coda tra le gamme.
Er Concrave
de Roma, Mastro Checco,
tu lo chiami er Pretorio de Pilato.
Senti mó in che mmaggnèra 1 io l’ho spiegato,
e ccojjoneme poi si nun ciazzecco. 2
A mmé ttutto
st’impiccio ingarbujjato
me pare un gioco-lisscio 3 secco secco: 4
ché cqua ttutto lo studio è dd’annà ar lecco,
llà ttutto er giro 5 è dd’arrivà ar Papato.
Ccusí ’ggni
Minentissimo è una bboccia,
che ss’ingeggna cqua e llà, ccor piommo o ssenza,
de metteje 6 viscino la capoccia. 7
Fin che
cc’è strada de passà ttra ’r mucchio
se 8 prova de fà er tiro e cce se penza:
si nnò 9 ss’azzarda e ss’aricorre ar trucchio.
Sai? Lo sposo 1 de Mea la lavannara,
Còcco Sferra, quer bravo nôtatore,
propio mó sto fiumaccio traditore
je l’ha ffatta tra er Passo e la Leggnara.
Chi ddisce
che in ner roppe la fiumara
je pòzzi èsse 2 arrivato er zangue ar core:
chi ddisce un capoggiro, chi un tremore,
e cchi ddisce pe ffà ttroppa caggnara. 3
Sii l’una o
l’antra, o cquarche granchio, oppuro 4
ch’er fiume j’abbi fatto mulinello,
fatt’è cche s’è affogato de sicuro.
Com’è
ito a ffiní, ppovero Sferra!
Che ssò li fiumi! 5 Disce bbene quello:
loda lo mare e attacchete 6 a la terra.
Adesso
ch’è la moda ggenerale
che ss’abbi da mutà ttutti li gusti,
e ttutto, all’occhi de sti bbelli fusti,
a ttempi antichi se 1 fasceva male,
chi llavorava
veste d’urinale,
ciprïa, tacchi, guardanfanti e bbusti,
pe l’ingiustizzia de sti tempi ingiusti
termina la vecchiaja a lo spedale.
Mò
nnun useno ppiú ddomenichini, 2
perché ddescenza e ppubbrico decoro
nun zò ppiú mmarcanzia da figurini.
Ma llassino
durà sta bbella jjoja, 3
e, dde l’usanze vecchie, a ttempi loro
nun resteranno che ssovrani e bboja.
Ce
ponn’èsse in ner monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nòva der Curato
nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.
Nun te dico
er colore de la pelle
piú ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che tt’appicceno er foco a le bbudelle.
Quer naso
solo, quela bbocca sola,
queli du’ occhi, sò rrobba, Ggiuvanni,
da fàtte 1 restà llí ssenza parola.
Si 2
è ttanta bella a vvédela vistita,
Cristo, cosa sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita!
Piú ppresto a
spasso, 1 che sserví 2 un francese.
E quann’anche io sciannasse 3 pe la fame,
voría 4 da sti Monzú e da ste Madame
ar meno ar meno trenta piastre ar mese.
Tutti
sò lladri co ste ggente infame:
tutte le spese sò ccattive spese:
je puzza tutto 5 quer che ddà er paese,
polli, erbe, caccia, pessce, ova e bbestiame.
Finissi
6 però cqua, nnun zaría ggnente, 7
er pegg’è li crapicci c’hanno in testa
pe cconfonne 8 er cervello a cchi li sente.
Trall’antre
9 fantasie de quella ssciocca
de Madama Ggiujjè, tt’abbasti questa
che vvoleva l’arrosto in ne la brocca. 10
Tutta la mi’
passione, Sarvatore,
sarebbe quella de nun fà mmai ggnente;
e cquanno che sto in ozzio, propiamente
me pare, bbene mio!, d’èsse un Ziggnore.
Du’ mesi fa
pperò cquel’accidente
der Cardinale se 1 pescò un dottore
che jj’ha ordinato pe le strette ar core
de strufinasse 2 er corpo isternamente.
Me tocca
dunque a mmé mmatina e ssera,
d’esiguijje sta porca de riscetta;
e ecchete, 3 compare, in che mmaggnera: 4
se 5
strufina la pelle ar Cardinale,
e jje s’allustra a fforza de scopetta
come se dassi 6 er lustro a uno stivale.
Entrato er
brigattiere 1 in ner bordello
je se fa avanti serio serio un prete.
Disce: «Chi ssete voi? cosa volete?»
Disce: «La forza, e pportà llei ’n Castello».
Disce: «Nu lo
sapete, bberzitello, 2
co cchi avete da fà? nnu lo sapete?
Aspettate un momento e vvederete,
e ttratanto cacciateve er cappello.
Appena poi
che ll’averete visto,
dite a quer zor Vicario der guazzetto
ch’io nun conosco for ch’er Papa e Ccristo».
Detto ch’ebbe
accusí, sse 3 scercò addosso,
arzò la su’ man dritta sur zucchetto,
se 3 levò er nero e cce se messe 4 er rosso.
5
Va’ vva
1 er Cardinalume come piove,
si’ 2 bbenedetta l’animaccia sua!
Viè 3 cqua, Sghiggna, contamoli: Uno, dua,
tre, cquattro, scinque, sei, sette, otto, nove,
diesci,
unnisci, dodisci... Eh la bbua!
Sò ttant’e ttante ste Minenze nòve, 4
che, a vvolelli contà, nun te pòi move 5
pe ttre o cquattr’ora de la vita tua.
Guarda che
rriveree! 6 Vedi che sfarzo!
Ecco poi si 7 pperché ll’entrata pubbrica
dar capo-d’anno nun arriva a Mmarzo.
Te ggiuro
ch’io me tajjerebbe 8 un braccio
che aritornassi 9 er tempo de repubbrica
pe dijje a ttutti: Cittadin cazzaccio.
Una vaccina
dell’Agro Romano,
senza la pelle, l’interiori, l’ossa,
er zangue e ’r grasso, pò ppesà, Gghitano, 1
un quaranta descine 2 a ddílla grossa.
Valutanno mó
er grano a la riscossa
da la mola e ffrullone, io dico er grano
d’oggni rubbio, un pell’antro, se ne possa
fà un cinquanta decine pe lo spiano.
Incirc’ar
vino poi, tu adesso mette 3
c’una bbotte da sedisci 4 a la fine
dà ddu’ mila e cquarant’otto fujjette.
Dunque,
l’Eminentissimo s’iggnotte 5
drent’a ddiescianni trentasei vaccine,
quinisci rubbia, e cquarantotto bbotte.
Mó cche
ssò ssolo e cche nun c’è er padrone,
vedemo si 1 ll’agresta oggi va mmale.
Ôooh, un grosso ho gguadaggnato sur cappone,
du’ bbajocchi sull’erbe, uno sur zale.
Sei e mmezzo
lo scorzo de carbone
c’ho sseggnato de ppiú, cquattro er ciggnale 2
mezzo er pepe, uno er riso, uno er limone
che mm’avanzò da jjeri, e ttre er caviale.
Poi mezzo grosso
c’ho ttirato fora
pe spesette minute, e ppiú un bajocco
su la marva 3 che sserve a la Siggnora.
Mezz’antro
grosso 4 ttra fformaggio e ffrutti...
Quant’è ? Tre ggiuli in punto. Eh nun
zò ssciocco.
Ma
aringrazziam’ Iddio: lo fanno tutti.
Tiè,
Ppippo, 1 intanto maggnete 2 sto petto
de bbeccaccia in zarmí cch’è ttanta bbona.
E ecco le sarcicce 3 e la fettona
de pane casareccio che tt’ho ddetto.
A ssei ora
viè ppoi p’er vicoletto,
e sta’ attent’a l’orloggio quanno sona;
ch’io pe ssolito allora la padrona
l’ho ggià bbell’e spojjata e mmess’a lletto.
Un quarto
doppo io te darò er zegnale,
tirerò er zalissceggne, 4 e ttu vvia via
sscivola 5 in ner portone e ppe le scale.
Come sei
ddrento poi, nun fà er balordo:
va’ dritto dritto in ne la stanzia mia,
perché la padroncina è ggià d’accordo.
Fàmose
un po’ a ccapí. 2 Cche ddon Micchele
porti sempre in zaccoccia du’ pistole,
e cche invesce de fà ttante parole
le spari addosso a cchi jje smove er fele, 3
quest’è
una cosa ppiú cchiara der zole,
e nnun zerve a spregacce 4 le cannele: 5
com’è ccerto che llui è er piú ffedele 6
tra li Re cche nun ameno le scòle.
Ma cche ppoi,
pe pportà cquer zu’ porcile
de pelacci a la bbocca e ar barbozzale,
com’adesso è l’usanza de lo stile,
s’abbi 7
mó da chiamallo un libberale,
questa è ccaluggna da ggentaccia vile,
ciarle de quelli che jje vonno male.
Disce 1
che un anno o ddua prima der Monno
morze 2 ne la scittà de Trappolajja
pe un ciamorro pijjato a una bbattajja
er Re de sorci Rosichèo Siconno.
Seppellito
che ffu dda la sorcajja
sott’a un zasso de cascio 3 tonno tonno,
settanta sorche vecchie se serronno 4
pe ffanne un antro, 5 in un casson de pajja.
Tre mmesi
ereno ggià da tutto questo,
e li sorcetti attorno a cquer cassone
s’affollaveno a ddí: «Ffamo 6 un po’ ppresto»,
quant’ecchete
7 da un búscio 8 essce un zorcone
che strilla: «Abbemus Divoríno Sesto».
E li sorci deggiú: «Vviva er padrone!».
Fuss’io, me
saperebbe 1 tanto duro
de fà li comprimenti che ssentissimo 2
tra er Maggiordomo e ll’Uditor Zantissimo
che gguasi sce daría 3 la testa ar muro.
«Entri, se
servi; 4 favorischi puro, 5
come sta?... ggrazzie: e llei? obbrigatissimo,
a li commanni sui, serv’umilissimo,
nun z’incommodi, ggià, ccerto, sicuro...».
Ciarle de
moda: pulizzie de Corte:
smorfie de furbi: sscene de Palazzo:
carezze e amore de chi ss’odia a mmorte.
Perché cco
Ddio, che, o nnero, o ppavonazzo,
o rrosso, o bbianco, j’è ttutt’una sorte, 6
sti comprimenti nun ze fanno un cazzo? 7
Quanto a
sscimmiotti poi, quer rangutano 1
che pportò da Turchia 2 l’Imbassciatore,
a rriserva der pelo e dder colore
se 3 poteva pijjà ppe un omo umano.
Aveva li su’
piedi, le su’ mano, 4
e ddicheno c’avessi 5 puro 6 er core;
e ffasceva er facchino e ’r zervitore,
nun ve dico bbuscía, 7 come un cristiano.
Oh annatela a
ccapí! Tra un omo e cquello
guasi guasi a gguardalli in ne l’isterno
nun c’è la diferenza d’un capello.
Eppuro 8
sce n’è ttanta in ne l’interno!
Per via c’uno sscimmiotto, poverello,
nun ha la libbertà d’annà a l’inferno.
Pijjàmone
1 un esempio su li cani.
Sce sò 2 li can barboni, li martesi, 3
li corzi, li livrieri, li danesi,
e li mastini, e li bbracchi, e ll’ulani... 4
Ccusí ar
monno sce sò ll’ommini indiani,
l’ommini mori, l’ommini francesi:
sce sò l’ommini ebbrei, l’ommini ingresi,
l’ommini turchi e ll’ommini cristiani.
Pijjete
5 adesso gusto, e pparagona
un can buffetto e un can da pecoraro.
Vedi che ddifferenza bbuggiarona!
Cionnunostante-questo,
fra Nnicola
disce 6 c’oggn’omo o ccane, anche er piú rraro,
viè 7 dda una caggna e dda una donna sola.
Sò ffornasciaro, 2 sí, ssò ffornasciaro,
sò un cazzaccio, sò un tufo, 3 sò un cojjone:
ma la raggione la capisco a pparo
de chiunque sa intenne 4 la raggione.
Sscejjenno
5 un Papa, sor dottor 6 mio caro,
drent’a ’na settantina de perzone,
e mmanco sempre tante, è ccaso raro
che ss’azzecchino in lui qualità bbone.
Perché ss’ha
da creà ssempre un de loro?
perché oggni tanto nun ze 7 fa ffilisce
un brav’omo che attenne 8 ar zu’ lavoro?
Mettémo caso:
9 io sto abbottanno 10 er vetro?
entra un Eminentissimo e mme disce:
«Sor Titta, 11 è Ppapa lei: vienghi 12 a Ssan
Pietro».
E hanno
ardire de dí ccerti bbuffoni
che ss’appolleno 2 a Rroma a ffà la cova,
che in ne le case nostre sce se 3 prova
un freddo da cannisse 4 li cojjoni!,
mentre ch’er
Papa a ttutti li cantoni,
pe cquanti ggiorni l’anno s’aritrova,
je fa appricà ’na camisciola nova
d’editti, Moti-propî e ccedoloni!
Lo vedete
quell’omo co la pila?
Eccheve 5 un antro editto che ddà ffora,
e vve l’incolla a ddiesci fojji in fila.
Bbenedetta la
mano che ll’ha scritto,
e ppòzzi scrive 6 pe ttant’anni ancora
pe cquanti antr’anni 7 camperà st’editto.
Ah, è
ccarità ccristiana avé scusato
un vassallo fijjol d’una puttana,
c’ha ttante zelle 1 da mannà 2 in funtana
quante sò ttroppe pe mmorí impiccato?
Perché?
pperch’è de nobbirtà rromana?
perché ttiè le carzette da prelato?
perch’è rricco e ppò ddà? 3 Sservo obbrigato
de la siggnora carità ccristiana.
Ecco da che
ne nassce c’a sto monno
nun ze 4 trova ppiú un parmo de pulito.
Perché la verità sse manna a ffonno. 5
Sta lègge
Iddio nun ha ppotuto falla.
Iddio, sor bon cristiano ariverito,
vò cche la verità stii sempre a ggalla.
Quer mi’
curato ha sta manía curiosa
che in tutto vò fficcà la riliggione.
La mette a ppranzo, a ccena, a ccolazzione,
ner camminà, nner ride, 1 in oggni cosa.
Arriva ar punto sto prete bbuffone,
che cquanno a ccarnovale io sposai Rosa
me disse ch’er cunzumo 2 de la sposa
s’aveva da pijjà cco ddivozzione.
Io?! Co la
furia che mm’intese ssciojje 3
me je bbuttai addosso a ccorpo morto
senza manco penzà che mm’era mojje.
Sarebbe er
madrimonio un ber 4 conforto,
quanno er cacciasse 5 quer tantin de vojje
sce diventassi 6 un’Orazzione all’Orto!
Nina, che
vvorà ddí 2 cche stammatina
è or 3 de pranzo e nnun ze 4 vede er gatto?
E io minchiona j’ho ammannito un piatto
pien de sgarze 5 e de schiuma de gallina!
Ce saría
6 caso che sse 4 fussi fatto
serrà in zuffitta? 7 Vòi provacce, 8 Nina?
Ggià, la porta sce 9 sta ttanta viscina!
se sentiría 10 strillà: mmica è ppoi matto.
’Gni vorta
che sta bbestia nun ze trova
me riviè a mmente povero Ghitano 11
c’aveva sempre quarche bbòtta nova.
Un giorno
Rosscio 12 nun tornava; e llui
sai cosa disse? «Starà ar Vaticano
a cconzurtà cco li compaggni sui».
Che
vvò ddí 1 una Minenza, sor Vitale?
Vò ddí un mucchio de sassi, un montarozzo:
vò ddí una torre, una cuppola, un bozzo, 2
un campanile, o un’antra 3 cosa uguale.
Ma
ssiggnifica puro 4 un Cardinale.
E allora che vvò ddí? Una panza, un gozzo,
una marrana, una cantina, un pozzo,
un búscio 5 de cassetta o dd’urinale.
Dunque
è mmatta la ggente che sse 6 penza
che un Cardinale sii un omo granne
perché pporta quer nome de Minenza.
Nun zempre
è pporco quer che mmaggna jjanne; 7
e, cco llòro bbonissima liscenza,
l’omo, per dio, nun ze 8 misura a ccanne.
Ho ssempre
inteso che Nnostro Siggnore
in quelle filastroccole che stenne 2
er Natale e le feste ppiú ssolenne 3
che ccanta messa su l’artar maggiore,
tra ll’antre
canzoncine che cce venne 4
pe ttenecce 5 contenti e ffasse 6 onore,
sce se 7 dichiara nostro servitore, 8
ma sservitore a cchiacchiere s’intenne. 9
Ber 10
zervitore un omo che vv’intona:
«Sori padroni mii, 11 faccino grazzia
de pagà sta gabbella bbuggiarona».
Se pò
ddà, 12 ccristo mio, ppiú cojjonella 13
der chiamà sservitore chi sse sazzia
e ppadrone chi ha vvòte le bbudella?
L’abbito nun
fa er monico? Eh sse 1 vede.
Pròvete intanto una sorvorta 2 sola
de presentatte ar Papa in camisciola
e ppoi sappime a ddí ccome t’aggnede. 3
Senza er
landàvo 4 sai che tte succede?
che ssi 5 tt’hanno da dí 6 mmezza parola,
pare, per dio, che jje s’intorzi 7 in gola:
e cquanno parli tu, nnun te se 8 crede.
Hai tempo, fijjo
caro, d’arà ddritto 9
e dd’èsse galantomo immezzo ar core:
tristo in ner monno chi sse mostra guitto. 10
Cqua er
merito se 1 tajja dar zartore.
Cqua la vertú in giacchetta 11 è un gran dilitto.
Una farda 12 ppiú o mmeno, ecco l’onore.
Pe mmantené
mmi’ mojje, du’ sorelle,
e cquattro fijji io so cc’a sta fuscina 1
comincio co le stelle la matina
e ffinisco la sera co le stelle.
E cquanno ho
mmesso a rrisico la pelle
e nnun m’arreggo ppiú ssopr’a la schina, 2
cos’ho abbuscato? 3 Ar zommo una trentina
de bbajocchi da empicce 4 le bbudelle.
Eccolo er mi’
discorzo, sor Vincenzo:
quer chi ttanto e cchi ggnente è ’na commedia
che mm’addanno oggni vorta che cce penzo.
Come! io
dico, tu ssudi er zangue tuo,
e ttratanto un Zovrano s’una ssedia
co ddu’ schizzi de penna è ttutto suo!
Voi sentite una
madre. Ammalappena 1
la cratura 2 c’ha ffatta ha cquarche ggiorno,
ggià è la prima cratura der contorno,
e ssi jje 3 dite che nun è, vve mena.
Conossce
tutti, disce tutto, è ppiena
d’un talento sfonnato, è ffatta ar torno, 4
va cquasi sola, è ttosta 5 come un corno,
e ttant’antri 6 prodiggi ch’è una sscena.
E sta
prodezza poi sarà un scimmiotto,
tonto, 7 mosscio, allupato, piaggnolone,
pien de bbava e llattime e ccacca-sotto.
A le madre,
8 se sa, 9 li strilli e ’r piaggne 10
je pareno ronnò 11 dde Tordinone. 12
Le madre ar monno sò ttutte compaggne.
Nun parlate
co mmé dde riliggione
de vertú, de misteri e de peccati,
perch’io sciò 1 ppreti in casa, e jj’ho affittati
bbravi letti co bbona locazzione.
Dunque
è inutile a ddí 2 ttante raggione
sur diggiuno, sur Papa e ssu li frati.
Questi sò ttutti affari terminati
ner Concijjo de trenta 3 e ppiú pperzone.
Li du’
inquilini mii sò mmissionari,
e pprèdicheno in piazza, e in conzeguenza
è cchiaro che nun ponno èsse somari.
Dicheno
lòro c’a pparlà de fede
sce s’arimette 4 sempre de cusscenza.
Cqui nun z’ha da capí 5 mma ss’ha da crede. 6
Er dí 1
cche ss’ariddoppia le gabbelle
pe ppareggià l’entrata co l’usscita,
er dí cche cce se scortica la pelle
perché la cassa pubbrica è smartita, 2
pe cchi
rriscòte 3 sò rraggione bbelle,
ma ppe cchi ppaga sò scanzi de vita.
Le raggione da dàsse 4 nun zò cquelle
che cce venne 5 sta Cammera fallita.
Li motivi
ppiú vveri e pprencipali
s’hanno da ripescà nne la saccoccia
d’un Papa e de settanta Cardinali.
Chi mmette
fora l’antri 6 dua cqui in cima
pijja er turaccio in cammio 7 de la bboccia,
dà la siconna causa e nnò la prima.
Tu nun
pòi crede 1 a Rroma si cche incerto 2
sii ’no sguizzero 3 amico e cconosscente.
Si Ccuccunfrao 4 nun me se fussi offerto,
er Museo lo vedevo un accidente. 5
Disce: «Fenite
sú llipperamente
lunettí o cciufettí 6 cquanno ch’è uperto,
e, appena feterete 7 endrà la ccente,
chiamate a mmé cché ffe fo endrà tte scerto». 8
Ah! cquer
Museo è un gran ber grruppo, cacchio:
quante filare de pupazzi in piede!
antro 9 che li casotti a Ssant’Ustacchio! 10
C’è ppoi llaggiú ’na lontananza a
sfonno
dipinta a sfugge, 11 c’uno che la vede
nun ze pò ffà un’idea che ccos’è er Monno.
Uno co ’na
gazzetta tra le mane
leggeva ggiú ar caffè cch’è morto adesso
lo scaccolo de Perzia, 1 ch’è ll’istesso
che sse discessi 2 er re de le perziane.
Ma er piú ccurioso è cquello c’arimane:
la ppiú bbuffa è la cosa che vviè appresso;
ciovè er novo sovrano c’hanno messo
in logo de quell’antro maggnapane.
Sai chi hanno
fatto re? dínne un’infirza. 3
Un re cche cqua da noi se dà ppe ggionta. 4
La sorella der fegheto: una Mirza. 5
Co ’no
scaccolo ar meno fai ’n editto:
ma de quel’antro re da bbattilonta 6
dìmme che tte ne fai? Fanne un zuffritto. 7
Oggi trentun
discemmre, 2 ch’è ffinita
st’annata magra de Ggiusepp’abbreo,
la siggnora fratesca ggesuita
pe rrenne 3 grazzie a Ddio canta er Tedeo. 4
Dimani poi,
si Ccristo je dà vvita,
ner medemo 5 convento fariseo
s’intona un’antra 6 antifona, 7 aggradita
a lo Spiritossanto Paracreo. 8
E a cche
sserveno poi tanti apparecchi?
er distino oramai pare disciso
c’oggn’anno novo è ppeggio de li vecchi.
Pòi
9 defatti cantà cquanto tu vvòi, 10
ché ggià Ddio bbenedetto ha in paradiso
antri 11 gatti a ppelà che ssentí nnoi.
Sor’Artezza
Zzenavida Vorcoschi,
perché llei me vò espone a sti du’ rischi
o cche ggnisun cristiano me capischi
o mme capischi troppo e mme conoschi?
La mi’ Musa
è de casa Miseroschi,
dunque come volete che ffinischi?
Io ggià lo vedo che ffinissce a ffischi
si la scampo dar zugo de li bboschi.
Artezza mia,
nojantri romaneschi
nun zapemo addoprà ttermini truschi,
com’e llei per esempio e ’r zor Viaseschi.
Bbasta,
coraggio! e nnaschi quer che nnaschi.
Sia che sse sia, s’abbuschi o nnun z’abbuschi,
finarmente poi semo ommini maschi.
Quanno che
ll’anno nostro è ggià sfornato,
avanti ch’in Moscovia s’arisforni
disce c’hanno da stà ddodisci ggiorni
per avello ppiú assciutto e bbiscottato.
Questa nun
zapería sor don Miggnato,
s’è una carota pe ggabbà li ssciorni.
Però, ss’è vverità, ppare che ttorni
propio stanotte cqui st’anno ssciancato.
Dunque io
viengo a pportà li comprimenti
e l’ugúri dell’anno cacanido
a cquell’antro che ggià mmette li denti.
E vvoi, sor
Ricci, pe la bbocca mia
de tutt’e ddua gradìtene uno spido
come de tordi grassi, e accusì ssia.
Ma er dragone
ar zentisse 1 dí ubbriaco
appuntò ’na pistola a ddon Marino,
che sse 2 poteva, povero duchino,
passà addrittura pe una cruna d’aco.
A st’antifona
hai visto quer ciumaco? 3
S’arza, se 2 bbutta ggiú ddar carrozzino,
mette mano a una viggna, entra ar casino,
ce se serra, eppoi disce: «Me ne caco».
Tratanto er
viggnarolo e ddu’ garzoni
investirno 4 er zordato, e ssur tinello
l’affermonno 5 co un carcio a li cojjoni.
A sto carcio,
er zor Prencipe de drento,
fórzi 6 pe ssimpatia da bbon granello, 7
fesce un strillo futtuto 8 de conzento. 9
È
scappato, sicuro ch’è scappato.
Cosa aveva da fà ppovero Duca?
In st’incastri che cqua ’na tartaruca
diventerebbe un lepre scatenato.
Er zu’
ggiacchetto è una cratura sciuca: 1
er cane der dragon era ingrillato:
er cancello era bbell’e spalancato:
lui dunque a ggamme 2 come una filuca. 3
Er ziggnor
Duca è un giovene medòtico 4
che ffa le cose in regola e sse 5 strugge
dar gran talento sibbè 6 ppare un zotico.
Co un zordato
a ccavallo è ccosa scerta
che un pedone nun vince antro 7 c’a ffugge. 8
Omo a ccavallo sepportura uperta.
Un bravo
capo-comico intennente
sai chi cce ll’ha? la Compaggnia Sbarlaffa, 2
che ssa ttiené ddu’ piedi in una staffa
pe ffà cquadrini e cojjonà la ggente.
A
ttirà ggonzi nun ce mette ggnente. 3
Pijja un fojjo de carta, te lo sbaffa 4
de ggiallo o rrosso, e ssopra te sce schiaffa: 5
L’Orfino, o la gran Valle der torrente. 6
E ssempre, o
ccarte rosse o ccarte ggialle,
c’è un sproloquio 7 p’er popolo cazzaccio
sopra la gran grannezza de sta valle.
Vorà
èsse 8 ppiú ggranne de Crapanica?
Io fo er zartore, e ho ssempre visto er braccio
piú ppiccolo der giro de la manica.
Disceva er
zor Micchele Mitterpocche 3
ner butteghino 4 ar coco de Lavaggi: 5
«Er mastro de cappella Fontemaggi 6
ha scritto pe li galli e ppe le bbiocche.
Manco in
Turchia tra ll’ommini servaggi 7
se pò ssentí ccanzone accusí ssciocche;
ché le sue nun zò 8 mmusiche da bbocche,
ma mmotivi da ròte de cariaggi. 9
Inzino er zor
Giuvanni l’impressario,
si llui je straccia l’àpica, 10 o ssi mmore,
je voría 11 rigalà mmezzo salario.
Ma de cazzi!
12 er ziggnor compositore
nun zente lègge, 13 e ccrede nescessario
de dà ll’opera sua pe ffasse 14 onore».
Dio la sa llonga, amico, e cquanno venne
a ppiantà nne la Cchiesa er zagramento
der madrimonio, cianniscose 1 drento
una prova de quanto se n’intenne. 2
Appena hai
detto: Padre sì, ar momento
te cascheno sull’occhi tante bbenne,
c’hanno poi tempo in testa a spuntà ppenne: 3
ammojjato che ssei, dormi contento.
Simprisciano
er marito de Pressede
ggnisuno pò nnegà cch’è un omo asperto;
eppuro, eccolo lí, sta in bona fede.
Capisco, lei
lo bbuggera 4 ar cuperto:
lo so, ddisce er proverbio: Occhi nun vede,
core nun dole; ma ccornuto è ccerto.
Chiunque spacci
che ttutti hanno er dono
de volé mmale ar prossimo, e cch’è rraro
de trovà ggalantommini, è un zomaro,
e ssi 1 lo sento io, te lo bbastono.
Figurete che
jjeri er cappellaro
me dimannò: «Er cappello è ancora bbono?».
Dico: «Sì, pperché ssempre l’aripono». 2
Disce: «Bbravo, per dio! L’ho ppropio a ccaro».
Poi l’oste
disce: «E che vvò ddí? ssei morto?».
Dico: «Er dottore m’ha llevato er vino».
Disce: «Pòzzi 3 morí cchi jje dà ttorto».
Un momentino
doppo ecchete ggiusto 4
er dottore, e mme fa: 5 «Ccome stai, Nino?».
Dico: «Bbenone»; e llui: «Quanto sciò 6 ggusto!».
Caro sor
cul-de-piommo, 1 io ve la dico
co llibbertà ccristiana: a mmé 2 la ggente
c’ha pper estinto 3 de nun fà mmai ggnente
l’ho a ccarte tante 4 e nnu la stimo un fico.
Dio ne guardi sto vizzio a ttemp’antico
si 5 l’aveva Iddio Padre onnipotente;
er monno nun nassceva un accidente, 6
e nnoi mò nnun staressimo 7 in Panico. 8
A ttutto ha
d’arrivà la Providenza!
E ssempre se 9 va avanti co lo spero
e cce sarà er Ziggnore che cce penza.
Grattapanze
futtute! e cche! er Ziggnore
l’hanno pijjato a ccòttimo 10 davero?
Lavorate, per dio! Pane e ssudore.
Quelli che
cciànno, 1 co sto novo editto 2
doppie, luviggi, pezzette, zecchini,
napujjoni e ggijjati, poverini!
pònno dí ppuro 3 d’avé ffatto er fritto. 4
Nun z’era
inteso mai c’avé cquadrini
a sto monno che cqua 5 ffussi delitto;
e cquesto è er primo banno 6 che vva dritto
contro a li grossi e nnò a li piccinini.
Co sta
bbuggera nova de tariffa,
chi spaccia d’èsse 7 ricco com’e jjeri
disce una farzità, spara una miffa. 8
Figurete
Turlonia, 9 co ste ladre
combriccole futtute de bbanchieri,
l’accidenti che mmanna 10 ar Zanto Padre.
Santus Deo,
Santusfòrtisi, 1 che scrocchio! 2
Serra, serra li vetri, Rosalia;
ché, ssarv’oggnuno, viè una porcheria, 3
te sfraggne, 4 nun zia mai, 5 com’un pidocchio.
Puro 6
lo sai quer c’aricconta zia
c’assuccesse a la nonna der facocchio,
c’arrivò un tòno e la pijjò in un occhio,
che mmanco poté ddí ggesummaria.
E la
sòscera 7 morta de Sirvestra?
Stava affacciata; e cquella je disceva:
«Presto, ché ss’arifredda la minestra».
E vvedenno
8 che llei nun ze 9 moveva,
l’aggnéde 10 a stuzzicà ssu la finestra...
Cascò in cennere 11 llí cco cquanto aveva!
Gaspero,
ssceggne 1 ggiú dar credenzone
sceggne, te dico, ssceggne, demoniaccio.
Ma ddavero oggi tu vvòi dà er bottaccio
a ’ggni patto pe sfràggnete 2 er cestone?
Gaspero, nun
me fà ppijjà er bastone,
ch’io me sceco e Ddio sa ccosa te faccio.
Sai che cce metto a sfracasatte un braccio?
Quanto a spreme una coccia 3 de limone.
Ggià
mme l’aspetto: tu vvòi fà er miracolo:
tu ffinischi cor vol de Simommàgo
tu mme vòi fà vvedé cquarche spettacolo.
Cristo mio
nazzareno croscifisso!
che ss’abbi da stà ssempre co sto spago 4
ner core!... Jeso, che ccapo d’abbisso!
Come sarebbe
a ddí 2 cquer muso bbrutto?
Ch’è stato? nun je va 3 la semmolella?
Sa cche nnova je do? Chi nun vò cquella
nun c’è antro, 4 e sse 5 maggna er pan assciutto.
Cqua nun
zerve de fà bbocca a ssciarpella: 6
prima la semmolella, e ppo’ er presciutto.
L’omo de garbo ha da piascejje 7 tutto,
fussi puro 8 er ripien de le bbudella.
È
inutile co mmé dd’arzà la vosce.
Maggnate, e zzitto; e aringrazziate Iddio
co la fronte pe tterra e a bbraccia in crosce.
Ciamancherebbe
9 mó st’antra scoletta 10
de nun volé mminestra. Eh, ffijjo mio,
voi ve puzza la grasscia: eccola detta.
Ma cche ccosa
sce tienghi 1 in quela testa?
Guardela si cche 2 imbrojji s’impasticcia!
Se 3 dà de peggio? Pijjà una sarciccia 4
e ffassela 5 arrostí sott’a la vesta!
Cqua sto
marito, 6 aló, 7 una cosa lesta.
Co cchi pparlo? Alegria, 8 fàmola 9 spiccia.
Sai mò ssotto, che ccarne sfumaticcia!
Phuh, ssentitela llí: ppuzza c’appesta.
Oh cqua ssí,
cc’è da mettesce in cusscenza 10
li capelli canuti da l’angossce.
Ajjutateme voi, santa Pascenza. 11
Va’, cché da
la matina se cconossce
er bon giorno. Oh gguardate: una schifenza 12
cor marito oggni sempre tra le cossce!
Tutacciaccia,
2 lavora; e ccento mila!
Fa’ cche tte movi ppiú, ccore mio bbello,
che tt’acchiappo 3 p’er ciuffo e tte sfraggello
quer gropponaccio inzin che tte se sfila.
Inzomma, un
po’ la scusa de la pila
che vva de fora, un po’ cquesto e un po’ cquello,
’ggni tantino se 4 pianta er filarello,
se 4 spasseggia pe ccasa, e nnun ze 4 fila.
Come jjeri: finí
un pennecchio solo,
e tutt’er zanto ggiorno a la finestra
a ffà la sciovettaccia sur mazzolo.
Che ggran
rare bbellezze da mostralle!
Voría 5 che tte piovessi 6 una canestra
de furmini e ssaette su le spalle.
Su, cciocchi,
monci, 1 mascine da mola:
lesti, ché ggià è ffinita la campana.
Ch’edè? 2 Vv’amanca una facciata sana?
È ppoco male; la farete a scola.
Via,
sbrigàmose, 3 alò, 4 cch’er tempo vola;
mommó 5 ddiluvia e la scola è llontana.
Nun è vvaganza, no: sta sittimana
don Pio nun dà cc’una vaganza sola.
Dico eh, nun
zeminamo 6 cartolari:
nun c’incantamo pe le strade: annamo 7
sodi, e a scola nun famo 8 li somari.
Scola santa!
e cchi è cche tt’ha inventato!
Quadrini bbenedetti ch’io ve chiamo!
Che rriposo de ddio! che ggran rifiato! 9
Er
guarda-paradiso, ggiorni addietro
pregava Iddio pe uprí li catenacci
a Ssu’ Eccellenza er cavajjer Mengacci 1
che strijjò in vita sua piú d’un polletro. 2
Dio
s’allissciava intanto li mostacci,
e ppoi disse co un ghiggno tetro tetro:
«Voi ci date in cotèdine, 3 sor Pietro,
e cci avete pijjati pe ccazzacci.
Cqua nnun
è er reggno de voi Santi Padri,
dove la frusta, er pettine e lo stocco
fanno sorte e ttrionfeno li ladri.
E ssi 4
vvoi nun zapete er vostr’uffizio,
le vostre chiave le darò a Bbajocco 5
e appellateve ar giorno der giudizzio».
Entrato in
fossa er cavajjer Lorenzo
detto pe ssoprannome er Curzoretto,
j’è ito appresso er cavajjer Vincenzo
pe le su’ gran vertú ddetto er Bojetto. 2
Disgrazziato Bbojetto! Ricco immenzo,
ner fior dell’anni, co ttanto de petto,
eccolo llí a ppijjà ll’urtimo incenzo
che ddà er monno a cchi ppaga er cataletto!
Mica
annò ttrïonfante in sta vittura,
come un giorno pareva in carrettella
er padrone de Roma in pusitura. 3
Sittranzi
grolia munni: 4 un funerale,
quattro fischi, 5 un pietron de sepportura,
e ll’eredi che ffanno carnovale.
Quanno
zomporno 1 a Ddio li schibbizzi 2
de mette 3 er monno ar monno e ccreà ll’omo,
diede a cquesto la Lègge e ll’antri indizzi
pe vvení bbon cristiano e ggalantomo.
Ma ssuccesso
lo scannolo 4 der pomo,
prima causa der còfino 5 a ttre ppizzi,
d’allor impoi chiunque nassce è un tomo 6
pien de magaggne e ccarico de vizzi.
Pijja la
secolare e ll’eccresiastica,
in oggn’arte sce cova un buggerío 7
de malizzie e ppeccati; e Iddio la mastica. 8
E ttante rare
sò l’azzione bbelle,
che, a lo scoprinne quarchiduna, Iddio
va in estis 9 e nnun cape in ne la pelle.
«Ah ccommare!
da sí cche 1 nun m’hai vista
tu nun zai le disgrazzie c’ho ppatito.
M’è mmorto de passione mi’ marito
pe ttirannia der Monziggnor Zagrista.
De li mi’
fijji, uno ha pperzo la vista
pe li vaglioli, 2 e un antro 3 s’è incionchito.
4
E a mmé, lo vedi?, er corpo me s’è empito
de malanni da fattene 5 una lista.
Poi me moro
de fame: in sta staggione
sò iggnuda e ssenza un straccio de lenzola;
e mme vonno caccià ppe la piggione.
Che ne dichi,
Maria, de tante pene?»
«Dico, Ggertruda, una parola sola:
sta’ alegra, ch’er Ziggnore te vò bbene».
Io nun posso
capí dda che ne naschi
che ssentenno la ggente li stranuti 1
abbino da infirzà ttanti saluti,
e ggnente pe la tosse e ppe li raschi.
«Pròsite,
2 bon pro, evviva, Iddio v’ajjuti,
doppie, filiscità, ppieni li fiaschi,
e ttìtera, 3 e ssalute, e ffijji maschi»,
ché ar risponne 4 saría 5 mejjo èsse muti.
Quer
negozziante de grescìli e ccreste 6
disce che ttanti bbelli comprimenti
sò vvenuti pe ccausa d’una peste.
La peste ha
da fà ll’ommini aducati!
Saría 7 come li Santi Sagramenti
inzeggnassero ar monno a ffà ppeccati.
Per èsse
1 bbuffo abbasta èsse siggnore.
La ggente attitolata e cquadrinosa
qualunque usanza l’ha d’avé ccuriosa,
o ccrede d’arimettesce 2 d’onore.
Da sí 3
cche ss’è ammalato Monziggnore
de castrica 4 maliggna verminosa,
nun z’ariposa 5 ppiú, nnun z’ariposa,
pe ccopià li bbijjetti der dottore.
Figurete
6 ch’er povero decano
ne schicchera 7 un trescento oggni matina,
pe ppoi distribbuilli a mmano a mmano.
E pperché
ppoi sti bbullettini a bbótte? 8
Pe ddà 9 ar monno sta nova sopraffina:
Monziggnore ha ccacato a mmezza-notte.
Si 2
una vorta l’Ebbrei for de li Ghetti
portaveno ar cappello lo ssciammano, 3
nun era gusto lòro, poveretti:
era pe fforza der vigor d’un banno. 4
Ma cchi
ll’obbriga mó sti pasticcetti 5
de cristiani d’annà ccome che vvanno
co ste ssciamanneríe de fazzoletti
fora de le saccocce spennolanno? 6
Se n’incontra
de tutti li colori:
bbianchi, turchini, verdi, rossi, ggialli:
a cceróti, 7 a ppupazzi, a rrighe, a ffiori...
Ar vedesseli
8 avanti calli calli, 9
ar trovasse 10 quer commido llí ffori,
ce vò una gran vertú ppe nnun rubballi.
Va’ adascio,
1 fa’ ppianino, Raffaelle...
Cazzo, per dio! tu mm’arïòpri er tajjo.
Che spasimo d’inferno! Fermete... ajjo! 2
Cristo! me fai vedé ttutte le stelle.
Eh mme sbajjo
la bbuggera, me sbajjo.
Sbajji tu, cche mme scortichi la pelle.
Oh vvedi un po’ ssi ssò 3 mmaniere quelle
de medicà un cristiano a lo sbarajjo! 4
So cc’a lo
stacco de la pezza sola
ciò intese 5 tutte l’angonie de morte
e strozzammese 6 er fiato in de la gola.
Jeso! Sce
7 sudo freddo. Artro, 8 Madonna,
che cchiodi e spine! Mamma mia, che ssorte
de patí! cche ttremà! pparo 9 una fronna.
Eh, ppe
ppostème e ppannarisce 1 rotte,
è inutile, fijjola, io sò mmaestra
e mme sce ggiucherebbe 2 la minestra
co li spezziali e ll’antre ggente 3 dotte.
Pijja un
bajocco d’èllera 4 terrestra
e un pizzico de tartero de bbótte,
bbúlleli, 5 e ffalli stà ttutta sta notte
ar zereno de for de la finestra.
Dimani
all’arba poi, doppo vistita, 6
cola quell’acqua, ssciacquete a ddiggiuno,
fallo tre o cquattro vorte, e ssei guarita.
Io sce 7
curai ’na vecchia de Nottuno, 8
che mm’arrestò 9 obbrigata de la vita.
E sti segreti mii nun l’ha ggnisuno. 10
Ecco cosa
vò ddí 1 ll’èssese 2 avvezzi
a ddisprezzà l’età: sse 3 va sse 3
svìcola
e vviè la vorta poi che sse 3 pericola
e sse 3 sconteno tutti li disprezzi.
Pe nnun volé
er bastone oggi er zor Ghezzi
propio a le colonnette de Pubbricola, 4
è ccascato e ss’è rrotta una gravicola 5
e la nosce der collo in cento pezzi.
La coccia
6 de li vecchi è una gran coccia.
Vònno fà a mmodo lòro: e Iddio ne guardi
conzijjalli! 7 ve pijjeno in zaccoccia. 8
Sospettosi,
lunatichi, testardi,
pieni de fernesie 9 ne la capoccia, 10
e spinosi, per dio, ppiú de li cardi.
È inutile
ch’er tempo sciariprovi. 1
Scopri appena du’ nuvole lontane,
e arïecco dà ssú 2 le tramontane,
e da capo è impussibbile che ppiovi: 3
disce a vvedé
le campaggne romane
è un pianto, è un lutto, sò ffraggelli novi.
Li cavalli, le pecore, li bbovi
manco troveno l’acqua a le funtane.
Nun
c’è ggnisun procojjo o mmassaría,
che ppe la sete e la penuria d’erba
vadi assente 4 da quarche appidemía.
Moreno inzin
le bbufole e li bbufoli!
St’anno, si 5 la Madon 6 de la Minerba 7
nun ce penza, se 8 maggna un par de sciufoli.
Cqua er
Governo nun vò mmette 1 ggiudizzio,
perché de noi nun je ne preme un’acca.
Cqua er male nostro nun è mmal de bbiacca, 2
e sse 3 va de galoppo ar priscipizzio.
Un vizzio suo
è cche ar pijjà ss’attacca
a li ferri infocati: e un antro 4 vizzio,
che fforzi 5 fa ppiú ppeggio preggiudizzio,
è cche nun paga, o vvò ppagà a la stracca.
Un presciutto
tre ggiuli de dogana! 6
E nun era un’idea meno bbisbetica
de maggnasse 7 la grasscia sana sana?
La Reverenna
Cammera Apopretica
nun pò annà avanti un’antra sittimana.
Fa ttroppe tirannezze: è ttroppa eretica.
La matina de
Pasqua Bbefania, 2
ar Nome de Ggesú, 3 ddoppo avé intesa
l’urtima messa, in ne l’usscí da cchiesa
incontrai Teta che vvieniva via.
Me je fo
avanti co la fiacca 4 mia:
«Ebbè? ccome ve va, ssora Terresa?
Dico, nun ve l’avete 5 pe un’offesa,
v’è gguarita la tale ammalatia?».
Azzeccatesce
6 un po’, ppe ccristo d’oro!
La sora Terresina ebbe la cacca 7
d’arisponne 8 accusí: «Sto ccom’un toro».
Mentre che
ppe rraggion de la patacca 9
pare che, essenno femmina, er decoro
je dovessi 10 fà ddí: 11 ccom’una vacca.
A llui je
piasce quella e sse la fotte.
Lo sputà ssu li gusti 1 è da granelli. 2
Nun ze 3 paga pe vvede 4 le marmotte?
Tante teste, se sa, ttanti scervelli.
Quanno
sortanto li gruggnetti bbelli
trovassino 5 marito, bbona notte.
Disce il proverbio: Si 6 ttutti l’uscelli
conoscessino 7 er grano, addio paggnotte.
È
ttanta bbuggiarona vostra fijja,
eppuro, eccolo llí, ggià ss’è ttrovato
er ziconno 8 cojjon che sse la pijja.
Questo sia pe
nnun detto. Io v’ho pportato
sto paragone cqua, ssora Scescijja, 9
pe spiegà ccome er monno è acconcertato.
Io sto cco li
proverbi, ch’è er mijjore. 2
Come se 3 disce? «O de pajja o de fieno,
bbasta er corpo sii pieno». Er prim’autore
dunque a sto monno è de fà er corpo pieno.
Cqua nun ze
vò 4 ddissubbidí ar dottore:
quer che cqui sse 3 discorre è ssur piú e mmeno.
Pe un boccon d’avantaggio nun ze 3 more,
ché la grazzia de ddio mica è vveleno.
Quattro deta
5 de vino, un po’ de ggnocchi,
du’ fonghi, un mozzichetto de bbrasciola, 6
è ccome ggnente, 7 e ’r gnente è bbon per l’occhi.
8
Bbe’, un fir
de cascio. Oh, sta mollica sola
è impussibbile, fijja, che tte tocchi
nemmanco un dente, e nnun t’arriva in gola.
Venite tutti
quanti attorn’a mmé
si 2 vvolete sentí la novità
der gran fistino in abbito bijjè 3
ch’è stato dato da monzú Cciufrà. 4
Pareva una
bbottega de caffè.
C’era tutto lo scol 5 de la scittà.
Le foristiere staveno da sé.
Le romane nun vorzeno 6 bballà.
A
mmezzànotte fu vviduta uprí
la porta der zalon dell’ammicú, 7
e le donne se fesceno 8 serví.
Doppo le
donne entrorno li monzú:
e cquanno tutto er popolo partí,
disse Sciufrà: «Nnun me sce pijji ppiú». 9
V’è
ppiasciuta la predica der frate,
ch’è vvenuto oggi a dàcce 2 l’esercizzi?
Li sentite che rrazza de ggiudizzi
se 3 fanno de nojantre 4 disgrazziate?
Ggiri, ggiri
le case attitolate: 5
entri ne li palazzi maggnatizzi,
e llà cconosscerà ccosa sò vvizzi
de zitelle e de donne maritate.
Quela fijja
che ppare una Susanna,
guardata da viscino in ne l’onore
è una spesce 6 de cammera-locanna.
E de
qualunque mojje de siggnore
nun ze chiede si sgrinfia: 7 se dimanna
de punt’in bianco: 8 «Co cchi ffa a l’amore?».
Er
mormorà d’Iddio, fijji mii bbelli,
è la conzolazzione de li ssciocchi.
Le sorte 1 hanno d’annà cco li fraggelli.
Chi è rricco, e cchi sse 2 gratta li pidocchi.
Er Papa
ajjuterà li poverelli:
un antro 3 poi je caccerebbe l’occhi.
Er Monno accusí vva: ssò ggiucarelli,
cose de ggnente, 4 affare de bbajocchi.
Che sserve
annà ccontanno a una a una
le furtune dell’antri? 3 Sò pparole.
Ggnisuno 5 è ssazzio de la su’ fortuna.
Fremma e
ttempo, e nun zempre se 2 diggiuna;
e cquanno che la notte nun c’è ssole
contentamose 6 allora della luna.
La
Lègge parla chiaro: «Si 1 ppe ssorte
sentirete accattoni sfaccennati,
li porterete tutti carcerati».
Viva l’orecchie de sta Santa Corte!
Ccusí Ccristo
in ner punto de la morte
m’accordassi 2 er perdon de li peccati,
come pe la scittà strilleno forte
in zur gusto de tanti indemoniati.
Strade,
cchiese, caffè, scale, portoni,
osterie, trattorie, per tutto poveri;
e ggnisuno je roppe 3 li cojjoni.
E nnoi,
storditi da ’ggni parte, intanto
pe mmantené li pubbrichi aricoveri
pagamo sangue inzin zull’ojjo-Santo. 4
Er giusto,
fijji, fateve capasce, 1
pe cquanto mai sia stato peccatore,
campa co la cusscenza sempre in pasce,
e spira ne le bbraccia der Ziggnore.
Vive in
grazzia de tutti, e cquanno more
a ttutti li cristiani 2 je dispiasce;
e oggnuno piaggne, e ddisce co ddolore:
«È mmorto er giusto e in zepportura jjasce». 3
Mentre
l’anima sua j’essce de bbocca,
un formicaro d’angeli la pijja,
la porta in Celo, e gguai chi jje la tocca.
Li diavoli je
manneno 4 saette,
e ll’angeli je danno la parijja;
e la cosa finissce in barzellette.
Ar punto de
morí, cquanno se 2 caccia
l’anima, fijji mii, credete a nnonna,
chi ha la divozzion de la Madonna
pò rrugà 3 ccor demonio a ffaccia a ffaccia.
Abbi puro
4 tenuta una vitaccia,
un zervo de Maria nun ze sprofonna; 5
ché in quer momento llí, povera donna,
lei pe l’amichi sui propio se sbraccia.
Io nun
protenno 6 ggià, ccrature 7 mie,
che in onor de Maria nostr’avocata
ce sii nescessità dde fà ppazzie.
Nò,
abbasta oggni matina a la svejjata
de rescità ppe llei tre vvemmarie,
e onoralla co cquarche scappellata.
Chi? Ssanta
Filomena?! 2 In un paese
che li santi se 3 spregheno?! Eh sor Nanno,
diteme un po’, cquanto pagate ar mese
pe ccomparí ccazzaccio tutto l’anno?
Si 4
a sta Santa novizzia oggi je danno
tant’e ttante incenzate 5 pe le cchiese,
io, poveretta, mica la condanno
che sse sii 6 messa mó ssu le protese. 7
Ma ddico
ch’è un penzà da giacubbino
er confrontà ccostei co la Madonna
miracolosa de Sant’Agustino. 8
Questa c’ha
scavarcato e ffa sta in regola
la Madonna der Zasso a la Rotonna, 9
nun pò avé suggizzion d’una pettegola.
Come!
Aritorni via?! Ccusí infuriato?!
Tu cquarche ccosa te va p’er cervello.
Oh ddio! che cciài 1 llí ssotto? ch’edè 2
cquello?
Vergine santa mia! tu tte se’ armato.
Ah Ppippo,
3 nun lassamme 4 in questo stato:
Ppippo, pe ccarità, Ppippo mio bbello,
posa quell’arma, damme quer cortello
pe l’amor de Ggesú Ssagramentato.
Tu nun esschi
de cqua: nnò, nnun zò Ttuta,
s’esschi. Ammazzeme puro, 5 famme in tocchi, 6
ma nnun te fo annà vvia: sò arisoluta.
Nun volé cche
sto povero angeletto,
che ddorme accusí ccaro, a l’uprí ll’occhi
nun ritrovi ppiú er padre accant’ar letto.
L’ho, ddio
sagrato, co cquer zor Cornejjo 1
der padrone, che Cristo sce 2 lo guardi.
Nun j’abbasta neppuro 3 che mme svejjo
antilúsce: 4 ggnornò, 5 ffo ssempre tardi.
Nu ne vojj’antro. 6 Aspetto che
mme sardi 7
le liste, eppoi le case io me le sscejjo. 8
Manco er riposo?! E cche! ssemo bbastardi?!
Padroni a Rroma? accidentacci ar mejjo.
Annallo
9 a rrippijjà ddrent’ar parchetto,
portallo a ccasa, còsceje da scena, 10
dajje in tavola, e ppoi scallajje er letto,
e ppoi
spojjallo, e ppoi, quann’è de vena,
sciarlà 11 un’ora co llui... sia mmaledetto,
che sse dorme? 12 Un par d’ora ammalappena. 13
L’avocato
marchese mi’ padrone
disce che a ggiorni vò stampà in un puscolo 1
che all’ombra de le scerque 2 de l’Attuscolo 3
sce spasseggeno 4 Marco e Cciscerone.
Se 5
dà un spropositone ppiú mmaiuscolo
compaggn’a sto su’ gran spropositone?
Volemo dí 6 er calor de la staggione
che jj’abbi fatto dà de vorta ar muscolo? 7
Io sò
stato co llui pe ppiú d’un mese
fisso a la Rufinella, e, amico caro,
ortr’a ppochi villani e quarch’ingrese,
ecco quelli
che cciò 8 ssempre incontrati:
l’arciprete e la serva, e cquer zomaro
der maestro de scòla de Frascati.
La padrona
sopporta quer zonajjo 1
der Cardinale, pe ffà un stato ar fijjo,
e pperché in un bisoggno e in quarch’incajjo,
sempre è cquell’omo che ppò ddà un conzijjo.
Je se 2
legge però llontano un mijjo
la noja, er vortastommico e ’r travajjo,
benché, ar venijje sú cquarche sbavijjo, 3
se l’annisconni 4 lei sott’ar ventajjo.
Vedi sta
stanzia? Cqua cce viè un convojjo
de tutta ggiuventú dd’ogni miscujjo.
Bbe’, appena arriva Su’ Eminenza, è un ojjo. 5
Lei, la
padrona, se tiè 6 ssù a la mejjo;
ma de tutto quel’antro guazzabbujjo
nun ce n’è uno c’arimani svejjo.
Fra sti
bbroccoli 1 er Papa è ccome un fiore
che nun fa pprimavera: è ccome un bracco
fra ssettanta bbuffetti: è ccome un tacco
senza chiodi: è una donna senz’onore.
Ha ttempo lui
d’avé ccervello e ccore:
nun concrude una pippa de tabbacco.
È inutile: una nosce 2 drent’a un zacco
sgrulla 3 quanto tu vvòi nun fa rrumore.
Certo che
Ggesucristo pare stracco
che la cattreda 4 sua bbutti sprennore: 5
cosa che ppuro a llui j’è dd’un gran smacco.
Ma Ddio ne
guardi, er Zanto Padre more,
chi ccardinale vòi mette 6 pe Ccacco
immezzo 7 in ne la Cchiesa der Ziggnore?
Ciamancava
2 un bon quarto a mmezzanotte,
quanno, tutt’in un bòtto 3 (oh cche spavento!),
sentíssimo 4 un gran turbine, e ar momento
cascà cqua e llà ll’invetrïate rotte.
Diventò
er celo un forno acceso, e, ddrento,
li furmini pareveno paggnotte.
Pioveva foco, come quanno Lotte
scappò vvia ne l’Antico Testamento.
L’acqua, er
vento, li toni, le campane,
tutt’assieme fascéveno un terrore
da atturasse 5 l’orecchie co le mane. 6
Ebbe pavura
inzin Nostro Siggnore;
ma ppe Rroma nun morze antro 7 c’un cane.
Cusí er giusto patí pp’er peccatore.
Ecco come se
1 fa, mmastro Zabbajja, 2
pe nnun sbajjasse uguale all’anno scorzo: 3
voi ’ggni ggiorno seggnate in d’una tajja 4
le some de la carcia 5 che vve smorzo.
Poi
’ggniquarvorta 6 ch’er padrone squajja 7
in un’antra intaccatesce 8 lo sborzo.
Ccusí, a striggne li conti nun ze sbajja.
Chi aripete, aripete: ecco er discorzo.
È una
spesce 9 de facche e tterefacche. 10
Io tiengo la mi’ tajja, voi la vostra,
e a la fine se conteno l’intacche.
Nun parlo
bbene? Oggnuno tiè la sua:
poi, quanno viè er padrone je se mostra
e arrestamo capasce 11 tutt’e ddua.
E mmó adesso
in che ddà st’antra 1 scappata
de schiaffeggià cquer povero innoscente?
Nò, nun è vvero, nun ha ffatto ggnente:
sete voi che pparete spiritata.
Ve lo dich’io
ch’edè, 2 ssora Nunziata.
Voi stasera ve passa pe la mente
quarche ggrilletto de svejjà la ggente
e ffalla corre 3 sú cco la chiarata.
Sai che
rraggione hai tu? c’a mmé mme 4 piasce
da fa ppubbriscità mmeno che pposso
e vvive 5 li mi’ ggiorni in zanta pasce.
Ché ssi
nnò, vvoría datte 6 un cazzottone,
bbellezza mia, da stritolatte 7 l’osso
de quer brutto nasaccio a ppeperone.
Dico, diteme
un po’, ssora commare,
che sset’ita discenno 2 a Mmadalena
che llui 3 me pista, 4 e nun c’è ppranzo e ccena
che ffinischi tra nnoi senza caggnare?
Ebbè?
Ssi 5 Ustacchio me bbastona, è affare
da pijjavvene 6 mó ttutta sta pena?
Che importa a vvoi? Me mena, nun me mena,
è mmarito e ppò ffà cquer che jje pare.
Che vve
n’entra in zaccoccia, sora ssciocca,
de li guai nostri? Voi, sora stivala,
impicciateve in quello che vve tocca.
Vardela 7
llí sta scianca a ccressceccala! 8
Lei se tienghi 9 la lingua in ne la bbocca,
e ss’aricordi er fin de la scecala. 10
Avete inteso
cos’ha ddetto er frate?
«Chi mmormora, fijjoli, va a l’inferno».
Dunque, cristiani mii, si 1 mmormorate,
ve scallerete er culo in zempiterno.
Se 2
vede arricchí un omo in du’ ggiornate?
Ecco come se disce: ha vvinto un terno.
Sentite un antro 3 a ddí bbuscíe 4 l’istate?
Ebbè, ddirà la verità st’inverno.
Quel’impiegato
tradirà l’impiego.
È sseggno che nn’ha avuta la liscenza,
perché onore e sservizzio è ttroppo sprego.
Che
ffarà, pper esempio, er zor Maccario
chiuso llà ddrento co la sora Ortenza?
Ggnente de male: dicheno er rosario.
Ma nun
è ggnente, nò, ssora Maria,
nun è ggnente davero, nun è ggnente.
Ve pare che ssi ffussi 1 mmalatia,
ve calerebbe er latte istessamente?
Ma
nnò, nnò, nnò, nun v’accorate, via,
fatev’animo, state allegramente:
è la frebbe der pelo, 2 fijja mia,
che l’ha d’avé oggni donna partoriente.
Ssapete
c’antre 3 sorte de febbrone
se vedeno 4 sparà cquanno ch’er petto,
nun zia mai, 5 vò vvení a ssuperazzione? 6
Fidateve,
sposetta, è ttutt’affetto 7
der calo: e cco la vostra cumprisione 8
nemmanco serve che cce state 9 a lletto.
Bbella
cratura! E cche ccos’è? Un maschietto?
Me n’arillegro 1 tanto, sora Mea.
Come se 2 chiama? Ah, ccom’er nonno: Andrea.
E cche ttemp’ha? Nnun piú?! Jjeso! eh a l’aspetto
nun mostra un
anno? Che ggran bell’idea!
Quant’è ccaruccio llí cco cquer cornetto! 3
Lui mó sse penza de succhià er zucchietto, 4
la ghinga, 5 o er cucchiarin de savonea.
Vva’, vva’,
vva’, 6 ccome fissa la sorella!
Nun pare vojji dijje 7 quarche ccosa
co cquella bbocchettuccia risarella?
Nun ho mmai
visto un diavoletto uguale.
Dio ve lo bbenedichi, sora sposa,
e vve lo facci presto cardinale.
Abbi
pascenza, 1 je stai troppo appresso
pe ffàllo vommità. 2 Vvergoggna, Rosa!
Nun sta bbene èsse 3 poi tanta curiosa.
Tu in sto vizziaccio cqui ddai ne l’accesso. 4
Uh, zzitto, zitto,
ch’ecco Nanna. Adesso
la chiamamo e scoprimo quarche ccosa.
Pss, ssenti, Nanna: è vvero che la sposa 5
de tu’ fratello lo rizzola 6 spesso?
Che ssii superba com’un gallo, e bbrutta
quant’un’ira de Ddio, questo è ssicuro:
Rosa però nu la conossce tutta.
Dicce 7
un po’, ddicce un po’... Ggià ttu lo sai
che pparlanno co nnoi, parli cor muro.
Bbe’? ddunque tra li sposi eh? cce sò 8 gguai?
Nun
credessivo 2 mai ch’er fasse 3 prete,
e ddiventà pprelato e annà ppiú avanti,
sii faccenna da poveri iggnoranti
e abbastino le store 4 e le pianete.
Va’ li Sommi Pontescifi:
tra ttanti
san Pietro solo j’abbastò la rete.
Tutti l’antri, 5 si 6 mmai nu lo sapete,
j’e ttoccato èsse 7 dotti a ttutti quanti.
Io conosco un
abbate che ttiè in testa
de finí Ppapa: ebbè, ssu li latini
ce suda nott’e ggiorno e inzin de festa.
E mmó studia
li su’ Scisceroncini 8
pe imparà la ppiú ffàscile ch’è cquesta
de dí in latino: Alò, ppelle o cquadrini.
Nun me ne so
ddà ppasce, 2 ah ppropio nò.
Quer giorno, Andrea, che l’incontrassi 3 tu,
tornò a ccasa la sera, se spojjò, 4
aggnéde 5 a lletto, e nun z’è arzato ppiú.
L’unico mi’
conforto è cche spirò
la matina der Core de Ggesú.
Pe mmé è stata una perdita però
che ffo ppropio miracoli a stà ssú.
Un omo ch’era
un Cèsere! Vedé
morí un campione 6 che a rraggion d’età
cquasi poteva chiude 7 l’occhi a mmé!
Bbasta, Iddio
m’ha vvorzuta 8 visità.
Lui se l’è ppreso, e ssaperà pperché.
Sia fatta la su’ santa volontà.
Povera fijja
mia! Una regazza
che vvenneva 2 salute! Una colonna!
Viè una frebbe, 3 arincarza 4 la siconna,
aripète la terza, e mme l’ammazza.
Io l’avevo
invotita 5 a la Madonna.
Ma inutile, lei puro me strapazza.
Ah cche ppiaga, commare! che ggran razza
de spasimi! Io pe mmé nun zò ppiú ddonna.
Scordammene?!
6 Eh ssorella, tu mme tocchi
troppo sur farzo. Io so cc’a mmé mme 7 pare
de vedemmela 8 sempre avanti all’occhi.
Fijja mia
bbona bbona! angelo mio!
Tuta mia bbella! visscere mie care,
che tt’ho avuto da dà ll’urtimo addio!
Sei bbuffa! come
va? vva che Ccammillo
pe ggiucà all’otto 1 manna 2 casa a ffiamme.
Va, Cchiara mia, che ddio ne guardi io strillo
me dà ccarci da róppeme le gamme.
Va cc’oramai,
pe méttete er ziggillo,
io nun ciò ppiú ccamiscia da mutamme.
Va cc’oggi sto, nun me vergoggno a ddíllo,
che ancora potería 3 cummunicamme.
Pe mmé
ppascenza, 4 sò li mi’ peccati.
Poco male pe mmé. La mi’ gran pena
sò sti poveri fijji disgrazziati.
Ma ssenti
questa, e nnu lo dí a ggnisuno.
Sabbito vinze un ambo. Ebbè? annò a ccena
co li compaggni e cce lassò a ddiggiuno.
Questi li
vostri fijji?! Guarda, guarda
che ppezzi de demoni! E ppare jjeri
quanno abbitavio 1 a le stalle d’Artieri 2
c’uno era un’aliscetta, uno una sarda!
Ve se
sò ffatti du’ stangoni veri.
Nun ce manc’antro 3 cqua, ssora Bennarda, 4
che mmuntura, giaccò, schioppo e ccuccarda
pe ddà ar Papa un ber 5 par de granattieri.
Come
scarrozza er tempo! Ggià ddiescianni
passati com’un zoffio! Eh, nnun c’è ccaso,
li piccinini cacceno li granni.
Antro 3
cqua cche Ggolía e che Ssanzone!
Ce vò la scala pe ttoccajje er naso.
Cos’è er Monno! È una
gran meditazzione.
Cosa fai co
ste suppriche? Propali
tutte le tu’ miserie, o ffarze o vvere,
perdi tempo, strapazzi er tu’ mestiere,
bbutti via carta, logri scarpe, e ssciali. 1
Oh ffigurete
2 tù ssi 3 er Tesoriere,
c’ha da sfamà ssettanta cardinali,
vò ddà rretta a li nostri momoriali!
Lèvetelo da testa: sò gghimere. 4
Io
sciò 5 intese un mijjaro de perzone,
e ttutte sò arimaste pe sperienza
de la mi’ stessa medéma oppiggnone. 6
Prima
bbisoggnería 7 che Ssu’ Eccellenza
imparassi 8 a ccapí cche 9 ddistinzione
passa tra cchi ha cquadrini e cchi nn’è ssenza.
Ricontàmo.
Tre ppara de carzette,
uno de filo 1 e ddue de capicciola! 2
Cinque camísce, quattro foderette, 3
du’ ssciugamani e un paro de lenzola.
Poi du’
tovajje co ssette sarviette...
Nò, nnò, mme sbajjo, una tovajja sola.
Tre ccanavacci, du’ par de solette,
sei coppie de pannucci e una rezzola. 4
Che
ccos’antro 5 ve pare che cciamanchi?
Ggià vve l’ho ddetto: co st’antra 5 bbucata
ve porterò li fazzoletti bbianchi.
Mica poi se
sò pperzi o sse sò rrotti.
Credete puro 6 che la cosa è stata
pe vvia 7 de la lesscía 8 che mme l’ha incotti.
A sti
tempacci nostri è nnescessario
c’una zitella pe ppijjà mmarito
abbi prima de tutto partorito,
o rrotto er portoncin der zeminario.
Chi nun
ingabbia a ttempo er zu’ canario
se 2 fa vvecchia e nun trova antro 3 partito.
E, a la peggio, la panza è un riquisito
pe ottené pprotezzione dar Vicario.
Quanno nun
v’arïeschi èsse 4 sposate
pe sta strada, pe cquella de l’onore
nun zerve, fijje mie, che cce penzate.
Ché appena
cominciate a ffà l’amore,
viengheno 5 ste donnacce maritate,
je la danno, e vve lasseno a l’odore.
Lei sia puro
2 cor gruggno sbrozzoloso, 3
vecchia com’er cuccú cquanto tu vvòi:
pe ggamme abbi du’ zzèrule: 4 ma ppoi?
Pepp’Antonio pe llei sempre è lo sposo.
Hai mai visto
li tori a li procoj?
Un toro, Annuccia, dammelo ggeloso
de la su’ vacca, è affare assai scambroso 5
volé ffàllo 6 penzà ccome che nnoi.
Accusí
è ll’omo. Dunque Pepp’Antonio,
che sse la vedde 7 stuzzicà da quello
j’aggnéde 8 addosso e ddiventò un demonio.
Se sa, 9
ll’ommini porteno er cortello;
e essennosce 10 de mezzo er madrimonio
sce fu da fà e da dí ppe trattenello. 11
Chi? Vvoi?
dove? co cquella propotenza?
Voi sete er gruggno de spaccià cqui accosto?
Voi cqua, pper dio, nun ce piantate er posto
manco si 2 er Papa ve viè a ddà lliscenza.
Via sti
canestri, alò, 3 bbrutta schifenza.
E cc’è ppoco co mmé da facce 4 er tosto,
ch’io sò ffigura de maggnatte 5 arrosto
e mme te metto all’anima in cusscenza. 6
Si tte scechi
de fà n’antra parola,
lo vedi questo? è bbell’e ppreparato
pe affettatte 7 er fiataccio in ne la gola.
State pe
ttistimoni tutti quanti
che sto ladro de razza m’ha inzurtato
e mm’è vvienuto co le mano avanti.
Zitto... ecco
che la porteno, Presede. 2
Senti?... intoneno adesso er risponzorio.
Guarda... principia ggià a sfilà er mortorio.
Bbeata lei e cchi la pò arivede! 3
Oh a
cquest’anima sí cquasi è de fede
ch’è inutile la messa a Ssan Grigorio.
Oh cquesta nun ha ttocco 4 er Purgatorio
manco coll’oggna 5 d’un detin de piede.
Commare mia,
è mmorta una gran donna,
c’aveva pe l’affritto e ’r poverello
tutta la carità de la Madonna.
In quelo
stato 6 e cco cquer viso bbello
trovene ar monno d’oggi la siconna
che ttratti chi nun ha 7 ccome un fratello.
Sganàssete
de ride. 2 Er mi’ padrone
ha ddato scento scudi senz’usura
a li frati de San Bonaventura 3
pe avé un zeporcro a ssu’ disposizzione.
Nun te pare
un penzà ffor de natura?
Nu la credi una spesa da minchione,
c’uno ch’è ssenza casa e sta a ppiggione
abbi poi da crompà 4 una sepportura?
Lui disce
sempre a li fijji e a la fijja,
che cquella fossa apprivativa 5 è un loco
che pprepara pe ssé e ppe la famijja.
Disce:
«Fijjoli cari, da cqui avanti
cqua, ssi Ddio sci dà vvita, a ppoc’a poco
sci saremo inzeporti tutti quanti».
Le commedie
nun zò mmica funzione,
quilibbri, pantomine e bball’in corda,
che le possi capí lla ggente sorda
sibbè stanno 1 lontano dar telone.
E ppe cquesto
la sera a Ppalaccorda 2
pijjo er pparchetto de dietro ar violone
dove se 3 sente comichi e ssoffione 4
e sse gode l’orchestra quann’accorda.
Quer
parchetto lo chiameno er prosscenico,
pe vvia 5 che sta da un de li du’ capí
der teatro, viscino ar parc’osscenico.
E mmica
è vvero che nun ce se capi, 6
perch’io, lei, 7 Toto, 8 Meo, 9 Bbiascio e
Ddomenico
sce stamio 10 tutt’e ssei com’e ssei Papi.
Uhm, pe mmé,
sposa 2 mia, ho ggran pavura
c’a llui 3 je sii successa quarche ccosa.
L’affare nun è llisscio, sora Rosa:
è ttroppo tardi e la nottata è scura.
A mmé
pperò nnun m’abbadate, 4 sposa:
fate conto che pparli una cratura. 5
Dico accusí pperch’io l’ho ppe ssicura:
de resto poi nun ziate 6 tanta ombrosa.
Io me posso
sbajjà vveh, sposa mia:
mica ggià ssò pprofeta. Ma sta vorta,
me sta in testa che ffo una profezzia.
Cos’è
cche ddiventate smorta smorta?
Ve sete messa in apprenzione? Eh vvia!
Chi ssa cche llui nun stii ggià ssu la porta.
Ora pre
nobbi. Ora pre... Attenta, Nanna:
tu aritorni a zzompà. 1 Ddoppo in violata
viè, scrofa mia, madre arintemerata.
Fede e rrisarca sta ppiú ggiú una canna.
Ora pre
nobbi. Ora pre no... Sguajata!
Ma cche Tturris e bbruggna! che, mmalanna,
Domminus àuria e Vvirgo veneranna!
Virgo cremis, bestiaccia sgazzerata.
Di’ cchiaro
quelo Spè coll’ojjo stizzia.
Ora pre nobbi... Alò, 2 Ssede e ssapienza.
Avanti su: Ccausa nostr’allettizzia.
Animo, a tté:
Arifugg’impeccatòro.
Reggina profettaro?! Oh cche ppazzienza!
Manco male che vviè: Er zantòru moro.
Sta mmale
accusí bbene, poverello
che mmó ha ffatto inzinenta 1 l’occhi storti;
e er medico, che Cristo se lo porti,
disce che ttutto er male è in ner cervello.
Piaggne,
smania, sospira,... pe un capello
va ssu le furie... e in ne l’inzurti forti
nun ved’antro 2 che ccasse, bbeccamorti,
curati, sepporture, farfarèllo... 3
Io pe mmé jje
l’ho ddetto a la padrona:
«Siggnora mia, ma pperché nnun provamo
quarc’antra mediscina che ssia bbona?».
Ggnente. Lei
me se striggne in ne le spalle,
e sse mette ar telaro der ricamo
a llavorà li fiori de lo sscialle.
Quanno
lòro s’incontreno, Bbeatrisce,
tu averessi da stà 1 ddietr’un cantone.
«Ôh ccaro sor Natale mio padrone!».
«Umilissimo servo, sor Filisce».
Disce: «Ne
prende?» 2 «Grazzie tante», disce.
«Come sta?» «Bbene, e llei?» «Grazzie, bbenone».
Disce: «Come lo tratta sta staggione?».
Disce: «Accusí: mmi fa mmutà ccamisce».
Disce: «E la
su’ salute?» «Eh, nun c’è mmale.
E
la sua?», disce. «Aringrazziam’Iddio».
«E a ccasa?» «Tutti. E a ccasa sua?» «L’uguale».
«Ne godo
tanto». «Se 3 figuri io».
«Oh ddunque se 3 conzervi, sor Natale».
«Ciarivediamo, 4 sor Filisce mio».
Tra er
negozzio de stracci e ll’osteria
psè, aringrazziam’Iddio, tanto la strappo. 2
Co cquer c’abbusco a Rripa, e cquer c’acchiappo 3
traficanno cqua e llà, se 4 tira via.
Lasseme
5 intanto vení ssú cquer tappo, 6
quer mi’ raponzoletto de Mattia,
e allora poi, deo grazzia, a ccasa mia
c’entrerà ttanto da poté ffà er vappo. 7
Mó adesso
studia e vva a l’Iggnorantelli 8
a ffàsse 9 omo; e ggià ssur cartolare
co la penna sce fa ssino l’uscelli.
Le lettre
lavorate se le spifera 10
co ’na lestezza e bbravità, cche ppare
Monziggnor Zegretario de la Zífera. 11
Io ve dico
accusí cche nun zò ttonta: 1
io ve dico accusí, fijja mia bbella,
che vvoi sete una bbrava puttanella,
sete una bbona faccettaccia pronta.
Guarda si
2 cche ffigura che ss’affronta!
guarda che bber proscede 3 da zitella!
Sí, zzitelluccia come la vitella
a ddu’ bbajocchi e mmezzo co la ggionta.
Tu
ariviè 4 a cciovettà cco mmi’ marito,
si cce vòi avé 5 ggusto: tu ariviecce 6
un’antra vorta, gruggnettaccio ardito,
e mme te
bbutto sopra quant’è vvero
la Madonna: t’aggranfio 7 pe le trecce,
t’arzo la vesta, e tte fo er culo nero.
Nun me la
sento, nò, nnun me la sento:
queste cqui nun zò llègge da cristiani,
d’avé da stà li mesi e ll’anni sani
a mmorisse de pizzichi 1 cqua ddrento.
Mai un po’
d’aria! Ma’ un divertimento!
Sempre ammuffita cqui ccome li cani!
Che mmariti! Che ccori indisumani!
E sse 2 laggneno poi si 3 mmuta vento.
Co cquella
sscimmia tua de Luscïola
er tempo d’annà in zònzola 4 sce ll’hai:
tutti li gran da-fà 5 ssò ppe mmé ssola.
Oh, inzomma,
io drento casa incaroggnita
nun ce vojjo stà ppiú. Ssi ccaso-mai, 6
nun ho ggruggno 7 né età de fà sta vita.
Madalena,
finisscela: e nnovanta.
Nun me roppe li fiaschi, 1 Madalena.
Lasseme stà: nnun me fà ffà una sscena
de le mie. Ôh ttu sseguita: ôh ttu ccanta.
Che lingue!
Che ccervelli da catena!
Se ne perdi la razza tutta quanta!
E cce fiotteno poi s’uno le pianta,
e sse laggneno poi si 2 un omo mena.
Eh
ddàjjela! 3 Ho ccapito: ggià lo vedo
che sta jjoja 4 finissce cor pagozzo. 5
Io fo li fatti: a cchiacchiere te scedo. 6
Bbada, nun te
fidà ssi 2 ancora abbozzo: 7
zittete llí, pperch’io sto un antro crèdo. 8
E ppoi te do de piccio 9 e tte scotozzo. 10
Hai visto si
2 cche ggala? di’, l’hai vista
la pidocchia-arifatta, 3 eh Furtunata,
come se n’è vvenuta impimpinata 4
guasi 5 nun fussi mojje d’un artista?
Vesta de
seta, zinàl 6 de bbatista,
corpetto de villuto, scamisciata, 7
france, 8 ricami, robba smerlettata,
perle, anelli, pennenti d’ammattista... 9
Pe una visita
a nnoi la sciscia-ssciapa 10
s’è mmessa a sfoderà 11 ttutta sta fiera,
manco si avessi d’annà a ttrova 12 er Papa!
Ôh, cco
ttanta arbaggía 13 de fasse vede, 14
potería ricordasse 15 de quann’era
piena de stracci e ssenza scarpe in piede.
Du’ bbaiocchi
d’andivia. 1 E cche mme dai?
Quattro pieducci soli? Ôh ssanta fede!
Ma ssei matto davero o mme sce 2 fai?
Questa, capata 3 ch’è, mmanco se 4 vede.
Tu stasera
vòi famme 5 passà gguai
co la padrona. Ebbè? ccosa succede?
Te l’aribbutto llí, Ggiachemo, sai?
Presto, a tté, ttira via, ggiú, un antro piede.
Da scerto temp’in
qua, ppropio, sor coso,
ve sete messo sur caval d’Orlanno:
come ve sete fatto carestoso!
Varda 6
cqui ddu’ bbaiocchi d’anzalata! 7
E aringrazziamo er cefolo: 8 quest’anno
l’erba è ddiventat’oro, è ddiventata.
Ma fijja mia,
ma indove sta er decoro?
Come! er zor Conte te porta un anello,
e ttu jje vai a mmette 1 in ner cervello
la sofisticheria che cc’è ppoc’oro!
P’er primo
ggiorno t’ha da dà un tesoro?
Ttu ffatte arregolà. 2 Mmó imberta 3 quello,
e un’antra vorta l’averai ppiú bbello.
Se sa, 4 ttutte le cose ar tempo lòro.
Ggià
cche tte manna 5 Iddio sto pezzo d’onto, 6
fijja mia, fa’ la parte che tte tocca:
nun te lo disgustà, ttiettel’acconto.
Er
ricusà rrigali è aggí da ssciocca.
Pijjelo, Tuta: 7 nun je fà st’affronto.
Caval donato nun ze guarda in bocca. 8
Si 1
er padroncino studia!? È una faccenna
d’arimane intontiti, 2 d’arimane.
Tira a schiattasse: 3 fa un studià da cane:
apprica tanto, ch’è una cosa orrenna.
Nun
c’è antro pe llui che llibbro e ppenna,
come si 1 ar monno j’amancassi 4 er pane.
Sta a ttavolino le ggiornate sane;
e ss’è ccopiato ggià Pparis e Vvienna. 5
Quarche vvorta er Perfetto 6 der Colleggio
je sciarríva 7 a llevà li frutti e ’r vino.
E llui s’incoccia 8 e vvò studià ppiú ppeggio.
Je lo dico
pur’io quanno je porto
la mutatura: «È mmejjo, siggnorino,
’n asino vivo c’un dottore morto».
Er zalumaro
ha ttrovo in d’un libbrone
che un certo sor Dimenico Sgumano 1
e un certo sor Francesco Bennardone 2
quello spaggnolo e cquest’antro itajjano,
volenno
arzà ddu’ nove 3 riliggione,
er primo se 4 vistí ddomenicano,
mentre er ziconno se legò un cordone
su la panza e sse 4 fesce francescano.
Seiscent’anni
e un po’ ppiú ggià ssò ppassati,
che ppe ggrazzia der primo e dder ziconno
sto par de fraterie cacheno frati.
Seiscent’anni!
Oh vvedete quant’è antica,
oh immagginate quant’è sparza ar mondo
la vojja de campà ssenza fatica!
La causa de
sti guai tiettelo 1 a mmente,
nun è la guerra, nun zò le staggione:
tutto ne viè cch’er zecolo presente
nun conossce ppiú un cazzo 2 riliggione.
Oggni
quarvorta un Papa anticamente
ussciva da Palazzo in carrozzone,
se 3 sentiveno turbini de ggente
dí: 4 «Ssanto Padre, la bbenedizzione».
Ma a sti
tempi che cqua 5 cchi sse ne cura?
chi jje la chiede adesso? Tutt’assieme,
quattro vecchi, e ssí e nnò cquarche ccratura. 6
Co ttutto
questo, io noto la costanza
der povero sant’omo, che sse 7 spreme
a spaccà ccrosce pe ssarvà ll’usanza.
Come diavolo
mai! pare un distino!
che tt’abbi da vení sta fantasia,
sto gran bisoggno d’un bicchier de vino
propio quann’è inibbita l’osteria!
Lo capisco
che er beve un fujjettino
nun ze pò ddí a rrigore un’eresia.
Ma sti ggiorni è un giudío chi ha ssete, infino
che nun zente sonà lla vemmaria.
Er Papa sa
cquer che sse fa, ffijjolo,
e nun deve soffrí cch’er catachisto
parli ar muro e se sfiati da sé ssolo.
Serrato
indove se bbeve e sse maggna,
pe rrabbia d’ozzio se va in chiesa; e Cristo
sempre quarche ffiletto 1 lo guadaggna.
Dico: «Nina,
1 che ffai llí appied’ar letto,
coll’occhi in faccia a ttu’ marito morto?».
Disce: «Dico er rosario, poveretto,
pe mmannajje 2 un tantino de conforto».
Dico: «Sentime,
Nina: io te l’ho ddetto
pe ccausa de l’amore che tte porto,
ché ssi 3 dduri sta vita, tra un mesetto
tu ffai fà un’antra 4 mancia ar beccamorto.
Lassa, dico,
li morti indove stanno,
e ppenza ch’er compare, ch’è ssincero,
te guarda de bbon’occhio da quarc’anno».
Cqua llei me
se vortò: «Cchi? Ttanislavo?». 5
disce,«lo so, Mmitirda; 6 e cquant’è vvero
sta corona de Ddio mó cce penzavo».
Dateme un
telo de muerre onnato 1
d’una canna, pe ffà ’na pollacchina
come le scarpe che ss’è mmessa Nina
la dimenica in arbis c’ha sposato.
