Tender to                PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA


 

DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI

TOLEMAICO E COPERNICANO[1]

 

di GALILEO GALILEI

 

 

 

Serenissimo Gran Duca,

la differenza che è tra gli uomini e gli altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco dissimile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. Qual proporzione ha da uno a mille? e pure è proverbio vulgato, che un solo uomo vaglia per mille, dove mille non vagliano per un solo. Tal differenza depende dalle abilità diverse degl'intelletti, il che io riduco all'essere o non esser filosofo: poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli, chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in piú e men degno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira piú alto, si differenzia piú altamente; e 'l volgersi al gran libro della natura, che è 'l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d'Artefice onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno è piú spedito e piú degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce l'opera e l'artifizio. La costituzione dell'universo, tra i naturali apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se quella, come universal contenente, in grandezza tutt'altri avanza, come regola e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà. Però, se a niuno toccò mai in eccesso differenziarsi nell'intelletto sopra gli altri uomini, Tolomeo e 'l Copernico furon quelli che sí altamente lessero s'affisarono e filosofarono nella mondana costituzione. Intorno all'opere de i quali rigirandosi principalmente questi miei Dialoghi, non pareva doversi quei dedicare ad altri che a Vostra Altezza; perché posandosi la lor dottrina su questi due, ch'io stimo i maggiori ingegni che in simili speculazioni ci abbian lasciate loro opere, per non far discapito di maggioranza, conveniva appoggiarli al favore di Quello appo di me il maggiore, onde possan ricevere e gloria e patrocinio. E se quei due hanno dato tanto lume al mio intendere, che questa mia opera può dirsi loro in gran parte, ben potrà anche dirsi di Vostr'Altezza, per la cui liberal magnificenza non solo mi s'è dato ozio e quiete da potere scrivere, ma per mezo di suo efficace aiuto, non mai stancatosi in onorarmi, s'è in ultimo data in luce. Accettila dunque l'Altezza Vostra con la sua solita benignità; e se ci troverrà cosa alcuna onde gli amatori del vero possan trar frutto di maggior cognizione e di giovamento, riconoscala come propria di sé medesima, avvezza tanto a giovare, che però nel suo felice dominio non ha niuno che dell'universali angustie, che son nel mondo, ne senta alcuna che lo disturbi. Con che pregandole prosperità, per crescer sempre in questa sua pia e magnanima usanza, le fo umilissima reverenza.

Dell'Altezza Vostra Serenissima

Umilissimo e devotissimo servo e vassallo

GALILEO GALILEI


 

AL DISCRETO LETTORE

 

Si promulgò a gli anni passati in Roma un salutifero editto, che, per ovviare a' pericolosi scandoli dell'età presente, imponeva opportuno silenzio all'opinione Pittagorica della mobilità della Terra. Non mancò chi temerariamente asserí, quel decreto essere stato parto non di giudizioso esame, ma di passione troppo poco informata, e si udirono querele che consultori totalmente inesperti delle osservazioni astronomiche non dovevano con proibizione repentina tarpar l'ale a gl'intelletti speculativi. Non poté tacer il mio zelo in udir la temerità di sí fatti lamenti. Giudicai, come pienamente instrutto di quella prudentissima determinazione, comparir publicamente nel teatro del mondo, come testimonio di sincera verità. Mi trovai allora presente in Roma; ebbi non solo udienze, ma ancora applausi de i piú eminenti prelati di quella Corte; né senza qualche mia antecedente informazione seguì poi la publicazione di quel decreto. Per tanto è mio consiglio nella presente fatica mostrare alle nazioni forestiere, che di questa materia se ne sa tanto in Italia, e particolarmente in Roma, quanto possa mai averne imaginato la diligenza oltramontana; e raccogliendo insieme tutte le speculazioni proprie intorno al sistema Copernicano, far sapere che precedette la notizia di tutte alla censura romana, e che escono da questo clima non solo i dogmi per la salute dell'anima, ma ancora gl'ingegnosi trovati per delizie degl'ingegni.

A questo fine ho presa nel discorso la parte Copernicana, procedendo in pura ipotesi matematica, cercando per ogni strada artifiziosa di rappresentarla superiore, non a quella della fermezza della Terra assolutamente, ma secondo che si difende da alcuni che, di professione Peripatetici, ne ritengono solo il nome, contenti, senza passeggio, di adorar l'ombre, non filosofando con l'avvertenza propria, ma con solo la memoria di quattro principii mal intesi.

Tre capi principali si tratteranno. Prima cercherò di mostrare, tutte l'esperienze fattibili nella Terra essere mezi insufficienti a concluder la sua mobilità, ma indifferentemente potersi adattare cosí alla Terra mobile, come anco quiescente; e spero che in questo caso si paleseranno molte osservazioni ignote all'antichità. Secondariamente si esamineranno li fenomeni celesti, rinforzando l'ipotesi copernicana come se assolutamente dovesse rimaner vittoriosa, aggiungendo nuove speculazioni, le quali però servano per facilità d'astronomia, non per necessità di natura. Nel terzo luogo proporrò una fantasia ingegnosa. Mi trovavo aver detto, molti anni sono, che l'ignoto problema del flusso del mare potrebbe ricever qualche luce, ammesso il moto terrestre. Questo mio detto, volando per le bocche degli uomini, aveva trovato padri caritativi che se l'adottavano per prole di proprio ingegno. Ora, perché non possa mai comparire alcuno straniero che, fortificandosi con l'armi nostre, ci rinfacci la poca avvertenza in uno accidente cosí principale, ho giudicato palesare quelle probabilità che lo renderebbero persuasibile, dato che la Terra si movesse. Spero che da queste considerazioni il mondo conoscerà, che se altre nazioni hanno navigato piú, noi non abbiamo speculato meno, e che il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra, e prender il contrario solamente per capriccio matematico, non nasce da non aver contezza di quant'altri ci abbia pensato, ma, quando altro non fusse, da quelle ragioni che la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza, e la coscienza della debolezza dell'ingegno umano, ci somministrano.

Ho poi pensato tornare molto a proposito lo spiegare questi concetti in forma di dialogo, che, per non esser ristretto alla rigorosa osservanza delle leggi matematiche, porge campo ancora a digressioni, tal ora non meno curiose del principale argomento.

Mi trovai, molt'anni sono, piú volte nella maravigliosa città di Venezia in conversazione col signor Giovan Francesco Sagredo, illustrissimo di nascita, acutissimo d'ingegno.Venne là di Firenze il signor Filippo Salviati, nel quale il minore splendore era la chiarezza del sangue e la magnificenza delle ricchezze; sublime intelletto, che di niuna delizia piú avidamente si nutriva, che di specolazioni esquisite. Con questi due mi trovai spesso a discorrer di queste materie, con l'intervento di un filosofo peripatetico, al quale pareva che niuna cosa ostasse maggiormente per l'intelligenza del vero, che la fama acquistata nell'interpretazioni Aristoteliche.

Ora, poiché morte acerbissima ha, nel piú bel sereno de gli anni loro, privato di quei due gran lumi Venezia e Firenze, ho risoluto prolungar, per quanto vagliono le mie debili forze, la vita alla fama loro sopra queste mie carte, introducendoli per interlocutori della presente controversia. Né mancherà il suo luogo al buon Peripatetico, al quale, pel soverchio affetto verso i comenti di Simplicio, è parso decente, senza esprimerne il nome, lasciarli quello del reverito scrittore. Gradiscano quelle due grand'anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento del mio non mai morto amore, e con la memoria della loro eloquenza mi aiutino a spiegare alla posterità le promesse speculazioni.

Erano casualmente occorsi (come interviene) varii discorsi alla spezzata tra questi signori, i quali avevano piú tosto ne i loro ingegni accesa, che consolata, la sete dell'imparare: però fecero saggia risoluzione di trovarsi alcune giornate insieme, nelle quali, bandito ogni altro negozio, si attendesse a vagheggiare con piú ordinate speculazioni le maraviglie di Dio nel cielo e nella terra. Fatta la radunanza nel palazzo dell'illustrissimo Sagredo, dopo i debiti, ma però brevi, complimenti, il signor Salviati in questa maniera incominciò.


 

GIORNATA PRIMA

 

INTERLOCUTORI:

Salviati, Sagredo e Simplicio

 

SALV. Fu la conclusione e l'appuntamento di ieri, che noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto piú distintamente e particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e loro efficacia, che per l'una parte e per l'altra sin qui sono state prodotte da i fautori della posizione Aristotelica e Tolemaica e da i seguaci del sistema Copernicano. E perché, collocando il Copernico la Terra tra i corpi mobili del cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un pianeta, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l'andare esaminando quale e quanta sia la forza e l'energia de i progressi peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in natura sustanze diverse tra di loro, cioè la celeste e la elementare, quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca. Il quale argomento tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con discorsi dependenti da alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni particolari. Io, seguendo l'istesso ordine, proporrò, e poi liberamente dirò il mio parere; esponendomi alla censura di voi, ed in particolare del signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore della dottrina Aristotelica.

È il primo passo del progresso peripatetico quello dove Aristotile prova la integrità e perfezione del mondo coll'additarci com'ei non è una semplice linea né una superficie pura, ma un corpo adornato di lunghezza, di larghezza e di profondità; e perché le dimensioni non son piú che queste tre, avendole egli, le ha tutte, ed avendo il tutto, è perfetto. Che poi, venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitudine che si chiama linea, aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l'altezza o profondità ne risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra, sí che in queste tre sole si termini l'integrità e per cosí dire la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato dimostrato con necessità, e massime potendosi ciò esequire assai chiaro e speditamente.

SIMP. Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°, 3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo? Non avete, primieramente, che oltre alle tre dimensioni non ve n'è altra, perché il tre è ogni cosa, e 'l tre è per tutte le bande? e ciò non vien egli confermato con l'autorità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo e fine, che è il numero del tutto? E dove lasciate voi l'altra ragione, cioè che, quasi per legge naturale, cotal numero si usa ne' sacrifizii degli Dei? e che, dettante pur cosí la natura, alle cose che son tre, e non a meno, attribuiscono il titolo di tutte? perché di due si dice amendue, e non si dice tutte; ma di tre, sí bene. E tutta questa dottrina l'avete nel testo 2°. Nel 3° poi, ad pleniorem scientiam, si legge che l'ogni cosa, il tutto, e 'l perfetto, formalmente son l'istesso; e che però solo il corpo tra le grandezze è perfetto, perché esso solo è determinato da 3, che è il tutto, ed essendo divisibile in tre modi, è divisibile per tutti i versi: ma dell'altre, chi è divisibile in un modo, e chi in dua, perché secondo il numero che gli è toccato, cosí hanno la divisione e la continuità; e cosí quella è continua per un verso, questa per due, ma quello, cioè il corpo, per tutti. Di piú nel testo 4°, doppo alcune altre dottrine, non prov'egli l'istesso con un'altra dimostrazione, cioè che non si facendo trapasso se non secondo qualche mancamento (e cosí dalla linea si passa alla superficie, perché la linea è manchevole di larghezza), ed essendo impossibile che il perfetto manchi, essendo egli per tutte le bande, però non si può passare dal corpo ad altra magnitudine? Or da tutti questi luoghi non vi par egli a sufficienza provato, com'oltre alle tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità, non si dà transito ad altra, e che però il corpo, che le ha tutte, è perfetto?

SALV. Io, per dire il vero, in tutti questi discorsi non mi son sentito strignere a concedere altro se non che quello che ha principio, mezo e fine, possa e deva dirsi perfetto: ma che poi, perché principio, mezo e fine son 3, il numero 3 sia numero perfetto, ed abbia ad aver facultà di conferir perfezione a chi l'averà, non sento io cosa che mi muova a concederlo; e non intendo e non credo che, verbigrazia, per le gambe il numero 3 sia piú perfetto che 'l 4 o il 2; né so che 'l numero 4 sia d'imperfezione a gli elementi, e che piú perfetto fusse ch'e' fusser 3. Meglio dunque era lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo intento con dimostrazione necessaria, ché cosí convien fare nelle scienze dimostrative.

SIMP. Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: e pure è tutta dottrina de i Pittagorici, i quali tanto attribuivano a i numeri; e voi, che sete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.

SALV. Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l'intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per l'intender egli la natura de' numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano dal farne l'istesso giudizio; ma che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de' numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e per le carte del volgo, non credo io in veruna maniera; anzi perché so che essi, acciò le cose mirabili non fussero esposte alle contumelie e al dispregio della plebe, dannavano come sacrilegio il publicar le piú recondite proprietà de' numeri e delle quantità incommensurabili ed irrazionali da loro investigate, e predicavano che quello che le avesse manifestate era tormentato nell'altro mondo, penso che tal uno di loro per dar pasto alla plebe e liberarsi dalle sue domande, gli dicesse, i misterii loro numerali esser quelle leggerezze che poi si sparsero tra il vulgo; e questo con astuzia ed accorgimento simile a quello del sagace giovane che, per torsi dattorno l'importunità non so se della madre o della curiosa moglie, che l'assediava acciò le conferisse i segreti del senato, compose quella favola onde essa con molte altre donne rimasero dipoi, con gran risa del medesimo senato, schernite.

SIMP. Io non voglio esser nel numero de' troppo curiosi de' misterii de' Pittagorici; ma stando nel proposito nostro, replico che le ragioni prodotte da Aristotile per provare, le dimensioni non esser, né poter esser, piú di tre, mi paiono concludenti; e credo che quando ci fusse stata dimostrazione piú necessaria, Aristotile non l'avrebbe lasciata in dietro.

SAGR. Aggiugnetevi almanco, se l'avesse saputa, o se la gli fusse sovvenuta. Ma voi, signor Salviati, mi farete ben gran piacere di arrecarmene qualche evidente ragione, se alcuna ne avete cosí chiara, che possa esser compresa da me.

SALV. Anzi, e da voi e dal signor Simplicio ancora; e non pur compresa, ma di già anche saputa, se ben forse non avvertita. E per piú facile intelligenza piglieremo carta e penna, che già veggio qui per simili occorrenze apparecchiate, e ne faremo un poco di figura. E prima noteremo questi due

punti A, B, e tirate dall'uno all'altro le linee curve A C B, A D B e la retta A B, vi domando qual di esse nella mente vostra è quella che determina la distanza tra i termini A, B, e perché.

SAGR. Io direi la retta, e non le curve; sí perché la retta è la piú breve; sí perché l'è una, sola e determinata, dove le altre sono infinite, ineguali e piú lunghe, e la determinazione mi pare che si deva prendere da quel che è uno e certo.

SALV. Noi dunque aviamo la linea retta per determinatrice della lunghezza tra due termini: aggiunghiamo adesso un'altra linea retta e parallela alla A B, la quale sia C D, sí che tra esse resti frapposta una superficie, della quale io vorrei che voi mi assegnaste la larghezza. Però partendovi dal termine A, ditemi dove e come voi volete andare a terminare nella linea C D per assegnarmi la larghezza tra esse linee compresa; dico se voi la determinerete secondo la quantità della curva A E, o pur della retta A F, o pure…

SIMP. Secondo la retta A F, e non secondo la curva, essendosi già escluse le curve da simil uso.

SAGR. Ma io non mi servirei né dell'una né dell'altra, vedendo la retta A F andare obliquamente; ma vorrei tirare una linea che fusse a squadra sopra la C D, perché questa mi par che sarebbe la brevissima, ed unica delle infinite maggiori, e tra di loro ineguali, che dal termine A si possono produrre ad altri ed altri punti della linea opposta C D.

SALV. Parmi la vostra elezione, e la ragione che n'adducete, perfettissima: talché sin qui noi abbiamo, che la prima dimensione si determina con una linea retta; la seconda, cioè la larghezza, con un'altra linea pur retta, e non solamente retta, ma, di piú, ad angoli retti sopra l'altra che determinò la lunghezza; e cosí abbiamo definite le due dimensioni della superficie, cioè la lunghezza e la larghezza. Ma quando voi aveste a determinare un'altezza, come, per esempio, quanto sia alto questo palco dal pavimento che noi abbiamo sotto i piedi; essendo che da qualsivoglia punto del palco si possono tirare infinite linee, e curve e rette, e tutte di diverse lunghezze, ad infiniti punti del sottoposto pavimento, di quale di cotali linee vi servireste voi?

SAGR. Io attaccherei un filo al palco, e con un piombino, che pendesse da quello, lo lascerei liberamente distendere sino che arrivasse prossimo al pavimento; e la lunghezza di tal filo, essendo la retta e brevissima di quante linee si potessero dal medesimo punto tirare al pavimento, direi che fusse la vera altezza di questa stanza.

