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Un doveroso ringraziamento va a quanti, con serio e minuzioso lavoro, permettono la fruizione di testi informatizzati attraverso l’opera di siti come www.liberliber.it. Molti degli scritti che seguono sono il prodotto della loro encomiabile azione.

  


 

 

 

 

Le rivolte cittadine del 1300

I Ciompi. Ciuto Brandini

 

AA.VV

 


INDICE

Sommario

CRONOLOGIA DELLE RIBELLIONI CONTADINE E CITTADINE FRA XIII E XVI SEC. 2

IL TUMULTO DEI CIOMPI   DI ORNELLA MARIANI 4

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA DI  FRANCO FRANCESCHI 8

 

Ciuto Brandini 28

Indice. 29

Storia della rivolta   29

Presupposti   29

Scoppio della rivolta   29

Echi cronachistici e storiografici   29

La figura di Ciuto Brandini e la rivolta dei Ciompi   30

Note   30

Bibliografia   30

Voci correlate   30

 

Rivolte popolari del XIV secolo. 31

Note   32

Bibliografia   32

Voci correlate   32

 

Tumulto dei Ciompi 33

Indice. 33

I Ciompi   33

La rivolta   34

Piazza dei Ciompi   35

Bibliografia   35

Voci correlate   35

 

Arti di Firenze. 36

Indice. 36

La formazione   36

Le Arti Maggiori   38

Le Arti Minori   41

L'ascesa politica   42

Le Arti nel Trecento   43

Il tumulto dei Ciompi   44

Le Arti nate dal Tumulto dei Ciompi   44

Il declino e la soppressione   44

Bibliografia   46

Voci correlate   46

 

 

 

 

 

Cronologia delle ribellioni contadine e cittadine
fra XIII e XVI sec.

 

Jacquerie (1358)
Ciompi (1378)
Tyler e Ball (1381)
Memmingen (1525)
Giacobinismo (1792-94)

 

1289

Tumulto dei follatori a Bologna.

1296-1306

Tensioni sociali a Douai (Fiandre).

1311-13

Scioperi in diverse città dell’Inghilterra e delle Fiandre.

1320

Movimento dei «pastorelli» in Francia: si congiungono motivi di protesta religiosa e rivendicazione sociale.

1323-28

Rivolte contadine e urbane nelle Fiandre (stroncate dall’esercito francese).

1337

Scioperi a Gand (Fiandre).

1340

Rivolta contadina in Danimarca.

1344

Tumulti dei tessitori a Poznan (Polonia)

1345

Scioperi e disordini a Firenze dopo l’arresto di Ciuto Brandini che aveva cercato di organizzare una fratellanza tra cardatori e operai non appartenenti alle arti.
Scioperi a Gand (Fiandre).

1346

Agitazioni e scioperi a Firenze.

1346-54

Scioperi e agitazioni, congiunte con manifestazioni antisemite, a seguito dell’epidemia di peste in diverse aree della Germania e della Francia.

1358

Jacquerie nelle campagne francesi e sommossa di Etienne Marcel a Parigi.

1363-84

Movimento dei tuchins (miserabili) in Linguadoca (Francia), estesosi poi in Piemonte.

1375-95

Scioperi in Polonia contro il divieto di costituire associazioni di lavoratori salariati.

1377-84

Agitazioni e ribellioni in diverse città della Boemia.

1378

Moti e agitazioni a Puy e a Nimes (Francia).
Tumulto dei Ciompi a Firenze.

1379

Disordini e sollevazioni a Gand e in diverse città francesi.

1380

Sollevazioni nelle Fiandre (soprattutto a Bruges e a Gand).
Agitazioni antifiscali in diverse località della Francia. Disordini a Lubecca (Germania).

1381

Moti a Gand e in alcuni centri della Francia.
Rivolte in Inghilterra: i ribelli, dopo avere preso Canterbury, entrano a Londra (giugno); segue una dura repressione (luglio/agosto) per l’intervento del re e dei nobili.

1382

Rivolte antifiscali in Francia; agitazioni a Parigi e a Rouen (stroncate l’anno dopo).

1395

Iniziano in Catalogna le agitazioni dei contadini spagnoli, che per quasi un secolo si opporranno ai loro signori (fino al 1471).

1411

Agitazioni nelle campagne dello Jütland (Danimarca).

1419-36

Guerre hussite in Boemia (nel 1420 i taboriti fondano la loro comunità).

1422-31

Rivolte contadine nella Francia centro-meridionale.

1435-65

Vari episodi di ribellismo assieme a forme di brigantaggio nelle campagne francesi.

1436-40

Sollevazioni dei contadini in Scandinavia.

1450

Rivolta di ispirazione lollarda (seguaci di Wycliffe) in Inghilterra.

1462

Ribellione dei contadini catalani (Spagna).

1484-87

Ondata di sollevazioni in Spagna.

1487-1517

Susseguirsi di rivolte contadine in Germania. Nel 1517 Lutero affigge le sue 95 tesi.

1521-23

Ribellione dei Cavalieri (piccola nobiltà) contro i grossi feudatari laici e ecclesiastici tedeschi.

1525

Müntzer è uno di capi della rivolta dei contadini che seguono le idee di Lutero: articoli di Memmingen (Germania).

1649

Il Rump Parliament di Cromwell condanna a morte Carlo I Stuart.

1662-75

rivolte di Boulogne; Vivarais; Bordeaux, Bretagna, Rennes contro il fiscalismo di Luigi XIV.

 



Il tumulto dei Ciompi

di Ornella Mariani

La stagione medievale compresa fra il 1289 ed il 1381 fu impegnata da una serie di rivendicazioni: un filo rosso segnò tutta l’Europa, legando le rivolte urbane della Fiandra alla ribellione rurale della Jacquerie francese di Jacques Bonhomme; l’insurrezione inglese di Tyler e Ball alla lotta dei Ciompi, non di rado saldando esigenze sociali ad interessi religiosi, come evidenzia la scheda di sintesi degli eventi:

1289: tumulto dei Follatori a Bologna;

1296/1306: tensioni nelle Fiandre di Douai;

1311/ 1313: ondata di scioperi in vari centri inglesi;

1320: protesta dei Pastorelli francesi;

1323/ 1328: sommosse contadine e urbane ancora in Fiandra;

1337: ostinate astensioni dal lavoro a Gand;

1340: disordini dei contadini in Danimarca;

1344: torbidi dei tessitori nella polacca Poznan;

1345: scontri a Firenze, per l’arresto di Ciuto Brandini, ideatore di una fratellanza tra cardatori e operai non aderenti alle Arti;

1345: ulteriori insurrezioni a Gand;

1346/1354: ribellioni antisemite accese dal contagio di peste in vaste aree fraco/tedesche;

1358: esplosione della Jacquerie nelle campagne francesi e sollevazione di Étienne Marcel a Parigi;

1363/ 1384: fermenti dei tuchins in Linguadoca e Piemonte;

1375/ 1395: proteste in Polonia contro il divieto di associazionismo dei lavoratori salariati;

1377: agitazioni in Boemia.

1378: moti a Puy e a Nimes;

1378: manifestazione dei Ciompi a Firenze;

1379/ 1381: incidenti a Gand,a Bruges e a Lubecca;

1381: marcia dei contadini su Londra ed assassinio del Primate di Canterbury.

Fra le circostanze elencate, ai fini della evoluzione del costume e dell’economia in Italia, quelle di Firenze furono certamente dotate di rilevante spessore.

A quel tempo, la gerarchia politico/sociale era costituita da un Popolo grasso, ovvero le ricche Arti Maggiori; un Popolo minuto, ovvero le borghesi Arti Minori; un Popolo magro, ovvero proletariato bracciantile, operai e commercianti minori collassati dalla crisi economica causata dalla Peste nera, nella seconda metà del ‘300.

I Ciompi, il cui nome derivava dalla corruzione del termine francese compère, erano lavoratori salariati della lana; appartenevano ad uno dei gradini più bassi della scala sociale; avevano come luogo di ritrovo la chiesa di santa Maria dei Battilani in Via delle Ruote; erano privi di rappresentanza nel sistema corporativo delle Arti e dei Mestieri e, pertanto, non godevano di alcuna attenzione politica e venivano pagati in quantità appena utile alla sopravvivenza, con una sottodivisione del fiorino.

La svalutazione del rame, col quale la moneta era coniata, fu all'origine della loro sommossa: nel 1378 essi accamparono il diritto di associazione e di presenza comunale, ponendosi fra i primi esempi di reazione economico/politica del Medio Evo.

La vicenda  

Cominciò con le violente lotte fra la fazione aristocratico/borghese del Magistrato guelfo Pietro degli Albizzi, di Lapo di Castiglionchio e di Carlo Strozzi e la consorteria piccolo/borghese dei Ricci, degli Alberti, dei Medici, di Giorgio Scali e di Tommaso Strozzi colpiti nel 1372 dall’Ammonire: la legge, emanata nel  1347 ma inasprita nel 1358, condannava i ghibellini all’interdizione sine die dalle cariche pubbliche, accentuando l’ arroganza dei Capitani guelfi ed instaurando una odiosa politica della sopraffazione.

I primi sintomi di rinnovato malessere si manifestarono il 18 giugno del 1378 quando d'intesa con Alberti, Strozzi e Scali, il Gonfaloniere di Giustizia Silvestro dei Medici convocò il Collegio delle Compagnie e il Consiglio del Popolo proponendo una la rimessa in vigore per un anno degli ordinamenti giudiziari contro i Grandi; la diminuzione dell’autorità dei Capitani ed il reintegro degli Ammoniti nei loro uffici. Ma, a fronte dell’opposizione alle richieste, espressa la impossibilità a provvedere al pubblico benessere per l'ostracismo della Signoria, egli si dimise dall’incarico.

Le sue dichiarazioni, tuttavia, allarmarono il Consiglio del Popolo fino a rendere necessaria la presenza dei Priori che, lungi dal placare la concitazione, la accesero minacciando di morte i sostenitori degli Albizzi mentre Benedetto Alberti dalla finestra eccitava la gente al grido di Viva il popolo!

Chiuse le botteghe, la piazza si armò e il pericoloso fremito di reazione portò all’approvazione delle pretese avanzate da Silvestro. Il positivo risultato, però, produsse altre rivendicazioni; rimise in gioco la rivalità tra le Arti Maggiori e le Arti Minori; rilanciò il disagio degli Artigiani, subordinati alle soverchierie delle Arti.

Il 20 giugno le Corporazioni si riunirono e procedettero all’elezioni dei Sindaci per poi recarsi, munite di armi e bandiere, in piazza della Signoria ove ottennero la nomina di una Balìa di ottanta  cittadini con facoltà di presentare riforme.

Mentre se ne selezionavano gli esponenti, alcuni membri delle Arti Minori con nutriti gruppi di contadini saccheggiarono ed incendiarono le abitazioni di Lapo da Castiglionchio, degli Albizzi, dei Bondelmonti, dei Pazzi, di Cario Strozzi, di Migliore Guadagni.

II 21 giugno, disorientata dai violenti incidenti del giorno avanti, la Balìa approvò importanti concessioni a favore del Popolo; revocò una serie di disposizioni riferite all’autorità dei Capitani ed emanò un’amnistia agli Ammoniti, limitandone l’esclusione dalle pubbliche funzioni ad un solo triennio.

Ripristinata la pace, furono eletti i Priori ed il nuovo Gonfaloniere, nella persona di Luigi Guicciardini: entrata in carica il 1° luglio, la Signorìa ordinò ai cittadini di deporre le armi; allontanò i protagonisti delle turbolenze dei giorni precedenti; assunse una serie di iniziative a garanzia della sicurezza pubblica.

Ma, malgrado le apparenze, gli animi erano ancora accesi; non era stato rispettato il disarmo e gli Ammoniti protestavano contro l’insufficienza dell'amnistia.

Le Corporazioni, pertanto, si riunirono nuovamente l’11 luglio ottenendo che: chi, dopo il 1320, avesse ricoperto una carica sociale di rilievo, non potesse essere ammonito e, se lo fosse già stato, venisse reimmesso nel suo diritto; il Capitanato di parte guelfa fosse sottratto alla fazione fino ad allora titolare; fossero imborsati i nomi dei futuri Capitani.

In definitiva, dai vantaggi restò escluso il solo Popolo minuto i cui esponenti, temendo d’essere puniti per l’adesione ai torbidi; impauriti dalle conseguenze dei saccheggi cui avevano partecipato ed aizzati da Simoncino Bugigatti, Paolo della Bodda, Lorenzo Riccomanni, organizzarono un piano segreto di difesa contro i provvedimenti della Signorìa che, edotta del complotto, ordinò l’arresto e la tortura del Bugigatti e di tre compagni.

E fu la rivolta dei Ciompi.

Il 20 luglio del 1378, al suono delle campane delle chiese, essi si armarono; bruciarono la casa del Gonfaloniere di Giustizia, asportandone il drappo; ottennero la liberazione dei tre detenuti e il giorno dopo assaltarono il Palazzo del Podestà donde inviarono un duro ultimatum alle Istituzioni cittadine,  dettando secche ed ineludibili condizioni: abolizione del Giudice straniero dell'Arte della lana; creazione di tre nuove Corporazioni dei Mestieri; concessione al Popolo della quarta parte delle cariche pubbliche, compreso il Gonfalonierato di Giustizia; sospensione per un biennio dei giudizi per debiti inferiori ai cinquanta fiorini; limitazione del potere dei Capitani.

La Signoria accolse le istanze e il Consiglio del Popolo le approvò in attesa della ratifica del Consiglio comunale che, per legge, poteva essere riunito solo nel giorno successivo.

I Ciompi attesero, ma pretesero che le chiavi delle porte cittadine fossero consegnate ai Sindaci delle Arti e che i Priori licenziassero le milizie impegnate sulla piazza.

Il 22 luglio, mentre l’assise comunale si accingeva a pronunciarsi sulle richieste, i Ciompi intimarono alla Signorìa di abbandonare il palazzo: Tommaso Strozzi e Benedetto Alberti obbligarono i Priori ad uscire minacciando, in caso di resistenza, il massacro delle loro famiglie.

L’accoglimento delle pretese suscitò un’ondata di trionfalismo, enfatizzata dalla esibizione del gonfalone di giustizia  da parte del giovane cardatore di lana Michele di Lando. Acclamato Gonfaloniere, egli fu incaricato anche di riformare la Signoria; tuttavia saggiamente accettò solo il primo onere e, insediatosi, vietò ogni ricorso alla violenza; creò le tre nuove arti dell'Agnolo, dei Cardatori e dei Farsettai e, in onore ai patti, fece eleggere nella metà della nuova Signoria i designati del Popolo.

Il 24 luglio i neoeletti occuparono gli uffici; garantirono alla città la rimozione di tutti i vecchi rancori; richiamarono gli esuli; condonarono le pene per i fatti avvenuti; conciliarono con la volontà popolare le nuove imborsazioni del Comune ordinate dalla Balìa; divisero i ruoli in parti uguali fra le Arti Maggiori e Minori e la recenti istituite dai Ciompi che, da quel momento, contarono su Magistrati scelti dal proprio gruppo e, a tutela dei loro interessi, sedettero nei Consigli della Repubblica.

A conferma della generale pacificazione, nella Messa celebrata il 3 agosto in San Giovanni, presente la Signoria, fu revocato l’interdetto ecclesiastico.

Persuasi del buon esito della rivoluzione e del miglioramento delle loro condizioni economiche e politiche, i Ciompi si ritrovarono, invece, privi di lavoro e reddito: a causa dei tumulti, le fabbriche erano state chiuse.

L’aumento della disoccupazione produsse nuove turbolenze.

Il 27 agosto una riunione in piazza San Marco; un’altra in Santa Maria Novella ed una terza davanti al Palazzo della Signorìa degenerarono in scontri brutali: l’esame delle nuove proteste fu affidato ai nuovi Priori che sarebbero entrati nella carica solo il successivo 1° settembre.

Il 31 agosto fu rinfacciato al Gonfaloniere Michele di Lando il disinteresse per le difficoltà economiche di quanti lo avevano eletto e gli fu duramente ingiunto di dimettersi: irritato da tanta insolenza, egli pose mano alla spada; fece arrestare i sediziosi; munito dell’insegna, scese in piazza e, raccolta al grido di libertà una schiera di armati, aggredì e disperse i Ciompi che, sconfitti dal loro stesso referente, persero tutte le posizioni conquistate.

Il 1° settembre, infatti, la nuova Signoria escluse i membri popolari dal Governo e disciolse una delle tre nuove Arti avvantaggiando la piccola Borghesia di Silvestro dei Medici, Benedetto Alberti, Giorgio Scali e Tommaso Strozzi.