Eppoi vorebbe
doppo una ventina
de parmi de robbetta a bbommercato
de gran figura cor fonno operato
pe ffà ’na bbuttasú de bbammascina.
Eppoi vorebbe
puro quarche pparmo
de fittuccia compaggna arta du’ dita
com’e cquella c’ho vvista a Ppiedemarmo. 2
Ôh, eppoi...
ch’edè? 3 nun m’avete capita?
E io bbestia è da un’ora che mme scarmo! 4
Oh annate annate a vvenne 5 l’acquavita.
Li Re a bbon
conto sò nne le nazzione
come la testa sopr’ar corpo umano;
che cquanno disce lei le su’ raggione
è ccome l’abbi dette er corpo sano.
Ce vò
un popolo matto in ner cestone, 1
pe ccrede de campà ssenza sovrano.
Dunque oggnuno se tienghi er zu’ padrone,
e aringrazziamo Iddio cor core in mano.
Quello llassú
ffa tutto co pprudenza;
e mmentre che li Re llui l’ha ccreati
vò ddí cch’er monno nun pò stanne senza.
Ecco perché
li Re, ssor Tisifonte, 2
nascheno tutti bbelli e ppreparati
co la corona ggià incarnita in fronte.
Tra ttanti
tesorieri, padron Titta,
c’hanno in bocca l’onore e lo sparaggno,
povere casse! le vedo e le piaggno
e nnun ze sa a cchi ddàjje la man dritta.
Qualunque che
ne viè, cqui annamo ar baggno
pe le dojje 1 e la Cammera è ppiú gguitta. 2
Nun ciamanca 3 pell’urtima sconfitta
c’a la zecca sce 4 bbattino lo staggno.
’Ggni
tesoriere caccia fora un banno
pieno de mari e mmonti; e intanto, amico,
chi jj’avanza, riscode 5 anno penanno. 6
Lòro
soli sò cquelli ar fin der gioco
che ffanno goffo, 7 p’er proverbio antico
che pparla de la lesca 8 accant’ar foco.
Pe strada
oggni bbaggnato c’ha ffigura
d’un fonno de tinozzo o dd’un rotino,
quello, Ggiuvanni mio, nun è mmai vino,
ma acqua, e ppe lo ppiú, ppisscio addrittura.
Tu da quer
logo llí scanzete, Nino,
perché appresso ar brodetto sc’è ppavura
che ppossi vení ggiú la ssciacquatura
e azzuppatte simmai 1 com’un purcino.
Nun fidatte
cor dí cc’appunto er zito
dov’hanno ggià vvotato l’urinale
è ssempre ppiú ssicuro der pulito.
Er risico, lo
so, sta dda pertutto;
ma intanto è ccerto che llí cc’è un zeggnale
che nun ze trova sur terreno assciutto.
Fra ttutti
quanti l’ommini assortati
Papa Grigorio sce pò ffà er campione.
Nassce fijjo d’un povero cojjone,
e vva a ddà llègge a un ordine de frati!
Viè a
Rroma a lleccà er culo a li prelati,
e jje zompeno 1 in testa tre ccorone!
Schioppa, 2 cristo de ddio, ’na ribbejjone
curre er froscio, 3 e li guai sò arimediati!
Levatose
quell’osso da la gola,
dà mmazzolate de mano maestra
e la ggente je bbascia 4 la mazzola!
D’inverno, a
mmezza notte, senza lume,
voi bbuttatelo ggiú dda la finestra
e ttrova sotto un cusscinon de piume.
Er Papa tra
li frati sce s’ingrassa,
nò pperché ss’aricordi er temp’antico:
cor mutà de vardrappa, 1 Federico,
se 2 muta er core, e l’amiscizzia passa.
Nun dico
ggià cche ne faría 3 man bassa,
si ddassi 4 retta ar genio suo, ma ddico
che llui l’imbecca e jje se mostra amico,
perc’hanno in mano er fil de la matassa.
Lui li ninna,
li coccola 5 e li cova
e cce va a nnozze in ner leccajje er pelo,
perché er tenelli da la sua je ggiova.
È
ssempre bbene tené acceso er zelo
co cquarche smorfia e bbonagrazzia nova
ne le bbocche che spiegheno er Vangelo.
Tristo ar
monno chi avanza, Crementina.
È un anno che cquer gruggno da sassate
de don Bruno ha da damme 1 una diescina
de scudi pe ttre rrubbie de patate.
Co ssalille 2
oggni ggiorno e oggni matina,
j’ho llograte le scale, j’ho llograte.
«Dorme, pranza, nun c’e; sta a la dottrina...».
E ssempre sta canzona: «Aritornate».
N’ariviengo
mó ppropio co ste gamme,
perc’oggi ar fine er zanto sascerdote
m’aveva aripromesso de pagamme!
Sai cosa ha
ffatto dimme 3 er zor don Bruno?
Ch’è ttanto affaccennato in ner riscote
che nun ha ttempo de pagà ggnisuno.
Senti questa
ch’è nnova. Oggi er curato
ch’è vvenuto ar rifresco der battesimo,
doppo unisci bbicchieri, ar dodiscesimo
ch’er cervello je s’era ariscallato,
ha ddetto:
«Oh ccazzo! A un prete, perch’è nnato
in latino, è ppermesso er puttanesimo,
e ll’ammojjasse nò! Cquello medesimo
che ppe un Grego è vvertú, ppe mmé è ppeccato!».
E sseguitava
a ddí: «Cchi mme lo spiega
st’indovinello cqua? cchi lo pò ssciojje?
nemmanco san Giuseppe co la sega.
Cosa sc’entra
er parlà cquanno se 1 frega?
Che ddiferenza sc’è rriguardo a mmojje
da la freggna latina a cquella grega?».
Li medichi se
1 dicheno dottori:
li mozzini 2 hanno er nome d’avocati:
li ricchi d’oggni razza sò ssiggnori:
li preti je va er titolo d’abbati:
l’arcivescovi, vescovi e pprelati
se chiameno eccellenze e monziggnori:
li cardinali poi sò intitolati
un po’ mminenze e un po’ ssagri lettori. 3
Perché
llettori? Che ddimanda ssciapa!
Perché li cardinali hanno la lègge
de chiudese 4 in concrave e llègge 5 er Papa.
Lègge,
ciovè ccreà: cché staría 6 fresco
chi lleggessi 7 in ner Papa! E cche vvòi lègge? 8
Quarche ccojjoneria scritta in todesco?
Co sto
Vicario novo, ar Vicariato
tristo mó cchi cc’incappa, Gurgumella.
Oh adesso se pò ddí dda la padella
che ssem’iti a la bbrascia, 1 dio sagrato!
Ar meno, da
quell’antro 2 ch’è ccrepato,
Si 3 cc’era d’aggiustà cquarche cquarella, 4
sce 5 mannavi tu’ mojje o ttu’ sorella,
e scontavi peccato pe ppeccato.
Quello,
bbeata sia l’anima sua,
sapeva serrà un occhio a ttemp’e lloco;
ma cquesto li spalanca tutt’e ddua!
Ccusí Ccristo
mó ppropio lo scecassi 6
cor zor Grigorio, che mmette un bizzoco
drent’ar maneggio de l’affari grassi.
Bbe’, ho
ccapito, lo so: er Governatore
litica cor Vicario; e Ssu’ Eminenza
cerca de falla 1 in barba a Ssu’ Eccellenza.
E ttu ppe cquesto te sciaffanni 2 er core?
Perché uno
vò ssarva la cusscenza
mentre quell’antro 3 vò ssarvo l’onore
sò ccasi da provà ttanto dolore?
Se 4 vede propio che nun hai sperienza.
Io sento che
ppe mmé nnun me sciaccoro. 5
Lasseli fà, llasseli fà, ppe ccristo,
che sse 4 sfasscino er gruggno tra de lòro.
Che sse
4 disce dar popolo romano
ner trovà ccani che sse 4 danno er pisto? 6
«Pijjelo sú, ppijjelo sú, Ggiordano».
Oh cche
ppurcinellata è sta crausura!
Rote, grate, rippari d’oggni sorte,
catenacci, ferrate e inchiavatura
ppiú cc’a li ladri condannati a mmorte;
e cco ttutta
sta gran caricatura
pe ttené cchiuse quattro bbocche storte,
bbussa un Eminentissimo, e addrittura
je vedi spalancà ttutte le porte.
Ah, ddunque
nun è omo un Cardinale?
Forzi 1 omo nun zarà, mma mmaschio è ccerto,
perché ne tiè in possesso er capitale.
Nun zò
de carn’e dd’ossa st’angeletti
pe vvia che la lavoreno ar cuperto?
Eh, ppotessi 2 parlà ccasa Projetti!... 3
Una vorta, ar
passà d’un Cardinale
in qualunque carrozza co l’ombrello,
le ggente s’affermaveno in du’ ale,
e ttutti je cacciaveno 1 er cappello.
E Ssu’
Eminenza, ar vede 2 quer zeggnale
de stima, s’affacciava a lo sportello,
e ssalutava co rrispetto uguale
er granne e ’r ciuco, 3 er ricco e ’r poverello.
Piano piano
però lli ggiacubbini
nimmichi a mmorte de le bbone usanze,
ssò rriussciti a llevà ppuro 4 st’inchini.
Cos’è
ssuccesso? In grazzia de ste panze 5
oggi er Zagro Colleggio è a li confini
de nun zapé ppiú un cazzo 6 le creanze.
Incontrai
jermatina a Vvia Leccosa 1
un Cardinale drento a un carrozzino,
che, ssi 2 nun fussi stato l’ombrellino,
lo pijjavi p’er leggno d’una sposa. 3
Ar vedemmelo
llí, ppe ffà una cosa,
je vorzi 4 dunque dedicà un inchino,
e mmessame la mano ar berettino
piegai er collo e ccaricai la dosa.
E
acciò la conveggnenza nun ze sperda
in smorfie, ciaggiontai 5 ccusí a la lesta:
«Je piasce, Eminentissimo, la mmerda?».
Appena Su’ Eminenza se fu accorta
der comprimento mio, cacciò la testa
e mme fesce de sí ppiú dd’una vorta.
Vienuto
appena a Mmonziggnor Decane
er zucchetto, a Ssan Pietro, 2 in piena Rota, 3
l’antri Uditori, tutta ggente ssciota, 4
je se sò mmessi a sbatteje le mane.
Chi zzompava
ar zonà de le campane:
chi strillava: «Per oggi nun ze vota»:
chi ddimannava: «Se sa ggnente in nota
chi cce sia pe la ssedia c’arimane?».
Poi tutti:
«Evviva er nostro Minentissimo!».
E cquello arisponneva: «Indeggno, indeggno».
E cquell’antri: 5 «Dignissimo dignissimo».
Poi Su’
Eminenza, co cquell’antri dietro,
è sscento 6 pe le scale, è entrato in leggno,
e ha vvortato le natiche a Ssan Pietro.
Jerzera, a la
commedia, 2 quer zor Pianca
che ccammia er vino in acqua e ll’acqua in vino
e vve fà pparé omo un burattino,
er tutto pe vvertú de maggía bbianca,
volenno
quarche oggetto piccinino
da fà sparí, cco la su’ faccia franca
se vortò da un parchetto ammanimanca,
e ll’annò a cchiede ar Prencipe Piommino. 3
S’ha da sapé
cch’er Prencipe, un po’ avanti,
nun vorze 4 fà una somma ar giucatore,
pe ccui sce lo ssciusciòrno 5 tutti quanti.
Dunque a st’antra
6 dimanna, che ffu cquesta:
«Me dia quarcosa piccola, siggnore»,
la ggente je strillò: «Ddajje la testa».
In questo io
penzo come penzi tu:
io l’odio li ggiudii peggio de te;
perché nun zò ccattolichi, e pperché
messeno 1 in crosce er Redentor Gesú.
Chi
aripescassi 2 poi dar tett’in giú 3
drento a la lègge vecchia de Mosè,
disce l’ebbreo che cquarche ccosa sc’è
ppe scusà le su’ dodisci tribbú.
Ddefatti,
disce lui, Cristo partí
dda casa sua, e sse ne venne cqua
cco l’idea de quer zanto venardí.
Ddunque,
seguita a ddí Bbaruccabbà,
subbito che 4 llui venne pe mmorí,
cquarchiduno 5 l’aveva da ammazzà.
Nissuno ve
l’impuggna, sor Tobbia,
c’a Rroma li prelati e ccardinali,
un po’ mmeno o un po’ ppiú, ssò 1 ccapitali
da ffasse er zeggno 2 de la crosce e vvia.
Puro nun zò 1 li furbi prencipali,
e sse 3 dà cchi li passa in birberia.
Diteme un po’ cchi ha vvisto mai gginía 4
peggio de la gginía de li curiali.
Ciànno
5 inzino un oremus 6 che ss’addopra
pe cchiede 7 a Ddio de disturbà la pasce
de le famijje e gguadaggnacce 8 sopra.
Quest’è
un punto pe mmé bbell’e disciso 9
che un par che sse ne sarvi sia capasce
de mette 10 sottosopra er paradiso.
Santo Padre,
che ccosa ve fregate 1
co ttutti sti quadrini che spennete?
Dolori co le mmànnole 2 attorrate
ve possino vení ssi nnu 3 l’avete.
Ve pare
questa cqua vvita da frate?
Ve pare questa cqua vvita da prete?
Eppoi fate er piaggnone: eppoi sperate
che vve possino annà le cose quiete.
Le ggente
mica poi sò cceche e mmute;
e vve faranno avé strette infinite,
peggio de quelle che ggià avete avute.
Che ssciupi
4 una siggnora c’ha la dote,
pascenza; 5 ma li vostri, lo capite?,
nun zò sfarzi da Sommo Sascerdote.
La
ggiustizzia è pp’er povero, Crestina. 1
Le condanne pe llui sò ssempre pronte.
Sai la miseria che ttiè scritto in fronte?
Questa è ccarne da bboja; e cc’indovina.
N’averò vvisti annà a la ghijjottina
da venti o ttrenta, tra er Popolo e Pponte. 2
Ce fussi stato un cavajjere, un conte,
un monziggnore, una perzona fina!
Quantunque,
fijja, a rripenzacce 3 sopra,
povero Papa, nun ha ttanto torto
si co cquelli er marraccio 4 nu l’addopra.
Forzi 5
lui voría fajjela 6 la festa;
ma bbuttería la spesa de straporto: 7
se pò gghijjottinà cchi nun ha ttesta?
Sí, cquello
che pportava li capelli
ggiú pp’er gruggno e la mosca ar barbozzale, 1
er pittor de Trestevere, Pinelli, 2
è ccrepato pe ccausa d’un bucale. 3
V’abbasti
questo, ch’er dottor Mucchielli, 4
vista ch’ebbe la mmerda in ner pitale,
cominciò a storce 5 e a mmasticalla male, 6
eppoi disse: «Intimate li fratelli». 7
Che aveva da
lassà? Ppe ffà bbisboccia 8
ner gabbionaccio 9 de Padron Torrone, 10
è mmorto co ttre ppavoli in zaccoccia. 11
E ll’anima?
Era ggià scummunicato, 12
ha cchiuso l’occhi senza confessione... 13
Cosa ne dite? Se 14 sarà ssarvato?
Eccheve
1 li padroni c’a nnoi guitti 2
ce 3 cuscineno 4 mejjo de li cochi,
ché spesso sce 3 trovamo tra ddu’ fochi
e da tutte le parte semo fritti.
Prima
viè er Papa a conzolà l’affritti:
doppo, li Cardinali, e nnun zò ppochi:
poi viè cquell’antra fila de bbizzochi
de li Prelati, a mmette fora editti.
Dietro a li
Cardinali e a li Prelati
viengheno a ffà le carte sti Margutti
de capi de le regole de frati.
Poi viengheno
a ttajjà la testa ar toro
l’Immassciatori, 5 e ppoi prima de tutti
le donne bbelle e li mariti lòro.
Questo io lo
so cche ttra li pezzi rari
d’erliquie che li Papi hanno provisto
e ttiè in conzeggna Monziggnor Zagristo
coll’utentiche drento all’erliquiari,
sc’è
er prepuzzio c’aveva Ggesucristo
coll’antri su’ membrucci nescessari,
ch’è un erliquione che ssopra all’artari
pò ccacà in faccia ar mejjo che ss’è vvisto.
E nun zerve
de dí, ccaro sor Muzzio,
che cc’è ppiú d’un paese che ss’avvanta 2
d’avé er tesoro der zanto prepuzzio.
Fede, sor
Muzzio mio, fede bbisoggna.
Ebbè? mmagaraddio fussino ottanta?
Je sarà aricressciuto com’e ll’oggna. 3
Vestí 1
li fiijj? lui! Santa pascenza! 2
Che cc’entra lui co li carzoni rotti?
A llui j’abbasta d’annà a li ridotti
a ggiucà a zzecchinetto; ecco a cche ppenza.
Ebbè, cquanno
ho strillato? me dà udienza
com’er Papa dà rretta a li sciarlotti. 3
Bbisoggna che l’abbíla 4 io me l’iggnotti; 5
nun c’è antro da fà, ssora Vincenza.
Tutto er mi’
studio è ppregà Iddio che vvinchi. 6
Nò cc’allora sce 7 speri quarc’ajjuto
ma ppe avè mmeno carci in ne li stinchi.
Quela
bbestiaccia io la conosco ar pelo;
e quanno torna a ccasa c’ha pperduto,
sora Vincenza mia, òprete scelo! 8
La cappella
papale ch’è ssuccessa
domenica passata a la Sistina,
pe tutta la quaresima è ll’istessa
com’è stata domenic’a mmatina.
Sempre er
Papa viè ffora in portantina:
sempre quarche Eminenza canta messa;
e cquello che ppiú a ttutti j’interressa
sc’è ssempre la su’ predica latina.
Li Cardinali
sce 1 stanno ariccorti 2
cor barbozzo inchiodato sur breviario
com’e ttanti cadaveri de morti.
E nun ve
danno ppiú sseggno de vita
sin che nun je s’accosta er caudatario
a ddijje: «Eminentissimo, è ffinita».
Chi
vvò ggode 1 un zeporcro stammatina
che tt’arillegri e cche tte slarghi er core,
bbisoggna annà a Ppalazzo, e avé l’onore
d’èsse in farde 2 e dd’entrà a la Pavolina. 3
Che
pparadis’in terra! che sprennore! 4
quante cannele! 5 e ttutta scera fina.
Pare un inferno! E tt’assicuro, Nina,
che cce potrebbe stà un Imperatore.
Io
sciappizzai 6 l’antr’anno de sti tempi,
e mm’aricordo sempre d’avé ddetto
che sti sfarzi che cqua 7 ssò bbrutti esempi.
Per via ch’er
Gesucristo de le cchiese
che sse vede trattà da poveretto,
pò ssartà in bestia e bbuggiarà 8 er paese.
Sò
ppoche le funzione papaline:
nun basteno la scena 1 e la lavanna.
Pe ffa le cose com’Iddio commanna 2
pare c’ar Papa tra ste du’ matine
bbisoggnerebbe
métteje una canna
in mano e in testa una coron 3 de spine:
poi fraggellallo a la colonna, e infine
proscessallo e spidijje la condanna.
Disce: «Ma a
Rroma nun ce sta Ccarvario».
Si 4 cconzisteno cqui ttutti li mali
s’inarbera la crosce a Mmonte-Mario.
E llassú
oggn’anno, a li tempi pasquali,
ce s’averebbe da inchiodà un Vicario
de Cristo, e accanto a llui du’ Cardinali.
Er Papa dorme
da una man de notte 1
nov’ora appena, e ss’arza, poverello,
cor culo pe l’inzú, 2 cco ccerte fotte 3
da tajjalle a grostini cor cortello;
perché sto
par de fijji de miggnotte 4
ch’è in zur proscinto de dajje er cappello,
l’ha scuperti ppiú lladri che mmarmotte
e mmó sta ttra l’ancudine e ’r martello.
Si 5
li lassa in ner posto c’hanno adesso,
va a rrisico che ll’antra prelatura
specchiannose in sti dua facci l’istesso.
Si 5
ppoi l’incardinala, ha ggran pavura
c’un giorno uno de lòro entri ar possesso
de la Cchiesa, e la manni 6 in raschiatura.
L’osso-duro
de casa è ddonna Teta,
la sorella ppiú ggranne der padrone,
che ssagrata 1 e sse 2 mozzica le deta 3
si 4 la ggente nun fa ll’opere bbone.
Disce:
«Set’ito a mmessa oggi, Larione?». 5
Dico: «Sí». «E ddove?» «A Ssan Zimon Profeta».
«A cche ora?» «Un po’ ddoppo er campanone».
«E de che ccolor’era la pianeta?»
Allora me
zomporno, 6 e jj’arispose: 7
«Ôh, ssa cche jj’ho da dí? Cquann’io sto a mmessa
sento messa e nun bado a ttante cose.
Saría 8
bbella ch’er prete da l’artare
scutrinassi 9 la robba che ss’è mmessa
la ggente! oggnuno va ccome je pare».
Je le do
ttutte vinte! È ffijjo solo,
cerco d’accontentallo come posso.
Disce: «Mamma, me fate er dindarolo?». 2
E io ’ggni festa j’arigalo un grosso.
Me sce
spropio, 3 lo so, mma mme conzolo
ch’è ttanta robba che jje metto addosso.
E llui ggià ffa la mira a un farajolo
cor castracane 4 e ’r pistaggnino rosso.
Li regazzi,
se sa, da piccinini
s’ha da avvezzalli de tené da conto
e ffajje pijjà amore a li quadrini.
Ccusí,
cquanno sò ppoi ommini grandi,
nun sciupeno, 5 e a ccosto anche d’un affronto
nun te danno un bajocco si 6 li scanni.
Lodat’Iddio! sto
porco de diggiuno
ce s’è llevato arfine da le coste.
Quer fà ssempre seguenzia, 1 sor don Bruno,
je pare usanza d’annà a ggenio a un oste?
Pe
cquarantasei ggiorni! tante poste 2
èsse aridotte a nun cenà ggnisuno!
So cche stasera de sol’ova toste 3
ggià n’ho ccotte trescent’e ssettantuno.
Nun sarebbe
ppiú mmejjo ch’er Vicario
stramutassi 4 st’inzurza pinitenza
in una terza parte de rosario?
Che mmale ne
vierebbe a la cusscenza?
D’annà cquarc’antra vorta ar nescessario?
Caro lei, tutto sta ccome se penza.
Male er
maggnà de magro?! Voi vivete
in errore, in equivico, in inganno.
Li medichi, se sa, ttutto fa ddanno.
Ggnente, 1 imposturerie: nun ce credete.
Io faccio
l’oste, ma ss’io fussi prete
predichería 2 sarache 3 tutto l’anno.
Solamente la sete che vve danno!
E cc’è ppiú ggusto che smorzà la sete?
Ecco li
scibbi da fà ll’omo sazzio:
tonni, arenghe, merluzzi, tarantelli...
Queste sò ggrassce da levajje er dazzio.
Li viggnaroli
armanco, 4 poverelli,
direbbeno: «Siggnore v’aringrazzio,
che sse vòteno presto li tinelli».
Ecchesce
1 a Ppasqua. Ggià lo vedi, Nino:
la tavola è infiorata sana sana
d’erba-santa-maria, menta romana,
sarvia, perza, vïole e ttrosmarino.
Ggià
ssò ppronti dall’antra sittimana
diesci fiaschetti 2 e un bon baril de vino.
Ggià ppe ggrazzia de Ddio fuma er cammino
pe ccelebbrà sta festa a la cristiana.
Cristo
è risusscitato: alegramente!
In sta ggiornata nun z’abbadi a spesa
e nun ze penzi a gguai un accidente. 3
Brodetto,
4 ova, salame, zuppa ingresa,
carciofoli, granelli e ’r rimanente,
tutto a la grolia de la Santa Cchiesa.
Che, ha
mmaggnato l’agresta, eh sora Peppa,
che mme sta ccusí ascida e mm’allappa? 2
Quant’è ggrazziosa sta commar Giuseppa!
Propio, per dio, nun ce la pò una zappa.
Bbellezza
mia, chi la tira la strappa,
e ppò ffiní la storia co una sleppa. 3
Data che ppoi ve l’ho, mmadama schiappa, 4
abbozzate 5 e mmettetesce una zeppa. 6
Vatte a
ffà spellecchià, 7 vva’ a ggiucà a llippa:
8
va’, vvatte a ccerca chi tte porti in groppa, 9
bbrutta stampa de mmaschere da pippa.
Dico a tté,
mmarcia, alò, trotta, galoppa;
o tte fo er chiavicone de la trippa
come la scamisciata 10 de Falloppa.
Io nun me ne
volevo perzuade, 2
eppuro sissiggnora: stammatina,
a li venti d’aprile, pe le strade
pare cqui a Rroma una Sibberia fina.
Chi lo
capissce come possi accade 3
che in ner mentre l’istate s’avviscina
se fa er passo der gammero? e la strina 4
ve penetra nell’ossa com’e spade?
E vvoi
fiottate 5 de quello a Ssan Pietro
perché l’affari nostri nun ze cura
si 6 invesce d’annà avanti vanno addietro!
Quanno nun
c’è ppiú istate né ppiú inverno
e ss’ammattissce la madre natura,
se pò, 7 ccredo, ammattí ppuro 8 er Governo.
C’è
Ffarzacappa, 1 Micchera, 2 Tantini, 3
Sciacquapiatti, 4 Sciufeco, 5 Desimoni, 6
Fressce, 7 Tesguazzo, 8 Frozzoli, 9 Obbizzoni,
10
Bussi, Pacca, Latrijja, 11 Bbarberini,
Odescarchi,
12 Sciabbotta, 13 Lammruschini, 14
Morozzo, Arbani, 15 Zzúllera, 16 Franzoni, 17
Delaporta, Isuà, 18 Mmacchia, 19 Guidoni, 20
Vèrde, 21 Arezzi, 22 Crapano, 23 e
Ppidiscini. 24
Sin qua
ssò vventinove. Chi cce resta?
Sirva, 25 Rïari, 26 Grassucchi, 27
Canale.
Sala, Doria, Arberghini, 28 quela cresta
de
Pallotta... ch’edè? ccome? sta mmale?
De testa hai detto? Un rifreddor de testa?
Un rifreddor de testa a un cardinale?!
Quer che sta
in pasce 1 co la vacca e ’r bove
viè a ttrova la padrona oggni matina
a un’ora fissa che la ggente fina
pe nnun dí ccom’e nnoi disce a le nove.
Pò
ffioccà a ssangue, 2 tirà vvento, piove, 3
pònno fionnà 4 ssaette in pollacchina,
quann’è cquell’ora ecchete lui, Ggiustina,
e inzino a mmezzoggiorno nun ze move.
Pe llui nun
c’è immassciata: 5 entra da franco,
e sse 6 serreno drento de galoppo
dov’è er zofà ccor cusscinone bbianco.
Stammatina
perantro 7 la Marchesa
se l’è ffatto vení ddu’ ora doppo
per via ch’è ita a ppijjà ppasqua in chiesa.
Tu tte
sbajji: nun è in una cappella,
è ppropiamente su a l’artar maggiore.
Li stanno li precòrdichi, 2 Pacchiella,
d’oggni Sommo Pontescife che mmore.
Che mme
bburli? te pare poco onore?
Drent’una cchiesa 3 er corpo in barzamella, 4
e ddrent’un’antra li pormoni, er core,
er fedigo, 5 la mirza e le bbudella!
Morto un
Papa, sparato e sprufumato,
l’interiori santissimi in vettina
se conzeggneno in mano der curato.
E llui co li
su’ bboni fratiscelli
l’alloca in una spesce 6 de cantina
ch’è un museo de corate e de sciorcelli. 7
Eccoli cqua
sti ggiudisci da jjanna 2
che pporteno la spada e la pianeta.
Sò cquattr’anni e ’r proscesso nun ze manna 3
e la popolazzione ha da stà cquieta.
Pe cquer
Cristo è una gran lègge tiranna!
Tené er distin d’un omo tra le deta,
e nun volé spidijje la condanna
prima de fallo infrascicà 4 in zegreta!
Doppo annata
5 la causa a l’infinito
caso c’un poveretto esschi 6 innoscente
chi jj’arifà cquell’anni c’ha ppatito?
E ss’è
ppoi sentenziato dilinquente,
quanno va ssu le forche è ccompatito,
perché er dilitto nun ze tiè ppiú a mmente.
Io tiengo
indeggnamente accapalletto
una bbrutta Madonna nera nera,
ch’è un ber ritratto e l’immaggine vera
de la Vergine Santa de l’Archetto.
Bbe’, jjer’a
nnotte se staccò er chiodetto,
er quadro cascò ggiú ccom’una pera,
ner cascà sfracassò ll’acquasantiera,
me venne in testa e de risbarzo in petto.
Figuret’io!
Me svejjo intontolito, 1
me tasto in fronte ar zito de la bbotta,
sento er zuppo, 2 e mme credo èsse ferito.
Che aveva da
strillà, ssora Carlotta,
ccusí a lo scuro un povero marito?
«Me l’hai fatta, per dio, porca miggnotta!». 3
Ggià,
pperché nun m’amanca la minestra
me credeno una mojje affurtunata.
E io, vedi, sò ttanta disperata,
che mm’annería 1 a bbuttà da la finestra.
Ne li guai
d’antri 2 ggnisuna è mmaestra.
Pe ccapí bbene er zon d’una sonata
bbisoggna de sentí, ssora Nunziata,
tutti li sciufoletti de l’orchestra.
S’ha da
stà a li crapicci e a li stravèri 3
d’un maritaccio, pe ssapé, ccommare,
si 4 una donna pò vvive 5 volentieri.
V’abbasti
questo cqua, cche da st’aprile,
nun c’è ccaso che ttienghi, 6 in quel’affare
lui vò entrà da la parte der cortile.
Mica che a
ppijjà ppasqua abbi er crapiccio
de famme 1 ariggistrà ffra l’ostinati,
o ttienghi 2 in corpo un’anima de miccio 3
risolata a ddu’ sòle 4 de peccati:
nò,
è ppropio che nun trovo un giorno spiccio
pe ccercà ttra sto nuvolo de frati,
voi me capite, un confessore a cciccio, 5
che nun badi a li casi ariservati.
Ortre de
questo sc’è un’antra raggione,
ciovè cc’ammalappena 6 spunta l’arba
io bbisoggna che ffacci colazzione.
Quanno
sò mmorto io damme de bbarba:
e de stamme 7 a gguastà la cumprisione 8
pe ste bbuggere 9 cqua, ppoco m’aggarba.
Tu ccredi
che, ppe ffà la confessione,
qualunque cchiesa sia, sempre è l’istessa,
perché ddovunque se pò ddí 2 la messa
ce se pò ppuro 3 fà le devozzione.
Eppuro
Monziggnore er mi’ padrone
te sce farebbe perde la scommessa,
perché ppiuttosto lui nun ze confessa
si 4 nun va a la Ritonna: e ha gran raggione.
Mica è
la divozzion de la Madonna,
sai?, ché in st’affari cqua llui nun fa ttesto;
ma pper un’antra idea va a la Ritonna.
Lui se
scortica 5 llà ssolo pe cquesto
che tte dich’io: da quela bbúscia tonna 6
li scorpioni 7 svaporeno ppiú ppresto.
Quanno
sparò er cannone, Bbëatrisce
dava la pappa ar fijjo piccinino:
mi’ marito pippava, e Ggiuvacchino
se spassava 2 a mmaggnà ppane e rradisce. 3
Peppandrèa
s’allustrava la vernisce
de la tracolla; e io stavo ar cammino
a accenne 4 cor zoffietto uno scardino
de carbonella dorce 5 e de scinisce. 6
M’aricorderò
ssempre che ssonorno
sedisci men’un quarto. Io fesce 7 allora:
«Sciamancheno 8 tre ora a mmezzoggiorno».
Fra cquinisci
e ttre cquarti e ssedisciora
se 9 creò ddunque er zanto Padre, er giorno
dua frebbaro che ffu la Cannelora. 10
Io
l’aringrazzio tanto, sor don Pio,
de quela dota 2 che ttiè bbell’e ppronta.
Io pe rregola sua campo der mio
senza bbisoggno un cazzo de la ggionta. 3
’Na zozza,
4 frittellosa, 5 onta e bbisonta 6
piú ppeggio de la panza d’un giudio, 7
che indove tocca sce lassa l’impronta,
nu la vorría 8 si mme la dàssi 9 Iddio.
Io a ste
facce da spazzacammini
nun je darebbe 10 un pizzico nemmeno
le vedessi cuperte 11 de zecchini.
Sor don Pio,
tra la zella 12 io nun ce godo
come lor’antri preti, c’o ppiú o mmeno,
drent’a la porcheria sce vanno in brodo. 13
Sò
ggeloso sicuro, dio sagrato!
E nun ho da patí de ggelosia,
quanno che ppe la Vergine Mmaria
m’aricordo le suste 1 che mm’hai dato?
E de chi
ssò ggeloso? De Mattia,
der guercio, de tu’ zio, de tu’ cuggnato,
de l’ebbreo, de lo sbirro, der curato,
der can’e ’r gatto, e inzin dell’ombra mia.
Voantre
2 streghe, o de riffe o de raffe, 3
tutti li maschi li volete arreto, 4
e ttienete li piedi in cento staffe.
O
ggiuvenotti, o bbocci, 5 o bbelli, o bbrutti,
bbasta èsse donna per avé er zegreto
de falli bbeve 6 e ccojjonalli tutti.
Disce c’a
ssentí er Papa in concistoro
quanno sputa quarc’antro 1 cardinale
sce sarebbe da facce 2 un carnovale
da venne 3 li parchetti a ppeso d’oro.
Principia a
inciafrujjà 4 cche ppe ddecoro
de tutto quanto er Monno univerzale
vorrebbe dà er cappello ar tale e ar tale;
e cqui aricconta 5 le prodezze lòro.
Ariccontate
ste prodezze rare,
passa a ddí: «Vvenerabbili fratelli,
je lo volemo dà? cche vve ne pare?». 6
Detto accusí,
ssenz’aspettà che cquelli
je diino la risposta de l’affare,
te li pianta e spidissce li cappelli.
Per
èsse 1 c’oggi er Papa a Ssu’ Eminenza
j’ha sserrato la bbocca in concistoro,
sí, nun te dubbità, ppe ccristo d’oro,
che llui pe pparte sua j’ha ddat’udienza.
Avessi visto
tu ssi 2 cche llavoro
ha ffatto in quela povera dispenza,
te saría parzo 3 ppiù cc’a ssuffiscenza
pe ffà ccrepà d’indiggistione un toro.
E nun essenno
poi manco contento,
s’è mmesso a attaccà mmoccoli 4 a mmanciate
da potelli addoprà ppe ttorce a vvento.
Oggi scià
5 ddato sta piccola offerta
perché ha la bbocca chiusa. Oh immagginate
quer che ssarà cquanno la tienghi uperta!
Doppo ch’er
gatto tuo diede la fuga
ar mi’ cardello, la madre Vicaria
m’arigalò un canario e una canaria
ggialli come du’ cicci 1 de lattuga.
Quanti
sò 2 ccari! Lei sciangotta, 3 ruga, 4
spizzica 5 er becco ar maschio, e cce se svaria; 6
e questo canta, quanno sente l’aria,
come er fischietto a acqua che sse suga.
Mó la femmina
ar nido ha ffatto l’ova,
e cquanno va a mmaggnà la canipuccia
presto vola er marito e jje le cova.
Si 7
ttu vvedi la femmina, coll’ale
mezz’aperte covanno in quela cuccia,
pare un Papa in zedione cor piviale.
A la Locanna
de la Gran Bertaggna
oggni qualunque furistiero arriva
tiè ppronte le su’ critiche e sse laggna
c’a sto paese sc’è ll’aria cattiva.
Chi sse mette
a strillà cche la campaggna
nun ze popola e mmanco se cortiva:
chi cce voría 1 le pecore de Spaggna,
chi er cottone, chi ll’arberi d’uliva...
Jerassera
però ffesci stà cquieti
du’ ssciapi che ssentiveno cordojjo
perché Rroma ha ppiú vviggne c’uliveti.
«Sta gran
difficortà mmó jje la ssciojjo»,
je disse allora io: «li nostri preti
logreno 2 tutti ppiú vvino che ojjo». 3
Er chirico,
llí bbell’e in zagristia,
m’ha stampato in du’ bbòtte un momoriale
da presentasse 1 ar cardinal Canale,
pe cchièdeje 2 una dota per Lluscía.
Ma adesso
come fo? Sto cardinale
dove diavolo sta? Ppe pparte mia,
nun ho ssaputo mai chi bbestia sia:
nu lo conosco né in bene né in male.
Tu cche sservi
Palazzo, e cche ne sai
vita, mort’e mmiracoli de tutti,
perché nun me lo porti e jje lo dai?
Che mmale
vorà èsse? de fà ccecca? 3
de restacce Martino 4 e a ddenti assciutti?
Ma a fforza de bbajà ttanto 5 se lecca. 6
«Ecco», io
disse ar giudio: «ssi 1 ppiano piano
vienghi a ddí cche li tu’ commannamenti
sò uguali in tutt’e ddua li testamenti,
pe cche mmotivo nun te fai cristiano?»
«Badanài,
nun zò bboni funnamènti», 2
m’arispose Mosè: «nnoi, sor Bastiano,
adoramo Iddio-padre, e ’r padre ha in mano
li raggioni de tutti li parenti.
Sino ar
giorno c’un padre nun è mmorto,
bbe’ cc’abbi 3 fatto testamènto, er fijjo
dipenne sempre, e, ssi cce ruga, 4 ha ttorto.
Er vostro
Jjesucristo ha er padre eterno:
io dunque, mordivoi, me maravijjo
che cce possi mannà ttutti a l’inferno».
È ito
in paradiso oggi er Rabbino,
che ssaría com’er Vescovo der Ghetto;
e stasera a li Scòli j’hanno detto
l’uffizzio de li morti e ’r matutino.
Era amico der
Papa: anzi perzino
er giorn’istesso ch’er Papa fu eletto
pijjò la penna e jje stampò un zonetto 2
scritto mezzo in ebbreo mezzo in latino.
Dunque a la
morte sua Nostro Siggnore
cià ppianto a ggocce, bbe’ cche ssia 3 sovrano,
e cce s’è inteso portà vvia er core.
Si 4
ccampava un po’ ppiú, tte lo dich’io,
o nnoi vedemio 5 er Rabbino cristiano,
o er Papa annava a tterminà ggiudio.
In ner vede
1 quer zasso bbuggiarone 2
lí avanti a la Madonna de l’Archetto,
che lo porteno a un studio d’archidetto 3
pe ffà er deposito a Ppapa Leone, 4
un villano
che stava sur cantone
a ccavallo a un zomaro, «Eppuro», ha ddetto,
«sce 5 scommetto sta bbestia, sce scommetto,
si nun vale ppiú llui che sto pietrone».
«Nò,
amico», j’ha arisposto un omo grasso:
«pòi 6 scommette er zomaro quanto vòi, 7
ma pper adesso nò: vvale ppiú er zasso.
Lassa 8
che sse 9 lavori, fratèr caro,
e, a statua finita, allora poi
valerà d’avantaggio er tu’ somaro». 10
Ôh, ffinimole
un po’ ttante caggnare.
Si er Papa va ddomani a Ffiumiscino
che ccosa sc’è da dí, ssor figurino?
Li Papi ponno annà ddove je pare.
Mica poi sce
va a ttròva la commare,
mica va ppe nnotà, 1 ppe sbarcà er vino:
sce va ppe scannajjà 2 cco Gghitanino 3
come pò ffà ppe pportà a Rroma er mare. 4
Co cquarche
ccentinaro e un po’ de fremma
ggnisuno pò nnegà cch’è un ber zoccorzo
de tené ddrento casa la maremma.
Dove se
sò mmai visti a ttempi addietro
li scefoli e le trijje ggiú pp’er corzo?
le galerre ar palazzo de San Pietro?
Che sturbo,
fijjo! A ccasa der padrone
oggi è stato un inferno, è stato un lutto:
tutto a ccausa der Papa, de quer brutto
pidicozzo de naso a ppeperone.
E pperché?
pperché llui, ccusí ssanbrutto, 1
j’ha mmannato a esiguí n’esecuzzione
de scerta mano reggia, ch’è un manone
che indove pò arrivà sse pijja tutto.
Nun basta. Aveva detto er Tribbunale:
«La mano reggia cqui nun c’entra un cazzo,
e er tesoriere l’ha intimata male».
Bbe’, er
zanto Padre ha avuto la cremenza,
come adesso l’Accè 2 ffussi un pupazzo,
de dà un baffo de penna a la sentenza. 3
Su le Vergine
poi er zanto frate 1
ggià ss’è spiegato e nu ne fa mmistero.
Vò llevajje 2 pe fforza er monistero
e straportacce 3 le Sagramentate. 4
Io lo so da
bbon logo; e è ttanto vero,
che vvederete che appena entra istate
quele serve de Ddio sò bbuggiarate, 5
perché er Papa in sta coccia 6 è ppropio fiero.
Hanno tempo a
sfogasse 7 ggiorn’e nnotte
a ttriduvi, diggiuni e ddissciprine:
bbisoggna che sse vadino a ffà fotte. 8
Sarà
fforzi 9 c’a Rroma er Zanto Padre
nun ce vojji ppiú vergine, p’er fine
de nun zentijje 10 dí vvergine e mmadre. 11
Er Redentor
Gesú, sotto le bbraccia
de quelli manigordi senza fede,
dite che ddiventò dda cap’a ppiede
una spesce 1 d’un pezzo de carnaccia. 2
Uhm, ar vede
3 la colonna che sse 4 spaccia
pe cquella vera llí a Ssanta Presede, 5
sarà stato in ner petto e in ne la faccia,
ma in tutt’er corpo nu lo posso crede.
Ce
starò 6 ppe la panza e ppe la schina,
pe bbracc’e ffianchi e ppe le cossce puro, 7
ma in tutt’er corpo nò, ssora Fermina.
Io so cc’a la
colonna accost’ar muro
me sce sò mmisurato stammatina,
e armeno er culiseo 8 stava ar zicuro.
L’avé ar
Monno ricchezze e pprencipati
va bbene, ma è ppiú mmejjo l’èsse dotti,
pe ttené ppronti llí, ccom’e ccazzotti
li su’ termini truschi e ariscercati.
Ecco, a
Ttivoli, er duca Lancellotti
disse ar pranzo der Papa a ddu’ prelati:
«Ha vvisto li fonticoli 1 aridotti
a usanza de spasseggi alluminati?».
Er Papa ne fu
ttanto perzuaso,
che llí per lí jje s’arimpose er vino,
e jj’uscí ppe le natiche 2 der naso.
Però
3 cquanno un zziggnore è ppiccinino
pe ffa bbona figura in oggni caso
lo metteno a studià Ccisceroncino.
Nostro
Siggnore, a cquella testa matta
che mmó ppe cconvertí quarc’omo indiano
se va a scapicollà ttanto lontano,
sai che ccosa j’ha ddato? Una sciavatta. 2
Lui l’ha
bbasciata, l’ha ppijjata in mano,
l’ha mmessa in una scatola de latta,
eppoi drent’una bborza, tutta fatta
a strissce de villuto e ttaffettano.
Er prete
porta un croscifisso e cquella,
e aridusce li popoli a la fede
cor Cristo e la santissima sciafrella. 3
E ssi
cc’è ppoi quarche ffijjo de mulo, 4
che nun j’abbasta, 5 se la mette in piede
e tte lo fa cristiano a ccarci in culo.
Ggià,
un antro viaggio. 1 Er Zanto Padre adesso
avenno inteso a ddí cch’er Nazzareno
entrò a Ggerusalemme co ggran treno,
vò annà a Ccivitavecchia e ffà ll’istesso. 2
Sto viaggio
poi che ppò ccostà a un dipresso?
Psè, un ventimila scudi e fforze 2a meno,
senza però la caristia der fieno
pe ttante bbestie che sse porta appresso. 3
E ssentirete
l’archi trionfali
in onor der trionfo de la guerra
contro st’ire de ddio de libberali! 4
E vvederete
er Gesucristo-in-terra
si cquanti ladri e mmarfattori uguali
condannerà a ppartí dda la galerra! 5
Curre la nova
pe ppiazza Navona
ch’er Papa, pe vviaggià cco ppiú ddecoro
ner rifresco che ffesce a Ppalidoro 1
se pijjò ’na santissima cacona. 2
E a la faccia
de mezzo concistoro
rivommitanno pe un’oretta bbona
s’impiastrò ttutta la Sagra perzona
fino a le scarpe co la crosce d’oro.
E la Corte,
sbruffata da li schizzi
vienuti da lo stommico sovrano
li pijjò ccome ttanti bbenefizzi.
Chi ssa? Nner
galateo der cortiggiano
er male e ’r bene, le vertú e li vizzi
nun zaranno spiegati in itajjano.
Tant’è:
er Papa dall’antra sittimana
inzinenta a ddimenica mmatina
nun ha ffatt’antro che mmarcià in tartana
pe cquant’è llarga e llonga la marina. 1
Ma ddio ne
guardi a llui ’na tramontana
j’arrivava in ner culo a la sordina,
e lo mannava ggiú bbell’e in zottana
a rrescità da coccia de tellina,
nun poteva
trovà cquarche bbalena
parente a cquella der profeta Ggiona,
che cce fascessi 2 un bocconcin de scena? 3
senza che
cquesta fussi accusí bbona
d’ariggettallo poi sopr’a la rena
come fesce ar giudio quella cojjona?
Riccontaveno
cqui ccom’e cquarmente
er battello a vvapore è un tammurlano 1
c’ortre li marinari e ’r capitano
appena sce pò entrà ppoc’antra ggente.
Bbè
ttutto questo nun è vvero ggnente,
perché cquanno passò er Meliterrano 2
sce salí er Zanto Padre, e a mmano a mmano
tutta la Corte sua commodamente.
E avete da
sapé cche li viannanti
che ggià cc’ereno sopra, sce restorno,
e cce staveno larghi tutti quanti.
Io ste cose
le so da la padrona
che lo disse a llei stessa l’antro ggiorno
la puttana santissima in perzona. 3
Forzi 2
sarà bbuscia, ma cquarchiduno
che sta in artis e ccrede de sapello
disce c’ar Papa je va pp’er cervello
d’uggne le rote e scarrozzà a Bbelluno. 3
Bbravo!
farà bbenissimo; e ggnisuno
pò nnegajje c’un viaggio com’e cquello
è ssempre mejjo che de stà a Ccastello 4
a ppescacce le tinche p’er diggiuno.
Quadrini n’ha
d’avanzo: passaporto
se lo firma da sé: ddunque ha rraggione,
e accidentacci a llui chi jje dà ttorto.
Eppoi, quer tornà Papa tra pperzone
che tt’hanno visto scicorietta d’orto
dev’èsse un gran gustaccio bbuggiarone.
A ppalazzo
der Papa 1 c’è un giardino
co un boschetto e in ner bosco un padijjone
pien de sofà a la turca e de portrone
e de bbottijje de rosojjo e vvino.
C’è
ppoi ne le su’ stanzie un cammerino
co una porta de dietro a un credenzone,
che mmette a una scaletta, e in concrusione
corrisponne ar quartier de Ghitanino. 2
Ghitanino
è ammojjato: la su’ mojje
è una donna de garbo, assai divota
der Vicario de Ddio che llega e ssciojje.
Ôh, nun vojjo
dí antro: e ho ffatto male
anzi a pparlà ccusí ddove se nota
oggni pelo e sse 3 penza ar criminale.
Mentre er zor
Papa in un viaggetto solo 1
bbutta zecchini a ccanestrate sane,
va’ cc’uno strilli che jj’amanca er pane,
sai c’arisponne lui? «Me ne conzolo».
Ah ttafino
2 bbrodaro 3 stracciarolo 4
griscio 5 leccascudelle 6 scarzacane, 7
che ssenz’arte né pparte ne le mane
sei vienuto a ffà a Rroma er dindarolo! 8
Questa
è l’aricompenza de l’avette 9
steso le grinze de la sagra panza,
che pprima te ggiucaveno a ttresette? 10
Ccusì
ce neghi eh, pallonaccio a vvento,
inzino er mollicume 11 che tt’avanza
de quer pane che mmaggni a ttradimento?
Detta ch’er
Papa ha Mmessa la matina,
e empite le santissime bbudelle,
essce in giardino in buttasú 1 e ppianelle,
a ppijjà ’na bboccata d’aria fina.
Lí llegato co
ccerte catenelle
sce tiè 2 un brutto uscellaccio de rapina,
e, ddrento a una ramata, una ventina
o ddu’ duzzine ar piú de tortorelle.
Che ffa er
zant’omo! ficca drento un braccio,
pijja ’na tortorella e la conzeggna
ridenno tra le granfie 3 a l’uscellaccio.
Tutto lo
spasso de Nostro Siggnore
è de vedé cquela bbestiaccia indeggna
squarciajje er petto e rrosicajje er core.
Nun sta
bbene, fijjoli, a ffà bbaccano
perché er pubbrico orario 1 sce li scoccia 2
acciò li preti vadino in bisboccia 3
sur bon esempio che jje dà er Zovrano.
Un omo
galantomo, un bon cristiano,
s’ha da fà ssucchià er zangue a ggoccia a ggoccia,
ha da fasse aridusce 4 la saccoccia
lísscia come la pianta della mano.
Chi pporta in collo er peso de la stola,
è ggiusto ch’er bordello e la cuscina 5
li compenzi ner pinco 6 e nne la gola.
Lo
spojjà ddunque è de lègge divina.
Dommine ripulisti è una parola
che la canteno a Mmessa oggni matina.
Er Papa
scià ppippato der gajjardo, 1
e vvonno j’abbi fatto ggiú ppell’ossa
una caterinaria 2 bbuggiarossa 3
dannoje 4 la patente de bbusciardo. 5
Disce:
«Zittete llí, ffrate bbastardo:
co’ li piedi sull’orlo de la fossa,
arifanne 6 oggni ggiorno una ppiú ggrossa,
senza ar meno un tantino d’ariguardo!
Quanno avevi
ste bbuggere de vojje,
faccia de bbajoccone 7 arruzzonito, 8
potevi restà ar monno e pijjà mojje».
Ma er Zanto
Padre cqua ss’era ammattito.
Chi è ccapasce a ttradí le sagre spojje
saría 9 stato, dich’io, peggio marito.
Cristo
perdona oggni peccato: usuria, 1
cortellate, tumurti der paese,
bbuscíe, golosità, ccaluggne, offese
sgrassazzione 2 in campaggna e in ne la curia,
tutto: ma in
vita sua la prima ingiuria
ch’ebbe a vvéde ar rispetto de le cchiese,
lui je prese una bbuggera, je prese,
ch’esscí de sesto e ddiventò una furia.
E ffascenno
3 la spuma da la bbocca
se messe a ccurre 4 in ner ladrio 5 der tempio
cor un frustone, e ggiú a cchi ttocca tocca.
Questa
è ll’unica lite c’aricorda
er Vangelo de Cristo, e nnun c’è esempio
che mmenassi 6 le mane un’antra vorta.
Jeri er
Vicario, essenno l’Asscenzione,
disse a lo stampatore cammerale: 1
«Questa è ggiornata d’ozzio e dd’orazzione,
e nnun ze stampi né in bene né in male».
Figuret’oggi
poi che ccunfusione!
La gran folla arrivava pe le scale;
e ddrento se pò ddí cc’oggni mattone
c’aveva fatt’Iddio sc’era un curiale. 2
E ssai
stasera quanta ggente arresta 3
senza distribbuí le su’ scritture! 4
Ma cquesto cosa fa? jjeri era festa.
Però
pper allestí ll’antro palazzo
der Zanto Padre, se lavori pure;
e cqui la festa nun importa un cazzo. 5
La serva,
nò, nnun j’ha sfassciato un vaso,
je roppé un pissciator de porcellana:
pissciatori che llei n’è ttanta 2 vana
che sse li tiè ccome la rosa ar naso.
Penzete
3 quela povera cristiana!
Se bbuttò ttra la bbraccia a ddon Gervaso
pe intimà a la padrona er fiero caso;
e llei tratanto se serrò in funtana.
L’abbate
principiò: «Ssiggnora Checca,
imbassciator nun porta pena»: e ddoppo
j’appoggiò la sassata secca secca.
L’inferno che
nun fu! ggessummaria!
Povero prete, pijjò ssú er galoppo
come un gatto frustato e scappò vvia.
Ah scrofa, t’ho
vvist’io dar luscernario
quanno se’ ita sotto a Ggiammatista. 1
Vacca, t’ho vvista propio io, t’ho vvista,
fà ppiú assai de quer ch’era nescessario.
Tu
ariprovesce ppiú, pporca futtrista, 2
a ffattelo 3 inzeppà ddrent’ar zagrario,
e tt’accommido er corpo cor Vicario
che tte manni a llegà com’una crista.
Io quer
tantin d’onor che mm’aritrovo
nu lo vojjo bbuttà ddiettr’a un cantone
come se bbutta via ’na coccia d’ovo.
Io,
spuzzonaccia mia, nun zò 4 er padrone,
c’oggni ggiorno je spunta un corno novo
e ss’ammaschera sempre da cojjone.
L’imbrïacasse
1 è ppeggio assai, fratello,
che avé addosso er peccato origginale.
Co li fumi der vino p’er cervello
l’omo nun è ppiú omo, è un animale.
Chi
ss’accorge ch’er beve 2 je fa mmale
o ha da dismette, 3 o ccià d’annà bberbello, 4
e nnò spiggne 5 bbucale co bbucale
e addossà ccaratello a ccaratello.
Ma ccazzo, eh
ffate com’er Padre Santo,
che in st’affari che cqui ssenza contrasto
pò ddà rregola ar Monno tutto quanto.
Sí, vvia, sta
cosa è vvera, statte 6 quieto:
lui nun vò cche bbottijje a ttutto pasto,
ma ll’innacqua però ccor vin d’Orvieto.
S’ha ttanto
da strillà, ppe ddio de leggno,
c’a sto paese cqui, ffor der canale
de quarche ccammerier de cardinale,
d’entrà a l’impieghi ggnisun’omo è ddeggno,
quanno se sa
cche in qualunqu’antro reggno
sta canzona succede tal e cquale;
e ffino in paradiso, o bbene o mmale,
nun ce se pò arrivà cche pper impeggno.
Sí, pper
impeggno, sí: ttutti li morti
o un zanto, o la Madonna, o er purgatorio,...
ce vò un diavolo inzomma che li porti.
Perché
ddunque accusà Ppapa Grigorio
de tutte l’ingiustizzie e dde li torti,
che mmanco 1 li faría Monte Scitorio? 2
C’era una vorta
un lupo, che sse messe 1
una pilliccia e ddiventò ppastore,
tarmenteché le pecorelle istesse
s’ainaveno 2 a ubbidillo e a ffàjje onore.
Ma un canóne
mastino, che pper èsse 3
de ppiú bbon naso lo capí a l’odore,
cominciò a ddí a l’orecchia a cquelle fesse: 4
«L’amico è llupo, e vvò mmaggnavve er core».
Le pecore
strillorno a ppiú nun posso;
ma er lupo pe ccarmà la ribbijjone
mostrò li denti e tte je diede addosso.
Che ffesceno
ste pecore frabbutte? 5
Disseno: «Er cane, er cane è er zussurrone»:
e llí d’accordo a mmozzicallo tutte.
M’avete
ariccontato una resía, 1
vera com’una fetta de Vangelo.
Mó state attenta, 2 e vve dirò la mia
ch’è ttal e cquale e nu ne perde un pelo.
Ciovè,
ppiano, mia nò, cch’io grazzia ar celo
sò ccristiano e ddivoto de Maria.
Ho ddetto mia, sor don Taddeo, pe vvia
ch’io l’aricconto, e mm’ha ggabbato er zelo.
Va spargenno
pe Rroma un framasone
ch’er papa san Grigorio tammaturco 3
era un furbo e un maestro de finzione.
E pprotenne
4 quell’anima de turco
che in ne l’orecchia pe cchiamà er piccione
ce se metteva un vago de granturco.
Da
quattr’anni a sta parte e ppochi mesi
si vvoi dite a sti santi Imporporati:
«Minentissimo mio, semo affamati»,
pare, pe ccristo, che l’avete offesi.
Io discorro
accusí, pperché ll’ho intesi;
e sso anzi che llòro e li prelati,
quanno senteno guai, tutti arrabbiati
dicheno: «Aringrazziate li francesi».
C’ha che
ffà cquela ggente in sta faccenna?
cosa sc’entra la Francia in sto lavoro?
Sc’entra come li cavoli a mmarenna. 1
Li francesi
oramai passa vent’anni
che sse ne stanno in pasce a ccasa lòro
senza annàsse 2 a ppijjà ttutti st’affanni. 3
Di’,
tt’aricordi ggnente, Fidirico,
chi era quello ch’er mastro de scòla,
disce c’a ttempi sui fesce sciriola 1
ar Papa e lo trattò ccome nimmico?
L’ho ssu la
punta de la lingua dico,
eppuro... Aspetta un po’, ffiniva in ola.
Andrea? no Andrea; ’na spesce de Nicola
co un antro nome de casato antico.
Cristo!
sarà ddu’ ora che cce penzo!
zitto, zitto ché vviè: Cola da... Ccazzo!
L’ho ttrovo, eccolo cqua: Ccola d’Arienzo.
Sto Cola era ’na bbirba bbuggiarossa:
co ttutto questo, io sciannerebbe a sguazzo 2
c’ariarzassi 3 la testa da la fossa.
Eh
ffinísscelo 1 un po’ sto tatanài, 2
corpo de li mortacci de Bbertollo! 3
Sempre, perdio, co cquer beccaccio a mmollo!
Che mmulinello! nun t’azzitti mai!
Ôh mmanco
male via: rotta de collo
che sta futtuta grazzia sce la fai.
Bblu bblu bblú, bblu bblu bblú,... che ddiavol’hai?
Pari una pila 4 c’abbi arzato er bollo.
Accidenti,
che cciarla, bberzitello! 5
Oh a tté nun ze pò ddí 6 che la mammana
s’è scordata de róppete er filello.
Cristo!
quanno cominci sò ffaccenne 7
che cce svergoggneressi 8 una campana;
e tte la vòi vedé ssino all’ammenne. 9
Sia
mmaledetto li mortacci tui!
E a tté cquanno che pparli chi tte tocca?
Strilli, cristo de ddio, com’una bbiocca,
e vvòi dà llègge a li discorzi artrui?
Oh gguarda
llí cche pprotenzione ssciocca
che nun z’abbi da dí li fatti sui!
Saría mo bbella pe ddà ggusto a llui
c’uno s’avessi da cuscí la bbocca.
Pare co
cquela vosce de cornacchia
la ttromma der giudizzio univerzale
e all’antri je vò mmette la mordacchia!
O cciarle
bbelle, o bbrutte, o nnove, o vvecchie,
quanno er zentí ddiscorre ve fa mmale,
schiaffàteve 1 un toppaccio ne l’orecchie.
Slongate er
collo assai voi, sora Marta.
Ve scappa forzi 2 de sapé un tantino
che ccosa sc’è drento a sto fiasco? È vvino.
Odoratelo, e annateve a ffà squarta. 3
Quanno er
padrone mio sta ar tavolino
e ccrede ch’io je guardi quarche ccarta,
disce sempre: «Né ccòccolo s’incarta
e nné mmano s’inarca, 4 sor ficchino».
Ggià,
cche sserve a pportavve le raggione? 5
Lavà la testa all’asino è l’istesso
che spregacce lesscía, 6 tempo e ssapone.
Voi me parete
a mmé ccome li preti,
che sse faríano 7 turchi e ccosce 8 allesso
pe smania de sapé ttutti li peti. 9
Io nun trovo
dilizzia uguale a cquesta
che de stamme a spurcià 1 ssera e mmatina
la camiscia, er corzè, la pollacchina,
le legacce e le grespe de la vesta.
Si le purce
so 2 assai, pe ffalla lesta
le sgrullo tutte in d’una cunculina:
si nnò 3 l’acchiappo co le mi’ detina 4
je do una sfranta, eppoi je fo la festa. 5
Oggnuno ha li
su’ gusti appridiletti.
Io ho cquello de le purce, ecco, e mme piasce
d’acciaccalle e ssentí cqueli schioppetti.
E cche
ddirete der nostro Sovrano,
che sse ne sta a ppalazzo in zanta pasce 6
a ccacciasse 7 le mosche er giorno sano?
Ha ssentito,
Eccellenza, a ddon Bennardo
che ggran nova j’ha ddato un uffizziale
che ll’ha intesa da un omo ggiú ar bijjardo,
che ll’ha lletta in ner fojjo der giornale?
Disce ch’er
Re de Francia, ar baluardo
der Tempio 2 de le guardie nazzionale,
un certo Monzú Ggiàchemo Ggerardo 3
j’ha sparàt’una machina infernale.
Le palle
hanno ammazzato pe ffurtuna
un zubbisso 4 de popolo innoscente,
e ar Re ppoi, ch’era robba sua, ggnisuna! 5
Chi è
stato còrto 6 in testa, chi in ner core,
chi in ne la panza; e er Re e li fijji ggnente!
Ce se 7 vede la mano der Ziggnore!
Dunque perché
la Cammera ha d’avé
dar mi’ padron de casa, ha la bbontà
de roppe 2 er culo a cchi nun cià 3 cche
ffà,
e vviè a spidí la mano reggia a mmé?!
È vvero
c’ar padrone io j’ho da dà
la piggion de sei mesi, ma pperché?
Perché appenne la lite in ne l’Accè, 4
pe l’acconcími che mme vò nnegà.
Quanno fra de
noi dua s’astipolò
la locazzione, sce se venne a ddí 5
che cc’entrassi 6 la Cammera? Ggnornò. 7
Disce: ma er
Fisco l’intenne accusí.
Ddunque er fischio me fischi quanto sciò 8
e er Ziggnore lo pòzzi bbenedí. 9
Io mó nnun ve
sto a ddí ssi 1 a sto paese
de divozzione sce n’è ttroppa o ppoca;
si la ggente è incredibbile 2 o bbizzoca,
e ssi è ppeggio er romano der francese.
Sí, ll’ho
vviste pur’io piene le cchiese;
ma ebbè? ppe cquesto è ffatto er becco all’oca? 3
Fijji, a cquello llassú nnun je se ggioca 4
co cquattro sciarle e ddu’ cannele accese.
Quanno nun
z’abbia carità, nnun z’abbia,
l’acqua der pozzo e ll’acqua bbenedetta
sò una spesce 5 der canchero e la rabbia.
L’opera
bbone, ecco che vvò er Ziggnore:
ché Ggesucristo è ccome la sciovetta.
Cosa je piasce a la sciovetta? er core.
Se
n’abbuscheno pochi. È ccirca un mese
che sto a sserví cco un Monziggnor de Spaggna
che er core l’averebbe, ma sse 1 laggna
d’avé pperze 2 l’entrate der paese.
Perché
llà cc’è una guerra che sse maggna
le scittà ccom’e ttordi, e ffanno imprese
d’arrubbà, scannà ffrati, e bbruscià cchiese,
che l’inferno ar confronto è una cuccagna.
E cche
ddiavolo mai sò 3 ddiventati
l’ommini a sto monnaccio bbuggiarone?
Caníbboli, 4 Medèi, gatti arrabbiati?...
Sverzà
5 ffiumi de sangue, dio sagraschio, 6
e pperché? ppe ddiscíde 7 si er 8 padrone
l’abbino da pijjà 9 ffemmina o mmaschio!
Sí,
Mmonziggnore ha ppatriotti a ccena,
pe vvia 1 ch’er lòro Re, ttra cquell’orrori,
s’è ffatto un generale ch’è una sscena!
E ssai chi? La Madòn de li dolori.
Lui j’ha
mmannato st’indispaccio. 2 — Fori: 3
A Ssu’ Eccellenza Maria grazzia-prèna;
e ddrento poi: Menate, addio. — Che onori!
Menate! E llei, c’ha sette spade, mena.
Come sarebb’a ddí? rridi, Bbennardo?
Ma ssenti er resto; e, da povero coco, 4
Bennardo mio, me chiamerai bbusciardo.
Ar general Madonna
er Re bbizzoco
j’ha ddato un certo capitan Stennardo 5
perché ccommanni l’esercizzie 6 a ffoco.
Bbadi,
Eminenza. Iddio sto perzichino
nu lo vò un corno: Iddio è un cane grosso 2
che un giorno o ll’antro 3 pò arrivavve all’osso
e ddavve er gusto de strillà Ccaino. 4
Lui ve
sopporterà ssor prete rosso
un anno, dua, tre, cquattro, ccinque, inzino
che jje zzompi la mosca sur nasino
eppoi ve striggnerà lli panni addosso.
Dio fa
ccampana e ccapoccella, 5 e vvede
e ssente tutto, e cce n’ha ppochi spicci
e ggnente da spiccià, 6 ssi 7 llei sce crede.
Com’è
ito a ffiní ppe sti crapicci
quer tar 8 prelato?... Morze e sse n’aggnede 9
a aspettà ar callo 10 er zor Tomasso Sgricci.
Er Papa
nostro è un omo subbitanio,
caca-pepe, bbiglioso 1 e ffumantino:
e ccome ha in corpo er zu’ bucal de vino,
tristo chi ccià cche ffà! ppare er Demanio.
Smoccola
2 come er chirichetto Ascanio
quanno sbròdola 3 troppo lo stuppino. 4
Inzomma tiè 5 cco nnoi sto figurino
tutto er fà dder zu’ popolo ggermanio. 6
Nun daría
retta manco a ssan Giuvanni,
e ha sposato la massima, ha sposato,
che cchi ffa a mmodo suo campa scent’anni.
Io
l’assomijjo a un medico, c’allora
c’ha ddato la sscialappa all’ammalato,
o de sopra o de sotto la vò ffora.
Questo
pell’arte 2 è un gran zecolo raro!
Viè er padrone e mme disce: «Furtunato,
va’ cqui ggiú da Scipicchia er mi’ libbraro,
che tte dii quer Bruttarco 3 c’ho ccrompato».
Vado, lui me
dà un libbro, e, «Ffratel caro,
disce, guardate che nun è ttajjato».
Io me lo pijjo, e usscito che ssò 4 ar chiaro
l’opro e mm’accorgo ch’è ttutto stampato.
Stampà
un libbro va bbe’; mma inventà ll’usi
da potesse poté 5 stampà la stampa
su le facciate de li fojji chiusi!
Io sce
scommetto, che ssi cqua sse 6 campa
un po’ ppiú a llongo, l’ommini sò mmusi 7
da fa scrive 8 un zomaro co la zampa.
Lo disceveno
a ppranzo, è vvero Nina?,
che mmó, ppe alluminà strade e ppalazzi
s’abbruscia un fil de carcia 1 fra ddu’ cazzi 2
e la sera 3 diventa una matina.
Disce che sta
scuperta chimichina 4
se pò ppuro 5 addoprà da li regazzi;
e in Inghirterra trall’antri 6 rimpiazzi
l’hanno appricata ar Farro de Missina. 7
Disce che cco
sta carcia, pe le scòle,
quanno arimane nuvolo, arimane,
ce fanno inzino er negroscopio a ssole. 8
Dunque mó cco
sta lusce nun fa un corno 9
si 10 ppiove, e cce pòi fà le mediriane 11
pe rrimette 12 l’orloggi a mmezzoggiorno.
Chi
bbiastimassi 1 san Pietro e ssan Pavolo
saría ppiú ppeggio; ma nnemmanco poi
sta bbene l’antr’usanza, 2 caro voi,
de dí ’ggnisempre mmaledetto er diavolo.
Pe mmé ccome l’intènno ve la sfravolo. 3
Er demonio, sú o ggiú, vòi o nnun vòi, 4
è ccratura de Ddio quanto che nnoi
che lo tenémo pe un torzo de cavolo.
Bbelle
raggione de jjachemantonio! 5
Tutti li torti abbi d’avelli 6 ar monno
quer povero cristiano 7 der demonio!
Perché sto
mmaledillo in zempiterno?
Eh lassàmolo in pasce 8 in ner profonno
de le su’ sante pene de l’inferno!
Ho capito,
Matteo, risémo llí. 2
«Un po’ a la vorta: Iddio sce penzerà:
dàmo tempo: si è rrosa fiorirà...».
Bbravo, cojjone mio: sempr’accusí.
A ’ggni
vassallo che tte viè a ttradí
te la sgabbelli via 3 cor lassa fà.
Dunque tu nu lo sai che a Llassafà
j’arrubborno la mojje, eppoi morí?
Jerassera
sfassciassi 4 un gabbarè
pe rrabbia de vennetta, 5 e adesso mó
sei diventato un pízzico? 6 e pperché?
Tu mme pari
er fratel de sant’Alò,
che ssempre speri che ssi ffoco viè, 7
t’abbrusci er culo e la camiscia no.
Nonna mia
parla sempre de le stole 1
der tempo suo su le finestre umane.
Ma cce s’ha da impiegà ttante parole
mentre adesso sciavemo 2 le perziane?
La perziana
dà llusce e appara 3 er zole,
dà aria e afferma 4 piogge e ttramontane.
E nun fuss’antro, ste du’ cose sole 5
de nun favve 6 entrà mmai mosche e zzampane!
Io so che
inzin da quanno dar zor Pietro
hanno armato 7 perziane, nun pòi crede, 8
la grandina nun j’ha ppiú rrotto un vetro.
Pe le donne
poi metti in capo-lista
che ddietr’a le perziane una pò vvede 9
li fatti di chi vvò 10 ssenza èsse 11
vista.
Circa a la
morte sua nun guardà, Llello,
che la povera vedova e li fijji
pàreno 1 tutt’e ttre ggrassi e vvermijji,
perché una cosa è ccore, una è ccervello.
Cocco mio, si
2 li ggiudichi da quello
tu ppijji un fischio per un fiasco, pijji.
Nun je li vedi a llei queli scompijji
neri, e a llòro er coruccio sur cappello?
Nun vanno mai... ciovè 3 vvanno pe ttutto
ma ssempre addolorati, poveracci!,
e stanno addietro sin che ddura er lutto.
Anzi lei
disse jjeri a ccert’amiche:
«Nun vedo l’ora de bbuttà sti stracci
pe rrifà 4 un po’ de le caggnare 5 antiche».
Tutt’er
giorno se 2 sente disputà
si er zanto Padre sce vò bbene o nnò.
Chi vvò cche cce lo vojji, e cchi nun vò;
e ggnisuno sa ddí ccome la va.
Ce vò
ttanto a scoprí la verità?
Bbast’a llègge l’editti, e llí sse 3 pò
capí ss’è ppicchiarella o ppicchiabbò: 4
dar discorzo che ttiè Ssu’ Santità.
Pe pparte
mia, da quanto costa a mmé,
che cce vò mmale io nu lo posso dí,
e in ne l’editti sui questo nun c’è.
Ah è
ccerto, via, che cce vò bbene, sí:
ce vò un bene dell’anima... ciovè 5
cce vò un bene da Papa, eccola cqui.
La scummunica
inzomma è una parola
che ddisce er Papa, e appena Iddio l’ha intesa
l’ubbidissce ar momento, e vve conzola
cor cacciavve dar gremmo 1 de la Chiesa.
Abbasta una
scummunica, una sola,
pe sbattezzavve; 2 e gguai chi sse l’è ppresa!
Pò vvení Ggesucristo co la stola
a bbenedillo, bbutta via la spesa.
Domenica er
Curato l’ha spiegata,
e ha detto: «Iddio ne guardi si 3 pprennete
la scummunica nata e mmarinata. 4
Un libbro, un
cazzo, un scappellotto a un prete,
un sputo, una scorreggia, una pissciata
ve pò scummunicà cquanno volete».
A cquer zor
tale, quanno magro e affritto 1
fasceva er torcimano a un rigattiere,
la miseria, le trappole, er mestiere,
e ttutto quer che vvòi, j’era dilitto.
Oggi perantro
2 che nun è ppiú gguitto
e ha ccrompato 3 un croscion da cavajjere,
te l’incenzeno in tutte le maggnere 4
e in casa, e ffor de casa, e a vvosce e in scritto.
Oggi è
bbello, oggi è bbono, oggi ha ttalento,
oggi fa bbene, e nun ze 5 sbajja mai,
oggi si 6 arrubba 7 tre mmerita scento. 8
Malappena 9
sei ricco, in du’ parole, 10
bbasta un cerino a mmostrà cchiaro c’hai
vertú cche pprima nun scopriva er zole. 11
Jeso c’ho da
sentí! 1 Mamma mia bbella! 2
Ma ccome t’è ssartato er capogatto
de fà sto passo de sposà cquer matto?
Io sce divento un pízzico, 3 sorella.
Eh cce
vò antro 4 che bbocca a sciarpella! 5
Ciavevi da penzà cquann’eri all’atto.
Adesso, fijja, quer ch’è ffatto è ffatto.
Chi ha vvorzuto la vergna 6 ha da godella.
Certe
zzappate 7 Iddio nu le perdona.
Bbuttà vvia un bonissimo partito
pe ppijjà sto Luscifero in perzona!
Ggià,
ccapisco, se 8 sa: mmó cc’hai finito
queli quattro bbajocchi, te bbastona.
Che cce faressi, Nanna? 9 È ttu’ marito. 10
Ma gguardate
che ppàtina! 1 oh vva’ er nano
che bbatte amaro e vvò mmostrà li denti!
Fijjo, annate 2 a mmostralli ar ciarlatano
che vve sciàpprichi 3 er bàrzimo e l’inguenti.
Se pò
vvéde un felònomo 4 ppiú strano?
Me s’è infortito 5 er zor gneggnè. Accidenti
che vvespa! che ddragone! che vvurcano!
Eh, ssi ccreschi 6 un po’ ppiú, ssai che ddiventi!
Che
staggione! le purce 7 hanno la tosse!
Ebbè, ssor ggruggno color de patate,
ce le volémo fà ste guance rosse?
Er
giurà è da bbriccone, ma tte ggiuro
ch’io mommó ddo de piccio 8 a ddu’ manciate
de stabbio, t’òpro bbocca, e tte l’atturo.
Che vve
tastate? l’animaccia vostra?
Questo cqua nun è er modo e la maggnera 1
d’ammaccamme 2 accusí ttutte le pera.
Io la robba la dò ccome sta in mostra.
Sin che
gguardate er peso a la stadera
e nun credete a la cusscenza nostra,
nun ciarifiàto; 3 ma in che ddà sta ggiostra
che cce vienite a ffà mmatina e ssera?
Eppoi tante
capàte 4 pe’ un bajocco!
Caro quer fijjo! dàteje la zzinna.
Tenete, sciscio 5 mio, succhiate er cocco.
Le pera
auffa? 6 povero cojjone!
Spassàtelo, cantateje la ninna:
Ninna li sonni e ppassa via bbarbone. 7
Nerone era un
Nerone, 1 anzi un Cajjostro;
e ppe l’appunto se chiamò Nnerone
pell’anima ppiú nnera der carbone,
der zangue de le seppie, e dde l’inchiostro.
Quer lupo,
quer caníbbolo, 2 quer mostro
era solito a ddì nnell’orazzione:
«Dio, fa’ cche tutt’er Monno abbi un testone,
pe ppoi ghijjottinallo a ggenio nostro».
Levò a
fforza er butirro 3 a li Romani,
scannò la madre e ddu’ mojje reggine,
e ammazzò ttutti quanti li cristiani.
Poi
bbrusciò Rroma da piazza de Ssciarra
sino a Ssanta-Santòro, 4 e svenò arfine
er maestro co ttutta la zzimarra.
E a cche tte
serve poi sto scrive e llegge?
Làsselo fà a li preti, a li dottori,
a li frati, a li Re, all’Imperatori,
e a cquelli che jje l’obbriga la Lègge.
Io vedo che
cce sò 2 ttanti siggnori
che Ccristo l’arricchissce e li protegge,
e nnun zann’antro che rròtti, 3 scorregge,
sbavijji, 4 e strapazzà li servitori.
Bbuggiarà
5 ssi 6 in ner cor de le famijje
l’imparàssino ar piú li fijji maschi;
ma lo scànnolo grosso è nne le fijje.
Da ste penne
e sti libbri mmaledetti
ce vò ttanto 7 a ccapí ccosa ne naschi?
Grilli in testa e un diluvio de bbijjetti.
Quanno
l’apprivativo 2 fu abbolito,
la padrona pe mman d’un cardinale
presentò ar zanto Padre un momoriale
pe ottené li limenti 3 dar marito.
Er Papa
repricò ttutto compito:
«Noi cqui la nostra utorità ppapale
nu la vojjamo usà. Cc’è ir tribbunale,
siconno er novo codisce, ch’è uscito».
La povera
Siggnora che cce crese 4
staccò ttutte le carte che tt’ho ddetto,
citò cquer cane, e pprincipiò le spese.
Custruito
5 er giudizzio, un ber 6 bijjetto
der Papa ar presidente lo sospese,
e accusí tterminò sto trabbocchetto.
Ar lazzaretto
tra Nnottuno 1 e Ancona
sò sbarcati da scento a ccentoventi
frati de ttutte sorte de conventi
iti a ffoco a Ccaloggna e Bbraccellona. 2
Nun hann’antro con zé 3 che la corona,
bbrutti, panonti, 4 làsceri e ppezzenti.
Ma cce sarà cchi li farà ccontenti.
E indovinate chi? Rroma cojjona.
Cqua sse
pò ddí: 5 Ppadre, è ccressciuto un frate,
e sse pò arrepricà 6 ccom’er Guardiano:
Brodo-longo, fra Ddiego, e sseguitate.
Via, 7
longo longo nun zarà sto bbrodo.
Eppoi eppoi tra er popolo romano
bbeato er frate che cce pianta er chiodo!
Io le nove le
so dda fra Ssiconno 1
er laïco der padre Dejjantoni, 2
c’oggni sera co ccerti chiacchieroni
legge li fojji e mmette in paro er monno.
Bbe’ ddunque
in Francia er Re li framasoni
nun ce lo vonno ppiú, nnun ce lo vonno;
e ss’ingeggneno a ffa cquello che pponno
pe llevàsselo 3 for de li cojjoni.
Quelle
sò ttutte sette indemogratiche,
disce er frate, che vvonno l’arcanía, 4
ma llassa fà 5 le potenze alleatiche.
Adesso
l’alleatichi tratanto
vanno ar campo der càlisce 6 in Turchia,
e ddoppo 7 in Francia sentirai che spianto! 8
Io stiede
2 llí a ffumà ssu li scalini
de la locanna un par d’orette toste, 3
e vvedde 4 partí a ffuria 5 pe le poste
er zegretario de Monzú Rreggnini. 6
Oggi ho
ssentito poi ch’ebbe le groste
pe vviaggio da una bbanna d’assassini,
che stanno apparecchiati a li confini
sempre come la tavola dell’oste.
Disce che cce
perdé ppuro 7 li pieghi.
Ma in questo parla bbene er locanniere:
«De le carte chi vvoi che sse ne freghi?». 8
Eppoi, sai
che ggran carte! Er Re de Francia
che mmanna ar Re de Napoli un curiere
pe ffajje accommidà 9 ccerta bbilancia. 10
Disce: «Nina
è bbussato, annàt’a uprí». 2
Io me finisco d’allaccià er corzè,
curro a la porta e ddimanno: «Chi è?».
Disce: «Amici». «Chi vvò?». Disce: «Er
Balí».
Dico: «Uhm,
sto coggnome cqua nun c’è».
Disce: «Ma ccome! m’hanno detto cqui».
Dico: «Fratello, cosa v’ho da dí?
si mmai nu lo conoscheno 3 ar caffè...».
Disce: «Scusate»;
e sse n’annava 4 ggiú.
Dico: «Ggnente, ma, pss, sentit’un po’, 5
dico, eh quell’omo, aritornate su».
Dico:
«È un francese chi ccercate?» «Nò»,
disce: «è romano». «Ah, ccredevo un monzú»,
dico; «ma, o ll’uno o ll’antro, 6 io nu lo so».
Te tufa
1 tanto a tté dd’èsse schiavetto? 2
Oh gguarda! e a mmé mme parería ’na sorte.
Campi co ppoco, spenni 3 meno in ghetto; 4
te la sscivoli mejjo da la corte,
nun batti
all’architrave de le porte,
pòi fà da servitore e da ggiacchetto,
te pòi coprí cco le cuperte corte,
te pòi stenne 5 in qualunque cataletto;
entri ar
teatro cor bijjetto franco
tra ppanze e cculi; e indòve sc’è la festa
hai la patente de montà ssur banco.
E tte metto
per urtimo guadaggno,
che ssi 6 vvonno azzeccatte 7 in ne la testa,
quarche sassata tua tocca ar compaggno.
De grazzia,
sete voi quer figurino
che mme vò ffuscilà 2 ccor uno sputo?
Bbravo: je lo faremo conzaputo; 3
e ss’accòmmidi intanto in cammerino. 4
Co mmé nnun
rescitamo er brillantino, 5
perch’io, sor merda de villan futtuto,
me sento in gamma, 6 cor divin’ajjuto,
de favve er barbozzetto gridellino. 7
Pe vvostra
addistruzzione, 8 io, da pivetto 9
ho mmesso lègge a cquanti rispettori 10
teneveno Atticciati e Mmerluzzetto. 11
Figuratev’a
vvoi! s’io mó ppe ccristo
nun ve manno addrittura dar drughiere
a crompavve 12 un carlín de muso-pisto. 13
E nnotate tra
ll’antri adducumenti 1
c’all’epica 2 der lòro sposalizzio
io fui bbona a pportajje un priscipizzio 3
d’ova fresche e un ber paro de pennenti. 4
E mmó cche
sto in bisoggno, si li senti!, 5
m’hanno fatto inzinenta 6 er bon’uffizzio
de dímme 7 in faccia che nnun ho ggiudizzio.
Ma eh? cche ssò 8 a sto monno li parenti!
Un amico te
pò 9 llevà d’affanni;
ma un parentaccio che tte vede strugge 10
nun t’impresta 11 un ajjuto si 12 lo scanni.
Sin che sse
13 maggna, tuttiquanti attorno.
Sparecchiato poi ch’è, ffanno a cchi ffugge,
e nun te danno ppiú mmanco er bon giorno.