SALV. Benissimo. E quando dal punto notato nel pavimento da questo filo pendente (posto il pavimento a livello, e non inclinato) voi faceste partire due altre linee rette, una per la lunghezza e l'altra per la larghezza della superficie di esso pavimento, che angoli conterrebber elleno con esso filo?

SAGR. Conterrebbero sicuramente angoli retti, cadendo esso filo a piombo ed essendo il pavimento ben piano e ben livellato.

SALV. Adunque se voi stabilirete alcun punto per capo e termine delle misure, e da esso farete partire una retta linea come determinatrice della prima misura, cioè della lunghezza, bisognerà per necessità che quella che dee definir la larghezza si parta ad angolo retto sopra la prima, e che quella che ha da notar l'altezza, che è la terza dimensione, partendo dal medesimo punto formi, pur con le altre due, angoli non obliqui, ma retti: e cosí dalle tre perpendicolari avrete, come da tre linee une e certe e brevissime, determinate le tre dimensioni, A B lunghezza, A C larghezza, A D altezza.

E perché chiara cosa è, che al medesimo punto non può concorrere altra linea che con quelle faccia angoli retti, e le dimensioni dalle sole linee rette che tra di loro fanno angoli retti deono esser determinate, adunque le dimensioni non sono piú che 3; e chi ha le 3 le ha tutte, e chi le ha tutte è divisibile per tutti i versi, e chi è tale è perfetto, etc.

SIMP. E chi lo dice che non si possan tirare altre linee? e perché non poss'io far venir di sotto un'altra linea sino al punto A, che sia a squadra con l'altre?

SALV. Voi non potete sicuramente ad un istesso punto far concorrere altro che tre linee rette sole, che fra di loro costituiscano angoli retti.

SAGR. Sí, perché quella che vuol dire il signor Simplicio par a me che sarebbe l'istessa D A prolungata in giú: ed in questo modo si potrebbe tirarne altre due, ma sarebbero le medesime prime tre, non differenti in altro, che dove ora si toccano solamente, all'ora si segherebbero, ma non apporterebbero nuove dimensioni.

SIMP. Io non dirò che questa vostra ragione non possa esser concludente, ma dirò bene con Aristotile che nelle cose naturali non si deve sempre ricercare una necessità di dimostrazion matematica.

SAGR. Sí, forse, dove la non si può avere; ma se qui ella ci è, perché non la volete voi usare? Ma sarà bene non ispender piú parole in questo particolare, perché io credo che il signor Salviati ad Aristotile ed a voi senza altre dimostrazioni avrebbe conceduto, il mondo esser corpo, ed esser perfetto e perfettissimo, come opera massima di Dio.

SALV. Cosí è veramente. Però lasciata la general contemplazione del tutto, venghiamo alla considerazione delle parti, le quali Aristotile nella prima divisione fa due, e tra di loro diversissime ed in certo modo contrarie; dico, la celeste e la elementare: quella, ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, impassibile, etc.; e questa, esposta ad una continua alterazione, mutazione, etc. La qual differenza cava egli, come da suo principio originario, dalla diversità de i moti locali: e camina con tal progresso.

Uscendo, per cosí dire, del mondo sensibile e ritirandosi al mondo ideale, comincia architettonicamente a considerare, che essendo la natura principio di moto, conviene che i corpi naturali siano mobili di moto locale. Dichiara poi, i movimenti locali esser di tre generi, cioè circolare, retto, e misto del retto e del circolare; e li duoi primi chiama semplici, perché di tutte le linee la circolare e la retta sole son semplici. E di qui, ristringendosi alquanto, di nuovo definisce, de i movimenti semplici uno esser il circolare, cioè quello che si fa intorno al mezo, ed il retto all'insú ed all'ingiú, cioè all'insú quello che si parte dal mezo, all'ingiú quello che va verso il mezo: e di qui inferisce come necessariamente conviene che tutti i movimenti semplici si ristringano a queste tre spezie, cioè al mezo, dal mezo, ed intorno al mezo; il che risponde, dice egli, con certa bella proporzione a quel che si è detto di sopra del corpo, che esso ancora è perfezionato in tre cose, e cosí il suo moto. Stabiliti questi movimenti, segue dicendo che, essendo, de i corpi naturali, altri semplici ed altri composti di quelli (e chiama corpi semplici quelli che hanno da natura principio di moto, come il fuoco e la terra), conviene che i movimenti semplici sieno de i corpi semplici, ed i misti de' composti, in modo però che i composti seguano il moto della parte predominante nella composizione.

SAGR. Di grazia, signor Salviati, fermatevi alquanto, perché io mi sento in questo progresso pullular da tante bande tanti dubbi, che mi sarà forza o dirgli, s'io vorrò sentir con attenzione le cose che voi soggiugnerete, o rimuover l'attenzione dalle cose da dirsi, se vorrò conservare la memoria de' dubbi.

SALV. Io molto volentieri mi fermerò, perché corro ancor io simil fortuna, e sto di punto in punto per perdermi, mentre mi conviene veleggiar tra scogli ed onde cosí rotte, che mi fanno, come si dice, perder la bussola: però, prima che far maggior cumulo, proponete le vostre difficultà.

SAGR. Voi, insieme con Aristotile, da principio mi separaste alquanto dal mondo sensibile per additarmi l'architettura con la quale egli doveva esser fabbricato, e con mio gusto mi cominciaste a dire che il corpo naturale è per natura mobile, essendo che si è diffinito altrove, la natura esser principio di moto. Qui mi nacque un poco di dubbio; e fu, per qual cagione Aristotile non disse che de' corpi naturali alcuni sono mobili per natura ed altri immobili, avvengaché nella definizione vien detto, la natura esser principio di moto e di quiete; che se i corpi naturali hanno tutti principio di movimento, o non occorreva metter la quiete nella definizione della natura, o non occorreva indur tal definizione in questo luogo. Quanto poi al dichiararmi, quali egli intenda esser i movimenti semplici e come ei gli determina da gli spazi, chiamando semplici quelli che si fanno per linee semplici, che tali sono la circolare e la retta solamente, lo ricevo quietamente, né mi curo di sottilizargli l'instanza della elica intorno al cilindro, che, per esser in ogni sua parte simile a se stessa, par che si potesse annoverar tra le linee semplici. Ma mi risento bene alquanto nel sentirlo ristrignere (mentre par che con altre parole voglia replicar le medesime definizioni) a chiamare quello, movimento intorno al mezo, e questo, sursum et deorsum, cioè in su e in giú; li quali termini non si usano fuori del mondo fabbricato, ma lo suppongono non pur fabbricato, ma di già abitato da noi. Che se il moto retto è semplice per la semplicità della linea retta, e se il moto semplice è naturale, sia pur egli fatto per qualsivoglia verso, dico in su, in giú, innanzi, in dietro, a destra ed a sinistra, e se altra differenza si può immaginare, purché sia retto, dovrà convenire a qualche corpo naturale semplice; o se no, la supposizione d'Aristotile è manchevole. Vedesi in oltre che Aristotile accenna, un solo esser al mondo il moto circolare, ed in conseguenza un solo centro, al quale solo si riferiscano i movimenti retti in su e in giú; tutti indizi che egli ha mira di cambiarci le carte in mano, e di volere accomodar l'architettura alla fabbrica, e non costruire la fabbrica conforme a i precetti dell'architettura: ché se io dirò che nell'università della natura ci posson essere mille movimenti circolari, ed in conseguenza mille centri, vi saranno ancora mille moti in su e in giú. In oltre ei pone, come è detto, moti semplici e moto misto, chiamando semplici il circolare ed il retto, e misto il composto di questi; de i corpi naturali chiama altri semplici (cioè quelli che hanno principio naturale al moto semplice), ed altri composti; ed i moti semplici gli attribuisce a' corpi semplici, ed a' composti il composto: ma per moto composto e' non intende piú il misto di retto e circolare, che può essere al mondo, ma introduce un moto misto tanto impossibile, quanto è impossibile a mescolare movimenti opposti fatti nella medesima linea retta, sí che da essi ne nasca un moto che sia parte in su e parte in giú; e per moderare una tanta sconvenevolezza e impossibilità, si riduce a dire che tali corpi misti si muovono secondo la parte semplice predominante; che finalmente necessita altrui a dire che anco il moto fatto per la medesima linea retta è alle volte semplice e tal ora anche composto, sí che la semplicità del moto non si attende piú dalla semplicità della linea solamente.

SIMP. Oh non vi par ella differenza bastevole se il movimento semplice ed assoluto sarà piú veloce assai di quello che vien dal predominio? e quanto vien piú velocemente all'ingiú un pezzo di terra pura, che un pezzuol di legno?

SAGR. Bene, signor Simplicio; ma se la semplicità si ha da mutar per questo, oltre che ci saranno centomila moti misti, voi non mi saprete determinare il semplice; anzi, di piú, se la maggiore e minor velocità possono alterar la semplicità del moto, nessun corpo semplice si moverà mai di moto semplice, avvengaché in tutti i moti retti naturali la velocità si va sempre agumentando, ed in conseguenza sempre mutando la semplicità, la quale, per esser semplicità, conviene che sia immutabile; e, quel che piú importa, voi graverete Aristotile d'una nuova nota, come quello che nella definizione del moto composto non ha fatto menzione di tardità né di velocità, la quale ora voi ponete per articolo necessario ed essenziale. Aggiugnesi che né anco potrete da cotal regola trar frutto veruno; imperocché ci saranno de' misti, e non pochi, de' quali altri si moveranno piú lentamente, ed altri piú velocemente, del semplice, come, per esempio, il piombo e 'l legno in comparazione della terra: e però tra questi movimenti quale chiamerete voi il semplice, e quale il composto?

SIMP. Chiamerassi semplice quello che vien fatto dal corpo semplice, e misto quel del corpo composto.

SAGR. Benissimo veramente. E che dite voi, signor Simplicio? poco fa volevi che il moto semplice e il composto m'insegnassero quali siano i corpi semplici e quali i misti; ed ora volete che da i corpi semplici e da i misti io venga in cognizione di qual sia il moto semplice e quale il composto: regola eccellente per non saper mai conoscer né i moti né i corpi. Oltre che già venite a dichiararvi come non vi basta piú la maggior velocità, ma ricercate una terza condizione per definire il movimento semplice, per il quale Aristotile si contentò d'una sola, cioè della semplicità dello spazio; ma ora, secondo voi, il moto semplice sarà quello che vien fatto sopra una linea semplice, con certa determinata velocità, da un corpo mobile semplice. Or sia come a voi piace, e torniamo ad Aristotile, il qual mi definí, il moto misto esser quello che si compone del retto e del circolare; ma non mi trovò poi corpo alcuno che fusse naturalmente mobile di tal moto.

SALV. Torno dunque ad Aristotile, il quale, avendo molto bene e metodicamente cominciato il suo discorso, ma avendo piú la mira di andare a terminare e colpire in uno scopo, prima nella mente sua stabilitosi, che dove dirittamente il progresso lo conduceva, interrompendo il filo ci esce traversalmente a portar come cosa nota e manifesta, che quanto a i moti retti in su e in giú, questi naturalmente convengono al fuoco ed alla terra, e che però è necessario che oltre a questi corpi, che sono appresso di noi, ne sia un altro in natura al quale convenga il movimento circolare, il quale sia ancora tanto piú eccellente, quanto il moto circolare è piú perfetto del moto retto: quanto poi quello sia piú perfetto di questo, lo determina dalla perfezion della linea circolare sopra la retta, chiamando quella perfetta, ed imperfetta questa; imperfetta, perché se è infinita, manca di fine e di termine; se è finita, fuori di lei ci è alcuna cosa dove ella si può prolungare. Questa è la prima pietra, base e fondamento di tutta la fabbrica del mondo Aristotelico, sopra la quale si appoggiano tutte l'altre proprietà di non grave né leggiero, d'ingenerabile, incorruttibile ed esente da ogni mutazione, fuori della locale, etc.: e tutte queste passioni afferma egli esser proprie del corpo semplice e mobile di moto circolare; e le condizioni contrarie, di gravità, leggerezza, corruttibilità, etc., le assegna a' corpi mobili naturalmente di movimenti retti. Là onde qualunque volta nello stabilito sin qui si scuopra mancamento, si potrà ragionevolmente dubitar di tutto il resto, che sopra gli vien costrutto. Io non nego che questo, che sin qui Aristotile ha introdotto con discorso generale, dependente da principii universali e primi, non venga poi nel progresso riconfermato con ragioni particolari e con esperienze, le quali tutte è necessario che vengano distintamente considerate e ponderate; ma già che nel detto sin qui si rappresentano molte, e non picciole, difficultà (e pur converrebbe che i primi principii e fondamenti fussero sicuri fermi e stabili, acciocché piú risolutamente si potesse sopra di quelli fabbricare), non sarà forse se non ben fatto, prima che si accresca il cumulo de i dubbi, vedere se per avventura (sí come io stimo) incamminandoci per altra strada ci indrizzassimo a piú diritto e sicuro cammino, e con precetti d'architettura meglio considerati potessimo stabilire i primi fondamenti. Però, sospendendo per ora il progresso d'Aristotile, il quale a suo tempo ripiglieremo e partitamente esamineremo, dico che, delle cose da esso dette sin qui, convengo seco ed ammetto che il mondo sia corpo dotato di tutte le dimensioni, e però perfettissimo; ed aggiungo, che come tale ei sia necessariamente ordinatissimo, cioè di parti con sommo e perfettissimo ordine tra di loro disposte: il quale assunto non credo che sia per esser negato né da voi né da altri.

SIMP. E chi volete voi che lo neghi? La prima cosa, egli è d'Aristotile stesso; e poi, la sua denominazione non par che sia presa d'altronde, che dall'ordine che egli perfettamente contiene.

SALV. Stabilito dunque cotal principio, si può immediatamente concludere che, se i corpi integrali del mondo devono esser di lor natura mobili, è impossibile che i movimenti loro siano retti, o altri che circolari: e la ragione è assai facile e manifesta. Imperocché quello che si muove di moto retto, muta luogo; e continuando di muoversi, si va piú e piú sempre allontanando dal termine ond'ei si partí e da tutti i luoghi per i quali successivamente ei va passando; e se tal moto naturalmente se gli conviene, adunque egli da principio non era nel luogo suo naturale, e però non erano le parti del mondo con ordine perfetto disposte: ma noi supponghiamo, quelle esser perfettamente ordinate: adunque, come tali, è impossibile che abbiano da natura di mutar luogo, ed in conseguenza di muoversi di moto retto. In oltre, essendo il moto retto di sua natura infinito, perché infinita e indeterminata è la linea retta, è impossibile che mobile alcuno abbia da natura principio di muoversi per linea retta, cioè verso dove è impossibile di arrivare, non vi essendo termine prefinito; e la natura, come ben dice Aristotile medesmo, non intraprende a fare quello che non può esser fatto, né intraprende a muovere dove è impossibile a pervenire. E se pur alcuno dicesse, che se bene la linea retta, ed in conseguenza il moto per essa, è produttibile in infinito, cioè interminato, tuttavia però la natura, per cosí dire, arbitrariamente gli ha assegnati alcuni termini, e dato naturali instinti a' suoi corpi naturali di muoversi a quelli, io risponderò che ciò per avventura si potrebbe favoleggiare che fusse avvenuto del primo caos, dove confusamente ed inordinatamente andavano indistinte materie vagando, per le quali ordinare la natura molto acconciamente si fusse servita de i movimenti retti, i quali, sí come movendo i corpi ben costituiti gli disordinano, cosí sono acconci a ben ordinare i pravamente disposti; ma dopo l'ottima distribuzione e collocazione è impossibile che in loro resti naturale inclinazione di piú muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne seguirebbe il rimuoversi dal proprio e natural luogo, cioè il disordinarsi. Possiamo dunque dire, il moto retto servire a condur le materie per fabbricar l'opera, ma fabbricata ch'ell'è, o restare immobile, o, se mobile, muoversi solo circolarmente; se però noi non volessimo dir con Platone, che anco i corpi mondani, dopo l'essere stati fabbricati e del tutto stabiliti, furon per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma che dopo l'esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si son mantenuti e tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone, intorno al quale mi sovviene aver sentito discorrere il nostro comune amico Accademico Linceo; e se ben mi ricorda, il discorso fu tale. Ogni corpo costituito per qualsivoglia causa in istato di quiete, ma che per sua natura sia mobile, posto in libertà si moverà, tutta volta però ch'egli abbia da natura inclinazione a qualche luogo particolare; ché quando e' fusse indifferente a tutti, resterebbe nella sua quiete, non avendo maggior ragione di muoversi a questo che a quello. Dall'aver questa inclinazione ne nasce necessariamente che egli nel suo moto si anderà continuamente accelerando; e cominciando con moto tardissimo, non acquisterà grado alcuno di velocità, che prima e' non sia passato per tutti i gradi di velocità minori, o vogliamo dire di tardità maggiori: perché, partendosi dallo stato della quiete (che è il grado di infinita tardità di moto), non ci è ragione nissuna per la quale e' debba entrare in un tal determinato grado di velocità, prima che entrare in un minore, ed in un altro ancor minore prima che in quello; anzi par molto ben ragionevole passar prima per i gradi piú vicini a quello donde ei si parte, e da quelli a i piú remoti; ma il grado di dove il mobile piglia a muoversi è quello della somma tardità, cioè della quiete. Ora, questa accelerazion di moto non si farà se non quando il mobile nel muoversi acquista; né altro è l'acquisto suo se non l'avvicinarsi al luogo desiderato, cioè dove l'inclinazion naturale lo tira; e là si condurrà egli per la piú breve, cioè per linea retta. Possiamo dunque ragionevolmente dire che la natura, per conferire in un mobile, prima costituito in quiete, una determinata velocità, si serva del farlo muover, per alcun tempo e per qualche spazio, di moto retto. Stante questo discorso, figuriamoci aver Iddio creato il corpo, verbigrazia, di Giove, al quale abbia determinato di voler conferire una tal velocità, la quale egli poi debba conservar perpetuamente uniforme: potremo con Platone dire che gli desse di muoversi da principio di moto retto ed accelerato, e che poi, giunto a quel tal grado di velocità, convertisse il suo moto retto in circolare, del quale poi la velocità naturalmente convien esser uniforme.