La pace era sfumata e la gente era agitata dalle continue prepotenze dello Strozzi e dello Scali, un compagno del quale fu arrestato il 15 gennaio del 1382.

Senza indugio, essi assalirono il palazzo del Capitano del Popolo e liberarono il detenuto; ma la Signoria reagì immediatamente: Tommaso Strozzi fuggì a Mantova; lo Scali, invece, fu spietatamente decapitato.

Il 21 gennaio, occupata la piazza, armi in pugno la fazione degli Albizzi istituì una Balìa di centotrè cittadini cui dettero l'incarico di riformare l’Esecutivo.

Prevalse, naturalmente, l’odio che cancellò ogni elemento rivoluzionario; oppresse le due Arti di recente istituzione; stabilì che dal 1° marzo il Gonfaloniere di Giustizia sarebbe stato selezionato fra le Arti Maggiori; annullò le sentenze di Ammonizione; avviò una dura persecuzione degli avversari irrogando molte pene capitali ed esiliando Silvestro de' Medici a Modena per cinque anni e Michele di Lando a Chioggia e poi a Padova, condannandolo nel novembre del 1383 in contumacia alla decapitazione ed alla confisca dei beni per essersi avvicinato a Firenze, in spregio dei limiti di duecento miglia di distanza impostigli.

La rivoluzione era sostanzialmente fallita e, come scrisse Filippo Villani,I Ciompi se ne andarono sì come gente rotta, et senza capo et sentimento, perché si fidavano et furono traditi da loro medesimi… mentre la dominazione del Popolo grasso, alleato col Popolo minuto, era di fatto restaurata.

Analogamente si era conclusa la Peasant’s Revolt inglese, dovuta ad una endemica crisi economica nazionale; a riforme agrarie inadeguate ed alla politica feudale di sfruttamento delle terre attraverso manodopera sottopagata e ridotti in servitù: esplosa dopo la vana attesa di un Secondo Avvento che riscattasse le sofferenze successive al morbo della peste e riaffermasse principi di equità sociale, anch’essa fu brutalmente repressa.

Bibliografia:

Storia Universale Vallardi (XX vol.)
Storia d’Italia Einaudi (XIV vol.) Estratto da "it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_dei_contadini"



FRANCO FRANCESCHI

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA

 

 

 

Nell’estate del 1371, sette anni prima che il Tumulto dei Ciompi incendiasse

Firenze, le città di Perugia e Siena, a distanza di pochi mesi, furono

teatro di rivolte alle quali parteciparono, come nel maggiore centro toscano,

i lavoratori dell’industria dei panni di lana. Questa coincidenza dei protagonisti

indusse lo storico sovietico Victor Rutenburg, alla fine degli anni

Cinquanta del Novecento, a collegare organicamente i tre episodi e a interpretarli

come manifestazioni, pur diversamente profonde, del conflitto

fra «proletariato primitivo» e «borghesia in via di formazione» in una società

urbana caratterizzata da «nascenti relazioni capitalistiche»1. È trascorso

mezzo secolo ed è passata più di una stagione storiografica, ma mi

sembra che il tema abbia mantenuto una sua rilevanza, ed è per questo che

ho accettato volentieri l’invito a riprenderlo in esame, pur consapevole delle

difficoltà e dei pericoli che l’approccio comparativo presenta.

A differenza dell’episodio fiorentino, divenuto precocemente una sorta

di archetipo dell’insurrezione operaia («una pagina di storia del proletariato

operaio» la definì Niccolò Rodolico)2, illuminato da una serie non

ancora esaurita di studi3, le altre due sollevazioni hanno interessato poco

gli storici. C’è stato bisogno del Rutenburg – come ho detto – perché un’indagine

di un certo respiro sulle rivolte di Siena e di Perugia, anche se discutibile

nelle conclusioni, venisse avviata4. Non è questa la sede per

1 V. Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ‘300 e ‘400, trad. it., Il

Mulino, Bologna 1971 [1958], p. 5.

2 N. Rodolico, I Ciompi: una pagina di storia del proletariato operaio, Sansoni,

Firenze 19803 [1945].

3 Per un primo approccio bibliografico al tema rimando ai due volumi più recenti:

A. Stella, La révolte des Ciompi. Les hommes, les lieux, le travail, Préface de Ch. Klapisch-

Zuber, Editions de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 1993 (che alle

pp. 17-29 ripercorre i principali sviluppi del dibattito storiografico); E. Screpanti,

L’angelo della liberazione nel tumulto dei Ciompi. Firenze, giugno-agosto 1378, Il Ponte,

Firenze 2008.

4 Rutenburg, Popolo e movimenti popolari cit. Sull’episodio senese cfr. anche Id., La

vie et la lutte des ‘Ciompi’ de Sienne, «Annales. E.S.C.», XX, 1965, pp. 95-109;

Monique Bourin, Giovanni Cherubini, Giuliano Pinto (a cura di), Rivolte urbane e rivolte contadine

nell’Europa del Trecento : un confronto, ISBN 978-88-8453-883-3 (online) ISBN 978-88-8453-882-6

(print), © 2008 Firenze University Press

interrogarsi sulle radici della divergente ‘fortuna’ storiografica delle sommosse

fiorentina da una lato, perugina e senese dall’altro, per la quale potrebbero

essere indicate alcune logiche argomentazioni generali, relative

cioè alla diversa rilevanza degli eventi, alla differente importanza dei centri

coinvolti, alla sensibilissima disparità nel volume e nella qualità della

documentazione sopravvissuta; noterò soltanto che, mentre a Firenze il

Tumulto diventò – grazie alla storiografia umanistica – immediato oggetto

di narrazione, di riflessione e di utile ammaestramento per le classi dirigenti,

messe in guardia contro gli eccessi della libertà accordata alla ‘plebe’5,

nelle altre due città è sembrata prevalere presso i ceti colti la tendenza a

minimizzare gli eventi del 1371, se non ad espungerli dal grande alveo della

storia urbana; così sia la rivolta perugina che quella senese risultano documentate

da un’unica narrazione coeva, la Cronaca senese di Donato di

Neri6, e solo occasionalmente la storiografia del Quattro e del Cinquecento

– come vedremo – ne ha ripreso la memoria.

278 FRANCO FRANCESCHI

N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto (1378-1382), Zanichelli,

Bologna 1905, pp. 101-111; R. Broglio D’Ajano, Tumulti e scioperi a Siena nel secolo

XIV°, «Vierteljahrschrift für Social- und Wirtschaftsgeschichte», V, 1907, pp. 458-466;

La rivolta dei “ciompi” di Siena (1371), Seminario di Storia Medievale coordinato da G.

Cherubini, Relazioni ciclostilate degli studenti, Università degli Studi di Firenze, Facoltà

di Lettere e Filosofia, anno accademico 1970-71; V. Wainwright, The Testing of a Popular

Sienese Regime. The Riformatori and the Insurrections of 1371, «I Tatti Studies. Essays

in the Renaissance », 2, 1987, pp. 107-170; F. Franceschi, La rivolta di «Barbicone», in

Storia di Siena, I, Dalle origini alla fine della Repubblica, a cura di R. Barzanti, G. Catoni,

M. De Gregorio, Edizioni ALSABA, Siena 1995, pp. 291-300. Sulla rivolta perugina all’indagine

comparativa del Rutenburg si può aggiungere ancora meno: si vedano comunque

R. Broglio D’Ajano, Lotte sociali a Perugia nel secolo XIV, «Vierteljahrschrift

für Social- und Wirtschaftsgeschichte», VIII, 1910, pp. 337-345, e le rapide note di J.-

C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d’Italia, diretta

da G. Galasso, VII, t. 2, Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale: Lazio,

Umbria e Marche, Lucca, UTET, Torino 1987, pp. 321-606: pp. 543-544.

5 Cfr. su questo punto le considerazioni di E. Garin, Echi del Tumulto dei Ciompi

nella cultura del Rinascimento, in Il Tumulto dei Ciompi. Un momento di storia fiorentina

ed europea, Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 16-19.IX.1979),

Firenze, Olschki, 1981, pp. V-XXII; E. Sestan, Echi e giudizi sul Tumulto dei Ciompi

nella cronistica e nella storiografia, in Il Tumulto dei Ciompi cit., pp. 125-160, in particolare

pp. 125-135. Ed inoltre J. M. Najemy, A History of Florence 1200-1574, Blackwell,

Oxford 2006, pp. 176-181. Alessandro Stella ha efficacemente scritto che

«l’historiographie duTumulte des Ciompi’ commence […] en même temps que les

événements» (Stella, La révolte des Ciompi cit., p. 17).

6 Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, a cura di

A. Lisini e F. Iacometti, in «Rerum Italicarum Scriptores», sec. ed., t. XV, parte VI,

Zanichelli, Bologna 1931-1939, pp. 566-685: pp. 639 (fatti di Perugia) e 639-642 (rivolta

di Siena).

1. Gli avvenimenti

Prima di proporre qualsiasi riflessione sugli obiettivi, i risultati e il significato

delle rivolte oggetto di quest’analisi ritengo indispensabile procedere

ad una disamina, per quanto sintetica, degli avvenimenti: disamina

che purtroppo risulterà condizionata dal diverso grado di completezza

delle informazioni relative alle vicende di Perugia e di Siena rispetto a

quelle disponibili per gli eventi fiorentini.

Perugia

La rivolta del 1371 si inquadra nella «lunga catena di violenze che caratterizza

la storia perugina del secondo Trecento»7 e trova i suoi immediati

antecedenti nella ripresa del contrasto fra i nobili, incoraggiati dal Papato,

e il regime popolare che – sotto l’etichetta dei Raspanti – guidava allora la

città. Dopo il fallito complotto del 1368, che aveva portato a numerose condanne

e bandi di esponenti dei gruppi nobiliari, nonché allo scoppio di

una guerra fra i Perugini e l’esercito pontificio, nel 1370 il Comune, isolato

e sotto la pressione dei ceti più colpiti dagli effetti del conflitto, dovette

concludere con la Santa Sede un trattato di pace assai oneroso: esso prevedeva

infatti il rientro di tutti gli esiliati e il riconoscimento del pieno

dominio della Chiesa sulla città8. A complicare le cose si aggiunse

l’atteggiamento del nuovo papa Gregorio XI, che si rifiutava di affidare il vicariato

ai Priori perugini designando in tale carica un suo legato, il cardinale

di Bourges, al cui arrivo si opponevano però i Raspanti. In questa

situazione, il 16 maggio 1371, ebbe luogo una manifestazione di piazza che,

dopo avere tentato di imporre al Consiglio Generale l’entrata in carica del

rappresentante pontificio, si trasformò in una vera e propria rivolta9. Come

scrive il cronista senese Donato di Neri, «si levò uno romore apenatamente:

cominciò in piaza per gente lavorante di lana, forestieri masnaderotti, e

gridaro ‘Viva la Chiesa e ‘l Popolo’. E fuvi morti 14 di nome, e robate e arse

case, e cacciati tutti li Raspanti, e fuvi gran male di morti e di robati, e arse

7A. Grohmann, Economia e società a Perugia nella seconda metà del Trecento, in

Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Atti del

Congresso storico internazionale (Perugia, 6-9.XI.1985), 2 voll., Deputazione di Storia

patria per l’Umbria, Perugia 1988, pp. 57-87: p. 58.

8 F. Mezzanotte, La pace di Bologna tra Perugia e Urbano V (23 novembre 1370),

«Bollettino della Deputazione di Storia patria per l’Umbria», LXXIV, 1977, pp. 117-

174: pp. 122-125.

9 Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria cit., p. 543.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 279

case, e poi vi si fe’ sacco»10. Nella sua essenzialità, Donato colloca all’origine

del tumulto, la cui gravità sottolinea reiterando la notizia delle ruberie,

degli incendi e degli omicidi, due diverse categorie di attori: i lavoratori

della manifattura laniera cittadina e un gruppo di forestieri che, considerata

l’ambiguità semantica del termine masnadiere, sarebbero potuti essere

sia uomini d’arme che ladri di strada11.

In parte diverso è il racconto dei testimoni non coevi. Nel cosiddetto

Diario del Graziani, del tardo Quattrocento, è un non meglio identificato

«popolo» a «uscire […] con l’arme in mano» dando inizio alla sommossa

al grido di «viva il Populo!»12. Qui lo sviluppo dell’azione è descritto con

maggiore ampiezza e l’autore della cronaca elenca puntualmente gli effetti

della furia dei rivoltosi sulle proprietà dei «ricchi popolari» – cambiatoribanchieri,

mercanti, imprenditori lanieri, giudici e notai – che rappresentavano

il cuore del regime dei Raspanti13:

et in un subito andar in casa di messer Guglielmo dottore e giudice, il quale

stava in capo della piazza, et gli spezzarono la porta; et egli campò la vita fuggendo

per un uscetto di dietro; e questo fecero, perché essendo egli un de i tre

sopra la guerra, sempre s’era opposto al Papa e alla Chiesa. Ma i Raspanti in

questo mezzo, tenendosi poco sicuri in Perugia, la notte pigliarono altro viaggio:

le case loro furono robbate di porta in porta, e prima la casa d’Agnelino del

Pian di Carpene: vi morì ser Agnolo da gli Statuti, e la sua casa fu abrugiata; et

la casa di Berardello e di Dannelo, et di Vagni ditto il Priore; et quella di P. della

Camilla, quella di Pecciolo, quelle di Grazino di Girolamo di messer Grazia; e

quelle de i Michelotti non si finirono di abrugiare, perché i vicini le soccursero;

e quelle di Bartolomeo di Ceccarello per porta S. Pietro: per porta Sole ci

furono abbrugiate quelle di Ruggieri, che aveva la sua imagine in S. Lorenzo,

la quale fu da loro cancellata; e quella di Variolo di Monuccio speziale; e quelle

di Belardino d’Andrucciolo e di Longaruccio di S. Agnelo, che stava nel borgo

di S. Antonio: in porta S. Pietro le case di Giovanni d’Andrucciolo di Pellolo et

delli suoi fratelli s’abrugiarono tutte, perché i vicini gli aiutarono. Fu scaricato

280 FRANCO FRANCESCHI

10 Cronaca senese di Donato di Neri, cit., p. 639.

11 Per questa seconda interpretazione propende Samuel Cohn: Popular Protest in

Late Medieval Europe. Italy, France and Flanders, Selected Sources Translated and

Annotated by S. K. Cohn Jr., Manchester University Press, Manchester and New York

2004, p. 132; Id., Lust for Liberty. The Politics of Social Revolt in Medieval Europe, 1200-

1425, Harvard University Press, Cambridge Mass.2006, p. 64.

12 Cronaca della città di Perugia dal 1309 al 1491 nota col nome di Diario del

Graziani, a cura di A. Fabretti, «Archivio Storico Italiano», XVI, 1850, pp. 69-750: supplemento

terzo, p. 215.

13 Sull’attacco alle persone e ai beni degli uomini di legge si sofferma brevemente

Victor Rutenburg (Rutenburg, Popolo e movimenti popolari cit., p. 120); sul significato

più generale di queste azioni cfr. le considerazioni di Andrea Zorzi in questo stesso volume

(A. Zorzi, La questione della giustizia e dell’ordine pubblico).

il tetto a ser Paolo di Berarduccio, et a Guiduccio gli fu robbata la casa, et molt’altre

case di quelli che avevano nome di Raspanti. Per questo si partì molti de

i traditori il giorno dopo14.

Mentre la dinamica dei fatti appare chiara, nessun particolare conferma

l’affermazione di Donato di Neri sulla composizione sociale degli insorti.

Qualcosa in più, invece, emerge dalla cinquecentesca Historia di Perugia

di Pompeo Pellini, che rappresentò la base della ricostruzione dell’episodio

compiuta dal Broglio d’Ajano nel 191015, a sua volta generalmente seguita

da chi ne ha scritto successivamente. Il suo autore, infatti, descrive il clima

di sospetto e di paura che serpeggiava in città, racconta come nei giorni

che precedettero la rivolta «si gridò verso un’hora di notte nella contrada

di porta Santo Angelo ‘viva il Popolo, et muoiano i Raspanti’»16, aggiunge

che «alcuni giovani del Borgo di sopradetta contrada erano più de gli altri

inobedienti» e avevano il fermo proposito, qualora la polizia cittadina si

fosse avventurata nella zona «a far la cerca dell’armi», di «tagliarla tutta a

pezzi»17. Più in generale il Pellini identifica senza incertezze il motore della

sommossa nel «popolo minuto» della «contrada di porta Santo Angelo», la

cui strategia d’azione fu decisa in una serie di incontri tenutisi nella Chiesa

di Sant’Agostino sotto la guida di Colino degli Arcipreti18, membro di una

importante famiglia nobiliare perugina.