Viengheno:
attenti: la funzione è llesta. 2
Ecco cor collo iggnudo e ttrittichente
er prim’omo dell’opera, er pazziente,
l’asso a ccoppe, er ziggnore de la festa.
E ecco er
professore che sse 3 presta
a sserví da scirúsico a la ggente
pe ttré cquadrini, 4 e a tutti ggentirmente
je cura er male der dolor de testa.
Ma nnò
a mman manca, nò: ll’antro a mman dritta.
Quello ar ziconno posto è ll’ajjutante.
La proscedenza aspetta a Mmastro Titta. 5
Volete
inzeggnà 6 a mmé cchi ffà la capa? 7
Io cqua nun manco mai: sò ffreguentante;
e er boia lo conosco com’er Papa.
Nun ho
inteso; scusate, sor Pasquale:
de le vorte 1 sto un po’ ssopr’a ppenziero.
Che mme discévio? 2 Ah, ssi aricàla er zale? 3
Eh, ddicheno de sí; ma ssarà vvero?
Voless’Iddio!
Ma una furtuna uguale
io pe la parte mia poco sce spero.
Eppoi ggiú ne lo spaccio cammerale
inzin’a cqui nnun ze n’è ddetto un zero.
Che jje
n’importa un cazzo de la pila 4
de la povera ggente a li Sovrani
che cconteno le piastre a ccento-mila?
Anzi, mó
cciànno 5 dato le missione; 6
e, ddopo er giubbileo, pe li romani
pe ssolito c’è ssempre er zassatone. 7
Armanaccà
1 nnoantri 2 poveracci
perché Ssu’ Santità cce pela e scarca? 3
Qualunque cosa sii, bbon prò jje facci:
in st’imbrojj sce vò 4 ffede e rrisarca. 5
Chi ha ppiselli 6 da dà 7 dunque li
cacci.
Er nostro incrementissimo Monnarca
pijja moneta fina e cquadrinacci, 8
ché ttutt’è bbono pe ajjutà la bbarca.
Fraterie,
sordatesche, bbirbioteche,
funzione pe li vivi e ppe li morti,
spese a rraggion veduta e spese sceche...
Tutto questo,
e un po’ ppiú, ccosa siggnifica?
Ch’er Papa nun ha ppoi tutti li torti
si 9 ha ttanta smania d’intonà er Maggnifica. 10
Er dolor de
ggingivie è un gran zupprizzio:
ve compatisco assai, sor Ziggismonno.
Ma cce saría pericolo, 1 s’è in fonno, 2
che mmettessivo 3 er dente der giudizzio?
Eh vvia, che
ssarà mmai sto priscipizzio
d’anni c’avete! Mica sete un nonno.
Nun zaressivo er primo né er ziconno
che l’età nnun je porti preggiudizzio.
Io l’ho
mmesso ch’è ppoco: 4 Nastasía
doppo du’ mesi o ttre che la sposai,
e de trent’anni lo metté Mmattía.
Er dente der
giudizzio sce vò 5 assai
che vvienghi 6 fora. La padrona mia
è vvecchia cucca 7 e nnu l’ha mmesso mai.
Che ccosa
sc’è da rimanecce stàtichi 1
e de stacce accusí smiracolati? 2
Ma ggià, vve compatisco, sciorcinati: 3
de st’asscenze che cqui 4 nnun zete 5 pratichi.
Io ve dico
c’a ttutti l’ammalati
de dojje isterne e ddolor aromatichi 6
je se dà ll’ojjo d’àrcadi volatichi 7
in certi bbottoncini smerijjati.
L’antro
8 mese ch’io stiede 9 a lo spedale,
pe la scommessa mia che mme maggnai
sei libbre de porcina de majale,
sto segreto
scuperto io l’imparai
da Ambroscione er facchin de lo spezziale
che ppuro 10 lui sce n’ha gguariti assai.
Se 1
va a la Valle, 2 sí, mma cchi ssa cquanno!
È attaccato, è attaccato: eh, la siggnora
la carrozza la vò ssempre a bbon’ora,
eppoi l’inchioda ggiú in cortile un anno.
Cosa fa
adesso? Adesso se 1 sta armanno 3
a la toletta; e avanti che sta mora
se facci 4 bbianca e n’ariscappi fora,
ggià le ggente ar teatro se ne vanno.
Prima de
congeggnà ttutte le stecche,
de situà li cusscinetti ar posto,
de stiracchià cquele pellacce secche
(tutte
imprese da fasse 5 d’anniscosto, 6
secunnum òrdine Merchisedecche),
principia a llujjo e ttermina d’agosto.
Che?
stammatina t’ho ddato uno scudo,
e ggià stasera nun ciài 2 ppiú un quadrino?!
Rennéte 3 conto, alò, 4 ssor assassino:
cqua, pperch’io nu li zappo: io me li sudo.
Sú: ttre
ppavoli er pranzo: dua de vino
tra ggiorno; e cquesti ggià nnun ve l’escrudo. 5
Avanti. Un grosso p’er modello ar nudo.
Bbe’: un antro 6 ar teatrin de Cassandrino.
Sò
7 ssei pavoli. Eppoi? Mezzo testone
de sigari: un lustrino 8 er pan der cane...
E er papetto c’avanza, sor cojjone?
Nò,
ppranz’e vvino ve l’ho mmesso in cima.
Dunque? Ah, l’hai speso per annà a pputtane.
Va bbene, via: potevi díllo 9 prima.
Sú er
barbozzo 1 dar piatto. Uh cche ccapoccia! 2
Madonna mia, tenéteme le mane.
Sora golaccia, aló, 3 mmaggnamo er pane,
presto, e ar cascio 4 raschiamoje la coccia. 5
E adesso che
pprotenni 6 co sta bboccia? 7
De pijjà ’na zzarlacca? 8 Er ciurlo 9 cane!
Se n’è strozzate 10 du’ fujjette sane,
e mmó sse vò 11 assciugà ll’úrtima goccia!
Bbe’, ssi
12 avete ppiú ssete sc’è la bbrocca.
Ggiú er bicchiere, e iggnottite 13 quer boccone,
ché nun ze 14 bbeve cor boccone in bocca.
Eh cciancica,
15 te pijji una saetta!
Nun inciaffà, 16 ingordaccio bbuggiarone...
E la sarvietta? 17 porco; e la sarvietta?
La maggior
parte de le donne cqui
tutto er merito lòro e ll’onestà
vve lo fanno conziste 1 in nun guardà
ggnisuno 2 in faccia, pe nnun dà da dì. 3
Drento casa
però nun è accusí; 4
e ssi nun fussi 5 pe la carità,
Vergine santa mia de la pietà!,
ve diría cose da favve stordí. 6
Pe strada
scerte sciurme 7 che nun piú, 8
mane 9 ar petto, occhi bbassi, che a vvedé
pareno ar terzo scelo 10 e un po’ ppiú ssú.
Ma in
cammera, su cquelli canapè,
scerte galantaríe, scerte vertú
da fà rrestà Ssantaccia 11 all’abbeccè. 12
Madama
Dorotea, me manna cqui
la mi’ padrona pe ppijjà er corzè
fatto a l’usanza de Monzú Ggabbè, 2
che jje serve stasera c’ha da usscí.
Anzi, m’ha
ddetto lei che vv’ho da dí
che vvenite voi puro 3 in zú cco mmé,
a mmettéjjelo 4 in prova pe vvedé
ssi 5 cc’è cquarche ddifetto llí pper lí.
E ddisce che
vve dichi 6 d’abbadà
che, in quant’a la larghezza, vienghi 7 un po’
ppiú assestato de quer d’un anno fa.
Perché ddisce
che mmó llei de cqua ggiú
è ppiú ggrossa d’allora, e cche pperò
ce vò ppiú stretto un par de deta 8 e ppiú.
Si 1
la padrona inzomma è una ggirella 2
e ha ttutte le vertú dde le miggnotte,
nun ciò ggnente che ddí, 3 ggioja mia bbella.
Er marito è ccontento, e bbona notte.
Ma vvoi nun
zete dama com’e cquella,
e io nun zò er curier de don Ghissciotte.
Ergo dunque, siggnora cojjoncella
ve sfornerò un mijjón de mela cotte. 4
Nun
v’impostate, fijja bbenedetta.
Vedete, io ve l’avviso co le bbone:
fin che ssò vivvo io, nun ze sciovetta. 5
Cosa ve disse
io llí in quer cantone
quanno che vve sposai? «Eh sora Bbetta,
nun ze fàmo 6 guastà dda le padrone».
Hanno
maggnato cqua, ssí, ppoveretti;
perché llui oggni ggiorno ha la passione
d’invità a ppranzo scinqu’o ssei perzone
pe scorticalli a ffuria de sonetti.
Tutti
scràmeno 2 in faccia der padrone
che ppe vverzi co llui manco Ferretti;
ma, in ne l’usscí, li chiameno bbijjetti,
riscevute de sardo 3 e llocazzione. 4
Dunque perché
strozzà 5 sta povesía,
tu mme dirai, e nun lassà st’inviti?
Io t’arisponno: un po’ ppe gguittaria, 6
e un po’
pperché a sto monno tu lo sai
come la cosa và: rricchi o ffalliti,
un pranzo auffa 7 nun dispiasce mai.
Eh ppovera
siggnora, lei sce 2 prova,
ma ar cassettino lui 3 sce tiè 4 l’abbiffa.
Dunque com’ha da fa? Ccerca e ssi 5 ttrova
er pollastrello 6 da fà er trucchio, 7 aggriffa.
8
Poi malappena
ha quarche ccosa nova,
disce ar marito c’ha vvinto una riffa;
e llui, sce credi o nnò, 9 sempre je 10 ggiova
de fà l’indiano e dd’ingozzà la miffa. 11
Ma ssai che
ppasto-nobbile 12 è l’amico! 13
A llui j’abbasta de nun spenne ggnente, 14
e dder restante 15 nun j’importa un fico.
Lo capissce
lui puro 16 ch’er zervente
vorà li su’ filetti 17 all’uso antico;
ma, avènnoli 18 anche lui, tasce e acconzente.
Tutt’ar
contrario de quer ch’è da mé.
La padroncina mia, che in quel’età
nun trova ppiú er babbeo che jje ne dà, 1
cià attorno un disperato e lo mantiè. 2
Per cui,
siccome su’ marito 3 è er re
de tutta quanta la cojjonità,
lei sce curre 4 a lo sgriggno e jje ne fa
nove parte pe llui, una pe ssé.
S’io me
n’accorgo? Me n’accorgo sí;
mma mme sto zzitto, Checco 5 mio, me sto,
pe li sconcerti che ne ponno usscí.
E llei che
nnota sta mi’ 6 gran vertú,
m’arigala 7 oggni tanto; e io je fo 8
la guardia ar cane, si mmai vienghi sú. 9
St’arcate
rotte c’oggi li pittori
viengheno 2 a ddiseggnà cco li pennelli,
tra ll’arberetti, le crosce, li fiori,
le farfalle e li canti de l’uscelli,
a ttempo de
l’antichi imperatori
ereno un fiteatro, indove quelli
curreveno a vvedé li gradiatori
sfracassasse 3 le coste e li scervelli.
Cqua
llòro 4 se pijjaveno 5 piascere
de sentí ll’urli de tanti cristiani
carpestati e sbramati da le fiere.
Allora tante
stragge 6 e ttanto lutto,
e adesso tanta pasce! 7 Oh avventi 8 umani!
Cos’è sto monno! 9 Come cammia 10 tutto!
Se l’è
vvorzúta 1 lui: dunque su’ 2 danno.
Io me n’annavo in giú pp’er fatto mio,
quann’ecco che l’incontro, e jje fo: «Addio».
Lui passa, e mm’arisponne cojjonanno.
Dico: «Evviva
er cornuto»; e er zor Orlanno 3
(n’è ttistimonio tutto Bborgo-Pio)
strilla: «Ah ccaroggna, impara chi ssò io»; 4
e ttorna indietro poi come un tiranno.
Come io lo
vedde 5 cor cortello in arto, 6
co la spuma a la bbocca e ll’occhi rossi
cúrreme 7 addosso pe vvení a l’assarto, 8
m’impostai
cor un zercio 9 e nnun me mossi.
Je fesci fà ttre antri 10 passi, e ar quarto
lo pres’in fronte, e jje scrocchiorno l’ossi. 11
Lui ggiovene,
e llei ggiovene: lui bbello,
e llei bella: lui scàpolo e llei puro: 2
l’uno e ll’antra de casa mur’a mmuro:
tutt’e ddua un po’ mmatti in ner cervello:
lui cantava
jjerzéra un ritornello,
e llei s’affacciò ssubbito a lo scuro...
Via, s’appiccicheranno 3 de sicuro:
io me sce ggiucherebbe 4 er filarello. 5
Ma co nnoi?
Fijja, ne sapémo troppo.
L’omo accant’a la donna è una fornasce
in ner mezzo a la porvere da schioppo.
Ce vò
antro a impidì cche mmadr’e ppadri! 6
Femmine e mmaschi sgrinfieranno 7 in pasce 8
sin c’a sto monno sce saranno ladri.
Lo
crederò pperché mme lo ggiurate
c’un antro po’ nnun ve trovavo vivo.
L’aspettito 2 però mmica è cattivo:
io ve vedo com’erivo 3 st’istate. 4
Volete guarí
5 ssubbito? Maggnate,
bbevete quarche bbon ristorativo,
levateve dar culo er lavativo,
e usscite in ste bbellissime ggiornate.
Fora, fora:
un po’ d’aria de campaggna:
quello sce vò 6 ppe vvoi: moto, alegria,
e ppoi ggnente pavura de magaggna.
Sú, a ffiumaccio
spezziale e spezziaria.
L’omo campa cquaggiú dde quer che mmaggna;
e ’r curasse 7 è la peggio ammalatia.
Jeri 2
a vventitré ora finarmente
sto scimiterio è stato bbenedetto. 3
T’assicuro che ffu un carnovaletto,
p’er gran concorzo de carrozze e ggente.
Le seppurture
vecchie er Papa ha ddetto
che dd’or’impoi nun zèrvino 4 ppiú a ggnente,
perché tutti li morti istessamente 5
anneranno 6 llaggiú ssopr’un carretto.
Però,
s’intenne, 7 da li Papi 8 in fori,
e ccardinali, e vvescovi, e pprelati,
e ppreti, e ffrati, e mmoniche e ssiggnori.
Ne
sarà ppuro 9 accettuato 10 oggnuno
che sse 11 terrà da conto li curati...
Inzomma, via, nun ciannerà 12 ggnisuno.
Capite voi?
1 Pe ccressce 2 la gabbella
fanno cressce li fraudi e ’r contrabbanno.
Capite voi che ppo’ 3 de bbagattella
tre scudi a ccanna de laumento 4 ar panno?
È un
affare de venti in ventun anno 5
ch’io sò ccapo-facchino in doganella;
e ’r fatto sta, ccapite voi?, che cquanno
cressce un dazzio, oggni ggiorno una quarella. 6
Dico pe
cquello che sse 7 scopre: eppoi
sc’è ttutto quanto er resto che ddich’io,
ch’è ccento vorte ppiú: capite voi?
Tre o
cquattro piastre in faccia a un proposèo, 8
e vve fanno passà mmagaraddio 9
tutti li panni de Ggiusepp’ebbreo.
Me so’ 2
fatto un inzoggno. Me pareva
d’èsse 3 creato Papa in ner Concrave,
e mme vienissi 4 avanti Adamo e Eva
a pportamme 5 un bastone e un par de chiave. 6
Poi me pareva
de stà in pizzo 7 a un trave,
e un omo sceco 8 me dassi 9 la leva;
e mme trovavo solo in d’una nave
che un po’ 10 mme s’arrenava e un po’ ccurreva.
Poi me pareva
d’avé ccento bbraccia,
novantanove pe ttirà cquadrini
e uno pe ddà indietro carta-straccia.
Cqua ssento
come un sparo de cannone;
me svejjo abbraccicato 11 a li cusscini,
e in cammio d’èsse 12 Papa ero un cojjone.
Ch’er Papa,
co l’annà ttanto bberbello 1
contr’a li ggiacubbini de la setta,
se possi 2 conzervà Rroma soggetta,
ciò le mi’ gran difficortà, ffratello.
Eh ssi
fuss’io, pe cquanto?, pe un’oretta,
governator de Roma e bbariscello, 3
vederebbe oggni suddito ribbello
cosa se 4 chiama ar Monno aspra vennetta.
’Na bbrava
manettata lesta lesta,
un proscessaccio, e, appena condannati,
sur carretto, e ppoi subbito la testa.
E ppe incúte
5 a la setta ppiú ppavura,
doppo avelli accusí gghijjottinati
je darebbe 6 una bbona impiccatura.
Che ffa la
madre de quer gran colosso
che ppotava il Re cco la serecchia?
Campa de cunzumè, nnun butta un grosso,
disce uí e nnepà, 1 sputa e sse specchia.
2
Sta ssopr’a
un canapè, ppovera vecchia,
impresciuttita llí ppeggio d’un osso;
e ha ppiú ccarne sto gatto in d’un’orecchia
che ttutta quella che llei porta addosso.
A ccolori
è er ritratto d’un cocommero
sano: un stinco je bbatte co un ginocchio; 3
e ppe’ la vita è ddiventata un gnommero. 4
Cala oggni
ggiorno e vva sfumanno a occhio.
Semo all’Ammèn-gesú: ssemo a lo sgommero: 5
semo all’ùrtimo conto cor facocchio. 6
E jjerzera
1 me diede un’antra stretta. 2
Doppo accesi li lumi, a un quarto e mmanco, 3
stavo in zala accusí ssur cassabbanco
sbavijjanno 4 e bbattenno la scianchetta, 5
quanno, che
vvòi sentì!, 6 de punt’in bianco 7
quela testa de matta mmaledetta
me se 8 mette a strillà da la toletta
c’uno scorpione je sbramava 9 un fianco.
Curro de
furia, spalanco la porta,
e ttrovo lei che sse vieniva meno 10
sopr’a la cammeriera mezza morta.
Credi che
ffussi 11 uno scorpione? Eh ggiusto!
Era un pizzo d’un osso-de-bbaleno, 12
che jj’ussciva cqui ggiú ffora der busto.
Come disce er
ronnò 2 cco la catena?
Parto reggin’addio sèntime Arbasce.
Accusí 3 ddico a tté:
ssèntime, Nena, 4
sta tu’ sorella 5 a mmé ppoco me piasce.
Io so 6
un omo che ccerco la mi’ pasce 7
ma un giorn’o ll’antro 8 che mme pijja in vena,
me j’attacco 9 ar tiggnone, 10 e ssò ccapasce 11
d’ammaccajje er musaccio e ffà una sscena.
Fàmose
a pparlà cchiaro. Er viscinato
pò ddí 12 ssi 13 cche ffioretto è stata
lei,
ché er marito sc’è mmorto disperato.
Che tte
viè 14 a rriccontà? li su’ trofei?
Che vviè a ffà a ccasa mia, pe bbio salato?
A imbirbitte 15 un po’ ppiú de quer che ssei?
Un nobbile, o
de vecchia o nnova zecca,
o vvadi 1 co la scuffia o ccor cappello,
(nun zia 2 detto pe ddajjene 3 la pecca)
è una spesce 4 d’un cane de mascello. 5
Te ggira
attorno bberbello bberbello,
te se 6 strufina, t’ammusa, te lecca,
te scòtola 7 la coda..., e ppe un capello 8
poi te s’affiara indov’azzecca azzecca.
E cquanno
puro 9 quer cagnaccio indeggno
te facci 10 una carezza co la zampa,
abbada a tté, 11 cche tte sce lassa er zeggno. 12
Pe ste sorte
de bbestie, Madalena,
da la quale ggnisuno se la scampa,
ecco er zolo 13 rimedio: a la catena.
Eh nun
c’è vverzo: ar Monno, bbella mia,
nun cià ppropio da èsse 1 una contenta.
Vòi ’na donna ppiú rricca de Maria,
c’ha vventi anelli e ppiú, ssi nnun zò 2 ttrenta?
Ebbè,
vva’ a ssentí llei: pare inzinenta 3
che tte vòjji spirà dd’ipocondria.
Nun ride mai, sospira, e sse 4 lamenta
de nun poté ffà ffijji. Eh? cche ppazzia!
Da un’antra 5 parte poi, povera donna,
capisco, un fijjo a llei je staría bbene
com’un lume davanti a la Madonna.
Io je l’ho
ddati li conzijji bboni.
Dico: «Ma ppe llevatte 6 da ste pene,
fijja, hai mai provo 7 de cammià 8 ccarzoni?».
Che ppriscissione!
Oh ddio, stateve quieti
ch’io vorze annacce 1 pe li mi’ peccati!
Vennero tre ddiluvî scatenati
da intontí li padriarchi e li profeti.
Li preti nun
pareveno ppiú ppreti,
li frati nun pareveno ppiú ffrati,
ma ppanni stesi, purcini abbaggnati,
trippette, scolabbrodi, sottasceti...
Li vedevi
cantanno 2 lettaníe,
chi in cotta, chi in pianeta, chi in piviale
scappà ppe li portoni e ll’osterie.
Inzomma,
ggente mia, fu una faccenna 3
che inzino la Madonna e ’r Cardinale 4
doverno fà la sparizzion de Vienna.
Uhm, la
ggiornata er Papa nu la trova
pe ffiní ll’antra 1 mezza priscissione.
Che tte pare? Ggià er tempo sciariprova
cor zolito tempaccio bbuggiarone.
Vado vedenno
2 che sta gran funzione
finirà ccom’er pranzo d’un par d’ova,
e ’r zagro 3 quadro resterà a ppiggione
indov’abbita mó, a la Cchiesa-nova.
La
spasseggiata de sto quadro nero
me pare er viaggio de la tartaruca,
che ppe ttre mmijja sce vò 4 un mese intiero.
Oh ppovera
Madonna de san Luca!
Lei a Ssan Pietro nun ce va davero
si 5 er Papa nun prepara una filuca.
Nu lo capisco
io sto verba vòla: 2
nun me piàsceno a mmé sti bbiribbissi. 3
Li Papi hanno da dí: cquo ddissi, dissi. 4
Li Papi hanno da èsse de parola.
Se
sprofonnassi 5 er celo in ne l’abbissi,
una promessa, una promessa sola
l’ha (scappata che jj’è ffor de la gola)
da inchiodà ccom’e ttanti croscifissi.
Ecco llí
Cchiaramonti: ecco er modello.
Ner momento d’annà in deportazzione
cosa disse a li preti a lo sportello?
«Io parto
aggnello e ttornerò lleone».
Defatti accusí ffu. Cquer bon aggnello
partí ggranello e rritornò ccojjone.
Nò,
vveh, ccristiani, nun è vvero mica
che ppe ubbidí cce vò ttanta pazienza.
È un gran riposo all’omo l’ubbidienza;
e ppe cquesto in ner monno è ccusí antica.
Ma ssentite,
ch’Iddio ve bbenedica,
che bbella verità: er Zovrano penza,
e er zúddito esiguissce; e in conzeguenza
oggnuno fa ppe ssé mmezza fatica.
E a cchi de
noi saría venuto in testa
de pagà la dativa ariddoppiata
si 1 er Papa nun penzava puro 2 questa?
Un essempio e
ffinisco. Ar teatrino
chi la sostiè 3 la parte ppiú ssudata?
Dite, er burattinaro o er burattino?
Io le su’
bbirberie nu l’annisconno: 1
è uno scapezzacollo 2 pien de vizzi.
Ha pperò un core che ppe ffà sservizzi
lui nun ce maggna e cce se 3 leva er zonno.
Ponno vení li
diavoli, sce ponno
èsse fiumi, montaggne, priscipizzi:
come se 4 tratta de fà bboni uffizzi
v’annerebbe magara in cap’ar monno.
Ce stanno
sopr’a llui quele du’ vecchie
che fanno scappà vvia; 5 eppuro 6 lui
je porterebbe l’acqua co l’orecchie.
A mmé ddunque
me pare, poveretto!,
che ppe sti bboni riquisiti sui
je se pò pperdonà cquarche difetto.
Je lo
prèdico sempre a cquela sciuccia 2
che cchi vvò vvive 3 cor timor de Ddio
ha da innustriasse e ffà 4 ccome fo io,
pe gguadaggnasse 5 er pane e un po’ de cuccia. 6
Perché llei
nun impara a essempio mio
a nnegozzià de perza e de mentuccia?
Ché Rroma mica è ppoi Roccacannuccia
da nun offrí rrisorte, 7 eh sor don Pio?
Quann’una
inzomma ha una bbon’arte in mano,
pò ddísse 8 er fatto suo, e arzà la testa,
e rrídese 9 inzinenta 10 der Zovrano.
Je lo
prèdico sempre io: «Zinforosa,
ingeggnete 11 cardèa: 12 la ggente onesta
oggnuno ha dd’appricasse 13 a cquarche cosa».
«Oh, addio,
commare: indove vai de cqua?»
«A ssentí mmessa a Ssant’Ustacchio. E ttu?»
«Io esco mó da casa, e ttiro in giú
verzo er Monte». «Che mmonte?» «De pietà».
«E cco sta
presscia? 2 E cche cce vai a ffà?»
«Eh, a rrifrescà sti peggni. «E cche cciài 3 sú?»
«Ciò 4 una cuperta trapuntata, e ddu’...».
«Ho ccapito. E pperché le lassi llà?»
«Pe nnun poté
speggnalle». «E pperché? di’».
«Ma ssei curiosa tu co sti perché!
Perché nun ciò 5 cquadrini, eccola cqui».
«Ma pperché
ll’impeggnassi?» 6 «Oh questa mó
è ppiú bbuffa dell’antra!». 7 «Inzomma, ebbè?»
«Pe annà a Ttestaccio a ddivertímme 8 un po’».
Nun concrude:
vedete Sarafina?
Co cquella bbella su’ disinvortura
lei un straccio ch’è un straccio je figura:
se 1 mette un corno e ppare una reggina.
A
l’incontrario poi sc’è la spazzina
che, ppò pportà cqualunque accimatura,
è un pajjaccio vistito, fa ppavura,
la pijjate pe un sacco de farina.
S’intenne:
tutto sta nne la perzona.
Chi è svérta 2 com’e nnoi, la peggio robba
je s’adatta e jje sta ccome la bbona.
Dateme
invesce un tripponaccio grosso,
una guercia, una ssciabbola, una gobba:
oggni galantaria je piaggne addosso.
È
inutile pe mmé, ssora Nunziata,
de dimannamme si 1 mme faccio sposa. 2
Io nun zò Llutucarda, io nun zò Rrosa,
pper èsse bbervorzúta 3 e ariscercata.
Ppe mmé
ppovera mmerda è un’antra cosa.
Nun me sò inzin’adesso maritata,
e ccreperò accusí; perch’io sò nnata
sott’a cquella stellaccia, pidocchiosa.
Ciarlàveno
der coco; ma ssu cquello
nun c’è vverzo da facce 4 capitale:
sta ppiú fforte der maschio de Castello.
Bbasta,
aspettamo un po’ sto carnovale,
si ccapitassi 5 quarche scartarello:
lassàmo fà ar Ziggnore e a Ssan Pasquale. 6
È
ttant’avaro quer vecchio assassino
che schiatterebbe pe nun dà una spilla,
e ppe nun spenne 1 l’arma d’un quadrino 2
nun ze farebbe dí 3 mmezza diasilla. 4
La matina, in
ner batte 5 l’acciarino
pe ppreparasse 6 er tè de capomilla, 7
pijja un pezzo de lesca 8 piccinino
piccinino ppiú assai de la favilla.
La bbarba se
la fa ssenza sapone,
e ’r zu’ rasore 9 nu l’affila mai
pe ppavura che vvadi in cunzunzione.
E ar tempo de
li frutti fa er mistiere
d’ariccojje ossi, 10 e cquanno sce n’ha assai
ne va a vvenne 11 le mmannole 12 ar drughiere. 13
Quer vecchio
che vvenneva 1 ar zor Balestra
le mmànnole dell’ossi de li frutti
per ccrompacce 2 li stinchi de presciutti
da fà er brodo a un baiocco de minestra,
ha llassato
morenno 3 una canestra
de zecchini, pesati e ggiusti tutti,
acciò er fijjo li sporveri 4 e li bbutti
a bber commido 5 suo da la finestra.
Lui defatti
in teatri, in pupe, 6 in gioco,
in leggni, in mode, in viaggi, e in maggnà e bbeve 7
n’ha sfranti 8 ggià che jje ne resta poco.
La fine poi
la sentirete in breve;
perché cquello è ggruggnetto 9 de dà ffoco
inzinenta 10 a li pozzi de la neve.
Ohé, ohé,
l’hai visto quell’artóne 1
che jj’ho ppassato adesso l’immassciata? 2
Oh ddio che rride! 3 oh cche ccommedia è stata!
T’avevi da trovà ddietr’un cantone.
Dico:
«Sc’è mmonzú Ajjè». Ddisce: «Padrone».
E intanto la siggnora è ddiventata
una fiàra de foco, e la cuggnata
come un fojjo de carta fiorettone.
Sappi c’a mmé
mm’ha cconfidato Nina
la cammeriera, che er monzú ffrancese
aveva da sposà la padroncina.
Ma la
padrona, a la stracca a la stracca,
tant’ha ssaputo fà, cche in capo a un mese
l’ha mmesso ar punto de vortà ccasacca.
Ggiú cco le
mano; 1 se stia fermo; e ddua.
A cchi ddico? E da capo! Ahà, ho ccapito:
savio, sor Conte, ché jje scotto un dito.
Ma ssa cche llei è un ber porco da ua? 2
Me pare una
vergoggna a mmé sta bbua 3
co ’na zitella che nun ha mmarito.
Dunque me lassi in pasce: 4 ecco finito;
e sse tienghi le mano ccasa sua. 5
Ôoh, adesso
principiamo co la gamma. 6
Vò ffinilla sí o nnò? Bbadi, Eccellenza,
nun ciariprovi 7 veh, cché cchiamo Mamma.
E cche sse
8 crede lei? de stà ar precojjo? 9
Io co llei nun ce pijjo confidenza,
e ste su’ 10 libbertà mmanco le vojjo.
La
Madòn de la neve è una Madonna
diverza assai da la Madòn de Monti,
da quell’antra 1 viscin’a ttor de Conti
e da quella der zasso a la Ritonna. 2
Sopra de lei
m’ariccontava nonna,
fra ttant’antri 3 bbellissimi ricconti,
’na storia vera da restacce tonti, 4
che nnun ze n’è ppiú intesa la siconna.
Ciovè
cche un cinqu’agosto, a ora scerta, 5
nevigò in zimetría su lo sterrato
fra vvilla Strozzi e ’r palazzo Caserta.
E intanto un
Papa s’inzoggnò un sprennore; 6
e «Vva», ss’intese dí: «ddov’ha ffioccato
fa’ ffrabbicà 7 Ssanta Maria Maggiore».
Lui, prima de
scecasse in sta maggnera, 1
negozziava de nocchie bbell’e mmonne; 2
e adesso campa cor girà la sera
vennenno lettaníe 3 pe le Madonne.
Co ’na
voscetta liggèra liggèra
incomincia a ccantà: Ccrielleisonne,
Cristelleisonne..., e cquela strega nera
de la mojje sbavijja e jj’arisponne.
Lui
scià 4 ffisse da venti a ttrenta poste
a un pavoletto o ddu’ carlini ar mese,
che ppoi tutti finischeno dall’oste.
Sto sceco
inzomma campa d’orazzione 5
come fanno li preti ne le cchiese.
Nun ve pare una bbella professione?
E accusí?
ggrazziaddio, sora Susanna,
l’avemo arzata poi la trippettona?
Che la bbeata Vergine e Ssant’Anna
ve protegghino, e ssia coll’ora bbona.
E in che
lluna mó state? Ah, in de la nona.
Eh, ar véde, 1 si 2 la panza nun inganna,
pare che nun dev’èsse una pissciona, 3
ma ssarà arfine quer ch’Iddio ve manna. 4
Ve la sentite
in corpo la cratura?
Dunque bboni bbocconi, e ccamminate;
e llassate fà er resto a la natura.
Ggnente:
tutte ssciocchezze. Voi penzate,
pe llevàvve 5 da torno 6 la pavura
quante prima de voi sce sò 7 ppassate.
Come
sarebbe?! Ho da cacà un maschiaccio?
Oh ddio, commare mia, nun me lo dite;
che sti maschiacci sò 1 le calamite
de li guai. Nò, ppiuttosto io nu lo faccio.
Io so cche
cquanno lo tienessi in braccio
ggià ccredería vedello attaccà llite,
ggià schiccherasse 2 ggiú cquante acquavite
cià ppadron Carlandrea drent’a lo spaccio.
’Na
femminuccia armanco, 3 poverella,
quanno me la mannassi 4 la Madonna
io me l’alleverebbe a mmollichella. 5
Un omo spesso
spesso v’arimane
senz’arte e ssenza parte; ma una donna
sa ssempre come guadammiasse 6 er pane.
«Ebbè?
cquanno te sbrighi?» «A ffà cche ccosa?»
«A sposamme». «A sposatte?!» «Sí, a sposamme».
«Sorella, dàmme un po’ de tempo, dàmme:
tu ssei ’na donna troppa pressciolosa». 1
«Sí, ttempo e
ttempo, e nun viè mmai». «Ma, Rrosa,
vò ddí 2 cch’averà mmale in ne le gamme».
«E intanto mamma bbrontola». «Eh, le mamme
nun zann’antro che ddí: 3 mmi’ fijja è sposa». 4
«Dunque
sciariparlamo cor Curato; 5
perch’io, bbrutt’animaccia de ggiudío, 6
la carne mia, la carne mia t’ho ddato».
«Ma ssenti co
che mmeriti se n’essce!
Tanti sussurri pe sta carne! E io,
bbuggiarona che ssei, t’ho ddato pessce?».
«Sora
Sabbella.» 1 «Êe». «Ssora Sabbella,
affacciateve un po’ ssu la loggetta».
«Eccheme: 2 che vvolete sora Bbetta?» 3
«Ciavéte 4 una piluccia 5 mezzanella?»
«Ciò
6 cquella de la marva». 7 «Ah, nnò, nnò
cquella».
«Eh, nun ciò antro, 8 fijja bbenedetta».
«Bbe’, imprestateme dunque un fil d’erbetta,
un pizzico de spezzie e una padella?»
«Mó vve le
calo ggiú ccor canestrino».
«Dite, e mme date uno spiechietto d’ajjo,
un po’ d’onto e una lagrima de vino?»
«Ma ffamose a
ccapí, 9 ssora Bbettina,
a ppoc’a ppoco voi, si 10 nun me sbajjo
me sparecchiate tutta la cuscina».
«Marta. Oh
Marta!». «Ch’edè?» 2 «Mmarta». «Che vvòi?»
«Porteme ggiú er tigame de la colla».
«Venite sú a ppijjavvelo 3 da voi,
ch’io sto ar foco a ssuffrigge la scipolla».
«Io nun posso
lassà, cché cciò una folla
de cose da finí». «Sse 4 ffanno poi».
«Vedi, Marta? Eppoi dichi uno te bbolla!». 5
«Oh ccanta». «Marta, dico: ànimo, a nnoi».
«C’avete,
padron Peppe, 6 che strillate?»
«Ôh, mmastro Checco: 7 l’ho cco cquela strega
che mme porti la colla». «Ebbè, aspettate.
Eccheve
8 er callarello der padrone:
tanto noi mó sserramo la bbottega».
«Grazzie, e cco bbona ristituzzione».
Doppo
tant’anni v’annate inzoggnanno 1
ch’io muto casa? Uhm, mmanco per idea.
Saranno scinquant’anni, eh Dorotea,
che stamo cqui? E ssicuro che ssaranno.
Se 2
fa ssubbito er conto. Io sc’entrai quanno
ebbe 3 lo sturbo che mme mòrze 4 Andrea.
M’aricorderò ssempre cche ffu ll’anno
che vvenne a Rroma l’úrtima chinea. 5
Sto bbúscio
6 inzomma io me sce sò invecchiato;
e oramai co ttant’anni de piggione
sai quante vorte me lo sò ccrompato? 7
Allora
ariscodeva 8 er zor Aimme, 9
poi venne un oste, e mmo st’antro 10 padrone
c’ha ppagato la casa sscimme sscimme. 11
Anime sante!
come s’è stregata 1
quela Bbibbiana! E mme se dà cquer tono.
Che schifenza! Nun pare, co pperdono,
una coda de gatto scorticata?
Ggià,
nun è stata mai ggnente de bbono:
l’ho vvista in vita sua sempre sguajata:
ha avuta sempre una gran brutta occhiata:
puro, 2 prima... Ma adesso? te la dono.
Magra ppiú
d’una tèmpora, pellosa,
co ’na bbocca d’abbisso, d’un colore
tra la ruta, la scennere e la rosa...
E sse
dà ar monno 3 chi cce fa l’amore?
E sse trova er bon’omo che la sposa?
Ce vò un stòmmico proprio da dottore. 4
Fijjolo, me
seccate inutirmente.
D’un cacciatore io poco me ne fido.
Nun me guardate fisso, ché nun rido.
Fijjo caro, io nun sposo scerta ggente.
Come!
sorprenne 1 e condannà a lo spido 2
una povera passera innoscente,
che a vvoi nun v’odia e nnun v’ha ffatto ggnente,
e sta pp’er fatto suo drent’ar zu’ nido!
Io la penzo
pe mmé cche un cacciatore
che ggode tanto d’ammazzà un uscello,
nun pò èsse 3 un cristiano de bbon core.
Bella
raggione! Ah, ddunque perché cquello
è ppiccinino, nun zente er dolore
com’un omo a lo sfràggneje er cervello?
«Chi è
cche bbussa?» Sò io, sora Lonòra.
C’è er zor Abbate Pela?» «Nò, mma entrate,
ch’è ccapasce 1 che ttorni, ché l’istate
lui pe ssolito viè ssempr’a bbon’ora».
«Dunque
l’aspetto cqui, pperché llí ffora
c’è una solína da morí abbrusciate».
«E pperché lo volévio 2 er zor abbate?»
«Pe cquela lite che cce venne 3 allora».
«Che! avete
aùta un’antra scitazzione?»
«Sí, ppe ddisgrazzia mia; e ddon Giuanni
disce ch’è ppe lo sfratto e la piggione».
«E vvoi ve ne
pijjate tant’affanni?
Lassate, fà, lassate fà er padrone
e nun annate 4 via manco in cent’anni».
Je li chiedo
oggnisempre, io, fijji cari;
ma cche sserve che ppívoli 1 e ccammini?
Un giorno disce che nun cià ddenari,
e un antro 2 disce che nun cià cquadrini.
Jerzera
arfine, fascenno lunari,
manco si 3 avessi li piedi indovini,
passo davanti ar caffè de crapettari 4
e tte l’allúmo 5 llí ttra ddu’ paìni. 6
Me metto de
piantone in faccia a llòro,
e appena vedo che llui arza er tacco
me je fo avanti com’un cane ar toro.
E llui che
mm’arispose? Eh, stracco stracco
cacciò una bbella scatoletta d’oro
e mme diede una presa de tabbacco.
Che tteatri!
Accidenti a sta puttana
d’Argentinaccia e cquanno se sprofonna. 1
Stà 2 ssur un banco una nottata sana 3
pe ggòdese 4 le furie d’una donna!
Io, sentenno
quer nome de Ggismonna 5
sur bullettone a Pporta settiggnana 6
la pijjai, com’è vvero la Madonna,
pe la sora Ggismonna la mammana. 7
C’avevo da
sapé cche sse trattassi 8
de sti mortòri e tutte ste magaggne
de li secoli arti e dde li bbassi?
Lo fo
ddiscíde 9 a vvoi, lo fo ddiscíde.
Che! A la commedia sce se va ppe ppiaggne? 10
A la commedia sce se va ppe rride. 11
A sto paese
tutti li penzieri,
tutte le lòro carità ccristiane
sò ppe li morti; e appena more un cane
je se smoveno tutti li bbraghieri. 1
E ccataletti,
e mmoccoli, e incenzieri,
e asperge, e uffizzi, e mmusiche, e ccampane,
e mmesse, e ccatafarchi, e bbonemane, 2
e indurgenze, e ppitaffi, e ccimiteri!...
E intanto pe
li vivi, poveretti!,
gabbelle, ghijjottine, passaporti,
mano-reggie, galerre e ccavalletti.
E li vivi
poi-poi, 3 bboni o ccattivi,
sò cquarche ccosa mejjo de li morti:
nun fuss’antro 4 pe cquesto che ssò vvivi.
Che bber
ttruttrú! 2 oh ddio mio che cciammellona! 3
Nò, pprima fate servo 4 a nnonno e zzio.
Fàteje servo, via, sciumàco 5 mio,
e ppoi sc’è la bbebbella e la bbobbòna. 6
Bbravo Pietruccio!
E ccome fa er giudío?
Fa aéo? 7 bbravo Pietruccio! E la misciona? 8
Fa ggnào? bbravo Pietruccio! E cquanno sona? 9
Fa ddindí? bbraavo! E mmó, ddove sta Iddío?
Sta llassú?
10 bbraavo! Ebbè? e la pecorella?
Fate la pecorella a zzio e nnonno,
eppoi sc’è la bbobbòna e la bbebbella.
Ôh, zzitto,
zzitto, via: nòo, nnu la vonno.
Eccolo er cavalluccio e la sciammella...
Eh, sse 11 stranissce un po’, mma è ttutto sonno.
Ajo, 1
commare mia, ajo che ffiacca! 2
Tenello 3 tutto er zanto ggiorno in braccio!
Mai volé stà 4 in ner crino! 5 mai p’er laccio!
6
Io nu ne posso ppiú: ssò ppropio stracca.
Lo vedete? Mó
adesso me s’attacca
e mme la tira inzin che nun è un straccio.
Uf, che vvita da cani! oh cche ffijjaccio!
Làssela, ciscio, via: fermo, ch’è ccacca.
Bbasta,
Pietruccio mio, bbasta la sisa. 7
Dajjela un po’ de pasce 8 a mmamma tua...
Ecco er pianto. Che ggioia, eh sora Lisa?
Ssí, ssí, mmó
jje menàmo ar caporèllo. 9
Bbrutta sisaccia, c’ha ffatto la bbua
a li dentíni de Pietruccio bbello. 10
Sentite
bben’a mmé, bbella zitella.
Mó cc’a vvoi padre e mmadre ve sò 1 mmorti,
vostro zzio s’è incornato 2 che vve porti
co mmé cche ppotrebb’esseve 3 sorella.
Dunque
volenno voi ch’io ve sopporti,
stamo 4 in tono e nun famo la ggirella; 5
perch’io nun vojjo né sserví dd’ombrella
né rraddrizzà li scervellacci storti.
Ggià
cche la sorte nun m’ha ddato fijji,
piuttosto che de fà la guardia a vvoi
è mmejjo ch’er ziggnore v’aripijji. 6
Ce
sem’intesi? Aringrazziam’Iddio.
E ssoprattutto nun ze 7 scordi poi
che cqui in sta casa sce commanno 8 io.
Riddoppià
le datìve senz’editto!
E a cchi ss’incoccia a nnun volecce crede, 1
àprijje un tiratore e ffajje vede 2
un scàccolo de carta manoscritto!
Ah, cqua,
pper dio!, nun ze 3 cammina dritto!
E ppe ppiantà le cose su sto piede
ce vò 4 un Papa nimmico de la fede
ppiú der re Ffaraone de l’Iggitto.
Un galantomo
che ss’è mmesso a pparte
er zòlíto ssciroppo, 5 in cuncrusione
mó le mezz’once l’aritrova quarte.
Hanno
raggione lòro, hanno raggione.
Tutt’er torto l’ha aúto Bbonaparte
che nun ha ffatto lavorà er cannone.
Sí, llingue
de tenajje 1 mmaledette,
sí, vv’aripèto che Nnostro Siggnore
è un omo... ciovè, un Papa de bbon core.
Ve l’aripèto, e nnun ce levo un ette. 2
Nun zentite
le cose che promette?
Nun vedete che rrazza de dolore
tiè ssempre in quela faccia? e cco cche amore,
quanno che Iddio le vò, ffa le vvennette? 3
Per esempio:
ve pijja un accidente?
Súbbito lui v’intona una diasilla,
e ssi mmorite poi 4 nun disce ggnente.
Sí, er zu’
5 piascere è de sentí cchi strilla;
ma ddisidera er male de la ggente
pe addoprà la vertú de compatilla.
«Se
pò?» 1 «Chi è?» «Ssò io». 2 «Chi
io?» «Luscia».
«Chi Lucia?» «La madreggna de Pasquale».
«Ôh, addio, Lucia. Che! siete stata male?»
«Sò stata pe spallà, 3 ssiggnora mia».
«Poverina! E
quant’è?» «Da sto Natale
sin’ar giorno de pasqua bbefania».
«Oh vedete! E con quale malattia?»
«Cor una bbona porcheria mortale».
«Porcheria? E
sarebbe?... Animo: lesta».
«Eh... ssarebbe che... inzomma è cquer gonfiore
che ppijja pe la faccia e ppe la testa».
«Dunque dite risípola».
«Uh Ssiggnore!
Zzitta pe ccarità cché ssinnò 4 cquesta
aritorna da capo e cce se more». 5
«Come va,
ppadron Peppe?» «Affari neri,
padron Chiumella. Se ne fanno pochi.
Questo nun è ppaese da cucchieri:
questo è ppaese da puttane e ccochi».
«Hai
raggione. Io sto cqui da l’antro 1 jjeri
che straportai 2 quer branco de bbizzochi
pe ccinquanta bbajocchi a Vvill’Artieri 3
ar Vorto-santo 4 e in tre o cquattr’antri lochi».
«E io? Quanno
che stacco a la rimessa,
disce: “C’hai fatto?” “Ho fatto un accidente”; 5
e ’ggni ggiorno st’antifona è l’istessa.
«Siggnore,
eccheme 6 cqua: vvò 7 ccarrettella?
Vò ccarrozza eh sor E». «Moàh Peppe ggnente?»
«Nu l’hai visto da te? ggnente, Chiumella».
Fatt’è
che quanno in ne l’usscí 1 da messa
j’ho ddetto co ’na bbella ariverenza
«Serva de vusustrissima, Eccellenza»,
lei me s’è mmessa a rride, 2 me s’è mmessa.
Eh, ppe
ggarbo co mmé cce vò ppascenza: 3
io voi nun me guardate che ssò 4 ostessa,
ché cquarche pprincipessa e pprincipessa
pò vvenicce 5 a imparà la conveggnenza.
Eppoi j’ho
ddetto: «E sta regazza ch’essce
è la sua e dder zu’ siggnor marito?
Com’ha spigato! Eh, la mal’erba cressce». 6
Er ride
7 allora a llei je s’è infortito
che sguizzolava tutta com’un pessce:
seggno ch’er comprimento l’ha ggradito.
Sor’Irene, e
ccusí? ss’arivà ffora? 1
E ss’è lléscito, indove? Eh ggià, a Ffrascati,
a cqueli belli crimi imbarzimati. 2
Ecco cqua che vvor dí dd’èsse siggnora. 3
Ma ssa cche
cco ste sciarle è vventun’ora,
e li cavalli ggià stanno attaccati?
Anzi, in ner leggno sciò 4 vvisto du’ frati
che la prèsscia d’annà 5 sse li divora?
J’hanno messa
la robba, eh sor’Irene?
Oh bbrava: ma jj’avverto che vvò ppiove: 6
veda che ttutto sii cuperto bbene.
Ôh, ddunque,
arivedèndola; 7 e co cquesto
facci bbon viaggio, sce dii le su’ nove, 8
se diverti, 9 s’ingrassi, e ttorni presto.
Ôoh, evviva,
bben tornata, sor’Irene,
bben tornata una vorta, bben tornata:
che ffa? sta bbene? è stata sempre bbene?
l’aria de fora come l’ha ttrattata?
Màa,
cce ne semo prese veh de pene
pe vvia 1 de la su’ lettra aritardata!
La lontananza, ste stradacce piene
de ladri, la staggione un po’ inortrata...
E cche nnove
sce 2 dà dde quele parte?
S’è ssaputo llaggiú de sto collèra?
Uh! a pproposito: Meo 3 l’ho mmesso all’arte.
Ih! le
sciammelle! 4 Oh gguardi si 5 cche onore!
Ma llei mi vò cconfonne. 6 E in che mmaggnera 7
poterò ccompenzalla der favore?
Ma io de sta
notizzia ve ne posso
dà scòla a vvoi e a ttutto er Criminale.
Io sta notizzia la so da un canale
che nun sbajja: la so dda un pezzo grosso.
La
poterà ssapé er gammero rosso?
Pò ddí una bbuggiarata un cardinale?
Dunque quanno parl’io, soro stivale 2
nun c’è da fàmme 3 tanti conti addosso.
Su’ Eminenza
l’ha ddata ar cammeriere:
er cammeriere l’ha ddata ar decano;
e ’r decano a la sposa der cucchiere. 4
E cquesto,
che ll’ha intesa da la sposa,
l’ha ariccontata all’oste, e a mman’a mmano
l’ho avuta fresca io com’una rosa.
Sí,
ddiescianni e la picca. 2 Ma vva’, vva’:
la siggnorina ha ttrediscianni e ppiú.
Certe cose nun z’hanno da inzeggnà,
fratel caro, a nnoantra servitú. 3
La madre, in
ne li conti de l’età,
bbada sempre ar zu’ fior de ggioventú.
Ma la fede, per dio, l’ha da caccià
mo cche la fijja va ar Bambin-Gesú. 4
E ssicuro sta
fede che cce vò, 5
perché le Moniche hanno da vedé
ssi 6 la regazza è bbattezzata o nnò.
Dunque pe
st’otto ggiorni s’ha da dí
tutto er priscíso de l’età cche cc’è.
Ar nono poi nun zarà ppiú accusí. 7
«Sai ggnente,
commàr Rosa, indove stanno
le quarantóra?» «Nò, ccommar’Aggnesa;
ma adesso chiamo la sora Terresa,
che cce va ’ggni matina tutto l’anno.
Sora Terresa,
dite un po’, in che cchiesa
stanno le quarant’ora?» «Ehée, lo sanno
puro 1 li gatti. A la parrocchia; e vvanno
a Sammarco, viscin’a la Ripresa».
«Grazzie, sora
Terresa». «E de che ccosa?
Saría bbella! me faccio maravijja:
commannateme 2 puro, 1 sora sposa». 3
«Bbe’,
pperché, Aggnesa, nun me viènghi a ppijja 4
che cciannamo 5 po’ insieme?» «Eccheme, 6 Rosa».
«Sora Terresa, addio». «Bbon giorno, fijja».
Te ggiuro,
Anna Maria: quanno er padrone
se 1 vortò a bboccasotto su cquer letto,
e cquel cirusicaccio mmaledetto
se messe 2 a pprincipià l’operazione,
me fesce
un’impressione, un’impressione
che mme sentii com’una bbòtta in petto:
me s’appannò la vista, e ffui costretto
d’arrèggeme 3 tremanno a un credenzone.
Nun
bisoggnava èss’ommini 4 ma ssassi
pe vvedé sfraggellajje, poverello!,
tutt’er confin de li paesi bbassi.
Quer
mascellaro 5 sce ficcò er cortello,
che ppareva, per cristo, che ttajjassi 6
’na fetta de cularcio o de scannello.
«Sor
Cremente, e cche nnova da ste parte?»
«Vado cqui de premura in quer portone
dar curiale c’assiste er mi’ padrone
a pportajje a ffà vvéde 1 scerte carte».
«Ciavete
2 avuto ggnente a l’astrazzione?» 3
«No, pprese 4 un terno in ner libbro dell’arte, 5
ché mm’inzoggnai 6 san Pietro e Bbonaparte;
e ppoi me ne scordai com’un cojjone.
E vvoi, sor
Checco, avete vinto ggnente?»
«Psé, sse spízzica sempre quarche ccosa».
«Dio ve l’accreschi». «Grazzie, sor Cremente».
«Bbe’? e nun
pagate un cazzo a li cristiani?»
«Venite a bbéve 7 un mezzo a Ppiazza Rosa».
«E ddar curiale?» «Ciannerò 8 ddomani».
Vièttene
a la finestra, o ffaccia bbella,
petto de latte, bbocca inzuccherata,
ch’io te la vojjo fà la serenata,
te la vojjo sonà la tarantella.
Presto,
svéjjete e affàccete, Nunziata;
e ppenza ch’er tu’ povero Chiumella
dorme sempre all’arbergo de la stella,
fora de la tu’ porta appuntellata.
Perché mme
vòi lassà ttutta la notte
a ssospirà cquaggiú ccom’un zoffietto,
bbianco come la neve e le ricotte?
Tutti
l’ommini adesso stanno a lletto:
tutte le fiere stanno in ne le grotte:
io solo ho da restà ssenza riscetto!
Sì,
è stata una commedia troppa corta,
ma è stata una commedia accusí bbella,
ch’io pe ssentilla ar Monno un’antra vorta
me sce farebbe 2 strascinà in barella.
C’era una
fijja d’una madre morta,
bbona e ggrazziosa, e sse 3 chiamava Stella.
Poi sc’era un padre, una testaccia storta,
che strepitava: 4 è cquella e nun è cquella.
La parte de
sta fijja tanta cara,
senti, la rescitò ’na scerta 5 Amalia,
un angelo de ddio, ’na cosa rara.
Che pparlate!
che mmosse! tutte fatte
da intontí. 6 Bbenedetta quela bbalia
che ll’ha infassciata e cche jj’ha ddato er latte!
E otto:
ott’ora! E nnun ritorna! e intanto
me lassa 1 cqui a spirà ssur una ssedia.
Oh cche vvita! Si Iddio nnun ciarimedia 2
è mmejjo de morí che ppenà ttanto.
Ma Ggesú
mmio, ma ccroscifisso santo!,
lui co l’amichi a ccena e a la commedia,
e io, sola, tra er zonno e ttra l’inedia
nun avé antro 3 che llavore 4 e ppianto!
E a cche
sserveno mai tanti lamenti?
Ah! mme l’aveva detto mamma mia:
«Fijja, nu lo pijjà, cché tte ne penti».
Ecco cosa
vò ddí la fernesia 5
de nun volé ddà rretta a li parenti
pe sposà un omo e nun zapé 6 cchi ssia.
Quiete,
crature mie, stateve quiete:
sí, ffijji, zitti, ché mmommò vviè 1 Ttata.
Oh Vvergine der pianto addolorata,
provedeteme voi che lo potete.
Nò,
vvisscere mie care, nun piaggnete:
nun me fate morí ccusí accorata.
Lui quarche ccosa l’averà abbuscata,
e ppijjeremo er pane, e mmaggnerete.
Si ccapíssivo
2 er bene che vve vojjo!...
Che ddichi, Peppe? nun vòi stà a lo scuro?
Fijjo, com’ho da fà ssi nun c’è ojjo?
E ttu,
Llalla, che hai? Povera Lalla,
hai freddo? Ebbè, nnun méttete 3 llí ar muro:
viè 4 in braccio a mmamma tua che tt’ariscalla. 5
La padroncina
mia da un mese e ppiú
sgrinfiava 1 cor un certo petimè, 2
e spesso lo fasceva vení ssú
de sera, e lo serrava in d’un retrè.
Che ssuccede!
La madre, c’ancor’è
tosta 3 lei puro 4 e in mezza ggioventú,
s’accorge de sti lòro tettattè 5
e de sti lòro imbrojji a ttu pper tu.
Che ffa! Una
sera che llui stava llí,
pijja un scanzo, e a lo scuro se ne va
ner cammerino a ffàsse 6 bbenedí.
Finarmente la
fijja annò de llà,
e inzomma, senza che vve stii ppiú a ddí,
in ner zu’ logo 7 sce trovò Mmammà.
Sempre
accusí: le solite canzone.
Appena le galline vanno ar pollo
lui principia a sfogasse 1 cor zu’ Appollo 2
e lo scongiura a sson de calasscione.
E jje dichi
cantante a un cannarone
che ccanta in chiave de merluzz’a mmollo?
Cosa, pe’ Cristo, da tirajje er collo
eppoi fajje l’essequie der cappone.
È un
gran che de sentisse 3 in ne l’orecchie
tutta la santa notte st’anticòre!
Sai quanto è mmejjo er mal de le petecchie?
Sò
annata 4 in pulizzia ’na vorta o ddua:
e ssai che mm’ha rrisposto Monziggnore?
«Che cce volete fà? Sta a ccasa sua».
Sarà
ttísico er vostro maritaccio,
sora bbrutta maliggna sputa-fele,
ma nnò er regazzo 2 mio, ma nnò Mmicchele,
che smovería Castello cor un braccio.
Io l’ho
sscerto 3 co ttutte le gautele, 4
e in questo so bbe’ io cosa me faccio.
Mosscio a Mmicchele mio! Micchele un straccio!
Fijja, santa Luscìa occhi e ccannele. 5
Lo so io si
cch’edè: 6 rrosicarella 7
de nun avello voi; ma in questo tanto 8
squacqueraquàjjasquícquera, 9 sorella.
Tisico a
cquer gigante, a cquer campione,
a cquer colosso che ppò ddasse er vanto 10
d’un par de porzi da corcà Ssanzone! 11
E ar campo, e
ar campo, e ssempre co sto campo
tutti quanti li santi ggiuveddí!
Nun zai che ar campo dar campà ar morí,
sscemunito che ssei, ce corre un lampo?
Dichi che le
pavure io me le stampo?
Bbe’, mme le stampo, me le stampo, sí;
ma ssi 1 un giuvenco te dà addosso, di’,
chi tte difenne? indove trovi un scampo?
Cosa te
servirà ttanta ruganza,
si 1 una vaccina co cquer par de penne
te viè a scrive 2 una lettra 3 ne la panza?
Da’ rretta a
le parole de le vecchie.
Sentisse 4 attorno quelle du’ faccenne, 5
fijjo, sò 6 bbrutte purce 7 in ne l’orecchie.
Disce accusí:
«Ddomenica, vò ffà
cquarche mmossa de tempo; Luneddí,
acquarella minuta; Marteddí,
grandina a Rroma e attorno a la scittà».
Avanti.
«Mercordí, nnun t’azzardà
dd’usscí ssenza l’ombrello; Ggiuveddí,
nuvoloni pell’aria; e Vvenardí,
temporale co ggran lettrichità».
Tu ddichi:
«Un omo nun ha la vertú
de prevéde 1 er futuro». Ma pperché?
Fforzi 2 perché nnun te n’intenni tu?
Ner dà
ffora er lunario io questo so,
che nnun ponno stampà cquer che nnun è,
perché er governo je diría de no.
Arïeccheme
1 cqua, ssor Bonifazzi.
Viengo a ddivve 2 pe pparte der padrone
si jj’avete 3 legato er cammerone 4
e cquelle bbrozzodíe 5 de li regazzi.
E ddisce
ch’ecco cqui st’antri 6 du’ mazzi
de libbri c’ha ppijjato a la lauzzione 7
pe ffacce 8 un po’ de legature bbone
da risiste 9 a ’ggni sorte de strapazzi.
E disce poi
che ssenza tante sciarle
je l’incollate cor lume de Rocco 10
acciò nun ze 11 li maggnino le tarle.
E ddisce
pulizzia e ccose leste,
sinnò artrimenti nun ve dà un bajocco.
E cco cquesto salute e bbone feste.
La sorte de
chi sserve, sor Cremente.
Se 1 fatica, se tribbola, se suda,
e cquanno credi avé spuggnato Bbuda,
un carcio in faccia e nun hai fatto ggnente.
Lei la
vò ccotta e cquello la vò ccruda:
chi tte sbarza a llevante e cchi a pponente.
Sortanto in questo penzeno uguarmente,
ner mannà ssempre la famijja iggnuda.
Eh sse fa
ppresto a ppredicà er giudizzio.
Pe cconossce un cristiano in ner cimento,
bbisoggna intenne 2 che vvò ddí sservizzio.
Nun dormí
cquasi mai, maggnà l’avanzi,
ingiustizzie e bbirbate 3 oggni momento,
schiattà 4 in eterno e ppijjà ffiato a scanzi.
Smira! «In nome de
Smira»! 1 E sta parola
che ddiavolo siggnifica, Bbastiano?
T’assicuro da povero cristiano
ch’io nu l’ho intesa che sta vorta sola.
Smira! Bbisoggna
dí cche llà a Mmilano
abbino in ner discorre 2 un’antra 3 scòla.
So cch’io sto Smira me s’intorza in gola
come fussi, 4 per dio, scera de grano. 5
Quanno li
Turchi dicheno volìra,
dìra, fascìra, 6 oggnuno li capissce
ma sfido er monno de spiegà sto Smira.
Vino nun
vò ddí ccerto; 7 e mmanco pane.
Dunque ch’edè 8 sto Smira? Uhm, già ffinissce
ch’è cquarche nnome da mettésse 9 a un cane.
È una
bbella regazza scertamente:
cqui ppoi nun c’è da repricacce 1 affatto.
Lei se pò vvenne 2 p’er vero ritratto
der paradiso o ppoco indiferente. 3
L’unica
cosa..., ma nnun guasta ggnente,
pare che ffrigghi er pessce e gguardi er gatto, 4
c’abbi un occhio ar bicchiere e un antro ar piatto,
c’uno azzenni a llevante, uno a pponente.
Sí, gguarda
un po’ in ner buzzico, 5 ma cquesto,
siconno mé, l’ajjuta e jje dà ggrazzia
ppiú de la bbocca e ttutto quanto er resto.
Perché la
bbocca cor barbozzo 6 e ’r naso
pareno un chincajjúme che sse sdazzia, 7
lettre de stampa messe inzieme a ccaso.
Sto ppe ddí,
ssarv’er vero, che Ggiujano
fa assai male a sparlà ccontr’er governo;
e, ssarv’er vero, quer lòtono 2 eterno,
sto ppe ddí, nnun è azzione da romano.
Fussi 3
anche Roma, sto ppe ddí, un inferno,
e, ssarv’er vero, er diavolo un zovrano,
me parerebbe sempre c’un cristiano
nun avessi 4 da usà st’uso moderno.
Sto ppe ddí
cche Ddio è bbono, sarv’er vero;
ma a fforza de st’offese ar zu’ Vicario 5
da bbianco, sto ppe ddí, sse 6 farà nnero.
Doppo ch’er
Papa, sarv’er vero, assiste
la Cchiesa, e, sto ppe ddí, ssenza salario,
ha d’annà ssotto a ste linguacce triste?
Pio, fa’ er
zervizzio, attizza un po’ cquer lume,
ché nun ce vedo ppiú mmanco er lavore.
Me pare de stà in grotta a sto bbarlume:
me sce viè un male: me se serra er core.
Hôoh,
llaudata la lusce der Ziggnore!
Via, nu l’arzà ppoi tanto, ché ffa ffume...
Bbona notte, sor Pio. Dar fosso ar fiume:
sem’arimasti tutti d’un colore.
Tuta, 1
va’ a ccérca 2 un zorfarolo, lesta,
che ll’appicciamo cqui ddrent’ar marito. 3
Fa’ cco ggiudizzio, veh: 4 bbada a la testa.
Indove
sei?... da’ cqua... Ma, Ttuta, Pio,
che vve fate llaggiú? Bbe’, bbe’, ho ccapito:
da cqui avanti però smoccolo io.
Rïecco
1 er lume c’aripiaggne er morto! 2
Eppuro 3 è ojjo vecchio, è ojjo fino:
ce n’è ito un quartuccio da un carlino;
e da quann’arde 4 nun pò èsse 5 scorto.
6
Come diavolo
mai! pare un distìno.
Uhm! sarà ll’aria ummida dell’orto;...
eh sse 7 smorza sicuro: oh ddàjje 8 torto:
nun vedete? È ffinito lo stuppino. 9
Che
ffijjaccia c’ho io! manco è ccapasce
d’aggiustà ddu’ bboccajje! 10 eh? sse ne ponno
sentí de peggio? Aló, 11 cqua la bbammasce. 12
E da stasera
impoi, ggià vve l’ho ddetto,
vojjo un lume de ppiú ffin che sto ar monno,
e una torcia de meno ar cataletto.
Eppoi nun ho
rraggione si 1 mm’inquieto!
Guarda che strappi tiè ddietr’a la vesta!
Messa jjeri! Nun pare, bbrutta cresta,
che ssia ita a inzurtà tutto Corneto!
Eccheje er
filo e ll’aco: animo, lesta,
e ss’arinnacci subbito lí arreto. 2
Nun za llei che indov’oggi sc’entra un deto, 3
in cap’a un giorno o ddua sc’entra la testa?
Che sso...
ffussimo armeno 4 ggente ricche,
bbuggiarà! 5 E de sto passo chi sse 6 trova
che tte vojji sposà? Mmanco Bberlicche.
Io so che
quanno prese 7 vostro padre
me fésceno una vesta; e ancora è nnova
sibbè 8 ffussi uno scarto de mi’ madre.
Se pò?
1 Nnun zapería, 2 dico, è ppermesso
de poté ariverí la sora Lilla?
Cosa dirà cche vviengo a ffavorilla
e a ddajje sto disturbo propi’ adesso?
Anzi,
Bartolomeo sempre me strilla
che vviengo a incommidalla accusí spesso.
Ma io nun je do udienza; e ar temp’istesso
me sapeva mill’anni de stordilla.
E er zu’
siggnor conzorte che jje scrive?
Uh! è mmorto?! E cche vvò ffà? cce vò ppascenza.
E le pupette 3 sue sò 4 ancora vive?
E llei in che
mese sta? Ggià sta in ner quarto?!
Bbadi, c’adesso curre 5 un’infruenza
che ttuttequante moreno 6 de parto.
Tuttiquanti a
Ppalazzo lo vederno. 2
Un gran Ministro d’una gran Potenza 3
venne a Rroma a pparlà cco Ssu’ Eminenza
er Zegretar-de-Stato de l’isterno.
Er Cardinale
preparò un quinterno
de carta bbianca, e ppoi je diede udienza;
e cce tenne una gran circonferenza 4
sopra a ttutti l’affari der governo.
Tra
llòro se 5 trattò dder piú e der meno;
e scannajjorno 6 l’ummido e l’assciutto,
er callo e ’r freddo, er nuvolo e ’r zereno.
Arfine er
Cardinale uprí la porta,
discenno: 7 «Evviva, è ccombinato tutto:
ne parleremo mejjo un’antra vorta».
Stamo
ubbidienti, rispettosi, quieti,
contenti prima e ppiú ccontenti doppo,
tutto quer che vve pare; ma li preti,
sor Don Craudio, da noi ne vonno troppo.
Sò
ttroppi 2 farisei, tropp’indiscreti,
ner parlà vvanno troppo de galoppo,
hanno troppe bbuscíe, 3 troppi segreti,
sò ttroppi deggni d’assaggià lo schioppo.
Ma ssi 4
cc’è in paradiso un Padr’Eterno,
lòro a sto monno sce li tiè ppe sseme
de le rape dell’orto de l’inferno.
Cos’è?
ccosa ve dite, sor Don Craudio?
Anneremo a l’inferno tutti assieme?
Ebbè, mmale cummune è mmezzo gaudio.
Me maravijjo
assai: lei me fa un torto.
Perché sti comprimenti, sor Giuvanni?
Questa è ssu’ riverèa: 1 lei me commanni:
lei è er mi’ bbon padrone e vvivo e mmorto.
Puro 2
lo sa er rispetto che jje porto,
lo sa cche jj’approfesso obbrighi granni:
lei me manni a l’intíbbodi, 3 me manni,
me parerà ’na spasseggiata all’orto.
Ma cche
ddisce; je pare! se figuri!
Ggnente, minchionerie, tutte ssciapate:
io pe sservilla sfonnería li muri.
Lei se fidi
de mé: llei pe imbassciate
dormi 4 li sonni sui quieti e ssicuri,
e vvederà cchi è Ppeppe l’Abbate. 5
«Pfch: mamma,
oh mamma». «Ahó». «Mmamma». «Che hai?» 2
«Pijjateme la pippa 3 accapalletto, 4
e sporgeteme ggiú ppuro 5 un papetto».
«E sto papetto mó cche tte ne fai?»
«E a vvoi che
vve ne preme de sti guai? 6
Voi abbadate a ffà cquer che vv’ho ddetto,
e nun state a sfassciamme er ciufoletto».
«Dímme armeno 7 a cquest’ora indove vai».
«Dove me
pare». «Ah Nnino!...». «Ôh, pprincipiamo».
«Ma ffijjo!...». «Ebbè, vvado a mmaggnà la trippa».
«E cco cchi?» «Cco li zoccoli d’Abbramo».
«Ggià
annerai co le solite zzaggnotte...». 8
«Ma inzomma, sto papetto co sta pippa?»
«Eccolo. E cquanno torni?» «Bbona notte».
Er Papa, er
Visceddio, Nostro Siggnore,
è un Padre eterno com’er Padr’Eterno.
Ciovè 1 nun more, o, ppe ddí mmejjo, more,
ma mmore solamente in ne l’isterno.
Ché cquanno
er corpo suo lassa er governo,
l’anima, ferma in ne l’antico onore,
nun va nné in paradiso né a l’inferno,
passa subbito in corpo ar zuccessore.
Accusí
ppò vvariasse 2 un po’ er cervello,
lo stòmmico, l’orecchie, er naso, er pelo;
ma er Papa, in quant’a Ppapa, è ssempre quello.
E ppe cquesto
oggni corpo distinato
a cquella indiggnità, 3 ccasca dar celo
senz’anima, e nun porta antro 4 ch’er fiato.
«A la
grazzia, sor Meo. Dove se 2 va?»
«A l’uffizzio dell’àrberum». «De che?»
«Dell’àrberum». «E st’àrbero ch’edè?» 3
«È un coso che sse stampa in du’ mità». 4
«E cche
cc’è ddrento?» «Un po’ de sciarle, e ttre
ddiseggni». «E cche ddiseggni?» «Antichità,
papi, animali, pezzi de scittà,
fori, cchiese, osterie, pupazzi, 5 re...».
«E
cc’è ttutta sta robba?» «Siggnor zí».
«E cquann’essce?» «Oggni sabbito ar Gesú». 6
«Chi lo fa?» «Questo poi nu lo so ddí».
«E cquanto
costa?» «Un grosso». «Dichi tú». 7
«Da cristiano». «Oh cche ccosa ho da sentí!
Un grosso un papa!». «E ccalerà de ppiú».
Díteme,
è vvero o nnò, ssora Checchina,
quer c’ho ttranteso pe cciarabbottana, 3
che vvolete da mé una canzoncina
sur gusto d’un zonetto a la romana?
Fijja, e
ssippuro 4 sto una sittimana
penzanno inzin’a ssabbito a mmatina,
che vvolete che ffacci? 5 Una funtana
acqua ve la pò ddà, mma nnò ffarina.
Voi co cquer
par d’occhietti da Serena, 6
che ssò vvaga 7 de pepe, oggni perzona
v’immagginate de mettélla 8 in vena.
Ma io, prima
che abbi la furtuna
de cantà in povesia, la mi’ canzona
ha da ssceggne 9 dar monno de la luna.
Ma eh? vvatte
a ffidà de scerte facce
províbbite! 2 eh? cco cquella ipogrisia!
Inzomma a mmé mme s’è pportata via
una coràla 3 e ddu’ par de legacce.
Disce:
«Sor’Anna, me pijjo quattr’acce
de filo?» Dico: «Sí». Ppoi, sposa 4 mia,
co la cosa 5 che cc’era Annamaria
io nun ebbe la dritta 6 de guardacce. 7
Capisco,
quarche vvorta una s’acceca.
Ma ppuro 8 a le legacce e a le corale
ce s’ha adesso da mette 9 l’impoteca?
S’avería da
fà ssempre er muso bbrutto?
Nun c’è ppiú rriliggione: eccolo er male.
Semo in terra de ladri: è ddetto tutto.
Io compatisco
assai chi nun ha intesa
la Bbettini a la Valle. Ah, ssi 1 la senti!...
Bbast’a ddí cche sti nobbili scontenti 2
sce 3 stanno zzitti come fussi 4 in chiesa.
Jer’a ssera,
5 a li su’ scontorcimenti,
e in ner vedella su cquer letto, stesa,
io sciò 6 ssudato freddo, e mme sò 7 ppresa
la mi’ povera lingua tra li denti.
Sori romani
mii, ve do un avviso.
Quella nun è una donna de sto monno:
è una fetta der zanto paradiso.
L’oro?
È ppoco pe llei. Nun è ppremiata.
Dunque che je daressi? 8 Io v’arisponno:
la gujja de San Pietro imbrillantata.
«Ôh ssor
dottore». «Ebbene? l’ammalata?»
«Eh, un’ora fa mme la sò vvista bbrutta». 2
«Perché?» «Pperché ss’era intisíta 3 tutta».
«Niente: un poco di febbre risaltata».
«L’ha presa
quella roba?» «L’ha ppijjata».
«Brava. E... dicevo... il vescicante?» «Frutta».
«Bene. Dov’è l’orina?» «Uh! ll’ho bbuttata».
«Ma, figliuola, l’orina, non si butta».
«Nun penzi:
da cqui avanti je la lasso».
«Brutta lingua!». «Ce vò er vommitativo?»
«Stiamo a vedere come va da basso».
«E cquanno lo
dirà?». «Quando ritorno».
«Tratanto posso fajje un lavativo?»
« Fatelo. E ci vedremo un altro giorno».
Filiscissima
notte a llòr ziggnori.
Come va er zor Cristòfino? ha sfebbrato?
Oh mmanco male, via. E li dolori?
Sia laudato Ggesú ssagramentato!
Se pò
entrallo a vvedé? 1 Ss’è appennicato? 2
Zitto dunque: nò, nnò, stamo cqui ffori;
e vve possi dormí ssenza rimori 3
quínisci ggiorni e ppiú ttutt’in un fiato. 4
Mó, vve lo
posso dí, ssora Grigoria:
io quell’omo l’ho vvisto e nun l’ho vvisto. 5
Bbasta, oramai se pò 6 ccantà vvittoria.
In zei
ggiorni j’ho ffatto tre nnovene,
dua a la Madonna e una a Ggesucristo.
Ma llòro poi se sò 7 pportati bbene.
Hanno oggnun
de li dua la su’ magaggna.
Cattiva mojje e ccattivo marito.
Lui sempre muto e vve commanna a ddito;
e llei strilla oggnisempre e vve se maggna.
Lui fa er
rondone 2 pe ppiazza de Spaggna: 3
lei sempre se ne va ccor zu’ patito. 4
Inzomma, scerti 5 mòbbili, è ffinito,
er Ziggnore li fa, ppoi, l’accompaggna.
Nun
pòi crede 6 che rrazza de gammone 7
se pijjeno 8 e cco cche ddisinvortura,
quela saràca 9 e cquer palamidone. 10
Eppuro,
11 ortre che mmetteno pavura,
sò ddu’ frutti oramai for de staggione,
sò un tantino passati de cottura.
Quante disputeríe!
Senti che gghetto 2
per un gnente! 3 Me pare la questione
de fra Ccucuzza e ’r vecchio Simeone.
Er fatto eccolo qui ssémprisce e schietto.
Jer’ar
giorno, Taddeo, Pio e Leone,
tutt’e ttre sse n’annàveno a bbraccetto,
quann’ècchete 4 una tevola da un tetto
che tt’acchiappa 5 Taddeo sur coccialone. 6
Leone
sartò indietro e ddisse a Ppio:
«Attaccàmosce 7 er voto tutt’e ddua,
ch’è stato un gran miracolo de Ddio».
Taddeo,
allora, che ffasceva un sguazzo 8
de sangue, repricò ppe pparte sua:
«Sí, è stato un ber 9 miracolo der cazzo».
«Sei stato oggi
a vvedé la priscissione?»
«Che ddimanna! ce sò stato sicuro.
Tu cce sei ito?» «Sce sò ito io puro». 2
«Che tte n’è pparzo?» 3 «Gran bella funzione!».
«E in che
ssito l’hai vista?» «Llí ar cantone
tra Bbanchi e Pponte, arrampicato ar muro
su ’na ferrata. E ttu? Ggià, mme figuro
da la tu’ sgrinfia».4 «No, ddrent’un portone».
«Dunque c’hai
visto? di’, li mi’ stivali?»
«Defatti nun ho vvisto che le teste
der zanto Padre e dde li Cardinali».
«Oh vvatte a
ffà impiccà! Mma sse ne dànno
piú mminchione e rridicole de queste?
J’hai visto propio quello che nun ciànno?!». 5
Cosa fa er
Papa? Eh ttrinca, 1 fa la nanna, 2
taffia, 3 pijja er caffè, sta a la finestra,
se svaria, 4 se scrapiccia, 5 se scapestra,
e ttiè Rroma pe ccammera-locanna. 6
Lui, nun
avenno fijji, nun z’affanna
a ddirigge 7 e accordà bbene l’orchestra;
perché, a la peggio, 8 l’úrtima minestra
sarà ssempre de quello che ccommanna.
Lui l’aria,
l’acqua, er zole, er vino, er pane,
li crede robba sua: È tutto mio;
come a sto monno nun ce fussi 9 un cane.
E cquasi
quasi godería sto tomo 10
de restà ssolo, come stava Iddio
avanti de creà ll’angeli e ll’omo.
L’unniscésima
vorta ch’io sciaggnéde 1
ebbe 2 arfine la grazzia de l’udienza;
e cche vvòi!, 3 ner trovàmmeje 4 in
presenza
fui llí llí cquasi pe bbasciajje er piede.
Poi je disse:
5 «Lustrissimo, Eccellenza,
nassce de cqui ffin qui, ccome pò vvede 6
dar momoriale che ppò ffajje fede 7
de la ggiustizzia a scàpito innoscenza». 8
Lui stava
quieto; e io: «Dov’è er dilitto?
C’ha ffatto er fijjo mio? fora le prove:
nun parlo bbene?». E Mmonziggnore zzitto.
Ner mejjo der
discorzo, er carzolaro
venne a pportajje un par de scarpe nove,
e mme mmannòrno 9 via com’un zomaro.
«Come sta,
Nnino, la commar Celeste?»
«Pe stà 1 sta bbene, ma cquell’occhi cani
j’hanno tanto infarzito, sor Oreste,
che mmanco ariconossce li cristiani. 2
V’abbasti a
ddí cche prima de ste feste
un giorno sott’all’arco de pantani
pijjò un par de somari co le sceste 3
pe ’na coppia de frati francescani».
«Ma mme dichi
davero o mme canzoni?»
« È vvangelio: du’ asini bbadiali 4
li bbattezzò ppe ffrati bbelli e bboni».
«Dunque, o
all’occhi nun cià 5 ttutti sti mali,
o cquer giorno che vvedde 6 li torzoni
lei guardava le cose co l’occhiali».
Er ber zentí
2 è la folla de paíni, 3
quanno ch’essce la folla da la Valle. 4
«Chi è cquella?». «Bbenemio, 5 cche ppar de spalle!
Guarda sta vecchia come spaccia inchini!».
«Ecco ecco er
novo duca Sceserini. 6
Chi appoggia?». «Ohé, vve piasce quelo sscialle?
Ggià mme capite...». «Oh ddio quanto sò ggialle
ste regazze!... E pperché? Nu l’indovini?».
«La Contessa
stasera sta in brillanti».
«Di’ ffonni de bbicchieri». «Uh, vvedi vedi:
passa la scuffiarina. E mmamma avanti!».
E intanto che
ss’aspetta la carrozza,
tra er gioco de le mane e de li piedi
la Compaggnia de San Martino 7 abbozza. 8
Quello
è Ssant’Antonin de Portoghesi.
Sta strada larga è la Scrofa, 1 miledi;
che vva a Rripetta e ar Popolo, e da piedi
termina a Ssan Luviggi de Francesi.
Ècchesce
2 a la Stelletta, 3 e cqui, llei vedi,
trova leggni pe ttutti li paesi.
Qua ss’entra a Ccampo-Marzo. 4 E ll’antri mesi? 5
L’antri mesi er Ziggnore li provedi.
Quell’è
er teatro Palaccorda; e cquelli
che stanno un po’ ppiú ggiú, ssò ddu’ palazzi,
chiamati de Negroni e de Cardelli.
Ecco er
palazzo de Fiorenza; e infatti
ce sta er Cònzole; e llà er Palazzo Pazzi, 6
dove una vorta sc’ereno li matti.
Che
rriliggione! è rriliggione questa?
Tuttaquanta oramai la riliggione
conziste in zinfonie, ggenufressione,
seggni de crosce, fittucce a la vesta, 1
cappell’in
mano, cenneraccio in testa,
pessci da tajjo, razzi, priscissione,
bbussolette, 2 Madonne a ’ggni cantone,
cene a ppunta d’orloggio, 3 ozzio de festa,
scampanate,
sbasciucchi, 4 picchiapetti,
parme, 5 reliquie, medajje, abbitini, 6
corone, acquasantiere e mmoccoletti.
E ttratanto
er Vangelo, fratel caro,
tra un diluvio de smorfie e bbell’inchini,
è un libbro da dà a ppeso ar zalumaro. 7
Mojje mia
mojje mia, che ha rriccontato
che ha rriccontato er medico ar padrone!
Ggnente meno ch’è usscita un’invenzione
d’un certo sor Girolimo Segato,
ir quale sor
Girolimo ha ppijjato
tanti pezzi de carne de perzone,
e ccià ffatto a Bbelluno un tavolone
tutto quanto de màrmoro allustrato.
Senti,
Vincenza, e nnu lo dí 1 a ggnisuno:
volémo méttese 2 un fardello addosso
e zzitti zitti annàccene 3 a Bbelluno?
Chi ssa,
Vvincenza mia, che cquer ziggnore
nun fascessi 4 er miracolo ppiú ggrosso
d’impietritte 5 la lingua uguale ar core? 6
Tra Vviterbo,
Bbaggnaja, Vitorchiano,
Bbomarzo, Viggnanello e cquer contorno
lei sce stiede du’ mesi, 1 e ar zu’ ritorno
portò a Rroma un pretoccolo tarpano. 2
Questo, p’er
taffio 3 e un pavoletto ar giorno
la serve da bbuffone e ccappellano,
e la diverte co le carte in mano
da doppo colazzione a mmezzoggiorno.
Ar tôcco
4 in punto ha da passà in cappella,
méttese 5 la pianeta e stà aspettanno 6
er commido 7 de lei su la pradella. 8
Pòi
figuratte 9 quann’è stato un’ora
morennose 10 de fame e sbavijjanno,
le segrete c’affibbia 11 a la siggnora.