SAGR. Io sento con gran gusto questo discorso, e maggiore credo che sarà doppo che mi abbiate rimossa una difficultà: la quale è, che io non resto ben capace come di necessità convenga che un mobile, partendosi dalla quiete ed entrando in un moto al quale egli abbia inclinazion naturale, passi per tutti i gradi di tardità precedenti, che sono tra qualsivoglia segnato grado di velocità e lo stato di quiete, li quali gradi sono infiniti; sí che non abbia potuto la natura contribuire al corpo di Giove, subito creato, il suo moto circolare, con tale e tanta velocità.

SALV. Io non ho detto, né ardirei di dire, che alla natura e a Dio fusse impossibile il conferir quella velocità, che voi dite, immediatamente; ma dirò bene che de facto la natura non lo fa; talché il farlo verrebbe ad esser operazione fuora del corso naturale e però miracolosa [Muovasi con qual si voglia velocità qual si sia poderosissimo mobile, ed incontri qual si voglia corpo costituito in quiete, ben che debolissimo e di minima resistenza; quel mobile, incontrandolo, già mai non gli conferirà immediatamente la sua velocità: segno evidente di che ne è il sentirsi il suono della percossa, il quale non si sentirebbe, o per dir meglio non sarebbe, se il corpo che stava in quiete ricevesse, nell'arrivo del mobile, la medesima velocità di quello.] .

 

SAGR. Adunque voi credete che un sasso, partendosi dalla quiete, ed entrando nel suo moto naturale verso il centro della Terra, passi per tutti i gradi di tardità inferiori a qualsivoglia grado di velocità?

SALV. Credolo, anzi ne son sicuro, e sicuro con tanta certezza, che posso renderne sicuro voi ancora.

SAGR. Quando in tutto il ragionamento d'oggi io non guadagnassi altro che una tal cognizione, me lo reputerei per un gran capitale.

SALV. Per quanto mi par di comprendere dal vostro ragionare, gran parte della vostra difficultà consiste in quel dover passare in un tempo, ed anco brevissimo, per quelli infiniti gradi di tardità precedenti a qual si sia velocità acquistata dal mobile in quel tal tempo: e però, prima che venire ad altro, cercherò di rimovervi questo scrupolo; che doverà esser agevol cosa, mentre io vi replico che il mobile passa per i detti gradi, ma il passaggio è fatto senza dimorare in veruno, talché, non ricercando il passaggio piú di un solo instante di tempo, e contenendo qualsivoglia piccol tempo infiniti instanti, non ce ne mancheranno per assegnare il suo a ciascheduno de gl'infiniti gradi di tardità, e sia il tempo quanto si voglia breve.

SAGR. Sin qui resto capace: tuttavia mi par gran cosa che quella palla d'artiglieria (che tal mi figuro esser il mobile cadente), che pur si vede scendere con tanto precipizio che in manco di dieci battute di polso passerà piú di dugento braccia di altezza, si sia nel suo moto trovata congiunta con sí picciol grado di velocità, che, se avesse continuato di muoversi con quello senza piú accelerarsi, non l'averebbe passata in tutto un giorno.

SALV. Dite pure in tutto un anno, né in dieci, né in mille, sí come io m'ingegnerò di persuadervi, ed anco forse senza vostra contradizione ad alcune assai semplici interrogazioni ch'io vi farò. Però ditemi se voi avete difficultà nessuna in concedere che quella palla, nello scendere, vadia sempre aquistando maggior impeto e velocità.

SAGR. Sono di questo sicurissimo.

SALV. E se io dirò che l'impeto aquistato in qualsivoglia luogo del suo moto sia tanto che basterebbe a ricondurla a quell'altezza donde si partí, me lo concedereste?

SAGR. Concedere'lo senza contradizione, tuttavolta che la potesse applicar, senz'esser impedita, tutto il suo impeto in quella sola operazione, di ricondur se medesima, o altro eguale a sé, a quella medesima altezza: come sarebbe se la Terra fusse perforata per il centro, e che, lontano da esso cento o mille braccia, si lasciasse cader la palla; credo sicuramente che ella passerebbe oltre al centro, salendo altrettanto quanto scese: e cosí mi mostra l'esperienza accadere d'un peso pendente da una corda, che rimosso dal perpendicolo, che è il suo stato di quiete, e lasciato poi in libertà, cala verso detto perpendicolo e lo trapassa per altrettanto spazio, o solamente tanto meno quanto il contrasto dell'aria e della corda o di altri accidenti l'impediscono. Mostrami l'istesso l'acqua, che scendendo per un sifone, rimonta altrettanto quanto fu la sua scesa.

SALV. Voi perfettamente discorrete. E perch'io so che non avete dubbio in conceder che l'acquisto dell'impeto sia mediante l'allontanamento dal termine donde il mobile si parte, e l'avvicinamento al centro dove tende il suo moto, arete voi difficultà nel concedere che due mobili eguali, ancorché scendenti per diverse linee, senza veruno impedimento, facciano acquisto d'impeti eguali, tuttavolta che l'avvicinamento al centro sia eguale?

SAGR. Non intendo bene il quesito.

SALV. Mi dichiarerò meglio col segnarne un poco di figura. Però noterò questa linea A B parallela all'orizonte, e sopra il punto B drizzerò la perpendicolare B C, e poi congiugnerò questa inclinata C A. Intendendo ora la linea C A esser un piano inclinato, esquisitamente pulito e duro, sopra il quale scenda una palla perfettamente rotonda e di materia durissima, ed una simile scenderne liberamente per la perpendicolare C B, domando se voi concedereste che l'impeto della scendente per il piano C A, giunta che la fusse al termine A, potesse essere eguale all'impeto acquistato dall'altra nel punto B, doppo la scesa per la perpendicolare C B.

SAGR. Io credo risolutamente di sí, perché in effetto amendue si sono avvicinate al centro egualmente, e, per quello che pur ora ho conceduto, gl'impeti loro sarebbero egualmente bastanti a ricondur loro stesse alla medesima altezza.

SALV. Ditemi ora quello che voi credete che facesse quella medesima palla posata sul piano orizontale A B.

SAGR. Starebbe ferma, non avendo esso piano veruna inclinazione.

SALV. Ma sul piano inclinato C A scenderebbe, ma con moto piú lento che per la perpendicolare C B.

SAGR. Sono stato per risponder risolutamente di sí, parendomi pur necessario che il moto per la perpendicolare C B debba esser piú veloce che per l'inclinata C A: tuttavia, se questo è, come potrà il cadente per l'inclinata, giunto al punto A, aver tanto impeto, cioè tal grado di velocità, quale e quanto il cadente per la perpendicolare avrà nel punto B? Queste due proposizioni par che si contradicano.

SALV. Adunque molto piú vi parrà falso se io dirò che assolutamente le velocità de' cadenti per la perpendicolare e per l'inclinata siano eguali. E pur questa è proposizione verissima; sí come vera è questa ancora che dice che il cadente si muove piú velocemente per la perpendicolare che per la inclinata.

SAGR. Queste al mio orecchio suonano proposizioni contradittorie; ed al vostro, signor Simplicio?

SIMP. Ed a me par l'istesso.

SALV. Credo che voi mi burliate, fingendo di non capire quel che voi intendete meglio di me. Però ditemi, signor Simplicio: quando voi v'immaginate un mobile esser piú veloce d'un altro, che concetto vi figurate voi nella mente?

SIMP. Figuromi, l'uno passar nell'istesso tempo maggiore spazio dell'altro, o vero passare spazio eguale, ma in minor tempo.

SALV. Benissimo: e per mobili egualmente veloci, che concetto vi figurate?

SIMP. Figuromi che passino spazi eguali in tempi eguali.

SALV. E non altro concetto che questo?

SIMP. Questo mi par che sia la propria definizione de' moti eguali.

SAGR. Aggiunghiamoci pure quest'altra di piú: cioè chiamarsi ancora le velocità esser eguali, quando gli spazi passati hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali son passati, e sarà definizione piú universale.

SALV. Cosí è, perché comprende gli spazi eguali passati in tempi eguali, e gl'ineguali ancora, passati in tempi ineguali, ma proporzionali a essi spazi. Ripigliate ora la medesima figura, ed applicandovi il concetto che vi figurate del moto piú veloce, ditemi perché vi pare che la velocità del cadente per C B sia maggiore della velocità dello scendente per la C A.

SIMP. Parmi, perché nel tempo che 'l cadente passerà tutta la C B, lo scendente passerà nella C A una parte minor della C B.

SALV. Cosí sta; e cosí si verifica, il mobile muoversi piú velocemente per la perpendicolare che per l'inclinata. Considerate ora se in questa medesima figura si potesse in qualche modo verificare l'altro concetto, e trovare che i mobili fussero egualmente veloci in amendue le linee C A, C B.

SIMP. Io non ci so veder cosa tale, anzi pur mi par contradizione al già detto.

SALV. E voi che dite, signor Sagredo? Io non vorrei già insegnarvi quel che voi medesimi sapete, e quello di che pur ora mi avete arrecato la definizione.

SAGR. La definizione che io ho addotta è stata, che i mobili si possan chiamare egualmente veloci quando gli spazi passati da loro hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali gli passano: però a voler che la definizione avesse luogo nel presente caso, bisognerebbe che il tempo della scesa per C A al tempo della caduta per C B avesse la medesima proporzione che la stessa linea C A alla C B; ma ciò non so io intender che possa essere, tuttavolta che il moto per la C B sia piú veloce che per la C A.

SALV. E pur è forza che voi l'intendiate. Ditemi un poco: questi moti non si vann'eglino continuamente accelerando?

SAGR. Vannosi accelerando, ma piú nella perpendicolare che nell'inclinata.

SALV. Ma questa accelerazione nella perpendicolare è ella però tale, in comparazione di quella dell'inclinata, che prese due parti eguali in qualsivoglia luogo di esse linee, perpendicolare e inclinata, il moto nella parte della perpendicolare sia sempre piú veloce che nella parte dell'inclinata?

SAGR. Signor no, anzi potrò io pigliare uno spazio nell'inclinata, nel quale la velocità sia maggiore assai che in altrettanto spazio preso nella perpendicolare; e questo sarà, se lo spazio nella perpendicolare sarà preso vicino al termine C, e nell'inclinata molto lontano.

SALV. Vedete dunque che la proposizione che dice «Il moto per la perpendicolare è piú veloce che per l'inclinata» non si verifica universalmente se non de i moti che cominciano dal primo termine, cioè dalla quiete; senza la qual condizione la proposizione sarebbe tanto difettosa, che anco la sua contradittoria potrebbe esser vera, cioè che il moto nell'inclinata è piú veloce che nella perpendicolare, perché è vero che nell'inclinata possiamo pigliare uno spazio passato dal mobile in manco tempo che altrettanto spazio passato nella perpendicolare. Ora, perché il moto nell'inclinata è in alcuni luoghi piú veloce ed in altri meno che nella perpendicolare, adunque in alcuni luoghi dell'inclinata il tempo del moto del mobile al tempo del moto del mobile per alcuni luoghi della perpendicolare avrà maggior proporzione che lo spazio passato allo spazio passato, ed in altri luoghi la proporzione del tempo al tempo sarà minore di quella dello spazio allo spazio. Come, per esempio, partendosi due mobili dalla quiete, cioè dal punto C, uno per la perpendicolare C B e l'altro per l'inclinata C A, nel tempo che nella perpendicolare il mobile avrà passata tutta la C B, l'altro avrà passata la C T, minore; e però il tempo per C T al tempo per C B (che gli è eguale) arà maggior proporzione che la linea T C alla C B, essendo che la medesima alla minore ha maggior proporzione che alla maggiore: e per l'opposito, quando nella C A, prolungata quanto bisognasse, si prendesse una parte eguale alla C B, ma passata in tempo piú breve, il tempo nell'inclinata al tempo nella perpendicolare arebbe proporzione minore che lo spazio allo spazio. Se dunque nell'inclinata e nella perpendicolare possiamo intendere spazi e velocità tali che le proporzioni tra essi spazi siano e minori e maggiori delle proporzioni de' tempi, possiamo ben ragionevolmente concedere che vi sieno anco spazi per i quali i tempi de i movimenti ritengano la medesima proporzione che gli spazi.

SAGR. Già mi sent'io levato lo scrupolo maggiore, e comprendo esser non solo possibile, ma dirò necessario, quello che mi pareva un contradittorio: ma non però intendo per ancora che uno di questi casi possibili o necessari sia questo del quale abbiamo bisogno di presente, sí che vero sia che il tempo della scesa per C A al tempo della caduta per C B abbia la medesima proporzione che la linea C A alla C B, onde e' si possa senza contradizione dire che le velocità per la inclinata C A e per la perpendicolare C B sieno eguali.