Anche se forse si tratta solo di una coincidenza, le fonti sui fatti di

Perugia sembrano dunque integrarsi per delineare i caratteri di un tumulto

scatenato dalla parte più numerosa e meno abbiente del Popolo perugino,

principalmente radicata in un’area della città ad alta concentrazione di attività

artigianali, comprese quelle laniere19, ma in cui alla componente sociale

e professionale se ne sarebbe aggiunta una generazionale: quella

costituita dalla «gioventù di Porta Sant’Angelo», la stessa che, stando al

Diario del Graziani, avrebbe animato anche la sollevazione contro i

Raspanti del 138320. Gli effetti immediati della rivolta, che vari indizi mo-

14 Cronaca della città di Perugia cit., supplemento terzo, pp. 215-216.

15 Broglio D’Ajano, Lotte sociali a Perugia cit.

16 P. Pellini, Dell’historia di Perugia, 3 voll., rist. anast., Forni, Bologna 1968 [1664],

I, lib. VIII, p. 1093.

17 Ibid., I, lib. VIII, p. 1094.

18 Ibid., I, lib. VIII, p. 1096.

19 A. Grohmann, Perugia, Laterza, Roma-Bari 19852 [1981], p. 48. Un’indagine relativa

al periodo successivo conferma questi caratteri dell’area di Porta Sant’Angelo: P.

Monacchia, Arti e artigiani in un rione perugino del XV secolo, in L’artigianato in Umbria

dalle Corporazioni all’associazione di impresa, C.N.A.-Gramma, Perugia 1997, pp. 49-69.

20 Cronaca della città di Perugia cit., supplemento III, p. 288; cfr. Cohn, Lust for

Liberty cit., pp. 94-95.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 281

strano essere stata preceduta da una certa azione organizzativa, furono la

morte di una quindicina di persone e la distruzione di una ventina di case,

ma le sue conseguenze politiche furono ben più rilevanti. Il 19 il cardinale

di Bourges poté fare ingresso in Perugia e proclamò che «reggeva la città

per la Chiesa e senza alcuna condizione a favore dell’autonomia cittadina

»21. La fine del regime popolare ad opera delle forze congiunte del

Papato, della nobiltà e del Popolo minuto, che significò anche il tramonto

dell’indipendenza politica della città22, colpì molto negativamente il

cronista senese testimone degli eventi: «E così ebe la Chiesa Perugia», commentò

lapidariamente; e aggiunse: «E li Sanesi e li Fiorentini ne dimostrarono

malcontenti, e dolenti di tal cosa tutti li buoni cittadini. E li Salimbeni

e li Dodici di Siena ne mostraro allegreza, e loro brigate, che molto a la scoperta

ne parlavano e dimostravano»23. La notizia dei fatti perugini, dunque,

circolava e provocava commenti discordanti a seconda delle diverse appartenenze

ideologiche e delle differenti fedi politiche.

Siena

Anche a Siena la fine degli anni Sessanta portò significativi cambiamenti

politici24. Infatti il regime detto dei Dodici dal numero dei componenti

la suprema magistratura di governo, fondato sull’alleanza tra il ceto

medio facente capo alle Arti e alcuni elementi magnatizi (che le fonti indicano

generalmente come «gentiluomini», «nobili», «grandi») era in crisi:

alle tensioni sociali ed ai motivi di instabilità politica, coagulatisi in più di

un tentativo di congiura, si aggiungeva il deficit del bilancio comunale, appesantito

dalle spese sostenute per assoldare, ma spesso anche per allontanare

dal territorio della Repubblica le compagnie di ventura, mentre

ripetuti furono gli assalti di epidemie e carestie. Negli ultimi mesi del 1368

si susseguirono una serie di episodi tumultuosi che finirono per determi-

282 FRANCO FRANCESCHI

21 E. Dupré Theseider, La rivolta di Perugia nel 1375 contro l’abate di Monmaggiore

ed i suoi precedenti politici, «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria»,

XXXV, 1938, pp. 69-166: p. 87.

22 Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria cit., p. 544.

23 Cronaca senese di Donato di Neri cit., p. 639.

24 Per questo sintetico profilo, oltre ai contributi già segnalati nella nota 4, ho utilizzato

i lavori di V. Wainwright, Conflict and Popular Government in Fourteenth

Century Siena: il Monte dei Dodici, 1355-1368, in I ceti dirigenti nella Toscana tardo

comunale, Atti del III Convegno (Firenze, 5-7.XII.1980), Papafava, Firenze 1983, pp.

57-80; G. Cherubini, I mercanti e il potere a Siena [1987], ora in Id., Città comunali

di Toscana, Clueb, Bologna 2003, pp. 297-348, in particolare pp. 333-334; A.

Moscadelli, Oligarchie e Monti, in Storia di Siena, I, Dalle origini alla fine della

Repubblica cit., pp. 267-278.

nare «un ulteriore slittamento del potere verso gli strati più bassi della popolazione

politicamente attiva»25 ed un altrettanto deciso allontanamento

da quel modello di governo a forte connotazione ‘mercantile’ che, materializzatosi

nell’esperienza del regime dei Nove, aveva contraddistinto la

prima metà del Trecento. Nello stesso tempo gli appartenenti alle famiglie

che avevano in precedenza ricoperto ruoli istituzionali, e ne erano stati

estromessi, si venivano costituendo in fazioni (i ‘Monti’), che avrebbero ottenuto

comunque nuove opportunità di partecipazione. In sostanza Siena

sperimentò, a partire dal 1368, una lunga serie di governi ‘di coalizione’.

Il 2 settembre di quell’anno il governo dei Dodici, praticamente isolato,

fu rovesciato da un colpo di mano incruento ordito dai Gentiluomini con

l’appoggio dei Noveschi e del Popolo minuto: il risultato, al di là dell’apporto

delle diverse componenti, fu «una effimera restaurazione del vetusto

predominio della nobiltà»26, impersonata soprattutto dai grandi casati dei

Tolomei, Salimbeni, Piccolomini, Saracini e Malavolti. Il nuovo equilibrio

raggiunto, però non si mantenne che per qualche settimana. Il 23 settembre,

per iniziativa dei Salimbeni, che perseguivano progetti di affermazione

egemonica, scoppiò una nuova rivolta: furono aperte le porte al Vicario

imperiale accampato nei pressi di Siena, deposti i governanti, cacciati in

massa dalla città i nobili. Con l’approvazione del rappresentante

dell’Imperatore vennero costituiti un Consiglio permanente con il compito

di riformare lo Stato (detto appunto dei Riformatori), in cui figuravano

28 membri del partito dei Nove, 35 di quello dei Dodici, 61 del Popolo

minuto, e un governo nel quale le proporzioni erano rispettivamente di 3,

4 e 5 esponenti. Attraverso nuove convulsioni interne si giunse poi a metà

dicembre ad una redistribuzione delle principali cariche ancora più favorevole

ai ceti popolari: il Consiglio dei Riformatori fu infatti riservato ai

soli membri del Popolo minuto (e significativamente da allora si assistette

all’identificazione fra i due insiemi, al punto che lo stesso regime uscito da

questa tormentata fase è passato alla storia come quello dei Riformatori);

mentre dei 15 nuovi Signori che allora vennero creati 8 furono assegnati,

secondo il linguaggio di un documento ufficiale, al «Popolo del maggior

numero», 4 spettarono al partito dei Dodici («il Popolo del numero

medio»), e 3 ai seguaci dei Nove («il Popolo del minor numero»). Le etichette

non devono però trarre in inganno. Il Popolo minuto o «del maggior

numero», che deteneva la maggioranza, non si identificava unicamente con

i lavoratori dipendenti, ma si presentava come un più largo insieme nel

25 Cherubini, I mercanti e il potere cit., p. 334.

26 D. Marrara, I Magnati e il Governo del Comune di Siena dallo Statuto del 1274

alla fine del XIV secolo, in Studi per Enrico Fiumi, Pacini, Pisa 1979, pp. 239-276: p. 267.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 283

quale figuravano massicciamente i membri delle Arti minori. Quello dei

Riformatori, comunque, restava un governo la cui ampia base sociale conosceva

«ben pochi paralleli nella stessa Toscana»27.

Questo era, in estrema sintesi, il quadro politico quando, all’inizio del

luglio 1371, «li lavorenti e scardazieri dell’Arte di lana di Siena» – per usare

ancora una volta le parole di Donato di Neri28 – entrarono in aperto conflitto

con i propri datori di lavoro sulla questione dell’ammontare dei salari.

Per dare vigore alle proprie richieste, respinte dagli imprenditori tessili, i lavoratori

si radunarono sotto il palazzo dei Signori, ma, probabilmente con

loro sorpresa29, non vennero ricevuti. A questo punto la dimostrazione assunse

i contorni della sommossa: mentre un gruppo di rivoltosi si dirigeva

verso un deposito di grano, infatti, gli altri minacciarono di uccidere i proprietari

delle botteghe di lana. Il governo, all’interno del quale prevalsero

sul momento i timori della minoranza formata dai Nove e dai Dodici, rispose

facendo catturare quelli che riteneva probabilmente i capi della sedizione,

tutti scardassieri appartenenti alla Com pagnia del Bruco: Cecco

dalle Fornaci, Giovanni di monna Tessa e Francesco d’Agnolo detto

Burbicone o Barbicone, che in quel momento era anche uno dei

Riformatori. Come risposta il 14 luglio «tutti quelli de la compagnia del

Bruco con altri giurati furono insieme»30 e, in armi, attaccarono il palazzo

del Senatore per ottenere la liberazione dei prigionieri.

Il rilascio degli incarcerati non placò tuttavia i rivoltosi, che, anzi, impressero

alla loro iniziativa un’accelerazione decisiva: al grido di «Muoia li

Dodici e viva el popolo» – una parola d’ordine di natura eminentemente

politica31, ma forse spiegabile anche con il fatto che fra i primi si concentravano

i maggiori imprenditori lanieri di Siena32 – essi attraversarono la

città accendendo una serie di scontri che coinvolsero anche i Salimbeni,

ormai smascherati nel loro disegno di appoggiarsi alternativamente ai

Dodici e al Popolo del maggior numero con il fine di creare una signoria

cittadina. Uno dei Salimbeni fu ferito e «la bandiera del popolo, la quale tenevano

[…] come consorti del popolo», fu loro strappata; sul terreno rimase

anche il cadavere di Carlo di messer Francesco Malavolti. Nel

frattempo venivano eseguiti arresti tra i Nove e i Dodici, che videro anche

estromessi i loro sette membri dalla coalizione governativa, dove furono

284 FRANCO FRANCESCHI

27 M. Luzzati, Firenze e la Toscana nel Medioevo. Seicento anni per la costruzione di

uno Stato, Utet, Torino 1986, p. 137.

28 Cronaca senese di Donato di Neri cit., p. 639.

29Wainwright, The Testing of a Popular Sienese Regime cit., p. 152.

30 Cronaca senese di Donato di Neri cit., p. 639.

31 Cohn, Lust for Liberty cit., p. 59.

32 È la tesi di Wainwright, The Testing of a Popular Sienese Regime cit., p. 153.

sostituiti con altrettanti esponenti del Popolo minuto33. La rivolta aveva

dunque conseguito un primo successo: ciò era potuto avvenire anche perché

la risposta del governo alla violenza della Compagnia del Bruco era

stata tutt’altro che inflessibile, un dato che può essere interpretato come il

segno del progressivo cementarsi di un’alleanza sempre più stretta fra gli

uomini della Compagnia e importanti esponenti del Popolo del maggior

numero34. I più alti vertici del potere politico, però, non furono in grado di

mantenere, nei giorni successivi, un contegno coerente, stretti com’erano

tra la pressione della piazza e le paure, tutt’altro che infondate, di colpi di

mano da parte dei sostenitori delle fazioni allontanate dal governo35.

Contro i Riformatori, in effetti, i Dodici e i Salimbeni ordirono un complotto,

valendosi anche della connivenza del Capitano del Popolo, Francino

di Naddo, che «se bene era del medesimo ordine Populare del maggior numero

[…], non poteva sopportare che con tanta indignità lo stato si fusse ridotto

nel suo tempo in mano d’huomini di così bassa conditione»36. La

mattina del 30 luglio fedeli dei Salimbeni provenienti dal contado puntarono

contemporaneamente verso il Palazzo pubblico e le abitazioni dei

membri della Compagnia del Bruco, che, secondo un piano preordinato,

dovevano essere – insieme ai Tolomei, ai Nove, al vescovo e a «certi altri» –

i principali obiettivi della spedizione. Mentre nella residenza assediata i

Signori e la loro guardia resistevano, nel borgo d’Ovile, colti di sorpresa,

molti lavoranti della lana furono massacrati senza pietà. Quelli che non riuscirono

a fuggire o non ebbero il coraggio di gettarsi dalle mura caddero

sotto i colpi implacabili delle balestre, delle lance, delle spade; senza arrestarsi

neppure di fronte alla disperazione delle donne che cercavano una via

di scampo «co’ le culle in capo, co’ fanciulli in braccio e per mano», esponenti

di primo piano dei Dodici entrarono in quelle povere case, rubarono

e tagliarono le tele sui telai, appiccarono il fuoco… Quando il destino della

battaglia sembrava segnato il fronte delle vittime predestinate si ricompose:

seguaci dei Nove e drappelli bene armati di rampolli degli Ugurgieri, dei

Tolomei, dei Malavolti si posero infatti alla testa della Compagnia del Bruco.

Combattendo vigorosamente, essi sbaragliarono i nemici in ogni punto della

città in cui si erano attestati. Come scrive Donato di Neri, questi «non tenero

colpo in niuno luogo e spariro come nebia». Subito dopo cominciarono i

primi arresti, cui seguirono, per ordine dei Signori, le esecuzioni di cinque

33 Cronaca senese di Donato di Neri cit., pp. 639-640.

34Wainwright, The Testing of a Popular Sienese Regime cit., p. 153.

35 La rivolta dei “ciompi” di Siena cit., p. 81.

36 O. Malavolti, Dell’Historia di Siena, rist. anast., Forni, Bologna 1982 [1599], parte

II, lib. VIII, f. 139v. Più realisticamente il testimone contemporaneo adombra l’ipotesi

che Francino si sia prestato «per denari»: Cronaca senese di Donato di Neri cit., p. 641.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 285

congiurati. Ad esse si aggiunse, dietro pressante richiesta della Compagnia

del Bruco, quella del Capitano del Popolo: vestito di scarlatto, la testa adagiata

su un panno dello stesso colore, Francino di Naddo fu decapitato il

primo agosto al centro del Campo37. Nelle settimane successive seguirono

altre condanne a morte, confische e distruzioni di beni, bandi, pene pecuniarie.

Complessivamente 131 appartenenti ai Dodici, 85 popolani grassi

seguaci dei Dodici e dei Salimbeni, 12 dei Nove (che il cronista definisce

«rinegati») subirono sanzioni. Il 12 agosto il governo cambiò nuovamente

composizione riaccogliendo una rappresentanza dei Nove, personaggi di

grande peso economico e in prima linea contro il recente colpo di mano

dei Dodici38. Questo assetto – una Signoria composta da 12 Riformatori e

da 3 dei Nove, espressione del compromesso realizzato tra la maggioranza

della coalizione, formata dai popolani minuti, e la minoranza, portatrice

degli interessi degli strati più alti del ceto mercantile e imprenditoriale – era

destinato a mantenersi fino alla caduta del regime, nel 1385.

Firenze

Non meno complessa risulta la trama degli avvenimenti fiorentini, per

i quali si parla di tre o più correttamente di quattro distinte fasi, in un arco

cronologico compreso fra il giugno 1378 e il gennaio 138239. La prima si

aprì il 18 giugno 1378, quando Salvestro dei Medici, appena divenuto

Gonfaloniere di Giustizia, presentò alla Signoria una petizione con la quale

proponeva di reintrodurre in tutto il loro rigore gli Ordinamenti di

Giustizia del 1293. L’iniziativa deve essere inquadrata nel riaccendersi del

lungo conflitto tra il ‘partito oligarchico’ e filo-papale – nel quale si riconoscevano

membri di antiche famiglie magnatizie quali gli Adimari, i Bardi

o i Pazzi, nonché importanti esponenti della fazione albizzesca, e che aveva

trovato un punto di convergenza nella Parte Guelfa – e lo schieramento

286 FRANCO FRANCESCHI

37 Ibid.

38 Ibid., p. 642.

39 Gli eventi, come è facile comprendere, sono stati raccontati innumerevoli volte

e questa brevissima descrizione ha unicamente la funzione di servire da traccia evenemenziale

nella prospettiva comparativa di queste pagine. Le ricostruzioni più

ampie, largamente fondate sull’utilizzazione del ricco materiale cronistico e

documentario di sponibile, restano quelle di Rodolico, I Ciompi cit., capp. IV-VI e

Rutenburg, Popolo e movimenti popolari cit., capp. IV-VI; a queste si possono aggiungere

le pagine di G. A. Brucker, Dal Comune alla Signoria. La vita pubblica a

Firenze nel primo Rinascimento, trad. it., Il Mulino, Bologna 1981 [1977], pp. 48-82;

Stella, La révolte des Ciompi cit., pp. 43-73; Screpanti, L’angelo della liberazione cit.,

cap. III. Un’ottima sintesi, pur nella sua stringatezza, è quella di Najemy, A History of

Florence cit., pp. 161-171.

che faceva capo alle Arti, composto da mercanti, banchieri, imprenditori

tessili, artigiani e bottegai ma anche da membri di vecchie e importanti casate

quali lo stesso Salvestro dei Medici, Andrea Rondinelli e Filippo

Bastari. Uno scontro divenuto più acuto a partire dal 1375, con lo scoppio

della guerra fra Firenze e il Papa, quando il governo conferì poteri straordinari

alla magistratura degli Otto della Guerra e confiscò una parte sostanziosa

dei beni ecclesiastici nel territorio fiorentino.