Ne
l’entrà ccor messàle in zagristìa
e nner ridallo 1 ar chirico Mazzola, 2
dico: «Cosa vò ddí, 3 ppadre Mattia,
In principio eratverbo?» «Eh sor Nicola»,
disce er
frate, «in che ddà sta fantasia?».
(e bbasciava la crosce de la stola).
Dico: «Ebbè ddunque?». Disce: «Andiamo, via,
vò ddí cch’era in principio una parola».
«E sta parola che ccos’era?», dico.
Disce: «Era inzomma quer ch’era a un dipresso
la santa riliggione a ttemp’antico».
Dico: «E cchi
sse n’intenne de sti guai?
Ner principio era una parola, e adesso
è un chiacchierà cche nun finissce mai!».
Bbasta, a
fforza d’erlíquie 1 e dd’aggnusdei
sopr’a la panza, arfine stammatina
verzo diesciòra 2 ha ppartorito Nina,
e ha fatto un maschio ppiú ggrosso de lei.
Dico la
verità, ssora Ggiustina,
io n’ho ffatti a sto monno ventisei,
ma pprima d’ariassiste 3 ppiú ccolei
ne vorebbe arifà ’n’antra duzzina. 4
Se 5
discorre che cquella craturaccia
doppo nov’ora 6 de prèmiti e ddojje,
s’è appresentata ar búscio 7 co la faccia.
Llí immezzo,
díllo tu, Mmastro Filisce,
quer gruggnetto der fijjo de tu’ mojje
nun pareva un’immaggine in cornisce?
Io nun zo
ccosa v’annate scercanno
co l’arzà ttutt’er giorno tanti pesi.
Nun zapete che state in zette mesi?
Ve volete sconcià ccome l’antr’anno?
Ggià
ssete avvezza in quell’antri paesi
dove se porta lo spadino e ’r panno; 1
ma cqui ccerte fatiche nun ze fanno:
cqua nnoi semo romani e nnò arbanesi.
Quest’aria
nun è aria da villani.
Noi nun zemo facchini, io ve l’ho ddetto:
noi pe ggrazzia de ddio semo romani.
Er crima
nostro è un crima bbenedetto
indove oggi te scarmi? 2 ebbè ddomani
sta’ ppuro scerta 3 che tte metti a lletto.
E ddoppo che cquer povero cojjone
de Chiaramonti abbandonò er governo
pe annà a Ppariggi in ner cor de l’inverno
currenno 1 tanto che cciarzò er fiatone, 2
er zu’ fijjo,
er zu’ caro Napujjone,
ch’er diavolo lo frigghi in zempiterno
ne la peggio padella de l’inferno,
je fesce bbontà ssua sta bbell’azzione.
Tra un
Deus, un ajjo, un toro, e Mmeo m’intenne,
e un Dommino a jjuvanni e mme festina,
s’incoronò da sé!, ddeograzzia ammenne. 3
Che rrazza de
creanze, eh? cche mmodestia!
Eppoi ppe ggionta, 4 je vortò la schina 5
senza dijje né asino né bbestia. 6
Sò
1 mmassime cattive. Nun me piasce
a mmé de véde 2 disprezzà la ggente.
S’ha da trattà cco ttutti ggentirmente
chi li su’ ggiorni li vò vive in pasce. 3
Fijja, a sto
monno un omo ch’è ccapasce
de fà un sgarbo a un antr’omo, è un inzolente,
è un screanzato, nun merita ggnente,
è un omo da sfuggí ccome la bbrasce. 4
Perché
cquello va in chiesa la matina
rubbanno quarche orloggio o ffazzoletto
c’entra de stajje 5 a ffà ttanta marina? 6
Bbisoggna
compatillo, poveretto.
Cosa disce er proverbio, sora Nina? 7
«Ama l’amico tuo cor zu’ difetto».
Jerzéra
Amalia 2 in ne la parte d’Anna
me mannò ttanto la corata 3 in giro,
che mme fasceva ritené er respiro,
me fasceva tremà ccome una canna.
Che ddiavola
de donna! A un zu’ sospiro
v’intontite, 4 la vista ve s’appanna,
paréte un reo c’aspetta la condanna,
un omo che jje dichino: te tiro.
Che ne so!
sse 5 fa bbianca, se fa rrossa,
muta finosomía, càmmia 6 la vosce,
diventa fina fina, grossa grossa...
Cosa, inzomma,
da vénnese in galerra: 7
cosa da fasse 8 er zeggno de la crosce,
e ssalutalla co un ginocchio a tterra.
Bbe’ tte
l’hanno ammazzato: ma, ccommare,
nun era peggio de morí 1 in priggione?
Fijja, bbisoggna fasse 2 una raggione:
nissuno pò mmorì ccome je pare.
L’affare de
la morte è un cert’affare
che nun ze spiega. 3 Vedi Napujjone
ch’è stato quer ch’è stato? Ebbè, er padrone
de la terra nun morze 4 immezz’ar mare?
Chi la
pò pprevedé sta morte porca?
Se more 5 a lletto suo, a lo spedale,
in guerra, all’osteria, sur una forca...
Certe cose le
regola er Ziggnore.
La morte è in man de Ddio. Se 6 sa, ffijjola,
dove se nassce e nnò ddove se more.
Pe
cconzolamme 1 eh oggnuno me conzola:
«E ddatte pasce, 2 e nun piaggne, Sabbella, 3
e che vvòi fà?...». 4 Ma intanto io poverella
sento ’na mano che mme striggne in gola.
Se 5
fa ppresto a infirzà cquarche pparola
quanno la man de Ddio nun ce fraggella.
Tutti sò bboni a ppredicà, ssorella,
ma la disgrazzia mia la sento io sola.
Chi lo poteva
immagginà che ffossimo
a ccerti tempi de morí scannati
pe amà er Ziggnore e ppe ffà bbene ar prossimo?
Lo sa adesso
er mi’ povero marito
che, in sconto forzi 6 de li mi’ peccati,
è ffinito accusí ccom’è ffinito.
Llí
cc’è ttrattoreria dove godete
bbon locale, aria uperta e bbella vista;
e in tutta libbertà ppranzate a llista
sino c’avete fame e avete sete.
Llí, ttutti
inzieme, la regazza, er prete,
l’omo, la donna, er nobbile, l’artista,
er medico, er curiale, er computista,
fate caggnara, cantate e rridete.
Poi ve
n’annate ar lago e ppe la villa,
e dda per tutto trovate chi mmaggna,
chi ggiuca a ppalla, chi ccurre e cchi strilla.
Cqua sse
1 bballa a l’usanza der paese,
là er pallone, 2 l’orchestra, la cuccaggna...
Viva er core der Prencipe Bborghese!
E
ddàjjela cor trotta e ccor galoppa! 1
Io v’aritorno a ddí, ppadron Cornelio,
ch’er famoso caval de Marc’Urelio
un antro po’ ccasca de quarto o schioppa. 2
Er zor Don
Carlo Fea, jjeri, e nun celio,
ce stava sopra a ccianche 3 larghe in groppa,
e strillava: «Si 4 cqua nnun z’arittoppa
se 5 va a ffà bbuggerà ccom’un Vangelio». 6
L’abbate
aveva in mano un negroscopico 7
e ssegguitava a urlà ppien de cordojjo:
«Cqua cc’è acqua, per dio! questo è rritropico». 8
Disce inzomma
che ll’unica speranza
de sarvà Marc’Urelio in Campidojjo
è er fajje una parèntisi 9 a la panza.
Stateme a
ssentí bbene: è mmejjo ar monno
perde 1 ner faticà cquadrini e ppeggno,
tirà lo schioppo e mmai nun cojje 2 a sseggno,
méttese 3 a ggalla e ccalà ssempre a ffonno.
È
mmejjo lavorà ssenza un ordeggno,
tené un turaccio quadro e un búscio 4 tonno,
ggiucà pp’er prim’estratto e usscí er ziconno,
avé ccortel de scera 5 e ppan de leggno.
È
mmejjo d’annà a lletto quann’hai fame,
maggnà er presciutto pe smorzà la sete,
cuscinà in batterie cor verderame.
È
mmejjo sbatte 6 er muso a le colonne,
dormí cco un frate e lliticà cco un prete
che innamorasse 7 de vojantre 8 donne.
Díllo,
visscere mie de ste pupille:
di’, ccore, chi vvò bbene a Mmamma sua?
Uh ffijjo d’oro! E cquanti sacchi? Dua?
Du’ sacchi? E Mmamma sua je ne vò mmille.
No, bbello
mio, nu le toccà le spille:
sta’ attenta, sciscio, 2 che tte fai la bbua.
Oh ddio sinnóe! Oh ppòvea catúa! 3
S’è ppuncicato la manina Achille!
Guarda,
guarda er tettè, 4 ccocco mio caro...
Bbe’, er purcinella, sí... Nno, er barettone... 5
Ecco la bbumba, 6 tiè... Vvòi er cucchiaro?
Ôh, zzitto
llí, cché mmó cchiamo bbarbone,
e vve fo pportà vvia dar carbonaro
che vve metti 7 in ner zacco der carbone.
Nun è
vvero, commare, che sta fijja,
nò pperch’è ffijja mia, ma è un pezzo d’oro?
Ôh in questo tanto, pe ssarvà er decoro,
è inutile, ggnisuno l’assomijja.
Checca, nun
fo ppe ddí, cchi sse la pijja,
nun è vvero, Luscía?, trova un tesoro.
Nun conossce antro 2 che ccasa e llavoro;
pare inzomma una madre de famijja.
Pe
ddivozzione poi!... C’è Ffra Ssincero
che vorebbe sonajje le campane.
Che angelo, eh commare? nun è vvero?
Lei je facci
una ruzza co le mane,
e vvederà ssi 3 ne capissce un zero.
Eh, a ccasa nostra nun ce sò 4 pputtane.
Dunque la fin
der pranzo nu la sai?
Un po’ ppiú sse 1 pijjaveno a ccazzotti.
Pe ’na mezza parola se sò 2 rrotti
che gguai a llui si cciaritorna, 3 guai!
«Nò»,
strillava er padrone, «nò, mmai, mai:
caluggne de vojantri patriotti: 4
li Dottori sò stati ommini dotti,
e Ggesucristo j’è obbrigato assai».
E cquello
risponneva: «Eh, Monziggnore,
abbadi come parla. Io nun zò 5 aretico,
ma ppoteva sbajjà ppuro 6 un Dottore».
«Che?»,
rrepricava l’antro: 7 «ggnente, ggnente:
lei, siggnore, è un gismatico, 8 è un asscetico,
9
un uteràno 10 marcio, un biscredente». 11
Questo ve
posso dí, cch’io ho incontrato
er mortorio ar canton de la Corzía, 1
co ssei torce, ’na mezza compaggnia,
venti frati e otto preti ortre ar curato.
Der restante
è una bbella porcheria
st’usanza der cadavero incassato.
Oh vvedete si 2 un morto trapassato
nun z’abbi da capí cchi bbestia sia!
Drento una
cassa che nun cià ggrillanna, 3
né llibbroni, né ggnente, oh vva’ a rrisponne 4
si cche rrazza de morto Iddio ve manna! 5
Armeno 6
chi ha ddu’ deta 7 de scervello
ciavería da fà mmette 8 pe le donne
una scuffia e ppell’ommini un cappello.
Sentite cosa
avessimo 1 da pranzo.
Zzuppa a mminestra cor brodo di pollo
der pollo allesso: arrosto di ripollo... 2
Ah, un passo addietro: ci fu ppuro 3 ir manzo.
Pessce fritto
pescato a pporto d’Anzo 4
co ggobbi e ppezzi de merluzz’a mmollo:
ummido d’un crapetto 5 senza ir collo,
c’affogò 6 ttutti e nn’arrestò 7 d’avanzo.
Una pizza, un
cappone di galerra,
che ppell’ommini nostri fu una cosa
che cci saríano annati sotto terra.
Frutti,
miggnè, 8 ’na frittata roggnosa,
cascio e fformaggio; 9 e tterminò la guerra
s’un piattón di confetti de la sposa.
Sto correttor
de stampe 2 che ccorregge
li latini ar zomàro in d’un porcile,
disce che ll’arte der pilaro è vvile
com’è vvile la greta che l’arregge. 3
Eh, ssi
4 ar Monno voléssino protegge
li talenti e l’innustria, er fà le pile
diventerebbe un’arte siggnorile
quant’er mistiere de lo scrive e llegge. 5
Va’ a ccérca allora er principio dell’arte!
Neppuro Napujjone era un Ziggnore
e ccor tempo se fesce 6 Bbonaparte.
E Rroma? In
vita mia l’ho ssempre intesa
nata da quattro ladri senz’onore;
e mmó è ssanta e cc’è er capo de la cchiesa.
Ma eh? Cquer povero
Avocato Cola!
Da quarche ttempo ggià ss’era ridotto
che ssí e nnò aveva la camìscia sotto,
e jje toccava a ggastigà la gola.
Ma ppiuttosto
che ddí cquela parola
de carità, ppiuttosto che ffà er fiotto, 1
se venné 2 ttutto in zette mesi o otto,
for 3 de l’onore e dd’una ssedia sola.
Mó un scudo,
mó un testone, mó un papetto,
se maggnò, 4 ddisgrazziato!, a ppoc’a ppoco
vestiario, bbiancheria, mobbili e lletto.
E ffinarmente
poi, su cquela ssedia,
senza pane, senz’acqua e ssenza foco,
ce serrò ll’occhi e cce morí dd’inedia. 5
Da un par de
mesi in qua sto sor Giuanni
me dà gguai e mme scoccia li cojjoni.
Dunque bbisognerà cche lo bbastoni;
e cquasi quasi è mmejjo che lo scanni.
A nnoi.
Quant’anni ha er Papa? Ha ssettant’anni.
Va bbene: è vvecchio. Settant’anni bboni 2
sò 3 un passaporto pell’antri carzoni, 4
tanto ppiú ssi ssò 5 uniti anni e mmalanni.
Tempo, amico.
Per ora te sopporto;
ma ssi 6 er Papa dà ggiú, 7 ddove te trovo
te lasso freddo. Er conto è ccorto corto.
Meno, scappo,
sò ppreso, er Papa more,
viè er concrave, se 8 crea er Papa novo,
fa le grazzie, e mme n’esco con onore.
Prima 2
la corda ar Corzo era un supprizzio
che un galantomo che l’avessi 3 presa
manco era bbono ppiú a sserví la cchiesa,
manco a ffà er ladro e a gguadaggnà ssur vizzio.
Finarmente li
preti, c’hanno intesa
la raggione, in quer po’ de frontispizzio 4
ce fanno arzà una fetta de difizzio; 5
ma cchi ll’arza, pe mmé, bbutta la spesa.
Come se po’
6 ttrovà ggente bbalorda
che vvojji mette 7 er letto indove un giorno
passava propio er trave co la corda?
A mmé mme
parerebbe a un bon bisoggno
de vedemme oggni sempre er boja attorno,
e cqueli laggni de sentilli in zoggno.
S’io fussi
2 Re, ss’io fussi Imperatore,
s’io fussi Papa, voría fa 3 una lègge, 4
c’a la commedia indove quella legge 5
nun ciavessi d’annà 6 cchi avessi 7 er core.
Disce:
correggi. E ccosa vòi corregge, 8
si 9 è ttutto quanto un zacco 10 de dolore?
Sangozzi, 11 piaggnistèi, smanie, furore...
Nun ce s’arregge, 12 via, nun ce s’arregge.
Ma la
commedia nun zarebbe ggnente:
er peggio male 13 è cquela prima donna, 14
c’òpre bbocca e mmorite d’accidente.
È ttanta
strazziavisscera 15 costei,
ch’io me la pijjerebbe con zu’ nonna 16
c’ha ffatto la su’ madre pe ffà llei. 17
Currete,
donne mie; currete, donne,
a ssentí la gran nova c’hanno detto:
c’a la Pedacchia, ar Monte, e accant’a gghetto
arïoprono l’occhi le Madonne. 1
La prima nun
ze sa, 2 ma jj’arisponne
quella puro de Bborgo e dde l’Archetto.
Dunque dateve, donne, un zercio 3 in petto,
e ccominciate a ddí ccrielleisonne.
Oh ddio: che ssarà mmai st’arïuperta 4
doppo trentasei anni e mmesi d’ozzio?
Bbattajje, caristie, rovina scerta. 5
Se troveno
6 però ccert’indiscreti
che vvanno a bbisbijjà che sto negozzio
è un antro bbutteghino 7 de li preti.
Sor oste, una
fujjetta der piú pprezzo,
e evviva sempre er Governo papale!...
Bbravo, padron Cammillo... nun c’è mmale.
Presto, corpo de Ggiuda!, un antro mezzo.
Bbono, pe
Ccristo! e vvali quer che vvale,
e Ddio sce lo mantienghi per un pezzo...
Bbono! e accidenti a mmé ssi lo bbattezzo.
Sú, alegramente, cqua, n’antro bbucale.
Viva er Papa,
e ’r malocchio nun ce pòzzi.
Ggiú, a la salute de la Santa Cchiesa.
Vino, cazzo! Aló, bbeve, Tuttibbozzi, 2
tocca, fijjo,
e ddà ssotto inzin che vvòi.
Trucchia, sagrato!, e nun badà a la spesa,
ché adesso a Rroma commannamo noi.
Avanzanno
1 la Cammera una bballa
de quadrini da un Duca trappolaro
je spidí 2 ttre ccurzori cor un paro
de schertri 3 in scuderia pe ppiggnoralla.
Entrò
infatti er zinèdrio in ne la stalla,
e azzecca un po’ cche cce trovò? Un notaro,
che svitato er zu’ bbravo calamaro
j’incartò una protesta calla calla.
Privileggi,
arme, titoli, patente!,...
inzomma li tre ppoveri curzori
ciànno 4 perzo l’impiego alegramente.
Ecco er
Governo der zagro Colleggio!
Quanno sce sò 5 de mezzo li siggnori,
tradillo è mmale e nnun tradillo è ppeggio.
Ma cche
ppassione avete, sor’Ularia, 1
de tené ssempre sta finestra chiusa?
Nu la sentite cqui cche ariaccia uttusa? 2
Eh vvia, uprite, rinovate l’aria.
S’intenne:
3 un corp’umano che nun usa
d’avé l’aspirazzione nescessaria,
l’antimosfera je se 4 fa ccontraria,
e ssi 5 ppoi s’accerota nun ha scusa.
Ecco da che
ne nassce, sciorcinata,
che vv’è vvienuta l’istruzion de fedico: 6
dall’aria che vve sete nimicata.
Aria e ssole
sce 7 vonno: io ve lo predico,
perché vve vedo stà ttroppa attufata. 8
Dov’entra er zole, fía, 9 nun entra er medico.
L’amore d’una
donna io te lo do
a uso de quadrini e ssantità;
credilo sempre metà ppe mmetà.
Pijjelo, e ttira via come se pò. 1
Er bene che
llei disce che tte vò,
e ttutte le sscimmiate 2 che tte fa,
quarche vvorta ponn’èsse 3 verità,
e cquarche vvorta e un po’ ppiú spesso nò.
Indove
l’occhio tuo nun pò vvedé
ssi 4 cce n’è un po’ de meno o un po’ de ppiú,
quint’azzecca, 5 Matteo, quanto sce n’è.
Co le donne
hai da fà ccome fai tu
quanno bbevi favetta pe ccaffè:
striggni le labbra, e bbon zuàr monzú.
Se pò
ddà ssu la terra una tetraggine
compaggn’a la Madonna der Croscifero?
Sor pittore mio caro, io ve lo spifero: 1
schiavo sempre a la vostra cazzacciaggine.
Co cquer naso
affilato come un pifero,
co cquer color de sugo de burraggine,
pare er ritratto (sarvanno 2 l’immaggine)
de la mojje arrabbiata de Luscifero.
St’assomijjanza
me fa ttanto stacolo 3
ch’io che mme trovo in mano de scirusico
guasi ho scrupolo a cchiedeje 4 un miracolo.
Sai che
5 rraggione ha llei? ch’io nun zò eretico,
che nun ho ppresscia d’arimane 6 musico,
e cche cquesto è er mi’ anno crimatetico. 7
Quanno Adamo
azzardò cquella maggnata,
nun usava salame né ppresciutto,
e mmanco se conniva 2 co lo strutto
in gnisuna viggijja commandata.
Dunque
è una cosa vera e cconcertata 3
che cquer c’ar monno ha rruvinato tutto
nun ha ppotuto èsse antro 4 c’un frutto.
Ma cquale poi? Cqui sta la bbuggiarata. 5
Chi vve disce
una mela, chi una pera,
chi una nespola: e intanto de sti matti
gnisuno è bbono a indovinà cch’edèra.
Io ggiurería
6 pe mmé cche dda la mojje
lui pijjassi 7 una fica, perché infatti
se coprí cquel’affare co le fojje.
Si 1
er Papa fussi 2 un pescator de rete
e pportassi 3 da sé la naviscella,
se potería 4 sperà ssú a la Cappella
quarche ppostuccio pe cchi ha ffame e ssete.
Ma,
ffratèr caro, er zanto Padre è un prete,
e ttiè ar culo una scerta caccarella, 5
che ppe noantri 6 ggente poverella
le su’ funzione sò ttutte segrete.
Tu accostete
7 a uno sguizzero 8 papale,
e tte dà in petto un carcio de libbarda, 9
che tte fa ttommolà ggiú ppe le scale.
La
carità ccristiana è una bbusciarda. 10
Cqua cchi ha, è; e cchi nun ha, Ppasquale,
ar monno d’oggidí mmanco se 11 guarda.
Ciarlanno in
compaggnia succede spesso
c’uno o ll’antro 2 de quella compaggnia
nun zai da quer che ddisce ar temp’istesso
s’abbi o nun abbi er don de la bbuscía.
Tu allora pe
scoprí che bbestia sia,
di’ un buscïone da restajje impresso;
e ssi 3 cquello è bbusciardo, Zaccaria,
vederai che cciattacca 4 e tte viè 5 appresso.
Una vorta io
ne fesce 6 l’esperienza
cor carzolaro antico der padrone,
che sparava gran buggere in credenza.
Dico:
«È arrivato er re de Princisvalle».
Disce: «Lo so, mm’ha ddato ordinazzione
de venti para de papusse 7 ggialle».
Oh cche
ttempi! oh che scannoli! Un Convento
Francescano, una Regola de’ frati,
cristiani, bbattezzati e ccresimati,
e ammoniti 3 d’oggn’antro 4 sagramento,
s’hanno da
mette 5 in una Roma, drento
d’una cchiesa, turcacci annegati,
a impuggnà li misteri ppiú spiegati
de l’assenza 6 de Ddio, tutti e ttrescento!
Disce che in
tutto st’Ordine ggiudío
nun ze 7 trovò cche un povero novizzio
che avessi 8 core de difenne 9 Iddio!
Me fa spesce
10 der Papa, che ppermetti 11
simile infamie, e ppoi roppi 12 er servizzio
a sti quattro cazzacci de bbaffetti.
«Sicché,
Ppeppe, ste logge tante bbelle
essenno fatte cor colore fino,
se pò ppuro 2 ggiurà ssenza vedelle
che l’ha ddipinte Raffael Durbino».
«De che ppaese
sarà stato, eh Nino,
st’affamoso pittore Raffaelle?»
«Pe mmé, ho inteso chiamallo er Peruggino».
«Dunque era de Peruggia: bbagattelle!
A l’incontro
er padrone de Venanzio,
ch’è un pittore moderno, lo fa èsse 3
d’un paesetto che sse 4 chiama Sanzio».
«Vorrai dí Ccalasanzio.
Ebbè, lo scropi
si 5 è vvero o ffarzo, da le bbocche istesse
de quelli in porteria de li Scolopi». 6
E speri de
guarí 2 dda li ggeloni
pe vvia 3 che tte sce 4 fai tanti sciappotti, 5
o cquanno, co rrispetto, te sei cotti
li piedi come un paro de capponi?
Fijja, tu tte
li medichi a ccazzotti, 6
e ffai male a ddà rretta a li cojjoni.
Ce ll’ho io solo li conzijji bboni
pe li ggeloni sani e ppe li rotti.
Antro, padre,
7 ch’er zego 8 de Spoleto,
e ttant’antri sciafrujji 9 de rimedi!
Te lo do io. Reggina, er gran zegreto.
Le guariggione
astabbile 10 e ssicure
s’ottiengheno appricannose 11 a li piedi
un impiastro de fravole 12 mature.
Er còllera
mòribbus
Converzazzione a
l’osteria de la ggènzola
indisposta e ariccontata
co ttrentaquattro
sonetti, e tutti de grinza
Bbasta, o sse
1 chiami còllera o ccollèra,
io sce ggiuco 2 la testa s’un baiocco
che sta pidemeria 3 sarvo me tocco, 4
cqua da noi nun ce viè, sippuro 5 è vvera.
Nun zentite
l’editto? che cchi spera
ne la Madon de mezz’agosto è un sciocco
si 6 nn’ha ppavura? E cce vò ddunque un gnocco,
sor Marchionne, a accorasse 7 in sta maggnera. 8
Disce: ma a
Nninza 9 fa ppiazza pulita.
Seggno che cqueli matti mmaledetti
nun ze 10 sanno avé ccura de la vita.
S’invesce de
cordoni e llazzaretti
se sfrustassino 11 er culo ar Caravita, 12
poteríano bbruscià ppuro 13 li letti.
Quanno parli
accusí ccore mio bbello,
fai capí cche l’editto nu l’hai letto;
perché er Vicario in quer lenzòlo ha ddetto
ch’er collèra è un bravissimo fraggello; 1
e cche er
Ziggnore se 2 serve de quello
e cce lo manna 3 appunto pe ddispetto,
pe vvia 4 che Rroma è ddiventata un ghetto
d’iniquità ppiú nnere der cappello.
Rroma ha
pprecarivato: 5 ecco er motivo
che la peste viè avanti pe le poste
pe nnun lassàcce 6 un zecolaro vivo.
Tu
aspèttetela puro pe le coste, 7
e vvederai ch’er Papa, mastr’Olivo,
sarverà appena Ghitanino 8 e ll’oste.
Oh annateve a
rripone, 1 oh state quieti,
c’avete torto marcio tutt’e ddua.
Dar tett’in giú 2 sta collera è una bbua 3
che ddà de piccio 4 a ssecolari e a ppreti.
Ha ttempo er
Crero a ffà nnovene e asceti
de sette ladri: monziggnor la Grua 5
aricconta c’a Spaggna, a ccasa sua,
fu un mascello, e pijjò ttutti li sceti.
Sapete, sor
Olivo e ssor Marchionne,
chi, cquanno mai, 6 se pò ssarvà 7 la
pelle?
Sapete chi? vve lo dich’io: le donne.
Perché a
Rroma le donne, o bbelle o bbrutte,
spesciarmente le vedove e zzitelle,
sò 8 amiche de San Rocco 9 guasi tutte.
Pijji un
grancio, 1 Sciriàco, 2 abbi pascenza.
A Rroma tanto, 3 è inutile, per dia! 4
Sc’è la bbeata Vergine Mmaria
e l’Angelo custode che cce penza.
Eppoi te
vojjo fà ccapasce, senza
tante sciarle der cazzo. Er Casamia,
che nun è stato mai trovo 5 in buscia,
di’, l’ariporta o nnò st’appestilenza?
Ste raggione
me pareno raggione.
E, a la peggio, te credi ch’er governo
nun pijji quarche ggran precavuzzione?
A bbon conto
er decane de Der Drago 6
disce che sse farà ’na priscissione;
e vvederai che ss’inibbisce er lago. 7
Senti,
Tribbuzzio: 1 a ddilla 2 cqui, a rrigore,
io sto ccor zor Marchionne e cco Cciriàco,
perché ssò ddar curato de Subbiaco
che mmòribbus siggnifica se more. 3
De resto der
collèra io me ne caco;
e avenno inteso a ddí ppiú d’un dottore
ch’er rimedio è lo stà de bbon umore,
maggno, ingrufo, 4 spasseggio e mm’imbriaco.
Chi è
ssuddito fedele e bbon cristiano,
s’ha da lassà ddirigge, e ffà ssortanto 5
quello che vvede praticà ar zovrano.
Te ggiuro da
quer povero Sirvestro
che ssò, 6 cch’io stimo st’infruenza quanto
er padroncino mio stima er maestro.
Eh! a cche
sserveno mai tanti conforti?
È ita pe nnoantri disgrazziati.
Sapete chi hanno fatti deputati
si er collèra vierà? Pprímoli e Ttorti.
Questi tra lloro
se sò 1 ggià accordati
che la povera ggente se straporti 2
ar lazzaretto, indov’escheno morti
tutti quelli che cc’entreno ammalati.
E li ricchi
staranno in ne l’interno
de casa lòro, curati e assistiti
da un medico e un piantone der governo.
Oh annate a
ccrede 3 ch’er Vangelo poi
abbi torto discenno 4 all’arricchiti:
Vè vòbbisis, ciovè bbeati voi!
Tutto va bbe’
1 ma cqui li cardinali
bbiastimeno 2 e sse troveno 3 imbrojjati
perché la truppa nun pò ddà ssordati
da mannalli 4 a gguarní li littorali.
Dunque vonno
ch’er popolo s’ammali
quanno la forza sc’è? Ssiin’ammazzati!
E nun ciànno 5 un esercito de frati
co li loro fetenti ggenerali?
E
Ppassionisti, e Scolopi, e Tteatrini, 6
e Ppavolotti, eppoi Domenicani,
eppoi Serviti, eppoi Bbenedettini,
eppoi tante e
ttant’antre bbaraonne! 7
Bbasta de lassà stà 8 li Francescani
pe nun fà rribbellà ttutte le donne.
Pe l’appunto,
a pproposito de frati,
curre la sciarla mó 1 ggnente de meno 2
ch’er collèra è l’affetto 3 d’un veleno
bbono da fà mmorí ttutti li Stati.
Ir quale er
monno 4 s’è scuperto pieno
de funtane e de pozzi avvelenati
da sti servi de Ddio nostr’avocati
pe bbuggiaracce a tutti a ccel zereno. 5
Io perantro
6 papeggio, 7 e ssò rregazzo
de fregammene 8 assai; ché ppe sta strada
lòro, per dio, nun me la fanno un cazzo.
A mmé nun me
s’inzeggna sto latino.
Sull’acqua ponno fà cquanto j’aggrada,
purché nun zia 9 d’avvelenamme er vino.
Disce: sce
vò alegria. Sí, ccor un male
che ffa ’ggni ggiorno discidotto mijja!
Ce poterà stà alegro un cardinale,
ma nnò un povero padre de famijja.
Vedesse
1 cascà mmorti ar naturale
mó la mojje, mó un fijjo e mmó una fijja,
com’è vvero er peccato è un carnovale
d’annacce 2 a sbeffeggià cchi sse ne pijja!
Saría 3
curioso de sapé, ssi 4 Llotte
lassava fijji immezzo a la Bbettàpoli,
si ttrincava lui poi tutta la notte.
Chi la penza
da omo è er Re de Napoli,
che cconzijjato da perzone dotte
vò 5 cche ppe un anno siino tutti scapoli.
Anzi, ar
padrone mio j’ha ppropio scritto
da Bbologgna un zenzale de salame
che essennose 1 scuperto in ne l’Iggitto
che ppe l’Uropa sto collèra infame
viè
ffora da li polli dritto dritto,
e ppò ancora infettà ll’antro 2 bbestiame,
er Re de Napoli ha mmesso un editto
che ss’ammazzi ’ggni sorte de pollame.
Ma ppare che
cquer povero Bertollo 3
abbi fatto una lègge da cazzaccio
che in ner zu’ reggno nun ce resti un pollo.
E ssai io che
pproggnostico je faccio?
Che in quer frufrú 4 jje tireranno er collo
puro 5 a llui pe ccappone 6 o gallinaccio.
Sentite
st’antra 1 de quer Re Ccoviello.
Tra li su’ Stati e li Stati Romani
mó ccià ffatto tirà ttutt’un cancello,
pe nnun fà ppassà ppiú mmanco li cani.
Bbast’a ddí
cche cquer povero Angrisani 2
fu affermato ar confine de Portello, 3
sibbè pportassi 4 du’ napolitani
che jje vanno 5 du’ cause in appello.
Lui chiunque
trapassa li confini,
fussi 6 magaraddio 7 Ponzio 8 Pilato,
vò cche ffacci 9 la fin de l’assassini.
Saria bbella
ch’er Papa, c’ha ppenzato
d’abbandonacce 10 e annà a Mmonte-Casini, 11
sce morissi 12 un tantino fuscilato.
Ôh er Re de
Francia poi, disce er padrone,
nun fa ste bbuggiarate de sicuro,
e nun spenne 1 quadrini in gnisun muro,
né ffratta, né ccancello, né pportone.
Pe llui
sc’è Iddio c’ha da penzà ar futuro
e cquanno esscí er collèra da Tullóne 2
sai lui che ddisse? «Oh ffutre! oh ssacranone!
Vien le collèrre? favorischi puro». 3
Questi
sò 4 Rre de garbo, ommini rari,
da nun mette 5 li sudditi in spavento
e da nun fajje 6 ruvinà l’affari.
Perché ppoi
sto collèra, o ffora o ddrento, 7
fatto c’abbi er zu’ corzo, fijji cari,
è una spesce 8 d’un cammio 9 ar zei per cento.
Fa ccusí er zor
Gianfutre? E er nostro frate
fusajjaro 1 e mmercante de stuppini 2
n’ha pprese tutte quante le pedate,
ché pp’er collèra nun vò ddà cquadrini.
Sai c’ha
ddetto a Bbernetti e a Ccammerini? 3
Che li quadrini, a ccose piú avanzate
lui li farà ccacà a sti bbagarini
de bbanchieri e a le case intitolate. 4
E de sti Papi
ce se disce intanto
che sse fanno e sse 5 metteno in palazzo
pe spirazzion de lo Spirito ssanto?
De che?
Spirito ssanto a sti Neroni?
A sti ggiudii? 6 Spirito ssanto un cazzo:
Spirito ssanto un paro de cojjoni.
Zíttete llí,
sboccato: sò 1 pparole
da dísse 2 queste ccusí a la sicura?
Nu lo sai che qui pparleno le mura?
Ma cche davero 3 vòi ggiucatte 4 er zole?
Si tte 5
sente quarcuno che jje dole,
poverettaccio te! Nun hai pavura
che tte mannino a Ttermini 6 addrittura,
a ggiucà cco le pale e le cariole?
Te ne vo’
annà ttu ppuro 7 in ne la schiera
dell’antri 8 galeotti esercitanti
a ffà la priscissione p’er collèra?
Eppuro 9
l’hai veduti tutti quanti,
incatenati, a rritornà in galera
co cquattro torce e ’r croscifisso avanti. 10
Ce sò
1 arfine arrivati finarmente
a ffà ttutte l’usanze a la francese.
Nun z’ha da seppellí ppiú nne le cchiese
la carne bbattezzata de la ggente!
Antro che mmó
2 sta Pulizzia fetente
s’è accorta che pproggiudica 3 ar paese?
E ddar tempo d’Adamo all’antro mese, 4
cosa j’aveva fatto? un accidente?
Vedé
bbuttà li poveri cristiani,
li nostri padri, le nostre crature 5
ner campaccio, per dio, come li cani!
Pe la moda e
le su’ caricature,
s’ha da mette 6 la lègge a li Romani
de spregà ttante bbelle sepporture!
Che bbisoggno
sc’è ppoi de scimiteri
pe sseppellí? Sò ttutt’erba bbettonica,
oggniquarvorta è aritornato jjeri
quer Fra Bbennardo che gguarí la monica. 1
Nun zai
2 che llui co la su’ bbrava tonica
se n’è ito a ddí ar Papa che nun speri
d’empilli, 3 e tte j’ha ffatto una canonica 4
perché sse sta a ppijjà 5 ttanti penzieri?
Lui sce
ggiura e spergiura ch’er collèra
fin che sta a Rroma lui sc’è ttropp’ostacolo
che cc’entri, e l’aspettallo 6 è una ghimera. 7
E, a la
peggio che ssia, su’ riverenza
metterà mmano a un pezzo de miracolo
pe ffallo 8 aritornà vvia de fughenza. 9
Io poi,
regazzi mii, saranno vere
tante terrorità cc’ariccontate,
ma, o ppezzi de vangeli o bbuggiarate,
nun me ne vojjo dà ggnisun penziere.
Vienghi,
1 nun vienghi, sciarimedi 2 er frate,
nun ciarimedi, lo porti er curiere, 3
nu lo porti... pe mmé c’è bbon bicchiere
da passà ffiliscissime ggiornate.
Tutta sta
gran pavura d’ammalamme? 4
E cche gguaio sarà? Ttanto una vorta
o pprest’o ttardi ho da stirà le gamme. 5
Mica è
una cosa nova che sse more; 6
e ttoccassi 7 a mmé ppropio a uprí la porta,
l’èsse 8 er primo, per dio, sempre è un onore.
E cquello che
ddisceva Titta 1 Papi,
ch’er collèra ha ppavura a annà 2 ppe mmare?
Sentirete che bbuggera, compare,
e ssi cc’è da fidasse de sti ssciapi! 3
Io mó er
collèra a Pponte Quattro-capi 3b
ho inteso da un zorgente 4 militare
che ggià ha ffatto mortissime caggnare 5
ggnente meno 6 c’all’isola de Crapi. 7
Dunque lui
p’er marittimo sce viaggia:
perch’io credo c’all’isole navale
a un dipresso sce s’entri da la spiaggia.
Come poi
viè cquer zervitore ingrese
je vojjo dí 8 ssi 9 un’isola è un locale
che sse pòzzi 10 isolà ccome un paese.
Sapete? er
fijjo de Monzú Bboietto 1
ha scuperto che un po’ de corallina
è la vera e fficaccia 2 mediscina
pe gguarí sto fraggello bbenedetto.
Ma gguarda un
po’ cchi cce l’avessi detto!
Che cquello che cce daveno in cuscina
co la pappa coll’ojjo la matina
fussi 3 bbono da fà ttutto st’affetto! 4
Eh! a
ccolazzione n’ho mmaggnata tanta
ne le pizzette fritte io da cratura!
E ppe li vermini è una mano santa.
Dunque er
collèra è un vermine addrittura.
Ebbè ssi mmó 5 sto vermine sciagguanta, 6
nun annamo 7 ppiú un cazzo in zepportura.
Ggià
è scartato er rimedio der Bojetto.
Adesso tutto er gran preservativo
conziste in un tantin d’argento-vivo
drent’una penna che sse 1 porta in petto.
C’è
pperò cchi lo ggiudica noscivo;
e ar fijjo der padrone der giacchetto
un medico gnobbatico 2 j’ha ddetto
che ppò offenne er zistemo indiggestivo. 3
E cch’er vero
segreto che ss’è ttrovo 4
è appricasse 5 a lo stommico de fora
un cordoncino co un baiocco novo.
Er rimedio
è assai commido, 6 ma intanto
bbisoggneria sapé sta cosa ancora:
si 7 ha da toccà la pelle o ll’arma o er zanto.
8
È una
sscena! Cqua oggnuno ha er zu’ segreto.
Chi vvò 1 er cannello, chi vvò la patacca, 2
chi er làvudon, 3 chi er thè, chi una casacca
de fanella, 4 chi er vischio de l’abbeto: 5
uno canfora,
uno ojjo, e un antro 6 asceto:
questo vò che sse dormi 7 co ’na vacca:
quello disce ch’er male nun z’attacca
a le donne che in corpo abbino er feto... 8
Sta vertú
cche ppò avé la gravidanza
mó ha ccressciuta la rabbia in ne le donne
de fasselo 9 infilà ddrent’a la panza.
Per cui
mariti, amichi e confessori
nun arriveno a ttempo a ccorrisponne 10
a ttante ordinazzione de lavori.
È
vvero, è vvero: l’ho ssentito io
predicallo 1 da un prete all’Orfanelli. 2
Disce: «Er collèra viè, 3 ccari fratelli:
prepàrete a mmorí , ppopolo mio.
Ma ppuro
conzolàmose, 4 ché Iddio
ner visitacce 5 co li su’ fraggelli,
quarchiduno n’accettua 6 de quelli,
e ssi 7 ammazza er nipote, assorve er zio.
Semprigrazzia,
ssce sò 8 pprove sicure
ch’Iddio le donne gravide le sarva
pe vvia 9 de quele povere crature». 10
Ccusí ddisse
la predica, fijjole.
Cqua nun ze 11 tratta de fiori de marva:
a bbon intennitor poche parole.
Io me
sò 1 stato zzitto inzin’adesso
pe ffà pparlà sta bbella compaggnia.
Mó vvojjo crede che mme sii promesso 2
doppo quelle dell’antri 3 er dí 4 la mia.
Volenno
arraggionà, st’ammalatia,
ciovè sta colla-morbida, a un dipresso
pe cquer che ssento dí pare che ssia
un’usscita che vvadi pe ssuccesso. 5
Bbè,
la diarella, 6 ossii la cacarella,
tutti sanno che vviè 7 da debbolezza
d’intestibbili 8 oppuro 9 de bbudella.
Quanno sta
verità ss’è bben capita,
o er male nun ze piija, 10 o ss’arippezza 11
co ’na bbona fujjetta 12 d’acquavita.
Cqua nun
c’entra fujjetta né bbucale:
questo è affare de lettre e dde bbijjetti.
Mó un professor de storia ar naturale 1
scrive da Francia ar Cardinal Bernetti,
dove disce accusí:
«Ssor Cardinale,
si 2 a ttutto er giorno quinisci 3 l’inzetti 4
nun zò 5 arrivati a Rroma a pportà er male,
lei per antri 6 sei mesi nu l’aspetti».
Tutto dunque
er pericolo cqui ddura
sin a mmezzo settembre a mmezza-notte:
sonata che cquell’è, Rroma è ssicura.
A mmezzo
marzo poi forze vieranno 7
antri 8 bbijjetti de perzone dotte
pe spostà er male e prologallo 9 a un anno.
Furtunato chi
aveva, co sta jjella, 1
generi cojjoniali 2 in magazzino,
come cacàvo, 3 zzucchero, cannella,
ojjo de Lucca, spirito de vino...
E li
mercanti? pe ccristallo fino!
V’abbasti 4 sto tantin de bbagattella,
che in tutta Roma, a ppagallo 5 un zecchino
nun ze trova 6 ppiú un parmo de fanella. 7
E li sori
8 spezziali, eh, cc’antra bbega? 9
Hanno vennuto 10 pe ttre vvorte er costo
li ppiú rrancidi fonni 11 de bbottega.
Semo llí:
12 ssi er collèra a nnoi sce cosce, 13
a cquell’antri 14 je pare un ferragosto.
Nun tutt’er male ar monno 15 viè ppe nnòsce. 16
Inibbí 1
le commedie?! E in che maggnera 2
v’immagginate sta lèggiaccia infame?
Tanto bbene, 3 sor faccia de tigame, 4
s’opre er teatro, e sta notizzia è vvera.
Un povero
garzon de faleggname
che ciabbusca du’ pavoli 5 pe ssera,
pe nnun morí ddomani de collèra
s’averebbe oggi da morí de fame?
Nun ve
pòzzo negà cc’ar zor Paterno 6
je fa er culo un tantin de lippe-lappe, 7
io però ddico che cce vince un terno.
Perché, famo
er collèra che vvienisse, 8
co ttutta la pavura in ne le chiappe
chi rresta vivo vorà ddivertisse. 9
Ôh, vve porto
una nova. Du’ paini
hanno detto in bottega che stasera 1
s’è asviluppato un russio 2 cor collèra
a la locanna de monzú Ppiastrini. 3
Disce che de
llí intorno li viscini
sò ddiventati statue de scera;
e er Ggoverno ha spidito all’affrontiera 4
pe llevà li cordoni a li confini.
C’è
cchi vvò 5 che cce sii quarche speranza
che sto russio de cristo abbi diverzi
vermini solitari in ne la panza.
Ma er medico
ch’è ito a ddenunziallo,
lui li su’ passi nun vò avelli perzi, 6
e ssostiè cch’è un collèra da cavallo. 7
Perché nnun
c’ereno antri 1 guai, stasera
scappeno fora cor collèra a Ancona.
Mó, ammalappena 2 una campana sona,
sona a mmorto, e sto morto è de collèra.
Sarà
ccrepata ar piú cquarche pperzona
de fonghi, o dde lumache o ffichi o ppera...
Ebbè, ddich’io, sc’era bbisoggno, sc’era,
de tutta sta chiassata bbuggiarona?
Nun zerve,
cqua er collèra, sor Rimonno, 3
se lo vanno a ccercà ccor moccoletto:
lo chiameno, per dio!, propio lo vonno.
Quer
ch’è ccerto è cc’a Ancona li facchini
se moreno 4 de fame, e mme l’ha ddetto
’na riverea 5 de Monziggnor Pasquini. 6
Antro 1
che Ancona! quer futtuto male,
malgrado li rigori der cordone,
dava de griffo 2 a ccentomila Ancone,
senza er congeggno 3 der dottor Vïale.
Nun zapete
4 che llui cor cannocchiale
vedde 5 er collèra in forma de dragone,
e ggnisun antro medico cojjone
aveva mai scuperto st’animale?
Che bbrutta
bbestia! Ha un par de corna armate
com’er demonio: porta l’ale: è ppiena
d’artijji, e nnera poi com’un abbate.
Figurete
6 che ssorte de sfraggello 7
ha da fà in corpo a un pover’omo, appena
je s’arriva a ccaccià ddrent’ar budello!
Oh ssentite
mó st’antra bbuffonata
c’ha ffatto a Ancona er zor dottor Cappello.
Va cco un cappuccio in testa, e sott’a cquello
tiè un guazzarone de tela incerata.
Sopr’un
occhio sce porta uno sportello
de vetro, e in mano un fasscio d’inzalata.
De grazzia, e da ch’edè 1 st’ammascherata?
Da pajjaccio, da Cola o da Coviello?
Bbasta, lui
co sta bbella accimatura
se 2 presenta a l’infermi accap’a lletto
pe sballalli 3 ppiú ppresto de pavura.
Defatti
appress’a llui passa er carretto,
e straporta ppiú mmorti in zepportura
che nun tiè 4 er Papa cardinali in petto.
Chi
vvò pperzeverasse 1 dar collèra
er medicasse 2 è inutile, Luviggi.
In st’impiastri e llavanne e zzuffumiggi
è un cojjone er cristiano che cce spera.
La mediscina
che ppò ffà pprodiggi
è la Madonna, e la Madonna vera
è cquella tar 3 Madonna furistiera
de la medajja nova de Pariggi.
Però,
ssi 4 la medajja nun è ovale,
la grazzia, fijjo, nun ze pò arisceve, 5
e in cammio 6 de fà bbene faría male.
De resto, o
vvino bbianco, o vvino rosso,
ggnente, nun ciabbadà. 7 Ttu mmaggna e bbeve, 8
bbasta che pporti la medajja addosso.
«Bbe’?
cquanno s’arïoprono le porte
de sta povera Ancona sfraggellata?»
«Er quattro de novemmre, ha detto Tata, 1
sarvo sia caso 2 de quarc’antra 3 morte».
«E cche
discevi de messa cantata
sotto-vosce a Mmattia? ridillo forte».
«Discevo che sse 4 canta pe la sorte
che ssan Ciriàco 5 suo l’abbi sarvata».
«E cche
jj’è ssan Ciriàco?» «Protettore».
«E da che ll’ha pprotetta?» «Dar fraggello.
«E li morti?» «E li vivi, sor dottore?». 6
«Spieghete».
7 «E in certi casi accusì bbrutti
vòi 8 miracolo grosso ppiú de quello?»
«Sarebb’a ddí’?» «Che nun zò 9 mmorti tutti».
Er
collèra sta a Nnapoli, fratelli,
e sta a Ggaeta e in tre o cquattr’antri lochi,
e ppe ttutto li morti nun zò ppochi
e ll’imballeno a sson de campanelli.
Inzomma,
ecchesce cqua, 1 fijji mii bbelli,
ciaritrovamo 2 immezzo tra ddu’ fochi.
’Ggna penzà 3 ddunque a ddiventà bbizzochi
pe mmorí ccom’e ttanti santarelli.
Mó ttocca a
cqueli poveri cafoni,
e inzin che ccianno 4 sta pietanza addosso
nun ze 5 maggna ppiú un cazzo maccaroni.
Oggi o
ddomani poi toccherà st’osso
de rosicallo a nnoi. Bbe’, ssemo 6 bboni
e llassamo fà 7 a Ddio ch’è ssanto grosso.
Ma ttutt’a
ttempi nostri! E ccaristía,
e llibbertà, e ddiluvi, e ppeste, e gguerra,
e la Spaggna, e la Francia, e ll’Inghirterra...
Tutt’a li tempi nostri, Aghita 1 mia.
Adesso ha da
vení sto serra-serra
de porcaccia infamaccia ammalatia,
pe sturbà Rreggno 2 e pportaccese via 3
quer povero Scetrulo de la Scerra. 4
Puro 5
pe Ppurcinella meno male:
chi sta ppeggio de tutti è Ggesucristo
c’ha pperzo 6 la novena de Natale.
Hai tempo a
ffà ppresepî e accenne artari: 7
questo è er primo Natale che ss’è vvisto
senza manco un boccon de piferari. 8
«Ma Ggesucristo
mio», disceva Marta,
«chi cce pò arregge 1 ppiú cco Mmadalena?
Lei rosario, lei messa, lei novena,
lei viacrúsce... Eppoi, disce, una sce scarta! 2
Io nott’e
ggiorno sto cqui a la catena
a ffà la serva e annàmmesce a ffà squarta, 3
e sta santa dipinta su la carta
nun z’aritrova mai cc’a ppranzo e a ccena».
«Senti,
Marta», arispose er Zarvatore,
«tu nun zei deggna de capí, nnun zei,
che Mmaria tiè la strada ppiú mmijjore». 4
E Mmarta: «Io
nun ne resto perzuasa;
e ssi ffascess’io puro com’e llei, 5
voría vedé 6 ccome finissi casa». 7
Io lo conosco
er vostro sintimento,
sora Carlotta, e de che ggusto sete.
Abbasta che vve vienghi avanti un prete
voi ve n’annate in èstisi 2 ar momento.
Perché vvoi,
fijja cara, ve credete
c’a un omo che smaneggia er zagramento
je se possi 3 co ttutto er fonnamento
mette 4 in mano la vita e cquant’avete.
Ecco, a
l’incontro io povero infilisce 5
me penzo che sta gran bona connotta 6
sii tutto un coloretto de vernisce.
Ar prete, in
quant’a mmé, ssora Carlotta,
io nun je credo mai che cquanno disce:
«Dommino nun zò ddiggno» e sse scazzotta. 7
Si 2
cqua ddura accusí, ssò 3 affari seri,
nun ze pò annà ggiranno 4 ppiú de notte;
perc’ortre 5 a lo spojjà mmeneno bbòtte
e sbudelleno spess’e vvolentieri.
Ma cche cce
stann’a ffà 6 ttante marmotte
de scentomila e ppiú ccherubbiggneri? 7
Aspetteno li ladri a li quartieri,
come fussino fichi 8 o pperacotte?
L’obbrigo
lòro è bbatte 9 lo stradale
cercann’addosso a ttutti e in oggni sito,
e cchi ha ll’arma, portallo ar tribbunale.
E nnun
badà cchi è sporco e cchi è pulito,
ché, pper esempio, pur un cardinale
poterebb’èsse 10 un ladro travistito.
Ho vvisto
finarmente sta funzione
der Papa, e ho ppreso posto appena ggiorno.
Ma inzomma a mmé nnun m’è piasciuta un corno,
e mm’è pparza 2 una bbella cunfusione.
Pe ttre ora
’na folla de perzone
nun féscen’antro che ggirajje 3 attorno
e llí tte lo vistirno e arispojjorno,
come fussi 4 un pupazzo 5 de cartone.
La mitria
6 poi!... co quella fu er ber gioco:
je l’averanno messa e aricacciata
un centomila vorte a ddívve 7 poco.
Sai quanto
saría mejjo, sciorcinata!, 8
quann’è aridotta 9 a nun trovà mmai loco,
de lassajjela 10 in testa imbollettata!
Cresscenno a
ccorpo d’occhio 2 er gran fraggello
che ttutta la campaggna era un torrente,
li villani a cquer risico vidente 3
s’aggnédeno 4 a ssarvà ss’un pontiscello.
Ma stati un quarto
d’ora in mezz’a cquello,
ecchete 5 a li du’ capi la corrente
che tte li serra llí, ppovera ggente,
come stàssino 6 in cima a un naviscello.
Stretti come
ssaràche 7 in ner barile,
strillaveno; e ttratanto er zor Proposto
l’assorveva da sopra ar campanile.
Dar
campanile, sí: ccosa ridete?
Nun ze sa? In oggn’incontro er mejjo
posto 8
sempr’è stato e ssarà cquello der prete.
Ner
fervorino, a sserví bbene Iddio
e inziememente 1 sparaggnasse 2 er fiato,
sapete che sse 3 fa, ppadre curato?
Nu lo sapete? Ve l’inzeggno io.
Se comincia a
strillà: «Ppopolo mio,
eccolo cqua, cquer Cristo disgrazziato.
Lo vedete si 4 ccome è ddiventato
che nun pare ppiú llui?». E sto pío-pío 5
s’allonga
inzino che la ggente piaggne.
Allora abbasta a spalancà la bbocca
e cco le bbraccia a ffà spazzacampaggne.
Accusí er
prete, che nun è ccojjone,
scanza fatica; e cquela ggente alocca
li verzacci 6 li pijja pe rraggione. 7
Cor gruggno
2 a la ferrata de la posta
strillavo: Arfonzo Sceccarelli; e intanto
un abbataccio che mme stava accanto
me sfraggneva cor gommito una costa.
Io me storcevo; e armeno er prete santo
m’avessi 3 detto: nu l’ho ffatto apposta.
Ggnente: lui llí co la su’ faccia tosta
m’aripeteva er rèscipe oggni tanto.
Ar fine dico:
«Eh sor abbate, cazzo!...».
Disce: «Silenzio». «Che ssilenzio, dico:
chi ssete 4 voi?». E llui: «Sò 5 de Palazzo».
Capite? se ne
venne co le bbrutte.
Sò de Palazzo! Ma ggià, a Rroma, amico,
sta raggione che cqui 6 sserve pe ttutte.
Ner
tornà a ccasa Margherita mia
(che cchi ssa ddove diavolo era stata
pe vvení ttutta rossa e scapijjata
da quele parte a or de vemmaria)
io
l’incontrai viscino a Ppescaria,
che pijjanno de furia una svortata
se 1 trovò immezzo propio a un’immassciata 2
de vacche, e nnun fu a ttempo a scappà vvia.
Ar védese
3 accusí ffra cquele corna
strillò: «Mmarito mio!!». «Siggnora cresta», 4
io rispose, «a cquest’ora s’aritorna?».
Bbasta, ha
rraggione 5 che nun c’era er toro
e cche le vacche ar color de la vesta
se la créseno forze 6 una de lòro.
A ttutta sta
gginía de Napujjoni
figurateve un po’ ccosa j’importa
si 1 cquela vecchia de la madre è mmorta:
funerali de ggnocchi e mmaccaroni.
Sce 2
faranno un tantino li piaggnoni
co lo scoruccio e la bboccaccia storta;
e appena che ssarà ffor de la porta
s’anneranno a spartí li su mijjoni.
Poi bbasta a
rricordà cchi ffu er fratello
de sti bboni regazzi, pe ddiscíde 3
che ccos’abbino in core e nner cervello.
Ma la madre,
dirai, l’arricchí llui.
L’arricchí llui, lo so; ma mme fai ride: 4
lui l’arricchí ppe li finacci sui.
Un po’ ppiú cche
ddurava Napujjone
co quell’antri Monzú scummunicati,
Roma veniva a ddiventà Ffrascati,
Schifanoia, o Ccastel-Formicolone.
E ssedute, e
ddemanio, e ccoscrizzione,
ggiuramenti a li preti e a l’avocati,
carc’in culo a le moniche e a li frati,
case bbuttate ggiú, cchiese a ppiggione...
Li
monziggnori in Corzica o a Ssan Leo:
li vescovi oggni sempre sur pitale
pe la paura de cantà er Tedèo:
er Papa a
Ffontebbrò: Mmontecavallo
vòto; San Pietro vòto; e un Cardinale
nun lo trovàvio 1 ppiú mmanco a ppagallo. 2
Sce ne
sò 2 state cqui de canterine
da favve 3 tremà in petto la corata;
ma ddoppo intesa st’angela incarnata,
nun c’è rrimedio, s’ha da scrive 4 Fine.
Tiè
una vosce ch’è un orgheno: è aggrazziata
ner gestí, ppiú de diesci bballerine:
ha ccerte note grosse e ccerte fine
c’una che vve n’arriva è una stoccata.
Disse bbene
la fía 5 de Ggiosaffatte
su in piccionara 6 co ppadron Margutto:
Sta donna me va ttutta in zangue e llatte.
E a cchi er
zu’ canto je paressi 7 bbrutto
bbisoggna ch’er Ziggnore j’abbi 8 fatte
l’orecchie foderate de presciutto.
Ho ccapito,
ho ccapito, fra Ppasquale:
li soliti discorzi scojjonati.
Ggià, ggià, cquanti cristiani in carnovale
se 1 vanno a ddivertí, ttutti dannati.
Io nun ve
negherò cche o bbene o mmale
de sti ggiorni nun fiocchino peccati;
ma cche starebbe a ffacce 2 er tribbunale
de pinitenza de vojantri frati?
Oh ttu
ppredica, via: oh ccanta, canta.
A ste cose nemmanco sce se penza. 3
otto ggiorni che ssò 4 contr’a cquaranta?
Bbe’, a
ttutt’oggi oggni sorte de schifenza, 5
e ddomatina scénnere 6 e acqua-santa
e sse 7 fa la bbucata 8 a la cusscenza.
Hai ’nteso
che ccarezze hanno intimato
a cchi opre bbottega in ne le feste?
Caristie, guerre, terremoti, peste,
e antre 2 a ggenio suo der Vicariato.
O cchiese o
spezziarie: fora de queste
drento Roma ha da stà ttutto serrato.
Guai chi sse move! 3 guai chi ppijja fiato!
guai chi pporta un zomaro co le sceste! 4
E nnò
mmuli, e nnò bbovi, e nnò mmajali...
Inzomma a ’ggni paràfrico 5 sc’è scritto
quarche ccosa de bbestie o dd’animali.
Vedi un po’
ssi 6 de bbestie è nnescessario
de parlanne 7 sei vorte 8 in un editto,
e ssette co la firma der Vicario!
Ecco: a
ppunta de ggiorno, sor Mattia,
ve piantate a la bbéttola: sce 1 state
fin che sse 2 chiude a ssedisci sonate;
e a ssedisci ve s’opre l’osteria.
Sò
3 a vventi in punto l’osterie serrate? 4
E a vvent’ora sc’è ggià la trattoria.
Ariusscite de cqui a la vemmaria? 5
E ggià cquel’antre dua sò 6 spalancate.
E mmica lo
dich’io: parla l’editto.
Leggetelo, e vvedete, avenno 7 testa
si 8 cc’è rraggione de stà 9 ttanto
affritto. 10
Inzomma cqua
la concrusione è cquesta,
che in parole latine sce sta scritto:
Vennero l’osti a ccojjonà la festa. 11
Naturale,
2 er zor diavolo sc’istiga
ce tenta sempre a ffà ccose da forca:
se tiè 3 ppe ttutto una vitaccia porca;
e a la fine er Ziggnore sce gastiga.
Lui se la
sbriga presto, se la sbriga,
e cquanno sce se 4 mette eh nun ze sporca. 5
Cos’è ssuccesso a la scittà d’Agliorca? 6
S’è abbrusciata, per dio!, com’una spiga.
Che ha
ffatto? Forzi 7 nun ha ffatto ggnente.
E Iddio forz’anche l’ha mmannata a ffoco
pe li peccati de quarc’antra 8 ggente.
Li ggiudizzi de
Ddio chi l’indovina?
Pò èsse 9 perché a Rroma quarche ccoco
ha ppelato de festa una gallina. 10
Serva sua,
siggnor Giachemo. È ppremesso? 2
Se pò entrà? 3 Ccome va la partoriente?
Oh mmanco male, via, nun zarà ggnente.
Dio la conzòli co mmill’antri 4 appresso.
E er pupetto?
Che nnome j’hanno messo?
Perché, inzomma, vedenno tanta ggente,
me vojjo figurà nnaturarmente
che ll’hanno, dico, bbattezzato adesso.
E cchi ha
aúto, 5 s’è lléscito, l’avvanto 6
d’èsse 7 er compare? Ih, gguardi, er zor Cassciano!
Me n’arillegro tanto, tanto, tanto.
Dunque lei je
lo dàssivo 8 pagano
e llui cor un po’ d’acqua e dd’ojjo santo,
eccolo llí, vve l’aridà 9 ccristiano.
L’ha ssentito
er zor Giachemo c’ha ddetto?
Je 2 poteva parlà mmejjo un profeta?
Dunque sur pupo suo lei vivi 3 quieta
come si 4 llei se lo tienessi 5 ar petto.
La stanzia
è ggranne e nun è ffatta a ttetto:
er coso 6 de la cúnnola è de seta...
Via, quer ciumaco 7 sta, ssiggnora Teta, 8
com’un fijjo de re, ccom’un papetto.
Bbast’a ddí
ssi in che mmano s’aritrovi 9
che infinamente 10 un par 11 de vetri rotti
sò stati ggiubbilati 12 e mmessi novi.
Quanno sce
sò 13 de mezzo ommini dotti,
sora commare mia, questo j’approvi 14
che quer che ffanno nun pò annà a ccazzotti. 15
La vò
ssenti la gran notizzia? Aspetti.
Dimenica ventuno de frebbaro
è nnato a ttredisciora, a ggiorno chiaro,
un pupetto ar zor Giachemo Ferretti.
Lei nun
pò ffasse 2 idea si cquanto è ccaro
co cquella bbocchettuccia e cquell’occhietti,
e cquelle guance uguale 3 a ccusscinetti,
e cquer culetto che ppare un callaro. 4
Luneddí a
ssera poi er zor Piovano,
tra un monno 5 de confetti e dde ggelati,
lo chiamò Ggiggio 6 e lo fesce cristiano.
Ce sò
stati sonetti? Ce sò stati.
Chi ffu er compare? Er zor Giggio Cassciano.
E mmo er pupo che ffa? Zzinna 7 a Ffrascati.
Ve vojjo
ariccontà, ssora Pressede,
un bèr quadro c’ho vvisto stammatina.
C’era un vecchio sdrajato, e stava a vvede 1
co un zacco d’occhi 2 a ppassce 3 una vaccina.
E cc’era puro
4 un giuvenotto a ssede
co un ciufoletto a ffà una sonatina,
che in testa e ddar carcaggno d’oggni piede
je spuntava un par d’ale de gallina.
Mentre che
gguardo... sento un mommorío: 5
m’arivorto, 6 e un Ziggnore tosto tosto 7
disce: «Chi è sta vacca, core mio?».
E una
siggnora, che jje stava accosto
lí ppronta pronta j’ha arisposto: «Io».
E vvoi cosa averessivo 8 risposto?
Li frati ereno
trenta; e ffra ccostoro
venuto er giorno de creà er guardiano
prima pranzorno, eppoi doppo lo spano 1
calorno in fila tutt’e ttrenta in coro.
E llí, a uno
a uno, oggnun de lòro
(comincianno, s’intenne, 2 dar piú anziano)
co una cartina siggillata in mano
annò a fficcalla in un bussolo d’oro.
Fatto questo
se 3 venne a la lettura:
fra Mmatteo, fra Ttaddeo, fra Bbenedetto,
fra Elia, fra Bbeda, fra Bbonaventura...
Inzomma un
doppo l’antro 4 un terremoto
de nomacci, e ’r guardiano nun fu eletto,
perché ttutti li frati ebbeno 5 un voto!
A ddodisciora
1 er venardí a mmatina
der giorno disciannove de frebbaro
quer porco frammasone carbonaro
de Fieschi annò a morí a la quajjottina.
Disce
però che cce sputava amaro
perché jj’era in ner core una gran spina
d’avé d’abbandonà una scerta 2 Nina 3
che llui l’amava co un affetto raro.
Nun ce fu
ttanta Nina o ttanta Nena:
lui bbisoggnò cche sse fascessi 4 sotto
e scontassi 5 er dilitto co la pena.
Uh!...
cc’è ggnisuno 6 cqua cche jj’arieschi 7
de sapé ddimme si 8 cco cquer birbotto
ciabbi ggnente che ffà 9 Mmonziggnor Fieschi? 10
Sor
mannatàro mio der Tibberino, 1
lei nun zo ccosa diavolo se peschi
d’annà cchiedenno un pavolo pe Ffieschi
e ppe Mmorè, Bboirò, Bbesscè e Ppeppino. 2
Ar monno
d’oggi se 3 starebbe freschi
a ppagà ddu’ bbajocchi oggni assassino!
Me pare a mmé cc’a vvolé ddà un lustrino 4
pe’ ttutt’e ccinque, ebbè ppuro arincreschi. 5
Capisco, so 6
rritratti; ma, cojjoni!,
nun ciaccommida 7 a nnoi de fà ste spese
pe stasse 8 a ccontemprà ccinque bbirboni.
Cinque
vassalli un giulio! è ccosa bbuffa,
quanno c’avémo poi for de le cchiese
cinque Santi a bbajocco e ’r Papa auffa. 9
Oggi
ch’è ssan Grigorio, ossii la festa
der Papa, le Minenze che lo sanno
cúrreno 1 tutti a ddajje er murtossanno, 2
perché l’usanza de la Corte è cquesta.
Sta commedia
a Ppalazzo è ggià la sesta,
pe vvia 3 ch’entrato er Papa in ner zest’anno
questa è la sesta vorta che cce vanno
a rillegrasse 4 e a rròppeje la testa.
«Mille de ste
ggiornate, Padre Santo»
dicheno com’e nnoi; e ccom’e nnoi
er Papa ghiggna e rrisponne: «Antrettanto».
Mille de ste
ggiornate: ecco er prisciso
che rrèscita la bbocca. Er core poi
je sciaggionta 5 der zuo: Sú in paradiso.
Oh cquesto
nò, nnun dirò mai che Rrocco
sii omo da fà onore ar zu’ paese,
né un zanto da incenzallo pe le cchiese:
Rocco è un birbo, e sti tasti io nu li tocco.
Le mi’ parole
nu l’avete intese.
Io discevo accusí cche ssenza un stocco
o antr’arma un omo nun è ttanto ssciocco
d’annà a ffà er ladro a una mileda ingrese.
Tutta poi sta
sparata s’è aridotta
a entrà ddrento a lo scuro, e sto gran male
a cquattro sgraffi e una camiscia rotta!
Eh vvia,
queste sò ccause der cazzo: 2
cose da pènne 3 avanti ar tribbunale
d’un scopator segreto de Palazzo.
’Gni po’ de
bbene a nnoi ggentaccia bbassa
ce pare un paradiso a ccel zereno:
ma a li siggnori, pòi 1 fàjjela grassa
quanto te pare, è ssempre zzero e mmeno.
Tu ssai la
differenza che cce passa,
Muccio, da un fiasco vòto a un fiasco pieno.
Là ssona un fil de vin che cce se lassa;
e cqua un bucale 2 nun fiata nemmeno. 3
Piú le ggente
sò ggranne, 4 e ppiú a le ggente
je s’aristriggne er Monno. A li sovrani,
a cquelli poi je s’aridusce a ggnente.
Pe un re
’ggni 5 novo acquisto, iggni 5 tesoro,
è cquer de prima. Sti bboni cristiani
se credeno 6 pe ttutto a ccasa lòro.
Cqui
cc’è ppoco da ride 1 e ffà er buffone,
perché er beat’Arfonzo de liquori 2
è stato un zanto cor marcio e ll’onori,
e ffasceva miracoli a ttastone.
Questo ve
posso dí cche in occasione
c’aveva un certo male o ddrento o ffori,
pe ariméttelo in cianca 3 li dottori
j’ordinorno un arrosto de cappone.
Che ffa er
zanto! Siccome j’arincressce
de roppe 4 la viggijja, arza la mano
sur pollo arrosto, e lo straforma in pessce.
Ccusí cco uno
scanzetto de cusscenza
da omo de talento e bbon cristiano
maggnò a ssu’ modo e ffesce l’ubbidienza.
«Bbene!»,
disceva er Papa in quer mascello 1
de li du’ scavi de campo-vaccino:
«bber búscio! 2 bbella fossa! bber grottino!
bbelli sti serci! 3 tutto quanto bbello!
E gguardate
un po’ llí cquer capitello
si 4 mmejjo lo pò ffà uno scarpellino!
E gguardate un po’ cqui sto peperino
si nun pare una pietra de fornello!».
E ttratanto
ch’er Papa in mezzo a ccento
archidetti e antiquari de la corte
asternava er zu’ savio sintimento,
la turba,
mezzo piano e mmezzo forte,
disceva: «Ah! sto sant’omo ha un gran talento!
Ah, un Papa de sto tajjo è una gran zorte!».
Appunto a sto
proposito, l’antr’anno,
verzo la fin de ggiuggno, er mi’ padrone
trovò ccerti majali a fajje 1 danno
ne la tenuta sua de Roncijjone.
Bbe’,
azzeccàti 2 che ll’ebbe in contrabbanno
e ffàttili schiaffà 3 tutti in priggione,
ecco che vviè ddar Vescovo un commanno
che jje ne vadi a rrènneje raggione.
Va, e
Mmonziggnore co la su’ podagra
fa un zarto 4 e ddisce: «E a llei chi jj’ha imparato
de mette 5 mano su la Robba sagra?».
«Scusi», disce,
«ho ccreduto inzín’a jjeri
che llei finora avessi 6 conzagrato
sempre somari e nnò animali neri».
Finarmente ho
ssaputo com’è ito
er fatto che vvoi sempre ariccontate
de quer tale ch’entrò ttutto ferito
a Ssan Francesco, e nun ze 1 mosse un frate.
Furno 2
diesci e nnò ssette cortellate,
e in tutte quante sce capeva un dito;
e io co st’occhi mii l’ho arincontrate 3
su la schina e li petti der vistito.
E è
vvero che cchiedeva confessione
strillanno ajjuto ajjuto ché mme moro;
ma er convento a nun curre ebbe raggione.
Sissiggnora,
4 per dio, n’ebbe d’avanzo;
perché è ccaluggna 5 che stassino 6 in coro:
queli servi de Ddio staveno a ppranzo.
Nun me dite
Ggiuseppe, sor Cammillo,
nun me dite accusí, cché mme sc’infurio.
Chi mme chiama Ggiuseppe io je fo un strillo
e è ttutta bbontà mmia si 1 nun l’ingiurio.
Sto nome
cqui, nnun me vergoggno a ddíllo,
me pare un nome de cattiv’ugurio! 2
Sortanto a ssentí ddí 3 Ppeppe Mastrillo! 4
Nun zaría mejjo 5 d’èsse nato espurio? 6
E dde
Ggiusepp’ebbreo? che! sse cojjona? 7
Calà ggiú ddrent’ar pozzo com’un zecchio, 8
e imbatte 9 in quela porca de padrona!
E ssi 10
ppijjamo quell’antro 11 coll’ S,
sto San Giuseppe poi, povero vecchio,
tutti sanno che ccosa je successe.
E adesso, sissignora,
ar mi’ compare
je s’è mmessa una pietra immezzo ar core
perch’io lasso er mistier d’indoratore
e mme metto a sserví! Che ccose rare!
Ggià
cqui er zerví nnun è ccattivo affare;
eppoi, o ppiú mmejjore o ppiú ppeggiore,
nun zò 1 ppadrone de fà er zervitore
e pportà la lenterna a cchi mme pare?
A ttempi de
mi’ nonno scertamente 2
l’arte de l’indorà ffruttava assai;
ma mmò ccosa t’indori? un accidente?
Li secolari
nun danno lavoro
perché ssò 3 ppien de debbiti e de guai,
e a ccasa de li preti è ttutto d’oro.
Da quer
pittore ggiú ppe lo stradale
tra Ssant’Iggnazzio e ’r Colleggio Romano,
che pper arme e rritratti è un artiggiano
che in tutta Roma nun ze dà l’uguale,
jeri sce
1 stava in mostra un cardinale
e sse 2 scopriva un bon mijjo lontano
da la mozzetta de scarlatto, e in mano
er zolito spappiè 3 dder momoriale.
Io m’accosto
ar pittore e lo saluto.
Dico: «E pperché sto coso è ssenza testa?».
Disce: «Je l’ho rraschiata e jje la muto». 4
Allora un
pasticcetto 5 co li guanti
disce: «Lo lassi stà 6 ssenza de questa,
perché ccosí ss’arissomijja a ttanti».
Le conosco
per aria io le perzone,
e nnu le porto in groppa, 1 nu le porto.
Scusateme, er discorzo è ccorto corto:
chi ffa er birbo, io lo tiengo pe un briccone.
Nun zo,
2 ppenzerò mmale, averò ttorto,
forzi 3 me sbajjerò, sarò un cojjone,
ma mme la stiggnerebbe 4 viv’e mmorto
che ll’omo è ffijjo de le propie azzione.
Io ve parlo
da povero iggnorante,
perché ccredo c’ar monno l’azzionacce
siino sempre l’innizzio 5 der birbante.
Nun
c’è bbisoggno d’èsse 6 ito a scola
pe ddí cche ssi 7 oggni cosa tiè 8 ddu’ facce
l’omo de garbo n’ha d’avé una sola.
Embè?
vviengo, sí o nnò? M’opri, Luscia?
Nun te chiedo antro 1 che sta vorta sola.
Che ppaur’hai? te dico una parola
in piede in piede e mme ne torno via.
Tíreme 2
er zalissceggne 3 Luscïola;
sbríghete, che mmommó 4 è la vemmaria
der giorno, e ll’arba 5 ce pò ffà 6 la
spia.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Come?!
è ppeccato er parlà da viscino?
Oh ttu, ccristiana mia, sei mórto 7 addietro,
e cconfonni accusí ll’acqua cor vino.
Si 8
ttu cchiudi a ddispetto der Vangelo
la tu’ porta ar tu’ prossimo, san Pietro
te serrerà ppoi lui quella der celo.
Sapenno ch’io
so llegge, 1 er mi’ padrone
m’ha mmesso in mano sto cartolaretto, 2
m’ha arigalato un grosso, eppoi m’ha ddetto
che vve venissi a llegge sto sermone.
Ma llui ha
ppreso un cazzo pe un fischietto,
perch’io, sor Carlo mio, nun zò 3 un cojjone.
Io j’ho ddato un’occhiata in ner portone,
e ho ffatto 4 tra de mé: cquesto è un zonetto.
Nun
c’è cche ddí, cquest’è un zonetto longo,
e nnò un zermone, 5 perché in cima a quello
ce vò 6 er testo latino cor ditongo.
Bbasta
inzomma, o ssonetto o rritornello,
io, sor dottore mio, me caccio er fongo 7
e, ssia quer che sse 8 sia, ve lo spiattello.
Co la cosa
1 ch’er coco m’è ccompare
m’ha vvorzuto fà vvéde 2 stammatina
la cuscina 3 santissima. Cuscina?
Che ccuscina! Hai da dí pporto de mare.
Pile, marmitte, padelle, callare,
cossciotti de vitella e de vaccina,
polli, ova, latte, pessce, erbe, porcina,
caccia, e ’ggni sorte de vivanne rare.
Dico:
«Pròsite 4 a llei, sor Padre Santo».
Disce: «Eppoi nun hai visto la dispenza,
che de grazzia de Ddio sce n’è antrettanto».
Dico: «Eh,
scusate, povero fijjolo!,
ma ccià 5 a ppranzo co llui quarch’Eminenza?».
«Nòo», ddisce, «er Papa maggna sempre solo».
Mentre stavo
guardanno la cuscina
e ppenzavo lassú ccome se maggna, 1
è passato er zor Prospero Cuccaggna
cionnolanno le chiave de cantina.
E nnoi
appresso. Che vvòi vede, 2 Nina!
Nun ce la pò, pper dio, piazza de Spaggna.
E llí ccipro, e llí orvieto, e llí ssciampaggna,
e mmàliga, e ggenzano, e ggranatina...
«Brungia»,
3 dico, «che bbona libbreria!
Che bell’archivio d’editti e de bbolle!
Che oratorio! Che bbrava sagristia!
E ssenza
ajjuto de todeschi e rrussi
se po’ 4 er Papa assciugà ttutte st’impolle?». 5
Disce: «Tra ppranzo e mmessa? Eh, cce ne fussi!». 6
Eppuro,
2 voi che ffate tanto er dotto
e ssapete de lettra e de latino,
che ssete 3 er brodoquamqua 4 de Pasquino
e avete letto er libbro che ttiè ssotto: 5
voi che ddate
li nummeri p’er lotto
co cquer po’ de cacchetta 6 d’indovino;
voi che ppe cquanto è llongo er Babbuino 7
ve chiàmeno er zor chicchera cor bòtto;
ve farò vvéde che ssete 8 una crapa, 9
e cche a llodavve 10 er popolo v’adula.
Come se 11 chiama la scarpa der Papa?
Ahàa,
ssor pichimèo, 12 nu lo sapete?
Ve lo diremo noi. Se chiama mula.
E pperché mmula? Perché er Papa è un prete.
Ggià,
ll’úrtima che mmore è la speranza.
Ma ddoppo che ss’è ddetto Un Papa frate,
io nun zo ccosa diavolo sperate:
forzi 1 quarche mollica quanno pranza?
Sperà
bbene da lui? co cquela panza?
co cquela faccia fra er tre e’ r cinque? 2 Oh annate, 3
annate, fijji mii: ste bbuggiarate
ar monno d’oggi nun zò 4 ppiú dd’usanza.
La
Santità de sto Nostro Siggnore
lo sapete a cche ppenza? A vvive 5 quieto
senza dolor de testa e mmal de core.
Lui a nnoi
sce se tiè 6 ttutti derèto, 7
e, ar piú, sse n’aricorda pe ffavore
quanno maggna la sarza co l’asceto. 8
Sí, è
mmale de somaro e ccavalletto!
Lui era scritto a una settaccia occurta 1
e ppe cquesto er Governo nu l’inzurta,
je fa una grazzia a ffuscilallo in petto.
Sarvallo?! e
ccome? Io, Momo, 2 te l’ho ddetto:
si 3 aveva modo de pagà una murta,
via, tanto e ttanto la Sagra Conzurta
l’averebbe trovato er vicoletto. 4
Ma un omo
senza un zanto che l’ajjuti,
un disperato che nun cià 5 un quadrino
lo condanneno tutti li statuti.
Poi, se
fuscila 6 in de la schina, 7 Momo?
Fuscilannolo in petto, anche assassino
pò ddí 8 cche vva a mmorí da galantomo.
Dio me ne
guardi, Cristo e la Madonna
d’annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo. 1
Prima... che pposso dí?... pprima me vojjo
fà ccastrà dda un norcino a la ritonna. 2
Fà
3 ddiesci mijja e nun vedé una fronna! 4
Imbatte ammalappena 5 in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com’un ojjo, 6
che ssi 7 strilli nun c’è cchi tt’arisponna!
Dove te vorti
8 una campaggna rasa
come sce sii 9 passata la pianozza, 10
senza manco l’impronta d’una casa!
L’unica cosa
sola c’ho ttrovato
in tutt’er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.
Piano, fijjoli
mii, co sto scopà.
A sto paese io nun zò nnato mo. 1
Ho ccinquant’anni in groppa, e mmanch’io so
quer che sse possi e nunn ze possi fà.
Viè
Mmonziggnore de le Strade e vvò
che sse scopi pe ttutta la scittà.
Scappa 2 er Vicario e vve sce fa llegà:
quello disce de sí, questo de no.
Scopate, nun
scopate, e nno, e ssí...
Chi diavolo l’intenne? Bberzebbú?
Io pe mmé ancora nu li so ccapí.
Quanno quer
che ppe un prete è una vertú
per un antro 3 è un dilitto da morí,
a cchiunque dai retta hai torto tu.
Indov’èlla,
indov’èlla 2 sta caroggna
c’ha la ruganza 3 de menà a mmi’ fijja?
Essce 4 fora, animaccia de cunijja 5
e vvederai si cciò 6 arrotate l’oggna. 7
Nò,
llassateme stà, ssora Sciscijja: 8
nun me tené, Mmaria, c’oggi bbisoggna
c’a cquella bbrutta sfrízzola d’assoggna 9
me je dii du’ rinnacci a la mantijja.
Va’, vva’,
ppuzzona 10 da quattro bbajocchi:
bbrava, serrete drento, mmonnezzara 11
de scimisce, de piattole e ppidocchi.
Ma
aritórnesce, 12 sai, facciaccia amara?
Ché cquant’è vver’Iddio te caccio l’occhi
e li fo ruzzolà 13 ppe la Longara. 14
«A cchi le
man’addosso?! Ruffianaccia
der zangue tuo, 1 cco mmé ste spacconate? 2
Nun m’inzurtà, 3 pe ssant’Antonio Abbate,
ché tte scasso l’effiggia de la faccia.
Sti titoli a
le femmine onorate?
Scànzete, 4 Mea, nun m’affermà 5 le
bbraccia:
fammeje scorticà cquela bbisaccia
larga come la sporta der zu’ frate.
Che tte
penzi? de fà cco cquer ccornuto
de tu’ marito?...». «Ah strega fattucchiera,
pijja sú ddunque». «Oh ddio! fermete: 6 ajjuto!».
«Nò,
nnò, tte vojjo fà sto culo grinzo
com’un crivello, e sta panzaccia nera
piú sbusciata, per dio, der cascio 7 sbrinzo».
Ch’edè
sto tatanài? 1 Stamo 2 a la ggiostra?
Lassa stà cquela donna, vassallona.
E vvoi, sora scucchiaccia 3 bbuggiarona,
arzàteve da terra, e a ccasa vostra.
E cche,
ssangue de ddio!, sta strada nostra
è ddiventata mó Piazza Navona? 4
Oggni ggiorno, pe ccristo, una canzona!
Sempre strilli, bbaruffe e cchiappe in mostra!
Me fa spesce
5 de voi che ssete 6 vecchia,
e ddate un bel’essempio ar viscinato.