SALV. Contentatevi per ora ch'io v'abbia rimossa l'incredulità; ma la scienza aspettatela un'altra volta, cioè quando vedrete le cose dimostrate dal nostro Accademico intorno a i moti locali: dove troverete dimostrato, che nel tempo che 'l mobile cade per tutta la C B, l'altro scende per la C A sino al punto T, nel quale cade la perpendicolare tiratavi dal punto B; e per trovare dove il medesimo cadente per la perpendicolare si troverebbe quando l'altro arriva al punto A, tirate da esso A la perpendicolare sopra la C A, prolungando essa e la C B sino al concorso, e quello sarà il punto cercato. Intanto vedete come è vero che il moto per la C B è piú veloce che per l'inclinata C A (ponendo il termine C per principio de' moti de' quali facciamo comparazione); perché la linea C B è maggiore della C T, e l'altra da C sino al concorso della perpendicolare tirata da A sopra la C A è maggiore della C A, e però il moto per essa è piú veloce che per la C A. Ma quando noi paragoniamo il moto fatto per tutta la C A, non con tutto 'l moto fatto nel medesimo tempo per la perpendicolare prolungata, ma col fatto in parte del tempo per la sola parte C B, non repugna che il mobile per C A, continuando di scendere oltre al T, possa in tal tempo arrivare in A, che qual proporzione si trova tra le linee C A, C B, tale sia tra essi tempi. Ora, ripigliando il nostro primo proposito, che era di mostrare come il mobile grave, partendosi dalla quiete, passa, scendendo, per tutti i gradi di tardità precedenti a qualsivoglia grado di velocità che egli acquisti, ripigliando la medesima figura, ricordiamoci che eramo convenuti che il cadente per la perpendicolare C B ed il descendente per l'inclinata C A, ne i termini B, A si trovassero avere acquistati eguali gradi di velocità. Ora, seguitando piú avanti, non credo che voi abbiate difficultà veruna in concedere che sopra un altro piano meno elevato di A C, qual sarebbe, verbigrazia, D A, il moto del descendente sarebbe ancora piú tardo che nel piano CA:

talché non è da dubitar punto che si possano notar piani tanto poco elevati sopra l'orizonte A B, che 'l mobile, cioè la medesima palla, in qualsivoglia lunghissimo tempo si condurrebbe al termine A, già che per condurvisi per il piano B A non basta tempo infinito, ed il moto si fa sempre piú lento quanto la declività è minore. Bisogna dunque necessariamente confessare, potersi sopra il termine B pigliare un punto tanto ad esso B vicino, che tirando da esso al punto A un piano, la palla non lo passasse né anco in un anno. Bisogna ora che voi sappiate, che l'impeto, cioè il grado di velocità, che la palla si trova avere acquistato quando arriva al punto A è tale, che quando ella continuasse di muoversi con questo medesimo grado uniformemente, cioè senza accelerarsi o ritardarsi, in altrettanto tempo in quanto è venuta per il piano inclinato passerebbe uno spazio lungo il doppio del piano inclinato; cioè (per esempio) se la palla avesse passato il piano D A in un'ora, continuando di muoversi uniformemente con quel grado di velocità che ella si trova avere nel giugnere al termine A, passerebbe in un'ora uno spazio doppio della lunghezza D A: e perché (come dicevamo) i gradi di velocità acquistati ne i punti B, A da i mobili che si partono da qualsivoglia punto preso nella perpendicolare C B, e che scendono l'uno per il piano inclinato e l'altro per essa perpendicolare, son sempre eguali, adunque il cadente per la perpendicolare può partirsi da un termine tanto vicino al B, che 'l grado di velocità acquistato in B non fusse bastante (conservandosi sempre l'istesso) a condurre il mobile per uno spazio doppio della lunghezza del piano inclinato in un anno né in dieci né in cento. Possiamo dunque concludere che se è vero che, secondo il corso ordinario di natura, un mobile, rimossi tutti gl'impedimenti esterni ed accidentarii, si muova sopra piani inclinati con maggiore e maggior tardità secondo che l'inclinazione sarà minore, sí che finalmente la tardità si conduca a essere infinita, che è quando si finisce l'inclinazione e s'arriva al piano orizontale; e se è vero parimente che al grado di velocità acquistato in qualche punto del piano inclinato sia eguale quel grado di velocità che si trova avere il cadente per la perpendicolare nel punto segato da una parallela all'orizonte che passa per quel punto del piano inclinato; bisogna di necessità confessare che il cadente, partendosi dalla quiete, passa per tutti gl'infiniti gradi di tardità, e che, in conseguenza, per acquistar un determinato grado di velocità bisogna ch'e' si muova prima per linea retta, descendendo per breve o lungo spazio, secondo che la velocità da acquistarsi dovrà essere minore o maggiore, e secondo che 'l piano sul quale si scende sarà poco o molto inclinato: talché può darsi un piano con sí poca inclinazione, che, per acquistarvi quel tal grado di velocità, bisognasse prima muoversi per lunghissimo spazio ed in lunghissimo tempo; sí che nel piano orizontale qual si sia velocità non s'acquisterà naturalmente mai, avvenga che il mobile già mai non vi si muoverà. Ma il moto per la linea orizontale, che non è declive né elevata, è moto circolare intorno al centro: adunque il moto circolare non s'acquisterà mai naturalmente senza il moto retto precedente, ma bene, acquistato che e' si sia, si continuerà egli perpetuamente con velocità uniforme. Io potrei dichiararvi, ed anco dimostrarvi, con altri discorsi queste medesime verità; ma non voglio interromper con sí gran digressioni il principal nostro ragionamento, e piú tosto ci ritornerò con altra occasione, e massime che ora si è venuto in questo proposito non per servirsene per una dimostrazion necessaria, ma per adornare un concetto platonico: al quale voglio aggiugnere un'altra particolare osservazione, pur del nostro Accademico, che ha del mirabile. Figuriamoci, tra i decreti del divino Architetto essere stato pensiero di crear nel mondo questi globi, che noi veggiamo continuamente muoversi in giro, ed avere stabilito il centro delle lor conversioni ed in esso collocato il Sole immobile, ed aver poi fabbricati tutti i detti globi nel medesimo luogo, e di lí datali inclinazione di muoversi, discendendo verso il centro, sin che acquistassero quei gradi di velocità che pareva alla medesima Mente divina, li quali acquistati, fussero volti in giro, ciascheduno nel suo cerchio, mantenendo la già concepita velocità: si cerca in quale altezza e lontananza dal Sole era il luogo dove primamente furono essi globi creati, e se può esser che la creazion di tutti fusse stata nell'istesso luogo. Per far questa investigazione bisogna pigliare da i piú periti astronomi le grandezze de i cerchi ne i quali i pianeti si rivolgono, e parimente i tempi delle loro revoluzioni: dalle quali due cognizioni si raccoglie quanto, verbigrazia, il moto di Giove è piú veloce del moto di Saturno; e trovato (come in effetto è) che Giove si muove piú velocemente, conviene che, sendosi partiti dalla medesima altezza, Giove sia sceso piú che Saturno, sí come pure sappiamo essere veramente, essendo l'orbe suo inferiore a quel di Saturno. Ma venendo piú avanti, dalla proporzione che hanno le due velocità di Giove e di Saturno, e dalla distanza che è tra gli orbi loro e dalla proporzione dell'accelerazion del moto naturale, si può ritrovare in quanta altezza e lontananza dal centro delle lor revoluzioni fusse il luogo donde e' si partirono. Ritrovato e stabilito questo, si cerca se Marte scendendo di là sino al suo orbe […] si trova che la grandezza dell'orbe e la velocità del moto convengono con quello che dal calcolo ci vien dato; ed il simile si fa della Terra, di Venere e di Mercurio, de i quali le grandezze de i cerchi e le velocità de i moti s'accostano tanto prossimamente a quel che ne danno i computi, che è cosa maravigliosa.

SAGR. Ho con estremo gusto sentito questo pensiero, e se non ch'io credo che il far quei calcoli precisamente sarebbe impresa lunga e laboriosa, e forse troppo difficile da esser compresa da me, io ve ne vorrei fare instanza.

SALV. L'operazione è veramente lunga e difficile, ed anco non m'assicurerei di ritrovarla cosí prontamente; però la riserberemo ad un'altra volta

[SIMP. Di grazia, sia conceduto alla mia poca pratica nelle scienze matematiche dir liberamente come i vostri discorsi, fondati sopra proporzioni maggiori o minori e sopra altri termini da me non intesi quanto bisognerebbe, non mi hanno rimosso il dubbio, o, per meglio dire, l'incredulità, dell'esser necessario che quella gravissima palla di piombo di 100 libre di peso, lasciata cadere da alto, partendosi dalla quiete passi per ogni altissimo grado di tardità, mentre si vede in quattro battute di polso aver passato piú di 100 braccia di spazio: effetto che mi rende totalmente incredibile, quella in alcuno momento essersi trovata in stato tale di tardità, che continuandosi di muover con quella, non avesse né anco in mille anni passato lo spazio di mezo dito. E pure se questo è, vorrei esserne fatto capace.

SAGR. Il signor Salviati, come di profonda dottrina, stima bene spesso che quei termini che a se medesimo sono notissimi e familiari, debbano parimente esser tali per gli altri ancora, e però tal volta gli esce di mente che parlando con noi altri convien aiutar la nostra incapacità con discorsi manco reconditi: e però io, che non mi elevo tanto, con sua licenza tenterò di rimuover almeno in parte il signor Simplicio dalla sua incredulità con mezo sensato. E stando pure sul caso della palla d'artiglieria, ditemi in grazia, signor Simplicio: non concederete voi che nel far passaggio da uno stato a un altro sia naturalmente piú facile e pronto il passare ad uno piú propinquo che ad altro piú remoto?

SIMP. Questo lo intendo e lo concedo: e non ho dubbio che, verbigrazia, un ferro infocato, nel raffreddarsi, prima passerà da i 10 gradi di caldo a i 9, che da i 10 a i 6.

SAGR. Benissimo. Ditemi appresso: quella palla d'artiglieria, cacciata in su a perpendicolo dalla violenza del fuoco, non si va ella continuamente ritardando nel suo moto sin che finalmente si conduce al termine altissimo, che è quello della quiete? e nel diminuirsi la velocità, o volete dire nel crescersi la tardità, non è egli ragionevole che si faccia piú presto trapasso da i 10 gradi a gli 11, che da i 10 a i 12? e da i 1000 a i 1001 che a' 1002? ed in somma da qualsivoglia grado ad un suo piú vicino, che ad un piú lontano?

SIMP. Cosí è ragionevole.

SAGR. Ma qual grado di tardità è cosí lontano da qualsisia moto, che piú lontano non ne sia lo stato della quiete, ch'è di tardità infinita? per lo che non è da metter dubio che la detta palla, prima che si conduca al termine della quiete, trapassi per tutti i gradi di tardità maggiori e maggiori, e per conseguenza per quello ancora che in 1000 anni non trapasserebbe lo spazio di un dito. Ed essendo questo, sí come è, verissimo, non dovrà, signor Simplicio, parervi improbabile che, nel ritornare in giú, la medesima palla partendosi dalla quiete recuperi la velocità del moto col ripassare per quei medesimi gradi di tardità per i quali ella passò nell'andare in su, ma debba, lasciando gli altri gradi di tardità maggiori e piú vicini allo stato di quiete, passar di salto ad uno piú remoto.

SIMP. Io resto per questo discorso piú capace assai che per quelle sottigliezze matematiche; e però potrà il signor Salviati ripigliare e continuare il suo ragionamento.]

SALV. Ritorneremo dunque al nostro primo proposito, ripigliando là di dove digredimmo, che, se ben mi ricorda, eramo sul determinare come il moto per linea retta non può esser di uso alcuno nelle parti del mondo bene ordinate; e seguitavamo di dire che non cosí avviene de i movimenti circolari, de i quali quello che è fatto dal mobile in se stesso, già lo ritien sempre nel medesimo luogo, e quello che conduce il mobile per la circonferenza d'un cerchio intorno al suo centro stabile e fisso, non mette in disordine né sé né i circonvicini. Imperocché tal moto, primieramente, è finito e terminato, anzi non pur finito e terminato, ma non è punto alcuno nella circonferenza, che non sia primo ed ultimo termine della circolazione; e continuandosi nella circonferenza assegnatagli, lascia tutto il resto, dentro e fuori di quella, libero per i bisogni d'altri, senz'impedirgli o disordinargli già mai. Questo, essendo un movimento che fa che il mobile sempre si parte e sempre arriva al termine, può, primieramente, esso solo essere uniforme: imperocché l'accelerazione del moto si fa nel mobile quando e' va verso il termine dove egli ha inclinazione, ed il ritardamento accade per la repugnanza ch'egli ha di partirsi ed allontanarsi dal medesimo termine; e perché nel moto circolare il mobile sempre si parte da termine naturale, e sempre si muove verso il medesimo, adunque in lui la repugnanza e l'inclinazione son sempre di eguali forze; dalla quale egualità ne risulta una non ritardata né accelerata velocità, cioè l'uniformità del moto. Da questa uniformità e dall'esser terminato ne può seguire la continuazion perpetua, col reiterar sempre le circolazioni, la quale in una linea interminata ed in un moto continuamente ritardato o accelerato non si può naturalmente ritrovare: e dico naturalmente, perché il moto retto che si ritarda, è il violento, che non può esser perpetuo, e l'accelerato arriva necessariamente al termine, se vi è; e se non vi è, non vi può né anco esser moto, perché la natura non muove dove è impossibile ad arrivare. Concludo per tanto, il solo movimento circolare poter naturalmente convenire a i corpi naturali integranti l'universo e costituiti nell'ottima disposizione; ed il retto, al piú che si possa dire, essere assegnato dalla natura a i suoi corpi e parti di essi, qualunque volta si ritrovassero fuori de' luoghi loro, costituite in prava disposizione, e però bisognose di ridursi per la piú breve allo stato naturale. Di qui mi par che assai ragionevolmente si possa concludere, che per mantenimento dell'ordine perfetto tra le parti del mondo bisogni dire che le mobili sieno mobili solo circolarmente, e se alcune ve ne sono che circolarmente non si muovano, queste di necessità sieno immobili, non essendo altro, salvo che la quiete e 'l moto circolare, atto alla conservazione dell'ordine. Ed io non poco mi maraviglio che Aristotile, il quale pure stimò che 'l globo terrestre fusse collocato nel centro del mondo e che quivi immobilmente si rimanesse, non dicesse che de' corpi naturali altri erano mobili per natura ed altri immobili, e massime avendo già definito, la natura esser principio di moto e di quiete.

SIMP. Aristotile, come quello che non si prometteva del suo ingegno, ancorché perspicacissimo, piú di quello che si conviene, stimò, nel suo filosofare, che le sensate esperienze si dovessero anteporre a qualsivoglia discorso fabbricato da ingegno umano, e disse che quelli che avessero negato il senso, meritavano di esser gastigati col levargli quel tal senso: ora, chi è quello cosí cieco che non vegga, le parti della terra e dell'acqua muoversi, come gravi, naturalmente all'ingiú, cioè verso il centro dell'universo, assegnato dall'istessa natura per fine e termine del moto retto deorsum; e non vegga parimente, muoversi il fuoco e l'aria all'insú rettamente verso il concavo dell'orbe lunare, come a termine naturale del moto sursum? e vedendosi tanto manifestamente questo, ed essendo noi sicuri che eadem est ratio totius et partium, come non si deve egli dire, esser proposizion vera e manifesta che il movimento naturale della terra è il retto ad medium, e del fuoco il retto a medio?

SALV. In virtú di questo vostro discorso, al piú al piú che voi poteste pretendere che vi fusse conceduto è che, sí come le parti della terra rimosse dal suo tutto, cioè dal luogo dove esse naturalmente dimorano, cioè, finalmente, ridotte in prava e disordinata disposizione, tornano al luogo loro spontaneamente, e però naturalmente, con movimento retto, cosí (conceduto che eadem sit ratio totius et partium) si potrebbe inferire che rimosso per violenza il globo terrestre dal luogo assegnatogli dalla natura, egli vi ritornerebbe per linea retta. Questo, come ho detto, è quanto al piú vi si potesse concedere, fattavi ancora ogni sorte d'agevolezza: ma chi volesse riveder con rigore queste partite, prima vi negherebbe che le parti della terra nel ritornare al suo tutto si movessero per linea retta, e non per circolare o altra mista; e voi sicuramente avereste che fare assai a dimostrare il contrario, come apertamente intenderete nelle risposte alle ragioni ed esperienze particolari addotte da Tolomeo e da Aristotile. Secondariamente, se altri vi dicesse che le parti della terra si muovono non per andar al centro del mondo, ma per andare a riunirsi col suo tutto, e che per ciò hanno naturale inclinazione verso il centro del globo terrestre, per la quale inclinazione conspirano a formarlo e conservarlo, qual altro tutto e qual altro centro trovereste voi al mondo, al quale l'intero globo terreno, essendone rimosso, cercasse di ritornare, onde la ragion del tutto fusse simile a quella delle parti? Aggiugnete che né Aristotile né voi proverete già mai che la Terra de facto sia nel centro dell'universo; ma, se si può assegnare centro alcuno all'universo, troveremo in quello esser piú presto collocato il Sole, come nel progresso intenderete.

Ora, sí come dal cospirare concordemente tutte le parti della terra a formare il suo tutto ne segue che esse da tutte le parti con eguale inclinazione vi concorrano, e, per unirsi al piú che sia possibile insieme, sfericamente vi si adattano; perché non doviamo noi credere che la Luna, il Sole e gli altri corpi mondani siano essi ancora di figura rotonda non per altro che per un concorde instinto e concorso naturale di tutte le loro parti componenti? delle quali se tal ora alcuna per qualche violenza fusse dal suo tutto separata, non è egli ragionevole il credere che spontaneamente e per naturale instinto ella vi ritornerebbe? ed in questo modo concludere che 'l moto retto competa egualmente a tutti i corpi mondani?