Salvestro compì una mossa abile, perché agli occhi di molti quella che

era di fatto una lotta all’interno del ceto dirigente cittadino apparve davvero

come una ripresa dell’antico confronto fra Magnati e Popolani.

Sensibili al richiamo della lotta contro i Grandi, rafforzate dal «revival of

corporate ideas […] and of a decade of growing […] involvment in political

life»40, le Arti mobilitarono le loro milizie e il 21 giugno manifestarono

contro la Parte. Il giorno successivo una folla di artifices, ma nella

quale si erano confusi operai tessili, varie altre categorie di salariati e immigrati

(un libro di memorie ricorda «una brigata di forestieri fiamminghi

»)41, si riversò in piazza dei Priori chiedendo l’approvazione di norme

tendenti a rafforzare la legislazione antimagnatizia; poi invase le strade

della città assalendo, incendiando e saccheggiando le case dei membri più

in vista della Parte Guelfa. Gruppi di ‘incontrollabili’ penetrarono nelle

Stinche, il carcere cittadino, e liberarono tutti i detenuti, poi attaccarono

la Camera del Comune, dov’era il deposito delle armi, ma vennero respinti

da milizie corporative. Questi avvenimenti determinarono «the humiliation

of the leaders of the Parte Guelfa and […] a drastic reduction of the

Parte’s role in government»42 rafforzando viceversa la posizione della comunità

delle Arti, ma delusero le Corporazioni minori, che non raggiunsero

lo scopo di aumentare la loro rappresentanza politica negli uffici, e

lasciarono a bocca asciutta la massa dei lavoratori senza diritti, che nelle

giornate degli scontri aveva preso coscienza della propria forza e cominciava

ad organizzarsi. Per questo la situazione continuò a evolversi.

Una nuova fase del Tumulto si aprì in luglio, all’insegna dell’alleanza

fra i lavoratori delle manifatture tessili – il cui cuore era costituito dai salariati

del settore laniero, i Ciompi appunto – e i membri delle Arti minori,

ormai persuasi che le élites mercantili e imprenditoriali non avrebbero mai

acconsentito a concessioni sostanziali nei loro confronti. La rivolta, sta-

40 Id., “Audiant omnes Artes”: Corporate Origins of the Ciompi Revolution, in Il

Tumulto dei Ciompi cit., pp. 59-93: p. 92.

41 Da un libro di memorie e ricordi di Pagolo di Ser Guido cimatore, in Stella, La révolte

des Ciompi cit., pp. 272-275: p. 272.

42 R. Trexler, Follow the Flag. The Ciompi Revolt Seen from the Streets, «Bibliothéque

d’Umanisme et Renaissance», XLVI, 1984, pp. 357-392: p. 361.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 287

volta molto più organizzata, scoppiò il 20, e a fermarla non valsero le misure

che i Priori presero in extremis, dopo l’arresto di alcuni dei capi del

movimento. La grande impressione che gli eventi di quei giorni destarono

nei fiorentini, e soprattutto negli appartenenti agli strati più elevati della società,

il cui stato d’animo era sospeso fra l’incredulità e il terrore, è testimoniata

dai numerosi resoconti che ci sono pervenuti43. Queste narrazioni

ci mostrano una folla di diverse migliaia di lavoratori tessili e membri di

tutte le Arti, esclusa quella della Lana, sotto il palazzo dei Priori, mentre

reclama il rilascio degli arrestati («rendeteci gli uomini, che avete costassù

ritenuti!»); l’assalto alla casa del Gonfaloniere di Giustizia, Luigi

Guicciardini, e successivamente alla sede dell’Esecutore, dove i rivoltosi si

impadronirono del Gonfalone di Giustizia, lo stendardo che era insegna

del capo del governo e simbolo della sua autorità; l’attacco al palazzo

dell’Arte della Lana, dal quale a stento riuscì a fuggire l’odiato Ufficiale

Forestiero, il magistrato chiamato dai lanifices ad amministrare la giustizia

penale corporativa. E ancora: la conquista del palazzo del Podestà con la

brutale uccisione del ‘bargelloSer Nuto («fu tutto tagliato per pezzi; il minore

pezzo non fu oncie sei»44) e il rogo dei documenti che – si diceva –

contenevano gli atti di processi istruiti contro i lavoratori. Fino all’atto politicamente

più rilevante, la presa del palazzo della Signoria. La mattina del

22 luglio, infatti, i Priori eletti un mese prima, asserragliati da due giorni

nella loro sede e ormai isolati («mai si vide signori abandonati, come furono

questi priori, che non era nessuno che li confortasse e che si proferisse

»45), cedettero e gli insorti fecero irruzione nell’edificio-simbolo del

potere cittadino:

E uno Michele di Lando, pettinatore overo che fusse sopra i pettinatori e sopra

li scardassieri, fattore di bottega di lana, avea il gonfalone del popolo minuto in

mano, cioè quello si cavò di casa lo executore, ed era in iscarpette sanza calze;

con questo gonfalone in mano entrò in palazzo con tutto il popolo che ‘l volle

seguitare, e su per le scale n’andò infino nella udienza de’ priori, e quivi si fermò

ritto. E a voce di popolo gli dierono la signoria, e vollono che fusse gonfaloniere

di iustizia e signore46.

288 FRANCO FRANCESCHI

43 Il grosso delle testimonianze cronistiche è stato pubblicato – come è ben noto –

nella raccolta Il Tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, a cura di G. Scaramella,

«Rerum Italicarum Scriptores», seconda ed., XVIII, parte III, Zanichelli, Bologna 1917-

1934.

44 Cronaca Prima d’Anonimo, in Il Tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie cit.,

pp. 73-102: p. 76.

45 A. Acciaioli, Cronaca, in Il Tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie cit., pp. 11-

41: p. 32.

46 Ibid., pp. 32-33.

Costretto il governo alle dimissioni e annullati i risultati del vecchio

scrutinio elettorale, in attesa del nuovo da completarsi entro fine agosto, gli

insorti formarono un Priorato provvisorio capeggiato dallo stesso Michele

e rinnovarono i membri dei due Collegi che nel sistema fiorentino coadiuvavano

la suprema magistratura: dei 37 individui complessivamente

scelti solo 5 appartenevano a famiglie precedentemente rappresentate in

quegli uffici47. Il nuovo esecutivo si sarebbe dovuto impegnare nella realizzazione

del programma elaborato in una serie di riunioni segrete e la cui

corretta attuazione era garantita dalla presenza dei rappresentanti dei rivoluzionari,

i «Sindaci del Popolo minuto» e i «Sindaci delle Arti». Nei

giorni immediatamente successivi, infatti, furono condannati all’esilio una

trentina di membri della Parte Guelfa, venne creato un corpo di balestrieri

del Popolo minuto (nel quale si arruolarono subito numerosi lavoratori) e

furono costituite ben tre nuove Corporazioni, a testimonianza del fatto che

l’insieme dei senza-diritti che ora ottenevano cittadinanza effettiva era più

vasto del pur ampio gruppo dei lavoratori lanieri, ma anche di una notevole

articolazione interna del fronte dei rivoltosi: si trattava dell’Arte dei

Tintori, che comprendeva anche lavatori di lana, cardatori e saponai, tiratori

e rammendatori, fabbricanti di strumenti per il lavoro tessile e tessitori

di drappi di seta; di quella dei Farsettai, aperta anche a cimatori, sarti, barbieri

e cappellai; di quella dei Ciompi, detta anche «del Popolo di Dio»,

formata da tutte le categorie di salariati della lana – scardassieri e pettinatori

in testa – con l’aggiunta dei tessitori. Riplasmata la comunità delle Arti,

vennero dettati nuovi criteri per le procedure elettorali, con una ripartizione

paritaria delle cariche fra i 3 gruppi che ora formavano l’insieme delle

Corporazioni fiorentine: le 7 maggiori, le 14 minori e le 3 neocostituite.

Gli entusiasmi della prima ora, tuttavia, erano destinati a spegnersi rapidamente.

Nel giro di qualche settimana apparve infatti chiaro che l’azione

della coalizione di governo era contraddittoria e insufficiente, mentre altrettanto

evidente era il boicottaggio istituzionale esercitato contro i rappresentanti

del Popolo minuto. A ciò si aggiungevano le conseguenze del

blocco della produzione laniera attuato dai proprietari delle botteghe, che

espose migliaia di lavoratori alla disoccupazione e alla fame, spettri contro

i quali furono scarsamente efficaci misure quali l’ingiunzione a tutti i lanaioli

della città di riprendere immediatamente il lavoro e produrre almeno

2000 panni al mese, la distribuzione in prestito di uno staio di grano a

chiunque ne facesse richiesta, la sospensione della gabella sul grano e la

47 G. A. Brucker, The Ciompi Revolution, in Florentine Studies. Politics and Society

in Renaissance Florence, ed. by N. Rubinstein, Faber & Faber, London 1968, pp. 314-356:

p. 330, nota 1.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 289

farina per 6 mesi, la riduzione del prezzo del sale e della farina. Anche

l’alleanza fra i diversi settori del mondo del lavoro che aveva animato la rivolta

vacillava: l’insoddisfazione spingeva la componente operaia a radicalizzare

il proprio programma, allontanandola inesorabilmente dalle

posizioni più moderate dei bottegai e degli artigiani, compresi quelli operanti

nella produzione dei panni di lana, e di tutti gli altri artifices. Verso

la fine di agosto un gruppo di circa 200 lavoranti dell’Oltrarno, riuniti in un

campo nella contrada di Camaldoli, decise di riprendere autonomamente

l’iniziativa. Nel corso di un’affollatissima assemblea tenutasi in piazza San

Marco il 27 venne costituita una commissione di 8 membri – cui fu attribuito

il suggestivo nome di Otto Santi della balìa del Popolo di Dio – concepita

come un vero e proprio «governo-ombra» o un contro-potere48, la

cui legalità i Ciompi opposero a quella dell’esecutivo in carica. Il braccio di

ferro che allora si aprì condusse, direttamente in piazza della Signoria, all’approvazione

di una serie di richieste sostenute dalla folla e all’elezione di

nuovi Priori. La piega presa dagli avvenimenti convinse però il governo e

la comunità delle Arti, che poterono contare sul sostegno di Michele di

Lando, a organizzare rapidamente la reazione: come scrisse il cosiddetto

Squittinatore, l’unico cronista favorevole ai ribelli, «fo ordinato per tutte

l’arti, e per tutti i cittadini di popolo grasso, di volere disfare e di volere

torre l’onore e lo stato al popolo minuto, cioè di quell’arte che si chiamavano

ciompi»49. Lo scontro finale si verificò il 31 agosto in piazza della

Signoria. Attaccati dai soldati del Comune con pietre e frecce, aggrediti

dalle mannaie e dalle lance dalle milizie delle Corporazioni, tra cui si distinguevano

i beccai e gli artigiani delle due nuove Arti dei Tintori e dei

Farsettai, gli operai della lana furono dispersi con gravi perdite. Il primo

settembre un parlamento generale appositamente convocato abolì l’Arte

dei Ciompi e tutte le prerogative e i diritti legati alla sua esistenza.

Il sanguinoso epilogo della rivolta radicale, tuttavia, non determinò il

puro e semplice ritorno alla situazione vigente prima del Tumulto, ma

segnò l’inizio di una nuova e peculiare fase politica. Estromessi dal Priorato

e dalle borse elettorali i rappresentanti dell’Arte dei Ciompi, la comunità

delle Arti recuperò la tradizionale divisione fra Maggiori (7) e Minori (16)

e su questa base furono suddivisi tutti gli uffici di governo. Fra il settembre

1378 e il gennaio 1382 nei 189 posti del Priorato si alternarono 95 artefici

minori e 94 maggiori, questi ultimi in larga misura non appartenenti

alle famiglie che rappresentavano l’élite corporativa50. Quello che è passato

290 FRANCO FRANCESCHI

48 Trexler, Follow the Flag cit., p. 362.

49 Cronaca Prima d’Anonimo cit., p. 81.

50 Najemy, A History of Florence 1200-1574 cit., p. 167.

alla storia come il ‘governo delle Arti’ o ‘delle Arti minori’ «si avvicinò all’ideale

artigiano più di ogni altro che Firenze abbia sperimentato: le sue

magistrature si consultavano regolarmente con le Arti, attraverso le loro

capitudini, e raccomandavano ai loro rappresentanti di incontrarsi spesso

con la loro base»51, ciò che spiega perché «most contemporaries did not

see the defeat of the Eight as the end of worker’s power in Florence»52.

Resta il fatto che il nuovo governo si trovò gradualmente nell’impossibilità

di condurre una mediazione tra spinte contrastanti: la pressione dei

membri dell’oligarchia cittadina esclusi dal potere; le richieste di privilegi

e riforme avanzate dai rappresentanti dei ceti più spiccatamente artigianali,

compresi quelli raccolti nelle due nuove Corporazioni ancora in vita;

l’insoddisfazione della massa dei salariati della lana ricacciati nella nonesistenza

giuridica e politica; l’insofferenza dei proprietari delle aziende laniere

decisi ad eliminare il potere di negoziazione acquisito dai tintori

attraverso l’attività della loro Arte. In un clima che rimaneva teso anche

per le continue trame insurrezionali ordite dai leaders dei Ciompi in esilio

con l’aiuto di aristocratici sbanditi altrettanto avversi al regime, si giunse nel

gennaio del 1382 all’ultimo atto. Una commissione appositamente creata

per riformare il governo decretò la soppressione delle Arti dei Tintori e dei

Farsettai, una redistribuzione delle cariche che limitava lo spazio politico

delle Corporazioni minori, la cancellazione dei bandi emessi dal governo

dei Ciompi e da quello delle Arti e l’indennizzo per coloro che avevano subito

confische o distruzioni di proprietà. Era l’inizio, sebbene in forme non

esasperate, di un processo che gradualmente avrebbe portato alla concentrazione

del potere nelle mani di un’oligarchia sempre più svincolata dalle

idee e dalla prassi proprie del mondo corporativo.

2. Gli obiettivi e i risultati

Perugia

La sola narrazione coeva della rivolta perugina del 1371 non fornisce

informazioni utili per comprendere gli obiettivi degli insorti. Poco di più

ci dice il Diario del Graziani, che lascia intuire, come unica ragione dello

scoppio delle violenze, la resistenza dei Raspanti all’ingresso del legato pontificio

in città53. Pompeo Pellini, che scrive nel Cinquecento, è invece assai

più loquace. Anche per questo autore la cornice è lo scontro fra i Raspanti

51 Brucker, Dal Comune alla Signoria cit., p. 55.

52 Cohn, Lust for Liberty cit., p. 60.

53 Cronaca della città di Perugia cit., supplemento III, p. 215.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 291

e le diverse forze che ne volevano abbattere il governo, a partire dai popolani

minuti e dai nobili:

il Popolo era per prender l’armi in favor loro, et tutto adirato correre alle case

de’ Raspanti; cosa nel vero in tutto contraria alle passate attioni di questo popolo,

perché mentre i nobili erano stati fuori della Città, non sarebbe stato alcuno

di essi, che non havesse fatto ogni cosa a danni loro, ma hora la fame gli

avea fatti volgere ad altri pensieri, et quelli, che odiavano, li facea amare, et

quelli ch’amavano odiare».