Sú, a ccasa, o vve sce porto pe un’orecchia.
Vvoi poi,
sor’arpia, pe ddio sagrato!,
nun me chiamate ppiú mmastro Nardecchia
si 7 un’antra vorta nun ve caccio er fiato.
Ner fà
a l’amore un goccio de segreto
quanto è ggustoso nun potete crede. 1
Piú assai der testamento pe un erede,
piú assai de li piselli co l’aneto.
Fàsse l’occhietto,
2 stuzzicasse 3 er piede,
toccasse 4 la manina pe ddereto, 5
spasseggià ppe li tetti e pp’er canneto
mentre er prossimo tuo sta in bona fede;
dasse 6
li rigaletti a la sordina, 7
annà scarzi 8 e a ttastone a mmezza notte
eppoi fàcce l’indiani la matina...
Io voría
chiede 9 a le perzone dotte
per che mmotivo quer passa-e-ccammina
e cquele furberie sò accusí jjotte. 10
«Sposa,
1 è bbona la messa?» «È bbona, è bbona».
«Bbe’, mmettémose 2 cqua, ssora Terresa...».
«No, Ttota 3 io vado via, che ggià ll’ho intesa».
«Bbe’ llassateme 4 dunque la corona».
«Sposa,
fàteme sito». «Io me sò 5 ppresa
sto cantoncello pe la mi perzona».
«Dico fateve in là, ssora minchiona:
che! ssete 6 la padrona de la cchiesa?».
«E in che
ddanno 7 ste spinte?» «Io vojjo er loco
pe ssentí mmessa». «Annàtevelo a ttrova». 8
«Presto, o mmommó vve fo vvedé un ber 9 gioco».
«Oh gguardate
che bbell’impertinenza!
Se 10 sta in casa de Ddio e manco ggiova.
Tutti vonno campà dde propotenza».
Quanno er
popolo fa la cummuggnone 2
er curioso è lo stà in un cantoncino
esaminanno oggnuno da viscino
come asterna 3 la propia divozzione.
Questo opre
bbocca e cquello fa er bocchino,
chi sse scazzotta 4 e cchi spreme er limone, 5
uno arza la capoccia ar corniscione
e un antro s’inciammella 6 e ffa un inchino.
E cchi
spalanca tutt’e ddua le bbraccia:
chi ffa ttanti d’occhiacci e cchi li serra:
chi aggriccia er naso e cchi svorta 7 la faccia.
Ggiaculatorie
forte e ssotto-vosce,
basci a la bbalaustra e bbasc’in terra,
succhi de fiato 8 e sseggni de la crosce.
«Io un
grosso, tu un grosso, quella un grosso,
e pperché sta vecchiaccia de San Zisto 2
ha da avé avuto un pavolo, pe ccristo?
Pe li bbell’occhi sui cor cerchio rosso?»
«Che! ssete
sceca? 3 Nu l’avete visto
ch’ero gravida?» «Tu, rrospa de fosso?!
Co cqueli quattro carnovali addosso?
E cchi tte porti in corpo? L’anticristo?»
«Zzitta llí,
bbrutta serva de Pasquino.
Ggià ho ttrentun’anno solo; eppoi, sorella,
oggni donna pò mméttese 4 un cusscino».
«Quann’è
cquesto eri gravida sicuro.
Dímmelo a ttempo, ché, ssibbè 5 zzitella,
sta gravidanza la trovavo io puro». 6
M’è
stato detto da perzone pratiche
che nun zempre li frati a Ssant’Uffizzio
tutte le ggente aretiche e ssismastiche
le sàrveno 1 coll’urtimo supprizzio.
Ma, ssiconno
li casi e le bbrammatiche
pijjeno per esempio o Ccaglio o Ttizzio,
e li snèrbeno a ssangue in zu le natiche
pe cconvertilli e mmetteje ggiudizzio.
Lí a sséde
2 intanto er gran inquisitore,
che li fa sfraggellà ppe llòro bbene,
bbeve ir 3 zuo mischio e ddà llode ar Ziggnore.
«Forte,
fratelli», strilla all’aguzzini:
«libberàmo sti fijji da le pene
de l’inferno»; e cqui intiggne li grostini.
Er
confessore, ar zòlito peccato,
che un po’ mmeno o un po’ ppiú ttutti l’avemo,
me tiè oggni vorta sto discorzo sscemo,
e nnun capissce che cce sprega er fiato.
«E ar
capezzale sce n’accorgeremo,
e ar capezzale guai chi ss’è ostinato,
e ar capezzale è ttutto ariggistrato,
e ar capezzale sciariparleremo...». 1
Tutte le
sante feste una canzona!
Ma er capezzale lo bbúggero io:
er capezzale a mmé nun me cojjona.
Da cqui
avanti appen’entro a lo spedale
dico ar zervente: «Sor zervente mio,
levateme de cqui sto capezzale».
Tutti l’ingresi
de Piazza de Spaggna
nun hanno antro 1 che ddí ssi cche ppiascere
è de sentí a Ssan Pietro er miserere
che ggnisun’istrumento l’accompaggna.
Defatti,
cazzo!, in ne la gran Bertaggna
e in nell’antre cappelle furistiere
chi ssa ddí ccom’a Rroma in ste tre ssere
Miserere mei Deo sicunnum maggna?
Oggi sur maggna
sce sò stati un’ora;
e ccantata accusí, ssangue dell’ua!, 2
quer maggna è una parola che innamora.
Prima l’ha
ddetta un musico, poi dua,
poi tre, ppoi quattro; e ttutt’er coro allora
j’ha ddato ggiú: mmisericordiam tua.
2°
Ah ah ah!
ssur miserere poi
Caro sor Giammaría, dite a l’ingresi
e a tutti li todeschi e li francesi
ste du’ parole ch’io mó ddico a voi.
Quelli
chiccherichí 1 cc’avete intesi
sopra er zicunnum maggna è un tibbidoi 2
c’userà fforzi 3 in nell’antri 4 paesi,
si 5 vvolete accusí, mma nnò da noi.
Sicunnum
maggna! ma ccazzo! a sto monno
pe cquelli quattro essempi che sse védeno, 6
maggna er primo, me pare, e nnò er ziconno.
Cosa
viè 7 poi? Manifestasti micchi;
e sti micchi chi ssò? 8 Cquelli che ccredeno
a ste sciarle, ch’er boja se l’impicchi.
Me sce
sò ttrovo io 2 quanno a Tturlonia
quer zampietrino vecchio cor braghiere
j’ha detto: «Vede lei sor cavajjere?
questo è ir confessionario de Pollonia». 3
Er Duca
allora j’ha rrisposto, Antonia:
«Perché è cchiuso e nun c’è ppinitenziere?».
Disce: «Perché cquell’animacce nere
nun vengheno ppiú a ffà sta scirimonia.
E cche! llei
nu lo sa che li Pollacchi
fino dar trenta nun zò ppiú ccristiani?
Ma lassammò fà a Ddio e a li cosacchi».
Disce: «E
quello chi è?» «Ppadre Francesco
Sgraffígner, de li Frati Livetani, 4
che sta ar zu’ posto a sbatteccà 5 in todesco». 6
Ma la gran
folla, la gran folla, sposa, 2
in quella Tirnità de Pellegrini!...
Se stava un zopr’all’antro: 3 era una cosa
da favve intorcinà 4 ccome stuppini.
Ma a vvedé le
paíne e li paíni!...
Uhm, la ggente der monno io nun zo, 5 Rrosa,
quanno che nnun ze spenneno 6 quadrini
com’ha da èsse 7 mai ttanta curiosa.
S’è
svienuta un’ingresa furistiera,
che Ddio lo sa ssi 8 arriverà a ddimani.
Pareva una cuccarda ggialla e nnera.
Eppoi che cce
se vede, 9 sposa mia?
Maggnà e bbeve 10 du’ preti e ddu’ villani:
gusto che ppòi levatte 11 a oggn’osteria.
Nun è
pprete er zor Conte, sora Checca,
ma vvistito in pianeta a la pretina,
sta a l’artàre in cappella oggni matina
un’ora a ccelebbrà la messa secca. 1
E bbisoggna
sentí ccome s’imbecca
queli ssciroppi de lingua latina:
e bbisoggna vedé ccome s’aîna 2
cor caliscetto, e ccome se lo lecca!
Pe ccirimonie
poi e ppe ssegrete
manco er decane 3 der Zagro Colleggio
faría mejjo de lui la sscimmia a un prete.
Ma nun
conzagra! Eh nnun è cquesto er peggio,
perché in ner cunzumà, 4 sposa, 5 vedete,
che ar meno nun commette un zagrileggio.
Santissimo! Er
zantissimo, me pare,
doverebb’èsse 1 er zolo sagramento,
ciovè cquer galantomo che sta ddrento
ar cibborio indorato de l’artàre.
E a Rroma
ciarigaleno, 2 compare,
un zantissimo novo oggni momento,
un zantissimo senza fonnamento
c’ha ssantissimo inzino quel’affare.
Tutti sti
lecca-culi e lleccazampe
je dànno der zantissimo pell’ossa
co la lingua e la penna e cco le stampe.
Ma ccome va a
ffiní? Quann’è ccrepato,
ammalappéna è sscento in ne la fossa,
sto santissimo poi manco è Bbeato.
È
vvenuto, è vvenuto er zor Curato
a bbenedí la casa; e de raggione
me s’è ppreso er papetto 2 che jj’ho ddato,
come fussi 3 un acconto de piggione.
Nun zo,
4 ppare che un prete conzagrato
a cquer papetto o ppavolo o ttestone 5
avessi 6 da strillà: «Llei s’è sbajjato:
noi nun vennémo 7 le bbenedizzione». 8
La cosa
annería bbene, si 9 nnoi fossimo
l’acquasantàri; ma li preti, Aggnesa,
nun zò ccapasci a ffà un inzurto ar prossimo.
Pe cquello
che sso io, nun c’è mmemoria
de ste risposte agre; e ppe la Cchiesa
tutti li sarmi 10 finischeno in groria.
Eh, ttu nu li
conoschi li mi’ guai:
si 2 ssospiro sospiro co rraggione.
Nun zai che dda scinqu’anni quer birbone
me tiè ssempre in parola? eh, nu lo sai?
E sta’
cquieta, e ddà ttempo, e vvederai,
e adesso è ttroppa calla la staggione,
e mmó nnun ze guadaggna... In concrusione
sta ggiornata de ddio nun spunta mai.
E accusí sse
3 va avanti: aspetta, aspetta,
oggi e ddomani, oggi e ddomani, e ancora
me dà er bon beve 4 e mme porta in barchetta.
Mó avémio
5 da sposà ppe ottobbre, e cquanno
fóssimo 6 ar fin d’agosto, scappò ffora
a cchiède 7 un’antra pròloga 8 d’un anno.
Ar momento c’un omo se 1 fa pprete
sto prete è un omo ggià ssantificato;
e cquantunque peccassi, 2 er zu’ peccato
vola via com’un grillo da una rete.
Er dí ssanto
a cchi pporta le pianete
è ccome er carcerà cchi è ccarcerato,
come scummunicà un scummunicato,
com’er dí 3 a cquattro ladri: «In quanti sete?». 4
Certe cose la
ggente ricamata
nu le capissce, e ffra nnoantri soli
se pò ttrovà la verità sfacciata. 5
Sortanto da
noantri stracciaroli
se sa cchi è un prete. La crasse allevata 6
pijja sempre li scesci pe ffascioli. 7
«Te vojjo dí
una cosa in confidenza;
maa!... mme capischi?» 1 «Me 2 fo mmaravjja.
Pe ssegretezza io? che! ssò 3 Cciscijja? 4
Oh, in quant’a cquesto poi, pe la prudenza...».
«Bbe’,
ddunque hai da sapé cc’oggi Vincenza
scerca 5 a nnòlito 6 un letto pe la fijja».
«Ah? la fa sposa?! 7 E cchi ppijja? chi ppijja?»
«Eh un ciocco grosso: 8 un facchin de credenza».
«Ohò!
ttutti sti fumi finarmente
sò iti 9 a svaporà cco un facchinaccio?»
«Ma ddunque tu nun zai?» 10 «No, nnun zo ggnente».
«Quela
regazza... è un po’ pproggiudicata... 11
Abbasta, 12 io je sò 13 amica, e ssi tte 14
faccio
sti discorzi...». «Eh cche ddubbi! Ôh, addio, Nunziata».
Sto nné in
celo né in terra, Madalena.
Ciarle quante ne vòi, bbone parole...
Ciò 1 rrimesso a cquest’ora un par de sòle, 2
e cc’ho avuto? un testone 3 ammalappena.
Sai chi
ccrede a le lagrime? Chi ppena.
Sai chi ppenza ar malanno, eh? Cchi jje dole;
ma nnò chi è ggrasso, nò cchi ha rrobba ar zole,
nò cchi ss’abbòtta a ppranzo e ccrepa a ccena.
Doppo
tant’anni de servizzio! un vecchio,
Siggnor Iddio, che l’ha pportato in braccio!
Uno che jj’era ppiú cc’un padre! Un specchio
d’onestà!...
Eppuro 4 a un omo de sta sorte
je se fa cchiude 5 l’occhi s’un pajjaccio
senza una carità ddoppo la morte!
Eppoi nun ho
da dí cquanto sei fessa! 1
Tu ffídete 2 de mé, cche de raggione
sopr’a la nostra santa riliggione
ne saperà ppiú un prete c’un’ostessa.
E ddon
Narciso jerassera stessa
m’ha ddetto in cammerino der Farcone 3
che cqualunque peccato ha rrimissione
pe li meriti soli d’una messa.
Pe una messa
se smove 4 er paradiso;
e un angelo pò mmette 5 mille diavoli
com’e rrigajje 6 in un timbàl de riso.
Dunque
coraggio; eppoi co ppochi pavoli
famo 7 cantà una messa a ddon Narciso,
e ssarvàmo 8 la capra co li cavoli.
Merito dite? eh
ppoveri merlotti!
Li quadrini ecco er merito, fratelli.
Li ricchi soli sò bboni, sò bbelli,
sò ggrazziosi sò ggioveni e ssò ddotti.
A l’incontro
noantri 1 poverelli
tutti schifenze, 2 tutti galeotti,
tutti deggni de sputi e de cazzotti,
tutti cucuzze in càmmio de scervelli. 3
Fa’ ccomparí
un pezzente immezzo ar monno:
fussi magàra 4 una perla orientale,
Presto cacciate via sto vagabbonno.
Tristo chi
sse 5 presenta a li cristiani
scarzo 6 e ccencioso. Inzíno pe le scale
lo vanno a mmozzicà ppuro 7 li cani.
Cosa me n’ho
da intenne 2 io de l’usanze
de sti conti e mmarchesi e ccavajjeri?
Io ar zervizzio sce sò 3 entrato jjeri
pe ttirà ll’acqua e ppe scopà le stanze.
È
vvenut’uno co ddu’ bbaffi neri
longhi come du’ remi de paranze: 4
disce: «Sò ir cacciator di munzú Ffranze
che mmi manna 5 a pportà li su’ doveri».
Dico:
«Ebbè ddate cqua». Ddisce: «Che ccosa?».
Dico: «Che! sti doveri che pportate».
Nun me s’è mmesso a rride 6 in faccia, Rosa?
Guardate llí
cche ppezzo d’inzolente!
Che ne so de st’usanze scojjonate 7
che sti loro doveri nun zò ggnente? 8
Ohé, llassa
er lavore, Fidirica,
e vviè 1 un momento cqua, ffamme er piascere. 2
Viè a vvede 3 sto pezzetto de mollica
che bber giuchetto fa ddrent’ar bicchiere.
Quann’è
immezzo se move 4 co ffatica
come fussi 5 una dama o un cavajjere;
ma appena arriva accost’ar vetro, amica!,
se 6 mette a ggaloppà ccom’un curiere. 7
Zitta, sta’ attenta
mó: gguarda che ffiacca! 8
Occhi a la penna veh! 9... mmó vva ppiú fforte...
Ecco!... l’hai visto, di’, ccome s’attacca?
Sto sciníco
10 de pane che ss’è mmosso
nun paro 11 tutto io, pasciocca mia, 12
quanno ar vedette 13 me t’affiaro 14 addosso?
Naturale:
oggi è la siconna festa
de pasqua, e ttutti quanti li curati
vanno a pportà ccor bardacchino in testa
la commuggnone in fiocchi all’ammalati.
Nissuno ve lo
nega che ssii questa
bontà de preti e ccarità dde frati.
Perantro 2 fra cquell’ua sc’è mmorta agresta, 3
né abbasta un fiore pe infiorà li prati.
Voi me
chiamate a mmé ttroppo sofistico
perché mm’azzardo a ggiudicà a lo scuro
fin la dispenza der pane ucaristico.
Nun parlo de
quer pane io, fratel caro,
io dico ch’er bon core saría puro 4
de dispenzà cquell’antro 5 der fornaro.
La cratura
sta bbene, la cratura:
quer che ssia la cratura sta bbenone.
La madre è cquella che ffa ccompassione
sino ar medico stesso che la cura!
Antro 1
che ttirature 2 e convurzione! 3
Ha un concorzo 4 de sangue che jje dura
sin da quanno fu messo in prelatura
quer cazzaccio der fijjo der padrone.
È
ppropio un male d’arrestacce 5 astúpidi.
Cqua ssanguiggne locabbile, 6 cqua nneve,
e cqua bbaggnimaría, cqua ssemicúpidi... 7
È
tutt’erba bbettonica, zi’ Nena. 8
Qua nun c’è antro che possi arisceve 9
una grazzia de Santa Filomena. 10
Ecco l’arma
der zanto fratiscello
c’oggi commanna su nnoantri 1 alocchi.
Ce sò ttre stelle sott’a un gran cappello
co ddu’ cordoni in crosce e un par de fiocchi.
Poi
sc’è un càlisce d’oro, e in cima a cquello
’na cometa che ppare che cc’imbocchi; 2
e de cqua e de llà cce sta un uscello 3
che cce 4 guarda a l’ingiú co ttanti d’occhi.
Lo so,
oggn’arma ha er zu’ bber 5 siggnificato:
questo però ttrovatelo da voi,
ch’io pe sti studi cqui 6 nun ce sò nnato.
Io ve
dirò una cosa che nun sbajja,
ciovè 7 cch’er Papa, dassi 8 retta a nnoi,
arzerebbe tre ppiggne e una tenajja. 9
Ah, ddunque,
perché nnoi nun negozziamo
e nnun avémo manco un vaso ar zole,
lei vorebbe cunchiude 1 in du’ parole
che le gabbelle noi nu le pagamo?
Le pagamo sur
pane che mmaggnamo,
sur panno de le nostre camisciole,
sur vino che bbevémo, su le sòle
de le scarpe, e sull’ojjo che llogramo. 2
Le pagamo,
per dio, su la piggione,
sur letto da sdrajacce, 3 e su li stijji
che ssèrveno a la nostra professione.
Le pagamo (e
sta vergna 4 è la ppiú ddura)
pe ppijjà mmojje e bbattezzà li fijji
e pper èsse bbuttati in zepportura.
Pe la passion
de Ddio, zitto, Luviggi,
nun mentovamme ppiú bbonifiscenza. 1
Sto nome che jje danno è un’apparenza,
è una nebbia, è un odor de zzoffumiggi.
Se
mànneno a accattà 2 ttanti prodiggi
de bbon custume e ttant’arche d’asscenza, 3
e sse sscialacqua poi la providenza
pe ffà ggiucà la prencipessa Ghiggi! 4
Cinquanta
scudi ar mese de penzione
a ’na vecchiaccia fràscica de vizzi 5
pe mmétteli 6 s’un asso ar faraone.
Una che
ttanto bbutta quanto pijja!
Che ss’è ffatta impeggnà ddar zu’ Patrizzi 7
er trerreggno d’un Papa de famijja! 8
Dite
ch’è rraro ppiú cc’a vvince 1 un terno
che un pover’omo che mmore ammazzato
nun ze 2 trovi coll’anima in peccato
e nnun scivoli ggiú ddritto a l’inferno.
A
l’incontrario er reo che ll’ha scannato
e mmore pe le mano der governo,
è cquasi scerto com’adesso è inverno
che ttrova er paradiso spalancato.
Sarà
ddunque curiosa all’antro monno 3
che cchi de cqua ha pportato er proggiudizzio
se vedi 4 a ggalla, e cchi ll’ha avuto, a ffonno.
Sarà
ccuriosa ar giorno der giudizzio
che er primo stii tra ll’angioli, e ’r ziconno 5
cor diavolo che vv’entri in quer zervizzio.
Nun
j’è vvienuta mó la fernesia, 1
invesce 2 de ggiucà a mmercant’in fiera, 3
d’aritirasse 4 in cammera ’ggni sera
soli soli a studià dde strolomía? 5
Jer notte
6 da la santa vemmaria,
senza nemmanco un straccio de stadera,
se mésseno a ppesà ll’antimosfera 7
cor un vetro che sta ssu la scanzia.
Pesà
ll’aria! ma eh? Bbe’ cche ppadroni 8
nun zarebbe una cosa nescessaria
de dàjje la patente de bbuffoni?
Eh ssi
ll’aria pesassi, 9 addio scibbaria!
Pe una libbra de carne o mmaccaroni
se 10 pagherebbe dodiscionce d’aria.
C’è
inzíno chi ssostiè ch’er Monno è ttonno, 1
eppuro 2 nun è ttonno un accidente. 3
Tutt’è pperché a le cose scerte ggente 4
nun ce vonno arifrette, 5 nun ce vonno.
Pe ttutto o
sse 6 salissce o sse va a ffonno:
de cqui a Ccivitavecchia solamente
sce sò 7 ssette salite e ssette sscente: 8
dunque, che tte ne pare? è ttonno er monno?
Va’ a Ssan
Pietro-Montorio, a Mmonte-Mario,
ar Pincio, a Ttivoli, a Rrocca-de-Papa...
sempre sce 9 troverai quarche ddivario.
Tonno davero
se pò ddí 10 un cocommero,
una palla de cuppola, una rapa,
una scipolla, un portogallo, un gnómmero... 11
Un bon
governo, fijji, nun è cquello
che vv’abbotta l’orecchie in zempiterno
de visscere pietose e ccor paterno:
puro 1 er lupo s’ammaschera da aggnello.
Nun ve fate
confonne: 2 un bon governo
se sta zzitto e ssoccorre er poverello.
Er restante, fijjoli, è tutt’orpello
pe accecà ll’occhi e ccomparí a l’isterno. 3
Er vino a
bbommercato, er pane grosso,
li pesi ggiusti, le piggione bbasse,
bbona la robba che pportàmo addosso...
Ecco cos’ha
da fà un governo bbono;
e nnò ppiàggneve 4 er morto, eppoi maggnasse 5
quant’avete, e llassavve 6 in abbandono.
Una sce n’ho
ppur’io guasi 1 compaggna.
Quanno annài cor padron de zi’ Pascifica 2
a Tterni indove er marmo se pietrifica, 3
eppo’ a Ssisi 4 e a la fiera de Bbevaggna,
in chiesa,
doppo er canto der Maggnifica, 5
dimannài a un pretozzo de campaggna:
«Quer parolone fescimichimaggna, 6
sor arciprete mio, cosa siggnifica?».
L’abbate je
pijjò un tantin de tossa, 7
poi disse: «Fescimichimaggna, fijjo,
vò ddí in vorgare: 8 Me l’ha ffatta grossa».
Dico: «E
ccosa j’ha ffatto, eh sor curato?»
«Ôh, ccerti tasti», disce, «io ve conzijjo
de nun toccalli; e cquer ch’è stato è stato».
O pp’er
troppo tabbacco, oppuro a ccaso,
o ppe cquarche mmotivo ppiú ppeggiore,
fatt’è ch’è un anno c’a Nnostro Siggnore
je s’è appollato un canchero in ner naso.
Lui sce
teneva un cerotin de raso;
ma mmó Ssu’ Maestà l’Imperatore
j’ha spidito da Vienna un professore, 1
che nun ne pare troppo apperzuaso.
Sto scirusico
novo, ch’è un todesco,
j’ha ddetto: «Padre Santo, pe sti mali
ce vò aria, riposo e vvino fresco». 2
Sentite
ch’ebbe er Papa ste parole,
rispose: «Bbravo, de tanti animali
lei solo sci toccò ddove sci dole.
De quanti
bbelli fatti oggi ho ssentiti
spiegà ssu la Scrittura 1 io ve ne posso
cqua ssu ddu’ piedi ariccontà er piú ggrosso
da favve arimané mmezz’intontiti. 2
Disce dunque
c’appena li Sdrelliti 3
terminorno er passaggio der Mar rosso,
scappò ffora un mijjon de Malessciti 4
che ttutti assieme j’appiommorno 5 addosso.
Iddio se la
seggnò sta bbrutt’azzione, 6
perché allora l’ebbrei j’ereno amichi
e aveveno la vera riliggione.
Fatti dunque
passà cquattroscent’anni,
disse a Ssaulle: «Va’, e de sti nimmichi
nun ce restino ppiú mmanco li panni».7
Saulle
dunque, in nome der Ziggnore,
scannò inzino le crape 2 e le vitelle;
ma, o ffussi 3 pe avarizzia o ppe bbon core,
prese er re Agaggo e jje sarvò la pelle. 4
E ecchete
5 er profeta Samuelle
che lo chiama idolatro e ttraditore, 6
e jj’intima ch’er reggno d’Isdraelle
passerà a un zu’ viscino ppiú mmijjore. 7
Poi disce:
«Indov’è er Re, cche ttu ssarvassi?». 8
E ’r poverello je se fesce avanti,
tremanno peggio de li porchi grassi. 9
Allora
Samuelle, a ddenti stretti,
je disse: «Mori»; e in faccia a ttutti quanti
arzò 10 un marraccio 11 e lo tajjò
pezzetti. 12
Circa a
vventitré e un quarto er Padre Santo
s’affermò a bbeve 2 a Ttor-de-mezza-via; 3
poi rimontò in carrozza e ffesce 4 intanto:
«Sú, ggiuvenotti, aló, 5 ttiramo via».
Me crederai,
si 6 tt’aricconto in quanto
arrivò a Rroma? Ebbè, a la vemmaria
gia stava a ccasa e sse tieneva accanto
er zolito bbucal de marvasia. 7
Era tanto
quer curre scatenato
c’a Pporta San Giuvanni lo pijjorno 8
per un zommo Pontescife scappato.
E mmó
averessi 9 da vedello adesso
come ride ar zentí 10 cquanti in quer giorno
pissciorno sangue pe ttenejje 11 appresso.
Un tar munzú
Ccacò, cch’è un omo pratico
e Ddio solo lo sa cquanti n’ha spesi
pe vviaggià ddrent’ar reggno musurmatico
dove nun ce commanneno Francesi,
ricconta che
in sti bbarberi paesi
’ggni sei mesi sc’è un uso sbuggenzatico 1
che sse paga sei mesi de testatico
pe pprologà 2 la vita antri sei mesi.
Dunque disce
er Francese che ssiccome
ar Governo der Papa indeggnamente 3
nun j’amanca de turco antro ch’er nome,
c’è
ggran speranza che jje vienghi 4 in testa
de mette sopra er fiato de la ggente
’na gabbella turchina uguale a cquesta.
Pe
ggiudicà da ommini, Ghitano,
e nun bévese tutto com’alocchi,
le cose s’ha da védele coll’occhi
e ttoccalle a un bisoggno co le mano.
A ddà
rretta a le sciarle de li ssciocchi
cerchi er mare, e cch’edè? 1 ttrovi un pantano;
e li scudi contati da lontano
da viscino diventeno bbaiocchi.
Presempio
2 l’avocato mi’ padrone
sentirai dí cche scrive bbene; e cquello
fa invesce rospi e zzampe de cappone.
A l’incontro
er copista, poverello,
nu ne parla ggnisuno, e in cuncrusione
ha un ber caratterino stampatello.
Stretti?! Ma
gguardi llì, stanno attillati
che jje fanno un piedino ch’è un piascere.
Sòle schiette, se sa, 2 ppelle sincere:
sò 3 stivali, e nno zzànnoli 4 de frati.
Che ccosa se
ne fa, ssor cavajjere
de quelli fanfaroni 5 squatrassciati 6
che ddoppo un’ora o ddua che ll’ha ccarzati
je diventeno un par de sorbettiere?
Sbatti 7
er piede, accusí, ffacci de questo: 8
ma ggià, er vitello come sente er callo 9
cede da lui medémo 10 e ppijja er zesto. 11
Oggi e
ddomani ar piú cche sse li mette,
lei sti stivali cqui pposso accertallo
che jj’anneranno sú ccom’e ccarzette.
Larghi sti
bbordacchè?! 1 Llavoro a ttanti
e oggnuno li vò ggranni ppiú de quelli.
Quanno lei commannava du’ bbudelli,
sor Conte mio, poteva dillo avanti.
Questi ar
meno je vanno com’e gguanti
senza che cce se 2 sforzi e ss’appuntelli:
nun c’è ar meno bbisoggno de mettelli
a ffuria de sapone e de tiranti.
Nu la sente
che ppasta de gammàle?
La prim’acqua che vviè cquesto aritira;
e, ssi strozza, 3 o nun j’entra o jje fa mmale.
Carzi
commido, 4 carzi: er tropp’è ttroppo.
Eppoi pe ffà er piedino se sospira
co li calli e ssoprossi e sse 5 va zzoppo.
Dichi 1
a la tu’ padrona ch’è indiscreta?
oh ssenti er mi’ sor Conte quant’è ccaro.
Disce: «Vàmme a ccrompà 2 cqui dar libbraro
la pianta de la ssedia de Gaeta». 3
Dunque io me
crese 4 de fà mmejjo, Teta, 5
d’annà ppiuttosto a cchièdela ar zediaro.
Disce: «Io nun venno 6 st’erbe, fratèr caro:
le tierà 7 er zempriscista coll’abbieta». 8
Curro 9
dar zempriscista: ebbè cquer manico
de panza 10 disce: «Fijjo mio, ste piante
forzi 11 sce l’averà ll’orto bbottanico».
Inzomma, a
ffàlla curta, Teta mia,
nun trovai ggnent’affatto; e cquer gargante 12
quanno c’aritornai, me cacciò vvia.
Servo de
Vusustrissimo. Io sò 1 cquello,
che pprima de le feste ebbe l’onore
d’incontrallo davanti ar friggitore
senza manco cacciammeje 2 er cappello.
Che aveva da
sapenne 3 un scarpinello 4
de st’antra premissione 5 der Ziggnore
che llei ortre 6 de medico e ddottore,
fussi puro 7 tenente e ccolonnello. 8
Che ne sapevo
io povera cratura 9
ch’er Papa manna 10 mó ccontr’er nimmico
’n esercito de medichi in muntura?
S’io n’avevo
un barlume da lontano
(je lo dico cor core, je lo dico),
je vienivo a bbascià ppuro la mano.
S’ariverissce,
sor dottor Baròni.
Eh? cche ddirà? Cce chiamerà vvillani
pe avé ffatto un sproloquio 2 ar zor Tavani, 3
e a llei finora un ber 4 par de cojjoni. 5
Cosa
vò! 6 co sti tempi bbuggiaroni
chi ha ppotuto ggirà? mmanco li cani.
Ccusí, 7 oggi e ddomani, oggi e ddomani,
sò sscivolati 8 ggià ddu’ mesi bboni.
Bbasta, speramo
che llei nun ce meni; 9
e ssimmai je piascessino 10 l’inchini,
n’avémo er collo e ’r cuderizzo 11 pieni.
Sor
professore mio, Dio lo distini
a ttrovà dapertutto mal de reni,
cianche 12 rotte e mill’antri 13 cancherini.
Oh cquesto
poi lo posso dí in cusscenza, 1
e ho ttant’in mano da dànne 2 le prove,
ch’io sò ott’anni e ccammina pe li nove
che, bbontà ssua, conosco Su’ Eminenza.
Sapete voi
che cquann’era Eccellenza
e io stavo de casa a Ccacciabbove, 3
veniva sempre co ccamìsce 4 nove
per avelle cuscite da Vincenza?
Appena
entrato me disceva: «Bbiascio
tiè, vva’ ar teatro». Eh cche bbravo siggnore!
Inzomma èrimo 5 propio papp’e ccascio. 6
Anzi una
sera, pe llevamme 7 er vizzio
d’aringrazzià, mme fesce inzin l’onore
de mannàmmesce 8 a ccarci in quer zervizzio.
Indove? Ah
sta commare, sta commare!...
Giudizzio, veh! bbadamo a nnoi, sor coso,
perché ccommare è un c ppiricoloso,
e ppò ssuccede 1 quarche bbrutt’affare.
Ggià
cco ttutte ste visite, me pare
de vede storce e mmasticà 2 lo sposo; 3
e nun vorría, 4 si 5 ddiventa ggeloso,
che cciannàssi 6 per aria er zor compare.
Lanzi
bbalordi: 7 se pò èsse 8 amico
senza tanti ronneggi 9 e ssenza tanti...
Abbasta, so bbe’ io cosa me dico.
Sí, er zan
Giuvanni, 10 sí: ma ssai che ssanti 11
che ssemo noi? Dunque nun zerve un fico
che mme te bbutti co le man’avanti. 12
«Che cc’entra
mó sto discorzo ridicolo?
Cià cche ffà 1 ccom’er Papa co le rape».
«C’entra, sora cardèa, 2 perché cce cape,
e cqua nun zerve de svortamme vicolo». 3
«Ma, ssor E,
4 cce saria ggnente pericolo
che vvoi co ttutte ste sfuriate ssciape
pijjàssivo 5 le pecore pe ccrape 6
o er búscio 7 de quer coso 8 p’er bellicolo?» 9
«Io ve dico
accusí, 10 ssora pettegola,
c’aràmo 11 dritto, e vve parlo sur zerio;
e cch’io sò 12 stufo, e vve servi de regola».
«Aramo
dritto, eh? bbrava la bbestia!
Nun pare de sentí fra Vvituperio
predicà la vertú de la modestia?». 13
Lo so da
Tanislao, che cco la cosa 1
c’ha a Ppalazzo un fratello scopatore,
è ar caso de conossce 2 sora sposa, 3
tutti li peti 4 de Nostro Siggnore.
Lui sce
farà un tantino de scimosa, 5
se sbajjerà 6 ssur nome der pittore;
ma in fonno er fatto è vvero, sora Rosa,
com’è vvero che vvoi fate l’amore.
M’ha ariccontato
dunque Tanislao
ch’er Papa s’è vvorzuto 7 fà er ritratto
pe ddon Carlo e mmannajjelo a Bbirbao. 8
Ma ssiccome
è rriusscito un brutto quadro,
ner mentre s’incassava er Papa ha ffatto: 9
«Propio me ne vergogno com’un ladro».
Jerassera er
baggeo 1 de la padrona
venne ar tardi a pportajje la bbefana,
e jje diede ’na scatola che ssona,
’na saviggnea 2 de smarto 3 e ’na collana.
Bbe,
azzécchesce 4 sta fiandra 5 bbuggiarona.
Disce: «Oh cquesto poi nò: ssuono 6 romana,
ma ll’amiscizzia de la mia perzona
nun zi ottiè ccor dà ll’acqua a la funtana».
E llui? A sta
scappata arrepentina
parze 7 la tartaruca de zi’ Nèna
quanno aritira er collo in ne la schina.
Allora lei,
pe llevallo de pena,
s’arivortò a la donna; disce: «Nina,
riponete sta robba e andate a ccena».
«Come va,
ssor Loreto?» «Sempre male:
pòi bbuttamme 1 per terra cor un deto». 2
«Ma, in zostanza, c’avete?» «Eh, lo spezziale
disce ch’è un male che sse chiama abbèto». 3
«Ve dà
ffastidio de salí le scale?»
«Antro si mme lo dà! 4 cce vo 5 l’asceto».
«Ebbè, affare de nerbi, 6 sor Loreto,
tutt’affetto 7 der tempo. E a lo spedale
ce sete
stato?» «A mmé?! ddímme cojjone! 8
Nun zai c’a lo spedale sce se 9 more?»
«Avete mille e ppoi mille raggione. 10
Lassate
fà, 11 lassate fà ar Ziggnore;
e vvederete a la bbona staggione
si 12 ttornate a ddà ssú mmejjo d’un fiore».
«Ôh, vve
trovo a la fine. È un’ora bbona,
sor Titta 1 che vve scerco dapertutto
pe ppijjacce 2 la solita cacona, 3
come ve piasce a vvoi, de vin’assciutto».
«Nun
trattenemme, Andrea, ché mmommó 4 ssona
mezzoggiorno e in cuscina ho da fà ttutto;
e pprima ho da ggirà ppe la padrona
a ordinà ppe stasera er mezzo-lutto».
«Perché?»
«Pp’er ballo da l’imbassciatore».
«Ma mmezzo-lutto che vvò ddí, ssor Titta?»
«Che! nu lo sai? Vò ddí mmezzo dolore.
Quanno una
vedovella sderelitta 5
vò acconcijjà 6 la conveggnenza e ’r core,
va a bballà mmezz’alegra e mmezz’affritta».
«Quante
carrozze pe Strada Papale!
Chi è cquesto che jje porteno l’ombrello
co ddu’ fiocchi appoggiato a un ancinello?» 1
«È un papastro». «E ssarebbe?» 2 «Un cardinale».
«Dite, e
cquel’antro 3 in carrozzino?» «Quale?»
«Là, ccor fagotto pavonazzo.. . » 4 «Ah, cquello
è un prelato che ttorna dar mascello». 5
«E cch’edè 6 sto mascello?» «Er tribbunale».
«E sta
siggnora in carrettella?» «Questa
è una puttana da scento monete,
c’ha ddritto de passà ppe ddonna onesta».
«Cqua in
timonella 7 chi cce va?» «Un dottore». 8
«E in sta bbastarda un préncipe?» «No, un prete».
«E llí a cquattro cavalli?» «Un fornitore».
«A
pproposito, disce, de sceroti,
er naso der zor Màvuro 1 è gguarito?»
«Sí», ddisce, «Iddio sta vorta ha esäudito
er cammeriere, l’oste e li nipoti».
«Ma»,
arispose er decane 2 de Devoti,
«j’è arrestato 3 un nasone accusí ardito,
che ppare Purcinella travistito
da Papa, e ccurre vosce che cciarroti». 4
«Uh, a
proposito», fesce 5 Ggiuvenale,
«l’amico pe ’na certa cacarella 6
pe st’anno nun vò mmaschere, e ffa mmale».
Cqua sse
n’usscí Ggervaso: «Oh cquest’è bbella!
Me pare bbuffa assai ch’er carnovale
lo provibbischi propio Purcinella».
Oggi ar fine
per ordine papale
cor protesto 1 e la scusa der collèra,
ma ppe un’antra 2 raggione un po’ ppiú vvera 3
er Governo ha inibbito er carnovale.
Dunque nun
c’era d’arifrette 4 ar male
de chi vvenne 5 le mmaschere de scera?
dunque nun c’era da penzà, nnun c’era,
all’abbiti 6 d’affitto, eh sor piviale? 7
E nnoantri
8 che ffamo 9 li confetti
e ttant’e ttanti che ccampeno un mese
cor trafico de lochi e mmoccoletti?
Ah! cqui, ppe
lo scacarcio 10 de sto Santo
senza viggijja né llàmpene accese,
Roma, pe ddio, s’ha d’aridusce 11 un pianto.
Che? ha
inibbito le mmaschere, bbuffoni,
pe vvia che 1 in sti tempacci incollerati
l’ommini nun ze fussino ammalati?
Sí, ddàtelo a d’intenne 2 a sti cojjoni.
Dunque come
se spiega che da Prati 3
se vedeva de drento a li bbastioni
’na càccola 4 de sedisci cannoni 5
caricati, attaccati e ppreparati?
Co ste pírole
6 cqui, ccrape 7 futtute,
co sti bbelli ssciroppi de scerase
se conzerva li popoli in zalute?
Tiè
cquer zervo de Ddio ’na coratella 8
che cce faría spianà ppuro le case
quanno je se toccassi 9 una pianella.
Questo poi,
verbigrazzia, nun zaprei...
pe bbriosa, pe ggiovene, pe bbella,
cqui ssò cco vvoi: 2 ma cquer che ssia zitella 3
nun basta, sposa, che lo dichi lei.
Lei crede de
pijjacce pe ccardei, 4
e io tiengo ’na scerta coratella 5
che jje direbbe 6 in faccia: «Puttanella,
nun te fà dder paese che nun zei». 7
Nun ze
fussino 8 visti, eh?, li traghetti 9
co cquer munzú che la trovò in ciavatte 10
e l’empí ttutta-quanta de merletti?
Avé le corna
a ttempo suo, pascenza;
ma annassele 11 a ccercà bbelle che ffatte
nun me pare che ssii troppa prudenza.
«Chi
ccercate, bber fijjo?» «La mammana».
«Nun c’è: è ita a le Vergine 1 a rriccojje».2
«Dite, e cquanto starà? pperché a mmi’ mojje
je s’è rrotta mó ll’acqua ggiú in funtana».
«Uhm, fijjo
mio, quest’è ’na sittimana
che jje se ssciojje 3 a ttutte, je se ssciojje.
Tutte-quante in sti ggiorni hanno le dojje:
la crasse 4 arta, la bbassa e la mezzana».
«E cche vvor
dì 5 sta folla?» «Fijjo caro,
semo ar fin de novemmre; e ccarnovale
è vvenuto ar principio de frebbaro.
Le donne in zur calà la nona luna
doppo quer zanto tempo, o bben’o mmale
cqua d’oggni dua ne partorissce una».
Povero Papa
mia! fu ttant’affritto
de concèdesce 2 er corzo e li fistini 3
vòti de Purcinelli e Traccaggnini, 4
e ascrívesce 5 le mmaschere a ddilitto,
che ssubbito
ordinò cco un antr’editto
ch’er Monte-de-pietà ssenza quadrini
aridassi 6 li peggni piccinini,
acciò er popolo ssciali 7 e sse 8 stia zzitto.
La quale er
Zanto Padre pe ffà ffronte
a la spesa, nò ttutta ma pporzione,
penzerà lui d’aringretànne 9 er Monte.
Defatti co
cquer core da Sanzone,
je mannò, 10 cché ll’ha ssempre bbell’e ppronte,
quattro mijjara de bbon’intenzione.
Ma llei lo
vedi 1 al lume: osservi er baggno
de la tinta: conzideri la lega
de li colori, corpo de ’na strega!
guardi che cqualità, ppe ssan Pistaggno!
Lei l’attasti
in ner zito de la piega 2
si 3 sto cambricche nun pare un fustaggno.
E nnun zò mmica le tele de raggno
de sti ladri mercanti de bbottega.
La robba
forte bbisoggna pagalla;
e cco sta robba cqua cce se faría 4
un tammurrello da ggiucacce 5 a ppalla.
Tre ppavoli?!
cuccú! 6 cquesto se venne 7
du’ testoni la canna, sposa 8 mia:
e ar monno chi ppiú spenne, 9 meno spenne.
Arto sei
parmi e un terzo ariquadrato.
Spiegatelo: nun pare una tovajja?
Bber fazzoletto! E ar telaggio nun sbajja.
Quest’è acciaro, per dio! ferro filato.
Una piastra,
e lo lasso a bbommercato.
Che?! A ssei ggiuli sto capo nun ze 1 tajja.
Costa a mme ppiú de nove a Ssinigajja
da povero cristiano bbattezzato.
Si 2
vvoi trovate chi vve facci er calo
manco d’un ette sott’ar prezzo mio,
da quell’omo che ssò 3 vve l’arigalo.
Chi è
cche vve lo dà ppe cquattr’e mmezzo?
er giudío? Dunque annate 4 dar giudío,
ma ssarà un scarto: lo condanna er prezzo.
Cosa volévio?
2 una rezzòla 3 fina?
Peppe, cala quel mazzo. A vvoi, fijjola:
eccove cqua un brillante de rezzòla
che ppò pportalla in testa una reggina.
Aibbòo,
4 nnun c’è ccottone, aibbò, sposina:
la mantengo pe ttutta capicciola. 5
L’ultimo prezzo? Una parola sola;
e a ttanto l’ho vvennute stammatina.
Sentite, o la
pijjate o la lassate,
faremo un scudo perché sséte 6 voi.
Bbe’, ppss, vvenite cqua, ccosa me date?
Un quartino!
7 è un pò ppoco, bbella mia.
Nun ze 8 cambia moneta: sta ppiú a nnoi...
Abbasta, nun ve vojjo mannà vvia.
Averò
ddetto un sproposito grosso:
ne dichi 2 adesso un antro 3 puro 4 lei.
Diammine! ôh mmanco poi fussimo ebbrei:
pe sti prezzi che cqui, ppropio nun posso.
Eppuro
è avolio! 5 Pijji questa d’osso,
caro siggnore, e jje la do ppe ssei.
Via, me creschi un papetto,... nun zaprei...
Ciaggionti 6 du’ carlini... un giulio... un grosso...
Rifretti
7 che ssò 8 ggeneri de Francia.
Spacchi er male pe mmezzo: dia un testone,
e sservirà pe ffà la prima mancia.
Via, nun
vojjo c’arresti 9 disgustato:
compenzeremo in d’un’antra occasione.
Màa!, nnun lo dica, veh, ccos’ha ppagato.
Sarà
ccaro; ma un cuccomo de staggno
tirato com’e cquesto a ppulimento,
nun fo pper dí 1 cche ll’ho ffatt’io, ma in cento
lei nu 2 ne trova a Rroma uno compaggno.
Guardi che
llustro! e cquer ch’è ffora è ddrento.
Credi puro 3 c’appena io sce 4 guadaggno
pe vvive, 5 e llei co ttanto ppiú sparaggno 6
pò ffà 7 cconto c’ha un cuccomo d’argento.
La robba
ch’essce dar negozzio mio,
nun zia 8 mai pe vvantamme, 9 è rrobba bbona
e llavorata cor timor de Ddio.
Eppoi questo
è un discorzo corto corto:
lei vadi, 10 ggiri pe Ppiazza Navona,
ma a pprezzo uguale nun me facci torto.
Ebbè,
appena passati li cavalli
dovunque s’accenneva moccoletti
una carca 1 de marri 2 e ppasticcetti 3
de carièra curreveno a ffischialli.
Da le
bbotteghe in zú ffino a li tetti
guai chi nun vorze 4 subbito smorzalli!
Sassate a le perziane e a li cristalli
che ffioccaveno ggiú ccom’e cconfetti.
Cacciorno
5 le carrozze a bbastonate,
serrorno 6 porte, sfassciorno 7 lampioni...
Me pareveno furie scatenate.
E li
cherubbiggneri 8 e li dragoni?
Co le loro guainelle 9 sfoderate
ce fescero la parte de cojjoni.
Ma ssi 1
lo díco io, ma ssi 1 lo dico
che cquarche gghetto 2 aveva da succede.
E ssi cqua sse 3 va avanti su sto piede
nun ce n’ha da restà manco un ciníco. 4
Eppuro,
5 sce 6 scommetto c’a l’amico 7
nun j’hanno detto un cazzo 8 com’aggnede; 9
e llui se ne sta a ccasa in bona fede
credenno tutto com’ar tempo antico.
Io vedde, 10 usscenno dar Gesú,
11 una strisscia
de paíni 12 c’annava tarroccanno,
e ffesce 13 tra de mè: cqua nun è llisscia.
Nun avé da
capí sti preti zzoccoli
che, llevate le mmaschere, pe st’anno
s’aveva da levà ppuro 14 li moccoli!
«Salute che
ccampane! 2 v’ho bbussato
inzinenta 3 ar zolaro cor bastone!...».
«Stavo sur tetto a rripijjà un piccione
che da jjerzéra impoi m’era scappato.
E cche
vvolévio?» 4 «V’avevo chiamato
perch’è ssonata la bbinidizzione,
e ïo tiengo 5 la pila in ner focone
c’ancòra, grazziaddio, nun ha schiumato».
«Bbe’?» «Vve
volevo dí ddunque una cosa:
s’inzin 6 che ttorno me sce 7 state attenta.
Me sce lo date un occhio eh sora Rosa?»
«E pperché
nnò? Llassate puro 8 uperto,
ch’io quanto tiro addietro la pulenta
e ssceggno. 9 Ma ssí, ssí, vviengo de scerto». 10
Eh, ir
ziggnore si vede c’ha vviaggiato:
ha sscerto 1 una gran bella tabbacchiera!
Radica der Perú, rradica vera,
e nnò lleggno dipinto e invernisciato.
Lei oggi cqua
in vetrina m’ha llevato
ir capitale ppiú mmejjo che cc’era;
nun zi dubbiti, no: ppe la scerniera
so bbe’ io si cche ottone sciò 2 addoprato.
Stenta? Ma
mme fa ride! 3 è rrobba nova.
Eppoi la ggente nun zi pijja in gola.
Io ste scatole cqui jje le do a pprova.
Lei vadi
puro, 4 lustrissimo mio,
lei dormi 5 quieto su la mi’ parola;
e in oggni caso, ssò ssempre cqua io. 6
Io mó nun
m’aricordo er come e ’r quanno
j’ho vvennuta la scatola: me scotta
de sentí cche jj’ho ffatto er contrabbanno
d’appoggiajje un lavore de ricotta.
Lo capisco
pur’io che qui cc’è ddanno
ne la scerniera; ma cchi ssa cche bbòtta
ha avuto in ner cuperchio!: l’averanno
fatta cascà pper terra e jje s’è rrotta.
La scatola
era sana. Eppoi, chi ha ll’occhi,
quanno che ccrompa 1 l’ha da uprí, bber fijjo.
Er monno nun è ffatto pe li ssciocchi.
Mó è
sfracassata, sí: chi vve lo nega?
Ma io la marcanzia nu 2 l’aripijjo
una vorta ch’è usscita da bbottega.
Quant’a mmé
bbuggiarallo don Mariotto,
ma in questo nun je so nnegà rraggione.
Ste femminacce sò ttante 1 portrone
che cce vorebbe l’ojjo der cazzotto. 2
La predica
è intimata a ddiscidotto?
Bbe’, spesso spesso sona er campanone
de ventuna, e ste fremme 3 bbuggiarone
ancóra nun ze métteno er cappotto.
Oggi ha ddetto
però: «Pper dina nora!,
a mmontà in pulpito io sò 4 ssempre pronto,
e llòro pe scovasse 5 nonziggnora.
A mmé sta
storia nun me torna conto.
Ma da cqui avanti, ammalappena 6 è ll’ora,
la prima donna che vviè in chiesa io monto».
Import’assai
si 1 ha ffatto er friggitore
e ssi 1 è stato a la pietra in pescaria!
Er príffete 2 è la vera siggnoria
chi ha cquadrini cquaggiú ssempre è un ziggnore.
Disce: «Ma a
ccasa sua, sia che sse 3 sia,
nun ce càpita un cane, e cce se 4 more
de pizzichi». 5 E cche ffa? Sto disonore
j’intraviè ppe la su’ spilorceria. 6
Lui cominci
un po’ a spenne 7 e a ddà da pranzo,
e ttroverà l’appartamento pieno;
e ssi vvò amichi n’averà d’avanzo.
Minestra,
diesci piatti, cascio e ffrutti,
eppoi vedi la folla! Ar men’ar meno
li cardinali cianneríeno 8 tutti.
Sentite,
sposa: 2 er nun zudasse 3 er pane,
lo stà in ozzio ar focone in ne l’inverno,
er vince un amb’al lotto e mmejjo un terno,
l’avé ppieno er cammino de bbefane,
er beve
auffa, 4 er cojjonà er Governo
e ffàlla in barba ar fisco e a le dogane,
lo sguazzà ttra un diluvio de puttane
che nun abbi pavura de l’inferno,
l’èsse
5 appraudito, er diventà ssiggnore,
prelato, cardinale, santo padre...
sò 6 ttutti gusti che vve vanno ar core.
Ma de tanti
ggnisuno s’assomijja
manco per ombra ar gusto c’ha una madre
d’èsse cresa 7 sorella de la fijja.
«Scusateme,
sape’ 2, ssora Nunziata:
v’appunto una parola e scappo via».
«Commannateme, sora Nastasia».
«Dite un po’: cquanno fate la bbucata?» 3
«Nun vedete?
è ggià bbell’e ppreparata
la callàra 4 pe bbulle 5 la lesscía». 6
«Dico perché cciò 7 un po’ de bbiancheria...
Volemo fàlla tutta una tuttata?». 8
«Volentieri;
ma... è ppiena la tinozza...
Anzi fàtem’annà 9 ssinnò 10 la robba
pijja troppo de covo 11 e mme s’incozza». 12
«Ho ccapito.
Ma ggià cquesto succede
a cchi ggratta le schine co la gobba. 13
Abbasta, chi nun more s’arivede». 14
«Eh sora
Nastasia». «Cosa ve dole?»
«Inzomma? eh sora Nastasia!». «Che vv’essce?»
«Presto, ché vv’ho da dí cquattro parole».
«A nnoi, sentimo cosa sò ste pressce».
«Me fate
mette 2 du’ matasse ar zole?»
«Magara, 3 bbella mia; ma mm’arincressce
ch’er tetto serv’a mmé». «Vvia, sò 4 ddua sole...».
«Sí, un po’ ppiú in là: cquanno la luna cressce».
«Ma ssapete
che ssete 5 una cosaccia?»
«Tirate er fiato a vvoi: 6 ggiucate er zei». 7
«Sí, una scontenta, 8 e vve lo dico in faccia».
«Nun
z’aricorda ppiú de quel’affare?
Quer che llei fesce a nnoi noi famo 9 a llei.
Oggni nodo viè ar pettine, 10 commare».
Forca, leva
dar crino sta cratura:
mòvete, che tte stroppi in zempiterno.
Portelo a spasso, portelo a l’inferno,
portelo a ffiume e affoghete addrittura.
E
bbarbottesce, 1 sai, bbrutta figura?,
che tte pijjo p’er collo e tte squinterno.
Uh tte potessi véde 2 in zepportura!,
me parerebbe d’avé vvinto un terno.
Quanno che
schiatti vojjo fà un pasticcio
de maccaroni, e un triduvo a ssant’Anna
per avemme 3 levata da st’impiccio.
Questa
è l’aricompenza, eh?, de le pene
de ’na povera madre, che s’affanna
vassalla infame, p’educatte 4 bbene?
Sò cco
vvoi: 1 è un cosaccio, 2 è un ancinello,
3
pe ttutto indove va ciarleva 4 bbòtte,
tutt’er monno lo tiè pp’er zu’ zzimbello,
tutti-quanti lo manneno a ffà fotte:
bbe’, eppuro
5 quer cojjon de mi’ fratello
nun vede per antr’occhi, e sse n’iggnotte 6
quante je ne pò ffà. Ggià, cquanno quello
pijja a cconfettà 7 uno, bbona notte.
Si jje disce
c’un asino ha vvolato
lui se la bbeve subbito, e cce ggiura
come fussi er vangelio der curato.
Io ppe mmé,
nnun c’è ccaso, ho ggran pavura
che cquer bbirbone me l’abbi stregato
e jj’bbi fatto fà cquarche ffattura.
Ma cc’asstrazzione! 1 arrabbieli! saette!
Guasi sce ggiurería 2 che sto scontento
o le mi’ palle nu le mette drento,
o cche le sa scanzà ssi cce le mette.
Giuco da un
anno dua tre e ottantasette,
co la promessa amb’uno e terno scento: 3
ciaffogo 4 sempre er mi’ lustrin 5 d’argento;
e cquanno sémo llí nnun vinco un ette.
Quattro
nummeri drent’a la ventina!
Eppoi nun dite sò ccose accordate!
Dar capo viè la tiggna, 6 Caterina.
Ecchele cqua:
ccinquantadu’ ggiucate
senza un nummero. Eppuro la cartina
cor terno scritto me la diede er frate! 7
«C’hai
ggiucato?» «Ottantuno pe ssiconno». 1
«Bbono: me piasce. Io sce ll’ho ddrent’a un terno
e a ’n’ambo; e pprima che ffinischi inverno,
nun c’è ccaso, ha da usscí, ccascassi 2 er monno».
«La figura de
nove, sor Rimonno,
ha da fà st’anno sospirà er governo.
Vedi ch’er ventisette lo chiuderno 3
pe Ffiorenza, e ppe Rroma l’arivònno?» 4
«Te sbajji,
5 Checco 6 mio: quello è er zimpatico
de l’antr’anno: pe cquesto è er discidotto.
De ste regole cqui ssei poco pratico».
«Bbe’,
è ffigura de nove quello puro. 7
E in tutta la seguenza, o ssopra o ssotto,
pe ssei mesi sc’è er nummero sicuro».
Come diavolo
mai me sò 1 accecato
a nun capí la gàbbola der mago!
Ma ssenti: l’incontrai sabbito 2 ar lago; 3
disce: «É da jjeri che nun ho mmaggnato».
Lo porto
all’osteria: lui maggna: io pago:
l’oste sparecchia; e ddoppo sparecchiato
er mago pijja un cane llí accucciato 4
e jje lega la coda co uno spago.
Io fo un
ambo: tre er cane, e ccoda ar nove.
Ebbè, azzécchesce 5 un po’? ppe pprim’astratto 6
viè ffora com’un razzo er trentanove.
Ma eh?
ppoteva dàmmelo ppiú cchiaro?
Nun l’avería 7 capito puro 8 un gatto?
L’avevo da legà, pporco-somaro!
Ma ddavero
davero, eh sora Nina, 1
nun volemo finìlla co sti gatti?
Jerzera me sfassciorno quattro piatti:
oggi m’hanno scocciato una terrina. 2
Uno me te
3 dà addosso a la gallina:
l’antro 4 me 5 sporca li letti arifatti...
E oggnisempre bbisoggna che commatti 6
a ccaccialli a scopate da cuscina. 7
Ecco, er pupo
8 oggi ha er gruggno sgraffiggnato. 9
E pperché ho da soffrí ttutti sti guasti?
P’er vostro luscernario 10 spalancato?
Quanno le
cose sò ddette una, dua,
tre e cquattro vorte, me pare c’abbasti.
Lei se tienghi 11 li gatti a ccasa sua.
Ma ssentitela
llí cquela mmerdosa 2
si 3 ccome sce protenne 4 e ffa la donna!
È un baiocco, pe ddio!, tra ccascio e ffronna, 5
e vvò mmette er zu’ bbecco 6 in oggni cosa.
Ce parte
7 cor parlà de fasse sposa... 8
Dà ssu la vosce a la madre, a la nonna...
Sputa sentenze... E indove se la fonna
tanta cacca 9 e arbaggia sta mocciolosa?
E nun zerve
co mmé cche vve vortate
tutt’impipirizzita 10 e bbarbottanno,
ch’io, bbe’ cche 11 zzia, ve pijjo a sculacciate.
Che ne so!
ssi vve fussivo mai creso... 12
A vvoi ve tocca de discorre quanno
pissceno le galline: 13 avet’inteso?
Sí mme
vò 2 bbene?! povero Cammillo!
Quell’omo io je potrebbe sfraggne l’ova
in faccia. A mmé nun me sta bbene a ddíllo,
ma un marito ppiú bbono nun ze trova.
In zett’anni
che ll’ho, mmai uno strillo!
mai un tíret’-in-là! ’Ggni cosa nova
ch’essce a Rroma è ppe mmé: cqualunque grillo
me viè, llui me lo leva, o cce se 3 prova.
La sera poi
ch’è stracco, poveretto,
pe ffàmme 4 divertí, ffesta o nnun festa
me conzeggna ar compare, e llui va a lletto.
E ppe
cquesto, ecco llí, ssora Vincenza,
j’arïessce oggni affare che ttiè in testa,
e ’r Ziggnore je dà la providenza. 5
E bbene,
e bbene: e ddàjjela 2 cor bene.
Io nun dico de nò, pe ddio de leggno!
ma jje ne vojjo inzin’a un certo seggno,
e sserro l’occhi 3 pe nun fà ppiú sscene.
Doppo
ch’Iddio lo sa ssi 4 cquante pene
me pijjo sempre pe sto bbell’ordeggno: 5
doppo che llei pò ddí 6 ccome m’ingeggno
pe mmantenejje 7 le budelle piene,
nun passa
ggiorno senza quarche vvojja,
come le piastre io le zzappassi a ssome.
Ah! ll’omo è un gran cardeo 8 quanno s’ammojja.
Oggi madama
vò ir caffè cor latte!
Io, sciorcinato 9 stò a cquadrini come
sant’Onofrio a ccarzoni, e llei ce bbatte. 10
Grazzie,
n’avemo trenta, è er fin der mese:
lo so, ssí, 1 è er giorno c’ha da usscí er giornale.
E ssi nun essce? è ppeccato mortale?
fina er monno? subbisseno le cchiese?
Sí vve 2
state a pijjà ttutte ste sscese
de capo, 3 finirete a lo spedale.
Un giorno ppiú, uno meno, è ppoco male.
Tutte-quante le smanie a sto paese!
Mica è
ppoi pane: mica è ggran 4 che ccasca.
Oggi o ddomani nun fa ppreggiudizzio:
nun zò 5 ccose che ppassino bburrasca.
Er giornale
se lega 6 ar fin dell’anno:
dunque... Ebbè, ss’oggi vengheno a l’uffizzio
lassateli vení: cce torneranno.
«È in
ordine, sí o nò, questo cappello?»
«Quale?» «Il cappello bianco». «Ah, ssissiggnora. 1
Checco, 2 venite cqua: ccacciate fora
quel tutto-lepre. Nò cquesto... nò cquello...».
«Orsú, non
dite piú bugie, fratello...».
«Via, dunque, el zu’ cappello se lavora».
«Vediamolo». «L’ha in mano l’orlatora».
«Mandateci». «Eh, el regazzo sta al fornello...».
«Ho capito».
«Ma llei sii perzuasa,
sor cavajjere, ch’el cappello è ppronto,
e ddomatina je lo manno a ccasa».
«Lo stesso mi
diceste l’altra festa».
«Lei nun ce penzi ppiú: llei facci conto
com’el cappello ggià ll’avessi 3 in testa».
Doppo che jje
finii l’imbiancatura
ar mezzanino, ar terzo piano e ar quarto,
quel’assassino da mazzola e squarto
me negò ttutto in faccia; e mmó lo ggiura.
Che vvòi!
1 me sce pijjai ’n’arrabbiatura
che, avessi visto, sartavo tant’arto.
Poi me sò 2 ddato pasce; e ssi cce scarto 3
è affetto de l’abbile che mme dura.
Un
mijjonario! un bizzoco! un marchese!
un nipote e ffratel de cardinale!
Accidenti che rrazza de paese!
Quanno servi
le ggente duzzinale
nun te fanno improntà mmanco le spese;
e un nobbile lo sciti e nnun te vale.
S’abbuscò
una pavura, una pavura,
che vvenne a ccasa com’un spiritato.
Pareva, a vvédelo, un panno lavato,
un morto esscito da la sepportura.
Io fesce
1 quann’entrò: «Cche ccos’è stato?
che vv’è ssuccesso, sor Bonaventura?
Nun è ggnente: 2 mannateve 3 addrittura
sto vino ggiú ccor carbone smorzato».
Ve sce
fòssivo trova, 4 sor’Irene!
Sudava freddo: nun j’era arimasta
’na gòcciola de sangue in ne le vene.
Eh? un omo
accusí ttenero de pasta
sentí 5 strilli e rrumori de catene!...
Eppoi disce uno er zangue je se guasta!
«Dico,
ditem’un po’, ssora commare,
ch’è ssuccesso cquassú? ffate la ggiostra?»
«Sora minchiona, stamo a ccasa nostra
e vvolémo zzompà 1 cquanto sce pare».
«Ma inzomma
cqui da noi pe ccausa vostra
viè ggiú er zolaro». «Povere somare!,
ji fa mmale ir rimore!» 2. «E ste caggnare,
dico, in che ddànno, 3 sora bbrutta mostra?» 4
«Drento a sti
muri cqui ssemo padrone
de stà alegre e ggodé ccome sciaggarba. 5
Pagàmo, casomai, bbona piggione».
«Bbe’, bbe’,
ddomani ve farà la lègge
er Presidente...». 6 «E cce darà de bbarba.
Uggnuno ha er zanto suo che lo protegge». 7
«Sor’Antonia,
ch’edè 1 ttutto sto fume?»
«Gnente, sor’Anna: còscio 2 le bbrasciole».
«Guardate cqui! nnun ce se vede lume!
v’acceca!, ve fa ppiaggne!, appanna er zole!».
«E vvoi
serrate». «Che bbelle parole!
Come, si le finestre sò un sfassciume?
Eppoi nun viè da le finestre sole:
puramente er zolaro è un frascicume».
«E vvoi
dunque incollatesce la carta».
«Starebbe fresca! Eh allora...». «Ôh, allora, allora
nun me seccate e annateve a ffà squarta.
Ciamancherebbe
mó ppuro er ritosto, 3
c’adesso pe ddà ggusto a la siggnora
nun ze potessi fà 4 mmanco l’arrosto!».
Ma cche! er
zor don Taddeo nun je l’ha scritta
la disgrazzia der fijjo der padrone?!
No, nno cquello ammojjato: er ziggnor Titta 1
che ttir’avanti pe l’avocazzione. 2
Eh, una sera
c’aggnede 3 su in zuffitta
a ccercà la padella der focone,
cascò ppe la scaletta a ttommolone 4
e sse róppe 5 er carcaggno de man dritta. 6
Inzomma, a
ffàlla curta, infiamma infiamma,
in cap’a un mese, nun ce furno santi, 7
bisoggnò vvení ar tajjo de la gamma.
Che jje ne
pare, eh? ppovero fijjolo?
C’è er vantaggio però cche dda cqui avanti
farà la spesa d’un stivale solo.
È ito in
paradiso. Morze 1 jjeri,
povero galantomo, in d’un assarto
d’àsima 2 a ttredisciora 3 men’un quarto
quann’io stavo ssciacquanno li bbicchieri.
Tutto pe
ccausa de st’infame apparto
de li letti da dà 4 a li granattieri.
Eh, sposa 5 mia, sò 6 stati li penzieri,
che ffanno peggio de mazzola e squarto.
Nun
c’è rrimedio, 7 lui, fin dar momento
che pprincipiò a rrimette 8 de saccoccia
parze 9 un pezzo de lardo a ffoco lento.
S’era
arrivato a strugge 10 a ggoccia a ggoccia
che in ne li panni sce bballava drento
come una nosce 11 secca in ne la coccia. 12
Me dimannate
er padroncino mio
che vvita fa da quanno è rricco-maggna? 1
Spenne e spanne a la sceca, 2 e arisparaggna 3
su le limosine e ’r zalario mio.
Er
giorn’istesso che jje morze 4 er zio
e pprincipiò ppe llui quela cuccaggna,
attaccò un leggno e sse n’annò in campaggna,
lassanno er morto ne le man de Ddio.
Passata poi
’na sittimana o ddua
tornò a Rroma cor velo sur cappello.
Ma cche ppiaggneva? l’animaccia sua?
Sai dove
sò 5 le lagrime? in scurtura
scritte sin che ne vòi 6 co lo scarpello
sopr’er cuperchio de la sepportura.
’Na lastra de
Carrara, 1 lavorata,
de sei parmi 2 su cquattro, e ttutta un pezzo.
’Na fasscia de sbardijjo 3 impomisciata
longa de ventisei, larga un’e mmezzo.
Duscento
lettre e ’na crosce staccata
for der pitaffio, co ’na riga immezzo,
arte du’ onc’e mmezza avantaggiata,
a ttre bbajocchi l’una, urtimo prezzo.
Nove scudi la
tavola de marmo:
sei le lettre e la crosce; e lo sbardijjo
quínisci e mmezzo, a ssei pavoli er parmo.
Sò
4 ttrenta scudi e ccinquanta bbajocchi.
Ecco la spesa c’ha impiegata er fijjo
pe assciugasse 5 le lagrime dall’occhi.
Quer che ssia
l’appitito, a Ssarafino
sta’ ccerta ch’er maggnà nnun j’arincressce.
Jerzera se sparí 2 un piatton de pessce
che ssarebbe abbastato pe un burrino.
Lui men de
tre ppaggnotte nun ze n’essce;
e lo vedessi come trinca er vino!
Naturale: ha ddu’ spalle da facchino...
È er zu’ tempo: se sa, ccarne che ccressce.
Va’ dd’un cosscetto 3 cosa sc’è arimasto!
Che cce volemo fà? llassa che mmaggni.
Nun ze pò ttrattené: ppropio è de pasto.
Li fijji de
salute è ttempo perzo 4
er dijje abbasta: 5 sò 6 ttutti compaggni.
Nun farebbeno ar monno antro 7 c’un verzo.
Uhm, chi l’ha
vvista mai la cunculina?
Chi ne sa ’na patacca 2 de sto fatto?
Io nu l’ho rrotta: sarà stato er gatto;
oppuramente 3 er vento, o la gallina.
Io?! ma llei
dichi a Ggaspero ch’è mmatto,
perch’io sò stata tutta la matina
sempr’in funtana pe la siggnorina,
e in ner redrè 4 nun ce sò 5 entrata
affatto.
E cche ne so
cchi ll’ha rriappiccicata?
Sí, ppe ssciacquà ll’ho ssciacquat’io ll’ho, ma er coco
è un busciardaccio a ddí ch’io l’ho sfassciata.
Se sbajja
6 lui: prima d’annà in funtana,
ce posso mette la mano sur foco,
che ss’era sana l’ho llassata 7 sana.
Eccole tutte
cqui nne la sarvietta
come l’ho ttrove. 1 Io doppo sparecchiato
c’ho aripassato er conto, ho aripassato,
ciamancava 2 un cucchiaro e una forchetta.
E llei crede
a Lluscía? Si sta sciovetta
bbutta la bbroda 3 addoss’a mmé ha sbajjato.
Ma ggneente: 4 io nun capisco; io nun zò 5 stato,
e nnun vojjo abbozzacce 6 una saetta. 7
Sta faccenna
sarà ccome sto lujjo
che ssuccesse l’affare der grisolito
der padrone, e cce fu cquer battibbujjo. 8
De quello
puro 9 ggià sta bbona pezza 10
dava la colpa 11 a mmé ssiconn’er zolito,
eppoi s’aritrovò ffra la monnezza. 12
Lei vedi
2 sto bbicchiere si jje piasce.
Quanto vò ddà?! 3 Un carlino?! eh, nun c’è
mmale.
Questo a bbuttallo sta un papetto, e vvale
cinque bbelli lustrini a la fornasce.
Eppuro
s’avería da fà ccapasce 4
ch’è un bicchiere che ppare un urinale.
Eppoi sto vetro cqua, ssor principale,
nun je crepa nemmanco in ne la bbrasce.
Quell’omo
mio, p’er costo d’un carlino,
lei pò ppuro 5 provà dda li todeschi,
nun ce pijja un bicchier da mezzo vino.
Un carlino!
eh, ffarebbe 6 un ber 7 negozzio.
Co sti guadaggni staressimo freschi!
È mmejjo d’annà a spasso e de stà in ozzio.
Sere
addietro, ar caffè, ddisse un paino 1
pien de peli ar barbozzo: «Er Re de Francia,
disce, ha abbuscato una gran brutta mancia
a rubbasse 2 lo sscetro a ssu’ cuggino».
«Come?!»,
arispose un vecchio cor cudino: 3
«Iddio j’ha mmess’in mano la bbilancia
d’Uropa, 4 e llui farà apparà 5 la guancia
a cchiunque in ner monno è ggiacubbino».
L’antro
j’annava 6 a rrepricà de core;
ma er vecchio furbo je serrò la bbocca
discenno: «Er Re de Francia è un Zarvatore». 7
Allora er
giuvenotto arzò la vosce:
«È vvero», disce; «e ppe cquesto je tocca
la corona de spine eppoi la crosce».
Che ttalento
de fijjo! Uh bbenedetto!
Je spunteno le grazzie co li denti.
C’è la commare che nn’ha ffatti venti
e cce ggiura ch’è un angelo, un folletto.
Eccolo,
ancora me s’attacca ar petto,
sí e nnò vva ssolo, e ggià ddisce accidenti.
Ha ttrenta mesi a mmaggio, e, ssi 1 lo senti,
bbiastima, 2 fijjo mio, com’un ometto.
Lui pe strada
’ggni bbrécciola 3 che ttrova
nun pò ttiralla ché jj’amanca er fiato,
ma bbisoggna vedé ccome sce prova.
Si ttanto me
dà ttanto 4 appena nato,
da granne ha da vení ’na cosa nova:
ha da dà rresto 5 a ttutto er viscinato.
Tiè,
1 ccane; tiè, ccaroggna; tiè, assassino:
tiè, ppijja sú, animaccia d’impiccato.
Nò, ffío 2 d’un porco, nun te làsso inzino
che cco ste mane mie nun t’ho stroppiato.
E zzitto,
zzitto llí, cche ssi’ ammazzato:
quietete, o tte do er resto der carlino.
Ah nnun t’abbasta? A tté, strilla caino
dunque pe cqueste sin che tt’essce er fiato.
E vvoi cosa
sc’entrate, sor cazzaccio?
Je sete padre? Questo è ssangue mio,
è mmi’ fijjo, e sso ío quer che mme 3 faccio.
Quanto va
cche l’acchiappo 4 pe le zzampe
e vve lo sbatto in faccia? Oh a vvoi, per dio!,
avemo messo er correttor de stampe!
Che rrabbia
è de sentí sti forestieri
de tremmonti, 1 che, ssenz’èsse 2 romani,
arriven’oggi ar Popolo, 3 e ddomani
ne sanno ppiú de li romani veri.
Vedi, dua de
sti bbrutti sciarlatani
pe la ppiú ccurta l’ho ssentiti jjeri
dí 4 mmale de li nostri bberzajjeri, 5
civichi, capotori 6 e zzampoggnani. 7
Disce:
«Futtre! aver nixe dissciprina».
Nun ze chiama uprí bbocca e ddajje fiato
er parlà a sta maggnera, 8 eh Caterina?
S’informino,
canajja sscemunita.
La dissciprina cqui ’ggni bbon zordato 9
va a ddàssela 10 ’ggni sera ar Caravita. 11
Quant’è
cche nun ce sémo ppiú vvedute?
Sicúro che ssarà cquarc’anno e anno!
Le cose de sto monno, eh? ccome vanno!
Ciaritrovamo 1 tutt’e ddua canute.
C’alegrione
c’avemo godute!
Ma! ll’anni, fijja, passeno volanno.
Io? nun c’è mmale, nò. Chi? Ffiordinanno? 2
Sí, ppe ggrazzia de Ddio, venne 3 salute.
Nanna?
s’è ffatta monica; e la storta
ha ppijjato marito. Chi? la madre?
Nu lo sapévio? 4 poverella! è mmorta.
Nòo,
nnun ciàbbita 5 ppiú Ttitta 6 cqui accosto:
è ito in Borgo. Dite: e vvostro padre?
Campa?! Oh gguardate si 7 cche vvecchio tosto!
Sí, è
bbona la cuscina 2 co lo strutto;
anzi lo strutto er barbiere m’ha ddetto
ch’è un connimento che ffa bbene ar petto
come fa er pepe c’arifresca tutto.
S’addatta a
li grostini cor presciutto...
ar pollame..., a l’arrosto de lommetto... 3
a lo stufato..., all’ummido..., ar guazzetto...;
ma addoprallo in ner fritto è un uso bbrutto.
Vòi
frigge 4 er pessce co lo strutto?! Eh zzitto.
Er pessce-fritto in nell’òjjo va ccotto:
l’òjjo è la morte sua p’er pessce-fritto.
Che
mmaggnà da stroppiati! 5 io ne sò mmatto.
E gguarda er Papa, che davero è jjotto: 6
ce se lecca li bbaffi com’un gatto.
Ggnente,
1 coraggio, sor Andrea. Si 2 è mmale
d’arifreddore, se 3 pijja una rapa,
se cosce 4 su la bbrascia, 5 poi se capa,
e sse maggna a ddiggiuno senza sale.
Le rape, sor
Andrea, sò ppettorale. 6
E bbe’ cche 7 ppare una materia ssciapa
pijja un dorcetto ch’è un maggnà da Papa,
e vve libbera poi da lo spezziale.
Ecco llí la
tintora: ebbe una tossa,
màa! ddite puro 8 de quelle maliggne,
inzino a ffà la sputarola rossa.
Ebbè,
er medico a ffuria de sanguiggne
e io de rape, co ttutta sta sbìossa 9
la tiràssimo 10 fòra; e mmó aritiggne. 11
Sta mmale,
male, male; e ssi la caccia 1
pò attaccà er voto. È un pezzo: è da st’istate,
che 2 sse 3 pijjò un’infirza de scarmate 4
pe cquer mazzato vizzio de la caccia.
Strilla c’ha
ne le gamme e nne le bbraccia
tutte le cungiunture addolorate.
E a mmé mme tocca a ffajje 5 le nottate,
che tte ggiuro, Maria, ch’è una vitaccia.
Eh, ccosa
disce er medico? Quer torzo
disce ch’è rromatísimo: ecco tutto;
e cche l’ammalatia vò ffà er zu’ corzo.
Sempr’accusí:
’na minestrina e un frutto.
Pe ddajje 6 forza io poi sciaggionto 7 un zorzo
d’acquavita o un tantin de vin assciutto.
Come stai
oggi, Meo? 1 Peggio? E de fianco
pòi vortattesce? 2 Nòo? Ddrent’ar bucale
ciài 3 acqua? Bbe’. E tt’assisteno sto bbranco
de serventacci cqui dde lo spedale?
Meo,
tiè 4 sto maritozzo. 5 Eh? ccom’è bbianco!
Niscónnetelo 6 sott’ar capezzale.
Te lo maggni a mmarenna. 7 Aú, 8 nemmanco
fussi veleno te farebbe male.
Meo, fídete
de mé: nnun te fa ggnente.
Nun vedi, Meo, si 9 cche ppasta liggèra?
Si’ scerto, Meo, che nun te tocca un dente.
Ah bbisoggna
che vvadi, 10 c’oramai
se fa ttardi e mm’aspetta la drughiera. 11
Oh addio, Meo mio: ciarivedemo, 12 sai?
Li congressi
de lei co Ppetronilla
sò 1 ppropio un ride 2 da slocasse 3
l’ossa.
Ce vò 4 ppiú arte pe appuntà una spilla
che ppe rregge li bbarberi a la smossa. 5
E ffa
ttrippa, 6 e sbrillenta, 7 e nun attilla, 8
e strozza, 9 e ffa bboccaccia, e cc’è ’na fossa...
Er color verde sbatte, 10 er giallo strilla, 11
er rosso? è ttroppo chiasso: er bianco? ingrossa...
Eppoi, ggira
e rriggira, se finissce
co l’andriè 12 nnero, o de lana o de seta,
perché er nero, se sa, ddona 13 e smagrissce.
Smagrissce?
Uhm, parerà in un tippe-tappe, 14
ma ttu vva’ ccor passetto a mmente quieta,
e ssi ssò 15 cchiappe trovi sempre chiappe.
Bisoggna
ch’er zor Papa e sti bbuffoni
der zu’ Sagro Colleggio de somari
oggiggiorno nun abbino antri 2 affari
che de venicce 3 a rróppe 4 li cojjoni.
Nu l’hai
inteso, eh?, l’editto a li Chiavari 5
su la pracca 6 da dàsse 7 a l’accattoni?
Che ssemo diventati? postijjoni?
sbirri, guardiecampestre, mannatari?! 8
E pperché nu
la metteno sta pracca
in petto a ttante nuvole de frati
che pponno questuvà ssenza patacca?
E pperché sto
bber 9 mobbile moderno
nun z’apprica 10 a li ladri appatentati
che sgrasseno 11 pe cconto der Governo?
Stamo 2
immezz’a ’na macchia, Caterina,
e nnò in d’una scittà ddrent’a le mura.
T’abbasti a ddí cc’a Ssan Bonaventura
me sciassartonno 3 a mmé jjer’a mmatina.
Pavura io?!
de che! Ppe cristallina!
Un omo solo m’ha da fà ppavura?
M’aveva da pijjà senza muntura
lui, e ppoi ne volevo una duzzina.
Quanno me
venne pe investí, mme venne,
io pe la rabbia me sce fesce 4 rosso;
ma ccosa vòi!, 5 nun me potei difenne. 6
E
archibbuscio, e ssciabbola, e bbainetta!...
Co sta bbattajjeria 7 d’impicci addosso,
com’avevo da fà, ssi’ 8 bbenedetta?
Disce che ppe
la fame a Tterrascina
avenno fatto un po’ de ribbejjone,
er Vescovo j’ha ddato le missione
predicanno diggiuno e ddissciprina.
E, ffra
ll’antre, 1 una sera a la marina
un de li missionari, er piú vvorpone,
calatose li panni dar groppone, 2
se cominciò a ssonà cquarche ppappina. 3
«Lassateme»,
strillava a un maniscarco,
ch’era zzompato a ddisarmajje er braccio:
«vojjo morí ppe vvoi, cqui, ssu sto parco».
«No, ppadre,
abbasta», risponneva quello,
che ppe ffajje la parte der pajjaccio
j’aveveno ariempito er caratello.
Notte
addietro, ar quartier de la Reale
de San Pietro, le scento sintinelle
strillòrno all’arme!, e a lo strillà de quelle
er tammurro bbatté la ggenerale.
Pènzete 1 er Papa! Bbutta
l’urinale,
e in camíscia e ssì e nnò cco le sciafrelle 2
va a li vetri; e cche vvede, Raffaelle?
Passà immezz’a ddu’ torce er
Prencipale.
Cor naso
mezzo drento e mmezzo fora,
che ttanto inzin’a cqui llui sce s’arrischia,
fa 3 allora: «Eh bbuggiarà!, ppropio a cquest’ora!».
Povero frate!
è ttanto scacarcione 4
che ssi 5 una rondinella passa e ffischia
la pijja pe ’na palla de cannone.
E immezzo ar
buggerio 1 de Bborgo-Novo,
che ttutta la marmajja de l’urione 2
je s’affollava intorno ar carrozzone
strillanno: «Pane, o vve scannamo ar covo»,
credi ch’er
Papa pòzzi avecce trovo 3
gusto d’annà ddimani in priscissione?
«Corpusdommine o nnò», ddisse Nasone, 4
«pe st’anno io me ne frego, 5 e nnun me movo».
Disce: «Er
guaio è c’ho mmesso le collètte
contro l’acqua che bbuggera 6 er paese.