SIMP. E' non è dubbio alcuno che come voi volete negare non solamente i principii nelle scienze, ma esperienze manifeste ed i sensi stessi, voi non potrete già mai esser convinto o rimosso da veruna oppinione concetta; e io piú tosto mi quieterò perché contra negantes principia non est disputandum, che persuaso in virtú delle vostre ragioni. E stando su le cose da voi pur ora pronunziate (già che mettete in dubbio insino nel moto de i gravi se sia retto o no), come potete voi mai ragionevolmente negare che le parti della terra, cioè che le materie gravissime, descendano verso il centro con moto retto, se, lasciate da una altissima torre, le cui parete sono dirittissime e fabbricate a piombo, esse gli vengono, per cosí dire, lambendo, e percotendo in terra in quel medesimo punto a capello dove verrebbe a terminare il piombo che pendesse da uno spago legato in alto ivi per l'appunto onde si lasciò cadere il sasso? non è questo argomento piú che evidente, cotal moto esser retto e verso il centro? Nel secondo luogo, voi revocate in dubbio se le parti della terra si muovano per andar, come afferma Aristotile, al centro del mondo, quasi che egli non l'abbia concludentemente dimostrato per i movimenti contrari, mentre in cotal guisa argomenta: il movimento de i gravi è contrario a quello de i leggieri; ma il moto de i leggieri si vede esser dirittamente all'insú, cioè verso la circonferenza del mondo; adunque il moto de i gravi è rettamente verso il centro del mondo, ed accade per accidens che e' sia verso il centro della Terra, poiché questo si abbatte ad essere unito con quello. Il cercar poi quello che facesse una parte del globo lunare o del Sole, quando fusse separata dal suo tutto, è vanità, perché si cerca quello che seguirebbe in conseguenza d'un impossibile, atteso che, come pur dimostra Aristotile, i corpi celesti sono impassibili, impenetrabili, infrangibili, sí che non si può dare il caso; e quando pure e' si desse, e che la parte separata ritornasse al suo tutto, ella non vi tornerebbe come grave o leggiera, ché pur il medesimo Aristotile prova che i corpi celesti non sono né gravi né leggieri.

SALV. Quanto ragionevolmente io dubiti, se i gravi si muovano per linea retta e perpendicolare, lo sentirete, come pur ora ho detto, quando esaminerò questo argomento particolare. Circa il secondo punto, io mi meraviglio che voi abbiate bisogno che 'l paralogismo d'Aristotile vi sia scoperto, essendo per se stesso tanto manifesto, e che voi non vi accorgiate che Aristotile suppone quello che è in quistione. Però notate…

SIMP. Di grazia, signor Salviati parlate con piú rispetto d'Aristotile. Ed a chi potrete voi persuader già mai che quello che è stato il primo, unico ed ammirabile esplicator della forma silogistica, della dimostrazione, de gli elenchi, de i modi di conoscere i sofismi, i paralogismi, ed in somma di tutta la logica, equivocasse poi sí gravemente in suppor per noto quello che è in quistione? Signori, bisogna prima intenderlo perfettamente, e poi provarsi a volerlo impugnare.

SALV. Signor Simplicio, noi siamo qui tra noi discorrendo familiarmente per investigar qualche verità; io non arò mai per male che voi mi palesiate i miei errori, e quando io non avrò conseguita la mente d'Aristotile, riprendetemi pur liberamente, che io ve ne arò buon grado. Concedetemi in tanto che io esponga le mie difficultà, e ch'io risponda ancora alcuna cosa a le vostre ultime parole, dicendovi che la logica, come benissimo sapete, è l'organo col quale si filosofa; ma, sí come può esser che un artefice sia eccellente in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sonare, cosí può esser un gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica; sí come ci son molti che sanno per lo senno a mente tutta la poetica, e son poi infelici nel compor quattro versi solamente; altri posseggono tutti i precetti del Vinci, e non saprebber poi dipignere uno sgabello. Il sonar l'organo non s'impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s'impara dalla continua lettura de' poeti; il dipignere s'apprende col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici. Ora, tornando al proposito, dico che quello che vede Aristotile del moto de i corpi leggieri, è il partirsi il fuoco da qualunque luogo della superficie del globo terrestre e dirittamente discostarsene, salendo in alto; e questo è veramente muoversi verso una circonferenza maggiore di quella della Terra, anzi il medesimo Aristotile lo fa muovere al concavo della Luna: ma che tal circonferenza sia poi quella del mondo, o concentrica a quella, sí che il muoversi verso questa sia un muoversi anco verso quella del mondo, ciò non si può affermare se prima non si suppone che 'l centro della Terra, dal quale noi vediamo discostarsi i leggieri ascendenti, sia il medesimo che 'l centro del mondo, che è quanto dire che 'l globo terrestre sia costituito nel centro del mondo; che è poi quello di che noi dubitiamo e che Aristotile intende di provare. E questo direte che non sia un manifesto paralogismo?

SAGR. Questo argomento d'Aristotile mi era parso, anco per un altro rispetto, manchevole e non concludente, quando bene se gli concedesse che quella circonferenza alla quale si muove rettamente il fuoco, fusse quella che racchiude il mondo. Imperocché, preso dentro a un cerchio non solamente il centro, ma qualsivoglia altro punto, ogni mobile che partendosi da quello camminerà per linea retta, e verso qualsivoglia parte, senz'alcun dubbio andrà verso la circonferenza, e continuando il moto vi arriverà ancora, sí che verissimo sarà il dire che egli verso la circonferenza si muova; ma non sarà già vero che quello che per le medesime linee si movesse con movimento contrario, vadia verso il centro, se non quando il punto preso fusse l'istesso centro, o che 'l moto fusse fatto per quella sola linea che, prodotta dal punto assegnato, passa per lo centro. Talché il dire: «Il fuoco, movendosi rettamente, va verso la circonferenza del mondo; adunque le parti della terra, le quali per le medesime linee si muovono di moto contrario, vanno verso 'l centro del mondo», non conclude altrimenti, se non supposto prima che le linee del fuoco, prolungate, passino per il centro del mondo: e perché di esse noi sappiamo certo che le passano per il centro del globo terrestre (essendo a perpendicolo sopra la sua superficie, e non inclinate), adunque, per concludere, bisogna supporre che il centro della Terra sia l'istesso che il centro del mondo, o almeno che le parti del fuoco e della terra non ascendano e descendano se non per una linea sola che passi per il centro del mondo; il che è poi falso e repugna all'esperienza, la qual ci mostra che le parti del fuoco non per una linea sola, ma per le infinite prodotte dal centro della Terra verso tutte le parti del mondo, ascendono sempre per linee perpendicolari alla superficie del globo terrestre.

SALV. Voi, signor Sagredo, molto ingegnosamente conducete Aristotile al medesimo inconveniente, mostrando l'equivoco manifesto; ma aggiugnete un'altra sconvenevolezza. Noi veggiamo la Terra essere sferica, e però siamo sicuri che ella ha il suo centro; a quello veggiamo che si muovono tutte le sue parti, ché cosí è necessario dire mentre i movimenti loro son tutti perpendicolari alla superficie terrestre; intendiamo come, movendosi al centro della Terra, si muovono al suo tutto ed alla sua madre universale; e siamo poi tanto buoni, che ci vogliam lasciar persuadere che l'instinto loro naturale non è di andar verso il centro della Terra, ma verso quel dell'universo, il quale non sappiamo dove sia, né se sia, e che quando pur sia, non è altro ch'un punto imaginario ed un niente senza veruna facultà. All'ultimo detto poi del signor Simplicio, che il contendere se le parti del Sole o della Luna o di altro corpo celeste, separate dal suo tutto, ritornassero naturalmente a quello, sia una vanità, per essere il caso impossibile, essendo manifesto, per dimostrazioni di Aristotile, che i corpi celesti sono impassibili, impenetrabili, impartibili, etc., rispondo, niuna delle condizioni per le quali Aristotile fa differire i corpi celesti da gli elementari avere altra sussistenza che quella ch'ei deduce dalla diversità de i moti naturali di quelli e di questi; in modo che, negato che il moto circolare sia solo de i corpi celesti, ed affermato ch'ei convenga a tutti i corpi naturali mobili, bisogna per necessaria conseguenza dire che gli attributi di generabile o ingenerabile, alterabile o inalterabile, partibile o impartibile, etc., egualmente e comunemente convengano a tutti i corpi mondani, cioè tanto a i celesti quanto a gli elementari, o che malamente e con errore abbia Aristotile dedotti dal moto circolare quelli che ha assegnati a i corpi celesti.

SIMP. Questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo. Ma io credo che i fondamenti de i Peripatetici sien tali, che non ci sia da temere che con la rovina loro si possano construire nuove scienze.

SALV. Non vi pigliate già pensiero del cielo né della Terra, né temiate la lor sovversione, come né anco della filosofia; perché, quanto al cielo, in vano è che voi temiate di quello che voi medesimo reputate inalterabile e impassibile; quanto alla Terra, noi cerchiamo di nobilitarla e perfezionarla, mentre proccuriamo di farla simile a i corpi celesti e in certo modo metterla quasi in cielo, di dove i vostri filosofi l'hanno bandita. La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi, col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine. Pigliatevi piú tosto pensiero di alcuni filosofi, e vedete di aiutargli e sostenergli, ché quanto alla scienza stessa, ella non può se non avanzarsi. E ritornando al nostro proposito, producete liberamente quello che vi sovviene per mantenimento della somma differenza che Aristotile pone tra i corpi celesti e la parte elementare, nel far quelli ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, etc., e questa corruttibile, alterabile, etc. [Per quelli che si perturbano per aver a mutar tutta la Filosofia si mostri come non è cosí, e che resta la medesima dottrina dell'anima, delle generazioni, delle meteore, degli animali.]

SIMP. Io non veggo per ancora che Aristotile sia bisognoso di soccorso, restando egli in piede, saldo e forte, anzi non essendo per ancora pure stato assalito, non che abbattuto, da voi. E qual sarà il vostro schermo in questo primo assalto? Scrive Aristotile: Quello che si genera, si fa da un contrario in qualche subietto, e parimente si corrompe in qualche subietto da un contrario in un contrario, sí che (notate bene) la corruzzione e generazione non è se non ne i contrari; ma de i contrari i movimenti son contrari; se dunque al corpo celeste non si può assegnar contrario, imperocché al moto circolare niun altro movimento è contrario, adunque benissimo ha fatto la natura a fare esente da i contrari quello che doveva essere ingenerabile ed incorruttibile. Stabilito questo primo fondamento, speditamente si cava in conseguenza ch'ei sia inaugumentabile, inalterabile, impassibile, e finalmente eterno ed abitazione proporzionata a gli Dei immortali, conforme alla opinione ancora di tutti gli uomini che de gli Dei hanno concetto. Conferma poi l'istesso ancor per il senso; avvenga che in tutto il tempo passato, secondo le tradizioni e memorie, nissuna cosa si vede essersi trasmutata, né secondo tutto l'ultimo cielo né secondo alcuna sua propria parte. Che poi al moto circolare niuno altro sia contrario, lo prova Aristotile in molte maniere; ma senza replicarle tutte, assai apertamente resta dimostrato, mentre che i moti semplici non sono altri che tre, al mezo, dal mezo e intorno al mezo, de i quali i dua retti sursum et deorsum sono manifestamente contrari, e perché un solo ha un solo per contrario, adunque non resta altro movimento che possa esser contrario al circolare. Eccovi il discorso di Aristotile argutissimo e concludentissimo, per il quale si prova l'incorruttibilità del cielo.

SALV. Questo non è niente di piú che il puro progresso d'Aristotile, già da me accennato, nel quale, tuttavolta che io vi neghi che il moto, che voi attribuite a i corpi celesti, non convenga ancora alla Terra, la sua illazione resta nulla. Dicovi per tanto che quel moto circolare, che voi assegnate a i corpi celesti, conviene ancora alla Terra: dal che, posto che il resto del vostro discorso sia concludente, seguirà una di queste tre cose, come poco fa si è detto ed or vi replico, cioè, o che la Terra sia essa ancora ingenerabile e incorruttibile, come i corpi celesti, o che i corpi celesti sieno, come gli elementari, generabili, alterabili, etc., o che questa differenza di moti non abbia che far con la generazione e corruzione. Il discorso di Aristotile e vostro contiene molte proposizioni da non esser di leggiero ammesse, e per poterlo meglio esaminare, sarà bene ridurlo piú al netto ed al distinto, che sia possibile: e scusimi il signor Sagredo se forse con qualche tedio sente replicar piú volte le medesime cose, e faccia conto di sentir ripigliar gli argomenti ne i publici circoli de i disputanti. Voi dite: «La generazione e corruzione non si fa se non dove sono i contrari; i contrari non sono se non tra i corpi semplici naturali, mobili di movimenti contrari; movimenti contrari sono solamente quelli che si fanno per linee rette tra termini contrari, e questi sono solamente dua cioè dal mezo ed al mezo, e tali movimenti non sono di altri corpi naturali che della terra, del fuoco e degli altri due elementi; adunque la generazione e corruzione non è se non tra gli elementi. E perché il terzo movimento semplice, cioè il circolare intorno al mezo, non ha contrario (perché contrari sono gli altri dua, e un solo ha un solo per contrario), però quel corpo naturale al quale tal moto compete, manca di contrario; e non avendo contrario, resta ingenerabile e incorruttibile etc., perché dove non è contrarietà, non è generazione né corruzione etc.: ma tal moto compete solamente a i corpi celesti: adunque soli questi sono ingenerabili, incorruttibili, etc.». E prima, a me si rappresenta assai piú agevol cosa il potersi assicurare se la Terra, corpo vastissimo e per vicinità a noi trattabilissimo, si muova di un movimento massimo, qual sarebbe per ora il rivolgersi in se stessa in ventiquattro ore, che non è l'intendere ed assicurarsi se la generazione e corruzione si facciano da i contrari, anzi pure se la corruzione e la generazione ed i contrari sieno in natura: e se voi, signor Simplicio, mi sapeste assegnare qual sia il modo di operare della natura nel generare in brevissimo tempo centomila moscioni da un poco di fumo di mosto, mostrandomi quali sieno quivi i contrari, qual cosa si corrompa e come, io vi reputerei ancora piú di quello ch'io fo, perché io nessuna di queste cose comprendo. In oltre arei molto caro d'intendere come e perché questi contrari corruttivi sieno cosí benigni verso le cornacchie e cosí fieri verso i colombi, cosí tolleranti verso i cervi ed impazienti contro a i cavalli, che a quelli concedano piú anni di vita cioè d'incorruttibilità, che settimane a questi. I peschi, gli ulivi, hanno pur radice ne i medesimi terreni, sono esposti a i medesimi freddi, a i medesimi caldi, alle medesime pioggie e venti, ed in somma alle medesime contrarietà; e pur quelli vengono destrutti in breve tempo, e questi vivono molte centinaia d'anni. Di piú, io non son mai restato ben capace di questa trasmutazione sustanziale (restando sempre dentro a i puri termini naturali), per la quale una materia venga talmente trasformata, che si deva per necessità dire, quella essersi del tutto destrutta, sí che nulla del suo primo essere vi rimanga e ch'un altro corpo, diversissimo da quella, se ne sia prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto e di lí a poco sotto un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una semplice trasposizione di parti, senza corrompere o generar nulla di nuovo, perché di simili metamorfosi ne vediamo noi tutto il giorno. Sí che torno a replicarvi che come voi mi vorrete persuader che la Terra non si possa muover circolarmente per via di corruttibilità e generabilità, averete che fare assai piú di me, che con argomenti ben piú difficili, ma non men concludenti, vi proverò il contrario.

SAGR. Signor Salviati, perdonatemi se io interrompo il vostro ragionamento, il quale, sí come mi diletta assai, perché io ancora mi trovo involto nelle medesime difficultà, cosí dubito che sia impossibile il poterne venire a capo senza deporre in tutto e per tutto la nostra principal materia; però, quando si potesse tirare avanti il primo discorso, giudicherei che fusse bene rimettere ad un altro separato ed intero ragionamento questa quistione della generazione e corruzione, sí come anco, quando ciò piaccia a voi ed al signor Simplicio, si potrà fare di altre quistioni particolari, che il corso de' ragionamenti ci porgesse avanti, delle quali io terrò memoria a parte, per proporle un altro giorno e minutamente esaminarle. Or, quanto alla presente, già che voi dite che, negato ad Aristotile che il moto circolare non sia della Terra, come degli altri corpi celesti, ne seguirà che quello che accade della Terra, circa l'esser generabile, alterabile, etc., sia ancora del cielo, lasciamo star se la generazione e corruzione sieno o non sieno in natura, e torniamo a veder d'investigare quel che faccia il globo terrestre.

SIMP. Io non posso accomodar l'orecchie a sentir mettere in dubbio se la generazione e corruzione sieno in natura, essendo una cosa che noi continuamente aviamo innanzi a gli occhi, e della quale Aristotile ha scritto due libri interi. Ma quando si abbiano a negare i principii nelle scienze e mettere in dubbio le cose manifestissime, chi non sa che si potrà provare quel che altri vuole e sostener qualsivoglia paradosso? E se voi non vedete tutto il giorno generarsi e corrompersi erbe, piante, animali, che altra cosa vedete voi? come non vedete perpetuamente giostrarsi in contro le contrarietà, e la terra mutarsi in acqua, l'acqua convertirsi in aria, l'aria in fuoco, e di nuovo l'aria condensarsi in nuvole, in pioggie, grandini e tempeste?