La carestia, generata dalla guerra e dalla politica del governo, modificava

dunque le alleanze e in Perugia era ormai convinzione diffusa che «il popolo

minuto desiderava grandemente di havere occasione di romoreggiare,

et travagliare la Città, così per potere in un tempo vendicarsi contra i Raspanti,

come per poter anco rubbare le case di questo, e di quello Cittadino,

non havendo la maggior parte di loro cosa alcuna da mangiare, né da sostentarsi

»54. Con questi presupposti non stupisce che – sempre secondo il

Pellini – i rivoltosi chiedessero l’abolizione della gabella sul macinato e un

radicale cambiamento nella politica degli Ufficiali dell’Abbondanza, così

da ottenere che il «grano, che era stato da luoghi circostanti, et fuori del

territorio perugino condotto, per supplire a’ bisogni della povertà, si vendesse

alle persone povere, et bisognose, et non a Raspanti, et ad altri Cittadini,

che poco ne havevano di bisogno, et erano più de gli altri di danari abbondanti

»55. Tali richieste vennero sostanzialmente accolte se è vero che

l’odiata imposta venne abolita56 e che il cardinale di Bourges, ancora prima

di entrare in città, fece annunciare di avere già dato disposizioni per rifornire

la popolazione di cereali57. Infine, quasi incidentalmente, l’Historia di

Perugia afferma che il Popolo minuto perugino si sarebbe rivoltato per «rinovare

modo di vivere nella Città»58, ovvero per ottenere quel cambiamento

di governo che avrebbe poi effettivamente avuto luogo con il ristabilimento

del dominio della Chiesa su Perugia.

Siena

«La compagnia del Bruco si scuperse in Siena a dì 26 d’agosto, ed era

nella contrada d’Uvile, ed erano congiurati circa 300 o più, ed erane capo

Domenico di Lano ligrittiere, e dicevano che volevano pace e divizia, e an-

292 FRANCO FRANCESCHI

54 Pellini, Dell’historia di Perugia cit., I, lib. VIII, p. 1094.

55 Ibid., I, lib. VIII, p. 1095.

56 Ibid., I, lib. VIII, p. 1101.

57 Dupré Theseider, La rivolta di Perugia cit., p. 86.

58 Pellini, Dell’historia di Perugia cit., I, lib. VIII, p. 1094.

daranno per lo grano a chi n’arà, e chi n’arà ne lo darà»59. Così il solito

Donato di Neri introduce, sotto l’anno 1370, i protagonisti del tumulto che

di lì a poco avrebbe sconvolto la città. Si tratta, a ben vedere, di una presentazione

piuttosto contraddittoria: da un lato infatti, forse influenzato

dal successivo corso degli avvenimenti, l’estensore della Cronaca senese sottolinea

gli elementi di minaccia dell’ordine costituito insiti nella creazione

della compagnia, dall’altro la dipinge come una tranquilla associazione di

mutuo soccorso. Alcuni tratti sono tuttavia ben leggibili. Quella che

cominciò ad operare nell’estate del 1370, con l’intento dichiarato di raccogliere

cereali in un momento di penuria ed alti prezzi, era un’organizzazione

con un preciso radicamento territoriale, una ragguardevole

consistenza numerica, un ‘capo’ – in quel momento il rigattiere Domenico

di Lano – di una certa levatura, se è vero che fino a poco prima era stato

Capitano del Popolo nel governo dei Riformatori60. Piuttosto resta non del

tutto precisata la composizione sociale della compagnia: le fonti cronistiche

parlano di «lavorenti e scardazieri» o di «minori operai» dell’Arte della

Lana61, e dunque fanno pensare in primo luogo ai salariati operanti nelle

botteghe dei lanaioli e a tutte le figure di apprendisti e garzoni dei vari mestieri

lanieri, senza peraltro escludere del tutto categorie quali i tessitori e

forse i rifinitori del panno. D’altra parte, trattandosi di un organismo a base

territoriale, doveva necessariamente accogliere in una qualche misura

anche gli esercenti mestieri non tessili e comunque non soggetti alla giurisdizione

dell’Arte della Lana, come è evidenziato dalla presenza, al vertice

dell’organizzazione, di un rigattiere. La contraddizione, tuttavia, è più apparente

che reale: la contrada delle coste d’Ovile, infatti, si rivela come «one

of the few uniformly poor, exclusively ‘working class’, districts of the city»;

un’area urbana in cui i gli addetti al settore laniero convivevano con altri

lavoratori e piccoli artigiani62.

Indipendentemente dai fini per i quali era nata, l’associazione entrò

come parte attiva nei conflitti cittadini con obiettivi diversi, almeno uno

dei quali è individuato dalla cronistica e alcuni altri sono desumibili dai

provvedimenti che la sua iniziativa produsse (visto che sembra difficile

credere a concessioni più ampie delle richieste). Vediamo il primo: «Li la-

59 Cronaca senese di Donato di Neri cit., p. 634.

60 La rivolta dei “ciompi” di Siena cit., pp. 78-79; Wainwright, The Testing of a

Popular Sienese Regime cit., pp. 149-150.

61 La prima espressione è utilizzata nella Cronaca senese di Donato di Neri cit.,

p. 639, la seconda è impiegata da Orazio Malavolti, Dell’Historia di Siena cit., parte II,

lib. VIII, f. 138v.

62 Wainwright, The Testing of a Popular Sienese Regime cit., pp. 148-149, citazione

a p. 148.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 293

vorenti e scardazieri dell’Arte della lana di Siena ebbero parole e quistione

co’ li loro maestri [per] pagare sicondo l’ordine del comuno di Siena e non

per quello dell’Arte»63; ovvero, in termini più espliciti, i lavoratori lanieri

chiedevano un diverso trattamento retributivo e, nello scontro che li opponeva

ai lanaioli, invocavano la superiore protezione del Comune, cui

volevano fosse riservata la facoltà di decidere la materia salariale. Gli altri

punti: nel novembre 1371 il governo dei Riformatori approvò una serie di

misure in virtù delle quali il monopolio dei proprietari degli opifici nella

direzione dell’Arte della Lana e la stessa autonomia decisionale dell’organismo

corporativo risultavano attenuati. Fu infatti stabilito il principio

della gestione collegiale, realizzato attraverso l’assegnazione, in parti

uguali, dei seggi di Console e di Consigliere a lanaioli e rappresentanti dei

mestieri sottoposti, sebbene con la precisazione che ad essere eletti fossero

i «principali maestri» di ambedue i gruppi; in più venne imposto ai

Consoli dell’Arte che qualsiasi loro statuto, ordine, provvisione o riforma

non potesse avere validità senza il preventivo assenso del Consiglio generale

del Comune. Anche sul fronte della ‘libertà di lavoro’ si registrarono

interessanti novità: eliminando il diritto di regolamentazione fino ad allora

detenuto dalla Corporazione, le nuove norme permettevano a chiunque

volesse diventare produttore di panni di farlo pagando una tassa

d’iscrizione (leggermente superiore per i forestieri); analogamente gli operai

che non avevano contratto debiti o impegni con i propri datori di lavoro,

o li avevano comunque onorati, sarebbero stati liberi di impiegarsi

presso qualsiasi maestro64.

Sebbene nella dinamica dei fatti e nell’azione delle forze in campo rimangano

a tutt’oggi zone d’ombra, sembra evidente che i lavoranti senesi

non miravano a costituire una loro Arte. Questo atteggiamento, in cui si

è voluta riconoscere una ingenuità di fondo, attribuita all’insufficiente

grado di sviluppo della loro ‘coscienza politica’ rispetto a quella dei

Ciompi fiorentini65, non mancava al contrario di logica e di realismo. In

una città in cui l’influenza delle Corporazioni – con l’eccezione rappresentata

proprio dagli anni dell’ormai tramontato regime dei Dodici –

aveva sempre trovato limiti sostanziali nella sovranità delle istituzioni comunali

e nelle funzioni di controllo esercitate dalla Mercanzia66, la crea-

294 FRANCO FRANCESCHI

63 Cronaca senese di Donato di Neri cit., p. 639.

64 Il documento è stato pubblicato da Broglio D’Ajano, Tumulti e scioperi a Siena cit.,

Appendice, pp. 464-466.

65 Rodolico, La democrazia fiorentina cit., p. 108.

66 Cfr. G. Prunai, Appunti sulla giurisdizione artigiana senese, sec. XIII e XIV,

«Bullettino senese di storia patria», IV, 1933, pp. 347-410; W. Bowsky, Un Comune

italiano nel Medioevo. Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, trad. it., Il Mulino,

zione di una propria organizzazione di mestiere da contrapporre all’Arte

della Lana poteva non bastare a rassicurare i sottoposti; in più essi intendevano,

almeno inizialmente, sfruttare per la difesa dei loro interessi,

anche attraverso il condizionamento di un’azione di forza, la presenza di

un governo la cui ala maggioritaria era costituita da rappresentanti del

Popolo minuto. Era un disegno sicuramente pericoloso, in quanto suscettibile

di innescare, come puntualmente avvenne, la reazione delle altre

componenti sociali e politiche. Di fronte alle diverse pressioni convergenti,

infatti, la Signoria, anche nel breve periodo in cui fu completamente

nelle mani del Popolo del maggior numero, mantenne un atteggiamento

oscillante e non fu in grado, per esempio, di impedire la carneficina degli

aderenti alla Compagnia del Bruco.

Nonostante l’alto costo in vite umane pagato, comunque, i sottoposti

delle coste d’Ovile ottennero, sempre che la legislazione che modificava

la gestione dell’Arte della Lana trovasse effettiva applicazione, risultati di

una certa importanza e probabilmente non troppo difformi da quelli che

erano gli obiettivi di partenza. Da sottolineare, in particolare, il significato

della riforma degli uffici corporativi, che garantiva ai maestri dei

mestieri sottoposti una rappresentanza paritaria: una conquista che assume

maggior risalto se si considera che a Firenze la partecipazione di

questi lavoratori al Consolato e al Consiglio della Corporazione laniera

non superò mai la quinta parte67. Il regime dei Riformatori, che quelle

misure aveva varato, restava, pur nelle sue insufficienze, un interlocutore

non pregiudizialmente sordo alle aspirazioni dei lavoratori lanieri e la

sua caduta, nel 1385, significò la fine di un’esperienza che non poté più

essere ripetuta68.

Bologna 1986 [1981], pp. 293 sgg. ; M. Ascheri, Arti, mercanti e mercanzie. Il caso di

Siena, in Id., Siena nel Rinascimento. Istituzioni e sistema politico, Il Leccio, Siena 1985,

pp. 109-137.

67 Prima del Tumulto solo ai tintori, fra tutti i lavoratori sottoposti alla giurisdizione

dell’Arte della Lana fiorentina, era concesso di ricoprire le cariche corporative, ma

con la rivolta del 1378 la situazione cambiò radicalmente in virtù della creazione delle

Corporazioni autonome dei Ciompi e dei Tintori. Dopo la caduta del governo delle

Arti (1382) e il rientro di tutti gli addetti al settore laniero nei ranghi dell’Arte della

Lana le categorie più spiccatamente artigianali si videro riconosciuto il diritto di eleggere

2 dei 10 Consoli della Corporazione e 10 dei 50 membri del Consiglio; ma nel

1393, con la stretta oligarchica imposta dalla balìa dominata dagli amici degli Albizzi,

anche questa prerogativa venne cancellata (F. Franceschi, Oltre il ‘Tumulto’. I lavoratori

fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Olschki, Firenze 1993, pp. 85-86).

68 Cfr. a questo proposito le considerazioni di Cherubini, I mercanti e il potere cit.,

pp. 336-338.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 295

Firenze

Il Tumulto dei Ciompi è uno degli eventi della storia fiorentina sul quale

si sono registrate il maggior numero di ricerche. Tuttavia – come ha ricordato

anche recentemente Samuel Cohn – questa storiografia, vasta e internazionale,

si presenta profondamente divisa: pur nella diversità delle

interpretazioni individuali è possibìle tracciare una rozza linea di discrimine

fra chi – come Gene Brucker, Sergio Bertelli, Mollat e Wolff, Raymond

De Roover – ha spiegato essenzialmente la rivolta come un episodio della

lotte di fazione, negando agli insorti coesione sociale e coscienza politica,

giudicandoli manipolati dalle oligarchie e portatori di un’ideologia conservatrice

se non reazionaria; e chi – come Niccolò Rodolico, Victor

Rutenburg, Charles Marie de La Roncière, John Najemy, Richard Trexler,

Alessandro Stella e lo stesso Cohn – ha invece sottolineato la capacità di

autonoma iniziativa dei rivoltosi, l’originalità delle proposte elaborate e la

rilevanza delle conquiste pur brevemente prodotte dal Tumulto69. Il confronto

tuttavia, talvolta assai aspro, è apparso troppo spesso viziato dall’utilizzazione

di paradigmi interpretativi modernizzanti, tratti dall’esperienza

dei movimenti rivoluzionari e socialisti dell’Otto e Novecento70.

Ma che cosa chiedevano davvero gli insorti? Dalle tre petizioni identificate

dai ricercatori relative al periodo di luglio (due presentate a nome

del Popolo minuto e una delle Arti minori), frutto di una serie di riunioni

clandestine accompagnate dalla creazione di un comitato direttivo e di

un’organizzazione armata, emergono oltre venticinque distinte richieste71,

peraltro anticipate nelle linee essenziali – secondo il racconto della cosiddetta

Cronaca di Alamanno Acciaioli – dalla confessione di Simoncino

detto Bugigatto, uno degli operai arrestati il 19 luglio72. Al primo posto

della lista più importante, quella che Victor Rutenburg ha definito il «programma

di S. Lorenzo» perché messo a punto in un incontro tenutosi nell’omonima

chiesa la notte del 21 luglio73 e che rappresenta in maniera più

296 FRANCO FRANCESCHI

69 Cohn, Popular Protest cit., pp. 201-202.

70 Come ha sottolineato Stella, La révolte des Ciompi cit., pp. 62-65.

71 Tutta la materia è stata recentemente riesaminata in uno specifico contributo da

E. Screpanti, La politica dei Ciompi: petizioni, riforme e progetti dei rivoluzionari fiorentini

del 1378, «Archivio storico italiano», CLXV, 2007, pp. 3-56; qui (Appendici, A,

pp. 42-54) l’autore fornisce anche la trascrizione integrale della seconda delle petizioni

presentate dal Popolo minuto, conosciuta ma mai edita, che giudica «espressione del

partito degli Otto […] guidato da Salvestro de’ Medici» (ibid., p. 10), ossia del «blocco

di potere dell’alta borghesia mercantile-finanziaria» (ibid., p. 5, nota 5). L’articolo è poi

rifluito nel capitolo 4 del volume L’angelo della liberazione cit.

72 A. Acciaioli, Cronaca cit., p. 21.

73 Rutenburg, Popolo e movimenti popolari cit., p. 205.

diretta il punto di vista dei lavoratori tessili, figura la soppressione

dell’Ufficiale Forestiero dell’Arte della Lana; al secondo l’abolizione della

pena del taglio della mano per i debitori insolventi e, per due anni, dell’arresto

per i medesimi; al terzo e al quarto la definizione della rappresentanza

istituzionale del Popolo minuto, ovvero la facoltà di eleggere propri

Consoli e notai con prerogative uguali a quelle riservate ai funzionari delle

Arti già esistenti, la possibilità di ottenere una sede per riunirsi, nonché il

diritto di occupare un quarto dei seggi nella Signoria e nei Collegi e, a rotazione

con le Arti maggiori e quelle minori, la carica di Gonfaloniere di

Giustizia; con il quinto punto si reclama l’impunità per i responsabili degli

incendi e dei saccheggi perpetrati durante l’insurrezione di giugno. L’elenco

continua con una serie di richieste tese a modificare radicalmente il sistema

di tassazione e la gestione del debito pubblico, come l’abrogazione

dei prestiti forzosi (le prestanze) e l’introduzione dell’estimo, l’imposta di ripartizione

calcolata sugli effettivi patrimoni detenuti già vigente nel contado

fiorentino; l’abolizione del pagamento degli interessi sui titoli del

debito pubblico; la restituzione integrale ai creditori, da effettuarsi nell’arco

di dodici anni e secondo l’effettivo valore nominale dei prestiti, delle

somme prestate al Comune. Nella petizione non figura invece una richiesta

cui gli studiosi hanno prestato una certa attenzione: quella di porre un

limite alla continua svalutazione della moneta ‘piccola’ rispetto al fiorino,

fissando il tasso di cambio, allora attestato sui 75 soldi per fiorino, a 6874.