Ah! er core me disceva: nu le mette. 7
Bbasta»,
disce, «Iddio vede er mi’ spavento,
e ffarà ddiluvià mmezz’antro mese
pe mmannamme 8 una scusa de stà ddrento». 9
Bbe’,
cc’è la caristía; ma indov’è un fatto
da poté ddí cch’er Papa nun ce penza?
Dimani ar Culiseo 1 fa la dispenza
de pane auffa, 2 e lo sa ppuro 3 er gatto.
Venardí
ppubbricò ’n’antra Eminenza
de Santa Cchiesa, e ffu mmonziggnor Matto
de San Filippo. 4 Cresscé 5 ddunque un piatto; 6
e cquesto uggnuno lo pò ddí in cusscenza.
Conzidera de
ppiú li don Miccheli
e li don Carli 7 ch’er zant’omo ajjuta
da bbon padre de tutti li fedeli:
pe cconossce
8 la tela da ste mostre
nun c’è bbisoggno de gran mente astuta,
perché ttutto se 9 paga a spese nostre.
Sempre
accidenti 1 ar Papa! sempre inzurti! 2
Eh zzitti, zzitti: che ddiavol’avete!
Aspettate er bon tempo e mmaggnerete.
Li mesi nun ze sa cquanto sò ccurti? 3
Nu lo sentite
cos’ha ddetto er prete?
«Arispettate li ggiudizzi occurti
de Ddio, fijjoli; e nun fate tumurti,
si vve lassa morí de fame e ssete». 4
Però,
er prete ha rraggione verbo fame;
ma, cquer che ssia la sete, sta minestra
la poteva lassà ddrento ar tigame. 5
Me pare a mmé
’na gran parola ssciocca,
quanno se pò vvedé 6 da la finestra
c’oggni minuto ne vié ggiú una bbrocca. 7
Quello der
Portogallo, che sse disce 1
re, sta a Rroma a ccredenza, e cciarza 2 trono. 3
Quello de Francia pubbrica er perdono
eppoi strilla: «Ah mmundiú! mmó ssò ffilisce». 4
Quel’antro de
li Greghi, ch’è er piú bbono,
se farebbe arrostí ssu la scinisce 5
p’er zu’ popolo; e intanto nun disdisce
le truppe che Ppapà jje mannò in dono. 6
Lo Spaggnolo
dilibbera la Spaggna
a ccannonate; 7 e Ssuarfa romano 8
piaggne er fraggello de la fame e mmaggna. 9
Misúreli
accusí ’na quarta rasa
e una corma, 10 per dio!, sò 11 ssempre un grano;
e ffanno tutti er teatrino in casa.
Semo arrivati
a un tempo, sor Giascinto,
che, ppiú o mmeno, sti poveri Sovrani
ce li tratteno peggio de li cani;
e cquarc’onore che jje fanno è ffinto.
Ché ssi nun
fussi 1 pe cquer po’ d’istinto
c’hanno de commannà ssu li cristiani,
oppuramente 2 pe rrispetti umani,
ggnisuno 3 in trono ce staría dipinto.
Vive, 4
per cristo, sempre immezz’ar foco!
Io nun vorébbe èsse 5 sovrano, manco 6
me fascessino 7 re, cche nun è ppoco.
Ve pare,
cazzo, piccolo cordojjo
quer rispirà ccor vassallume accanto,
sempre nimmichi come l’acqua e ll’ojjo? 8
È
vvero, è vvero, povero sor Diego!
oggi v’ho ttrovo 2 un po’ ammalorcicato.
Ve sete un tantinello ssciapinato: 3
me state mosscio, sì, nnun ve lo nego.
Èrivo
4 un anno fa ttant’inquartato, 5
e mmó pparete un moccolo de sego!
Uhm, ppe mmé ccerti nimmi 6 io nu li spiego,
e nu li spiegherìa 7 manco er curato.
Animo, via,
nun ve sce fate bbrutto:
ve mentovo er curato, solamente
perch’è ssolito in chiesa a spiegà ttutto.
Ma
gguardatelo llì! nnun ce s’accora?!
Statem’alegro, sú, nnun zarà gnente.
Come disce? 8 In un’ora Iddio lavora.
Ve s’aricorda
a vvoi de quer misciotto, 2
de quello scannataccio 3 verd’e mmezzo 4
c’aggnéde 5 via dar cardinal Arezzo
pe ggrattapanza, 6 ggiucatore e jjotto? 7
Sí, cquer
busciardo. 8 Ebbè, ssàbbit’a otto
me se 9 presenta cqua ttutto d’un pezzo, 10
e mme disce onto onto: 11 «Ch’edè 12 ir prezzo
di sti granelli?» «Ôh, avete vint’al lotto,
che vve vedo
in lumaca?», 13 je fesc’io. 14
Disce: «Zzh». 15 Dico: «State accommidato?». 16
E llui: «Bbasta accusí: ccampo der mio».
«Nun
zerv’antro, 17 munzú», ddico: «ho mmaggnato. 18
Vita cummune come piasce a Ddio.
Me n’accorgo dar brodo ch’è stufato».
Nò,
nnò, ddoppo quer gran spropositone
nun je diedi antro 1 tempo, nun je diedi.
Vortai strada de bbòtto e mme n’aggnedi, 2
senza volé ppiú vvede 3 priscissione.
Preti! ministri de la riliggione!
c’hanno sempre er Vangelio tra li piedi!
che cciangotteno 4 ppiú Ppassî e ppiú Ccrèdi
che nun tiè ppurce addosso un can barbone!
De sta tinta
se stroppia 5 er Pangilingua?
sto bber fior de resíe 6 vanno cantanno,
che jje se pòzzi 7 inverminí la lingua?
Incollato?! Che mmoras
incollato! 8
Ho ssempre intes’a ddí 9 da trentun’anno
che Ccristo in crosce sce morí inchiodato.
«E ste ggioie
de cani ve tenete?
E annate», 1 dico, «a ccaccia co st’attrezzi?
Che vve ponno affermà 2 sti cascappezzi
’na tartaruca ar piú ssotto le rete?»
«Eppuro
questi», m’arispose er prete,
«sti du’ caggnacci cqui, nnun ce sò 3 pprezzi
che li ponno pagà, pperché ssò 3 avvezzi
a nnun straccasse mai pe ffame o ssete.
Eppoi,
sibbè 4 rroggnosi o cche sse sia»,
disce, «nun troverai cani in eterno
da potejje 5 stà appetto a ppulizzia».
Dico: «Eh
cquann’è ppe ppulizzia, don Tale, 6
mannateli a l’uffizzi der Governo,
du’ cani ppiú ddua meno è ppoco male».
Nun zerve,
caro lei, che cce s’infochi.
Piano: lei senti la raggione, senti. 1
A mmé mme pare che in sta tor-de-vènti
se vōjji 2 la miseria e cce se ggiochi.
Come! hanno a
Rroma e in centomila lochi
tanti servi de Ddio pe li conventi,
tutti capasci de fà un diesci o vventi
miracoloni ar giorno, a ddínne 3 pochi...
E pperché nun
je fanno un ber rapporto
de li bbisoggni presenti e ffuturi?
Perché inzomma er discorzo è ccorto corto:
uno c’ha li
miracoli sicuri,
tanto j’è d’aridà la vita a un morto
quanto creà un mijjon de pezziduri.
Pe lo
scacarcio 1 intanto, mastr’Ipolito,
c’un giorn’o ll’antro je cacciamo l’occhi, 2
er zor Grigorio 3 er pan da du’ bbaiocchi
ce l’ha ffatto arifà 4 ssiconno er zolito.
Giàa,
ttutt’incetto: tutto manipolito.
Nun c’è ggrano! No, eh? Ppoveri ssciocchi!
Si 5 nun c’è ggrano sce sò 6 bboni stocchi.
Si nun ce ll’hanno lo pijjino a nnolito. 7
Disce: 8
chi sse 9 fa ppecora a sto monno
er lupo se la maggna. Dunque addosso. 10
L’urioni 11 hanno d’avé cquello che vvonno.
Mó cc’avemo
imparato la scoletta 12
vederai la vaccina a mmezzo-grosso,
e er vino a ddu’ cudrini la fujjetta. 13
Da cqui avanti
oggni vorta che ssentite
ch’essce er Papa e sse 2 sona le campane,
uprite bbocca e ddite puro, 3 dite:
«In sto momento se dispenza er pane». 4
E cquanno
sentirete che sto cane
de Governo spaggnotta, 5 ariuprite
la bbocca e ddite che nun zò 6 llontane
le trottate der Papa e le su’ ggite.
Er Papa ha
d’annà a spasso e a le funzione;
nun c’è ddunque antro 7 mezzo pe llevasse 8
er popolo datorno, e vva bbenone.
E cche ffa
ssi sse vòteno 9 le casse?
Si 10 Ddio serra una porta opre un portone. 11
A ttutto s’arimedia co le tasse.
Quanno dunque
sia vero sto rifresco
che li poveri frati cappuccini
fanno mó da serafichi assassini
pe le macchie in onor de san Francesco,
d’ogg’impoi
pe ssarvà ppelle e cquadrini
dal loro amor-der-prossimo fratesco
me serro a ccatenaccio; e ssippuro 2 esco
nun passo ppiú da Piazza Bbarberini. 3
E nun zerve
de dimmelo 4 nemmeno
c’ar convento de Roma, o bbene o mmale,
ciàbbita 5 un Cardinal 6 che li tiè 7
a ffreno.
Pe ddavve
8 quarch’idea de li rispetti
ch’hanno pe Ssu’ Eminenza er Cardinale
ve posso aricordà li bbucaletti. 9
Quanno
vojjate véde 2 un quadro raro,
màa! un quadro propio a cciccio 3 sor Cammillo,
lei se ne vadi ar vicolo der Grillo
nummero trentasei sur zaponaro. 4
Bbe’, llí
cc’è ar muro un purgatorio chiaro
dipinto color d’ostia da siggillo;
e ttramezzo a le fiamme e a lo sfavillo,
che ppare una fuscina de chiavaro,
ce sò
5 ott’anime sante, e ssopr’a cquelle
du’ angeli coll’abbiti de festa
che vvòteno du’ gran brocche de stelle.
Sí, stelle,
stelle, sí, pparlo sur zerio;
e ddu’ bbrocche de stelle su la testa,
dico, ve pare poco arifriggerio?
S’è
ccrepato, fijjoli, er campanone
der tribbunale; e ddéven’èsse 1 stati
tutti li mappalà 2 cche jj’ha mmannati 3
chi ha aúto torto co l’avé rraggione.
E ccome mó
sse chiamerà 4 l’abbati
a sgrassà 5 li crienti in quel macchione?
Come se sonerà nne le funzione
e nne li temporali scatenati?
Conzolateve,
fijji: er tesoriere,
doppo avé bbestemmiato un mes’e mezzo,
a la fine ha cchiamato un der mestiere;
e jj’ha
ddetto cor zolito su’ stile:
«Favorischi, sor ladro: ch’edè 6 ir prezzo
pe rrifà la campana ar campanile?». 7
Ho ssentito
mó ppropio de risbarzo 1
(màah! mmosca, veh! nun me ne fate utore)
che Llui, Su’ Santità Nnostro Siggnore
spesso se scola un quartarolo 2 scarzo.
Sarà
fforzi 3 una sciarla c’hanno sparzo...
Sibbè, 4 cquanno er zant’omo sta d’umore,
un bicchiere de quello ppiú mmijjore
je va ggiú ccome un giuramento farzo.
Eppoi... se
sa..., le feste de natale...
le pasque... che sso io... li corpusdommini...
er cristiano lo vò 5 cquarche bbucale.
Dunque a nnoi
nun sta bbene er criticallo:
perché er Papa è un gran re de galantommini.
Si 6 bbeve, è sseggno che ccià ffatto er callo.
Dico:
«Eccellenza, se pò avé 1 l’onore?...»
«Ôh addio», disce: «che ffate, Fidirico?».
Dico: «Er zolito mio: fo er zervitore».
Disce: «E cco cchi?» «Ccor mi’ padrone antico».
«Come!»,
disce, «ho ssentito che sse more 2
de fame, e ancora tiè ffamijja?» «Eeh», ddico,
«mó ss’è arifatto ricco; e ppiú mmaggiore
c’a cqueli tempi che llei j’era amico».
Disce: «Ma
ccome! si mme venne a cchiede 3
du’ scudi un anno fa! Cquesta è ’na prova...».
«E llei», dico, «sor Conte, je li diede?»
«Ma inzomma»,
disce, «come va sta nova?».
Dico: «Un zio morto l’ha llassato erede».
Disce: «Ho ppiascere assai: lo verrò a ttrova». 4
No; ssi
ffussi venuto, disce: 2 «Nino, 3
m’impresti un giulio? m’arigali un grosso?»,
io je lo davo; perch’io, quanno posso
fà un zervizzio, 4 lo fo, ssor Giuacchino.
Ma cquer véde
5 uno che tte zzompa 6 addosso,
disce: «Sscirpa, 7 per dio!, cqua sto lustrino», 8
che sserve?, 9 io me sce sento un rosichino 10
che staría quasi pe sputacce 11 rosso.
Guarda che
bbell’usanze bbuggiarone!
Protenne 12 li quadrini da la ggente
senza chièdeli 13 prima co le bbone!
Una vorta
st’azzione 14 da villani
l’usaveno du’ sceti 15 solamente:
l’assassini de strada e li sovrani.
Lei entri in
d’uno studio de pittore
e llodi quarche cquadro terminato:
sente subbito dí: 2 «Ggrazzie, siggnore;
ma cche vvò vvede? 3 è ttutto prossciugato.
Eppoi sta
ttroppo male assituato:
a sto lume che cqui 4 ppropio sce more.
Manco se scrope 5 com’è ddiseggnato:
nun ce se pò ccapì mmanco er colore.
Che jje ne
pare? Ggià, è ’na prima prova...
E l’impasto? er maneggio der pennello?
Dichi 6 la verità, ccome lo trova?
A li mi’
7 quadri io nun je do apparecchio
d’avvelature. Llà, lo guardi in quello:
je farà ppiú ffigura in ne lo specchio».
Er Conte
è arto e ’r mi’ padrone è bbasso:
lui 1 ha er capello griscio 2 e ’r Conte bbionno:
uno tiè er viso ovato 3 e ll’antro 4 tonno:
l’amico è smirzo 5 e ’r zor Marchese è ggrasso:
er primo
arriva un daïno, e ’r ziconno
pijja fiato e sse 6 sventola a ’ggni passo:
uno se chiama Ggiorgio, uno Tomasso:
quello pare er nipote e cquesto er nonno:...
eppuro 7
tutt’e ddua, sora Francesca,
s’hanno d’assomijjà ccom’e ggemmelli,
come propio du’ gocce d’acqua fresca;
pe vvia
8 che la padrona, ch’è una quajja
arisonata, 9 ar praticà cco cquelli
li pijja uno pell’antro e cce se 10 sbajja.
È
inutile. Una donna, inzin ch’è vviva,
sibbè ss’aricordassi 2 de Maumetto,
sibbè ffussi ppiú antica der brodetto,
lei nun vò èsse 3 mai vecchia o stantiva. 4
Tu gguarda
una tardona 5 quann’arriva
a la commedia 6 e appizza 7 in ner parchetto:
subbito te s’affaccia ar parapetto;
e ppiú ssò 8 ll’anni ppiú ccressce l’abbriva. 9
Si 10
ppoi pe un schiribbizzo 11 de sant’Anna,
sta mossciarella 12 è ggravida a cquell’ora
ch’era tempo de mette l’eslocanna, 13
fin che ddura
quer po’ de gravidanza,
pe pprim’operazzione a l’usscí ffora
manna avanti 14 la fede de la panza.
Tant’
è, 1 ppadron Girolimo: voi dite
un pezzo de Vangelio spiccicato. 2
Pe le donne le fede der curato
dar ventiscinqu’in zú ssò 3 attaccalite.
Loro credeno
4 quanno sò vvistite 5
e ttiengheno 6 er pellame 7 inammidato
e ddu’ libbre de stoppa in zur costato,
che vvoi la lor’età nnu la capite.
Vedi la mojje
de quer pampaluco
der zor Taddeo? Pe ffà 8 da fresca-donna,
se 9 porta sempre a spasso er fijjo sciuco. 10
E cchi nun
cià 11 ccrature 12 piccinine
che jje sii 13 madre, o, a la ppiú peggio, nonna,
va a ffàssele 14 imprestà dda le viscine.
Ma ccompare!
Andrea mia! che ssi’ 1 ammazzato;
che ppòzzi 2 cascà ffreddo d’accidenti;
e tte sce 3 metti a ffà sti comprimenti
pe avé la fede der loro attestato?
La vòi
4 la fede su ddu’ piedi? 5 Senti:
tu nun hai da spregacce 6 tanto fiato.
Tu vva’ e ddijje accusí: 7 «Ppadre curato
fora 8 la carta der boni-viventi». 9
E ssi 10
er prete t’azzarda ’na parola
si tte fa la caroggna 11 e ’r caca-dubbi, 12
dàjje de piccio, 13 Andrea: píjjel’in gola.
È ora
de finílle ste caggnare. 14
Abbasta 15 c’un cristiano nun arrubbi, 16
de fede ne pò avé cquante je pare.
Dove vado? a
ppescà ’n’antra 1 sartora
pe la padrona; che cquanno se 2 ficca
quarch’ideaccia cqui, 3 tanto lammicca 4
e ttanto fa cche la vò vvede fora. 5
Cor tajjo
6 de Rosina 7 la siggnora
disce che ir zuo bber petto nun ci spicca. 8
Lei la robba davanti la vò rricca
pe ssoverchià le zzinne de la nora.
Si 9
nun z’ajjuta a ccusscinetti e a zzeppe
lei vò stà agretta assai: 10 su le su’ coste
sc’è ppassato coll’asscia san Giuseppe. 11
Tiè
12 ddu’ pellacce che ppàreno 13 gozzi
de pollastri, e, a ssentílla, 14 a zzinne toste
drento Roma nun c’è cchi cce la pòzzi. 15
Che ddisce?
Vò pparlà cco Mmonziggnore?
Sor abbate mio caro, abbi 1 pascenza,
Monziggnore per oggi nun dà udienza
manco venissi 2 ggiú Nostro Siggnore.
Lui ’ggni
sàbbito stà in circonferenza 3
co Mmonzú Bbuzzarè 4 lo stampatore,
pe ffà stampà le vite c’oggni utore 5
se scrive 6 pe ddà ggusto a Ssu’ Eccellenza.
Sto gusto lo
sa llui cosa je costa;
perché, mmó cche lo sanno, spesso spesso
je spidischeno vite pe la posta. 7
Mó la massima è bbell’e stabbilita:
abbasta che ssii nato, ar monno adesso
chiunque more ha da lassà la vita.
Rispetto? se lo
meriti, er cojjone.
Se 1 presenta accusí 2 ccom’un vassallo,
e cchi ha, ssant’Iddio, da rispettallo?
Si jje 3 sputen’in faccia hanno raggione.
Io so cche
cquanno adesso che ffa ccallo
porto a smove 4 er cavallo der padrone,
dove passo oggni sceto de perzone
me porteno rispetto p’er cavallo.
Lui se vesti
5 com’è da servitore,
e ssarà arispettato e ariverito
e ariscevuto a pparo d’un ziggnore.
Chi avessi
6 allora quarche bbrutt’idea
de fà uno sfrèscio 7 a llui, ccusí vvistito,
doverà arispettà la riverea. 8
Era da un
pezzo c’avevo annasato 1
ch’er zor padrone m’uscellava Ghita.
Dico: «Eccellenza, vado ar Caravita». 2
Disce: «Va’ bbello mio: bbravo, Donato».
Io m’agguatto
in cuscina; 3 e appena usscita
la padrona cor zu’ ganzo affamato,
te li pijjo in gattaccia: 4 «Ebbè? ch’è stato?».
Disce: «Ggnente... ggiucàmio 5 una partita».
Dico: «Me
pare a mmé cche de sto svario
se ne pò ffà de meno; e ste su’ vojje
nun entreno ner conto der zalario».
Disce: «Se
pò ssapé che vve se ssciojje? 6
Oh gguardatelo llí cche ttemerario!
Nun vò cche mmi diverti con zua mojje!».
S’aricconta
c’un frate zzoccolante,
grasso ppiú der compar de sant’Antonio,
ner concrude 1 una predica incarzante
sull’obbrighi der zanto madrimonio,
staccò
er Cristo dar púrpito, e ggronnante
de sudore strillò ccom’un demonio:
«Eccolo, e vve lo dico a ttutte quante,
eccolo su sta crosce er tistimonio.
Io mó lo tiro
in testa inviperito
a cchi ss’è ppresa er ber gusto, s’è ppresa,
de temperà ppiú ppenne a ssu’ marito».
A cquell’atto
der frate ’ggni miggnotta...
’ggni donna, vorzi dí, 2 cche stava in chiesa,
arzò le mano 3 pe pparà la bbotta.
Disce che in d’una scerta allonguzzione 2
che ha ffatto er Papa pe ggrattà la roggna
a un Re de fora, c’ha mmesso in priggione
er Vescovo dell’acqua de Cologgna, 3
bbisoggna
bbene valutà, bbisoggna,
tra ll’antre, 4 du’ bbellissime espressione,
che llui cià ttanta e ppoi tanta raggione 5
che cchi jje dassi 6 torto è una caroggna.
La Santa
Cchiesa lui la chiama Sposa
de l’aggnello; e in st’affare va ar zicuro,
perché ssa cche la pecora se 7 tosa.
Poi verzo er fine
disce chiaro e uperto
che la Cchiesa è una viggna. E cquesto puro 8
nun je se pò nnegà. 9 Vviggna è de scerto.
10
O er
cucchiere imbriaco o mmal pagato
j’abbi vorzuto, 1 o nnò, ttirà a la pelle;
o un cavallaccio jje se sii ’mbarzato 2
sur timone o fframezzo a le tirelle,
er
fatt’è cquesto, padron Raffaelle,
c’annanno 3 a ffà la grazzia a un ammalato
pe la salita de le Tre Ccannelle
er Bambin d’Arescèli 4 ha ribbartato. 5
La cosa in zé
mmedéma nun è ggnente,
ma a sti tempi che ppoco sce se 6 crede
va’ cche impressione possi fà a la ggente!
Ggesú
Bbambino, inzomma, fa sto sprego
de miracoli, e llui nun ze tiè 7 in piede!
Prima càrita ssíncipi tabbègo. 8
Nò,
ccom’è vver’ Iddio nun te canzono.
In ne l’usscí 1 ddar Zegretar-de-Stato 2
oggi a ddu’ ingresi j’ha ddetto un prelato:
«S’accerti che le mmaschere sci suono». 3
Sia
ringrazziat’Iddio, sia ringrazziato!
Tutte st’antre funzione io te le dono.
Io, pe mmé, nun c’è ar monno antro 4 de bbono
che ggirà ppe le strade ammascherato.
Perché er
Papa nun fa cch’er carnovale
sii da San Stèfino ar ventotto ggiuggno
e da San Pietro poi fin’a Nnatale?
Avería da
capí Ssu’ Santità
c’a Rroma co la mmaschera sur gruggno 5
ar meno se pò ddí la verità. 6
Pe Ppacca
1 tanto, povero siggnore
co cquela bbella su’ disinvortura
sta ssempre che vve pare una cratura; 2
e bbeato co llui chi è sservitore!
Ma er
mastraccio de casa ha un certo core,
tiè un modo de guardà, un’incornatura, 3
che cquanno parla, ve mette pavura
come si ffussi 4 un Re, un Imperatore.
Io nun zo
5 in che maggnera un pidocchioso 6
che scardava 7 la lana a un giulio ar giorno
abbi da èsse 8 tanto superbioso.
Disce: «Ma
cco l’essempio c’ha de Pacca
nun z’accorregge?». 9 S’accorregge un corno.
L’umirtà nun è mmale che ss’attacca.
Chi tt’ha llodato?
Chi?! La sora Nanna?!
Zzitto, pe ccarità! Ddio te ne scampi.
Fijjo, le lode sue sò ccom’e llampi
c’appresso je viè er tono che tte scanna.
Si tte 1
loda un po’ ppiú, cquella te manna 2
in galerra e cce stai sino che ccampi.
Pòi fà cconto c’un giudisce te stampi
la quarella, 3 er proscesso e la condanna.
Un povero
cristiano bbattezzato
pò èsse 4 un galantomo quanto vòi: 5
lei lo loda, e l’amico è ccuscinato. 6
Si 7
ppe ssorte, a l’incontro, quela rapa
te bbattezza pe lladro, ôh allora poi
sta’ alegro, fijjo mio: diventi Papa.
Questo
nò: in ne l’esàmi er giuramento
se 1 dà a li tistimonî: er reo nun giura.
Io nun ho mmai ggiurato; e sta’ ssicura
che de proscessi ho ggià spallato er cento.
Quer mette
2 un pover’omo in ner cimento
de dí 3 ’na verità ccontro natura
saría ’na sscelleraggine addrittura,
peggio che ssi jje dàssino 4 er tormento.
Si ppoi
5 un proscessante der governo
protennessi 6 incastramme la cusscenza
tramezzo de la forca e dde l’inferno;
tra cquer po’
de pappina e sto ssciroppo,
io bbadería piú ppresto 7 a la sentenza
che vviè 8 pprima c’a cquella che vviè ddoppo.
Cos’è
ll’omo! Ma eh? Cquanno se 2 disce!
Ammanettato fra li preti e ’r boja
avé ccorata 3 quela cara ggioja,
de maggnà 4 vvermiscelli co l’alisce!
Sta ppe
scallasse er culo a la scinisce 5
de l’infernaccio e ttiè cquer po’ de foja
de bbiastimà, ffijjaccio de ’na troja
la Madonna co ttutta la cornisce!
Dà
ccapocciate... sputa in faccia a Ppiatti,... 6
che ppoi in fin de fine è un monziggnore
che mmanco er Papa j’usería sti tratti.
Làsselo
scrapiccià; cché appena more
ce troverà llaggiú ggastiga-matti
che nnun ce se fa un cazzo 7 er bell’umore.
Quanno a
vvent’ora e ppiú monziggnor Ciacchi 1
vedde 2 ch’er reo, pe li su’ ggiusti fini,
voleva annà a mmorí ccom’e Ttarghini, 3
e cche ttutti li preti ereno stracchi,
lassò
in ner mezzo una partita a scacchi,
e annò a ddí ar Papa: «Sa? cquer Venturini,
co ttutto San Giuvan de Fiorentini, 4
è inutile a sperallo che ss’abbacchi». 5
Er Zanto
Padre a sto tremenno avviso,
cacciò ’na chiave maschia da l’interno
d’un bussolotto, e stiede 6 un po’ indisciso.
Poi, pe un
impurzo 7 der zu’ cor paterno,
riponenno er chiavon der paradiso
disse: «Tar 8 sia de lui: vadi 9 a l’inferno».
Bbrava!
evviva la sora Micchelina
co l’armata de tutte le miggnotte!
Facci de grazzia, 2 eh lei: dico, stanotte
s’è inzoggnata mai-mai d’esse reggina? 3
Ma ssa cche
jj’ho da dí? Ttiengo una bbotte
de me-ne-frego-tanto ggiú in cantina;
e cqui ar commanno mio sciò 4 stammatina
’na saccocciata de vatt’-a-fà-fotte. 5
Vò ir rispetto! je pijja 6 ’na tropèa!
E mme fa spesce 7 a mmé de Monziggnore
che ccavarca 8 sta razza de chinea.
Me fate
caccià vvia? sai che ddolore!
Tanto 9 che ffrutta ppiú la riverea
cuanno che nun è ppiú ggovernatore? 10
«Zio, prima
che ppijjate li bbijjetti
dite un po’, cche vvò ddí ccaramaggnola?»
«Quanto sei sscemo! Vò ddí ccamisciola,
corpetto-co-le-maniche a ddu’ petti».
«E ccome se
po’ ffà 2 cco li corpetti
a ffàcce 3 le commedie, eh zio?» «Bbestiola!
Se fa ccome se fa cco ’na parola
a ffàcce le canzone e li sonetti».
«Ma ddunque
sta commedia sarà bbella?»
«Sarà bbella sicuro, fijjo mio».
«E cce rèscita puro 4 Purcinella?»
«Nò,
ccredo che cce resciti Arlecchino.
Armeno Nicolò cce l’ho llett’io,
e cce disceva puro piccinino». 5
Si 2
sséguiti accusí, Cchecco, la sbajji.
Fijjo, co st’impropèrî vacce piano.
Chi è llesto de lingua e nnò de mano
o la tienghi a stecchetta o sse la tajji.
Uno c’annassi
3 a rregola de rajji 4
credería c’un zomaro marchisciano
se maggnassi 5 un leone sano sano
e un’armata co ttutti li bbagajji.
Certuni a
cciarle sò 6 spazza-campaggne,
eppoi a ffatti se la fanno sotto,
e arrivi ar punto de vedelli piaggne. 7
Er
mannatàro ch’era un omo dotto
sai che ddisceva a sti spacca-montaggne?
«Ce vò mmeno a inzurtà cc’a ddà un cazzotto».
Dato er brodo
a cquer povero Rimonno, 2
io che ttre nnotte nun ho mmai dormito
m’ero bbuttato ggiú ttutto vistito,
e mme stavo fascenno er primo sonno.
Quanto me
sento, dio sagranne monno!,
scotolà 3 pper un braccio e ttirà un dito.
«Chi è?», strillo infuscato e inzonnolito.
Disce: «Arzàteve, tata, ché vve vonno».
Figuràteve
io che bbòtta ar core!
Fu ccome uno che mm’avessi 4 detto:
«Curre, 5 Giachemandrèa; tu’ fijjo 6 more».
Poi nun
è stato ggnente, lo capisco:
ma intanto llí pper lí, ssor Benedetto,
me parze a mmé cche mme svejjassi 7 er fisco.
Manco-male:
venítesce voi puro. 1
Ma cche! nnun ho rraggione si mme 2 laggno?
Vado, che pposso dí?,... ppe ammazzà un raggno,
do un scivolone e sbatto er naso ar muro. 3
Fo un
zervizzio a un amico, e cce guadaggno
un carcio o un scappellotto de sicuro:
me tiro sú ’na carzetta a lo scuro,
e mme viè cco la punta sur carcaggno.
M’essce un
ambo, e ho ggiucato er tern’a ssecco:
vojjo scrive 4 er mi’ nome e ffaccio un scasso:
vojjo strucchià la bboccia e ccojjo ar lecco...
Inzomma, si
5 cqui annamo de sto passo,
nun m’amanc’antro a mmé cche ddà de bbecco 6
a ’na paggnotta e mme diventi un zasso.
Quanno che er
Zanto-padre passò jjeri
pe Ppasquino ar tornà da la Nunziata 2
stava cor una sciurma indiavolata 3
peggio d’un caporal de granattieri.
E ffasceva
una scerta chiacchierata
ar cardinal Orioli e a Ffarcoggneri,
che jje stàveno a ssede de facciata 4
tutt’e ddua zzitti zzitti sserî serî.
La ggente
intanto strillava a ttempesta;
e llui de cqua e de llà ddar carrozzone
’na bbenedizzionaccia lesta lesta.
Poi ritornava
co le su’ manone 5
a ggistí 6 a cquelli; e cquelli co la testa
pareva che jje dàssino 7 raggione.
Er zervizzio
de gala der Zovrano
è llègge vecchia da ch’er monno è nnato
che nun pòzzi 2 mai èsse 3 traverzato
manco da un primo prencipe romano.
Sin ch’er
zervizzio suo nun è ppassato
l’antre carrozze hanno da stà llontano;
e ssi 4 un cavallo j’arrubba la mano
nun è scusa che scusi sto peccato.
Dunque me
pare a mmé, ssori paíni, 5
che ssii deggno dell’urtimo supprizzio
quer birbo der cucchier de Pediscini.
Ccusí er
Papa, s’è un omo de ggiudizzio,
imparerà 6 a ccucchieri e vvitturini
cosa s’abbusca a rròppeje 7 er zervizzio. 8
N’ho vviste
in vita mia de cose bbelle,
ma ccom’e cquesta nò, pe bbio sagrato!
Sto quadro de pittura diseggnato
nu lo faría nemmanco Raffaelle.
L’occhi, er
naso, la tinta de la pelle,
er modo de guardà cquann’è inciurmato...
Che sserve?, via, senza tante storielle
è er zor Filippo Zzampi spiccicato.
So cche ss’io
fussi un ladro, iddio ne scampi,
ne l’entrà ddrento e in ner vedé cquer coso,
direbbe: 2 «Oh ddio! c’è er zor Filippo Zzampi».
Perché,
inzomma, la mojje ch’è la mojje,
spesso spesso, credènnolo lo sposo, 3
je va a ddà bbasci indove cojje cojje.
Che ffra er zor
Pippo e la commare-d’oro 2
c’era nata un tantino de canizza 3
e cche Mmunzú schizza veleno, schizza, 4
io lo sapevo ggià mmejjo de lòro.
Ma ccredevo
che cquanno uno se stizza 5
avessi armeno 6 da sarvà er decoro,
e nun fà a la commare sto disdoro
d’annalla a scredità ssopr’una pizza.
Bbisoggna avé
ppe ccristo er caposcerro,
pe mmette 7 s’una pizza aricressciuta
la soprascritta: a la commàr-de-ferro. 8
Guardate llí
ssi cche bbella prodezza!
Io so cche cquanno do le pizze a Ttuta 9
ce fo ddipiggne 10 er core co la frezza.
E
ttant’è vvero che nnun è bbuscía, 1
che lo porteno inzino le gazzette.
Er Papa jjer’a otto 2 ariscevette
monziggnor Accemette 3 de Turchia.
Questo ve fa
ccapí, mmastro Tobbia,
c’oggni paese ar monno ha er zu’ Accemette,
come tiè oggn’osteria le su’ fujjette
e oggni cchiesa ha la propia sagrestia.
Quale
scittà sse poterebbe arregge 4
senza Montescitorî 5 e ttribbunali
da fà ssentenze e mminestrà la lègge? 6
Ccusí ppuro
7 l’impieghi cammerali,
voi sentirete chi ssa sscrive e llegge 8
che cqua a Rroma e in Turchia sò ttutti uguali. 9
Chiameli
allibberàli o fframmasoni,
o ccarbonari, è ssempre una pappina: 1
è ssempre canajjaccia ggiacubbina
da levàssela 2 for de li cojjoni.
E ppe Ppapi
io voría 3 tanti Neroni
che la mannàra de la quajjottina 4
fascéssino 5 arrotalla oggni matina
acciò er zangue curressi 6 a ffuntanoni.
Tu
accèttua noantri 7 in camisciola
e li preti e li frati, er rimanente
vacce a la sceca 8 e sségheje la gola.
Perché
è mmejjo a scannà cquarch’innoscente,
de quer che ssia c’una caroggna sola
resti in ner monno a impuzzolí la ggente.
Er
chirichetto, appena attunzurato 1
penza a ordinasse 2 prete, si 3 ha ccervello:
er prete penza a ddiventà pprelato;
e ’r prelato, se sa, 4 ppenza ar cappello.
Er cardinale,
si ttu vvòi sapello, 5
penza ’ggnisempre d’arivà ar papato;
e ddar zu’ canto er Papa, poverello!,
penza a ggòde la pacchia 6 c’ha ttrovato.
Su l’esempio
de quelle perzoncine
’ggni 7 dottore, o impiegato, o mmilitare
penza a le su’ mesate e a le propine.
Chi ppianta
l’àrbero, penza a li frutti.
Cqua inzomma, pe rristriggneve 8 l’affare,
oggnuno penza a ssé, Ddio penza a ttutti.
Ma inzomma,
è vvera o nnò, ssora Titina, 1
la nova che mm’è stata ariccontata,
ch’er zor Pippo va ffora a Mmascerata,
a spezzionà la truppa papalina?
Vedi che
zzuggna! Oh cquesta sí, pper dina,
che mm’abbruscia e mme passa la corata!
E cchi cce la dà ppiú ’n’antra maggnata,
come l’avemo avuta stammatina?
Ma ppe la
santa Vergine Mmaria!
È un gran dí cche cchi ttrova un pezzo d’oro
l’abbi da perde 2 o da bbuttallo via!
Fussi Papa
sto povero stivale 3
sentiressivo 4 in pieno concistoro:
«Ir ziggnor Pippo a Rroma, e ggenerale».
Dico,
perdonerà, ssor’Orzolina,
si ho vvorzuto arrocchià, 1 ddico, un zonetto,
pe ddàllo a llei dimenic’a mmatina 2
appena ssceggne ggiú, ddico, dar letto.
Lei, dico, ha
un tocco de corata in petto,
che ssimmai quarche vverzo nun cammina
scuserà, ddico, un povero pivetto 3
che ccòmpita pe ggrazzia 4 la dottrina.
Io nun
zò, ddico, un conte o un cardinale
o cquarc’antra perzona de talento:
la mi’ testa è una testa duzzinale.
Si 5
er mi’ sonetto da un bajocco er cento
zoppica e nun è rrobba pe la quale, 6
bbasta che llei gradischi er comprimento.
Come va la
mi’ causa? A cquer che ssento
e vvolenno dà rretta ar mi’ curiale,
me parería che nun annassi male;
ma cquarch’imbrojjo cià da èsse 1 drento.
Jeri me venne
a ddí cch’er tribbunale
ha ggià sternato er propio sintimento,
perché cc’è la raggione, e lo strumento
canta a ffavore mio sur capitale.
Sta su’
espressione a mmé nnum me dà ttanta
vojja de ride, 2 perché o llui cojjona
o nnun è cquer gran omo che ss’avvanta. 3
Nu lo vedi
che bbestia bbuggiarona?
Venimme 4 a ddí cche lo strumento canta
quanno se 5 sa che uno strumento sona.
«Ma cche cce
trovi in sta madama Grisa,
che ppe vvia 1 che jj’amanca er culiseo
canta da omo e ffa cchiamasse 2 Meo, 3
e ppare un sfrizzoletto o una supprisa?»
«Che cce
trovo?! sce trovo, sor cardeo,
c’ha una vosce, per dio, tonna e ppriscisa.
Sce trovo che ssi 4 ccanta, e cce l’avvisa,
Roma pare che ccurri 5 ar giubbileo».
«Dijje che
sse conzòli co l’ajjetto;
perché ssai che pproggnostico je faccio?
Lei sta ar monno ar piú ar piú ’n’antro mesetto».
«Quela donna
morí?! 6 ssete un cazzaccio.
Nun lo vedete, ner guardajje in petto,
che ttiè ll’anima chiusa a ccatenaccio?». 7
Che vve
n’è pparzo? 2 la faccenna è ita
come ve discev’io, core mio bbello?
Co ’na puncicatina de cortello
arièccheve 3 cqua bbell’e gguarita.
E vvederete
poi si 4 sta ferita
in fonno ar perzichino o ar callarello
ve farà arivolà ccome un uscello,
e ssi sto tajjo v’aridà la vita.
Nun ce
sò ttante sciarle: ir zor Baroni,
viva la faccia sua, è un pezzo grosso
d’accènneje, pe ddio, li lanternoni.
Quanno ve
mette lui le man’addosso
fate puro 5 ammanní li maccaroni
pe vvia che sséte 6 ggià a ccavallo ar fosso. 7
Fu ppropio una
disgrazzia: j’assicuro
che mm’è ssuccesso senza corpa 1 mia.
Eppoi, chiami er padron de l’ostaria
che jje pò ddí la verità llui puro. 2
Io
spasseggiavo for de Porta Pia,
e mme n’annavo accost’accosto ar muro:
anzi era tardi assai, e mme figuro
che stassi 3 pe ssonà la vemmaria.
Viscin’all’oste
inciampico 4 in un torzo,
l’ariccojjo, 5 eppoi ordino un bucale; 6
dico: «Sor oste, se pò bbeve un zorzo?». 7
Tratanto cor
un atto scasuale 8
tirai ’na torzatona a un cane còrzo 9
e azzeccai ne la groppa a un cardinale. 10
A pproposito!
Adesso che cce 1 penzo,
me pare, si 2 nun sbajjo, che ddimani
a la Minerba 3 li domenicani
accènneno 4 li lumi a ssan Vincenzo.
Figúrete la
folla de cristiani
e ssi 2 cche ssorte de concorzo immenzo
annerà ddomatina a ddà l’incenzo
ar zor padre canonico Tizzani!
Ebbè,
nnell’incenzallo hanno raggione,
perché cquer Reverènno è un zantarello
e ha ’na testa che mmanco Salamone.
Lui, o cce
vadi 5 er ricco o er poverello,
fa bbone grazzie a ttutte le perzone,
e indovunque lo tasti è ssempre quello.
Questo
ggià lo sapémio dar decane
che jjeri sposò er prencipe Turloni,
quer prencipe che spenne li mijjoni
pe assiste er poverello e ddàjje pane.
Sippoi
stanotte, pe ddiesciora sane,
senza la vesta e ssenza li carzoni,
li du’ sposetti siino stati bboni
lo sa Iddio bbenedetto e le zampane.
La cosa nun
è llisscia: io pe mmé ttremo
che cquarche gguaio ce dev’èsse nato,
e che ppresto diranno: «In quanti semo?».
Ar bervedé
cc’è ppoco, sor curato.
In cap’a nnove mesi lo vedemo.
Dar brodo se conossce lo stufato.
Io fà vverzi
pe vvoi? de carta! aspetta!
Io nun m’impiccio co ccompassi e squadre.
Io nun zo ffà cche ccanzonacce ladre
tajjate ggiú ccoll’asscia o ccoll’accetta.
Si sse
trattassi ar piú de vostra madre
ce potería scappà cquarche ssaetta;
ma vvoi sete un bruggnolo de donnetta,
da fà ggirà er boccino ar Zanto Padre.
Voi?! co
cquer muso llì?! ddimme cojjone!
Piú ppresto voría védeme st’antr’anno
a Ssan Bartolomeo sur cartellone.
Eppoi nun fo
ccome scertuni fanno
che ttutt’er giorno pissceno canzone
manco avessino Appollo ar zu’ commanno.
Sora
racchietta mia, propio quest’anno
che mm’annate ppiú a ssangue e ppiú a ffasciolo,
nun ho possuto avé mmanco un piggnolo
né un ossetto de morto ar mi’ commanno.
Dall’antra
parte io povero fijjolo
che mm’arranchello e ccampo anno-penanno,
che ccosa v’ho da dà ssi nun me scanno?
Scopo casa e vv’appoggio un mostacciolo.
E
ssimmài vostra madre, in faccia a mme,
dirà cc’ar zummum pò ccostà un quadrino
e nnun è robba da par vostra o cché,
io
j’arisponnerò: «Llei vadi a spasso,
e penzi ch’io nun tiengo er butteghino
pe nnotà ccom’e llei ner brodo grasso».
Ahà, rriecco
l’acqua! E ’ggni tantino,
dico, s’ha da vedé sta bbell’istoria?
’Ggni ggiorno ’na maggnata e ’na bbardoria,
da fà vvení la caristia der vino!
Inzomma, o
ariccojjemo la scicoria
o ssemo tanti Prencipi Piommino,
a sto paese cqui, ppare un distino,
tutti li sarmi finischeno in groria.
Chi mme fa
spesce a mmé ssò sti screpanti
de sti mastri de scola a la Sapienza,
che llaggiú nun n’abbuscheno poi tanti.
Manco si
ll’oro fussi princisbecche!
Ma ggià, daranno fonno a la credenza
de le pascelle e de le laure secche.
Disce che
vvoi, c’a cquella pascioccona
state in prescinto d’infilà ll’anello,
sete bbono in zur gusto d’un aggnello
e bbello com’un angiolo in perzona.
Ma avete una
gran zorte bbuggiarona,
pe la raggione che ssi Iddio, fratello,
v’ha ffatto accusí bbono e accusí bbello,
lei puro è bbella bbella e bbona bbona.
Pe sta vostra
bbellezza e bbontà ddoppia
quanno ve vederanno avanti ar prete
tutta la ggente strillerà: «Cche ccoppia!».
Io solo ho da
rimane co la sete
de vedevve ché er diavolo me stroppia
e mme tiè a Rroma a cciancicà ssegrete!
Circa ar zor
Duca tu discessi, 2 Nina,
c’un ometto aggiustato 3 come cquello
nun ze trova in ner monno, anc’a vvolello
cercà da San Giuvanni 4 a Tterrascina.
E io te so
arisponne 5 stammatina
che cquer nostro sor Duca, poverello,
drent’ar cestone 6 in cammio 7 de scervello
ce tiè ’na provatura marzolina. 8
Quanno
jerzera je portò Mmadama
quela tartaruchetta sciuca sciuca, 9
sai che jje disse lui? «Sora salama, 10
sta
bbèstia nun zi disce tartaruca,
ma ssi chiama testuccina, 11 si chiama».
Chi le sa ste cazzate? 12 Ir ziggnor Duca.
Er
Monziggnore mio, si 1 nu lo sai,
è ccardinale ar primo concistoro;
e llui cià 2 ggusto in quanto sia decoro,
ma llassa un gran’impiego: ecco li guai.
Pane, ojjo e
vvino nun ze crompa 3 mai,
le pile 4 s’ariempieno da loro,
e bbiada e ffieno e ssemmola è un lavoro 5
che cce n’è da rivenne 6 o ppoco o assai.
A le curte,
in sta casa bbenedetta
mo nun ze ppijja 7 a ppunta de quadrini
ch’er pepe, er zale e cquarche ffil d’erbetta. 8
E la sala?
Sibbè 9 ssenza salari,
noi potemo marcià 10 ccome ppaini
sortanto a rregalíe de bbottegari.
Naturarmente
è ccosa naturale
c’abbasta a ddajje una squadrata 1 addosso
pe ccapí inzomma da tutto quer rosso
che Ssu’ Eminenza è ppropio un cardinale.
E ggnisuno
sarà ttanto stivale
de scannajjà una bbruggna 2 inzin’all’osso,
pe ppoi sartà cco ssicurezza er fosso
de discide: 3 è ir tar frutto o ir frutto tale.
Sin c’ha
ddunque er color de peperoni
e scarrozza a Ssan Pietr’in Vaticano,
è un cardinal co ttanti de cojjoni.
Metteje
4 poi ’na mazzarella in mano,
dajje ’na camisciola e ddu’ scarponi,
e allora te dirò: cquesto è un villano.
«Padron
Zanti! 1 me sbajjo?» «Ôh ssor Pasquale!».
«Filiscia notte». «Grazzie: bbona sera».
«Che nn’è de tu’ fratello?» «Sta in galera».
«Poveraccio! E ttu’ mojje?» «A lo spedale».
«Vanno bbene
l’affari?» «Ah! vvanno male».
«E da quanno?» «Dar tempo del collèra».
«Ma ssento vojji aritornà». «Se spera».
«Me l’ha ddetto un dottore». «E a mmé un spezziale».
«Quanti sta
sittimana?» «Eh! appena dua».
«E ll’antra?» 2 «S’annò llisscio». 3 «E ll’antra
avanti?»
«Uno, madetta l’animaccia sua!».
«E ttu mmuta
parrocchia». «È ttempo perzo». 4
«Ma er curato che ddisce, padron Zanti?»
«Disce quer che ddich’io: semo a ttraverzo».
Chi? er
Papa?! Ecco la prima che ne sento.
Propio lui?! Un zant’omo come cquello
pò avé un par d’occhi da mette spavento,
manco fussi un caggnaccio de mascello?!
So cche
cquann’era frate ar zu’ convento
l’ho sservito sempr’io da scarpinello,
e nun ciò ttrovo mai sto guardamento
che mm’abbi fatto arivortà er budello.
Ma
ggià, ttu ppe un’occhiata che tte danno
un rospo, ’na tarantola o ’na sorca,
te ppissci sotto e scappi via tremanno.
Sai
ch’edè ar piú sta pavuraccia porca?
È cc’un Papa tiè ssempre ar zu’ commanno
l’archibbusci, le carcere e la forca.
Ggià
cch’er Papa ha vvorzuto indeggnamente
fà vvescovo er calonico Tizzani
senza senticce prima un accidente
li su’ poveri fijji montisciani,
bisoggnerà
abbozzà, naturarmente,
e ppe ffàcce vedé bboni cristiani
sbiggnà vvia tra le scianche de la ggente
co l’orecchie a l’ingiú ccome li cani.
Questa perantro
c’è arrivata all’ossa;
e ccom’è vvero er foco de l’inferno
er Zanto Padre sce l’ha ffatta grossa!
E ppoteranno
dí ssempr’ar Governo
li Monti, che jj’è ttocca una gran sbiossa,
e li Ternani, c’hanno vinto un terno.
Nun
dubbitate, no, nnun dubbitate:
nun ve state a ppijjà tutte ste pene:
nun ve scallate er zangue in ne le vene:
nun dite, fijji mii, ppiú bbuggiarate.
Er Papa
è ddritto, er Papa è stato frate:
dunque si spenne a vviaggi, a ppranzi e a ccene,
è sseggno che le cose vanno bbene,
e cc’ar Monte sce fioccheno l’entrate.
Ma ccaso poi
che sse vedessi bbrutto,
ggnente pavura! ’Na gabbella nòva,
quarche nnovena, e ss’arimedia a ttutto.
Ccusí armanco
si er popolo se laggna,
se laggna a ttorto; e ’r Papa je lo prova
quanno er zant’omo va in carrozza e mmaggna.
Dunqu’io
jerzera, dopp’avé sserrato,
cenai, me prese sott’ar braccio Nina,
fesce un giretto, eppoi drent’a Argentina
a vvedé sta commedia der Trocquato.
Cristo! un
parmo d’ometto, un disperato,
protenne de sgrinfià cco la reggina!
Eh ssi er re lo mannò a la palazzina,
io s’una forca l’avería mannato.
Ma llui ch’er
tibbi nun j’annò a ffasciolo,
s’appoggiò un par de cazzottoni in fronte,
e sse fesce per dio com’un cetrolo.
E cquanno
aggnede a lliticà ccor Conte?
A ppenzà come mai quer futticchiolo
ciaveva sempre le risposte pronte!
Tutte
bbusciarderie: la mi’ gallina
è entrata a ccasa vostra e ha ffatto l’ovo.
Da sto punto che cqui nnun m’arimovo:
ve l’ho intesa cantà ddrent’in cuscina.
E cquanno
ciò mmannata Crementina
pe ppijjà ll’ovo mio, nun ce l’ha ttrovo:
seggno che vvoi sete arrivata ar covo
co la vostra santissima manina.
Eh nnun zerve
attaccasse a ssanta Nega:
ecco cqua le du’ cocce d’ovo fresco
bbuttate via da voi for de bbottega.
Bbe’ bbe’,
llassate aritornà Francesco,
e vvederemo un po’ ssi llui ve frega
peggio de quer che vve fregò er todesco.
Sí, ssí,
ffídete tu de quel’aggnello,
de quer gneggnè, de quer coscemelova...
Si ttu ssapessi che ordeggnuccio è cquello!
Ma nnu lo pò ccapí cchi nnu lo prova.
Eh cce
vò antro che ccaccià er cappello
a ’ggni po’ de Madonna che sse trova!
Nun basta er rescità dda santarello
cantanno lettaníe a la Cchiesa-nova.
È
un’animuccia quella llí, ppe Ccristo!,
da incollasse su’ padre in carn’e in ossa
e scaricallo ggiú dda Ponte-Sisto.
Saría capasce
quela bbona pelle
de cavarcà mmagara a la disdossa
madre, cuggnate, zie, fijje e ssorelle.
Quest’è
un fatto: da sí cche sse sposonno
sce passò ssempre inzin’all’ann’appresso
una pasce, una cosa, una..., ma adesso?!
Nun ze ponno ppiú vvede, nun ze pponno.
Lui ’ggni
ggiorno se fa ppiú vvagabbonno,
piú scontento, piú bbirbo, ppiú..., e ll’istesso
pòi dí de lei, perché... Ggià, spesso spesso,
se ne danno, iddio sa, ffin che nne vonno.
Inzomma, via,
lo scànnolo è arrivato
a un punto, a un punto, che..., ppuro vorría
trovamm’io ne li piedi der curato.
Un curato,
capite?... A llui je tocca
d’abbadà ssi... Pperantro, fijja mia,
faccino loro: io nun ce metto bbocca.
Te lo saressi
creso? Un pichimeo,
un stronzo, un cirifischio, un reduscelli,
menà le mano, maneggià ccortelli,
e ammazzà ccom’un scribb’e ffariseo!
Ma ddich’io
poi perché! Pperché Mmatteo
je disse: «Nun scocciamme li zzarelli!».
E sti fatti che cqui ss’ha da vedelli
in d’una Roma e immezz’a un Culiseo!
Eh? sti
cazzetti! Oh vvatt’a ffida, vatte!
Sti sfrizzoli eh? sti tappi, sti mmerdosi,
sti pivieri, per dio!, sti sbusciafratte!
Sbudellà
cquer pezzetto de scontento
che ppoteva accuccià ddiesci mengosi
de frati, e ccasomai puro er convento!
«Era morto?»
«Era morto». «E arzò le bbraccia?»
«E arzò le bbraccia». «Ma de che! mma indove!».
«Nena mia, quant’è vvero che mmó ppiove
l’arzò ddu’ vorte e sse toccò la faccia».
«Io n’ho
vvisti morí da otto o nnove,
e ggnissuno m’ha ffatto sta smossaccia».
«E cquesto che vvò ddí, ssora cazzaccia?
C’è cchi sse move, e cc’è cchi nun ze move.
E nnun
zuccede puro all’animali?
Dunque, dico, in che ddà sta maravijja?
Sò affetti de li spiriti vitali.
Vedete
inzomma si cche ccaso strano!
E cquer Zanto che ffesce unnisci mijja
tutte d’un fiato e cco la testa in mano?».
Voi me
guardate ste scarpacce rotte:
eh, ssora sposa mia, stateve zzitta
che cciò un gelone ar piede de man dritta
che nun me fa rrequià mmanco la notte.
Io
sciò mmesso ajjo pisto, io mela cotte,
io sego, io pisscio callo, io sarvia fritta!...
Mó nun ce spero ppiú, ssora Ggiuditta,
sin che l’inverno nun ze va a ffà fotte.
Disce: «E ttu
nun girà». Bbelli conzijji!
Sí, stamo a ccasa: eppoi? come se spana?
che abbusco? un accidente che jje pijji?
Ma ccazzo! a
mmé cchi mme sce va in funtana?
chi mme ne dà ppe mmantené li fijji?
campo d’entrata io? fo la puttana?
«E ffarai
bbene: l’accattà, ssorella,
è er piú mmejjo mistiere che sse dii».
«Nun ciò fijji però, ssora Sabbella».
«Bbe’, tte n’affitto un paro de li mii!».
«E ccosa
protennete che vve dii?»
«Un gross’a ttest’er giorno». «Cacarella!
Me pare de trattà cco li ggiudii!».
«Maa, cco cquelli nun zei piú ppoverella!
C’è er
maschio poi che ttanto curre e incoccia,
e ppiaggne, e ffiotta, e ppivola cor naso,
che jje li strappa for de la saccoccia».
«E a cche ora
li lasso?» «A un’or’ de notte».
«E ssi ppoi nun lavoreno?» «In sto caso
te l’imbriaco tutt’e ddua de bbòtte».
De bbotto:
sentí ll’aria der paese
e mmorí ffu l’affare d’un momento.
Ma io che vve discevo? Era da un mese
ch’er male a llui je lavorava drento.
Bbono che cco
cquer tibbi che jje prese
puro ebbe tempo de fà ttestamento:
che ssinnò stavo grassa io, sor Marchese,
cor nipotaccio suo tanto scontento!
Povero
Monziggnore! «E ppiú a Lluscia»,
disce, «je lasso, ortre la paga in vita,
tutta la robba de la stanzia mia.
E ppiú, si la
medema se marita,
vojjo che ddar mi’ erede je se dia
cento scudi, e ssii tutta arivestita».
Curre vosce
ch’er Prencipe Turlòni
abbi fatto viení nnove camei, 1
che ddisce che ssò ccerti animaloni
de l’antichi paesi de l’Abbrei.
Disce ch’er
Papa j’abbi detto: «E llei
che sse ne fa di quelli accidentoni?».
Disce: «Tre l’arivenno, e ll’antri sei
li manno a straportà ccarcia e mmattoni».
Disce: «Ma
ccome! nnun ci sò ccavalli,
muli, somari, sor Prencipe mio,
d’addopralli in ste cose, d’addopralli?»
«Oh, Ppadre
Santo, sce ne sò di scèrto»,
disce che ll’antro arrepricò, «ma Iddio
vò li camèi 2 pe bbazzicà ir deserto».
«E cche
ssarieno le vostre protese
pe ottanta scudi su la mi’ penzione?
Che me volete dà, ssor Zalamone,
a rripijjalli a ccinque scudi er mese?»
«Ve
darò vvintidua bbelli piastroni
tutti in moneta fina del paese,
ve va bbeene? Però ttutte le spese
a cconto vostro, com’è ddi raggione.
«Fregheve,
sor giudío, che ggaleotto!».
«Mordivoi, vinticinque, e vve do assai».
«Ladro!». «Bbe’, andiamo, saranno vintootto».
«Tu
vvòi pijjamme in gola». «Animo, via,
eccome trenta tonni; e, bbadanai,
ce state meglio voi per vita mia».
«Pippo,
annamo a Ccorea?» «Per che rraggione?»
«Pe vvedé sto lionfante tanto bbello».
«E a nnoi che cce ne frega de vedello?
Va’ a la Minerba e sfoghete, cojjone».
«Ma ddicheno
che bballa er zartarello,
sona le zzinfonie, fa ccolazzione,
porta su la propòsscita er padrone,
dorme, tira er cordon der campanello...
Tiè
ppoi ’na pelle, che ppe cquante bbòtte
de schioppo je sparassino a la vita
nun je se pò sfonnà». «Cqueste sò ffotte.
L’impito de
’na palla inviperita
è ccapasce a passà ppuro una bbotte,
fussi magaraddio grossa du’ dita».
De fijji sce
n’aveva una duzzina,
ma pperantro l’ha ttutti assistemati.
Giujjo e Llesandro se sò ffatti frati,
Agusto sta in galerra a Tterrascina,
Creria morze
l’antr’anno, Sarafina
ha ppijjato un pittore de Frascati,
Verginia sta a sserví co ccert’abbati
che la tiengheno come una reggina.
Filumena
è ffattora a Ssant’Urbano,
Briscita annò ppe bbalia co un’ingresa,
e Amaglia scappò vvia co un ciarlatano:
poi
viè Fferminia c’aricama in oro;
e ll’antre dua, che ssò Ccrèofa e Tterresa,
nun hann’arte, ma ccampeno da loro.
Bbevi, bbevi,
se sa, 1 ffussi 2 un colosso
ch’è un colosso, èssi puro apperzuaso, 3
Pio mio, ch’er primo pidiscello ar naso
va in cancherena, e nnun ze sarta er fosso.
Guarda Meo:
cominciò ccor naso rosso,
poi je se fesce lustro com’un raso,
mó ccià una bbella piaga, e nun c’è ccaso
che sse la possi scaroggní da dosso. 4
Voantri
ggiuvenotti ve fidate
che la gajjardaría c’avete adesso
ve sarvi da le vostre bbuggiarate.
Eppoi ecco
llí er Papa: a ttemp’antico
s’allusingava puro lui l’istesso, 5
e ’r 6 naso mó jj’è ddiventato un fico.
A ffuria de
strazziasse in ner mistiere
de dormí, mmaggnà e bbeve e nnun fà un cazzo,
s’è arrivato a ffà llargo su a Ppalazzo,
e ll’hanno infittucciato cavajjere.
Lui dunque,
che cconossce ir zuo dovere,
de ste fittucce n’ha ccrompate un mazzo,
e a ’ggni vistito, o nnovo o dda strapazzo
ce l’ha ffatte cuscí ddar cammeriere.
Anzi, la cosa
je sta ttant’a ppetto
che ppuro a le casacche, o ssane o rrotte,
de sta fittuccia sce ne vò un pezzetto.
E ppresto
presto m’averò dda iggnotte
de vedejjel’addosso drent’al letto
cuscita a la camiscia de la notte.
E a cquer
cazzaccio der padron de Rosa
sabbit’a ssera nun je prese er ramo
de portà ar Papa un fojjo de ricramo
su li guai de la ggente abbisoggnosa?
Sai c’arispose
er Papa? «Ma cche ccosa!,
che mmiseria, li zoccoli d’Abbramo!
Lei puro 1 ha st’ideaccia stommicosa?
Noi però, ggrazziaddio, ce ne freghiamo. 2
E un’antra
vorta che llei viè a Ppalazzo
co sti sturbi in zaccoccia, siggnor tale,
lei stii pur certo che nnun entra un cazzo.
Fino che ir
Tesoriere nun zi stracca
di fà ddebbiti e vvenne 3 ir capitale,
staremo sempre in d’un ventre di vacca».
Ste commediacce
adesso che sse fanno
a Llibberti e ar Teatro d’Argentina
nun ze ponno soffrí: ppropio nun zanno
né de me né de te, ssora Ggiustina.
Er tempo de
svariasse era quell’anno
che cce fu quela bbella pantomina
che Ppajjaccio maggnava, e Ccolombina
j’atturava occhi e bbocca cor un panno,
eppoi rubbava
ar padre, eppoi de bbotto
scappava via da casa co Arlecchino
fascenno cascà er vecchio a bboccasotto.
Quelle
sò ccose deggne che cce pijji
er parchetto appen’opre er butteghino,
e da portacce a ddivertí li fijji.
Ma, ddit’un
po’, cce séte o mme sce fate?
E st’assaggi ve serveno oggni sera?
Mó una bbruggna, mó un fico, mó una pera,
mó cquattro vaga d’ua, mó ddu’ patate...
Volevio
crompà er banco e cquanto sc’era,
e ttratanto è da un mese c’assaggiate!
A cche ggioco ggiucamo, eh sor abbate!
Questo se chiama un cojjonà la fiera.
A mmé la
robba me costa quadrini,
e io nun crompo er pizzutello e ll’ua
pe rrifacce la bbocca a l’abbatini.
È ora
de finilla, fratèr caro;
e ccasomai ve bbatte er trentadua
sfamateve de torzi ar monnezzaro.
Sí,
dditemel’a mmé cche ggiorn’e nnotte
sce stavo a scotolà 2 la bbussoletta!
Miracoli?! N’ha ffatti una carretta.
Le grazzie poi le scavolava a bbótte. 3
Frebbe,
4 sputi de sangue, teste rotte,
gobbi, secchi, ssciancati... Poveretta!
Pareva che cciavessi 5 una riscetta
pe ttutti li bbastardi e le miggnotte. 6
Eppoi s’ha da
sentí cquarche ccazzaccio:
«Ma ccome si pò ffà ttutto st’inferno,
co un goccio d’ojjo e un fir di carcinaccio?».
Come se fa?!
Mma ppozziat’èsse fritti!
E ccome fanno quelli der Governo
che ammazzeno li cani co l’editti? 7
E ttu pparli
co mmé dde li Siggnori?!
co mmé cche cce fo vvita tutto l’anno?
co mmé cche ll’ho oggnisempre ar mi’ commanno?
co mmé cche li conosco drent’e ffori?
Fijjo, io so
le gattacce indove vanno,
li nomi de li loro creditori,
le panchiane c’affibbieno, l’onori
c’arrubbeno, le trappole che ffanno...
Bast’a ddí
cc’oggni ggiorno che ffa Iddio
sto ccor Conte, e cce sto ccor mi’ decoro,
ché indove che vva llui sce vado io.
E
cquann’hanno rïarto, Madalena,
me vederessi sempre llí cco lloro
ne la stanzia der pranzo o dde la scena.
Chi? cchi
è mmorto? er zor Checco?! Oh cche mme dichi!
Me fai rimane un pizzico de sale.
E de che mmal’è mmorto, eh?, dde che mmale?
Ma ggià, de che! de li malacci antichi.
Ggesusmaria!
chi vvò ssentì Ppasquale
quanno lo sa, cch’ereno tanti amichi!
Ma ggià, er zor Checco, Iddio lo bbenedichi,
l’aveva, veh, una scera de spedale.
E cc’ha
llassato? me figuro, stracci.
E la mojje che ddisce, poverella?
Sò ffiniti, eh?, li ssciali e li Testacci.
Vedova
accusì ppresto! Ma ggià, cquella!
Nun passa un mese che, bbon pro jje facci,
va cco un antro cornuto in carrettella.
Oh ttu
ccanta! sò ssorda, sora Bbona.
Fiato spregato, via, parole ar vento.
Quietateve, o vv’appoggio er comprimento
de piantavve cqui ccome una minchiona.
È
inutile: ciò ffatto er giuramento:
avessi da impeggnamme la corona,
quell’assassino e cquella su’ puzzona
ciànno da stà: li vojjo vede drento.
Che! mm’ha
ppijjat’a ggode er zor Giuanni?
E abbozza, e sserra un occhio, e ffa’ la ssciota...
Voressivo c’aspetti che mme scanni?
E cche ccosa se
penza sto stivale?
Ar fin de fine j’ho pportat’in dota
trenta bbelli piastroni sur zinale.
Disce: vanno
pulite. Ebbè? cce vanno:
Chi ha ddetto mai de nò? cchi vve lo nega?
Ma sta painería come se spiega
cor culetto scuperto de l’antr’anno?
Disce: cìanno
quadrini. Ebbè? cce ll’hanno:
sò rriccone: la grasscia je se sprega.
Ma Ddio sa cco cche bbuscio de bottega
fanno quer po’ de guadaggnà cche ffanno.
Eh
rrïuprisse l’occhi er zor Filisce!
Povero padre! povero cojjone,
che le credeva l’àrbera Finisce!
Saranno, veh
ddu’ regazzucce bbone.
Cqui nnun ze fa ppe mmormorà: sse disce
pe ddí cche ssò ddu’ porche bbuggiarone.
Io me ne vado
dunque in Dataria.
Me presento a un abbate: «Abbia pascenza»,
dico, «voría du’ righe de liscenza
pe sposà mmi’ cuggina Annamaria».
Disce:
«Fijjolo, si chiama dispenza».
«Basta», dico, «sia un po’ cquer che sse sia...».
Disce: «E ir zuo nome?». Dico: «Er mio? Tobbia».
«E ir casato com’è?» «Schiatti, Eccellenza».
«Ggià
llei», disce, «lo sa: ppe li cuggini
ci vò sseiscentonovantotto scudi,
quarantasei bbajocchi e ttre cquadrini».
Figuret’io
come me fesce in faccia!
Io credevo tre ggiuli iggnud’e ccrudi
com’er permesso p’er fuscil da caccia.
A ssei ora tu
ppiantete ar cantone
der drughiere llà in faccia; e ccrede puro
che ggnisuno te scopre de sicuro
pe vvia che cce dà l’ombra der lampione.
Ammalappena
poi dorme er padrone
io traopro un spirajjo de lo scuro.
Tu vva’ allora a la larga, e mmuro-muro
scivola adasciadascio in ner portone.
Ma abbada,
veh, nnun vení ssú, Ppasquale,
infino che nun zenti er zeggno mio.
Quann’io raschio tu appizza pe le scale.
Fa’ cquattro
capi, e ar resto ce penz’io:
entramo... eppoi, se sa, cche cc’è de male?
Ce salutamo e cce discemo addio.
Cosa vedi,
eh? cche ffa?... ddi’, scopri ggnente?
Traòpri un antro po’ cquelo sportello.
Che? cc’è un paino? indov’èllo? indov’èllo?
Mannaggia! nun ze vede un accidente.
Ecco, ecco,
viè avanti: e cquant’è bbello!
Chi ddiavolo sarà?... Ma cche pparente!
Uh, vva’, vva’, lui je stuzzica un pennente...
Lei je dà ssu le deta er mazzarello...
Che ffiandra!
e nnun ce fa l’innoscentina?
Sta ffresco er zor milordo! oh llui scià ddato!
Vederà llui si è ssemmola o ffarina!
S’è
ccacciat’er cappello!... mó sse caccia...
Statte zzitta, nun ride... Uh!... cche ppeccato!
Ciànno serrata la finestra in faccia.
Me bburli?!
invesce de sposà Ccarlotta
l’ha ppiantata e sse pijja Nannarella?
Eh, cquesta puro è ’na bbona zitella:
nun dubbità cch’è ’na cosuccia jjotta.
Io le donne
le guardo a la connotta:
nun bado a cchi è ppiú bbrutta o cchi è ppiú bbella.
Cqua ssemo tra la bbrascia e la padella:
Carlotta tiggne e Nnannarella scotta.
L’ho ssempre
detto io: quer Zebbastiano
tanto fa, tanto disce e ttanto ggira
c’a la fine dà er muso in ner pantano.
Lui se lassa
accecà ddar tira-tira;
e nun capissce er povero gabbiano
che ppo’ un giorno se piaggne e sse sospira.
Ôh, ssor
mastro, tenetevel’a mmente:
io nun me vojjo scorticà li piedi.
Voi ve sbajjat’assai: quanno ciaggnedi,
sonava mezzoggiomo a Ssan Cremente.
Bbe’, cquanto
stiedi a ttornà? cquanto stiedi?
Che?! un’ora?! Un cazzo: nun è vvero ggnente.
Voría che mme pijjassi un accidente
si cce curze nemmanco un par de crèdi.
De che?! ddar
Culiseo a Ssan Giuvanni
ce se va e cce se viè ccor un minuto?
Ce se va cco la freggna che vve scanni.
Eppoi, senza
sto scànnolo futtuto,
si ssete stufo, a mmé mme sa mmill’anni
d’annammene e vvedé cchi è ppiú ccocciuto.
Ve do pprima
du’ essempi, eppoi me spiego.
Che addopra in ne le cammere er pittore?
colori senza colla. Er muratore?
dà ccarcia senza carcia e ssenza sprego.
Er cerarolo
spaccia all’aventore
cannelotti coll’anima de sego.
Fin quer zervo-de-ddio de mastro Diego
lavora leggno fresco e sse fa onore.
Ecco: io
dunque, che ssò mmatarazzaro,
m’ingeggno co le scímisce, e a ’ggni letto
ar men’ar meno sce ne ficco un paro.
Lassa che
ppoi la scimiscetta covi,
e in cap’a un mese o ddua co sto ggiuchetto
vedi si ffai li matarazzi novi.
Che
nnaturale! naturale un cavolo.
Ma ppò èsse un affetto naturale
volà un frullone com’avesse l’ale?
Cqui cc’entra er patto tascito cor diavolo.
Dunque mó ha
da fà ppiú cquarche bbucale
d’acqua che ssei cavalli, eh sor don Pavolo?
Pe mmé ccome l’intenno ve la scavolo:
st’invenzione è ttutt’opera infernale.
Da sí cche
ppoco ce se crede (dímo
la santa verità) ’ggni ggiorno o ddua
ne sentimo una nova, ne sentimo.
Sí, ccosa
bbona, sí: bbona la bbua.
Si ffussi bbona, er Papa saría er primo
de mette ste carrozze a ccasa sua.
Quant’è
vvero, Micchele, che ssò vvivo,
quer prete a mmé mme puzza de stregone:
va in certi loghi e cco ccerte perzone
ch’io nu l’arrivo a intenne, nu l’arrivo.
Tiè un
cannello de vetro e argento vivo
attaccat’a un rampino in d’un cantone,
e ’ggni ggiorno sce pijja condizzione
der tempo bbono e dder tempo cattivo.
È
ccapasce de divve: «Domatina
vò ttirà vvento, vò ffà ttemporale»;
e ’r pretaccio futtuto sc’indovina.
Abbasta, er
zor abbate abbi ggiudizzio,
ch’io nun ce metto né ppepe né ssale
casomai d’accusallo a Ssant’ Uffizzio.
Quanno avevo
da mette quer regazzo
pe cchirico 1 a Ssan Chirico e Ggiuditta, 2
fesce 3 ar barettinaro: «Padron Titta,
ciavete un collarino da strapazzo?».
Lui opre la
vetrina de man dritta
e mme dà un collarino pavonazzo.
Dico: «Eh sto coso nun me serv’a un cazzo:
lo vojjo nero io, sor faccia affritta».
Disce: «Che?!
nnero?! uhm! caro ve costa.
Neri a sti tempi, indove li trovate?
Li neri mó bbisoggna falli apposta.
Mó nnun useno
ppiú de sto colore;
perc’adesso oggn’abbate, appena è abbate,
è abbate ippisi-fatto 4 e mmonziggnore».
Che cche
annàte ssspaargènno ch’ìo me-mméno
sch-schia-sschiàffi e ppuu-ppúggni a Mmà-Mmarìa?
Chi-cchì v’iinfórma si a cca-ccàsa mia
cé-cee-cce-céno o nnu-nnu-nnún ce-céno?
Co-ccome
dìte cch’io rru-rrúbbo er fièno
e bbia-bbiastìmo all’o-ll’o-ll’ooòsterìa?
Fi-ffinìtela un po’ dd-e fà ll-a spìa,
o vve bb-úggero a ccè-cce-ccèl zeréno.
Me mme
spiègo cchia-cchiàro, sooór trommétta?
Abb-abbadàte a li faattàcci vóstri,
oo cc’è un ber bba-bbastóne cheé vv’aspètta.
E
ddí-ddìtelo pú-puu-ppúro a cquélle
sch-sch-scrofàcce, a cque-cque-cquélli móstri
de le vò-vvo-vvo-vvòo-vvostre sorèlle.
Cert’è
che sta Scerriti, sor Cammillo,
tra ffiori a cceste e scartafacci a bbótte
da du’ora inzinent’a mmezza notte,
sartò in zur gusto de ’na purcia o un grillo.
Ma cc’a ’ggni
zzompo meritassi un strillo
da sti guitti fijjacci de mignotte,
saría faccenna de mannà a ffà fotte
loro e cchiunque s’azzardassi a ddillo.
Eh da cqui
avanti appena pisscia un cane,
che ssiino bbuggiarati in zempiterno,
se sfogheranno a ffuria de campane.
A mmé cchi me
fa spesce è dder Governo,
che invesce, cazzo, de fa ccresce er pane,
avería da impedí ttutto st’inferno.
Ma tte possi
ingozzà mmille detali
de seme staggionato de dolori!,
le lègge chi le fa? li monziggnori.
Le lègge chi le fa? li cardinali.
Che spesce
dunque de li mi’ stivali,
si er banno su la caccia è usscito fori
quanno ggià sti futtuti cacciatori
aveveno spariti l’animali?
L’antro mese
sc’è stato concistoro:
li cardinali novi in conzeguenza
doveveno penzà a li casi loro.
Senza un
spiduccio d’uscelletti, senza
quer po’ de svojjatura e dde ristoro,
se poteva fà un pranzo da Eminenza?
Ma inzomma,
de che ccosa se lamenta?
Da che pparte j’ho pperzo de rispetto?
Ch’edè st’inzurto che llei pijja a ppetto
che ne vò ammazzà vventi e fferí ttrenta?
Tutt’è cche mmarteddí, ggiú ppe la sscenta
de la Salita de Cresscenzi, ho ddetto
ch’è ’na cristiana che nnegozzia in Ghetto
de carnaccia, de tinche e de pulenta.
Disce: «Ma
cquesto me viè a ddí mmignotta».
Bbe’ cquann’anche arrivassimo a sto nome,
io nun pòzzo capí pperché jje scotta.
Chi a mmé mme
disce Oste, io me ne grorio.
E er dí pputtana a llei sarebbe come
chiamà Ssu’ Santità Ppapa Grigorio.
«Quanti
ereno?» «...Un zeiscento». «E ttu, l’hai visti?»
«Je sò ito anzi appresso da la gujja
der Popolo inzinent’a Ppapa Ggiujja
co ttre ccompaggni mii puro fochisti».
«Pènzete,
eh? l’accidenti e li peccristi!».
«Eh ffurno ppiú cc’a ppasqua l’allelujja».
«E le sgrinfie?» «Fasceveno una bbujja
da intontí li tammurri e li bbannisti».
«Perantro, co
sto callo, poverini!...».
«Ggiàa, sta ggente j’arriva mezza morta».
«Ortre er risico poi de l’assassini».
«Ah in quant’a
cquesto no; pperché a la Storta,
sibbè cche nun portassino quadrini,
se disce che ppijjaveno la scorta».
Malappena
arrivato er riggimento
se presentò a ccavallo er generale
discenno: «Fijji, o state bbene o mmale,
v’avete da purgà tutt’e sseiscento».
De fatti, er
giorn’appresso, lo spezziale
portò un callaro e ccert’acquaccia drento,
e, un sgummarell’a ttesta, in d’un momento
dispennò ssin ar fonno er capitale.
Poi, doppo avelli
conzolati tutti,
disse: «Pe nnun trovavve in quarch’incastro,
oggi e ddomani nun ze mmaggna frutti».
Trenta scudi
importorno li purganti,
ma in ner conto che ddiede er quartier-mastro
c’era: e ppiú ar votacantera antrettanti.
Jeri er Papa
fasceva, sor Chiappini,
la su’ visita ar Zanto Sagramento,
e sse ne stava llí ttutto contento
tramezz’a cquela frega de cusscini,
ma
ggià da un’ora sce covava drento;
e cquelli sganganati papalini
se storceveno come bburattini
quann’er ferretto j’è un po’ ttroppo sscento.
Arfine er
Monziggnor Cirimoggnere
se fesce apposta sscivolà l’uffizzio
da puttanone vecchio der mistiere.
E er Papa? Sartò ssú, ppijjo l’abbriva,
e sse n’aggnede a ccasa a ppriscipizzio.
Azzeccatesce un po’? Bbravo: dormiva.
Me sce
sò ttrovo io puro: anzi in ner vede
quer bon zervo de Ddio ccusí ariccorto,
che ppareva un cadavero de morto,
ammazzato pe ccausa de la fede;
fesce a la mojje
de Matteo lo storto,
che stava ar pizzo d’un pilastro a ssede,
dico: «Nun pare llí, ssora Presede,
Cristo che facci l’orazzion’all’orto?».
Ste parole
l’intese un berzitello,
che gguardava ’ggni cosa, appiccicato
co la panza a li ferri der cancello.
Disce:
«Fijjolo, ve sete sbajjato.
Voi chiacchierate de passione, e cquello
s’inzoggna le ricchezze de lo Stato».
Pe
ppiascemme, cojjoni si mme piasce!
Che ggraffiona, pe ddio, che ttraccaggnotta!
bianca ppiú de la carcia e la ricotta:
co ddu’ rossi che ppareno du’ bbrasce!...
Nun zò
cquesti li guai: quer che mme scotta,
ppiú cche ssi stassi immezzo a ’na fornasce,
è de vedella, e de lassalla in pasce;
ché, ppe ddisgrazzia mia, nun è mmiggnotta.
Quella scerca
marito; e ppe sposalla
o cce vò rrobba ar zole o bbaiocchelle,
perché de casa sua sta ttoppo calla.
Che sò
ttre giulî ar giorno, Raffaelle?
De car’e ggrazzia sce se pò strappalla,
e sse ne vanno in tacchie e gguaïnelle.
Bbe’? A li
discorzi che mmó avemo intesi,
sor’Artomira, sce sò nnòve bbone.
È vvienuto er maschietto eh sor Zimone?
Se vederà sti lanternoni accesi.
Viè,
ccocco mio... Salute come pesi!
E cquesto cqui vvò ddiventà un Zanzone!
Ma davero che ppezzo de fijjone!
Nun pare una cratura de tre mmesi?
Guarda si
cche ccapelli appena nato!
Senti che ccarne toste e scrocchiarelle!
Eh cquesto se pò ddí bbell’e allevato.
E ccome
fissa! e ccome striggne! e ccome
succhia er deto! Ve scortica la pelle.
E sse chiama? Pasquale? Un gran ber nome!
Io nun zo
ppiú cche ffamme. Una regazza
che inzin’a ccarnovale, sora Ghita,
pijjava foco come l’acquavita
e ttutt’er giorno me bballava in piazza!
’Na fijja che
ggnisuno la strapazza,
s’ha da èsse accusí arinzinichita,
sscelonita, anniscita, intontolita,
come vienissi mó dd’un’antra razza!
Nun dorme
guasi mai, nun ha ppiú ggusto
de maggnà, rridà ffora, se viè mmeno,
je cressce er corpo, je fa mmale er busto...
Povera fijja!
povera cratura!
Sapessivo, commare, quer che ppeno!
Ah! de scerto cqui cc’è cquarche ffattura!
«Parlanno co
li debbiti arispetti,
dico, diteme un po’, ssete zitella?».
Disce: «Eh... ddar tett’in giú...». Dico: «Sorella,
perché mm’arisponnete a ddenti stretti?».
E llei
zzitta. «Ebbè», ddico, «sti rospetti
v’escheno fora o nnò, ccocca mia bbella?».
Disce: «Eh... dar tett’in giú...». Dico: «Sabbella,
famm’er zervizzio, lassa stà li tetti».
Je volevo in
zostanza a sta sciufeca
fà ccapí cch’io nun ero una cratura
da pijjamme una mojje a ggatta-sceca.
Ma, inzomma,
nun ciò avuto antra risposta:
e sott’a sti su’ tetti ho ggran pavura
che cce sii quarche bbuggera niscosta.
Io nun
zò bbella, e nnun zò ttanta ssciorna
d’avé le protenzione de sta nana.
Ma nemmanco me credo una bbefana,
e nun me pare de portà le corna.
E ssi mme
torna a ccojjonà, mme torna,
quela bburzuggna spaporchiaccia cana,
troverà li cazzotti a la romana
e ppronto casomai chi jje li sforna.
Sgorgia
spappina! Lei?! co cquela faccia?!
co cquer paro de zzèrule de scianche
e co cquelli du’ chìfene de bbraccia?!
Mora canizza!
E a mmé mme dà la guazza?
lei, che ppe ffàsse le pellacce bbianche,
se le dipiggne come una pupazza!
L’avete vista
la siggnora Tuta
come s’è ttutta arimpipirizzita?
come s’è ddata a l’amorosa vita?
E nun je s’ha da dí pporca futtuta!
Lei tante
cianarie, faccia ggialluta,
e a mmé mme tocca de morí ingriggnita!
Ma io me chiamo sempre Margherita:
io nun ciò ggnisun Zanto che mm’ajjuta.
Senza er zu’
San Grigorio Tammaturgo
chi nun ha ggnisun’arte né mmistiere,
li pò ffà ttanti sfarzi, eh? mme la purgo.