SAGR. Anzi veggiamo pur tutte queste cose, e però vogliamo concedervi il discorso d'Aristotile, quanto a questa parte della generazione e corruzione fatta da i contrari; ma se io vi concluderò, in virtú delle medesime proposizioni concedute ad Aristotile, che i corpi celesti sieno essi ancora, non meno che gli elementari, generabili e corruttibili, che cosa direte voi?

SIMP. Dirò che voi abbiate fatto quello che è impossibile a farsi.

SAGR. Ditemi un poco, signor Simplicio: non sono queste affezioni contrarie tra di loro?

SIMP. Quali?

SAGR. Eccovele: alterabile, inalterabile, passibile, impassibile, generabile, ingenerabile, corruttibile, incorruttibile?

SIMP. Sono contrarissime

SAGR. Come questo sia, e sia vero ancora che i corpi celesti sieno ingenerabili e incorruttibili, io vi provo che di necessità bisogna che i corpi celesti sien generabili e corruttibili.

SIMP. Questo non potrà esser altro che un soffisma.

SAGR. Sentite l'argomento, e poi nominatelo e solvetelo. I corpi celesti, perché sono ingenerabili ed incorruttibili, hanno in natura de i contrari, che sono i corpi generabili e corruttibili; ma dove è contrarietà, quivi è generazione e corruzione; adunque i corpi celesti son generabili e corruttibili.

SIMP. Non vi diss'io che non poteva esser altro ch'un soffisma? Questo è un di quelli argomenti cornuti, che si chiamano soriti: come quello del Candiotto, che diceva che tutti i Candiotti erano bugiardi, però, essendo egli Candiotto, veniva a dir la bugia, mentre diceva che i Candiotti erano bugiardi; bisogna adunque che i Candiotti fussero veridici, ed in conseguenza esso, come Candiotto, veniva ad esser veridico, e però, nel dir che i Candiotti erano bugiardi, diceva il vero, e comprendendo sé, come Candiotto, bisognava che e' fusse bugiardo. E cosí in questa sorte di soffismi si durerebbe in eterno a rigirarsi, senza concluder mai niente.

SAGR. Voi sin qui l'avete nominato: resta ora che lo sciogliate, mostrando la fallacia.

SIMP. Quanto al solverlo e mostrar la sua fallacia, non vedete voi, prima, la contradizion manifesta? i corpi celesti sono ingenerabili e incorruttibili; adunque i corpi celesti son generabili e corruttibili? E poi, la contrarietà non è tra i corpi celesti, ma è tra gli elementi, li quali hanno la contrarietà de i moti sursum et deorsum e della leggerezza e gravità; ma i cieli, che si muovono circolarmente, al qual moto niun altro è contrario, mancano di contrarietà, e però sono incorruttibili etc.

SAGR. Piano, signor Simplicio. Questa contrarietà, per la quale voi dite alcuni corpi semplici esser corruttibili, risied'ella nell'istesso corpo che si corrompe, o pure ha relazione ad un altro? dico se l'umidità, per esempio, per la quale si corrompe una parte di terra, risiede nell'istessa terra o pure in un altro corpo, qual sarebbe l'aria o l'acqua. Io credo pur che voi direte che, sí come i movimenti in su e in giú, e la gravità e la leggerezza, che voi fate i primi contrari, non posson essere nel medesimo suggetto, cosí né anco l'umido e 'l secco, il caldo e 'l freddo: bisogna dunque che voi diciate, che quando il corpo si corrompe, ciò avvenga per la qualità che si trova in un altro, contraria alla sua propria. Però, per far che 'l corpo celeste sia corruttibile, basta che in natura ci sieno corpi che abbiano contrarietà al corpo celeste; e tali sono gli elementi, se è vero che la corruttibilità sia contraria all'incorruttibilità.

SIMP. Non basta questo, Signor mio. Gli elementi si alterano e si corrompono perché si toccano e si mescolano tra di loro, e cosí possono esercitare le lor contrarietà; ma i corpi celesti sono separati da gli elementi, da i quali non son né anco tocchi, se ben essi toccano gli elementi. Bisogna, se voi volete provar la generazione e corruzione ne i corpi celesti, che voi mostriate che tra loro riseggano le contrarietà.

SAGR. Ecco ch'io ve le trovo tra di loro. Il primo fonte dal quale voi cavate le contrarietà de gli elementi, è la contrarietà de' moti loro in su e in giú; adunque è forza che contrari sieno parimente tra di loro quei principii da i quali dependono tali movimenti; e perché quello è mobile in su per la leggerezza, e questo in giú per la gravità, è necessario che leggerezza e gravità sieno tra di loro contrarie; né meno si deve credere che sien contrari quegli altri principii che son cagioni che questo sia grave, e leggiero quello. Ma, per voi medesimi, la leggerezza e la gravità vengono in conseguenza della rarità e densità; adunque contrarie saranno la densità e la rarità: le quali condizioni tanto amplamente si ritrovano ne i corpi celesti, che voi stimate le stelle non esser altro che parti piú dense del lor cielo; e quando ciò sia, bisogna che la densità delle stelle superi quasi d'infinito intervallo quella del resto del cielo; il che è manifesto dall'essere il cielo sommamente trasparente, e le stelle sommamente opache, e dal non si trovare lassú altre qualità che 'l piú e 'l meno denso o raro, che della maggiore e minor trasparenza possano esser principii. Essendo dunque tali contrarietà tra i corpi celesti, è necessario che essi ancora sien generabili e corruttibili, in quel medesimo modo che son tali i corpi elementari, o vero che non la contrarietà sia causa della corruttibilità, etc.

SIMP. Non è necessario né l'un né l'altro: perché la densità e rarità ne i corpi celesti non son contrarie tra loro, come ne i corpi elementari; imperocché non dependono dalle prime qualità, caldo e freddo, che sono contrarie, ma dalla molta o poca materia in proporzione alla quantità; ora il molto e 'l poco dicono solamente una opposizione relativa, che è la minor che sia, e non ha che fare con la generazione e corruzione.

SAGR. Talché a voler che il denso e 'l raro, che tra gli elementi deve esser cagione di gravità e leggerezza, le quali possan esser cause di moti contrari sursum et deorsum, da i quali dependano poi le contrarietà per la generazione e corruzione, […], non basta che sieno di quei densi e rari che sotto la medesima quantità, o vogliam dir mole, contengono molta o poca materia, ma è necessario che e' siano densi e rari mercè delle prime qualità, freddo e caldo; altramente, non si farebbe niente. Ma, se questo è, Aristotile ci ha ingannati, perché doveva dircelo da principio, e lasciare scritto che son generabili e corruttibili quei corpi semplici che son mobili di movimenti semplici in su e in giú, dependenti da leggerezza e gravità, causate da rarità e densità, fatta da molta e poca materia, mercé del caldo e del freddo, e non si fermare sul semplice moto sursum et deorsum; perché io vi assicuro che quanto al fare i corpi gravi e leggieri, onde e' sien poi mobili di movimenti contrari, qualsivoglia densità e rarità basta, venga ella per caldo e freddo o per quel che piú vi piace, perché il caldo e 'l freddo non hanno che far niente in questa operazione, e voi vedrete che un ferro infocato, che pur si può chiamar caldo, pesa il medesimo e si muove nel medesimo modo che freddo. Ma lasciato ancor questo, che sapete voi che il denso e 'l raro celeste non dependano dal freddo e dal caldo?

SIMP. Sollo, perché tali qualità non sono tra i corpi celesti, li quali non son caldi né freddi.

SALV. Io veggo che noi torniamo di nuovo a ingolfarci in un pelago infinito da non ne uscir mai, perché questo è un navigar senza bussola, senza stelle, senza remi, senza timone, onde convien per necessità o passare di scoglio in scoglio o dare in secco o navigar sempre per perduti. Però, se conforme al vostro consiglio noi vogliamo tendere avanti nella nostra principal materia, bisogna che, lasciata per ora questa general considerazione, se il moto retto sia necessario in natura e convenga ad alcuni corpi, venghiamo alle dimostrazioni, osservazioni ed esperienze particolari, proponendo prima tutte quelle che da Aristotile da Tolomeo e da altri sono state sin qui addotte per prova della stabilità della Terra, cercando secondariamente di solverle, e portando in ultimo quelle per le quali altri possa restar persuaso che la Terra sia, non men che la Luna o altro pianeta, da connumerarsi tra i corpi naturali mobili circolarmente.

SAGR. Io tanto piú volentieri mi atterrò a questo, quanto io resto assai piú sodisfatto del vostro discorso architettonico e generale che di quello d'Aristotile, perché il vostro senza intoppo veruno mi quieta, e l'altro ad ogni passo mi attraversa qualche inciampo; e non so come il signor Simplicio non sia restato subito persuaso dalla ragione arrecata da voi per prova che il moto per linea retta non può aver luogo in natura, tuttavoltaché si supponga che le parti dell'universo sieno disposte in ottima costituzione e perfettamente ordinate.

SALV. Fermate, di grazia, signor Sagredo, ché pur ora mi sovviene il modo di poter dar sodisfazione anco al signor Simplicio, tuttavolta però che e' non voglia restar talmente legato ad ogni detto d'Aristotile, che egli abbia per sacrilegio il discostarsene da alcuno. E' non è dubbio che per mantener l'ottima disposizione e l'ordine perfetto delle parti dell'universo, quanto alla local situazione, non ci è altro che il movimento circolare e la quiete; ma quanto al moto per linea retta, non veggo, che possa servire ad altro che al ridurre nella sua natural costituzione qualche particella di alcuno de' corpi integrali che per qualche accidente fusse stata rimossa e separata dal suo tutto, come di sopra dicemmo. Consideriamo ora tutto il globo terrestre e veggiamo quel che può esser di lui, tuttavoltaché ed esso e gli altri corpi mondani si devano conservare nell'ottima e natural disposizione. Egli è necessario dire, o che egli resti e si conservi perpetuamente immobile nel luogo suo, o che, restando pur sempre nell'istesso luogo, si rivolga in se stesso, o che vadia intorno ad un centro, movendosi per la circonferenza di un cerchio: de i quali accidenti, ed Aristotile e Tolomeo e tutti i lor seguaci dicon pure che egli ha osservato sempre, ed è per mantenere in eterno, il primo, cioè una perpetua quiete nel medesimo luogo. Or, perché dunque in buon'ora non si dev'egli dire che sua naturale affezione è il restare immobile, piú tosto che far suo naturale il moto all'ingiú, del qual moto egli già mai non si è mosso ned è per muoversi? E quanto al movimento per linea retta, lascisi che la natura se ne serva per ridur al suo tutto le particelle della terra, dell'acqua, dell'aria, e del fuoco, e di ogni altro corpo integrale mondano, quando alcuna di loro, per qualche caso, se ne trovasse separata, e però in luogo disordinato trasposta; se pure anco per far questa restituzione non si trovasse che qualche moto circolare fusse piú accomodato. Parmi che questa primaria posizione risponda molto meglio, dico anco in via d'Aristotile medesimo, a tutte le altre conseguenze, che l'attribuire come intrinseco e natural principio de gli elementi i movimenti retti. Il che è manifesto: perché s'io domanderò al Peripatetico, se, tenendo egli che i corpi celesti sieno incorruttibili ed eterni, ei crede che 'l globo terrestre non sia tale, ma corruttibile e mortale, sí che egli abbia a venir tempo che, continuando suo essere e sue operazioni il Sole e la Luna e le altre stelle, la Terra non si ritrovi piú al mondo, ma sia con tutto il resto de gli elementi destrutta e andata in niente, son sicuro che egli risponderà di no; adunque la corruzione e generazione è nelle parti, e non nel tutto, e nelle parti ben minime e superficiali, le quali son come insensibili in comparazion di tutta la mole: e perché Aristotile argumenta la generazione e corruzione dalla contrarietà de' movimenti retti, lascinsi tali movimenti alle parti, che sole si alterano e corrompono, ed all'intero globo e sfera de gli elementi attribuiscasi o il moto circolare o una perpetua consistenza nel proprio luogo, affezioni che sole sono atte alla perpetuazione ed al mantenimento dell'ordine perfetto. Questo che si dice della terra, può dirsi con simil ragion del fuoco e della maggior parte dell'aria; a i quali elementi si son ridotti i Peripatetici ad assegnare per loro intrinseco e natural moto uno del quale mai non si sono mossi né sono per muoversi, e chiamar fuor della natura loro quel movimento del quale si muovono, si son mossi, e son per muoversi perpetuamente. Questo dico, perché assegnano all'aria ed al fuoco il moto all'insú, del quale già mai si è mosso alcuno de i detti elementi, ma solo qualche lor particella, e questa non per altro che per ridursi alla perfetta costituzione, mentre si trovava fuori del luogo suo naturale; ed all'incontro chiamano a lor preternaturale il moto circolare, del quale incessabilmente si muovono, scordatisi in certo modo di quello che piú volte ha detto Aristotile, che nessun violento può durar lungo tempo.

SIMP. A tutte queste cose abbiamo noi le risposte accomodatissime, le quali per ora lascerò da parte per venire alle ragioni piú particolari ed esperienze sensate, le quali finalmente devono anteporsi, come ben dice Aristotile, a quanto possa esserci somministrato dall'umano discorso.

SAGR. Servanci dunque le cose dette sin qui per averci messo in considerazione qual de' due generali discorsi abbia piú del probabile: dico quello di Aristotile, per persuaderci, la natura de i corpi sullunari esser generabile e corruttibile, etc., e però diversissima dall'essenza de i corpi celesti, per esser loro impassibili, ingenerabili, incorruttibili, etc., tirato dalla diversità de i movimenti semplici; o pur questo del signor Salviati, che, supponendo le parti integrali del mondo essere disposte in ottima costituzione, esclude per necessaria conseguenza da i corpi semplici naturali i movimenti retti, come di niuno uso in natura, e stima la Terra esser essa ancora uno de i corpi celesti, adornato di tutte le prerogative che a quelli convengono: il qual discorso sin qui a me consuona assai piú che quell'altro. Sia dunque contento il signor Simplicio produr tutte le particolari ragioni, esperienze ed osservazioni, tanto naturali quanto astronomiche, per le quali altri possa restar persuaso, la Terra esser diversa da i corpi celesti, immobile, collocata nel centro del mondo, e se altro vi è che l'escluda dall'esser essa ancora mobile come un pianeta, come Giove o la Luna, etc.: ed il signor Salviati per sua cortesia si contenterà di rispondere a parte a parte.

SIMP. Eccovi, per la prima, due potentissime dimostrazioni per prova che la Terra è differentissima da i corpi celesti. Prima, i corpi che sono generabili, corruttibili, alterabili, etc., son diversissimi da quelli che sono ingenerabili incorruttibili, inalterabili, etc.: la Terra è generabile, corruttibile, alterabile, etc., e i corpi celesti ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, etc.: adunque la Terra è diversissima da i corpi celesti.

SAGR Per il primo argomento, voi riconducete in tavola quello che ci è stato tutt'oggi ed a pena si è levato pur ora.

SIMP. Piano, Signore; sentite il resto, e vedrete quanto e' sia differente da quello. Nell'altro si provò la minore a priori, ed ora ve la voglio provare a posteriori; guardate se questo è essere il medesimo. Provo dunque la minore, essendo la maggiore manifestissima. La sensata esperienza ci mostra come in Terra si fanno continue generazioni, corruzioni, alterazioni, etc., delle quali né per senso nostro, né per tradizioni o memorie de' nostri antichi, se n'è veduta veruna in cielo; adunque il cielo è inalterabile etc., e la Terra alterabile etc., e però diversa dal cielo. Il secondo argomento cavo io da un principale ed essenziale accidente; ed è questo. Quel corpo che è per sua natura oscuro e privo di luce, è diverso da i corpi luminosi e risplendenti: la Terra è tenebrosa e senza luce; ed i corpi celesti splendidi e pieni di luce: adunque etc. Rispondasi a questi, per non far troppo cumulo, e poi ne addurrò altri.

SALV. Quanto al primo, la forza del quale voi cavate dall'esperienza, desidero che voi piú distintamente mi produciate le alterazioni che voi vedete farsi nella Terra e non in cielo, per le quali voi chiamate la Terra alterabile ed il cielo no.