Se l’ordine delle domande presentate rifletteva la loro urgenza è evidente

che, per i Ciompi, la priorità assoluta era quella di liberarsi dal giogo

della sottomissione all’Arte della Lana, una sottomissione che implicava

innanzitutto l’impotenza dinanzi all’arbitrio del magistrato espressione

della giustizia partigiana dei lanaioli. Scavando nella ricca documentazione

superstite del tribunale della Corporazione laniera non è difficile rendersi

conto di quanto l’incubo delle condanne pecuniarie, delle pene corporali

e infamanti, della stessa tortura dovesse pesare sulla vita quotidiana di artigiani

e salariati75. Ma essere ‘sottoposti’ significava, subito dopo, restare

esclusi dalle decisioni dell’Arte in tutti gli altri campi, a partire da quello,

delicatissimo, dei rapporti di lavoro e delle retribuzioni. Ricordiamoci le

parole di Simoncino:

74 La richiesta compare fra le ultime contenute nell’altra petizione del Popolo minuto,

quella attribuibile al ‘partito degli Otto’ (cfr. nota 71), e questa circostanza fa sorgere

qualche dubbio sul fatto che si trattasse di una rivendicazione funzionale soltanto

agli interessi dei lavoratori salariati, così come è stata sempre intesa.

75 Cfr. F. Franceschi, Criminalità e mondo del lavoro. Il tribunale dell’Arte della lana

a Firenze nei secoli XIV e XV, «Ricerche storiche», XVIII, 1988, pp. 551-590; Id., Oltre

il ‘Tumulto’ cit., soprattutto pp. 282-285.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 297

Disse che li scardassieri, pettinatori, vergheggiatori, tintori, conciatori, cardaiuoli,

pettinagnoli, lavatori e altri che sono sottoposti all’Arte della Lana, non

vi vogliono più essere sottoposti; e vogliono in tutto, che l’ufficiale non sia più,

né avere a fare più nulla con lui; imperocché sono molto male trattati, sì dallo

uffiziale, che per ogni piccola cosa ci martoria, e sì da maestri lanaioli, che gli

pagano molto male, e, del lavorio che si viene dodici, ne danno otto. Il perché

questi cotali dicono, che vogliono consoli per loro, e non vogliono avere a fare,

né con lanaiuoli, né co’ loro uffiziale. E anche dicono, che vogliono avere parte

nel reggimento della città. E vogliono, che ogni ruberia e arsione fatta, non se

ne possa conoscere per nessun tempo76.

La richiesta di una propria organizzazione corporativa (questo significa,

naturalmente, «vogliono consoli per loro»), prima ancora che requisito

indispensabile per ottenere una rappresentanza politica, era la strada

obbligata per trattare ad armi pari con la controparte, per ottenere un miglioramento

delle condizioni di lavoro e di vita. Condizioni di cui, oltre

alla durezza, i sottoposti percepivano nettamente l’iniquità: quel lavorare

per 12 e ricevere 8 non significava necessariamente che i salari fossero da

fame, ma che certamente non erano il giusto corrispettivo dell’attività

svolta. In questo senso credo che sia del tutto lecito ritenere, come è stato

recentemente fatto in modo persuasivo, che i Ciompi avessero chiara coscienza

dello sfruttamento cui erano sottoposti77, così come è lecito ipotizzare,

considerando il loro programma in materia fiscale e finanziaria,

che comprendessero perfettamente i complessi meccanismi attraverso i

quali il regime dei prestiti forzosi ed il funzionamento del Monte determinavano

«un passaggio continuo di surplus monetario dalla parte meno abbiente

della popolazione a quella più ricca». In effetti, anche se non si può

fare a meno di notare l’assenza, nella documentazione relativa al Tumulto,

di espliciti riferimenti al livello troppo elevato della tassazione o alla necessità

di ridurlo, è certo che l’insieme dei provvedimenti concepiti su questo

terreno avrebbe condotto alla creazione di un sistema impositivo

improntato a maggiore equità78. Alla coscienza dell’iniquità del trattamento

298 FRANCO FRANCESCHI

76 Acciaioli, Cronaca cit., p. 21.

77 Screpanti, La politica dei Ciompi cit., pp. 25-26.

78 Cfr. la lucida analisi di R. Barducci, Le riforme finanziarie nel Tumulto dei Ciompi,

in Il Tumulto dei Ciompi cit., pp. 95-102; la citazione è a p. 99. Resta però da comprendere

fino a che punto riforme così profonde fossero realmente condivise da quanti, tra i

sottoposti dell’Arte della Lana, possedevano uno status professionale ed economico che

li distingueva dalla massa dei salariati: penso a certe figure di artigiani tessili (tintori,

conciatori, cimatori, tiratori, fabbricanti di strumenti) dei quali già Gene Brucker aveva

mostrato la condizione di «petty entrepreneurs» e la capacità di investire somme talvolta

consistenti nei titoli del debito pubblico (Brucker, The Ciompi Revolution cit., pp. 319-320,

citazione a p. 319). Resta il fatto che si trattava di una parte minoritaria dell’artigianato

retributivo e di quello fiscale si aggiungeva poi un’altra dolorosa consapevolezza,

quella della fragilità della posizione dei lavoratori sul mercato delle

braccia, aggravata certo dalla serrata dei lanaioli dopo i fatti di luglio, ma

originata dalla declinante tendenza del settore delineatasi già da qualche

anno79: una situazione che spinse i Ciompi a cercare di difendere i livelli di

occupazione (e quindi i loro salari) imponendo ai proprietari delle botteghe

l’obbligo di assicurare un volume minimo mensile di prodotto.

Il punto più alto del programma di luglio – non c’è bisogno di sottolinearlo

– era rappresentato dalla rivendicazione della partecipazione al potere

politico insieme alle componenti tradizionali, le Arti maggiori e quelle

minori. A questo proposito si è talvolta parlato del «naive character of

Ciompi aspirations»80, e tale può in effetti apparirci un disegno che presupponeva

l’effettiva e paritaria accettazione dei rappresentanti dei lavoratori

salariati da parte della comunità degli artifices. Più che di ingenuità,

tuttavia, si è forse trattato di eccessiva fiducia nella forza del movimento e

nella solidità dell’alleanza fra questo e le Arti minori, un’alleanza che, dopo

la riforma costituzionale effettuata dal governo di Michele di Lando, garantiva

almeno teoricamente la maggioranza nelle supreme magistrature

cittadine81. In realtà, se si torna a guardare ai pur intricati avvenimenti dell’estate

del 1378 con l’ottica degli uomini del tempo (ed è operazione molto

più complicata di quel che possa sembrare), è difficile non concludere –

con Rodolico, Stella, Cohn82 – che le richieste allora formulate erano destinate

a modificare profondamente il regime di vita di un larghissimo

strato di lavoratori e a incidere sull’ordine politico e sociale, se non su

quello economico. Come ha sintetizzato Giovanni Tabacco, «le nuove Arti

erano strumento validissimo per una radicale trasformazione delle condizioni

del lavoro e del potere nella città di Firenze: anche più di quanto fossero

validi, come mezzi di lotta ad alto livello sociale, la Parte Guelfa e gli

Ordinamenti [di Giustizia]»83.

laniero e assai esigua in rapporto all’insieme dei lavoratori dell’Arte della Lana. E nei

giorni del Tumulto il numero doveva avere un peso decisivo! Per qualche dato di matrice

non cronistica sulla consistenza degli addetti al settore laniero all’epoca della rivolta cfr.

Franceschi, Oltre il ‘Tumulto’ cit., pp. 94-112, in particolare Tab. 11, p. 108.

79 Per una presentazione dei diversi dati disponibili cfr. ibid., pp. 6-13.

80 Brucker, The Ciompi Revolution cit., p. 345.

81 Come scrissero in una lettera del 25 luglio due informatori senesi al governo della

loro città, «in tutti gli ofici le due parti electe sono del popolo minuto»: il documento è

stato pubblicato da Screpanti, La politica dei Ciompi cit., Appendici, 4, pp. 55-56; e successivamente

in Id., L’angelo della liberazione cit., Appendici, 4, p. 233.

82 Rodolico, I Ciompi, cit., pp. 121-122; Stella, La révolte des Ciompi cit., pp. 62-65;

Cohn, Lust for Liberty cit., p. 60.

83 G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino,

Einaudi, Torino 1979, p. 349.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 299

Più radicale ancora era il programma di agosto, anche questo condensato

in una petizione, che però non ci è pervenuta. Quello che in esso colpisce

– nella formulazione datane dalla Cronaca dello Squittinatore, peraltro

non sospetta di distorsioni imputabili alla simpatia dell’autore per i popolani

grassi, e dalla Cronaca Seconda d’Anonimo – è la netta prevalenza della

pars destruens sulla construens. Il punto centrale della petizione, che venne

pubblicamente letta il 27 agosto in Piazza San Marco, era infatti la proposta

di allontanare dagli uffici della Repubblica, per un periodo che poteva

arrivare a dieci anni, tutti i rettori delle Arti, i Priori in carica e i componenti

dei due Collegi che li affiancavano, ossia i Dodici Buonuomini e i

Sedici Gonfalonieri. Se si considera che questa proposta era completata

dalla richiesta di privare dei diritti politici i cavalieri, nonché di rinnovare

completamente perfino il personale amministrativo e gli stipendiari del

Comune, si può ragionevolmente ipotizzare che la finalità precipua fosse

quella di disarticolare il vecchio ceto di governo ed i suoi nuovi amici con

lo scopo di sostituirvisi. Un’analoga volontà punitiva rispetto ai ricchi patrizi

e al vasto gruppo dei rentiers esprimeva, sul piano economico, la richiesta

di non restituire ai loro titolari, per dieci anni, le somme raccolte dal

Monte attraverso il sistema delle prestanze: dopo il taglio degli interessi sui

titoli del debito pubblico lanciato in luglio i Ciompi avevano concepito in

agosto «una correzione in senso radicale di questa riforma»84, giungendo

a teorizzare, sebbene temporaneamente, «l’esproprio integrale» dei capitali

prestati85.

3. Qualche spunto comparativo

La presenza, nelle rivolte che abbiamo analizzato, dei lavoratori della

manifattura laniera non può essere considerata, in sé, un elemento sufficiente

per costruire un’interpretazione unitaria. Certo, tutti e tre gli episodi

appaiono come il prodotto di una nuova fase del conflitto che

percorreva la società urbana, fase caratterizzata dallo sviluppo delle rivendicazioni

del Popolo minuto, all’interno del quale si era accresciuto il ruolo

dei salariati, in larghissima misura esclusi dalla rappresentanza corporativa

e dal governo cittadino. Tali istanze e aspirazioni poterono prendere

più facilmente corpo anche perché in alcune città dell’Italia centro-settentrionale

la diffusione di attività produttive su larga scala, e in particolare di

quelle tessili, aveva impresso ai rapporti sociali un carattere fortemente antagonistico,

determinando all’interno dello schieramento popolare nuove

300 FRANCO FRANCESCHI

84 Barducci, Le riforme finanziarie cit., p. 95.

85 Screpanti, La politica dei Ciompi cit., p. 30.

fratture. Etichettare questi conflitti come scontri fra «pre-proletariato» e

«borghesia in formazione» non mi sembra però corretto né, soprattutto,

euristicamente utile: in nessuno dei singoli casi esaminati, infatti, la complessa

dinamica degli avvenimenti autorizza un’interpretazione così schematica,

che perde ancora più forza se utilizzata come concetto-chiave in

una prospettiva comparativa.

Il caso perugino in particolare – sul quale sarebbero comunque necessarie

ricerche ben più approfondite di quelle disponibili – sembra distaccarsi

dagli altri due per una minore specificità del ruolo dei lavoratori

tessili, per la mancanza di rivendicazioni chiare sul terreno dei rapporti di

lavoro e della loro traduzione corporativa, per l’assenza di un progetto politico

nel quale i salariati o almeno i popolani minuti venisse a costituire la

forza trainante: le richieste più concrete dei tumultuanti – come abbiamo

visto – erano infatti una diversa politica annonaria e l’abolizione della gabella

del macinato, la fine della guerra fra il Comune e la Chiesa, il ripristino

dell’autorità papale e dell’egemonia nobiliare in città. Sarà un caso,

ma Perugia era, dei tre centri urbani, quello in cui il peso della manifattura

laniera era minore, nonché l’unico (e uno dei pochi in Italia86) dove il settore

non era organizzato attraverso il modello dell’Arte unica, ma prevedeva

Corporazioni separate, sebbene gerarchicamente sottoposte al

controllo dell’associazione dei lanaioli, per le principali categorie di produttori

di panni: Battilana, comprendente i salariati meno specializzati ed

i tessitori; Cimatori, cui afferivano anche i purgatori; Tintori87.

Affinità maggiori esistono fra le sommosse senese e fiorentina, nate in

ambienti che, pur con differenze di scala, erano più decisamente segnati

dallo sviluppo di nuove forme di rapporti economici e sociali. In effetti

vari studiosi, sebbene con diversità di accenti, hanno sottolineato le conseguenze

della massiccia diffusione della ‘manifattura disseminata’ sulla

manodopera impegnata nella produzione dei panni: da un lato la formazione

di un vasto insieme di salariati non specializzati addetti alla preparazione

della lana, privi di strumenti di produzione, normalmente retribuiti

a giornata, soggetti alla dura disciplina del lavoro imposta dai lanifices nelle

86 Una rapida panoramica in F. Franceschi, L’organizzazione corporativa delle grandi

manifatture tessili nell’Europa occidentale: spunti comparativi, in Tra economia e politica:

le Corporazioni nell’Europa medievale, Atti del Ventesimo Convegno Internazionale

di Studi (Pistoia, 13-16.V.2005), Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, Pistoia 2007,

pp. 333-357: pp. 344-347.

87 Cfr. Broglio D’Ajano, Lotte sociali a Perugia cit., pp. 339-341; Rutenburg, Popolo

e movimenti popolari cit., pp. 26-27; G. Mira, Aspetti dell’organizzazione corporativa in

Perugia nel XIV secolo [1959], ora in Id., Scritti scelti di storia economica umbra, a cura

di A. Grohmann, Deputazione di storia patria per l’Umbria, Perugia 1990, pp. 133-165:

Tab. I, p. 137 e pp. 151-153.

I ‘CIOMPI’ A FIRENZE, SIENA E PERUGIA 301

loro botteghe; dall’altro la trasformazione dei tessitori e dei rifinitori del

tessuto in lavoratori ‘a fase’, ovvero, a dispetto del sapere tecnico e del contesto

‘artigianale’ che contraddistingueva la loro attività, in salariati a cottimo.

Processi cui aveva fatto seguito la trasformazione delle istituzioni

corporative, con la formazione di un’unica Arte della Lana comprendente

tutti coloro che operavano nel settore, dal mercante-imprenditore più facoltoso

all’ultimo degli apprendisti, ma dominata dal gruppo dei lanaioli:

solo questi ultimi erano gli artifices pleno iure, tra i quali si reclutava l’élite

che, attraverso gli organi interni, governava la Corporazione monopolizzando

la pienezza dei poteri deliberativi, esecutivi e giudiziari88.

Al di là delle similarità identificabili nelle strutture produttive e nei rapporti

sociali in cui maturarono, al di là di una ‘grammatica’ comune – la

presenza di leaders organici al movimento, di strumenti organizzativi efficaci,

di simboli capaci, come le bandiere, di generare coesione e indirizzare

la protesta89 – le rivolte di Siena e di Firenze condividevano alcuni

obiettivi di grande significato: ridiscutere l’ammontare e lo stesso meccanismo

di determinazione delle retribuzioni dei lavoratori, ottenere modalità

di rappresentanza corporativa in grado di affrancare artigiani e salariati

dalla condizione di ‘sottopposti’ che li caratterizzava, «avere parte nel reggimento

della città».

Le vie scelte nei due centri toscani, però, non furono esattamente le

stesse. A Siena la tutela degli interessi economici dei laboratores venne ricercata

nella gestione collegiale dell’Arte della Lana e nel ruolo di garanzia

svolto dal Comune, a Firenze nella nascita di tre nuove Corporazioni, una

delle quali specificamente riservata agli operai lanieri e ai tessitori. Anche sul

piano più squisitamente politico si registra una differenza di strategia, o almeno

di risultati immediati: nella Città del Palio, dove esisteva un governo

in cui il peso dei rappresentanti del Popolo minuto era decisivo, la rivolta

portò al temporaneo rafforzamento di questa componente; nella Città del

Giglio il successo della rivoluzione del luglio 1378 significò l’ingresso nell’esecutivo

e nelle principali magistrature cittadine di coloro che fino ad allora

erano stati – come ha scritto Alessandro Stella – dei «sans-droits»,

302 FRANCO FRANCESCHI

88 Per Firenze si vedano almeno Rutenburg, Popolo e movimenti popolari cit., pp. 34-

76 ; A. Stella, «La bottega e i lavoranti»: approche des conditions de travail des Ciompi,

«Annales. E.S.C.», XLIV, 1989, pp. 529-551; Ch. M. de La Roncière, La condition des salariés

à Florence au XIVe siècle, in Il Tumulto dei Ciompi, cit., pp. 13-40; Franceschi,

Oltre il ‘Tumulto’ cit., in particolare pp. 81-86. Per Siena Rutenburg, Popolo e movimenti

popolari cit., pp. 30-34; Id., La vie et la lutte cit.; La rivolta dei “ciompi” di Siena cit.,

pp. 33-44; Franceschi, La rivolta di «Barbicone» cit., pp. 294-296.