Ebbè
sto San Grigorio è un furistiere,
è un russio che sse chiama Pietro Bburgo,
e la va a cconzolà ttutte le sere.
«Passa er
Papa, eh, Luscía?» «Perché, Vvincenza?»
«Nu lo vedi si cquanta puzzolana?»
«Care quele fijjacce de puttana!».
«Fússimo fijje tue, bbrutta schifenza».
«Eh regazze,
pagamo sta mammana
c’avémo fatta lavorà a ccredenza?»
«Eh scrofa, chi tt’ha ddata la liscenza
d’usscí da Ripa pe vvení in funtana?»
«Pe
ffà llogo a llorantre usscímo noi».
«La pulentara è mmatta in ner ciarvello».
«Tirate, zzitellucce, er fiato a vvoi».
«Addio porca
da grasso pe l’assóggna».
«Addio vacche da carne de mascello».
«A ffiumaccio, a la chiavica, caroggna».
È
rricco assai. Ggià cquanno mòrze er zio
je lassò er gallinaro sano sano:
poi da vent’anni che ffa l’ortolano
n’ha impozzati, di’ ppuro, un buggerio.
E ssapessi si
cquanto è rraffacano!
Pe stiracchià nnun ce la pò un giudio.
Quello è un ometto bbono, te dich’io,
d’avé un mijjaro o ddua ner canterano.
Lui dateje un
bajocco ch’è un bajocco:
tanto lo svorta, lo stira, lo stenne,
che cce campa da mó ssin a ssan Rocco.
E arimistica,
e imbrojja, e aricutina,
che ddovería stà mmosscio, a cquer che spenne,
e a ccasa sua c’è er latte de gallina.
«Ôh ddunque
ripassamo un po’ la lista.
Ha ppagato quer guitto d’avocato?»
«Sí, cc’è er zeggno». «E
ll’orefisce?» «Ha ppagato».
«Poi chi antro?» «Er barbiere e ll’arbanista».
«Avanti». «Li
ggiudii: don Giammatista:
l’uditore e er notàr der Vicariato:
er conte: er zalumaro: er zor Donato:
er medico: er zartore: er zempriscista...».
«Uh, a
pproposito, di’: cquer maggnapane
che ggnisempre sce dà ttanto strapazzo?»
«Quello nu la vò intenne, sor decane».
«Ebbè,
vvojantri, si ariviè a ppalazzo,
badate bbene, a sto spilorcio cane,
de nun passajje l’immassciata un cazzo.
«E cquanno l’incontrassi?»
«Verzo sera,
c’aritornavo dar palazzo Pacca».
«E indove?» «Propio avanti a la bbaracca
der friggitore Ambroscio er panzanera».
«Marciava in
farde?» «Nò, cco ’na casacca».
«E cche ffaccia t’aveva?» «Uhm, brutta scera».
«Ma, era granne..., piccolo... com’era?»
«Pse, un ometto accusí de mezza tacca...».
«Ma ssei
sicuro poi che ffussi quello?»
«Eh, ssenti, amico: si nun era lui,
quer che pportava in mano era er mi’ ombrello».
«E allora tu
nu lo pijjassi in petto?!»
«Che vvòi, mannaggia li mortacci sui!,
me se messe a scappà pp’er vicoletto».
Piano co sto
spregà, Ppavolo mio:
specchiete cqua in ner zòscero de Nena.
Viggne, grotte, osteria, la casa piena
de tutte sorte de grazzia-de-ddio...
E mmó adesso?
dimannelo a ttu’ zio:
mó sse commatte er pranzo co la scena.
Mó cch’è vvecchio la sfanga ammalappena
co cquer búscio d’ortaccio in Borgo-Pio.
Pavolo,
abbada: nun buttà un conzijjo.
Tu ssciupi troppo co ste porche caggne;
e cquesta è la ppiú ppena che me pijjo.
Fin che
cc’è ggrasso te faranno sfraggne,
te sporperanno vivo; e ssí e nnò, ffijjo,
te lasseranno poi l’occhi pe ppiaggne.
Ripijjà
mmojje tu?! Ddoppo le pene
diliggerite co cquel’antra vacca?!
Dunque la tu’ pascenza nun è stracca
de pagà le tu’ corna a ppranzi e ccene?
Eppoi, ne
l’età ttua, te sta mmó bbene,
cardèo mio bbello, de sposà una stacca?
Sai c’a cquesta je bbruscia la patacca,
e ttu ppoco ppiú ssangue hai ne le vene.
Ggiudizzio,
mastr’Andrea: nun curre er risico
d’aribbuttatte in d’un inferno uperto
pe vvive disperato e mmorí ttisico.
Annà a
impicciasse co rregazze un boccio!
Zzitto, nun t’inquietà: lo so de scerto
c’hai ggià vvotato er tu’ primo cartoccio.
Perché
ddunque sò sporche le funtane,
sor Presidente, cià cche ffà mmi’ fijja?
Lei, Eccellenza, pijja un grancio, pijja,
e ffa mmale a ddà retta a le puttane.
S’ha da sentí
ttutt’e ddua le campane
prima de fà ’no sfrescio a ’na famijja.
Quela santa però ssenza viggijja
forzi sce s’ha da mozzicà le mane.
Già,
sta quarella è ttutto rosichino
che la mi’ fijja ha ttrovo a ffasse sposa,
e a llei je tocca de restà a ddentino.
Ma llei se
pò addannà cquanto je pare,
c’avanti che ffiorischi sta su’ rosa,
eh, cc’è da fichi-fà, ssora commare!
M’era mó
ccapitato un conciapelle
fijjo der zervitor de Tammerlicche.
Ebbè, ppe la miseria ho pperzo nicche
e ppartito; e cciò mmadre e ddu’ sorelle!
La dota a
mmé?! Cchi mme la dà? Bberlicche?
Chi cciajjuta a nnojantre poverelle?
Le dote de le povere zitelle
toccheno tutte a le regazze ricche.
Tratanto
eccheme cqua, ssora Sciscijja:
quest’antro puro me l’ha ffatta tonna:
tutti me vonno e ggnisuno me pijja.
Ma
ggià, cquela bbon’anima de nonna
me lo disceva: «Statte quieta, fijja:
ce penzerà er Ziggnore e la Madonna».
Rotta de
collo, caroggnaccia strega!
Co cchi ll’ho? ll’ho cco vvoi, sora ssciuerta.
Chi ariserrava la finestr’uperta?
Sta lússcia cqua, cchi l’ha bbuttata? Bbrega?
No, sséte
stata voi pe ccosa scerta,
e nnun zerv’attaccasse a ssanta Nega.
Ce sò li tistimoni llí in bottega
der cucchiere der prencipe Caserta.
Ah, llei nun
butta mai, fijja d’un cane!
Ccusí ’ggni vorta je cascassi un dente:
ccusí jje se seccassino le mane.
Bbe’, bbe’,
mmó vvado a ddí mmezza parola
a ’na scerta perzona, eppoi lei sente
si aripaga cappello e ccamisciola.
M’arimanna cqua
llei, mastro Matteo,
a ccantavve la solita canzona:
si jje sbrigate mai quela portrona
foderata compaggn’ar canapèo.
Provamosce un
tantino er culiseo.
Ah bbenemio che ppacchia bbuggiarona!
Nun ce la pò er zofà cche la padrona
ce voleva accuccià Ggiusepp’ebbreo.
Co sta razza
de mobbili a ppalazzo,
che mmaravijja poi si a li siggnori
je viè la vojja de nun fà ppiú un cazzo?
Viva la
faccia de chi ccià cquadrini!,
che pponno sfeghetà li servitori
co le chiappe tramezz’a sti cusscini.
Queste
sò zzuggne; e spreghi er fiato, spreghi,
pe ccercà ll’ambo e cciaveressi er terno.
Lassa dí a mmé: ttu cciarli in zempiterno
e ppiú tte vòi spiegà, mmeno te spieghi.
Pe li ladri,
de llà cce sta l’inferno;
ma de cqua cche cce vò? cchi tte li leghi.
Dunque, cuncrudo io, si ne l’impieghi
ce stanno ladri, ce li vò er governo.
Me dirai:
come sce li vò? Ssò ppronto.
Co ’na mezza parola te capascito,
e vvederai che tte viè bbene er conto.
No cch’er
Papa je manni er zu’ bbonprascito;
ma ssi llui sce s’ammaschera da tonto,
quell’antro che ha da dí? Cc’è er patto-tascito.
Quant’a
osservà le feste, sor Ilario,
sò cco vvoi: è de ggiusto: è de dovere.
Ma cche jj’è a Ddio si un oste o un caffettiere
scantina un tantinello in ne l’orario?
Lui se ne
ride er Cardinar-Vicario,
perché ssi a llui je se ssciojje er braghiere
cià a ccasa sua bbon coco e credenziere
bell’e ppronti co tutt’er necessario.
Nun dico
ggià cco le parole mie
c’abbi in tutta la festa una perzona
da stà ppe li caffè e ppe l’ostarie.
Ma cche la
ggente sii puro províbbita
de levasse un crapiccio a la scappona,
de maggnà un tozzo o de pijjà una bbibbita!...
Er bussolotto
novo a Ssant’Ustacchio
c’avete fatto lei, sor Archidetto,
accusí ppoco fonno e accusí stretto
pe Ppasqua-bbefania nun zerve un cacchio.
Chiuso,
abbasta de méttesce un pennacchio
perché ppari un giaccò dd’uffizzialetto;
e uperto cosa sc’è, ssia mmaledetto?
otto bbusci da vénnesce l’abbacchio.
Disce: «Ma
cquelli antichi ereno vecchi!».
E nun potevio fàlli novi e ggranni?
Vedi che bber parlà da mozzorecchi!
Sò
stati bbene quelli pe ttant’anni;
e ppe la fernesia de fà vvertecchi
mó vve state a pijjà ttutti st’affanni!
Fatt’è
cche mmartedí, ssor Checco Piave,
a la porta dell’urtimo casotto
(che, nnun zò ddí pperché, ffra ttutt’e otto
era rimasto sfitto e cchius’a cchiave)
attaccato de sott’all’architrave
sce fu ttrovo ’na spesce de strammotto
da pagasse coll’ojjo der cazzotto,
e ddisceva accusí: Vvero Concrave.
A mmé mme pare una cojjoneria.
Cosa sc’entra er Concrave ar paragone
cor casotto de Pasqua-bbefania?
Cqua cce
sò li pupazzi, in concrusione,
e llà li Cardinali, in compaggnia
de tant’antre bbravissime perzone.
Eh, ssiconno
li gusti. Filumena
se fa vvení cqueli gruggnacci amari
de li scechi: Mariuccia e Mmadalena
chiameno sempre li carciofolari;
e a mmé mme
pare che nun zii novena
si nun zento sonà li piferari:
co cquel’annata 1 de cantasilena
che sserve, bbenemio!, sò ttroppi cari.
Quann’è
er giorno de Santa Caterina
che li risento, io ciarinasco ar monno:
me pare a mmé dde diventà rreggina.
E cquelli che
de notte nu li vonno?
Poveri sscemi! Io poi, ’na stiratina,
e mme li godo tra vviggijj’e ssonno.
Poi bbisoggna
penzà, ffratel Mattia,
che ppe li scinqu’o ssei de st’antro mese
ce toccheno cqui a nnoi le sette cchiese.
Voressivo lassà st’opera pia?
S’ha ddunque
d’avvisà la Compaggnia
pe ppoté rregolasse ne le spese;
e intanto fà vvení da Maccarese
la ppiú mmejjo vitella che cce sia.
S’ha ppuro da
fà scrive a Vviggnanello
p’er zolito bbaril de vin’assciutto,
e pper un antro o ddua ppiú ttonnarello.
Perch’io poi
nun voría trovamme bbrutto;
ché ppe sta divozzione io sò, ffratello,
quer c’ha la bbêga de provede a ttutto.
Dunque se
paga o nnò, ssora Vincenza?
Sete dura de reni eh sora sposa?
Pare che vvoi ve la pijjate ariosa,
e a mmé mme se sbottona la pascenza.
Ve lo dich’io
si ccome va la cosa.
Voi sete avvezza de campà a ccredenza:
sete avvezza a mmaggnà ppe ppropotenza,
e ar pagà ffate poi la stommicosa.
Inzomma, io
v’ho alloggiata mezzo mese
co cquer drittone de vostro marito,
e vv’ho ffatte de ppiú ttutte le spese.
Voi fate la
scordata, lui lo ssciocco.
Tratanto er mezzo mese è ggià ffinito,
e nun ze vede l’arma d’un baiocco.
Dico, semo da
capo eh bberzitello?
avem’arta la pasqua un’antra vorta?
Con mé nun zerve de svortà la torta:
voi sete sciurlo, e assai, core mio bbello.
E
ccom’è stato? assciutto o ttonnarello?
Zzitto! Appena t’ho vvisto entrà la porta,
saccoccione che ssei, me ne sò accorta
che nnun t’arregge sú mmanco er cappello.
Va’, vva’ a
ccasa, e ddi’ ppuro a quela strega
de la madraccia tua, fijjo d’un mulo,
ch’io nun vojjo zzarlacche pe bbottega.
Ah, ppuro me
sce bbrontoli eh vassallo?
E io te pijjerebbe a ccarc’in culo.
Ma ar culo, cocco mio, ciài fatto er callo.
Cqua nun ze
bbatte, sor cacazzibbetto,
sor zucchiasavonèa, ciscio-bbrodoso,
farfallino, scogliattolo, crestoso,
smerdacamiscia, passero, pivetto,
sgrullino,
cacasotto, pisscialletto,
stronzo, fanello, chicchera, mmerdoso,
bbragalisse, pupazzo, moccioloso,
sartapicchio, sgriggnappolo, fischietto,
cacarella,
bbavoso, spizzichino,
purcia, grillo, pidocchio, reduscello,
raggno, tappo, sscimmiotto, marmottino,
fongo,
schifenza, cimiscia, franguello,
fichetto, cirifischio, ggnaccherino,
sbusciafratte, cazzetto e ccojjoncello.
«Chi vvedo!
Bbona notte ar zor Alò».
«Sor chicchera cor botto, bbona sera».
«Padrone ariverito, sor tullera».
«Servo, sor picchiarella e ppicchiabbò».
«Sente sto
callo?» «E llei lo sente?» «Un po’».
«Me n’arillegro assai, sor panzanera».
«E a llei, sor peso farzo de stadera,
j’abbrusci er culo e la camiscia no».
«Dico,
è llonga la vergna!» «Eh, cche vvò ffàcce?
Chi è stato er primo de toccà er cantino,
quanno viè ppoi la sua bbisoggna stacce».
«Ma ssi
vv’essce però ’n’ antra parola,
l’affare va a ffinì ccor cazzottino».
«E io ve pianto un cortelluccio in gola».
«E a mmé mme
sa mmill’anni un’antra cosa».
«E sta cosa ch’edè?» «Nun pòzzo díllo».
«Perché nu lo pòi dì? ddimmelo, Rosa».
«Che mme schiatti quer porco de Cammillo.
Si Ddio me fa
sta grazzia, senti, sposa,
do ffoco a ccasa: vojjo fà uno strillo.
Vojjo maggnà ’na frittata roggnosa
e bbravi maccaroni cor zughillo».
«E pperché ha
da crepà cquer poveretto?»
«Perch’è un birbone, perch’è un assassino,
perché mme mena e vvò stà ssolo a lletto».
«E ttu
vvòi restà vvedova?» «Adascino:
sto sproposito, sposa, io nu l’ho ddetto».
«Ho ccapito: entra in posto er tu’ viscino».
E in quanti? in
zette! me cojjoni?! in zette?
sette burrini pe arrubbà una donna!
Figurete, pe ddio, che bbaraonna!,
che sscenufreggería!, che ccacc’e mmette!
E ssott’a
ttanti furmini e ssaette
va’ ssi sta sciorcinata nun ze sfonna!
Si ffussi l’occhialon de la Ritonna,
se spaccherebbe, e cce voría scommette.
Ma cquesto
nun zarebbe un accidente.
Le donne, pe mmé ttanto, bbuggiaralle!
Penzo er Papa si ccome se la sente!
Se sò
mmessi un ber tibbi su le spalle.
E cce sò ttante donne che ppe ggnente
ce viengheno da sé ssenz’arrubballe!
«Mamma», je discev’io sabbit’a otto,
«nun girate accusí: vvoi séte sorda».
Avevo da legalla co ’na corda?
Vorze usscí ssola, e scappò vvia de trotto.
Bbe’, a la
svortata llí de Palaccorda,
ce s’incontrò a ccavallo un giuvenotto:
lei nu l’intese a ttempo, aggnede sotto,
e, inzin che ccampa, mó sse n’aricorda.
Inzin che
ccampa, sí, cquella è ccapasce
de stà inchiodata in d’un fonno de letto:
me sce sò mmessa ggià ll’anim’in pasce.
E ccome se n’usscí
cquer pasticcetto?
Cor un povera donna e un me dispiasce
cacciò la bborza e jje bbuttò un papetto.
Dico: «Sta in
casa la sora Contessa?».
Disce: «Chi ssete voi?». Dico: «Ggioconna».
Disce: «A st’ora lei dorme, bbona donna».
Dico: «È ssonata ggià ll’urtima messa!».
«O ll’urtima,
o la prima, o la siconna»,
disce, «lei dorme, sora dottoressa».
Allora io, piano piano, me sò mmessa
s’un cassabbanco incontr’a ’na Madonna.
Dico:
«Ajjuteme tu, Mmadonna mia».
«Zzitta», disce, «linguaccia de scecala;
cqua nun ze fa caggnara, o sse va vvia».
Oh azzecca un
po’? vviè un païnetto in gala;
dimanna la Contessa; e cquel’arpìa
lo porta drento, e a mmé mme lassa in zala.
Giudizzi der
Ziggnore, te dich’io.
Questo manna a ccartoccio una famijja:
quello maggna la carne de viggijja:
uno bbiastima peggio d’un giudio:
l’antro tira
a la mojje de su’ zzio:...
eppuro, io nun me faccio maravijja
s’hanno sorte a ccascà. Credeme, fijja:
sò ttutte-quante premision de Ddio.
Lasseli
scrapiccià, llasseli gode,
e ffà d’oggn’erba un fasscio, e inzurtà nnoi
e rrídese dell’Angelo-Custode.
Però,
’ggni pianta ha da produsce er frutto.
De cqua le cose vanno bbene; eppoi?
Poi de llà, ffijja mia, se sconta tutto.
E
ddàjje cor Governo! O è ccaro er pane,
o nun c’è da scallasse in ne l’inverno,
o vve sbajjeno un nummero in un terno,
o vv’abbuscate un mozzico da un cane,
o la commedia
in musica è un inferno,
o sse fa ttroppo ghetto a le bbefane,
o le ggente se meneno le mane...
subbito senti: «E ccosa fa ir Governo?».
Ma ssò
ppropio bbadiali sti sciarloni!
E ’r Governo ha da stà ccom’un editto
incollato pe ttutti li cantoni?
Sta’ attenta
che mmommò ppuro è un dilitto
der Governo si ll’osti nun zò bboni,
o er friggitore v’ha bbrusciato er fritto!
Quello che
ddisse che nnoi semo bboni
sortanto pe mmorí ssopra la pajja,
era un ziggnore? Ebbè, ddunque nun sbajja.
Li Siggnori sò ttutti Salamoni.
Li Conti, li
Marchesi, li Bbaroni,
e ttutta st’illustrissima canajja,
ce tiengheno a nnoantri pe mmarmajja
da trattà cco li nerbi e li bbastoni.
Eh,
bbontà lloro contr’er nostro merito.
Ma ssi fussimo noi nati siggnori,
chi l’avería li carci in ner preterito?
Sti
ggiuchetti li regola la sorte;
e a ttutti o un callo o un freddo, o un drento o un fori
pò accadé ttra la nasscita e la morte.
Occhi de gatto,
bbocca de fornello,
naso da dà ppe bbecco ar pappagallo,
cera de torroncino e de pangiallo,
grugnaccio spizzicato da l’uscello:
collo da
colonnetta de cancello,
schina commare de Montecavallo,
cianche vinte co un zette su lo spallo:
sei l’asso e ttiette sú, ccore mio bbello.
E cquelli
mostri de li tu’ parenti,
je pijji una saetta a ttutti quanti,
sò una gabbiata zeppa de scontenti.
Spero
però cche Ccristo co li Santi
ve connischi un guazzetto d’accidenti
pe ffavve cascà ttutti a ffacciavanti.
Presto muto
servizzio. Er mi’ padrone
da quarche ttemp’in qua mme s’è ammattito.
Sai mó cche ccrompa? Sassi, e ggià nn’ha impito,
ortre la stanzia sua, tutt’er zalone.
Ce n’ha ppoi
scerti er vecchio arimbambito,
c’a ’na credenza indove l’aripone
cià inchiodato de fora un cartellone,
che ddisce: Scherzi de leggno impietrito.
Sí, ssí, llui
ridi co sti bbelli scherzi;
ma un giorno farà ppoi la faccia tetra,
penzanno a li quadrini che ccià pperzi.
Me sc’impeggno
la testa, me sc’impeggno,
ch’er leggno ar monno nun diventa pietra
sin che la pietra nun diventa leggno.
Me fo sposo,
Taddeo. Quer zantarello
der confessore mio, quer don Cremente,
me dà ppe mmojje una su’ pinitente,
ch’io nun ho vvisto mai gruggno ppiú bbello.
Lui m’ha
ddetto accusí: «Ssentime, Lello,
tu azzecchi propio un’anima innoscente.
Sposela, fijjo, e nun rifrètte a ggnente,
ché ppenzo a ttutto io: puro a l’anello».
Eppoi
ciòpre una bbrava bbotteguccia
per ingeggnacce inzieme io e la sposa,
e cconzervacce la nostra robbuccia.
Tratanto
ggià ccomincia a ffà le spese,
perc’ha una gran premura che la cosa
se pòzzi striggne, ar piú, ppe st’antro mese.
Tant’è:
quell’abbatino co li guanti
de capicciòla co l’orletto rosso,
quello è mmi’ fijjo; e ttiè ’na cacca addosso
da rídesene ggià de tanti e ttanti.
E io pe
pparte mia fo cquer che pposso,
si mm’ariessce, pe ttirallo avanti;
sibbè mm’abbino detto tutti quanti
c’a li latini è ggià un pezzetto grosso.
Conosscete er libbraro er zor Urèli?
Bbe’,
ddisce lui che cqueli bboni frati
già mme l’hanno passato a li Corneli.
Nun ha
inzomma vent’anni terminati,
e ggià ssa cche vvò ddí Januva-sceli,
Santa-santoro e Ddommine-covati!
Tutta la
notte in zónzola, io dimanno
si sta bbene a ’na madre de famijja.
E ccià avvezzata, sai?, puro la fijja,
che la porta cqua e llà ggirannolanno.
Ciarla er
monno, ma llei nun ze ne pijja:
cià ssempre er me ne frego ar zu’ commanno:
e sséguita sta vita tutto l’anno,
senz’abbadà nné a ffesta né a vviggijja.
Su cquer che
ffacci poi tutta la notte,
a sta dimanna nun te so arisponne.
Darà una bbòtta ar cerchio, una a la bbotte.
Sortanto io
so (mma nu lo dí a ggnisuno),
che de li vizzi vino, ggioco e ddonne
a llei nun je n’amanca antro che uno.
La mi’
padrona, poi, Padre Priore,
nun è mmica de quelle cristianacce
che nell’opere bbone hanno du’ facce,
una p’er monno e ll’antra p’er Ziggnore.
Lei disce che
nnun vò ttante legacce,
perché er bene che ffa lo fa de core;
e cc’uno in chiesa, o ggiusto o ppeccatore,
o ha da dà bbon esempio o nun annacce.
E, ppe mmé, bbuggiaralla
la Contessa,
ma nun ze pò nnegà cche ne sa assai
sur modo de sentí la santa messa.
Tant’è
vvero, e lo disce puro Tota,
che ppe le cchiese lei nun ce va mmai
pe la pavura de nun stà ddevota.
Ce sarvò
ppe mmiracolo la pelle,
povera fijja! Ma arimase zzoppa;
e adesso me sta llí ccom’una pioppa,
o sse strascina un po’ cco le stampelle.
Er vento a
nnoi nun ce va ssempre in poppa
come va a le siggnore. Sibbè a cquelle
le gamme je diventeno sciammelle,
cianno bbona carrozza che ggaloppa.
Una siggnora,
in qualunque disgrazzia,
co li quadrini presto se la sbriga,
ché sibbè nnun lavora è ssempre sazzia.
Ma a nnoi
povera ggente che cce resta,
si la man der Ziggnore sce gastiga?
De striggne l’occhi e dd’inchinà la testa.
Nun zai la
novità? Jjerzera, quanno
te lassai llí a la Pasce all’osteria,
pijjai dritto, pijjai, pe ccasa mia,
dove tiengo un strapunto ar mi’ commanno.
E mme
n’annavo cantanno cantanno
un’aria der ronnò dde la Luscìa,
quann’ecco a l’immoccà nne la Corzia
vedde in terra un zocché ddrent’in un panno.
Azzécchesce
ch’edèra? Un ber cappone.
E stammatina io me lo sò ppelato,
l’ho arrostito, e cciò ffatto colazzione.
In quant’ar panno
poi, ch’era stracciato,
acciò vvedessi de trovà er padrone
l’ho pportato a la serva der curato.
Dio nu l’ha
ffatto pe spiegà er Vangelo
sto sor Padre-curato don Petronio.
Un po’ ppiú mm’addormivo io, sor Antonio,
bello che in chiesa, e cc’è amancato un pelo.
Che sso cche
ss’è impicciato! Er monno, er celo,
l’inferno, er purgatorio, er madrimonio,
li farisei, le pecore, er demonio,
l’acqua, er vento, la nebbia, er callo, er gelo...
Eppoi, pe
cconnimento a st’inzalata,
’ggni du’ parole tosse, raschia, sputa,
e sse mette a strillà: serva mannata. 1
Ma sta serva chi è? Cchi cce la manna?
Dove va, ccosa vò, cquann’è vvenuta?
Come se chiama, Lia, Stella, Susanna?...
Vanno a Ssan
Pietro a ringrazziallo, Nena,
pe ddacce essempio d’umirtà, ppe ddacce.
Jèso che gguittaria! Cristo che ffacce
de ggente che ddiggiuna a ppranzo e a ccena!
E sti
cavalli? Maria grazziaprena!
’ggni mosscio sovranello pò arrivacce.
E cche ppònno valé ste carrozzacce?
seimila scudi l’una ammalappena.
Guarda er
quipaggio de fòra e de drento:
smiccelo bbene de drento e de fora:
è ttutta stracceria d’oro e dd’argento.
E
accusì, co sto vive stiracchiato,
poverelli, s’avvezzeno a bbon’ora
a ppatì le miserie der papato.
Mó
ss’ariscava a Ccampidojjo; e, amico,
ggià ssò ddu’ vorte o ttre cche ccianno provo.
Ma io, pe pparte mia, poco me movo,
perch’io nun zò ppiú io quanno fatico.
E lo sapete
voi cosa ve dico
de tutti sti sfrantumi c’hanno trovo?
che mmànneno a ffà fotte er monno novo,
pe le cojjonerie der monno antico.
Ve pare un
ber proscede da cristiani
d’empí de ste pietracce oggni cantone
perché addosso ce pisscino li cani?
Inzomma er
Zanto-padre è un gran cojjone
a ddà rretta a st’Arcòggioli romani
c’arinegheno Cristo pe Nnerone.
Nun dico
bbene? Pe cquattro bbijjetti
de Libberti se pìa tutte ste pene,
e cce se scalla er zangue in ne le vene!
Preti: nun dico bbene eh sor Ferretti?
Che! cce
commanna er diavolo a le sscene,
a li bbanchi, a l’orchestra e a li parchetti?
Er diavolo nun penza a cciufoletti:
penza a le bbirberie: nun dico bbene?
Chi
ccià scrupolo, arresti a ccasa sua:
ma sse stii zzitto si cciannamo noi:
nun dico bbene? Eh ssì, ssangue d’un dua!
A la commedia
ce pò annà cchiunque:
nun dico bbene, sor Ferretti? Eppoi
ce vanno puro li prelati: dunque...
Inzomma, sti
regazzi de la bbanna
de Termini ggià ffanno un ber zussurro.
E ssi vvedete quer capotammurro
come li fa ingarrà! ccome li manna!...
Ve dico
inzomma ch’io, sora Susanna,
che dell’antri nemmanco ne discurro,
si ssento questi cqui, ssubbito curro
e cce pianto mi’ mojje che ss’addanna.
Ce ne
sò ccerti inzomma, poverelli!,
che jje dànno una bbuggera de tromma,
da fàjjesce cacà li vermiscelli.
Questo,
è vvero, è un po’ troppo; perché inzomma
quer trommone a sti ppoveri franguelli
propio li fa sfiatà, ppropio li spiomma.
«Ma tte dico
de no». «Sor faccia pronta,
ve scianno visto inzieme a Ggrottapinta».
«Sarò ddunque un busciardo». «E de che ttinta!,
sor pezzo de carnaccia co la ggionta».
«Nanna, tu
ppijji un grancio». «Io nun zò ttonta:
Voi fate er cascamorto co Ggiascinta».
«Queste sò mifferíe de quela grinta
der fratellaccio tuo: ma mme la sconta».
«Sentite,
bbello mio: Fior d’oggni pianta:
quanno parlate voi nun ve sto attenta,
perch’io m’addormo quanno er gallo canta».
«Mò
ssentitem’a mmé: Fiore de menta:
de pascenza co vvoi sce ne vò ttanta,
e bbuggiarà, ppe ddio, chi vve contenta».
Ah, ppe
stà appett’a mmé, ccocca mia bbella,
bbisoggn’èsse, simmai, meno scucchiona
pe ddamme ggelosia, sora scafona,
nun ce vo cquer barbozzo a ccucchiarella.
Tū mme
levi er regazzo, eh capocciona?
tū mme fai tené ll’ormo, eh gobbriella!
Vàttel’a mmàggna, va’, bbocc’a ssciarpella:
va’, mmonnezzara de Piazza Navona.
Che tte li
metti a ffà ttanti inferlícchese
d’accimature, squinzia bbalucana,
co cquer tu’ paro de sciancacce a ícchese?
Va, nnaso a
ppeperone, scrofolosa,
sturba-la-luna, sgorgia, stortiggnana,
ché a tté nemmanco er diavolo te sposa.
Quanno lei me
mannò co cquel’inguille
da quer tar Cardinale su’ parente,
me disse: va’ in bescille; 1 e ttiengo a mmente
le parole e ’r zu’ atto in proferìlle.
Bbe’, cquanno
j’ho pportato oggi le spille,
ner dimannajje si vvoleva ggnente,
m’ha arifatto quell’atto istessamente
e mm’ha aridetto poi: va’, vva’ in bescille.
Dove sta sto bbescille?
drento, fori,
in piazza, pe ’na strada, ggiú ppe un vicolo?...
Vall’a intenne er parlà de li Siggnori!
Ar zervizzio
sò nnovo io, sor Vitale.
Pe annà in bescille ce saría pericolo
c’avessi da tornà ddar Cardinale?
Doppo pranzo
er mi’ gusto quarche vvorta,
mentr’er compaggno mio scopa e sparecchia,
è de guardà la padroncina vecchia
dar buscio-de-la-chiave de la porta.
Ah che rride!
E sse specchia, e ss’arispecchia,
e ffa gghignetti co la bocca storta,
e sse dipiggne la pellaccia morta,
e sse ficca un toppaccio in un’orecchia...
Poi se muta
li denti e la perucca,
se striggne er busto pe ffà ccressce er petto,
se nínnola, s’allisscia, se spilucca...
E fra tutte
ste smorfie e antre mille
se bbutta sur zofà ccor caggnoletto
e cce fa cose ch’è vvergoggna a ddille.
Basta, o er
prospero, inzomma, o ll’acciarino,
siconno l’usi novi o ll’usi antichi,
er mi’ discorzo, iddio ve bbenedichi,
nun ve pò ancora entrà ddrent’ar boccino.
Io dico questo:
annate a mmette, amichi,
un deto su la fiara d’un cerino.
Ce l’arreggéte o nnò? Ppe zzi’ rampino,
ce la potete arregge un par de fichi.
Ma cquer che
nun ve sta ne la capoccia
è cche sto foco poi ve lo portate
ne la pietra e nner prospero in zaccoccia.
E l’istesso,
testacce de marmotta,
succede ne l’inverno e nne l’istate.
Er zole cosa fa? scotta e nnun scotta.
Sentite? Pe
un antr’anno, ha ddetto er frate,
meno che ccor zalame e ccor presciutto
se pò conní ccoll’onto e cco lo strutto,
puro ne le viggijje commannate.
E er Papa
dirà ppoi quarche ffrabbutto
che nun penza antro lui c’a bbuggiarate!
Ma nun zò infamità da cannonate?
Quer povero sant’omo penza a ttutto.
Disce: «Ma a
le miserie nun ce penza».
E vve pare, pe ddio, che ppenzi a ppoco,
si cce slenta le majje a la cusscenza?
L’antre cose
vieranno a ttemp’e lloco;
ché ttutt’assieme poi nun è pprudenza
de volé mmette tanta carne ar foco.
La bbefana, a
li fijji, è nnescessario
de fajjela domani eh sora Tolla?
In giro oggi a ccrompà cc’è ttroppa folla.
A li mii je la fo nne l’ottavario.
A cchiunque
m’accosto oggi me bbolla:
e ccom’a Ssant’Ustacchio è cqui ar Zudario.
Dunque pe st’otto ggiorni io me li svario;
e a la fine, se sa, cchi vvenne, ammolla.
Azzeccatesce un po’, d’un artarino
oggi che ne chiedeveno? Otto ggnocchi;
e dd’una pupazzaccia un ber zecchino.
Mó oggnuno
scerca de cacciavve l’occhi;
ma cquanno sémo ar chiude er butteghino,
la robba ve la dànno pe bbajocchi.
«Mamma!
mamma!». «Dormite». «Io nun ho ssonno».
«Fate dormí cchi ll’ha, ssor demonietto».
«Mamma, me vojj’arzà». «Ggiú, stamo a lletto».
«Nun ce posso stà ppiú; cqui mme sprofonno».
«Io nun ve
vesto». «E io mó cchiamo Nonno».
«Ma nun è ggiorno». «E cche mm’avevio detto
che cciamancava poco? Ebbè? vv’aspetto?»
«Auffa li meloni e nnu li vonno!».
«Mamma,
guardat’un po’ ssi cce se vede?»
«Ma tte dico cch’è nnotte». «Ajo!». «Ch’è stato?»
«Oh ddio mio!, m’ha ppijjato un granchio a un piede».
«Via, statte
zzitto, mó attizzo er lumino».
«Sí, eppoi vedete un po’ cche mm’ha pportato
la bbefana a la cappa der cammino».
Ber vede
è da per tutto sti fonghetti,
sti mammocci, sti furbi sciumachelli,
fra ’na bbattajjeria de ggiucarelli
zompettà come spiriti folletti!
Arlecchini,
trommette, purcinelli,
cavallucci, ssediole, sciufoletti,
carrettini, cuccú, schioppi, coccetti,
sciabbole, bbarrettoni, tammurrelli...
Questo porta
la cotta e la sottana,
quello è vvistito in càmiscio e ppianeta,
e cquel’antro è uffizzial de la bbefana.
E intanto, o
pprete, o cchirico, o uffizziale,
la robba dorce je tira le deta;
e mmamma strilla che ffinissce male.
Uh a
pproposito, Peppe, de toletta,
sai? domatina svejjeme a bbon’ora,
c’ho da chiamà ppiú ppresto la siggnora,
che vvò annà a cconfessasse in parrocchietta.
Volevo dítte
un’antra cosa... ah, aspetta:
da’ un zompo cqui da Marta la sartora,
che llei pe mmezzanotte, o ddrent’o ffora,
vò ll’abbito, o ddiventa una saetta.
Poi tu a
ddiesciora trovete vistito
in riverea, pe accompaggnalla in chiesa
avanti che sse svejji su’ marito.
Portata che
cce l’hai, viettene via:
lassela puro, e ttu vva’ a ffà la spesa;
ché ar ritorno scià un’antra compaggnia.
Sor mastro, ho
inteso er gran predicatore
c’adesso fa ammattí tutta la ggente;
e ssi ho da divve quer che ssento in core,
a mmé nun m’è ppiasciuto un accidente.
Sta
tteso-teso, nun ze move ggnente,
nun za li testi de ggnisun utore,
dura troppo, ha una vosce piaggnolente
che ppare un gatto quanno fa l’amore...
Ma
cc’è de peggio, e ppeggio assai, sor mastro:
ché ssi sseguita a ddí ccerte resie,
sto sor abbate vo ffiní a l’incastro.
Disce che
Ggesucristo è stat’ebbreo;
e ppe ffiní de dà in cojjonerie
va spaccianno c’Abbramo era un cardeo.
«È
ffinito er cottivo?» «Ehée, da un pezzo».
«Ggià, pprezzettacci?» «Ma de che! mma indove!
Inzinenta, fratello, che nun piove,
la pesca è mmosscia, e nun ribbassa er prezzo».
«Sai c’hai da
dí? cch’er popolo sc’è avvezzo.
Ma ebbè ddunque, di’ ssú: ddamme le nòve».
«Eh, ll’aliscette e la frittura a nnove:
li merluzzi e le trijje a ddiesci e mmezzo:
le
linguattole e ’r rommo a ddu’ carlini:
a un papetto la spigola e ’r dentale;
e ssu sto tajjo l’antri pessci fini».
«E, ddi’ un
po’, lo sturione quanto vale?»
«Ne sò vvenuti dua, ma ppiccinini,
e ssò iti in rigalo a un Cardinale».
Vonno
c’appena entrò cquer perticone
de Tosti pe ugurajje er capodanno,
disse er Papa: «E l’affari come vanno?».
E ’r Cardinale: «Grazziaddio, bbenone».
Disce:
«È astrippàto poi sto contrabbanno?».
Disce: «Nun passa ppiú mmanco un limone».
«E vva avanti a Rripetta ir frabbicone?»
«Si pò ddí cche sta ppronto ar zu’ commanno».
«Li
capitali?» «Sò vvennuti tutti».
«Le spese?» «Sò ar livello co l’entrate».
«E ir debbito sc’è ppiú?» «Ssemo a li frutti».
Er Papa
allora tritticò er cotòggno;
poi disse: «A cquer che ssento, sor abbate,
dunque di lei nun ce n’è ppiú bbisoggno».
Cert’è
pperò cch’è un gran Governo ingrato.
Liscenziallo accusí ppovero Tosti!
Doppo che Ddio lo sa cquanto je costi
sta via-crusce der zu’ tesorierato!
Chi ha rrippezzato
Roma, ha rrippezzato?
Chi ha ccressciuti l’incerti ne li posti?
Chi ha ffatto tanti debbiti anniscosti
pe sfamà ttutti e mmantené lo Stato?
Chi ll’ha
impacchiati, dico, tanti artisti,
mastri de casa, decani, cucchieri,
segretari, archidetti e ccomputisti?
Se sò
mmai viste all’antri tesorieri
carrozze com’a llui? Se sò mmai visti
li scudi rotolà ccome li zzeri?
Privasse de
st’Ecolomo, privasse,
perch’è vvôto l’orario der Governo!
Già, in primo logo, lui pò vvince un terno,
e un terno grosso da riempí le casse:
poi
sc’è ssempre er rimedio de le tasse:
poi la su’ robba, che cce n’ha un inferno,
pò incantalla, e ttené ll’uso moderno
de chiunque se trova in acque bbasse.
poi, nun
fuss’antro, si cchiede quadrini
a ttanti che ppe llui nun zò ppiú iggnudi
riccapezza una bbarca de zzecchini.
Pochi ne
cacceria?! ’Na bbagattella!
Pònno improntàjje un ventimila scudi
l’eredi soli de Padron Pianella.
Vorà
ddunque soffrí Ppapa Grigorio
c’a un tesoriere suo tanto fedele
nun j’arrestino manco le cannele
da chiamà cquattro frati ar zu’ mortorio?
Levajje er
frullonaccio, omo crudele,
che cciannò in fiocchi a Ssan Pietro-Montorio!
e ppochi scenci cqui a Mmontescitorio!
e ddu’ galanterie llà a Ssan Micchele!
Finarmente
che ha ffatto, poverello?
Ha ttrovo, quann’è entrato, un mascelletto,
e llui l’ha ffatto diventà un mascello.
De llui cosa
pò ddisse, poveretto?
Gnent’antro ch’è un gran omo de scervello,
e cche ttiè un core da romano in petto.
Gnisuno ha
detto mai che Ssu’ Eminenza
abbi da fà la fin de Bbonaparte.
Lui nun je chieden’antro che le carte,
e pp’er resto sc’è er Papa che cce penza.
E cchi cce se
darebbe a la bbell’arte
de pagà ssempre e de pijjà a ccredenza,
co sto risico poi de restà ssenza
quarche straccetto che mmettessi a pparte?
Ma avessi
puro minestrato male,
vojjo vedé chi jje faría l’affronto
de toccajje una vesta d’urinale.
Fra un
cardinale e nnoi sc’è un ber confronto!
Qualunque imbrojjo facci, un cardinale
ha er privileggio de nun renne conto.
Ma er piú
ggranne tra ttutti li tormenti
è de bbussà a la ggente avanti all’arba.
Nun ne trovate uno che jj’aggarba.
In sto punto che qui ttutti scontenti.
Quello opre
la finestra, e ssu la bbarba
ve manna una sfilata d’accidenti.
Questo ve fa ccert’antri comprimenti
cor un voscione che nnemmanco Jarba.
Tutti, o spezziali,
o mmedichi, o mmammane,
o ccerusichi, o ppreti, o vviaggiatori,
ve tratteno, per dio, peggio d’un cane.
Li mejjo
sò li frati, amico caro;
che ppòi crepà de freddo o de dolori
prima che tt’arisponni er portinaro.
È ito
in paradiso, poveretto!
Stammatina in zur fà de tredisciora
è arimasto llí in braccio a la Siggnora
ner rivortallo pe aggiustajje er letto.
Che sturbo!
Lo capisco, era un pezzetto
che ss’aspettava de vedella fora;
ma cquanno semo llí, ssora Todora...
bisoggneria nun avé ccore in petto.
Bbasta, mó,
sposa mia, v’ariccommanno
de dijje ar meno una requiameterna
e de vení ar mortorio che jje fanno.
Ma cche vve
dite convurzione interna
si cquello è mmorto parlanno parlanno!
Eh nun c’era piú ojjo a la luscerna.
«Ma cche
vvojji èsse vero, eh Sarvatore,
quer che ddisceva er zervitor de Quajja,
de st’editto ch’è usscito a Ssinigajja
su li rigali de chi ffa l’amore?»
«Sēntime:
quello sta cco un Monziggnore
che in ne la sala sua poco se sbajja.
Eppoi nu lo sa ppuro sta canajja
de spie de Monziggnor Governatore?»
«Ma dunque
chi ssarà sto spaccamonte,
c’ha ccacciato sta lègge scojjonata?»
«A. M. Cardinal Vescovo e Conte». 1
«Vescovo a
Ssinigajja io da regazzo
ciò vvisto er Cardinal Testaferrata».
«E mmó cc’è er Cardinal Testadecazzo».
Schiattò
ppoi luneddí bbrutto vecchiaccio.
Oh cquello in paradiso nun c’è ito.
Cià ppenzato er zor Padre Ggesuito
a mmannallo de bbotto a l’infernaccio.
Sí, a
l’infernaccio carzat’e vvistito:
nun me faccio confonne, nun me faccio.
Lassà tutto a un convento, e mmanco un straccio
a li parenti che ll’hann’assistito!
Bbisoggna dí
cc’avessi gran peccati
e cche ccredessi ar Padre cappellone
de lavalli cor brodo de li frati.
Gnente: ’na lasscituccia a un logo-pio
che vve facci sí e nno cquarc’orazzione:
poi la robba a cchi vva, ll’anima a Ddio.
Ce penzeranno
lòro: ècco sti Santi
cos’hanno sempr’in bocca, per dio d’oro!
E cco sto bbèr ce penzeranno lòro
intanto cqui nnun ze pò annà ppiú avanti.
Ma sti lòro
chi ssò, ssi ttutti quanti
nun fann’antro cqui ddrento c’un lavoro
de dormí, mmaggnà e bbeve, e ccantà in coro?
Di’ sti lòro chi ssò? ll’appiggionanti?
Si le cariche
a Rroma l’hanno tutte
li portroni, sti lòro dove stanno?
Dove stanno sti lòro? in Galigutte?
Sai come va a
ffiní? ffinissce poi
che ssi sti lòro nun ce penzeranno,
un po’ ppiú in là cce penzeremo noi.
«Come va,
Geremia?» «Sempre l’istesso».
«Ma inzomma che ccos’hai? cosa te senti?»
«Cos’ho? Er dolor de stommico: e accidenti
si nun vorrebbe cascà mmorto adesso».
«Eppoi nun
z’ha da dí cquanto sei fesso
È da un mese mommó che tte lamenti
e invesce de pijjà medicamenti
t’ubbriachi oggni giorno un po’ piú spesso».
«Gnente: er
vino dà fforza. Der restante,
nun zarò ppoi né er primo né er ziconno
c’abbi l’ammalatie: ce ne sò ttante!».
«Sí, mma se
ponno arimedià, sse ponno.
Tu ddàmme retta: un bon rammaricante,
e vvederai si tt’arimetti ar monno».
Questo io
voría sapé da st’arrabbiati
c’ar monno fraterie nun ce ne vonno:
come farebbe sto povero monno,
si vvenissi a rrestà senza li frati.
Chi sse
snerba pe nnoi? chi pperde er zonno
pe ottenecce er perdon de li peccati?
chi lo porta er bambino all’ammalati? 1
chi le smartissce le sarache e er tonno?
Sò
cquesti eh, ggiacubbinacci cani,
li portroni e le mmaschere? sò cquesti
l’impostori, l’arpie, li maggnapani?
Tutte
bbusciarderie, tutti protesti. 2
Li frati sò bbonissimi cristiani,
tutti servi de Ddio lésciti e onesti.
Ggnente,
Siggnora mia: nun ze ne pijji,
dii tempo ar tempo. Eppoi, ppiú de mi’ nonna,
che de vent’anni nemmanco era donna?
e ddopo fesce disciassette fijji.
Nun è
la prima lei né la siconna.
Dunque che ccosa sò ttanti scompijji?
Lei bbadi a li mi’ poveri conzijji;
parli cor zempriscista a la Rotonna.
Vienuto quer
negozzio che jje stenta,
la su’ fijja aritorna un zanguellatte,
je diventa una rosa, je diventa.
Cacci er
medico, cacci, e stii tranquilla.
Questi cqui nun zò affari da miggnatte:
ce vò ddittimo-grego e ccapomilla.
La finímo
sì o nno, bbrutti sscimmiotti?
Me sò accorto de tutto, me sò accorto.
Cosa v’ha ffatto quer povero storto,
pe ppijjallo a ssassate e a scappellotti?
Si ha avuto
in vita sua li stinchi rotti
è una raggione de volello morto?
Sò l’inzurti e le bbòtte er ber conforto
che ddate a la disgrazzia eh galeotti?
Cacciatori d’uscelli
senza penne!
che bbella grolia! che bbella bbravura
de strapazzà cchi nun ze pô ddifenne!
Se perzéguita
un vizzio de natura,
e li vizziacci propri se protenne
de portalli cqua e llà ssempr’in figura!
Scappate via,
sloggiate, furistieri:
fora, pe ccarità, cch’entra l’istate.
Presto, fate fagotto, sgommerate,
ché mmommó a Rroma sò affaracci seri.
Nun vedete
che ppanze abburracciate?
che ffacce da spedali e ccimiteri?
Da cqui avanti, inzinenta li curieri
ce mànneno le lettre a ccannonate.
Si arrestate
un po’ ppiú, vve vedo bbrutti,
ché cqui er callo è un giudizzio univerzale:
l’aria de lujj’e agosto ammazza tutti.
Pe ppiú
ffraggello poi, la ggente morta
séguita a mmaggnà e bbeve, pe stà mmale
e mmorí ll’ann’appresso un’antra vorta.
Nun
dubbità, cch’è ’na cosetta bbella
d’arillegràcce er Papa in concistoro!
È stato p’er Vicario un ber decoro
lo scropí ttant’abbati in ciampanella!
Bber gusto
d’annà a smove ’na quarella
a sti poveri preti, pe ddio d’oro,
che sse ne stanno pe li fatti lòro
svariannose co cquarche pputtanella!
Doppo
ch’Iddio lo sa cco cquanto zzelo
minestrano li santi sagramenti,
je s’abbi da invidià cquer po’ de pelo!
Pe mmé,
mmorino tutti d’accidenti,
ma indove lo trovate in ner Vangelo
che provibbischi er pane a cchi ha li denti?
Semo inzomma
da capo, eh sor Zirvestro,
co sti romaggnolacci de Romaggna?
Ma sta porca gginía de che sse laggna
c’oggni tantino j’aripijja l’estro?
È ’na
cosa ch’io propio sce sbalestro! 1
Lamentasse, 2 pe ddio, de sta cuccaggna!
Che spereno de ppiú? de vive a uffaggna? 3
de mette er zanto-padre in d’un canestro?
Nun cianno
4 come nnoi cchiese, innurgenze,
preti, conforterie, moniche, frati,
carcere, tribbunali e pprisidenze?
Nun
c’è ggiustizzia llà ccome che cqui?
Ma vvia, propio sti matti sgazzarati
se moreno de vojja de morí.
Lo vòi
sapé cch’edè cquer corritore
che, ccuperto cqua e llà dda un tettarello,
da San Pietro va ggiú ssin a Ccastello,
dove tira a le vorte aria mijjore?
Mò tte
lo dico in du’ bbattute: quello
lo tiè pper uso suo Nostro Siggnore,
si mmai pe cquarche ppicca o bbell’umore
je criccassi de fà a nnisconnarello.
Drent’a
Ccastello pò ggiucà a bbon gioco
er Zanto-padre, si jje fanno spalla
uno pe pparte er cantiggnere e er coco.
E ssotto la
bbanniera bianca e ggialla
pò ddà commidamente da quer loco
binedizzione 1 e ccannonate a ppalla.
Dico: «Facci
de ggrazia, sor don Zisto,
lei che ste cose deve avelle intese:
quanno stava cquaggiú, trall’antre spese
manteneva sordati Ggesucristo?
Perché»,
ddico, «lei sa cch’er monno tristo
critica er zu’ Vicario a sto paese,
che a ccasa e ppe le strade e in ne le cchiese
senza sordateria nun z’è mmai visto».
«Fijjo»,
disce; «voi sete un iggnorante,
e nun zapete come li peccati
hanno fatto la cchiesa militante.
Pe cquesto ir
papa ha li sordati sui;
e ssi Ccristo teneva li sordati
sarebbe stato mejjo anche pe llui».
Dunque er Papa
da venti e ppassa mesi
j’arichiedeva co bbona maggnera
la Moscovia, pe ffàcce la galera
de li su’ Romaggnoli e Bbologgnesi.
Ma er
Cazzàr de Moscovia, che nnun era
de vela d’aridà cqueli paesi,
se piantò a Ssan Luviggi de Francesi
e annò a Ssan Pietro a ccojjonà la fiera.
Su’
Santità pperò ffesce la cresta,
e ddisse: «O l’ubbidienza, o ccaso mai
spidiremo laggiú Bbàveri e Rresta».
Mó er zor
Cazzarre ha d’abbozzà, pper dina!
Tantoppiú ssi ccor Papa je dà gguai
puro l’Imperator de la Dottrina.
Ah sse
chiam’ozzio er zuo, bbrutte marmotte?
Nun fa mmai ggnente er Papa, eh?, nun fa ggnente?
Accusí vve pijjassi un accidente
come lui se strapazza e ggiorn’e nnotte.
Chi pparla co
Ddio padr’onnipotente?
Chi assorve tanti fijji de miggnotte?
Chi mmanna in giro l’innurgenze a bbotte? 1
Chi vva in carrozza a bbinidì la ggente?
Chi jje li
conta li quadrini sui?
Chi l’ajjuta a ccreà li cardinali?
Le gabbelle, pe ddio, nnu le fa llui?
Sortanto la
fatica da facchino
de strappà ttutto l’anno momoriali
e bbuttalli a ppezzetti in ner cestino!
«Chi? er
morto? Er morto stava bbene assai:
quello è un mortuccio ricco, e nnun cojjona».
«E a cchi ha llassato?» «A Ttuta la bbuzzona». 2
«A la mojje?! » «A la mojje: e nnu lo sai?»
«Come! a la
mojje, e nnun c’è stato mai! 3
A cquella bbrutta porca bbuggiarona?!»
«Ma, in fonno, j’era mojje bell’e bbona,
e mmó è l’arède sua: nun ce sò gguai». 4
«Ecco er
perché, mmaggnanno le castaggne,
mó ha ddetto a Mmeo: “Nun vojjo fà ppiú ggnente:
nun vojjo fà ppiú ar monno antro che ppiaggne”.
E infatti nun
ha ttorto un accidente.
Quann’uno ha bbone rúzziche da sfraggne, 5
pò stà in ozzio e ppò ppiaggne alegramente».
«Viè,
ffa’ ppresto, cazzeo, ché ppassa er morto».
«E cche cc’è da vedé? ssarà incassato...».
«No, nno, è scuperto». «Oh ccristo! è er zor Donato!».
«Oh ccazzo! è vvero. E cchi sse n’era accorto?»
«Uh cche
mmiseria! che mmortorio corto!
Eppuro era parente der Curato!...».
«Sí, mma cquesto è ll’arède e ha ggià mmaggnato,
e mmó vvò sparaggnà ssu lo straporto.
«E ar beccamorto
je lo tara er prezzo?»
«Ôh, in quant’ar beccamorto, don Grigorio
ce sta ssempre d’accordo e ffann’a mmezzo».
«Ma er morto
nun ce perde d’interresse?»
«Nōo; ssi er prete arisega in ner mortorio,
fa un dindarolo e jje lo sconta a mmesse».
Chi ffussi
cavajjer de spad’e ccappa
cosa vierebb’a èsse in fin de fini?
Eh, ssarebb’uno che nun cià cquadrini,
eppuro, grazziaddio, sempre la strappa:
un
negozziante de leccate e inchini
che sta ar ricasco de li ricchi, e ppappa:
uno che rruga sempre e ssempre scappa,
e ssoverchia noantri piccinini:
un pajjaccio
de corte, un cammeriere
pien de croscette e ffittuccine in petto,
c’arregge a li padroni er cannejjere:
uno che nnun
za un cazzo a ffa er dottore:
un Galimêdo arriggistrato in Ghetto:
un milordo a la bbarba der zartore.
Bburli o
ddichi davero, Ggiuvenale?
A la predica ha detto don Matteo
c’a sto monno san Carlo Bboromeo
è stato a li su’ tempi cardinale?!
Me fa ppiú
spesce sta notizzia tale,
che la scappata de Ggiusepp’ebbreo:
me saría creso ppiú cch’er Culiseo
fussi un giorno una vesta d’urinale.
Un cardinale
è stato bbono tanto?!
Un cardinale ha ccreso tanto in Dio?!
Un cardinale è ddiventato santo?!
Tu jje dai
retta, Ggiuvenale mio?
Si lo disce, eh, ssarà: mma mmó ttratanto
un cardinale è ppeggio d’un giudio.
Lo sai
d’Aggnesa? Quela bbrutta caggna
jer a mmattina nun dormiva in chiesa?
Nu la trovai pe tterra tutta stesa,
manco si stassi immezz’a ’na campaggna?
«Arzete»
dico: «ma davéro, Aggnesa,
pijji le cchiese pe Ppiazza de Spaggna?»
«Eh», disce, «m’ha ppijjato una scecaggna...
e ddev’èsse la predica c’ho intesa».
Dico: «E
ssarebb’a ddí, ssora vassalla?».
Disce: «Oh vva’ a ccerca un po’, cquanno viè ssonno,
si tte vviè o in d’una cchiesa o in d’una stalla!».
Se ne ponno
dí ppeggio, se ne ponno?
Ma nun zarebbe cosa d’ammazzalla
per imparajje a vvive e a stà a sto monno?
Portà
un vecchio un par d’ora in priscissione
pe Ppiazza Rusticuccia e er Colonnato,
tritticanno llà in cima inarberato
sotto quer culiseo de pivialone:
arrampicallo
poi ccusí scarmato
su ppe le scale, er portico e ’r loggione,
pe cconzolà cco la bbinidizzione
tutt’er monno-cattolico affollato...
Povero
vecchio! e cchi jje pò ddà ttorto,
si ddoppo ste du’ fronne de smazzata
se bbuttò ss’una sedia e arrestò mmorto?
Però,
ddicheno l’ommini cattivi
ch’er morto diede a ppranzo una taffiata
da cojjonà li morti e ppiú li vivi.
Io sposalla?
a la larga! co cquer dritto 2
de padre e cquela mamma ruffianona?
Io sposà cquel’arpia che ne cojjona
piú che ne sappi cojjonà un editto?
Lei Nicola,
lei Meo, lei Cacaritto,
lei Peppantonio de Piazza-Navona!...
Nun vojjo diventà rre de corona:
nun vojjo dí: «Ppopolo mio, sò ffritto».
De guai sce
n’ho a bbizzeffia inzin d’adesso,
senz’annamm’a bbuscà sto capitale
de corna e ccento accidentini appresso.
Pe sgrinfia,
o bbirba o nnò, psé, ppoco male;
ma mmojje? maramao! 3 Si jj’ho ppromesso,
la sposerò, mma cquanno spiga er zale.
Sempre peggio.
Eppoi disce un omo mena
e llavora de stanghe e de bbastoni!
Oh annatev’a ttené, ssi sti bbirboni
negherebbeno er nove a la novena!
Dua de
quell’infamacci framasoni
s’arrivorno a vvantà jjerzera a ccena
che nun credeno a ssanta Filumena!,
ch’è ’na santa co ttanti de cojjoni.
Diavolo
sguèrceli! e nun hanno visto
che ttiè in mano la parma, e ssur barattolo
ce sta er Procristi, che vvò ddì Pper Cristo?
Poi sc’è la vita, a un caso de bbisoggno:
e cquesta nun l’ha ffatta uno scarpiattolo,
ma un zanto prete che l’ha lletta in zoggno.
Io, fra
Vvenanzo mio, sò un iggnorante,
ma sta cosa la sa ppuro Marforio,
che ll’anime che vanno in purgatorio,
spesciarmente oggidí, nnun zò ppoi tante.
E ssi ttutte
ste poche anime-sante
’ggni messa a Ssan Lorenzo o a Ssan Grigorio
le pò ddelibberà dda quer martorio
fresche-fresche e ggrorios’e ttrionfante,
er purgatorio
è bell’e bbuggiarato,
pe vvia che ’ggni matina a or de pranzo
deve scerto arimane spiggionato.
E ssi ppoi
carcolamo, fra Vvenanzo,
che ’ggni cchiesa ha er zu’ artàr privileggiato,
de messe sce n’è ppuro un zopravanzo.
«E cche
nnova? uno solo è er marfattore!
Ma nnun ereno dua, mastro Ggiujano?»
«L’antro, perch’è un abbreo fatto cristiano,
l’ha vvorzuto 2 aggrazzià Nnostro Siggnore».
«E cc’ha
ffatto, se sa, cquesto che mmore?»
«Gnente de meno che sgrassò un villano». 3
«E er giudío libberato dar Zovrano?»
«Ha scannato la mojje co un rasore». 4
«Sarà
stata ’na bbrutta scalandrona...». 5
«Ôh, ppe cquesto era poi ’na ggiuvenotta
bella, grazziosa, pulituccia e bbona».
«Be’, e
pperché la scannò?» «Tanto te scotta? 6
Perché nnun vorze 7 mai, matta cojjona,
pe ddà da maggnà a llui, fà la miggnotta». 8
«Piano co ste
ricchezze, annàmo piano»,
disce l’Abbat’Andrea de san Calisto,
«nun damo retta a sto monnaccio tristo
che nnun penza antro c’ar penzà pprofano».
De tanti
santi morti a mman’a mmano
se n’è vvisto uno ricco, se n’è vvisto?
Eppoi», disce, «chi era Ggesucristo?
Era un pover’ebbreo fatto cristiano.
Quanti viveno
ar zecolo, fratelli,
si sse 1 vonno sarvà ll’anima lòro
hanno da èsse tutti poverelli.
Lo ponno
maneggià l’argent’e ll’oro
l’eccresiastichi soli, perché cquelli
hanno l’aggravio de sarvà er decoro».
La mi’
padrona è vvedova da un anno,
e sse gode sto po’ dd’appartamento,
che cc’entrería magara un riggimento
coll’arme e li bagajji ar zu’ comanno.
Questa
è la sala: cqui sto io: llí stanno
le cammoriere e er pupo: de cqui ddrento
se 1 va a ssei stanzie nobbile, che ssento
che li re cche sò rre mmanco scell’hanno. 2
Poi
viè er zalone der bijjardo, poi
quello der ballo, poi ’na gallaria
pe spasseggio, pe ggioco e cquer che vvoi.
Là
ccanteno e cqua ddorme la padrona:
e accusí, amico, senza dí bbuscia
pòi dí cche llà sse canta e cqua sse sona.
«Ôra
proè: Ōra proè 1 ... Ssor’Anna,
Ma cchi è l’ammalato? è er zor Marcello?»
«No, er padre (Ōra proè)». «Ccredo er fratello».
« Ōra proè ». «Nno, er zio che ttiè llocanna».
«E cquesti (Ōra
proè) cchi cce li manna,
che nemmanco se cacceno er cappello?
Bberfijjo (Ōra proè), pss, bberzitello».
«Che vve dole? la freggna che vve scanna?»
« Ōra
proè ». «Vva’ vva’ cche bbelle rape!».
«E cche ssomaro! (Ôra proè)». «Ssorella,
scanzateve, ché cqui nnun ce se cape».
«E vvoi nun
ve bbuttate addoss’a mmé,
sora vecchiaccia (Ōra proè)». «Gran bella
risposta da puttana. Ōra proè ».
Come?! Zzanzare!
E cche vvò ddí zzanzare?
Se chiameno zzampane ar mi’ paese.
Si vvoi volete ppoi fàcce l’ingrese,
le potete chiamà ccome ve pare.
Chi l’ha
ddetto? er padrone? Ehèe, ccompare,
s’avessi da ridí dda quarche mmese
tante cojjonerie c’avemo intese,
ce ne sarebbe da dà ffonno ar mare.
Zanzare! Cristo! eh
ssi lo dichi a un cane,
nun te strilla caino e scappa via?
Ggnente: zzampane s’ha da dí, zzampane.
Bbe’, sse
dirà zzanzare pe le stampe;
ma ssò zzampane: eppoi, santa Luscia!,
nun je le vedi llí ttante de zzampe?
Ôh, er mi’
padrone poi, sora Scescijja, 1
verbo corna s’ammaschera da tonto. 2
Lui se n’essce da cammera onto-onto, 3
serra l’occhi, e vva ttutto a mmaravijja.
Nun è
omo d’avello 4 pe un affronto,
si ssenza corpa sua cressce famijja.
Le cose tutto sta cchi sse ne pijja,
e ggnente dole mai si ttorna conto.
Abbiti,
argenterie, casa a ppalazzo,
carrozze, servitú, ppranzi in campaggna...
lui vede tutto e nnun dimanna un cazzo.
La providenza
viè? llui l’arisceve.
Er camminuccio fuma? e cquello maggna.
La funtanella bbutta? e cquello bbeve.
«Che ffai,
Titta?» «Me crompo una luscerna».
«E cch’edè cche tte viengheno ste vojje?»
«Ma ddunque nu lo sai che ppijjo mojje?»
«Oh ppoveretto té! rrequiameterna».
«Io nun
m’affermo a ll’apparenza isterna:
nun sbatto er muso indove cojje cojje.
Eppoi, mmojje sce vò, ssor caca-dojje, 1
ché cchi mmoje nun ha, mmojje governa».
«E cchi
è sta perluccia c’hai pescato?»
«Nun zarà pperla, ma ddev’èsse bbona,
perché vviè da le mano der curato».
«Der curato?
mar va!». 2 «Bbe’, cquer che vvòi
sarà ddunque una vacca bbuggiarona.
Pe mmé, nun credo che ssii vacca: poi...». 3
Capisco...
ma... che sso!... ccerte faccenne...
io poi... se sa... nnun posso avé, ffratello...
perché... a la fine... come disce quello?... 1
Inzomma... tutto sta ccome s’intenne.
Raggione,
ohé, cce n’averai da venne...
eppuro... co ddu deta de scervello...
nò cc’uno abbi 2... me spiego?... eppoi, dov’èllo?
Via... cche sserve!... ggnisuno lo pretenne.
Pe mmé,
mmagara!... e ccaso-mai... pe cquesto
nun ce penzà: ffigúrete si io...!,
semo amichi sí o nno? Dunque io sò llesto.
Ôoh mmanco
male! ma llui pregh’Iddio...
Bbasta, ce semo intesi: e cquant’ar resto,
tu ttiette sempre ar zentimento mio.
«Mastro
Micchele, ahó, mmastro Micchele,
cqua nnun ce sò ppiú mmoccoli a la pracca».
«Nu lo sai, sti fijjacci d’una vacca
che sse 1 porteno a ccasa le cannele?»
«E ffanno ste
virtà?! co cquela cacca! 2
co cquer lòro sputà ttossico e ffiele!».
«Eh, ppe cquesto saría zzuccher’e mmèle:
sta cosa sola saría mal da bbiacca». 3
«Ma ccome!
sc’è de peggio?» «E ppeggio assai.
E li parchi a ccucuzza? 4 e li bbijjetti
pe le lòro famijje, eh?, nnu li sai?
E li pessci
da tajjo pe nnatale?
e li polli d’agosto? e li fiaschetti
pe pprimavera e utunno e ccarnovale?».
Ma cche! sta
fernesia 1 nun t’è gguarita
d’ariannà 2 da quer porco Monziggnore?
Fai un būscio 3 in dell’acqua, Sarvatore:
spreghi er fiato e cciabbuschi l’acquavita. 4
Nun te
viè a ttufo 5 de fà ppiú sta vita?
Tu stenne 6 un bravo conto der lavore,
pijja pe ttistimonio er zervitore,
trova un curiale e piànteje una lita.
Li ggiudisci
lo so che ssò pprelati,
e ccane, me dirai, nun maggna cane;
ma cquarche vvorta sò ccani arrabbiati.
E allora,
senza d’abbadà ar decoro,
queli ladri fijjacci de puttane
se mozzicheno puro 7 fra de lòro.
Ma ddio mio! doppo
un mese de spedale,
che ssi ssarvò 1 la pelle fu una sorte,
va e sse 2 vede serrà ttutte le porte
perché mmanco parlassi 3 ar cardinale!
Capisco che
ssi aggnede 4 pe le corte
e ammazzò er codatario, 5 fesce male:
chi lo nega? Ma adesso er tribbunale
ha ffatto bbene a ccondannallo a mmorte?
Nun aveva da
èsse accarcolato 6
er brutto aripentajjo de la fame
de quer povero fijjo disperato?
Eh! ssi
potesse cqua vede 7 er zovrano!...
Je voría dì: 8 «Ssò ste ggentacce infame
che jj’hanno messo quer cortello in mano».
E cche ne so cche
ddiavolo s’impiccia
sto sor ddottor piommatico der cazzo,
che, stassi a mmé de commannà a Ppalazzo,
ne vorebbe 2 fà ccarne de sarciccia!
Co un
granello de porvere rossiccia
disce che, senza dajje antro strapazzo,
er naso de quer povero regazzo,
sibbè cche nun c’è ppiú, ppresto arisciccia! 3
Disce: «Si
mette in d’un bucale pieno...».
Dico: «E de sto granello, sor dottore,
nun ze pò allora fanne con-di-meno?». 4
Disce: «Voi
zzitto, e ffate ir zervitore».
Va a ffiní c’a sto medico je meno; 5
e ssi jje meno io, meno de core.
E cqui
è dove s’addanna 2 er dottor Monghi.
Disce: «La piommatía? psé, ppoco male.
Ma da noi volé 3 studi accusí llonghi,
prima che ciaccostàmo 4 a un capezzale!
A nnoi
fàcce arimette 5 un capitale
pe ppagà ’na cartata de ditonghi; 6
e cquelli, senza scola né spedale,
lassali 7 spuntà ssú ccome li fonghi!».
Disce: «E
vvolete provibbí a la ggente
de fasse cuscinà 8 da chi jje pare?
Chi sse n’ha da pentí, ppoi se ne pente».
Disce:
«Sarà accusí: 9 mma pperché ppoi
tante bbaggianerie, tante caggnare,
per impedicce 10 d’ammazzalla noi?».
Quann’io trovo
un padrone c’ha cciarvello
e ssa conziderà cquer che jje faccio,
io me sce schiatto er core, io me sce sbraccio
che mmanco ar padre mio, manc’a un fratello!
Ma st’infame
ggiudío rinegataccio,
che mme tiè ccom’un cane da mascello,
lo vorebbe trincià ccor un cortello
e ppassallo magara pe ssetaccio. 1
Io cqua
ggià ppuzzo d’impiccato, puzzo:
ma ppe ddiliggerí 2 ccerti bbocconi
sce vorebbe uno stommico da struzzo.
Accidenti che
rrazza de padroni!
Ma ss’io sto fariseo nu lo scucuzzo, 3
nun me chiamà ppiú Mmeo Sfreggnacantoni. 4
Sto a
ppenzà come er Crèdo, sor Emijjo,
dichi che Ggesucristo annò a l’inferno.
È possibbile mai ch’er Padr’eterno
ce volessi mannà propio su’ fijjo!
Ma lo sapete
co chi mme la pijjo?
Me la pijjo co cquelli der Governo,
che metterno sto scànnolo, 2 metterno,
senza nemmanco dimannà cconzijjo.
Gesucristo a
l’inferno! E ss’è mmai visto,
da sí cche 3 ccelo è ccelo e mmonno è mmonno,
un galantomo ppiú de Ggesucristo?
Si 4
ppoi sta cosa, s’abbi da credella,
pò èsse forzi 5 che in quello sprofonno
ar piú cciaverà ffatto capoccella. 6
«Er mi’
padrone vò mmorí dde scerto».
«E da che tte n’accòrghi, Trenta-vizzi?»
«Oggi nun ce sò stati priscipizzi».
«E ll’antri ggiorni?» «È un infernaccio uperto».
«Ma è
pprete?» «E nun ze chiama Don Nobberto?
e nun marcia cor furmin’a ttre ppizzi?
nun disce messa? nun dà l’esercizzi?
nun confessa? nun predica ar deserto?»
«Dunque se
farà bbono, statte quieto».
«Sí, bbono come ll’acqua de pantano,
come li ggnocchi coll’ojjo e l’asceto».
«Tratanto che
vvòr ddí cche cc’è stat’oggi?» .
«O è stracchezza de tempo, sor Ghitano,
o ar monno nun cammineno l’orloggi».
Ah, 1
pe vvia 2 che diggiuna er venardí
e vva ssempre a la predica ar Gesú,
l’hai pijjato pe un zanto? Ma ssai tu
c’accidenti d’omaccio è quello llí?
Abbasta, pe
vvedé le su’ vertú,
che cciabbi 3 quarche ccosa da spartí;
ché cquanno co la bbocca disce sí,
drento ar core fa er canto der cuccú. 4
Lui me
vorebbe cojjonà: mma nnò:
pe ddamme poi la cojjonella a mmé
nun è llui quer gruggnetto che cce vò.
Lui ari
dritto 5 e abbadi a llui, perché
li su’ sciafrujji, 6 grazziaddio, li so,
e cco mmé nnun ze ggioca a cciaffrujjè. 7
A le tavole
inzomma e a la lavanna,
er Papa, sibbè vvecchio e sfoconato, 1
pareva un stufarolo 2 affaccennato,
pareva er cammerier d’una locanna.
Sto sant’omo
che cqui, ssora Susanna,
meriterebbe d’èsse imbarzimato. 3
Sia bbenedett’Iddio che cce l’ha ddato,
com’un giorno all’Ebbrei diede la manna!
Ma è
vvecchio, è vvecchio assai! Puro, 4 speramo
ch’Iddio lo sarvi da tarle e dda sorci
come sarvò li zzoccoli d’Abbramo.
Lui je la
canta sempre a sti scatorci 5
de cardinali: Ottantatré nn’abbiamo,
ché ll’anni sui li disce a ccani e a pporci. 6
Che
ssò li pellegrini? Sò vvassalli, 2
pezzi-d’ira-de-ddio, girannoloni,
che vviaggeno cqua e llà ssenza cavalli
e cce viengheno a rroppe li cojjoni. 3
E appena
entreno a Rroma calli-calli 4
co le lòro mozzette e li sbordoni,
’ggna alloggialli, sfamalli, ssciacquettalli, 5
come fússino lòro li padroni.
Ma sti bboni
cristiani de Siggnori
che li serveno a ccena, ammascherati
da sguatteri, da cochi e sservitori,
je dicheno in
ner core: «Strozza, strozza; 6
ma gguai, domani, si li tu’ peccati
me te porteno avanti a la carrozza».
Eh ggiusto!
bbono lui?! Cristo! è un’arpia,
che nun zai com’arrèggesce, 1 nun zai!
Sto Cardinale è bbono! eh indove mai! 2
T’hanno detto una gran cojjoneria.
E ssi ha ddato la dota a Nnastasia,
ar perché jje l’ha ddata nun ce dài? 3
Je l’ha ddata perché cc’ereno guai!
Bbazzicotti forzati, 4 Aghita mia.
Però
nnun dico che ssii mejjo o ppeggio
o cche ffacci ppiú o mmeno marachelle 5
de tutt’er resto der Zagro Colleggio.
Abbast’a
vvede 6 come va la piazza.
Sò ttutti lupi de l’istessa pelle:
ammazz’ammazza sò ttutt’una razza.
«Tratanto io
cqui... lo pôi negà?» «Che vv’essce?» 1
«Io...». «Me credevo che vv’usscissi 2 er fiato».
«Io sò ancora zzitella...». «Oh cche peccato!».
«E tutto pe vvia tua». 3 «Me n’arincressce».
«Me facessi
4 lassà Ttitta de Fressce...». 5
«E ttu, ccojjona, perché ll’hai lassato?»
«Ma cche aspetti?» «La dota der curato».
«Maggna, cavallo mio, ché ll’erba cressce». 6
«Eh, sorella,
io nun zò de sti sciufechi 7
c’hanno prèsscia: 8 la gatta pressciolosa,
cocca mia bbella, fa li fijji scechi». 9
«Tu tte penzi
da fà 10 cco le miggnotte;
e io..., e io...». «E ttu, e ttu, smaniosa,
si nun ce pòi stà ppiú, vatt’a fà fotte». 11
«Ma
ssenz’èsse però mmojj’e mmarito
er fà un omo e una donna quela cosa
ch’io fo ’ggni notte co mmi’ mojje Rosa
nun è ssempre un peccato provibbito?»
«Io nun ve
dico», repricò er romito,
«che sta corpa nun zii peccanimosa; 2
ma cche la Cchiesa, ch’è mmadr’amorosa,
sa ddistingue er pancotto e er pan bullito.
Per esempio,
si un omo bbattezzato
vienghi preso in fregante 3 co un’ebbrea,
è ssubbito un peccato ariservato.
Ma ppe una
donna poi s’arza la mano: 4
tutto ne viè 5 ddar fijjo che sse crea:
ché cquella fa un giudío, questa un cristiano».
Mó ll’ummido
è abbrusciato, mó è bbrodoso,
mó in cammera sc’è ppuzza de carbone,
mó vva llenta la corda der portone,
mó er vino è ssciarbonea, l’ojjo è allapposo...
Oggi nun j’ha
ppijjata l’oppiggnone
de dí cch’er zu’ bbicchiere era zzelloso? 1
E cquello era un bicchier propio da sposo,
chiaro com’una bbolla de sapone!
Dico: «Ma
ccaro lei, questo è un brillante».
Nu l’avessi mai detto! Er mejjo termine
che cciò avuto è de porco e dd’iggnorante.
E cche ssemo? somari da capezza?
E cche, pper dio!, sò ddiventato un vermine,
cenneraccio, lesscía, fanga, monnezza!...
«Già
er prete su da noi cià 1 bbenedetto,
e la Siggnora j’ha ddat’un testone».
«Nun c’è mmale, nun c’è: mma er mi’ padrone,
ch’è pprete puro lui, je dà un papetto».
«Cicco cqua,
ccicco llà, 2 co sto ggiretto
la sora 3 Sagrestia fa un bel mammone».
«Ma er chirichetto, che nun è ccojjione,
tiè la su’ parte ariservata in petto.
Siccome tutto
va in nell’acqua santa,
er prete come vôi che ffacci er conto
si ssò vventi, o ssò ttrenta, o ssò cquaranta!
Quell’antro,
4 dunque, c’ha er zecchietto in mano,
a ’ggni sscenta 5 de scale è bbell’e ppronto
a spartísse 6 l’incerti cor piovano».
«Cosa
sò cquele carte, sor Cremente,
che in ner dà er Papa la bbinidizzione
se vedeno bbuttà ggiú ddar loggione
e vvoleno cqua e llà ssopr’a la ggente?»
«Sò
ccarte che nun zerveno ppiú a ggnente,
sò ccartacce avanzate dar focone,
e sse bbutteno via pe la raggione
ch’è un’usanza c’usava anticamente».
«Ma ddisce
don Mattia che ssò un tesoro».
«Si ffussino tesori, fijjo mio,
quelli se li terrebbeno pe llòro.
Quant’a
ttesori, o ppreti o ggiacubbini
sò ttutti de ’na pasta. Eppoi, dich’io,
dov’hai mai visto de bbuttà zzecchini?».
«Parchi,
logge e ffinestre... Ebbè Mmilordo,
me ne dia sette... sei..., nun me strapazzi».
«Bbadi, Eccellenza, nun ce facci accordo
ché da quello sciarriveno li razzi».
«E da voi che
cciarriveno? li cazzi?»
«Ôh ttu sta vorta nu lo peli er tordo».
«Te lo vòi pelà ttu, sscioto bbalordo? 1
Loghi, ssedie e pparchetti co l’arazzi...
Vienghi cqua,
pss, monzú..., ssor Cavajjere,
madama, eh sor Abbate, eh Monziggnore...
Ecco piazze, ecco posti, ecco lendiere. 2
Alegri, 3 chi la vede
la ggirànnola?
Gnisuno vò squajjà, 4 ggnisuno ha ccore,
je pijji un accidente co la mànnola!». 5
Ma eh?
cquella Luscia si cche ffurtuna!
Ah cquella è nnata carzata e vvistita.
Già, tutto-quanto in sta mazzata 1 vita
va ssiconno li quarti de la luna.
Bellezze
tanto, 2 nun ce n’ha ggnisuna,
ché ppare una merangola ammuffita.
Eppuro eccola llí: llei se marita,
e le mi’ fijje, che ssò ssei, manc’una!
Sin da quanno
ch’er zio je lassò er forno,
io lo disse: sta sfrízzola 3 è assortata:
da la matina se vede er buon giorno.
E adesso se
la sposa er zor Annibbile: 4
propio lui: che, assicurete, Nunziata,
è un omo... un omo... che nun è possibbile. 5
M’aricordo
quann’ero piccinino
che Ttata me portava for de porta
a rriccojje er grespigno, e cquarche vvorta
a rrinfrescacce co un bicchier de vino.
Bbe’, un
giorno pe la strada de la Storta,
dov’è cquelo sfassciume d’un casino,
ce trovassimo stesa llí vviscino
tra un orticheto una regazza morta.
Tata, ar
vedella llí a ppanza per aria
piena de sangue e cco ’no squarcio in gola,
fesce un strillo e ppijjò ll’erba fumaria.
E io,
sibbè ttant’anni sò ppassati,
nun ho ppotuto ppiú ssentí pparola
de ggirà ppe li loghi scampaggnati.
L’ho ccontati
ggià io: sò cquarantotto:
quarantasette rossi e uno bbianco,
e ttutti su cquer lòro cassabbanco
barbotteno l’uffizzio a ttesta sotto.
Disce che
ognun de lòro è un omo dotto
e pparla d’oggni cosa franco franco,
e appett’a llui nun ce la pô nemmanco
chi ha inventato le gabbole dell’Otto.
Disce che
inzin ch’è stato monzignore
forzi oggnuno de lòro, Angiolo mio,
ha puzzato un tantin de peccatore.
E mmó cche
ssò Eminenze? Mó, dich’io,
sarìa curioso de leggejje in core
quanti de quelli llí ccredeno in Dio.
Te vòi
fà ’na risata? L’artebbianca
m’ha ariccontato c’a li pranzi fini
tutte mó le paine e li paini
tiengheno la forchetta a mmanimanca.
So cc’a nnoi
Tata mio, da piccinini,
si mmaggnàmio accusí, ppe ccosa franca
ce fasceva bballà ssopr’una scianca: 1
e li signori sò ttutti mancini?
Che la
grazzia-de-ddio, mastro Ghitano,
se strapazzi accusí, ppropio me cosce, 2
nun me pare creanza da cristiano.
Nun zerve che
mme date su la vosce.
Io nun zò tturco: io maggno co la mano
che mme sce faccio er zeggno de la crosce.
Nepà,
2 mmunzú: la vera nun è cquesta:
ve lo diremo noi come se spiega.
Sto picchinicche è una parola grega,
che vvò ddí ppagà ir pranzo a un tant’a ttesta.
Io voi nun me
guardate cqui a bbottega
si sto ssempre a ssegà, mmeno la festa;
pe vvia 3 ch’io tratto tutta ggente onesta,
che ss’intenne de tutto e sse ne frega. 4
Pò
ssapello ch’edè sto picchinicche
un coco amico mio che ssempr’è stato
a intrujjà 5 ccazzarole in case ricche?
Bbe’ ddunque,
aggratis siggnifica a uffaggna,
e ppicchinicche ve l’ho ggià spiegato:
picchinicche vo ddí ppaga chi mmaggna.
Quant’ar dí
3 cch’io me sposo sta regazza,
sor piripicchio 4 mio, la fate franca!