SIMP. Veggo in Terra continuamente generarsi e corrompersi erbe, piante, animali, suscitarsi venti, pioggie, tempeste, procelle, ed in somma esser questo aspetto della Terra in una perpetua metamorfosi; niuna delle quali mutazioni si scorge ne' corpi celesti, la costituzione e figurazione de' quali è puntualissimamente conforme a quelle di tutte le memorie, senza esservisi generato cosa alcuna di nuovo, né corrotto delle antiche.

SALV. Ma, come voi vi abbiate a quietare su queste visibili, o, per dir meglio, vedute, esperienze, è forza che voi reputiate la China e l'America esser corpi celesti, perché sicuramente in essi non avete vedute mai queste alterazioni che voi vedete qui in Italia, e che però, quanto alla vostra apprensione, e' sieno inalterabili.

SIMP. Ancorché io non abbia vedute queste alterazioni sensatamente in quei luoghi, ce ne son però le relazioni sicure: oltre che, cum eadem sit ratio totius et partium, essendo quei paesi parti della Terra come i nostri, è forza che e' sieno alterabili come questi.

SALV. E perché non l'avete voi, senza ridurvi a dover credere all'altrui relazioni, osservate e viste da per voi con i vostri occhi propri?

SIMP. Perché quei paesi, oltre al non esser esposti a gli occhi nostri, son tanto remoti che la vista nostra non potrebbe arrivare a comprenderci simili mutazioni.

SALV. Or vedete come da per voi medesimo avete casualmente scoperta la fallacia del vostro argomento. Imperocché se voi dite che le alterazioni, che si veggono in Terra appresso di noi, non le potreste, per la troppa distanza, scorger fatte in America, molto meno le potreste vedere nella Luna, tante centinaia di volte piú lontana: e se voi credete le alterazioni messicane a gli avvisi venuti di là, quai rapporti vi son venuti dalla Luna a significarvi che in lei non vi è alterazione? Adunque dal non veder voi le alterazioni in cielo, dove, quando vi fussero, non potreste vederle per la troppa distanza, e dal non ne aver relazione, mentre che aver non si possa, non potete arguir che elle non vi sieno, come dal vederle e intenderle in Terra bene arguite che le ci sono.

SIMP. Io vi troverò delle mutazioni seguite in Terra cosí grandi, che se di tali se ne facessero nella Luna, benissimo potrebbero esser osservate di qua giú. Noi aviamo, per antichissime memorie, che già, allo stretto di Gibilterra, Abile e Calpe erano continuati insieme, con altre minori montagne le quali tenevano l'Oceano rispinto; ma essendosi, qual se ne fusse la causa, separati i detti monti, ed aperto l'adito all'acque marine, queste scorsero talmente in dentro, che ne formarono tutto il mare Mediterraneo: del quale se noi considereremo la grandezza, e la diversità dell'aspetto che devon fare tra di loro la superficie dell'acqua e quella della terra, vedute di lontano, non ha dubbio che una tale mutazione poteva benissimo esser compresa da chi fusse stato nella Luna, sí come da noi abitatori della Terra simili alterazioni dovrebbero scorgersi nella Luna: ma non ci è memoria che mai si sia veduta cosa tale: adunque non ci resta attacco da poter dire che alcuno de i corpi celesti sia alterabile etc.

SALV. Che mutazioni cosí vaste sieno seguite nella Luna, io non ardirei di dirlo; ma non sono anco sicuro che non ve ne possano esser seguite: e perché una simil mutazione non potrebbe rappresentarci altro che qualche variazione tra le parti piú chiare e le piú oscure di essa Luna, io non so che ci sieno stati in Terra selinografi curiosi, che per lunghissima serie di anni ci abbiano tenuti provvisti di selinografie cosí esatte, che ci possano render sicuri, nissuna tal mutazione esser già mai seguita nella faccia della Luna; della figurazione della quale non trovo piú minuta descrizione, che il dire alcuno che la rappresenta un volto umano, altri che l'è simile a un ceffo di leone, ed altri che l'è Caino con un fascio di pruni in spalla. Adunque il dire «Il cielo è inalterabile, perché nella Luna o in altro corpo celeste non si veggono le alterazioni che si scorgono in Terra» non ha forza di concluder cosa alcuna.

SAGR. Ed a me resta non so che altro scrupolo in questo primo argomento del signor Simplicio, il quale desidero che mi sia levato. Però io gli domando se la Terra avanti l'innondazione mediterranea era generabile e corruttibile, o pur cominciò allora ad esser tale.

SIMP. Era senza dubbio generabile e corruttibile ancora avanti; ma quella fu una mutazione tanto vasta, che anche nella Luna si sarebbe potuta osservare

SAGR. Oh, se la Terra fu, pure avanti tale alluvione, generabile e corruttibile, perché non può esser tale la Luna parimente senza una simile mutazione? perché è necessario nella Luna quello che non importava nulla nella Terra?

SALV. Argutissima instanza. Ma io vo dubitando che il signor Simplicio alteri un poco l'intelligenza de i testi d'Aristotile e de gli altri Peripatetici, li quali dicano di tenere il cielo inalterabile, perché in esso non si è veduto generare né corromper mai alcuna stella, che forse è del cielo parte minore che una città della Terra, e pur innumerabili di queste si son destrutte in modo che né anco i vestigii ci son rimasti.

SAGR. Io certo stimava altramente, e credeva che il signor Simplicio dissimulasse questa esposizione di testo per non gravare il Maestro ed i suoi condiscepoli di una nota assai piú deforme dell'altra. E qual vanità è il dire: «La parte celeste è inalterabile, perché in essa non si generano e corrompono stelle»? ci è forse alcuno che abbia veduto corrompersi un globo terrestre e rigenerarsene un altro? e non è egli ricevuto da tutti i filosofi, che pochissime stelle sieno in cielo minori della Terra, ma bene assaissime molto e molto maggiori? Il corrompersi dunque una stella in cielo non è minor cosa che destruggersi tutto il globo terrestre: però, quando per poter con verità introdur nell'universo la generazione e corruzione sia necessario che si corrompano e rigenerino corpi cosí vasti come una stella, toglietelo pur via del tutto, perché vi assicuro che mai non si vedrà corrompere il globo terrestre o altro corpo integrale del mondo, sí che, essendocisi veduto per molti secoli decorsi, ei si dissolva in maniera, che di sé non lasci vestigio alcuno.

SALV. Ma per dar soprabbondante soddisfazione al signor Simplicio e torlo, se è possibile, di errore, dico che noi aviamo nel nostro secolo accidenti ed osservazioni nuove e tali, ch'io non dubito punto che se Aristotile fusse all'età nostra, muterebbe oppinione. Il che manifestamente si raccoglie dal suo stesso modo di filosofare: imperocché mentre egli scrive di stimare i cieli inalterabili etc., perché nissuna cosa nuova si è veduta generarvisi o dissolversi delle vecchie, viene implicitamente a lasciarsi intendere che quando egli avesse veduto uno di tali accidenti, averebbe stimato il contrario ed anteposto, come conviene, la sensata esperienza al natural discorso, perché quando e' non avesse voluto fare stima de' sensi, non avrebbe, almeno dal non si vedere sensatamente mutazione alcuna, argumentata l'immutabilità.

SIMP. Aristotile fece il principal suo fondamento sul discorso a priori, mostrando la necessità dell'inalterabilità del cielo per i suoi principii naturali, manifesti e chiari; e la medesima stabilí doppo a posteriori, per il senso e per le tradizioni de gli antichi.

SALV. Cotesto, che voi dite, è il metodo col quale egli ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e' sia quello col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch'e' proccurasse prima, per via de' sensi, dell'esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi da poterla dimostrare, perché cosí si fa per lo piú nelle scienze dimostrative: e questo avviene perché, quando la conclusione è vera, servendosi del metodo resolutivo, agevolmente si incontra qualche proposizione già dimostrata, o si arriva a qualche principio per sé noto; ma se la conclusione sia falsa, si può procedere in infinito senza incontrar mai verità alcuna conosciuta, se già altri non incontrasse alcun impossibile o assurdo manifesto. E non abbiate dubbio che Pitagora gran tempo avanti che e' ritrovasse la dimostrazione per la quale fece l'ecatumbe, si era assicurato che 'l quadrato del lato opposto all'angolo retto nel triangolo rettangolo era eguale a i quadrati de gli altri due lati; e la certezza della conclusione aiuta non poco al ritrovamento della dimostrazione, intendendo sempre nelle scienze demostrative. Ma fusse il progresso di Aristotile in qualsivoglia modo, sí che il discorso a priori precedesse il senso a posteriori, o per l'opposito, assai è che il medesimo Aristotile antepone (come piú volte s'è detto) l'esperienze sensate a tutti i discorsi; oltre che, quanto a i discorsi a priori, già si è esaminato quanta sia la forza loro. Or, tornando alla materia, dico che le cose scoperte ne i cieli a i tempi nostri sono e sono state tali, che posson dare intera soddisfazione a tutti i filosofi: imperocché e ne i corpi particolari e nell'universale espansione del cielo si son visti e si veggono tuttavia accidenti simili a quelli che tra di noi chiamiamo generazioni e corruzioni, essendo che da astronomi eccellenti sono state osservate molte comete generate e disfatte in parti piú alte dell'orbe lunare, oltre alle due stelle nuove dell'anno 1572 e del 1604, senza veruna contradizione altissime sopra tutti i pianeti; ed in faccia dell'istesso Sole si veggono, mercé del telescopio, produrre e dissolvere materie dense ed oscure in sembianza molto simili alle nugole intorno alla Terra, e molte di queste sono cosí vaste, che superano di gran lunga non solo il sino Mediterraneo, ma tutta l'Affrica e l'Asia ancora. Ora, quando Aristotile vedesse queste cose, che credete voi, signor Simplicio, ch'e' dicesse e facesse?.

SIMP. Io non so quello che si facesse né dicesse Aristotile, che era padrone delle scienze, ma so bene in parte quello che fanno e dicono, e che conviene che facciano e dicano i suoi seguaci, per non rimaner senza guida senza scorta e senza capo nella filosofia. Quanto alle comete, non son eglino restati convinti quei moderni astronomi, che le volevano far celesti, dall'Antiticone, e convinti con le loro medesime armi, dico per via di paralassi e di calcoli rigirati in cento modi, concludendo finalmente a favor d'Aristotile che tutte sono elementari? e spiantato questo, che era quanto fondamento avevano i seguaci delle novità, che altro piú resta loro per sostenersi in piedi?

SALV. Con flemma, signor Simplicio. Cotesto moderno autore che cosa dice egli delle stelle nuove del 72 e del 604 e delle macchie solari? perché quanto alle comete, io, quant'a me, poca difficultà farei nel porle generate sotto o sopra la Luna, né ho mai fatto gran fondamento sopra la loquacità di Ticone, né sento repugnanza alcuna nel poter credere che la materia loro sia elementare, e che le possano sublimarsi quanto piace loro, senza trovare ostacoli nell'impenetrabilità del cielo peripatetico, il quale io stimo piú tenue piú cedente e piú sottile assai della nostra aria; e quanto a i calcoli delle paralassi, prima il dubbio se le comete sian soggette a tale accidente, e poi l'incostanza delle osservazioni sopra le quali son fatti i computi, mi rendono egualmente sospette queste opinioni e quelle, e massime che mi pare che l'Antiticone talvolta accomodi a suo modo, o metta per fallaci, quelle osservazioni che repugnano al suo disegno.

SIMP. Quanto alle stelle nuove, l'Antiticone se ne sbriga benissimo in quattro parole, dicendo che tali moderne stelle nuove non son parti certe de i corpi celesti, e che bisogna che gli avversari, se voglion provare lassú esser alterazione e generazione, dimostrino mutazioni fatte nelle stelle descritte già tanto tempo, delle quali nissuno dubita che sieno cose celesti, il che non possono far mai in veruna maniera. Circa poi alle materie che alcuni dicono generarsi e dissolversi in faccia del Sole, ei non ne fa menzione alcuna; ond'io argomento ch'e' l'abbia per una favola, o per illusioni del cannocchiale, o al piú per affezioncelle fatte per aria, ed in somma per ogni altra cosa che per materie celesti.

SALV. Ma voi, signor Simplicio, che cosa vi sete immaginato di rispondere all'opposizione di queste macchie importune, venute a intorbidare il cielo, e piú la peripatetica filosofia? egli è forza che, come intrepido difensor di quella, vi abbiate trovato ripiego e soluzione, della quale non dovete defraudarci.

SIMP. Io ho intese diverse opinioni, intorno a questo particolare. «Chi dice che le sono stelle, che ne' loro proprii orbi, a guisa di Venere e di Mercurio, si volgono intorno al Sole, e nel passargli sotto si mostrano a noi oscure, e per esser moltissime, spesso accade che parte di loro si aggreghino insieme e che poi si separino; altri le credono esser impressioni per aria; altri, illusioni de' cristalli; ed altri, altre cose. Ma io inclino assai a credere, anzi tengo per fermo, che le sieno un aggregato di molti e vari corpi opachi, quasi casualmente concorrenti tra di loro: e però veggiamo spesso che in una macchia si posson numerare dieci e piú di tali corpicelli minuti, che sono di figure irregolari e ci si rappresentano come fiocchi di neve o di lana o di mosche volanti; variano sito tra di loro, ed or si disgregano ed ora si congregano, e massimamente sotto il Sole, intorno al quale, come intorno a suo centro, si vanno movendo. Ma non però è di necessità dire che le si generino e si corrompano, ma che alcune volte si occultano doppo il corpo del Sole, ed altre volte, benché allontanate da quello, non si veggono per la vicinanza della smisurata luce del Sole: imperocché nell'orbe eccentrico del Sole vi è costituita una quasi cipolla composta di molte grossezze, una dentro all'altra, ciascheduna delle quali, essendo tempestata di alcune piccole macchie, si muove; e benché il movimento loro da principio sia parso inconstante ed irregolare, nulla dimeno si dice essersi ultimamente osservato che dentro a tempi determinati ritornano le medesime macchie per l'appunto». Questo pare a me il piú accomodato ripiego che sin qui si sia ritrovato per render ragione di cotale apparenza, ed insieme mantenere la incorruttibilità ed ingenerabilità del cielo; e quando questo non bastasse, non mancheranno ingegni piú elevati che ne troveranno de gli altri migliori.

SALV. Se questo di che si disputa fusse qualche punto di legge o di altri studi umani, ne i quali non è né verità né falsità, si potrebbe confidare assai nella sottigliezza dell'ingegno e nella prontezza del dire e nella maggior pratica ne gli scrittori, e sperare che quello che eccedesse in queste cose, fusse per far apparire e giudicar la ragion sua superiore; ma nelle scienze naturali, le conclusioni delle quali son vere e necessarie né vi ha che far nulla l'arbitrio umano, bisogna guardarsi di non si porre alla difesa del falso, perché mille Demosteni e mille Aristoteli resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che abbia auto ventura di apprendersi al vero. Però, signor Simplicio, toglietevi pur giú dal pensiero e dalla speranza che voi avete, che possano esser uomini tanto piú dotti, eruditi e versati ne i libri, che non siamo noi altri, che al dispetto della natura sieno per far divenir vero quello che è falso. E già che tra tutte le opinioni che sono state prodotte sin qui intorno all'essenza di queste macchie solari, questa esplicata pur ora da voi vi par la vera, resta (se questo è) che l'altre tutte sien false; ed io, per liberarvi ancora da questa, che pure è falsissima chimera, lasciando mill'altre improbabilità che vi sono, due sole esperienze vi arreco in contrario. L'una è, che molte di tali macchie si veggono nascere nel mezo del disco solare, e molte parimente dissolversi e svanire pur lontane dalla circonferenza del Sole; argumento necessario che le si generano e si dissolvono: ché se senza generarsi e corrompersi comparissero quivi per solo movimento locale, tutte si vedrebbero entrare e uscire per la estrema circonferenza. L'altra osservazione a quelli che non son costituiti nell'infimo grado d'ignoranza di prospettiva, dalla mutazione dell'apparenti figure, e dall'apparente mutazion di velocità di moto, si conclude necessariamente che le macchie son contigue al corpo solare, e che, toccando la sua superficie, con essa o sopra di essa si muovono, e che in cerchi da quello remoti in verun modo non si raggirano. Concludelo il moto, che verso la circonferenza del disco solare apparisce tardissimo, e verso il mezo piú veloce; concludonlo le figure delle macchie, le quali verso la circonferenza appariscono strettissime in comparazione di quello che si mostrano nelle parti di mezo, e questo perché nelle parti di mezo si veggono in maestà e quali elle veramente sono, e verso la circonferenza, mediante lo sfuggimento della superficie globosa, si mostrano in iscorcio: e l'una e l'altra diminuzione, di figura e di moto, a chi diligentemente l'ha sapute osservare e calculare, risponde precisamente a quello che apparir deve quando le macchie sien contigue al Sole, e discorda inescusabilmente dal muoversi in cerchi remoti, benché per piccoli intervalli, dal corpo solare; come diffusamente è stato dimostrato dall'amico nostro nelle Lettere delle Macchie Solari al signor Marco Velseri. Raccogliesi dalla medesima mutazion di figura che nissuna di esse è stella o altro corpo di figura sferica; imperocché tra tutte le figure sola la sfera non si vede mai in iscorcio, né può rappresentarsi mai se non perfettamente rotonda; e cosí quando alcuna delle macchie particolari fusse un corpo rotondo, quali si stimano esser tutte le stelle, della medesima rotondità si mostrerebbe tanto nel mezo del disco solare quanto verso l'estremità; dove che lo scorciare tanto e mostrarsi cosí sottili verso tale estremità, ed all'incontro spaziose e larghe verso il mezo, ci rende sicuri quelle esser falde di poca profondità o grossezza rispetto alla lunghezza e larghezza loro. Che poi si sia osservato ultimamente che le macchie doppo suoi determinati periodi ritornino le medesime per l'appunto, non lo crediate, signor Simplicio, e chi ve l'ha detto vi vuole ingannare; e che ciò sia, guardate che ei vi ha taciuto quelle che si generano e quelle che si dissolvono nella faccia del Sole, lontano dalla circonferenza; né vi ha anco detto parola di quello scorciare, che è argomento necessario dell'esser contigue al Sole. Quello che ci è del ritorno delle medesime macchie, non è altro che quel che pur si legge nelle sopraddette Lettere, cioè che alcune di esse può esser talvolta che siano di cosí lunga durata, che non si disfacciano per una sola conversione intorno al Sole, la quale si spedisce in meno di un mese.