89 Tutti aspetti sui quali si sofferma efficacemente la sintesi di Cohn, Lust for Liberty

cit., in particolare pp. 125-128, 177-180, 183, 187.

«sans-parole», «sans-plume»90. Una parte dei ribelli fiorentini poi, dinanzi

alle difficoltà di dare attuazione al proprio programma, si spinse oltre costituendo

un comitato ristretto destinato a funzionare come «organo di controllo

permanente nel Palazzo della Signoria, fornito di potere di veto su

ogni iniziativa legislativa da parte del governo»91, e concependo una serie di

riforme radicali che, se attuate, avrebbero pro babilmente portato i loro promotori

a impadronirsi dei centri nevralgici del potere politico, economico

e militare. Questa minaccia contribuì in misura determinante a ricompattare

il fronte degli artifices maggiori e minori (compresi gli stessi artigiani

tessili) contro i Ciompi, che, isolati, vennero battuti in piazza, sconfitti

politicamente e ricacciati nella condizione di non-esistenza sociale in cui

versavano prima della sommossa. Ciò nonostante gli effetti della redistribuzione

del potere originata dai fatti di luglio perdurarono oltre la liquidazione

dell’Arte del Popolo di Dio, fino alla svolta politica del 1382.

Le rivolte di Siena e di Firenze, infine, sembrano presentare un’altra intrigante

analogia: si situano entrambe al culmine di un processo di ‘democratizzazione’

della vita politica cittadina che offrì alla parte più numerosa

della popolazione nuove opportunità di partecipazione e ne acuì le aspettative

di cambiamento. In ambedue le città tale processo passò per un’accresciuta

influenza della comunità delle Arti e dei ceti che queste rappresentavano

sulle istanze di governo, con un’accentuazione peraltro più

decisa, a Firenze, del ruolo del ‘corporativismo’ come cornice ideologica

della lotta fra «valori artigiani ed ethos aristocratico»92. Questa dimensione

decisamente ‘politica’ delle due insurrezioni consiglia di valutare con prudenza

interpretazioni troppo strettamente dipendenti dall’andamento della

congiuntura demografica o economica93: i rivoluzionari di Siena e di Firenze,

in realtà, mostrarono una sorprendente consapevolezza dell’impossibilità

di ottenere la tutela effettiva dei propri interessi senza modificare a

loro favore i rapporti di potere vigenti.

90 A. Stella, La révolte des Ciompi cit., p. 64.

91 N. Rubinstein, Il regime politico di Firenze dopo il Tumulto dei Ciompi, in Il

Tumulto dei Ciompi cit., pp. 105-124: p. 107.

92 La definizione è di Brucker, Dal Comune alla Signoria cit., p. 28. Per Firenze il

processo cui si fa riferimento è stato illustrato da Najemy, “Audiant omnes Artes” cit.; per

Siena cfr.Wainwright, The Testing of a Popular Sienese Regime cit.

93 O quanto meno di distinguere le tendenze di lungo periodo dai movimenti a

breve termine, il cui impatto sui comportamenti dei diversi ceti poteva essere assai più

marcato, come osserva opportunamente Giuliano Pinto nel suo intervento in questostesso volume (G. Pinto, Congiuntura economica, conflitti sociali, rivolte).

 



Ciuto Brandini

 

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Bottega di lanaiolo nel Trecento.

Cacciata del Duca d'Atene, affresco nel Carcere delle Stinche, ora in Palazzo Vecchio

La 'porticciola', nel bugnato di Palazzo Vecchio, da cui avvenne la fuga del Duca di Atene Gualtieri, preludio alla rivolta.

Ciuto Brandini (... – 1345) fu un operaio lanaiolo (cardatore) della repubblica fiorentina. Pur essendo un semplice ciompo, nel 1345 si mostrò in grado di fomentare una protesta, nel tentativo di organizzare i propri compagni di lavoro, operai e salariati senza mestiere, associandoli in corporazione con i cardatori..

Indice

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Storia della rivolta [modifica]

Presupposti [modifica]

La vicenda di Ciuto e della sua rivolta si inserisce nelle lotte intestine che, a metà trecento, opponevano il "popolo grasso" al "popolo minuto", i cui attriti si manifestavano con particolare intensità nel settore laniero, in cui il potere di organizzato dell'Arte della Lana spingeva efficacemente al ribasso i salari degli operai.

La rivolta maturò nello scenario apertosi nel 1343, con la cacciata del duca nominale di Atene Gualtieri VI di Brienne, che teneva la città in balìa, in una posizione a cui era stato avocato dagli stessi governatori della Repubblica comunale.

Il Duca, per ingraziarsi il "popolo magro" e svincolarsi così dal legame con i ceti abbienti, aveva improntato il proprio governo a una politica di moderato favore nei confronti del popolo minuto: a operai tintori e lanaioli, che di quel ceto avevano gran parte, aveva concesso nel di associarsi in Arte con i loro Priori, per meglio tutelare i propri interessi, sia pure sotto lo stretto controllo degli ufficiali del Gualtieri.

Nel 1343 era stata infatti riconosciuta la Corporazione d'arti e mestieri dei Tintori e dei Farsettai.

Scoppio della rivolta [modifica]

L'anno seguente, però, dopo la 'cacciata del Duca d'Atene', la corporazione dei Tintori era stata abolita e, con legge inserita nello Statuto del capitano del popolo, era fatto divieto agli operai salariati del settore laniero di costituire corporazioni autonome.

Montò quindi il malcontento degli operai: già in quello stesso autunno vi furono i primi violenti tumulti, che furono momentaneamente soffocati con la condanna dei fomentatori[1], lasciando il malcontento a covare negli animi. Pochi mesi dopo, nel mese di maggio 1345, entra in scena Ciuto Brandini, fiorentino di San Pier Maggiore[2], di professione cardatore: Ciuto organizza uno sciopero nel tentativo di associare i propri compagni di lavoro in una 'fratellanza' che raccogliesse le adesioni di operai e artigiani[1]. A tale scopo vengono convocate delle adunanze per le vie della città, in Piazza Santa Croce e alla Loggia dei Servi di Maria.

Il tentativo di sollevazione, tuttavia, non riuscì: la reazione fu immediata e Brandini fu arrestato insieme ai due figli il 24 maggio 1345: giudicato dal podestà, fu mandato a morte per decapitazione nel giro in pochi giorni[1][3].

Echi cronachistici e storiografici [modifica]

La prima citazione storiografica è nel trecentesco Frammento di altra cronica (in Donato Velluti, Cronica di Firenze, a cura di Domenico Maria Manni, Firenze, 1731, p. 148):

« A dì 24 di maggio '345 il capitano di Firenze, cioè fue Messer Nuccio da Gobbio, prese di notte Ciuto Brandini iscardassiere e suoi due figlioli, imperocché detto Ciuto voleva fare una compagnia a Santa Croce e fare setta e ragunata cogli altri lavoranti di Firenze; e in questo medesimo dì, i lavoranti di Firenze, cioè pettinatori e scardissieri, si incontanente ch'udirono, e seppero, che 'l detto Ciuto era stato preso di notte in sul letto dal Capitano, incontanente veruno non lavorò e istettonsi, e non voleano lavorare se 'l detto Ciuto non riavessono. I detti lavoranti andarono a' Priori, e pregandogli che 'l detto Ciuto faciessono ch'eglino il riavessino sano e lieto. E detti lavoranti di detta terra misono a bollire che se la sarebbono (...), se 'l detto Ciuto non riavessono sano e lieto »

Gli atti del processo furono pubblicati da Niccolò Rodolico nel 1899[4].

La figura di Ciuto Brandini e la rivolta dei Ciompi [modifica]

La più recente storiografia (Gino Capponi, Francois Tommy Perrens, Armando Sapori, Gene Adam Brucker) considera l'episodio uno dei primi tentativi di associazionismo tra lavoratori[1][5][1].

La sedizione ispirata e promossa da Ciuto Brandini, precedette di molto la sommossa del Bruco a Siena (1371). Con un anticipo di oltre 30 anni, inoltre, precorse un evento che avrà fama ben maggiore, il celebre tumulto dei Ciompi, che infiammò la Firenze del 1378. Entrambi questi due episodi maturarono in una società che aveva patito le devastazioni dell'epidemia di Peste nera che aveva imperversato nel 1348.

Note [modifica]

  1. ^ a b c d e Brandini, Ciuto dal Dizionario biografico degli italiani dell'Enciclopedia italiana Treccani
  2. ^ Atti del processo: 30 maggio, in Niccolò Rodolico, Il popolo minuto, Documento n. 14. San Pier maggiore era un quartiere artigianale a nord est della città.
  3. ^ La repubblica di Firenze nel 1300 in tuttostoria.net
  4. ^ Niccolò Rodolico, Il popolo minuto, Bologna, 1899 - Documento n. 14, pp. 157-160
  5. ^ A. Zorzi, in durango-udala.net

Bibliografia [modifica]

Voci correlate [modifica]


Rivolte popolari del XIV secolo

 

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La fine della rivolta dei contadini in Inghilterra: Wat Tyler ucciso da Walworth sotto gli occhi di Riccardo II

Il XIV secolo fu un periodo di crisi per la società Europea, con alcuni fenomeni di grave portata, come la Grande carestia del 1315-1317 o la peste nera del 1347-1350. A fronte di un netto peggioramento delle condizioni di vita dei ceti più bassi, sulle cui spalle ricadde gran parte della crisi, si ebbero una serie di rivolte popolari in tutta Europa.

Alle carestie, le epidemie, la riduzione degli spazi a coltura cerealicola in favore di coltivazioni più redditizie, le vessazioni del ceto fondiario, vanno aggiunte le guerre che erano frequenti in tutta Europa e che si tramutavano talvolta in razzie, saccheggi e assedi a lungo termine con una destabilizzazione della società.

L'aggravarsi delle condizioni di vita dei ceti subalterni nelle campagne produsse inizialmente un flusso di persone verso le città, dove erano almeno presenti alcune istituzioni caritatevoli che gli assicuravano un minimo di sostentamento giornaliero. Ciò causò un sovrappiù di manodopera che minacciò i ceti subalterni cittadini. Il malessere verso una situazione divenuta ormai insostenibile fu all'origine di rivolte un po' in tutta Europa, sia nelle campagne che nelle città, a partire dai ceti più umili che talvolta riuscivano a coinvolgere anche frange più agiate, come i piccoli artigiani o i produttori subalterni.

In Fiandra si erano registrate rivolte già nel primo trentennio del Trecento, dove era stata reclamata dai lavoratori artigiani un'organizzazione in Arti simili a quelle italiane. le campagne francesi vennero battute tra 1315 e 1360 dalle folle dei pastoureaux ("pastorelli"), che contestavano i ricchi e i signori feudali ammantandosi di idee apocalittiche e legate a una crociata che avrebbe purificato la cristianità dall'interno, secondo l'idea che i poveri fossero il "Popolo Eletto" da Dio. Tra il 1356 e il 1358 sempre in Francia ebbero luogo le rivolte della jacquerie, dove i contadini inferociti misero al rogo parecchi castelli ed aggravarono la situazione già difficile durante la guerra dei Cent'Anni. Nel 1356 dilagò a Parigi una rivolta capeggiata dal "prevosto" dei mercanti Étienne Marcel.

Tra il 1351 e il 1378 si ebbero le rivolte dei Ciompi, i salariati più bassi nella produzione laniera, che dilagarono a Perugia, a Siena e a Firenze. A Firenze c'era stata già una rivendicazione di tali lavoratori prima della peste, nel 1345, capeggiata da Ciuto Brandini, che venne decapitato[1]. Più successo ebbe la rivolta del 1378, che obbligò il governo fiorentino a concedere loro il diritto di avere riconosciuta una propria corporazione e ad a partecipare al governo cittadino. Le nuove arti "del Popolo di Dio" (cioè non MaggioriMinori) vissero fino al 1382, quando l'alleanza tra i ceti dominanti e intermedi isolò i Ciompi e i loro alleati, togliendo loro tutte le rivendicazioni che avevano ottenuto.

In Inghilterra si ebbe una dura rivolta cristiano-popolare nel 1381, capeggiata da Wat Tyler e John Ball, che si ribellarono al duro regime fiscale imposto dal re a causa della lunga guerra contro la Francia. Durante questa rivolta affiorarono motivi democratico-adamitici, come nel diffuso ritornello "Quando Adamo zappava ed Eva filava - dov'era il gentiluomo?".

Note [modifica]

  1. ^ CIUTO BRANDINI su Treccani.it

Bibliografia [modifica]

Voci correlate [modifica]


Tumulto dei Ciompi

 

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La statua di Michele di Lando,


Loggia del Mercato Nuovo, Firenze

Il Tumulto dei Ciompi fu una rivolta popolare che avvenne a Firenze tra il giugno e l'agosto del 1378. Si tratta di uno dei primi esempi di sollevazione per scopi economico-politici della storia europea.

Indice

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I Ciompi [modifica]

Nella Firenze medievale venivano indicati come "ciompi" (al singolare "ciompo", con il significato di poveraccio o pezzente, di etimo ignoto) o scardassieri, i salariati soprattutto del settore della lavorazione della lana (addetti alla pettinatura e alla cardatura), che rappresentavano uno dei gradini più bassi della scala sociale dell'epoca. Essi avevano come luogo di ritrovo la chiesa di Santa Maria dei Battilani in via delle Ruote (oggi sconsacrata).

Nel sistema delle Corporazioni delle arti e mestieri i Ciompi, assieme ad altri mestieranti più umili, non godevano di alcuna rappresentanza ed erano per questo esclusi da una qualsiasi gestione politica della società. La gerarchia politico-sociale era quindi rappresentata da un "popolo grasso" al vertice, rappresentante le Arti Maggiori, più prestigiose e redditizie, e da un "popolo minuto" (o medio), composto dalla piccola borghesia (le Arti Minori) e da un cosiddetto "popolo magro", consistente nel proletariato: braccianti, operai e piccoli commercianti, spesso immigrati dal contado per soddisfare la necessità di lavoro a basso costo, le cui condizioni economiche erano caratterizzate da estrema precarietà, privi inoltre di qualsiasi forma di rappresentanza.

In tutta Europa la seconda metà del Trecento, dopo la gravissima ondata della peste nera, fu caratterizzata da un'acuta crisi economica, il cui peso fu spesso scaricato dai cittadini più benestanti sulle masse più povere, grazie alle manovre politiche che essi avevano il potere di attuare.

La rivolta [modifica]

Le enormi spese sostenute per la guerra degli otto santi e il suo sostanziale fallimento, avevano fortemente impoverito la città di Firenze e gettato un grave discredito sull'oligarchia guelfa al governo della città. Le corporazioni artigiane organizzarono un forte tumulto per protestare contro i banchieri e i mercanti che detenevano il potere cittadino. A loro si unirono i Ciompi che, data la forte superiorità numerica, presero ben presto il controllo della piazza.

Da ricordare che i Ciompi erano già insorti nel 1345 guidati da Ciuto Brandini per ottenere l'autorizzazione a costituire una corporazione autonoma, ma la rivolta venne sedata facilmente senza che i nobili avessere concesso niente

Ormai protagonisti della rivolta, il 24 giugno 1378 i Ciompi occuparono il Palazzo dei Priori, chiedendo il diritto di associazione e la partecipazione alla vita pubblica. Grazie all'effetto sorpresa la loro protesta ebbe buon esito. Riuscirono infatti a eleggere come gonfaloniere di giustizia (la più alta carica esecutiva della Repubblica fiorentina, seppure con un mandato di durata molto breve) il loro leader Michele di Lando, e ottennero la creazione di tre nuove Arti che rappresentassero i ceti più bassi (da allora chiamato enfaticamente il "popolo di Dio"), quella dei Ciompi, appunto, quella dei Farsettai (i sarti) e quella dei Tintori. Essi inoltre ottennero che tutte le arti potessero partecipare al governo cittadino.

Michele di Lando non fu un abile uomo politico. Trovatosi improvvisamente a gestire un grande potere, fu continuamente bersagliato da richieste sempre maggiori dal popolo magro e venne messo in cattiva luce per l'alleanza con alcuni membri del più ricco popolo grasso (tra i quali soprattutto Salvestro de' Medici). Già in discredito verso gli operai che rappresentava, fu costretto a prendere misure di repressione contro l'ondata di violenza che essi andavano scatenando, con ritorsioni contro la nobiltà. Il malcontento contro la sua figura aumentò in poche settimane, soprattutto quando venne chiesta e non concessa la cancellazione del debito verso i datori di lavoro. Fu allora che i rappresentanti della vecchia oligarchia fecero cerchio per isolare la fazione dei Ciompi, ormai disgregata internamente e abbandonata dallo stesso Michele di Lando.