Vacca o vvitella poi, bbiocca o ppollanca,
questo a mmé nun me smove una pennazza. 5
Ma rrara o
nnò ccom’una mosca bbianca,
vienghi de bbona o de cattiva razza,
si ccredessivo 6 mmai dàmme la guazza, 7
bello mio, me ve ggioco a ssottocianca. 8
Pe
ccojjonella 9 tanto, io ve soverchio;
e, ppe rregola vostra, io nun ciappizzo 10
co cchi ccerca marito pe ccuperchio.
Già la
pascenza me sta in pizz’in pizzo: 11
e, un carcio che vve do, vv’allargo er cerchio
e vve spiano la punta ar cuderizzo. 12
Prudenza? Eh
ccaro lei, lo so ppur’io
che ppe vvive co llui sce vô pprudenza.
Pascenza? Ma, o ppascenza o nnun pascenza,
st’omaccio nun pô stà ssur libbro mio.
Lei me
pò ddà cqualunque pinitenza,
ch’io faccio tutto pe l’amor de Ddio;
ma nnò de volé bbene a cquel’arpío
che cquann’una ne fa ccento ne penza.
Lui chiamamme
bbusciarda cor ditongo!
E ho da sentillo dí da lui! ch’indove
disce la verità cce nassce un fongo.
Io nun pòzzo
ppiú arregge tra sti guai.
Padre mio, tanto tona inzin che ppiove;
er lupo muta er pelo, er vizzio mai.
Ma nun zai
che mm’ha ddetto er mi’ ggiudio?
M’ha ddetto che in d’un libbro sce se trova
che Ddio ’na vorta se chiamava Gliova, 1
ch’è cquant’à ddí nnun ze chiamava Ddio.
Ma ccome, ma
pperché, ddimanno io,
oggi se chiama in sta maggnèra 2 nova?
Un de le dua: o cqui ggatta sce cova,
o mm’ha detto una miffa er giudio mio.
Io l’ho
ttrovo 3 però ssempre sincero;
e un’antra cosa poi, mastro Ggismonno,
me dà a rrifrette 4 che vvojji èsse vero.
Ché, ssenza
annà a ccercà ccome o nnun come,
puro, inzomma, li Papa, c’a sto monno
sò vvicarî de Ddio, muteno nome.
Sta notte a mmezza-notte, Zzaccaria,
è mmorto d’accidente er zor Zirvani, 2
ch’era er cane ppiú ggrosso tra li cani
che vvanno a ccacciarella 3 in pulizzia.
La fine de
sto porco bu-e-vvia
è accusí ddispiaciuta a li Romani,
c’hanno cuncruso dda bboni cristiani:
Sia laudato er Ziggnore e accusí ssia.
Je ne
sò iti tanti d’accidenti,
c’a la fine sta goccia de ssciroppo 4
l’ha accucciato 5 senz’antri comprimenti.
O, ppe un
riguardo a cchi jje stava doppo,
forzi ha ccapito pe li su’ talenti
ch’era mala-creanza a ccampà ttroppo.
«Ma llassú nne
la luna, sor Martino,
che ccos’è cquela faccia grassottella
che ppare che cce facci capoccella?» 1
«Quella? e nun è la faccia de Caino?»
«Come! la
faccia de Caino è cquella?»
«Ggià: er Ziggnore je diede quer distino
perché ammazzò er fratello piccinino
e sse prese pe mmojje una sorella».
«E sta llí
ssempr’all’acqua, ar zole e ar vento?»
«Ggià: inzinent’ar giudizzi’univerzale
ha da stà ffora, senz’annà mmai drento».
«E pperché
ffa ccescè?» 2 «Ppe ddà un zeggnale
a nnoi, che cciaricordi oggni momento
la corpa der peccat’origginale».
Me fesce
cavarcà cquer galeotto
un zomaro che inciàmpica a ’ggni sasso,
’na caroggna che vva ssempre de passo,
e ddio-ne-guardi si sse mette ar trotto!
Eppoi senza bbardella! ch’io cqui ssotto,
pe ’na mezz’ora che ciaggnede a spasso,
sibbè cch’er culo l’ho ppiú ppresto grasso,
sor Dimenico mio, sò ttutto rotto.
Lei lo sa
cche la schina der zomaro
è ffatta a-schiena-d’asino: e a cquell’ossa
la bbardella je serve d’aripparo.
Ma, der
resto, o bbardella o nnun bardella,
o cce vai co l’immasto o a la disdossa,
t’arivòmmiti sempre le bbudella.
Arcipreti!
che ffurie, sor Curato!
Lei, dico, parli co mmodo e maggnera; 2
Perché, inzomma, in che dà sta sonajjera 3
de strilli? Fà ssussurro e spregà ffiato.
Ma cche sse
va ccercanno lei stasera?
la freggna de la serva de Pilato?
Io sò ffigura, pe cquer dio sagrato,
d’abbuscamme un tre pparmi de galera.
Bbella cosa!
chiamamme ggiacubbino
perché, ffinita quela su’ pastrocchia, 4
nun me sò mmesso a ppiaggne ar fervorino!
Lei, sor don
tale, a mmé nnun m’infinocchia.
Ho da piaggne! epperché, ssor Curatino?
Io nun c’entro: io nun zò de sta parrocchia.
Che fa er
Governatore? Arrota stilli
e li dispenza a sbirri e bberzajjeri.
E er Vicario? Arimúscina misteri
per inventà ppeccati e ppoi punilli.
E er
Tesoriere? Studia er gran bussilli
de straformà er bilancio in tanti zzeri.
E er Zegritar de Stato? Sta in guai
seri
pe ttrovà mmodo d’affogà li strilli.
Tratanto er
Papa cosa fa? Ssi’ acciso!,
guarda er zu’ orlòggio d’Isacchesorette,
e aspetta l’ora che sia cotto er riso.
Si ppoi pe
ggionta sce volete mette
quer che ffa er Padr’Eterno in paradiso,
sta a la finestra a bbuttà ggiú ccroscette.
Cqua nun ze
n’essce: 1 o ssemo ggiacubbini,
o ccredemo a la lègge der Ziggnore.
Si 2 cce credemo, o mminenti 3 o ppaini,
la morte è un passo cche vve ggela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,
se trafica, s’impozzeno quadrini,
se fa dd’oggn’erba un fasscio... eppoi se more!
E ddoppo?
doppo viengheno li guai.
Doppo sc’è ll’antra vita, un antro monno, 4
che ddura sempre e nnun finissce mai!
È un
penziere quer mai, che tte squinterna! 5
Eppuro, o bbene o mmale, o a ggalla o a ffonno,
sta cana 6 eternità ddev’èsse eterna!
Quela ggente
affollata in quer cortile
ce sta perché cce vénneno 1 a l’incanto
scudaria, guardarobba e ttutto-quanto
der Cardinale che mmorí st’aprile.
Li nipotucci
sui, com’è lo stile
de sti siggnori, doppo avello pianto
pe cquattro o ccinque ggiorni e mmanco tanto,
s’acquietorno cor zon der campanile.
E mmó li vedi
a bbastonà 2 ccavalli,
quadri, carrozza, càlisci, pianete,
mobbili, bbiancheria, cocci e ccristalli.
Questo nun ze
vedeva a ttempi mii,
che cquela robba c’ha sservito a un prete
finischi ne le man de li ggiudii.
Già
cche vve trovo cqua ssenza ggnisuno,
facci de grazzia, è vvero o nnò, ssor Lello,
quer che mm’ha ddetto mó lo scarpinello,
ciovè cc’oggi pe vvoi sona er ventuno?
Sto nummero
che cqui, Ddio sarv’oggnuno,
è un gran brutt’anno assai, fijjo mio bello;
perc’ortre ar guaio d’assodà er ciarvello,
c’è cquel’antr’affaraccio der diggiuno.
Eppoi si nun
pagate la piggione,
o ffate quarche ddebbito coll’oste,
ve sciteno e vve schiaffeno in priggione.
Ma che
vvolete fà? cce vò ppascenza.
Arate dritto co le vostre poste, 1
e cce sarà er Ziggnore che cce penza.
Papa Grigorio
è stato un po’ scontento,
ma ppe vvisscere poi, ma ppe bbon core,
c’avessi in petto un cor da imperatore
ce l’ha ffatto vedé ccor testamento.
Nu lo
sentite, povero siggnore!,
si cche ccojjoneria d’oro e dd’argento
ha mmannato sopr’acqua e sopr’a vvento 1
a li nipoti sui pe ffasse onore?
E ppoi doppo
sc’è ppuro er contentino
de le poche mijjara c’ha llassato
tra bbaiocchelle 2 e rrobba a Gghitanino.
E er
credenziere? e mmica sò ccarote:
ventiseimila scudi ha gguadaggnato
sortanto a vvetro de bbottijje vote.
Che cce
faressi? è un gusto mio, fratello:
su li gusti, lo sai, nun ce se sputa. 1
Sto Papa che cc’è mmó rride, saluta,
è ggiovene, è a la mano, 2 è bbono, è
bbello...
Eppuro, er
genio mio, si nun ze muta,
sta ppiú pp’er papa morto, poverello!:
nun fuss’antro pe avé mess’in castello,
senza pietà, cquella gginía futtuta.
Poi, ve pare
da papa, a sto paese,
er dà ccontro a pprelati e a ccardinali,
e l’usscí a ppiede e er risegà le spese?
Guarda la su’
cuscina e er rifettorio:
sò ppropio un pianto. Ah cqueli bbravi ssciali, 3
quele bbelle maggnate de Grigorio!
E ddajje co
Ppio nono! e ggni paese
mó aricopia st’usanza scojjonata
de portà ’na bbanniera inarberata
tra ccanti e ssoni e ttra ccannele accese.
E intanto er
zanto padre ha la corata
d’arimette l’orloggio a la francese. 1
Un papa! ammalappena ar quarto mese
der papatico suo! Bbrutta fumata! 2
Disse bbene
er decan de Lammruschini
ar decan de Mattei: «Semo futtuti: 3
cqua ttorneno a rreggnà li ggiacubbini».
Sto sor Pio
come vòi ch’iddio l’ajjuti
quanno sce viè a imbrojjà ppe li su’ fini
sino l’ore, li quarti e li minuti?
Ma cche bbon
papa, eh? mma cche animella!
Si aspetti un papa simile, si aspetti,
hai prima da vedé ssu ppe li tetti
li merluzzi a bballà la tarantella.
Quanno te
guarda llí cco cquel’occhietti,
co cquella su’ bboccuccia risarella, 1
nun te sentí arimove le bbudella?
nun je daressi un bascio a ppizzichetti?
È
ppapa, è vviscecristo, è cquer che vvòi:
eppuro, va’, in parola da cristiano,
a mmé mme pare propio uno de noi.
Dimme la
verità, mmastr’Ilarione,
che la trovi la mútria 2 da sovrano?
ce la scopri la faccia da padrone?
Se chiamava
Ggiuanni? Eh ggiusto! eh vvia!
dateje un’antra bbotta de setaccio.
Voi v’ha ccuccato l’aria de Testaccio
e spacciate una gran cojjoneria.
Er papa se chiamava
Ggiammaria:
pò ssapello la vecchia, sor cazzaccio,
che cquer zant’omo l’ha pportat’in braccio
e mmó adesso je tiè la bbiancheria?
Sta
vecchietta è un canale che nun sbajja,
e ariconta che llui da secolare
era conte, e cch’è nnato a Ssinigajja.
Ma, ffussi
Giammaria, fussi Ggiuanni,
oggi è Ppio nono; e vvojj’Iddio, compare,
ce se pòzzi chiamà cquattroscent’anni.
Io poi nun ve
so ddí ttante raggione:
questo io so cc’ar concrave er cardinale
creato papa, o ffacci bbene o mmale,
se muta nome e ppoi va ssur loggione.
E ssiccome
uggnun’ha la tentazione
d’abbuscasse la cattreda papale,
uggnuno, o ssii ’na perla o ’no stivale,
prepara er nome suo pe l’occasione.
S’era papa
Mattei, 1 c’ar penzà mmio
è un cardinale assai lescit’e onesto,
je criccava er chiamasse Sperandio.
Mìcchera
2 poi, pe cquello che ssentimo,
se saría messo nome Sisto sesto,
e Lammruschini 3 invesce Agnello primo.
Ma ttu
vvacce, Matteo, fa’ a mmodo mio,
tu vva’ a l’udienza e nnun avé ppaura.
Nun je vedi a la sola incornatura
si cche rrazza de core ha Ppapa Pio?
Io so cche
ggiuveddí cche cciaggned’io
me parze, nun te fo ccaricatura,
de trovamme davanti a ’na cratura,
e nnò ar prim’omo che vviè ddoppo Iddio.
Te penzi che
llui ssi st’antra canajja,
c’ar parlacce te zzompeno a la vita,
e tte fanno tremà ccom’una pajja?
Vacce, e nun
dubbità cche tte strapazzi;
anzi èsse 1 scèrto c’a udienza finita
si tt’ha ddetto de nò ttu l’aringrazzi.
Però,
ssibbè ggnisuno ve lo nega
che ppreti e ffrati cqua ssò ttutti bboni,
dítem’un po’, vvoantri talentoni,
come s’impiccia?, come va sta bbèga
che o
mmaggni, o bbevi, o ddormi, o ccanti, o ssoni,
o ggiochi, o ppissci, o apri una bbottega,
ecchet’addosso un prete che tte frega,
o un frate che tte scoccia li cojjoni?
Sii bbianco,
o rrosso, o nnero o ppavonazzo,
vadi in zottana, in tonica o in mozzetta,
de questo a mmé nnun me ne preme un cazzo.
O ttienghino
er cappuccio o la bbarretta,
io, per mé ttanto, ne farebbe un mazzo
da scaricallo ar porto de Ripetta.
Dico la
verità, ssora Celeste,
me tuferebbe assai che ppe li fini
de sti turchi arrabbiati ggiacubbini
a Rroma se calassino le feste.
E cche
cc’importa si ppe vvia de queste
l’artisti nun guadammieno quadrini?
La festa è ppe nnoantri vitturini
quer che ppe li becchini era la peste.
Disce: «Ma
ssi er bracciante nun guadaggna,
ma ssi l’avvezzi all’ozzio, si l’avvezzi,
con che sse sverna poi? come se maggna?».
E vve pijjate
tanti sturbi ar core?
E nun ponno arifasse su li prezzi
der lavore der giorno de lavore?
E arriva a ttanto
er dente avvelenato
de sti strilloni aretichi somari
pe cquer povero papa Cappellari
mó spesciarmente che jj’è uscit’er fiato,
che ddicheno
inzinenta ch’è ppeccato
de scelebbrajje messe e nniverzari,
e vvorríeno scassà dda li lunari
fino quer giorno dua ch’ebbe er papato.
E nun basta;
c’è cquarche ffuribbonno
che cce conzijja de scordallo, come
sto Papa cqui nun zii mai stato ar monno.
Ma ppe
ggrazzia de ddio e der governo,
ce sò bboni pitaffi cor zu’ nome
da ricordallo a ttutti in zempiterno.
Pe bbono
è bbono assai; ma er troppo è ttroppo;
e accusí, ttra l’ancudine e ’r martello,
se lassa perzuade a annà bberbello
e cquer c’ha da fà pprima a ffallo doppo.
Lo sapemo
ch’er curre de galoppo
porta spesso a la strada der mascello,
ma neppuro un curiero c’ha cciarvello
nun monta in zèlla a un cavallaccio zzoppo.
Perantro noi
che stamo a ccasa nostra
e cciancicamo quer boccone in pasce,
noi nun capimo che llassú è la ggiostra.
Fra cchi
ttira e cchi allenta, poveretto,
io voría vede chi ssaría capasce
d’accordà la chitarra e ’r ciufoletto.
Santo-padre,
e indov’è cquel’alegria
e cquele belle ganassotte piene
c’avevio prima? Voi nun state bbene:
io ve vedo mutà ffinosomia.
Si sti fijji
d’un lupo e d’un’arpia
ve tireno cqua e llà ccorde e ccatene,
ve sce state a ppijjà ttutte ste pene?
Ce vô ppoi tanto pe ccaccialli via?
Er Vicario de
ddio nun zete voi?
Dunque dateje l’erba a ttutti-quanti,
e ppoi lassate fà: cce semo noi.
Seguitanno
accusí, ccurrete risico
de fà un buscio in dell’acqua; eppoi? eppoi
de sputà ccardinali e mmorí ttisico.
È ora
de finillo er ber pasteggio
de chiamà Ppapa Pio nostro sovrano
omo de carta-dorce, posa-piano,
mazza-la-fremma, lumacone, e ppeggio.
Tra li sturbi
der zor zagro colleggio
che vva in decrivio all’ombra d’un tafano,
come vòi che cquer povero cristiano
nun z’ajjuti coll’arte der traccheggio?
Lui vò
mmannà ttutte le cose in pasce,
annacce cor bemollo, a la sordina,
gastigà ccor baston de la bbammasce.
Pe
ccontentà li poveri e li ricchi,
che mmaravijja sc’è, ppe ccristallina,
si nun trova mai forca che l’impicchi?
Dorme? Er Papa
nun dorme e nun ha ssonno,
e nun è ttartaruca 1 né llumaca.
Ce vò er zu’ tempo pe ffà la triaca
da rimedià li cancheri der monno.
Er fà
ppresto e er fà bbene, sor Zaràca,
nun ze ponno protenne, nun ze ponno.
Ma lo capisco si cch’edè: cqua vvonno
la bbotte piena e la mojje imbriaca.
Lassateli
sfiatà cqueli sciufechi,
e dditeje: «La gatta pressciolosa,
sori cazzacci, fa li fijji scechi».
E in quant’a
Ppapa Pio nostro sovrano,
lassamoje aggiustà ccosa pe ccosa.
Chi vva ppiano va ssano e vva llontano.
Pio s’assomijja
a Ccristo, e st’animali
nun jje stiino a scoccià li zzebbedei.
Defatti, vò vvedello, caro lei,
si Ccristo e Ppapa Pio sò ppropio uguali?
Cristo pe li
peccati univerzali
commatté cco li scribbi e ffarisei,
e Ppio, cascato in man de filistei,
tribbola co pprelati e ccardinali.
Pio, come
Ccristo, ha la coron de spini,
e vva a ffà l’Ecceomo s’una loggia
a ’na turba de matti e ggiacubbini.
E nun ze fidi
lui de quer zubbisso
d’apprausi e sbattimano e ffiori a ppioggia:
s’aricordi le parme e ’r croscifisso.
Inzin c’ar
Papa je starann’addosso
de cqua li ggiacubbini a ffà l’abisso,
e de llà cquele pecore de Visso
ammascherate cor zucchetto rosso,
e, invesce
d’ajjutallo a ssartà er fosso,
chi vvorà bbaccalà cchi stoccafisso;
staremo sempre cor tibbicommisso
de la miseria che cciarriva all’osso.
Sin c’uno
strilla arrosto e un antro allesso,
e ttutti in compaggnia fanno fracasso,
dureranno li guai che cce sò adesso.
Ché ttra
Erode e Ppilato, Anna e Ccaifasso,
«Io», er Papa dirà, «mme chiamo ggesso:
cor una mano scrivo e un’antra scasso».
Mentre stavo
attennenno ar mi’ mestiere
e ppistavo la china in ner mortale, 1
sentivo che ddisceva lo spezziale:
«Sapete chi hanno fatto cavajjere?»
«Lo sapemo»,
arispose quer curiale
che vviè a la spezziaria tutte le sere,
«hanno dato la crosce a un berzajjere
c’appricò un carc’in culo a un libberale».
«Ma ccome!»,
sartò ffòra un medichetto,
«ho lletto in de le storie...». «Eh, ccar’amico,
va a ppenzà adesso quer c’avete letto!
Va
ccercann’oggi tra la ggente morta
cos’era un cavajjere a ttemp’antico!
E li preti sò cquelli d’una vorta?».
Dunque, essenno
lei gravida, sor Nino,
de sto bbon cardinale mi’ padrone,
vòrze annà a ppartorillo in ner grottone
che la Madonna ce spanzò er Bambino.
Detto-fatto:
accaparra un vitturino,
parte, arriva, se trova un Ciscerone,
eppoi comincia a ppijjà ccondizzione 1
de li lochi, pe ffà tutto appuntino.
Poi, appena
je preseno le dojje,
curze a sdrajasse 2 in de la stalla, indove
c’entrò ppuro 3 er marito co la mojje.
Ma pperché
llà nnun ce vedeva chiaro,
mentr’er marito era ar zito der bove,
fesce er fijjo sur posto der zomaro.
Inzomma
venardí 1 ss’apre er tesoro
de le sante innurgenze, sor Matteo.
Venardí se dà mano ar giubbileo
de li frati e li preti fra de lòro.
Me ne moro de
vojja me ne moro,
de vedé Ddon Ficone e Ffra Ccazzeo
fà er bocchino da scribb’e ffariseo
pe abbuscasse un buscetto in concistoro.
Poi doppo
s’arivesteno l’artari,
e ss’arrizzappa pe ttre ssittimane 2
la vigna pe nnoantri secolari.
E accusí a
ssono d’orgheni e ccampane
s’aggiusteranno cqui ttutti l’affari:
nun ce saranno ppiú lladri e pputtane.
E bbenedetto
sia Nostro Siggnore,
che ppe ffà vvede che nun è un stivale
ha ccreato pe pprimo cardinale
quer bravo Monziggnor Governatore.
Sta nomina
che cqui je fa ppiú onore
che ssi calava un quadrinello ar zale,
o ssi avessi ordinato ch’er caviale
fussi padrone de mutà ccolore.
Questa
è ’na gran fumata ch’er zovrano
penza ar decoro der zagro Colleggio
e cche le bbrijje sa ttenelle in mano.
Cusí quer
ch’era prima un scenufreggio
annerà dda cqui avanti a mano a mmano
sicutèra in principio e nnunche e peggio.
Stammatina io
discevo ar mi’ padrone:
«Sor conte, ma pperché ste Su’ Eminenze
nun sanno antro arisponne che inzolenze,
rugheno e nun intenneno raggione?
Perché ffanno
la vita der portrone
senza manco studià le convegnènze?
Perché ddanno l’assarto e la dispenze
e ppatischeno poi d’indiggistione?
Perc’hanno
sempr’in bocca la bbuscía,
e in quanto all’uso de volé rigali
pe lloro è ssempre pasqua bbefania?»
«Questi,
fijjolo, sò ddiscorzi ssciapi»,
fesce er padrone mio: «li cardinali
nun zò ttutte crature de li Papi?»
Ma cquer
maestro è un gran omo seccante
cor dí ssempre a sti bbravi siggnorini:
«Raponzoli, studiate li latini,
invesce de ruzzà ccor cavarcante.
Fijji, le
cose da sapé ssò ttante,
c’un omo che le studia, ar fin de fini,
piú ss’arrampica su ppe li rampini
e ppiú arriva a ccapí dd’èsse iggnorante».
Ma sto
discorzo che jje tiè l’abbate
fa ttanta bbreccia ne li su’ scolari
come si jje discessi nun studiate.
Defatti, co
sta predica curiosa,
nun è piú mmejjo de restà ssomari
pe ccrede d’èsse ar monno quarche ccosa?
Bon-capo-d’anno, sí, bbelle
parole!
Tre anni fa, cco ttutto er capo-d’anno,
la mojje mia de malanno in malanno
se n’aggnede a ingrassà le cucuzzole.
L’ann’appresso
(e quest’è che ppiú mme dole),
co ’na frega d’uguri ar mi’ commanno
la grandina me venne bbuggiaranno
quer po’ de roba che ttenevo ar zole.
Drento ggennaro
poi de l’an passato
doppo li stessi uguri d’oggni bbene
me toccò una quarella ar Vicariato.
E st’anno chi
lo sa ccosa m’aspetta?
Nun cciamanc’antro per usscí de pene,
che mme pijji una goccia o ’na saetta.
No, ssor Pio,
pe smorzà le trubbolenze,
questo cqui nun è er modo e la maggnera.
Voi, padre Santo, nun m’avete scera
da fà er Papa sarvanno l’apparenze.
La sapeva
Grigorio l’arte vera
de risponne da Papa a l’inzolenze:
vonno pane? mannateje innurgenze:
vonno posti? impiegateli in galera.
Fatela
provibbí st’usanza porca
de dimannà ggiustizzia, ch’è un inzogno:
pe ffà ggiustizzia, ar piú, bbasta la forca.
Seguitanno
accusí, starete fresco.
Baffi, e gnente pavura. A un bèr bisogno
c’è ssempre l’arisorta der todesco.
A pranzo er
cojjutor der mi’ padrone,
in ner mentre maggnava la grostata
je leggé ccerta lettra circonnata
co un’infirza de nomi de perzone.
Ne
sciancicava un pezzo pe bboccone
e ’ggni tanto schioppava una risata:
«Vergine bbenedetta addolorata»,
poi fesce: «Oh cche pasticcio bbuggiarone!
Ma cche ccosa
si fotte ir Cardinale,
che nun j’abbasta di fregà ir civile,
viè a rroppe li cojjoni ar criminale?
Si la
ggiustizzia è ppe la ggente vile,
che jje n’importa ar Cardinal Pasquale
si ppassa da la parte der cortile?».
La cannonata
carica a mitrajja
c’ha ddato er Zantopadre in Pulizzia
pe rrigalo de pasqua bbefania
a cquer fior de sciroppo de canajja
è
stata una gran brutta zinfonia
pe cchi ttiè la cuscenza fatta a majja:
un’antifona inzomma che nun sbajja
pe ggelà ppiú d’un ladro e d’una spia.
Capisco,
c’è da fàccese canuto,
pe cquanto er Papa possi dajje addosso,
a estrippà er zeme der baron-futtuto;
ma ar meno, a
forza d’arrivajje all’osso,
tanti che ancora sò birbi a minuto
nun ze faranno poi birbi a l’ingrosso.
Tra le
cojjonerie che va facenno
la Santità de Pio Nostro Signore,
disce che vvò ddismette er Senatore;
ma ccome l’ho crompata io ve la venno.
Male o bbene
che ssia, nun me n’intenno;
perantro ho gran ppavura d’un timore:
che a Ccampidojjo ce sarà rimore
e a Roma quarche mascellaccio orrenno.
Si er Zenatore
armassi li Fedeli,
li Scribbi, Caporioni e Capotori,
tutta la frateria de l’Aresceli,
tutti li
carcerati debbitori...
Dio mio! me sce s’addrizzeno li peli
a ppenzà ar zangue drento e ar zangue fòri.
Che scombussolo,
eh? che mmutazione!
Da quarche ggiorn’impoi dove t’accosti
nun trovi ppiú ggnisuno a li su’ posti;
e chi pprima era Erode oggi è Nerone.
Si cqua ddura
accusí nemmanco l’osti
faranno ppiú l’istessa professione,
ché cqui adesso oggni sceto de perzone
sfodera li su’ meriti anniscosti.
Preti,
sbirri, prelati, mozzorecchi,
spie, cardinali, ggiudisci, copisti,
te li vedi frullà come vvertecchi.
Spiggneno
tutti, e vann’avanti, vanno;
ma in tanti pipinari e acciaccapisti
chi ssa ar Papa che impiego je daranno?
Don Zaverio
è er piovano, e ddon Luterio
è er Primiscerio de la Coleggiata;
ma ppe ’na scerta monichella obbrata
mo ffra de loro è un affaraccio serio.
Quanto
pò ffà er piovano Don Zaverio
Don Luterio lo tiè ppe ’na cazzata:
chiama er piovano poi ’na bbuggiarata
tutto quello che ddisce er Primiscerio.
Pe la
binidizzion cor sostenzorio
er piovano a l’artar de San Giujano
conzagrò, e messe l’ostia in ner cibborio?
Bbè,
che ffa er Primiscerio? se la svicola
a l’artare medemo der piovano,
disce messa, e jje maggna la particola.
Vedi una
mojje de cos’è ccapasce
quann’è bbona e vvò bbene a ssu’ marito!
Lo sposo suo, pe cquer che ss’è ccapito,
je piasce un po’ de sgraffiggnà, jje piasce.
Rosso dunque
in zur fà dd’una fornasce
lo chiamò er zuprïore inviperito,
e jje disse: «Sor ladro ariverito,
levateve dar lume e annat’in pasce».
Guarda,
aripeto, che ppò ffà l’amore!
La mojje, inteso er fatto, se la cojje
e vva dar zuprïor der zuprïore.
E ffurno
tante le raggione dotte
che jje seppe inzeppà sta bbona mojje,
c’aggiustò ttutto quanto in d’una notte!
Però,
cquer benedetto poverello
fàsse trovà sdragliato pe le scale
der palazzo d’un conte cardinale,
come sott’a un bancone de mascello!...
Eppoi,
sibbè cche sse sentissi male,
nun avé mmanco un deto de scervello
de tirasse un po’ in là mmentre che cquello
se strascinava sú ccoda, e ccodale!...
E avé ccoraggio
in faccia a ssu’ Eminenza
de fà ppuro la bbava da la bocca
e de lassajje llí cquela schifenza!...
E mmorijje,
pe ggionta, ar zu’ cospetto
come si stassi in de la su’ bbicocca,
nun ze chiama un mancajje de rispetto?
Io, per brio,
saperebbe volentieri
si ccurre puro nell’antri paesi
sta fiumara de prencipi, marchesi,
conti, duchi, bbaroni e ccavajjeri.
Perché a
Rroma, per brio, tra ffarzi e vveri,
n’ho intesi tanti a mmentuà, nn’ho intesi,
che mmeno sò li moccoletti accesi
che ttengheno smorzati li drughieri.
È una
gran cosa, pe cquer brio sagrato,
de nun poté ffà un passo in gnisun loco
senza pijjà de petto un titolato!
Eh, Ppapa io,
nun me faria confonne!
voria ridusce er monno a ppoc’a ppoco
tutto quanto in du’ crasse: ommini e ddonne.
«Fútter»,
disse munzú, «tre bbelle famme»
(famme, in lingua francese, vò ddí ddonne):
«ovì, per diú, sò ttre bbelle e ttre bbonne»:
e cquelle ereno dua co cquattro gamme.
Belle poi
com’er zeta e er pisilonne,
bone come la serva der cacamme;
e in quant’a ccarnevali, buggiaramme
si nun zò nnate quanno mòrze Aronne.
Quelle llí,
nnun ve fo ccaricatura,
ereno, co lliscenza der francese,
bell’e vvecchie quann’io ero cratura.
Ma fforzi pe
le donne a sto paese
c’è er privileggio de madre natura
c’oggni giorno de ppiú jje cali un mese.
Vecchia la
mi’ padrona?! Io te conzijjo
Checco a nun mette sti tumurti in piazza.
Si ttu te fai sentí, cquella t’ammazza:
si ll’arriva a ssapé, nasce un bisbijjo.
Nun dico che
ssii propio una regazza,
però è gguasi piú ggiovene der fijjo;
e cquanno se sposò ccor zor Basijjo
la trovonno a ggiocà cco la pupazza.
Disce che
ll’osse sue ereno zzeppi,
e la madre je fesce in ne l’acconcio
tutte le bbuttasú cco li ritreppi.
Inzomma, a
ggiuventú llei se ne fotte;
e ddio ne guardi si mmai bbeve un poncio,
se scòtola cqua e llà ttutta la notte.
Oh in fin de
conti sai che nnova sc’è?
Che cce n’ho inzin’ar gozzo e un pò ppiú ssu;
e a ccasa sua nun me sciaccosto ppiú,
mmanco campassi l’anni de Novè.
E cchi
è, cazzo!, la fijja der re?
Se parla co Ddio padre a ttu per tu,
e cco llei, perch’è amica d’un Monzú,
s’ha d’annacce cor quinni e ccor ciovè!
Ringrazzi
Cristo c’ho pprudenza, c’ho:
che nun me piasce er fà pubbriscità:
che de lei me ne bbuggero; si nnò...
Oh gguarda!
me s’aggnede a invelení
perché je disse vacca! Ebbè? sse sa:
sò ccose che sse dicheno pe ddí.
No, ffu cquer
giorno che n’avemio trenta.
Fu l’ottavario der sabbito santo:
m’aricordo anzi, a l’osteria der Pianto,
che cce maggnai la pizza de pulenta.
Me pare
propio mo che, ppe mmé tanto,
ammalappena entrò cquela scontenta,
io fesce tra de mé, ddico: sta’ attenta
ch’er painetto je se mette accanto.
E cciazzeccai
c’annaveno in funtana?
Tant’è vvero ch’io poi disse ar marito:
«Vostra mojje, sor Checco, è una puttana».
E llui, me
pare de sentillo adesso,
lui m’arispose tutto inviperito:
«E dde voi puro se pò ddí l’istesso».
Bbe’? mme ne
vado? nun c’è ppropio caso
d’aggiustallo st’affare co ttu’ mojje?
Che ddiavol’hai? te pijjeno le dojje,
ché mme straluni l’occhi e arricci er naso?
Io te vorebbe
vede apperzuaso
che ll’oppiggnone tua cqua nun ce cojje:
e sta matassa sai chi la pò ssciojje?
La cuggnataccia de padron Gervaso.
Eppoi, díco,
ch’edè sta maravijja?
S’uno j’è it’appresso e cquer che vvòi,
che ccorpa sce n’ha llei, povera fijja?
Disce: «Ma li
trovonno immezz’ar fieno»:
busciardarie de male lingue! Eppoi,
tutte le donne, ggià sse sa, ppiú o mmeno...
Lei, perch’io
vedo tutto e nnun me laggno,
perché abbozzo e mm’ammaschero da tonta,
se fidò de veníssene onta-onta
a ddimannamme si sposavo Ascaggno.
Ma io che sso
ddove je cova er raggno
e ggià ttenevo la risposta pronta,
je fesce: «Eh vaccarella co la ggionta,
tu da me ccerchi argento e ttrovi staggno».
Allora lei
(te lo pò ddí er fornaro)
se fesce bbianca, rossa, verde, ggialla...
Pareva una scanzia de coloraro.
Lei co mmé
spera de ggiucacce a ppalla,
e nnun z’accorge quer grugnaccio amaro
che llei sta ssempre a ffonno, io sempre a galla.
Passò
cquer tempo! È ffinita la pacchia,
sposa mia, de quann’ero ggiuvenotta!
Che ccasa eh, allora? E mmó? mme sò aridotta
co un búscio de suffitta a la Petacchia.
Vecchia nun
zò, ma!... la miseria abbacchia;
e ppe cquanto se studia e sse sciappotta,
se sta ssempr’accusí, ssora Carlotta:
giú tterra-terra come la porcacchia.
Prima sempre
alegrie, sempr’in bisboccia;
e mmó le sconto co lo stà a filetto,
e mmó ttutti me tengheno in zaccoccia.
Avevo chiesto
a Monziggnore un letto?
Bbe’, er zervitore, je pijji ’na goccia,
fesce: «A vvoi v’abbisoggna un cataletto».
L’annà
oggni ggiorno, pe rriuprí bbottega,
da sti du’ Monziggnori, a cche me giova?
Uno me pare er zor cosceme-l’ova,
l’antro me pare er zor dorce-me-frega.
Questo un po’
tte promette e un po’ tte nega,
quello scerca le carte e nu le trova...
inzomma tutt’e ddua sò dd’una cova,
sò ttutt’una gginía, tutt’una lega.
Te li do a
bbirbaria dua per un paro,
sò sdoganati da l’istessa bballa,
vanno da galeotto a marinaro.
E sta ggente
che cqui ss’ha da impiegalla?
L’impieghi pe sto porco e sto somaro
je li voria creà ddrent’a ’na stalla.
«Che ffamo oggi
da pranzo, Crementina?»
«Quer che vvolete voi: semo in dua sole».
«Volemo fà un arrosto de bbrasciole?»
«Nun è mejjo un stufato de vaccina?»
«Uhm! l’avemo
maggnato jermatina...».
«Bbe’, vvolemo allessà ddu’ cucuzzole?»
«Quelle nò, cché la panza oggi me dole,
e nun voria pijjà la mediscina».
«Dunque,
mamma, che sso... ffamo li gnocchi».
«Eh, ste jjottonerie costeno care:
se ne vanno cqua e llà vventi bbaiocchi».
«Inzomma fate
un po cquer che vve pare».
«Io direbbe pe mmé, ssi ttu cciabbocchi,
d’annaccene a svernà ddà la ccommare».
«Presto
affaccete, Ghita, ecco che ppassa!».
«Chi? cquela schefa llà? cquela ssciacquetta?!
Nun te pare un ber tocco de spuzzetta
da affittalla a ttre schiaffi pe gganassa?
Guarda,
guarda, Luscia, come sculetta!
Ha una gran presscia!». «Eh ppovera bbardassa,
curre in chiesa a imbrojjà ccerta matassa
co un paíno affamato che l’aspetta».
«Ma è
mmaritata, vedova, zzitella?...».
«Gnisuna de le tre». «Ddunque che ccosa?»
«Un’antra cosa che ffinissce in èlla».
«Ho ccapito.
E ccià mmadre?» «L’ha ssicuro;
ma jje fa la ggneggnè, la scrupolosa,
la santarella appiccicata ar muro».
M’arillegro
co vvoi, caro sor mastro:
ve sete fatto una gran bella sposa!
Ma in cusscenza! è una donna appititosa!
è bben tajjata assai: pare un pilastro.
Co cquer
nasetto a bbecco de pollastro!
co cquer petto a ddu’ strisce de scimosa!
co quel’occhietti de color de rosa!
co cquella bbocca congeggnata a incastro!
Bravo, bravo
davero, mastro mio.
Una mojje accusí nnu la trovate
da la val de l’inferno a Bborgo Pio.
Pe
ccarità pperò, nnu la portate
a mercato; perché, vve lo dich’io,
l’incetteno pe un zacco de patate.
Ôh, cquanno
è ’na scèrt’ora, è amica mia
e la difenno io, sora Costanza;
e mme pare una gran mala creanza
de trattalla da porca bbu e vvia.
E ssi
ll’antr’anno, povera Luscia!,
pe cquarche mmese je cresscé la panza,
c’è bbisoggno che ffussi gravidanza?
Sarà stata quarc’antra ammalatia.
È
vvero poi che jje calò in du’ ggiorni;
ma cquesto che vvòr dí? Vve faria caso
ch’er gonfiore medemo j’aritorni?
Dipenneno ste
cose da le lune,
ché in quant’a llei, ce ggiucherebbe er naso, 1
nun tratta antro ch’er popolo e ’r cummune.
Chi arrubba
è lladro, e ll’arrubbà è ppeccato,
e cchi ffà li peccati è ppeccatore;
e cquesto credo che nnun facci onore,
sor Libborio, a un cristiano bbattezzato.
Ma
llevà er mantelletto a un Monziggnore,
caccià da Roma un povero prelato,
pe un pupazzetto o ddua c’ha sgraffignato,
è, a ssintimento mio, troppo arigore.
Capite voi?
de sto paese io parlo,
dove chi ffa man bassa se la svicola:
cquesti nun zò li scrupoli der tarlo?
Ggià,
scrupoli der tarlo, sor Libborio,
che ddoppo avé magnato la particola,
ebbe pavura de magnà er cibborio.
Mentre llí,
in pied’in piede, er mi’ padrone
riccontava sto furto a mmezza vosce,
se stava scontorcenno un prelatone
e ss’aïnava a ffà ssegni de crosce.
Disce: «Un prelato reo di tal azzione!
Un di nojantri! oh cquesta sí mmi cosce!
Oh cche pporco futtuto! oh cche bbriccone!
Oh cche vvergogna! oh cche ddilitto atrosce!».
Ma
cquant’è vvero er naso de san Pietro,
spesso chi rrajja sopr’all’antri, rajja,
se bbutta avanti per nun cascà addietro.
E ccorpo der
cudino de ’na sorca!,
nun ze po ddà che ssii coda de pajja
e tutt’affetto de camiscia sporca?
«Fora me
chiamo». «Che?!» «Ffora me chiamo».
«Nun tanta presscia, amico, ch’è abbonōra».
«Io te dico c’ho vvinto». «A cche? A la mora?
Ma cc’hai vinto? li zzoccoli d’Abbramo?»
«Sò de
mano e ho ttrentuno: aló, ppagamo».
«Non-ziggnora, ve dico, non-ziggnora:
er punto, sor cazzèo, nun manna fora:
ancora stamo a ttrent’e ttrenta stamo».
«Gnente:
l’accuso eccolo cqua». «Mma ccàzzica!
pe ffermà er gioco, te pîa ’n accidente!,
bbisogna d’avé in mano o ggilè o bbazzica.
Nun annamo
per uno tutt’e ddua?
Famme pijjà; e ssi a mmé nun me viè ggnente,
allora hai vinto e la partita è ttua».
Bono, sangue
de bbio! bbravo Marcello,
che oggi nun me dài sugo d’agresta!
Cqua, cqua ’n’antra fujjetta ugual’a cquesta,
e abbada a nun sbajjatte er caratello.
Oh cquésto se
pò ddí vvino de festa!,
gajjarduccio, abboccato, tonnarello...
Hah! tt’arimette er core in ner cervello,
e tt’arillegra senza datte in testa.
Com’è
lliggero poi! com’incanala!
Questo arifiata un morto in zepportura,
e tte je fa rimove er cresceccala!
Propio
è una manna, è un ettore addrittura!
E ssimmai pe ddisgrazzia uno s’ammala,
co sto vino che cqui ggnente paura.
Piano co ste
caluggne: io nun me faccio
de quer paese che nun zò, ffratello.
Me n’accorgo da me che nun zò bbello
ma manco crederò dd’èsse un pajjaccio.
Basta, a ’gni
modo, me sò trovo un straccio
de strappinetta da ingabbià er franguello:
’na scortichina, fía d’un scarpinello,
che, ppuro, s’ho ’na vojja, me la caccio.
Capisco
ch’è una subbia, ch’è una spazzola,
ch’è mosscia, che ttiè un naso martellato
da fà invidia a una perla scaramazzola,
che, inzomma,
nun è ttanta fregareccia:1
ma aringrazziam’iddio, disce er curato:
tempo de caristia, pane de veccia.
Tre ppavoli,
lo so, ccaro don Diego:
me l’aricordo, v’ho da dà un testone:
m’avanzate tre ggiulî de piggione:
trenta bbaiocchi, sí, nnun ve lo nego.
Perantro de
sti conti io me ne frego,
perché ssò ar verde e sto ssenza padrone.
E come disce chi nun è ccojjone?
«Prima càrita síncipi tabbego».
Dunque,
sentite, sor don Diego mio:
eccheve du’ lustrini, e ffamo patta;
e a messa poi v’ariccommanno a Ddio.
Già,
un giulio solo; e mmó dd’uno se tratta.
Tre ne volete? E cquesto è ttre, pperch’io
lo bbattezzo pe un tre ccome la matta.
Ma er zor don
Craudio eh? cquer bon pretino!
voria mó bbuggiaramme senza sputo.
Bontà ssua, nun scita oggni minuto
p’er cànnolo dell’orto e dder giardino?
Ma cche ccosa
s’imbrojja st’assassino?
che vva ccercanno sto villan futtuto?
Co l’assciutta, per dio, c’avem’aúto
che nemmanco s’è ccòrto un gensusmino!
Disce: «Er
cànnolo curre tutti l’anni:
io nun zò un cazzo d’ummidi e d’assciutti:
li quadrini sò mmii, vostri li danni».
Dà in
buggiarate grosse er zor don Craudio.
Peno io? peni lui: penamo tutti.
Dunque, male cummune è mmezzo gaudio.
Lui, doppo un
anno e ppiú cche sta ingabbiato,
sento c’abbi da esscí sta sittimana:
ma llei... uhm! nu lo so, ssora Bbibbiana,
come l’impiccerà cquann’è scappato.
Je va adesso
pe ccasa una mammana...
Ce vedo bbazzicà ppuro er curato...
Ce ronneggia una spia der Vicariato...
Ah! ccià da nassce llí cquarche bburiana.
Io je lo disse tanto a cquella strega:
«Sta a la lerta, Luscia, bbada, commare:
fin che nun torna lui, serra bbottega».
Nò,
llei vò ssempre er zu’ negozzio uperto.
E io la lasso fà ccome je pare;
ch’io nun ciò ggrazzia a ppredicà ar deserto.
Sò
vvecchia, fijja: ho cquarche e cquarc’annuccio
piú de tu’ nonna, sai, cocca mia bbella?
e jje lo dico sempre a mmi’ sorella:
«Presto presto m’attacchi lo scoruccio».
Eppuro va’!,
cquer benedetto Muccio
jeri me fesce scantinà in cappella.
Eh, oggni tanto la fo una sfuriatella:
ma ssò ffochi de pajja, e ppoi m’accuccio.
Io lo
capisco, sò de sangue callo,
e ddo scannolo a ttutta la famijja,
sibbè in ner core nun vorebbe dàllo.
E appena quer
prim’impito è ppassato
darebbe er zangue mio (credeme, fijja)
ch’er mal’esempio nu l’avessi dato.
Nun pòi
sbajjà, Luscia. Li Vaccinari,
l’arco de Scenci, poi piazza de Bbranca,
poi er vicolo accant’all’arte bianca,
e rieschi a Ssan Carlo a Ccatenari.
Lí svorta su
la piazza a mmanimanca
e pprima d’arrivà a li Ggipponari
pijja a mman dritta, e ggiú pe li Chiavari
inzin a Sant’Andrea va’ ssempre franca.
Dimanna a
Sant’Andrea piazza-Madama:
là ddimanna er palazzo de Carpeggna,
ché la strada nun zo ccome se chiama.
E llí ttrovi
de scerto chi tt’inzegna
indov’abbita quella c’aricama.
Co la lingua, Luscia, se va in Zardeggna.
Anzi,
appostatamente ciài d’annà
e ddijje chiaro chiaro: «Eccheme cqui».
Allora quarche ccosa l’ha da dí,
e ssai come potette regolà.
Si tte
confessa lui la verità,
s’aggiusta la bbaracca llí per lí:
si ppoi nega, lo cucchi luneddí
e hai raggione da venne e dd’affittà.
Seguitanno a
cciarlà ccome fai tu,
oggi o ddomani che lo viè a ssapé
stai fresco, stai: nun te la sbrojji ppiú.
Tu nun te sai
risorve, ecco ch’edè.
E si nun fussi ch’io te metto sú
nun ze daría cardeo peggio de té.
Tutt’è,
siggnora mia, pe la raggione
che in questo lei nun ze vò ffà ccapasce
ch’io nu lo pijjo perché llui me piasce,
ma sto passo lo fo ppe rifressione.
Ché, inzomma,
ha la su’ bbrava professione,
tira un papett’ar giorno e la fornasce...
E ppoi, abbasta che cce si la pasce
e la grazzia de ddio, stamo bbenone.
A bbon conto
è un regazzo de ggiudizzio,
e a fforza de ggiudizzio se va avanti
e sse tiè tutt’er monno in quer zervizzio.
E
mm’arrivat’a ddí jjer’a mmatina:
«Checca, tu pporterai sino li guanti,
e starai che nnemmanco una reggina».
Ah ddunque
Nastasia quer nottunese
s’è arisòrta a la fine de sposallo?
Fa un bon negozzio: è un partituccio callo:
tavola vòta e cquattro piastre ar mese.
Eppoi,
siggnor’iddio!, bast’a gguardallo
pe ccapí cch’è un ziggnore der paese;
e, da tutte le nòve che nn’ho intese,
cià ggnisempre la bbòtta der vassallo.
Ha ffurtuna
però, ppropio ha ffurtuna!
ché de rregazze come Nnastasia,
qui a Rroma tanto, nun ce n’è ggnisuna.
Io la tiengo
ppe un mostro de bbontà:
puro er Curato ha l’oppiggnone mia:
puro la madre se lo crede; ma...
Er
zanto-padre è un bon fijjolo; ma
li frati, a fforza de tiranne ggiú,
ve lo fariano crede un Berzebbú
da distrugge le cchiese e le scittà.
E ccor loro
fagotto de vertú
meno un tantin de fede e ccarità,
si ssentissivo poi, li mappalà
che sti santi je manneno llassú!
E vve canteno
tutti in amirè
c’a llui j’amanca quarche ggiuveddì
e ffa da Papa nun ze sa pperché.
Romani, e ve
voressivo avvilí?
No, dite com’io dico tra de mè:
«Tufa a le fraterie? Mejjo accusí».
Ho affittato
una stanzia a un giuvenotto
che, cquant’è vver’Iddio, dev’èsse matto.
Se mette a spasseggià ttutt’in un tratto,
e ss’arifferma poi tutt’in un botto.
Mó sse
sdraglia sur letto a bbocca-sotto,
poi s’arza, penza e tt’arimane astratto,
soffia, invetrisce l’occhi com’un gatto,
arza la fronte e cce se dà un cazzotto.
Mó llegge un
libbro e scrive quer c’ha lletto:
doppo canta e arilegge quer c’ha scritto;
e ppe un par d’ora e piú fa sto giuchetto.
Inzomma in testa
j’ha ppatito er fritto;
ma, cquer ch’è ppeggio pe mmé poveretto,
nun cià un bajocco da pagà l’affitto.
«Dico,
ebbè? le levamo ste lenzola?
ché cqui ggiú co sto sciónnolo che ppenne
manco sce vedo a ffà le mi’ faccenne,
e ppe ggionta sc’è ppoi l’acqua che scola».
«Ve pijji una
saetta a ccamisciola
nunchetinova morti nostri ammenne
diteme indove diavolo ho da stenne,
quanno nun ciò cche sta finestra sola!».
«Ôh, inzomma,
o le levate, o vve l’acchiappo,
sora galantaria da sepportura,
e tanto tiro ggiú ffin che le strappo».
«Ma ppropio
le strappate, eh sora vacca?
E io si ccaso-mai, nun zò ffigura
da strappavve li peli a la patacca?».
Lui, propio er
mercordí de carnovale,
la trova: je tiè dd’occhio: je va appresso:
l’arriva sur portone: ar temp’istesso
je parla: l’accompaggna pe le scale:
senza
nemmanco dimannà er permesso,
entra co llei: la tira p’er zinale:
doppo tre ggiorni lei se sente male...
Bbasta, è ssuccesso poi quer ch’è ssuccesso.
E pperch’io
sbattajjai doppo tre mmesi
er zor Contino me mannò ssei scudi!...
Voressi tu cche nu l’avessi presi?
Li pijjai
perch’è un fijjo de famijja;
ma, ddico, sei scudacci iggnud’e ccrudi
pe l’onore che ssò, povera fijja?
E cciò
ccompro pur io corda e ggirella,
’na spianatora, un cuccomo de rame,
nove piatti, du’ chicchere, un tigame,
un treppiede, un zoffietto e una tïella.
No, ho
sfranto poco, perc’aveva fame
e spacciava pe ggnente, poverella!
Eppuro sc’era una gran robba bbella;
ma adesso c’è arimasto er maruame.
Quell’era
tutta robba c’ar marito
ch’era coco d’un prencipe che mmorze
questo je la lassò ppe bbonzervito.
E llei,
rimasta vedova, arisòrze
de venne tutto, appena l’appitito
l’apperzuase a ffà cquer che llui vòrze.
Pe
scappà da Don Pio, che mme fa er caro
e j’annava una scerta fantasia,
io scausarmente urtai la scrivania,
e ’ggni cosa volò ssin’ar zolaro.
Pènzete
quanno poi venne de via
er padrone e mme chiese er calamaro!
Lí ssu le prime me cascò un callaro
d’acqua bbullent’addosso, Angela mia.
Poi disse:
«Eccheme cqui: mmo er fatto è ffatto,
e jje confesserò tutt’appuntino.
Er calamaro l’ha sfassciato er gatto».
Ah! vve
penzavio, sposa, che noi fossimo
regazze d’accusà cquel’abbatino?
Io nun zò bbona de fà mmale ar prossimo.
Nun
c’è ppiú amor der prossimo, fratelli!
Cqua, pprima, un poverello era un ziggnore;
e adesso un poverello è un marfattore
da serrà cco le porte e li cancelli.
Nun
c’è ppiú ccarità, nnun c’è ppiú ccore!
Eppoi disce: «Iddio manna li fraggelli!».
Ma llassa fà, cché ssenza poverelli
se farà sto paese un bell’onore!
Come se
capirà, ssenz’accattoni,
si a Ggesucristo er popolo sce crede,
oppuro è una scittà dde framasoni?
Disce:
«Sempre darà cchi ssempre diede».
Quest’è un discorzo de li mi’ cordoni.
A cchi sse dà, cquanno ggnisuno chiede?
Sò
vvecchio, ho la polagra, ho un’istruzzione,
sto da tre ggiorn’e ppiú gguasi a ddiggiuno,
sò ddiventato che pparo ggnisuno,
cammino che nnemmanco un lumacone...
Bbe’,
ccurrenno a Rripetta è passat’uno,
m’ha ddato in ner passà ttanto d’urtone,
e ddoppo m’ha mmannat’imprecazzione
e pparolacce ch’iddio sarvi oggnuno!
Ma ddi’, che
te ne pare, padron Biascio?
Lui che volava via com’un uscello
l’ho urtato io che ccamminavo adascio!
E
st’impostura s’ha da dì ssur zodo?
A un incirca saría com’er martello
che sse volessi lamentà ccor chiodo.
Presidente,
archidetto, segretario,
sínnico, computista, fabbriscere,
esattore, ecolonimo, cassiere,
tutti abboccheno a ccresceme er zalario.
«Io te
sostengo, io nun te sò ccontrario,
io te do er voto, io ciaverò piascere,
è de dritto, è de ggiusto, è de dovere,
io lo trovo addescente, io nescessario...».
Ma cquanno
ste bbravissime perzone
le vado a rrisentí ddoppo er congresso,
«Eh, vv’è ccontraria la congregazzione».
E oggnuno
intanto torna a ddí ll’istesso:
«È de dritto, è de ggiusto, è de raggione:
ma... mma er conzijjo nun vò ddà ir permesso».
Ar quinto
momoriale ecco una sera
sente sonà a la porta er campanello,
opre, e vvede du’ abbati, uno arto e bbello,
l’antro ppiú bbasso e de grazziosa scera.
Allora er
primo, co bbona maggnera,
la salutò ccacciannose er cappello:
«È llei, disce, la vedova di quello
che llegava le ggioglie? È llei che spera...».
Ma cqui, mmentre
l’abbate, bbono bbono,
seguitava a pparlà cco ttant’amore,
’na fijjetta strillò: «Mamma, è Ppio nono!».
Cosa
vòi! quela povera pezzente
stette guasi llì llì ppe avé l’onore
de morijje d’avanti d’accidente.
Era un pezzo,
ma un pezzo assai lontano
ch’io fascevo la caccia a una regazza
giú ppe li colonnati, pe la piazza,
pe le logge, pe ttutto er Vatigano.
E ddiscevo
tra mmé: «Sò un gran gabbiano!
Sta strega me cojjona, me strapazza...».
Quanto jjeri ecco un panno che svolazza,
e mme vedo fà un zegno da una mano.
È
llei! Appizzo allora sott’ar portico,
da la parte che gguarda Bborgo Novo,
pe ccombinà l’affare de lo scòrtico.
Ma cquanno
sò a la porta de San Pietro...
cazzo! è un Domenicano! e mm’aritrovo
cor una man’avanti e un’antra dietro.
Se crede sta
cardea, perch’è ffrancese,
che nnoi sémo un stallone de somari,
e cqui nun ze capischi e nnun z’impari
la lingua che sse parla ar zu’ paese.
E che quanno sciangotta
cor Marchese
de l’affari de casa o dd’antri affari,
li su’ scescè sciusciú nun ziino chiari
quant’un ber mazzo de cannele accese.
Se n’è
accorta però sta puttanella
quanno c’oggi j’ho detto a l’improviso:
«Futter oví nnepà, mmadamusella».
E tt’abbasti
a sapé ssi sse n’è accorta,
c’a sto discorzo mio tanto prisciso
m’è arrestata lì in faccia mezza morta.
Nun me ne fo
ggnisuna maravijja
si ll’ha ttanto co mmé cquer zor fischietto.
Tutt’è pperch’io nun vojjo sto traghetto
che llui facci er cazzaccio co mmi’ fijja.
Figurete,
sò ddiesci de famijja,
nun cianno manco le lenzola ar letto!...
e vvò Nnèna? Pò dasse un Crist’in petto,
ma inzin che ccampo io, lui nu la pijja.
Sò
inutile co mmé tutte ste sscene.
Stia zzitto, stia: vadi a imparà cquarc’arte,
in cammio de fà er vappo e ’r Galimene.
Lui?! quer
grilletto?! a mmé?! le guance rosse?!
È aritornat’ar monno Bbonaparte?
Oh cqui ssí cche le purce hanno la tosse!
Uhm! ppe mmé,
ppiú cche penzo a sto penziere,
meno arrivo a ccapí, ssora Todora,
come diascusci mai la su’ sartora
se sii tant’incescita der barbiere.
Una che
ppotería fà la signora
annasse a incecalí cco cquer piviere,
che ffa ppoi quella razza de mistiere,
ché, ddio mio!, se ne casca a ddodisciora!
Ce voríeno pe
llei cose ppiú ggrosse,
un omo com’e mmé, ssodo, affonnato...
nò cquer pidocchio llí, cquer cacca-e-ttosse.
Si lo sposa,
ha da èsse un scenufreggio.
Guai a llei! fa un gran brutto pangrattato!
Ma! le donne s’attaccheno ar piú ppeggio.
Io je lo
disse a llei chiar’e llampante:
«Sopra de mé vvoi fatesce er croscione.
M’abbasta la fufiggna cor padrone,
senz’annanne a ccercà ttant’antre e ttante.
E
ssibbè tte liscenzî? Una gargante,
come che tté, ccià ssempre l’occasione:
quello che vviè a rriscode la piggione,
er compare, er viscino, er piggionante...
Io nun ce
sento, bbella mia: sò mmuro:
gnente: chi l’ha scottato l’acqua calla
dopo ha ppavura de la fredda puro.
Lei facci er
piascer zuo, facci la galla:
ma ppe sposatte io, tièllo ssicuro,
nun zò bbove da mette a la tu’ stalla».
Io me
n’entravo co la pasce mia,
quanno da un bussolotto in d’un cantone
sarta fora er munzú gguardaportone,
disce: «Che vvolevú? psch, marcé vvia».
«Ihí, ddico,
e cch’edè ttant’arbaggia?
Lei impari a ddistingue le perzone».
Disce: «Vu sè un gianfuttre», e ccor bbastone
me stava pe stirà la bbiancheria.
«Sete un
gianfutre vói, dico, sor utre
de ventaccio abbottat’ar cimiterio:
voi, parlanno accusí, ssete un gianfútre».
Come finí?
Finí c’a sta schifenza
bbisoggnava arispònneje sur zerio.
Ma cche vvòi che fascessi? usai prudenza.
Piena de
scianerie, d’imbrojji e cciaffi,
co cquer tantin de cacca e prosunzione,
pe llei nun ce voleva uno strucchione
ma un fumantino da pijjalla a schiaffi.
Ce voleva un
marito co li bbaffi
che jje sapessi arifilà er groppone:
che nun avessi un cazzo suggizzione
d’un po’ d’estri e ddu’ strilli e cquattro sgraffi.
Pover’omo!
Quer bon Padre Curato,
ch’è stato er manutengolo a ’gni cosa
te l’ha ffatto cascà ppropio ssciattato.
E stimo lui
che cce fasceva er vappo!
S’è sscerto una sgriggnappola de sposa,
che dde ’na bbotte de caroggne è er tappo.
Nun me sta
bbene a mmé dd’èsse la tromma
der zangue mio; ma, mmó cche nun me sente,
co llei, sor Pio, ch’è un giovene prudente
questo lo posso dì, ppovera Momma!
Sta
ggià in vent’anni e ancora nun za ggnente,
è ppropio una cratura, è una colomma:
e cquanno c’ha..., llei me capissce: inzomma,
se pò gguasi chiamà ttropp’innoscente.
E nun parlo
accusì pperché mm’è ffijja:
ché cchiunque co llei scià cconfidenza,
disce: «Bbeato lui chi sse la pijja!».
Basta,
lassamo sto discorzo ozzioso:
dico, e llei, sor Pïuccio, quanno penza
de trovà una regazza e ffasse sposo?
Sta vedovella
lo tiè ttanto vero
che lo sgrinfio la sposi a ccarnovale,
che ggià ttiè in pronto er zu’ letto nunziale
e un bell’abito rosso e un sciallo nero.
S’io perantro
ho da dilla tal e cquale
come la tengo in corpo, io nun ce spero:
pe mmé, cquer dritto nun je viè ssincero.
Vò er frutto quello llí, nnò er capitale.
E
ggnente-ggnente poi che llei se lassa
sgraffiggnà quarc’acconto de la dota,
uhm! nun te dubbità ché vvò stà ggrassa.
Sperà
ccore da lui! povera ssciòta!
Si jje spareno a cquello la carcassa
je sce troveno in cammio una carota.
Nò
spari, spari nò, Bbonaventura:
fammelo, va’, ppe l’amor de Pio Nono:
li spari a Nnastasia, nnun te cojjono,
je sò ppropio contrari a la natura.
M’abbasta
l’an passato la pavura
che sconciassi pe ccausa de quer tòno;
ché ppoi sce vorze der bello e der bono
pe ccacciajje da corpo la cratura.
Io nun te
dico che nun fai ggirello:
fallo, ma de funtane senza bbòtti,
o, ar piú, cquarche rrazzetto cor cannello.
E ssi cce
trovo poi bbattajjeria,
doppo che tt’ho appoggiato du’ cazzotti
pijjo mi mojje e mme la porto via.
E io che
ancora nun ho mmai possuto
ingranní ll’ostaria sott’a la torre?
Nun l’arrivo a spuntà cco cquer cornuto
compaggno de Nabbuccodonosorre!
Me
traccheggia, lo so, pporco futtuto!
ma cco st’omaccio vacce un po’ a discorre:
t’arisponne cor zolito irre-orre
e tte stracca a minuto pe mminuto.
E ll’antra de
volé cche cce se parli
sempre pe la trafila de la mojje,
piena de zzaganelle e zzirlivarli?
Ch’io je
darebb’un carcio, iddio ne guardi,
propio indove je pijjeno le dojje
quanno popola er monno de bbastardi!
J’ho da
annà dar facòcchio sott’all’arco,
pe vvisità li leggni e accommodalli:
poi da padron Cremente er maniscarco
pe rrimette li ferri a li cavalli:
poi dar
drughiere pe l’orpello e ’r tarco
da stajjuzzà li sbruffi bbianchi e ggialli:
poi ggiú pp’er corzo a accaparrajje un parco:
ortre un antro ar festino pe li bballi...
Lei ggira
tutto er zanto carnovale:
perantro, ve’, nun je n’importa ggnente:
anzi, pe cquer che ddisce, je fa mmale.
E ccredo
guasi che ssi cqui nnun fossimo...
Bbasta, lei vò vvedé ggode la ggente:
va a ddivertisse per amor der prossimo.
Me sò
ddunque inzoggnata un ber cestino
pien de scetroli e cco un uscello rosso,
che mme guardava e ddiventava grosso
come cresce in dell’ojjo uno stuppino.
Poi me veniva
a svolazzà vviscino:
e a l’improviso me zzompava addosso
e mme fischiava poi drento in un fosso
che nun era ppiú ffosso, era un giardino.
E me pareva
poi d’avé mmagnato
queli scetroli e avé la panza piena
e de sentí la vosce der curato.
Allora me
svejjai co ttanta pena
che nun potevo ripijjà ppiú ffiato.
Che vorà ddì st’inzògno, eh sora Nena?
Eh fijja mia,
pe cquer che cce sbologgno,
co cquelli tu’ scetroli e cquel’uscello,
questo te posso dí, vvacce bberbello,
e nnun te sce fissà ttanto er cotoggno.
E ssi averai
ggiudizzio in ner cervello,
credeme, fijja mia, nun c’è bbisoggno
d’ariccontanne un ètte de st’inzoggno
a ttu’ padre, a ttu’ madre e a ttu’ fratello.
Pe ssolito
st’uscelli e sti scetroli
quanno ggireno attorno a una regazza
a la longa nun vengheno mai soli;
ché appress’a
llòro in capo a cquarche mese
comparisce un pupazzo o una pupazza
a spiegà cquel’inzoggni in ner paese.
Tu ddichi che
lui sta nne li contorni
de Fiorenza a sserví cco una famijja:
de cqui e là ce saranno un cento mijja:
queste er curiere le pò ffà in sei ggiorni:
tu mannassi
la lettra la vigijja
de San Filippo ch’io ggiucai li storni:
lui, ar conto ch’io ffaccio, oggi la pijja;
e la risposta ggià vvòi cc’aritorni?
Aspetta un
po’: nn’avemo oggi... trentuno:
dajje un tre ggiorni pe ppotella scrive
o ppe ffassela fà dda quarchiduno.
Dunque: uno, dua
e ttre: ttre e ssei fa nove:
bbe’, er diesci ggiuggno, si ssaremo vive,
vierò a ttrovatte e mme darai le nove.
Pò
èsse a Rroma che cce sii ppiú spesa,
perché er governo ha ppiú grossa la bborza;
ma in fonno poi nun ce vò ttanta forza
pe ffà ccurre du’ bbestie a la distesa.
E cquant’a
cquesto, m’aricconta Aggnesa
che ppuro ar zu’ paese in Vallecorza,
li cavalli che ccurreno a la corza
curreno da la smossa a la ripresa.
Sibbè,
ppuro la spesa, caro lei,
nemmanco è ttanta, ve’ , pperché li pajji
sò ttutti o gguasi tutti de l’ebbrei.
E ssu li
premî credo che llei sbajji,
perché in certe materie nun zaprei
si er governo sii lui quello che squajji.
Eppoi m’ammascherai
giuveddí ggrasso
co Nnunziata e la sposa de Cammillo,
e cquer giorno mettessimo er ziggillo
e ddio sa ssi fascessimo fracasso.
Pe ttutto er
corzo nun movemio un passo
che intorno a nnoi se sentisse un strillo
perché è inutile, via, nun fo ppe ddillo,
ma stamio propio bbene: èrimo l’asso.
D’accordo
tutt’e ttre, cc’èrimo prese
un bell’abbito-a-nnolito compagno,
tutto-quanto de seta all’arbanese
E cco la
nostra mmaschera e li guanti
portamio uggnuna in mano un scacciaragno
pe scopettacce er gruggno a ttutti quanti.
Finarmente
è spicciato carnovale,
corze, bballi, commedie, oggi ariduno:
sò ttornate le scennere e er diggiuno:
mó de prediche è tempo e de caviale.
De tanti
sscialacori oggi gnisuno
pò ssoverchià chi non ha uperto l’ale:
er zavio e ’r matto adesso è ttal e cquale:
o ss’è ggoduto o nnò, ssemo tutt’uno.
Addio
ammascherate e carrettelle,
pranzi, cene, marenne e colazione,
fiori, sbruffi, confetti e carammelle.
Er carnovale
è mmorto e sseppellito:
li moccoli hanno chiusa la funzione:
nun ze ne parla ppiú: ttutt’è ffinito.
Chi
mm’è entrato in bottega, eh ssor’ostessa?
Sete voi, fratiscello? e cche vvolete?
Volete la limosina? tenete:
pregat’iddio pe mmé ddrent’a la messa.
Come sarebb’a
ddí? nnun zete prete?
Ma er cappuccio e la tonica è l’istessa.
Nò, pper interressà nnun m’interressa;
ma ssò ccuriosa de sapé cche ssete.
Sete laico?
ma llaico in cuncrusione
che ssiggnifica? ah ssí, mme n’aricordo:
frate laico vò ddí ffrate torzone.
Bbasta, v’ho
ddato da riempí la panza;
ma un’antra vorta, e nnun me fate er zordo,
portateme un tantin de misticanza.
E ancora nun
ritorna co sta tela!
Nun c’è ccaso: chi vvò le cose leste
basta in un logo de mannacce Oreste,
ciarivedemo a llume de cannela.
Ma ssi un
giorno me sarteno le creste,
oggi o ddomani che mme pìa de vela...
Eccolo er zor-don-Dezzio-co-le-mela!
se ne viè ccor passetto de le feste!
Ôoh bben
tornat’a llei, caro sor moncio:
lei è scarmato assai: pijji una ssedia:
commanna vino? gradirebbe un pòncio?
E cche nnove
sci dà, sor cul-de-piommo?
È stato forzi a vvede la commedia
der viaggio di Cristofeno Colommo?
E in ste
patacche muffe, sor Pisano,
ce sapete trovà ttante bbellezze?
Ho ppaura che in cammio de ricchezze
ve troverete co le mosche in mano.
Ce vò
antro che a ffuria de carezze
smiccialle da viscino e dda lontano:
voi (ve lo disce un povero gabbiano)
ciarimettete l’unguento e le pezze.
Già
vve ce sete mezz’indebbitito;
e ffinissce a lo striggne de li conti
che pperderete poi nicch’e ppartito.
Guardate
quello a strada de la crosce:
sibbè lo porta er cavajjer Visconti,
nun pò ccaccianne né ccucca nné nnosce.
Fort’ar
discorzo. Io dico si la vasca
oggi tocca a vvojantre o ttocca a nnoi;
e ttu cce schiaffi immezzo er zor Belloi,
la piggione, er giudio, l’ova, la lasca...
Fijja, nun me
sartà de pal’in frasca:
si nun me voi capí, ffa’ cquer che vvòi.
Me n’annerò dar prisidente; eppoi,
quann’ha pparlato lui, chi ccasca casca.
E ssenti a
mmé cche pprofezzia te faccio:
co sta connotta tu e le tu’ sorelle
presto, ve lo dich’io, date er bottaccio.
Curato e
pprisidente de l’urione
je sa mmill’anni ggià, ccocche mi’ bbelle,
de levavvese dalla divozzione.
Quanno stavo
a Ppavia cor padroncino
io m’accorze una vorta, anzi piú d’una,
c’upriva a mmezzanotte un finestrino
e sse metteva a ccontemprà la luna.
Dico: «Che
cc’è de bbello, sor Contino?».
Disce: «Tasci: nun zai la mia furtuna?
guardo quer che mo gguarda ir ber divino
cijjo de la contessa di Varbruna».
E ssiccome
tra mmé e la cammeriera
c’era quer [che] tra llui e la padrona,
ché, nnerbigrazzia, quarche cosa c’era,
je fesce er
giorn’appresso: «Di’ un po’, Oliva:
stanotte a mmezzanotte sta drondrona
che ccosa stava a ffà?». Ddisce: «Dormiva».
È
ubbidiente, è aggrazziata, è de bbon core,
je piasce er lavorà, ppovera fijja,
ché ttutto er po’ de svario che sse pijja
è de ssceggne la sera in coritore:
diggiuna a
ppan’e acqua oggni viggijja,
abbada sempr’a ssé, nun fa l’amore...
ché in quant’a cquesto poi, sur punto onore,
ve la do pe l’Ottavia maravijja.
L’unica cosa
che mme tiè sturbata
è cche da un mese e mezzo, poverella,
me la trovo un tantino sscinicata.
Da quela
santa notte, sora Stella,
c’annò ggiú ppe ssentí una serenata,
fussi l’aria o cche sso, nnun è ppiú cquella.
«Sette de
coppe? Ammazza, Margherita».
«Nun posso». «Passa un carico». «D’uetta».
«Ma ddunque in mano cosa ciai? puzzetta?»
«Cosa ciò! cciò una briscola vistita».
«E nemmanco
pòi mette una miggnetta?»
«Ôh, inzomma io vado lisscio, ecco finita».
«E accusí avemo perzo la partita».
«Cosa te sciò da fà co sta disdetta?»
«Sú,
mmostramo le carte. Eh, un ber tesoro!
Un fante! Ebbè? che tte ne fai, sorella?
Cianno asso, tre e rre: ssò ttutte lòro.
E sséguita a
ddurà la svenarella!
A bbaiocc’a bbaiocco, pe ddio d’oro,
ggià ssò ar papetto. È una gran porca jjella!».
Sí, jj’ho
ddato der ladro, e ttu ddirai
che lladro è fforzi un termine un po’ brutto;
ma jj’ho ddato der ladro assciutt’assciutto,
e ssu l’onore nu l’ho ttocco mai.
L’onore che ttiè llui dunque è de strutto
si ppe un gnente ce fa sto tatanai:
bisoggna dí che cce n’ha ppoco assai
si una parola je lo squajja tutto.
Der ladro, e
nnun ze sturbeno, lo do
puro a ttant’antri; e ccome questo cqua
s’abbi da offenne tanto, io nu lo so.
J’ho ddetto
ladro: ebbè? cche mmai sarà!
Pe un êlle, un’a, un dê, un êrre
e un ò,
c’entra tutta sta gran pubbriscità!
Com’aveva
d’annajje a cquer Mammoccio?
J’è ita che in tre anni e cquarche mmese
s’è vennuta la robba der paese
e a Roma ha bbastonato er forn’a ssoccio.
Sin che de
sugo ce n’è stato un goccio
l’ha spremuto da prencipe Bborghese,
e a ffuria de spropositi e de spese
poi j’e ttoccato a ddí: semo a ccartoccio.
La gran
risorta sua nu la sai, Teta?
Pijjà in piazza quadrini su li fonni
e ddàlli su le punte de le deta.
Nun te pare
un bonissimo interresse?
Questi cqui ssò gguadaggni monni monni
com’er pijjà da tesse pe ddà a ttesse.
Padre curato
mio, per che raggione
Lei nun vò ffamme dunque la passata
pe cconcorre a la dota a la Nunziata
si mme càpita mai quarc’occasione?
Nun zò
fforzi una ggiovene onorata?
Lei me pare, m’ha ppoco in condizzione.
Gnisun curato m’ha ffatte st’azzione
in quinisci parrocchie che ssò stata.
Lei sappi che
mi’ padre era sargente,
e cche mamma è ffijjastra d’un notaro
che, ggrazziaddio, nun ze ne pò ddí ggnente.
L’azzione mia
le posso mette in mostra:
e ppoi, Lei lo dimanni ar campanaro
che vviè ttutti li ggiorni a ccasa nostra.
Nun me
vò? nnun me pijji: se ne stia:
facci la pasce sua: nun me ne curo.
Mica me sce darò la testa ar muro:
mica sce schiatterò, Bbríscita mia.
Già
cche mme vò llassà, mme lassi puro:
nun ce sarà ppiú vvino a l’osteria?
Vadi, se roppi er collo, scappi via,
ch’io nu jje curro appresso de sicuro.
Come?! quanno
l’ha ddetto, era ubbriaco?
Caro! metteteje er detino in bocca!
Che bbelle scuse, povero sciumaco!
Cosa disce er
curato? «In vino vèrita».
Io, pe rregola sua, nun zò una ssciocca.
Ggnente: chi nun mi vòle nun mi merita.
No, ppe la pura
verità, ssor’Anna,
questa cosa-che-cqui bbisoggna dìlla:
in quant’a ccore, er core de Cammilla
pare propio una cammera-locanna.
Voi lo
vedete, che ssi ccià una spilla
ve ne manna un pezzetto, ve ne manna;
e cquanno stavio male a la filanna
chi vve curze a ppijjà la capomilla?
Dunque,
sorella, nun ve facci spesce
si cquer giorno che cc’era Sarvatore
lei fascessi pe llui quello che ffesce.
O bbene o
mmale, o amore o nun amore,
lassatele sfiatà ste bbrutte scêsce:
è stato tutt’affetto de bbon core.
Mannaggia er
corpo tuo! co sta caterba
de debbiti, sce vòi l’abbito novo?
Nu lo vedi, per dio, che m’aritrovo
drent’a la frateria de la Minerba?
Te sei
maggnata la gallina e ll’ovo,
hai corta l’uva fatta e ll’uva ascerba,
m’hai fatto vvenne li lavori in erba...
e mmó cchi bbollo? l’anima de Bbòvo?
Ôh, ssai che
tt’ho da dí? cche ttu mme puzzi
de caroggnaccia fràscica, commare.
Pe ccontentatte, m’ho da fà a ttajjuzzi?
Bbe’,
vvattene e ffinimo ste caggnare.
E cquann’ho vvinto una partita a ttuzzi,
allora te farò cquer che tte pare.
A la larga,
munzú, dda scerta ggente!
Quanno viè llei, de bbotto io faccio tela.
Co cquer brutto stuppino de cannela
nun m’aggarba de stacce un accidente.
Ah nnun lo
sa, la pover’innoscente,
che tratta mi’ marito e sse lo pela?
Ma st’istoria finissce co le mela,
e a llongo nun pò annà cche sse ne pente.
Sinora
è llei che mme la fa ppulita:
ggiucamo a ppar’e sséparo da un pezzo;
ma nun zempre se vince la partita.
Co cquer ber
muso che tte smove er vòmmito!
Ma abbadi a llei, cché ssi rroppemo er prezzo,
forzi averà da mozzicasse er gómmito.
Eh, fijja, da
chi vvôi che mm’arivorti?
Li parenti sce ll’ho, ma ssò pparenti.
Ce n’ho, ar meno che ssia, quìnisci o venti;
ma da un pezzo pe mmé ssò ttutti morti.
Sin che
ppòi dajje da arrotà li denti
te li porti p’er laccio, te li porti:
ma, ggnente-ggnente poi che sse sò accorti
ch’er cammino è smorzato, aria a li vênti!
Fijja, er
monno va appresso a la furtuna;
e la furtuna, tu lo sai pe pprova,
va ssiconno li quarti de la luna.
Ce vò
ppascenza: nun è cosa nôva.
La casa de la ggente che ddiggiuna
sta llontano, e ggnisuno l’aritrova.
Che tte
discevo io, Bbetta? lo vedi?
Te ne se’ accorta che cchi sta in miserie
trova tutte le facce serie-serie,
e jje parleno appena in pied’in piedi?
Nu lo volevi
crede: e mmó lo credi?
Quanno una casa casca, le mascerie
se venneno a ccarrette: e st’improperie
l’ho aùte puro io quanno sciaggnedi.
Ce sei
vorzuta annà: bbe’, ccos’hai fatto?
Nemmanco un po’ de pane e un po’ de schiuma
come danno oggni ggiorno ar cane e ar gatto!
Se cunzuma
tesori, se cunzuma,
e a nnoi ciabbasteria tra ttanto ssciatto
un descimo de quello che sse fuma!
Pijjete
dunque er momoriale, Marta,
e pportelo accusí ssotto ar zinale;
e ddi’ a cquanti tu incontri: «Signor tale,
facci er piascere, legghi un po’ sta carta».
Te va a
sbiescio la prima? poco male:
ma a la siconna, a la terza, a la quarta,
si ppropio er monno nun ze va a ffà squarta,
vederai che tte frutta er momoriale.
Dirà
cquarcuno: «De chi ssete fijja?».
Tu allora abbassa l’occhi e ddi’ ttremanno:
«D’una povera madre de famijja».
A cquanti,
fijja mia, nun te ne danno
dijje: «Pazienza». Da chi ddà, tu ppijja,
ma nun avé mmai resti ar tu’ commanno.
A cchi avemo
ggià dato er momoriale?
Ripassamo un po’ er conto, fijja mia.
A li Bbrevi, in Consurta, in Dataria,
ar Papa, ar cumputista cammerale,
a li Sussidî,
in Limosinaria,
ar prelato che ffanno cardinale,
ar Vicario, a l’impresa, a ddon Pasquale
pe li spojji e cquell’antra Opera-pia...
Sò
dodisci; e ccinqu’antri stanno in lista:
p’er tesoriere, p’er governatore,
p’er Zenato, p’er Monte e pp’er Zagrista.
Poi er
Zenzale sce porta domani
quelli pe la Bborghesi e le siggnore,
e ppe ttutti li prencipi romani.
Nina, sai
c’hai da fà? bbuttete addosso
presto-presto quer cencio de mantijja,
e vva’ a bbussà dda la sora Scescijja,
che inzin’a ggiuveddí mm’impresti un grosso.
Sí nun ce
trovi lei, dillo a la fijja,
e cche ssei ita tu perch’io nun posso,
ché cciò un dolore cqui ddrent’in un osso
che mme fa spasimà cquanno me pijja.
E ssi tte
tocca sull’antro testone
ch’io je chiese pe ffacce le lasaggne,
risponneje ch’è ttroppo de raggione.
E ssi mmai te
fascessino le caggne,
allora tu, ssiconno l’occasione,
pe mmovele a ppietà, méttete a ppiaggne.
Annamo a
l’osteria de la corona:
bbe’? ffavorissce lei, sor bragalisse?
Che? nnun ce vò vveni? bbravo, pe ccrisse!
ce ne..., mme spiego?, una bbona fattona.
Senza la
faccia sua da bbiribbisse
tanto se bbeve, se canta e sse sona;
perché nnoi semo ggentaccia a la bbona
che cce piasce a stà alegri e ddivertisse.
Se cosci puro
in de l’acquaccia sua;
e ssi jje puzza er fiato der cristiano
pijji casa in ner ghetto de la rua.
E nun facci
la ronna da lontano,
ché, ddímolo in zegreto fra nnoi dua,
questo puzza un tantin de paesano.
Bbrava! ma
ssai che ccanti bbene, Arbina?
Sentite llí ssi cche bbelli trilletti!
E pperché cco sta vosce nun te metti
sur teatro de Valle o dd’Argentina?
Te dich’io li
bbanchi e li parchetti
li faressi affollà dda la matina;
ché cciài ’na grazzia a ffà la canterina
quanta n’ha ll’órzo a llavorà mmerletti.
Hai cantata
quell’aria, Arbina mia,
che ssi cc’era Madama Melibbranni
se sbajjava la porta a scappà vvia.
Manni dar
corpo una voscetta, manni,
che, ss’opri bbocca da piazza ggiudìa,
s’attureno l’orecchie a Ssan Giuvanni.
Sora Crestina
mia, pe un caso raro
io povero cristiano bbattezzato
senz’avecce né ccorpa né ppeccato
m’è vvienuto un ciamorro da somaro.
Aringrazziat’iddio!
l’ho ppropio a ccaro!
E mme lo godo tutto arinnicchiato
su sto mi’ letto sporco e inciafrujjato,
come un zan Giobbe immezzo ar monnezzaro.
Che cce
volemo fà? ggnente pavura.
Tant’e ttanto le sorte sò ddua sole:
drento o ffora; o in figura o in zepportura.
E a cche
sserveno poi tante parole?
Pascenza o rrabbia sin ch’er freddo dura:
staremo in cianche quanno scotta er zole.