Il "popolo grasso" si alleò con quello minuto (la piccola borghesia), e il 31 agosto un numeroso gruppo di Ciompi, stabilitisi in Piazza della Signoria, fu cacciato con facilità dalle forze combinate delle altre Arti. La corporazione dei Ciompi venne abolita, Michele di Lando esiliato (sebbene non perseguitato, venendo anzi nominato Capitano di Volterra) assieme alle famiglie più compromesse con la rivolta, ed entro il 1382 la dominazione del "popolo grasso" era di fatto restaurata.

Filippo Villani dà una viva descrizione del fallimento del tumulto:

« I Ciompi se ne andarono sì come gente rotta, et senza capo et sentimento, perché si fidavano et furono traditi da loro medesimi »

Niccolò Machiavelli nelle Istorie fiorentine raccontò la rivolta con una serie di didascalie e dialoghi inventati che riflettevano le posizioni dei protagonisti, mutuate attraverso il suo punto di vista.

Il controllo delle grandi famiglie sulla vita politica cittadina di Firenze durò fino alla metà del Quattrocento, quando i Medici instaurarono, con ritardo rispetto ad altre analoghe situazioni in Italia, una Signoria di fatto.

Piazza dei Ciompi [modifica]

Bibliografia [modifica]

Voci correlate [modifica]


Arti di Firenze

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

(Reindirizzamento da Corporazioni delle arti e mestieri (Firenze))

 

Il Tribunale di Mercatanzia in piazza della Signoria

Le Arti di Firenze iniziano a costituirsi come corporazioni delle arti e mestieri tra il XII ed il XIII secolo; si trattava di associazioni laiche nate per la difesa ed il perseguimento di scopi comuni che riunivano gli appartenenti ad una stessa categoria professionale o chi esercitava lo stesso mestiere ed a cui va attribuita la buona parte del merito per lo straordinario sviluppo economico che permise a Firenze di diventare una delle più ricche e potenti città del medioevo europeo.

Indice

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La formazione [modifica]

La bottega della seta

La bottega della lana

 

«  Firenze fu il centro di una così grande cultura perché fu la sede delle maggiori libertà che erano allora possibili »

(Giovanni Villani I primi due secoli della storia di Firenze)

Le Arti furono la forma medievale organizzata di tutte le attività economiche cittadine: commercio, finanza, industria manifatturiera e artigianato; la prima arte di cui si ha notizia riguardo alla sua formazione è quella di Calimala, nel 1150 e intorno al 1193 esistevano già sette corporazioni, strutturate in modo pressoché identico: i membri eleggevano un consiglio composto da un certo numero di consoli, tra cui veniva eletto un capo che ne curava tutti gli interessi.

L'ingresso nelle corporazioni era regolato da precise condizioni: essere figli legittimi di un membro della stessa arte, dare prova della propria abilità artigiana e pagare una tassa. I membri erano generalmente divisi in maestri (che possedevano le materie prime e gli attrezzi e vendevano le merci prodotte nella propria bottega), apprendisti e garzoni.

Ciascuna arte aveva il proprio Statuto, con pieno valore di legge, e poteva emettere sentenze nelle controversie tra i membri o tra questi e i loro sottoposti (quelle delle Arti Maggiori erano considerate inappellabili). Nel Trecento venne creato il cosiddetto Tribunale di Mercatanzia, per le cause tra gli appartenenti alle diverse corporazioni. Le arti proteggevano i propri membri dalla concorrenza di altre città o di persone non appartenenti alla corporazione e garantivano la qualità del lavoro con un'attenta opera di supervisione sulle diverse botteghe. Si occupavano inoltre di organizzare l'orario di lavoro, stabilendo i giorni festivi, e di alcuni servizi pubblici. Nel corso del Quattrocento istituirono persino il corpo delle Guardie di città che reprimeva le frodi e si occupava dell'organizzazione di fiere e mercati, oltre a proteggere le vie durante la notte.

Fin dall’inizio, però, le Arti non ebbero tutte pari dignità; inizialmente divise in sette Arti Maggiori e quattordici Arti Minori, alcune di queste ultime divennero successivamente Arti Medie; il popolo minuto, non appartenente a nessuna delle arti, si sollevò nel 1378 durante il cosiddetto tumulto dei Ciompi, a seguito del quale si ebbe la formazione di tre nuove Arti dette del popolo di Dio. Gli appartenenti alle Arti Maggiori erano imprenditori, importatori di materie prime, esportatori di prodotti finiti, banchieri, commercianti e professionisti come giudici, notai e medici; gli appartenenti alle Arti Minori erano tutti i maestri d’opera ed i loro lavoranti occupati nella lavorazione del ferro, cuoio, legno, e nel settore alimentare in genere. Ci furono però anche dei mestieri che non raggiunsero mai la condizione di arte indipendente, ma dovettero associarsi a quelle già esistenti, come accadde nel caso dei pittori, che normalmente si iscrivevano all’Arte dei Medici e Speziali.

Le Arti Maggiori [modifica]

Le sette corporazioni che presero il nome di Arti Maggiori, si erano costituite tra la seconda metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo, staccandosi progressivamente dalla corporazione "madre" di Calimala; prima nacque l'Arte del Cambio, poi quella dei Giudici e dei Notai e della Lana, finché ciascuna di esse acquistò una propria specifica fisionomia, fissata dalle norme contenute nei loro statuti, che ne regolavano il funzionamento e gli organi di rappresentanza. Nel 1266 la sede principale delle Arti Maggiori era ancora Calimala e in quell'anno venne deciso che queste associazioni si organizzassero in modo ancora più stabile, ognuna con il proprio gonfalone, sotto il quale radunare all'occorrenza il popolo in armi. Gli iscritti a queste corporazioni si trovarono a gestire e ad amministrare grandi interessi e riuscirono a creare rapporti commerciali e finanziari in molte parti del mondo; il loro primato a livello economico li condusse entro la fine del Duecento alla guida della Repubblica fiorentina, alla cui grandezza e splendore contribuirono significativamente dando il via a tutta quella serie di lavori pubblici che ancora oggi restano a testimoniare la ricchezza e la potenza della città.

Di seguito sono elencate le sette Arti Maggiori:


 

Giudici e Notai

Calimala

Cambio

Lana

Seta (Por Santa Maria)

Medici e Speziali

Vaiai



Le Arti Minori [modifica]

Le quattordici corporazioni dette Arti Minori, cominciarono a costituirsi separatamente e ciascuna con un proprio statuto solo dopo la metà del Duecento; inizialmente infatti, erano tutte riunite e confederate in un'unica associazione, con una rappresentanza in comune, ma dal 1266 in poi iniziarono ad assumere una propria identità specifica; l'Arte dei Vinattieri nacque proprio in quell'anno, quella dei Calzolai esisteva già nel 1273 e le prime notizie sull'Arte dei Cuoiai risalgono al 1282. Gli iscritti alle Arti Minori furono molto numerosi e in certi casi radunarono anche gli appartenenti ad altre categorie professionali, con le quali esisteva una certa affinità di mestiere o perché essendo di irrilevante importanza politica, cercavano l'appoggio di quelle già ufficialmente riconosciute. Trattandosi però di corporazioni dal carattere prettamente artigiano, le cui attività venivano esercitate praticamente solo a livello locale, il loro coinvolgimento nella vita politica cittadina fu generalmente più limitato rispetto a quello delle Arti Maggiori e pur avendo contribuito in modo significativo all'affermazione del guelfismo, rimasero sempre relegate in questa condizione di "minorità". È per questo che, nonostante l'operosità ed il pregio dei manufatti prodotti da alcune di queste Arti, rinomati anche fuori Firenze, i nomi dei loro soci appaiono in modo solo sporadico ed occasionale tra gli eletti alle magistrature cittadine.

Di seguito sono elencate le quattordici Arti Minori:

 

Beccai

Legnaioli

L'ascesa politica [modifica]

La bottega del fabbro

Le Arti furono contrapposte per tutto il XIII secolo alle antiche consorterie di origine aristocratico-feudale, inurbatesi già a partire dal XI secolo e che controllavano e gestivano saldamente il funzionamento delle istituzioni politiche cittadine; troviamo così eletti alle più alte magistrature fiorentine gli esponenti delle famiglie degli Uberti, Guidi, Alberti o Pazzi.

L’ascesa delle corporazioni partì innanzitutto dalla rivendicazione dell’esercizio di un ruolo politico attivo nel governo comunale, in nome del grande sviluppo economico e commerciale della città, di cui i loro iscritti erano i principali fautori; l'appoggio delle corporazioni al partito guelfo, si rivelò fondamentale per la definitiva sconfitta dei ghibellini a Firenze ed il loro crescente coinvolgimento nelle istituzioni è già rintracciabile a partire dal 1250 durante il cosiddetto Governo del Primo Popolo. L'avversità nei confronti del partito nemico è infatti chiaramente rintracciabile anche negli statuti più antichi che ci sono pervenuti, in base ai quali l'essere guelfo era considerato uno dei requisiti "morali" indispensabili ai fini stessi dell'immatricolazione.

Nel 1266 le Arti Maggiori ottennero finalmente il riconoscimento come soggetto giuridico ma la lotta tra guelfi e ghibellini continuò anche negli anni successivi, creando una situazione di grande instabilità a Firenze fino alla nascita del Priorato delle Arti nel 1282; oltre a rappresentare la vittoria del guelfismo, il Priorato consentì agli esponenti delle Arti Maggiori di affiancare i magnati nelle più alte cariche di governo, imponendo l’obbligo di iscriversi anche solo formalmente ad una delle corporazioni per poter accedere alle magistrature. Nel 1285 vennero create le Arti Medie, consentendo anche ai loro rappresentanti di partecipare alla vita politica cittadina. Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella del 1293, esclusero infine i magnati dal governo fiorentino e benché successivamente attenuati, segnarono la definitiva conquista del potere da parte del ceto borghese sulle famiglie di antico lignaggio aristocratico e cavalleresco.

Le Arti nel Trecento [modifica]

Il trionfo della morte

Agli inizi del Trecento Firenze intraprese un'intensa politica di espansione verso il contado, ai danni dei signori feudali che vivevano nei territori circostanti. Al suo interno, invece, il clima politico si fece sempre più rovente; infatti, dopo l'entrata in vigore degli Ordinamenti, che avrebbero dovuto consegnare stabilmente il governo nelle mani dell'oligarchia guelfa, i magnati, piuttosto che rassegnarsi alla definitiva esclusione dalle magistrature, si convertirono al guelfismo, portando stavolta il partito guelfo alla spaccatura in un due fazioni rivali, i Bianchi e i Neri. Si riproponeva così una situazione del tutto analoga a quella che aveva caratterizzato il secolo precedente; alla fine prevalsero i Neri ed il loro capo, il magnate Corso Donati, restò alla guida della città fino al 1307, dopo aver fatto uccidere ed esiliare decine di avversari, tra cui Dante Alighieri.

Tutto ciò non deve indurre a pensare che niente fosse cambiato; gli esponenti delle Arti Maggiori infatti si erano molto avvicinati a quelli dell'antica aristocrazia, di cui ora tentavano di imitare lo stile di vita. I grandi banchieri ed i ricchi mercanti mantennero quei privilegi che fino a 50 anni prima erano riservati solo alla nobiltà e per cui avevano così caparbiamente lottato; adesso, la marcia di raggiungimento del medesimo status sociale poteva dirsi conclusa ed in questo gli Ordinamenti rappresentano un punto di non ritorno nella storia della città.

Le Arti si mantennero saldamente al potere al fianco dei magnati per tutto il Trecento; se si esclude il breve periodo della tirannia del Duca di Atene, Gualtieri VI di Brienne, cacciato nel 1343, la politica fiorentina pare mostrare una certa linea di continuità. Gli affari continuarono a prosperare fin verso gli anni quaranta del Trecento, quando il fallimento dei banchi dei Bardi e dei Peruzzi e la peste nera del 1348 segnarono una notevole battuta di arresto nello sviluppo economico della città che cercò di riprendersi al più presto affidandosi come sempre al suo motore economico.


Il tumulto dei Ciompi [modifica]

Tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento si verificò un fenomeno molto significativo che portò alla modifica dei processi di lavorazione all'interno delle Arti; fin dalla loro comparsa infatti, uno dei cardini sul quale si reggeva il sistema corporativo era il rapporto tra maestro ed allievo, attraverso il periodo di formazione che ogni matricola doveva svolgere in base ad un contratto stipulato secondo le norme di ciascuna corporazione.

Il periodo di apprendistato divenne sempre più lungo e si cominciò a retribuire indistintamente tutti i lavoranti della bottega; questa fu la spia di un cambiamento importante perché gli apprendisti dovevano in teoria prestare il loro servizio gratuitamente in cambio dell'insegnamento ricevuto dal maestro, per poter essere in grado di aprire un'attività in proprio una volta terminato il praticantato.

Il lavoro a salario divenne molto diffuso ed impedì a coloro che avevano ormai raggiunto il grado di maestri di aprire la propria bottega. Molti maestri, a loro volta, furono costretti dalle grandi compagnie commerciali a lavorare in esclusiva per loro imponendo anche il prezzo per la lavorazione delle materie prime; ciò avvenne soprattutto nel settore della trasformazione della lana e della seta ed infatti nel 1378, il cosiddetto Tumulto dei Ciompi interessò proprio i salariati sottoposti a vario titolo nell'Arte della Lana.

Le Arti nate dal Tumulto dei Ciompi [modifica]

Il declino e la soppressione [modifica]

Il duca Alessandro I de'Medici

Il Granduca Pietro Lepoldo di Lorena


Il peso politico delle arti risultava già ridimensionato nel Quattrocento durante la signoria medicea; dopo la scoperta delle Americhe le nuove rotte commerciali misero in crisi il sistema corporativo che si avviò verso un lento declino.

L'assedio di Carlo V nel 1530 prosciugò letteralmente le casse delle Arti, che per finanziare il costo della guerra, nel disperato tentativo di difendere la libertà della Repubblica, misero in vendita quasi tutti i beni di loro proprietà. Neppure questo tuttavia bastò ad impedire l'inizio del Principato Mediceo; il duca Alessandro I dei Medici nel 1534 decise di riformarne gli statuti, riducendole a semplici associazioni di mestiere, senza più alcuna rilevanza sul piano politico.

Le 14 Arti Minori vennero raggruppate in 4 Università:

Era governata da 6 consoli ed ebbe per protettore San Pietro; l'insegna adottata fu un leone rosso rampante su fondo oro con un giglio bianco nella branca destra elevata e la sede venne stabilita inizialmente nel palazzo dell'Arte dei Beccai; nel 1583, un nuovo decreto granducale accorpò questa università con quella dei Fabbricanti, che assunse la denominazione di Università dei Fabbricanti e Por San Piero e la residenza venne spostata sotto gli Uffizi, mantenendo la propria insegna.

Era governata da 6 consoli, uno per arte ed il sesto a turno, cominciando dai Fabbri ed ebbe per protettrice la SS. Annunziata; l'insegna adottata fu un giglio bianco su fondo oro e la sede inizialmente presecelta fu quella dei Maestri di Pietra e Legname nel Chiasso dei Baroncelli. A seguito dell'accorpamento con l'università di Por San Piero nel 1583, la sede venne trasferita sotto gli Uffizi.

Era governata da 6 consoli ed ebbe per protettrice la santissima Trinità; l'insegna adottata fu lo stemma bianco e nero già usato dai Cuoiai; nel 1561 venne annessa anche l'Arte Maggiore dei Vaiai e Pellicciai, per cui l'università assunse la denominazione di Università dei Vaiai e Cuoiai; la prima sede venne stabilita in via Lambertesca e nel 1562 fu spostata in via delle Terme.

Era governata da 6 consoli ed ebbe per protettore San Marco; l'insegna adottata fu lo stemma bianco e rosso già dei Linaioli e la sede venne spostata più volte, finché nel 1703 venne stabilita sotto gli Uffizi, insieme a quella dei Fabbricanti e di Por San Piero.

Nel 1770 il granduca di Toscana Pietro Leopoldo soppresse tutte le Arti ad eccezione di quella dei Giudici e Notai, spostandone le funzioni alla Camera di Commercio, Arti e Manifatture; l'Arte dei Giudici e Notai continuò ad esistere fino al 1777, quando un nuovo bando granducale ne passò le prerogative al Magistrato del Conservatorio delle Leggi.

Bibliografia [modifica]

Voci correlate [modifica]