SIMP. Io, per dire il vero, non ho fatto né sí lunghe né sí diligenti osservazioni, che mi possano bastare a esser ben padrone del quod est di questa materia; ma voglio in ogni modo farle, e poi provarmi io ancora se mi sucedesse concordare quel che ci porge l'esperienza con quel che ci dimostra Aristotile, perché chiara cosa è che due veri non si posson contrariare.

SALV. Tuttavolta che voi vogliate accordar quel che vi mostrerà il senso con le piú salde dottrine d'Aristotile, non ci averete una fatica al mondo. E che ciò sia vero, Aristotile non dic'egli che delle cose del cielo, mediante la gran lontananza, non se ne può molto resolutamente trattare?

SIMP. Dicelo apertamente.

SALV. Il medesimo non afferm'egli che quello che l'esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato? e questo non lo dic'egli resolutamente e senza punto titubare?

SIMP. Dicelo.

SALV. Adunque di queste due proposizioni, che sono ambedue dottrina d'Aristotile, questa seconda, che dice che bisogna anteporre il senso al discorso, è dottrina molto piú ferma e risoluta che l'altra, che stima il cielo inalterabile; e però piú aristotelicamente filosoferete dicendo: «Il cielo è alterabile, perché cosí mi mostra il senso», che se direte: «Il cielo è inalterabile, perché cosí persuade il discorso ad Aristotile». Aggiugnete che noi possiamo molto meglio di Aristotile discorrer delle cose del cielo, perché, confessando egli cotal cognizione esser a lui difficile per la lontananza da i sensi, viene a concedere che quello a chi i sensi meglio lo potessero rappresentare, con sicureza maggiore potrebbe intorno ad esso filosofare: ora noi, mercé del telescopio, ce lo siam fatto vicino trenta e quaranta volte piú che vicino non era ad Aristotile, sí che possiamo scorgere in esso cento cose che egli non potette vedere, e tra le altre queste macchie nel Sole, che assolutamente ad esso furono invisibili: adunque del cielo e del Sole piú sicuramente possiamo noi trattare che Aristotile.

SAGR. Io sono nel cuore al signor Simplicio, e veggo che e' si sente muovere assai dalla forza di queste pur troppo concludenti ragioni; ma, dall'altra banda, il vedere la grande autorità che si è acquistata Aristotile appresso l'universale, il considerare il numero de gli interpreti famosi che si sono affaticati per esplicare i suoi sensi, il vedere altre scienze, tanto utili e necessarie al publico, fondar gran parte della stima e reputazion loro sopra il credito d'Aristotile, lo confonde e spaventa assai; e me lo par sentir dire: «E a chi si ha da ricorrere per definire le nostre controversie, levato che fusse di seggio Aristotile? qual altro autore si ha da seguitare nelle scuole, nelle accademie, nelli studi? qual filosofo ha scritto tutte le parti della natural filosofia, e tanto ordinatamente, senza lasciar indietro pur una particolar conclusione? adunque si deve desolar quella fabbrica, sotto la quale si ricuoprono tanti viatori? si deve destrugger quell'asilo, quel Pritaneo, dove tanto agiatamente si ricoverano tanti studiosi, dove, senza esporsi all'ingiurie dell'aria, col solo rivoltar poche carte, si acquistano tutte le cognizioni della natura? si ha da spiantar quel propugnacolo, dove contro ad ogni nimico assalto in sicurezza si dimora?» Io gli compatisco, non meno che a quel signore che, con gran tempo, con spesa immensa, con l'opera di cento e cento artefici, fabbricò nobilissimo palazzo, e poi lo vegga, per esser stato mal fondato, minacciar rovina, e che, per non vedere con tanto cordoglio disfatte le mura di tante vaghe pitture adornate, cadute le colonne sostegni delle superbe logge, caduti i palchi dorati, rovinati gli stipiti, i frontespizi e le cornici marmoree con tanta spesa condotte, cerchi con catene, puntelli, contrafforti, barbacani e sorgozzoni di riparare alla rovina.

SALV. Eh non tema già il signor Simplicio di simil cadute; io con sua assai minore spesa torrei ad assicurarlo del danno. Non ci è pericolo che una moltitudine sí grande di filosofi accorti e sagaci si lasci sopraffare da uno o dua, che faccino un poco di strepito; anzi non pure col voltargli contro le punte delle lor penne, ma col solo silenzio, gli metteranno in disprezzo e derisione appresso l'universale. Vanissimo è il pensiero di chi credesse introdur nuova filosofia col reprovar questo o quello autore: bisogna prima imparare a rifar i cervelli degli uomini, e rendergli atti a distinguere il vero dal falso, cosa che solo Dio la può fare. Ma d'un ragionamento in un altro dove siamo noi trascorsi? io non saprei ritornare in su la traccia, senza la scorta della vostra memoria.

SIMP. Me ne ricordo io benissimo. Eramo intorno alle risposte dell'Antiticone all'obbiezioni contro all'immutabilità del cielo, tra le quali voi inseriste questa delle macchie solari, non toccata da lui; e credo che voi voleste considerar la sua risposta all'instanza delle stelle nuove.

SALV. Or mi sovviene il restante; e seguitando la materia, parmi che nella risposta dell'Antiticone sieno alcune cose degne di riprensione. E prima, se le due stelle nuove, le quali e' non può far di manco di non por nelle parti altissime del cielo, e che furono di lunga durata e finalmente svanirono, non gli danno fastidio nel mantener l'inalterabilità del cielo, per non esser loro parti certe di quello né mutazioni fatte nelle stelle antiche, a che proposito mettersi con tanta ansietà ed affanno contro le comete, per bandirle in ogni maniera dalle regioni celesti? non bastav'egli il poter dir di loro quel medesimo che delle stelle nuove? cioè che per non esser parti certe del cielo né mutazioni fatte in alcuna delle sue stelle, nessun progiudizio portano né al cielo né alla dottrina d'Aristotile? Secondariamente, io non resto ben capace dell'interno dell'animo suo, mentre che e' confessa che le alterazioni che si facessero nelle stelle sarebber destruttrici delle prerogative del cielo, cioè dell'incorruttibilità etc., e questo, perché le stelle son cose celesti, come per il concorde consenso di tutti è manifesto; ed all'incontro, niente lo perturba, quando le medesime alterazioni si facessero fuori delle stelle, nel resto della celeste espansione. Stim'egli forse che il cielo non sia cosa celeste? io per me credeva che le stelle si chiamassero cose celesti mediante l'esser nel cielo o l'esser fatte della materia del cielo, e che però il cielo fusse piú celeste di loro, in quella guisa che non si può dire alcuna cosa esser piú terrestre o piú ignea della terra o del fuoco stesso. Il non aver poi fatto menzione delle macchie solari, delle quali è stato dimostrato concludentemente prodursi e dissolversi ed esser prossime al corpo solare e con esso o intorno ad esso raggirarsi, mi dà grand'indizio che possa esser che questo autore scriva piú tosto a compiacenza di altri che a soddisfazion propria; e questo dico, perché, dimostrandosi egli intelligente delle matematiche, è impossibile ch'ei non resti persuaso dalle dimostrazioni, che tali materie sono necessariamente contigue al corpo solare, e sono generazioni e corruzioni tanto grandi, che nissuna cosí grande se ne fa mai in Terra: e se tali e tante e sí frequenti se ne fanno nell'istesso globo del Sole, che ragionevolmente può stimarsi delle piú nobili parti del cielo, qual ragione resterà potente a dissuaderci che altre ne possano accadere ne gli altri globi?

SAGR. Io non posso senza grande ammirazione, e dirò gran repugnanza al mio intelletto, sentir attribuir per gran nobiltà e perfezione a i corpi naturali ed integranti dell'universo questo esser impassibile, immutabile, inalterabile etc., ed all'incontro stimar grande imperfezione l'esser alterabile, generabile, mutabile, etc.: io per me reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sí diverse alterazioni, mutazioni, generazioni, etc., che in lei incessabilmente si fanno; e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta solitudine d'arena o una massa di diaspro, o che al tempo del diluvio diacciandosi l'acque che la coprivano fusse restata un globo immenso di cristallo, dove mai non nascesse né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio e, per dirla in breve, superfluo e come se non fusse in natura, e quella stessa differenza ci farei che è tra l'animal vivo e il morto; ed il medesimo dico della Luna, di Giove e di tutti gli altri globi mondani. Ma quanto piú m'interno in considerar la vanità de i discorsi popolari, tanto piú gli trovo leggieri e stolti. E qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella che chiama cose preziose le gemme, l'argento e l'oro, e vilissime la terra e il fango? e come non sovviene a questi tali, che quando fusse tanta scarsità della terra quanta è delle gioie o de i metalli piú pregiati, non sarebbe principe alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro carrate di oro per aver solamente tanta terra quanta bastasse per piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo nascere, crescere e produrre sí belle frondi, fiori cosí odorosi e sí gentil frutti? È, dunque, la penuria e l'abbondanza quella che mette in prezzo ed avvilisce le cose appresso il volgo, il quale dirà poi quello essere un bellissimo diamante, perché assimiglia l'acqua pura, e poi non lo cambierebbe con dieci botti d'acqua. Questi che esaltano tanto l'incorruttibilità, l'inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo. Questi meriterebbero d'incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar piú perfetti che non sono.

SALV. E forse anco una tal metamorfosi non sarebbe se non con qualche lor vantaggio; ché meglio credo io che sia il non discorrere, che discorrere a rovescio.

SIMP. E' non è dubbio alcuno che la Terra è molto piú perfetta essendo, come ella è, alterabile, mutabile, etc., che se la fusse una massa di pietra, quando ben anco fusse un intero diamante, durissimo ed impassibile. Ma quanto queste condizioni arrecano di nobiltà alla Terra, altrettanto renderebbero i corpi celesti piú imperfetti, ne i quali esse sarebbero superflue, essendo che i corpi celesti, cioè il Sole, la Luna e l'altre stelle, che non sono ordinati ad altro uso che al servizio della Terra, non hanno bisogno d'altro per conseguire il lor fine, che del moto e del lume.

SAGR. Adunque la natura ha prodotti ed indrizzati tanti vastissimi, perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili, immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile, caduca e mortale? al servizio di quello che voi chiamate la feccia del mondo, la sentina di tutte le immondizie? e a che proposito far i corpi celesti immortali etc., per servire a uno caduco etc.? Tolto via questo uso di servire alla Terra, l'innumerabile schiera di tutti i corpi celesti resta del tutto inutile e superflua, già che non hanno, né possono avere, alcuna scambievole operazione fra di loro, poiché tutti sono inalterabili, immutabili, impassibili: ché se, verbigrazia, la Luna è impassibile, che volete che il Sole o altra stella operi in lei? sarà senz'alcun dubbio operazione minore assai che quella di chi con la vista o col pensiero volesse liquefare una gran massa d'oro. In oltre, a me pare che mentre che i corpi celesti concorrano alle generazioni ed alterazioni della Terra, sia forza che essi ancora sieno alterabili; altramente non so intendere che l'applicazione della Luna o del Sole alla Terra per far le generazioni fusse altro che mettere a canto alla sposa una statua di marmo, e da tal congiugnimento stare attendendo prole.

SIMP. La corruttibilità, l'alterazione, la mutazione etc. non son nell'intero globo terrestre, il quale quanto alla sua integrità è non meno eterno che il Sole o la Luna, ma è generabile e corruttibile quanto alle sue parti esterne; ma è ben vero che in esse la generazione e corruzione son perpetue, e come tali ricercano l'operazioni celesti eterne; e però è necessario che i corpi celesti sieno eterni.

SAGR. Tutto cammina bene; ma se all'eternità dell'intero globo terrestre non è punto progiudiziale la corruttibilità delle parti superficiali, anzi questo esser generabile, corruttibile, alterabile etc. gli arreca grand'ornamento e perfezione, perché non potete e dovete voi ammetter alterazioni, generazioni etc. parimente nelle parti esterne de i globi celesti, aggiugnendo loro ornamento, senza diminuirgli perfezione o levargli l'azioni, anzi accrescendogliele, col far che non solo sopra la Terra, ma che scambievolmente fra di loro tutti operino, e la Terra ancora verso di loro?

SIMP. Questo non può essere, perché le generazioni, mutazioni etc. che si facesser, verbigrazia, nella Luna, sarebber inutili e vane, et natura nihil frustra facit.

SAGR. E perché sarebbero elleno inutili e vane?

SIMP. Perché noi chiaramente veggiamo e tocchiamo con mano, che tutte le generazioni, mutazioni, etc., che si fanno in Terra, tutte, o mediatamente o immediatamente, sono indrizzate all'uso, al comodo ed al benefizio dell'uomo; per comodo de gli uomini nascono i cavalli, per nutrimento de' cavalli produce la Terra il fieno, e le nugole l'adacquano; per comodo e nutrimento de gli uomini nascono le erbe, le biade, i frutti, le fiere, gli uccelli, i pesci; ed in somma, se noi anderemo diligentemente esaminando e risolvendo tutte queste cose, troveremo, il fine al quale tutte sono indrizzate esser il bisogno, l'utile, il comodo e il diletto de gli uomini. Or di quale uso potrebber esser mai al genere umano le generazioni che si facessero nella Luna o in altro pianeta? se già voi non voleste dire che nella Luna ancora fussero uomini, che godesser de' suoi frutti; pensiero, o favoloso, o empio.

SAGR. Che nella Luna o in altro pianeta si generino o erbe o piante o animali simili a i nostri, o vi si facciano pioggie, venti, tuoni, come intorno alla Terra, io non lo so e non lo credo, e molto meno che ella sia abitata da uomini: ma non intendo già come tuttavolta che non vi si generino cose simili alle nostre, si deva di necessità concludere che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose che si mutino, si generino e si dissolvano, non solamente diverse dalle nostre, ma lontanissime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi inescogitabili. E sí come io son sicuro che a uno nato e nutrito in una selva immensa, tra fiere ed uccelli, e che non avesse cognizione alcuna dell'elemento dell'acqua, mai non gli potrebbe cadere nell'immaginazione essere in natura un altro mondo diverso dalla Terra, pieno di animali li quali senza gambe e senza ale velocemente camminano, e non sopra la superficie solamente, come le fiere sopra la terra, ma per entro tutta la profondità, e non solamente camminano, ma dovunque piace loro immobilmente si fermano, cosa che non posson fare gli uccelli per aria, e che quivi di piú abitano ancora uomini, e vi fabbricano palazzi e città, ed hanno tanta comodità nel viaggiare, che senza niuna fatica vanno con tutta la famiglia e con la casa e con le città intere in lontanissimi paesi; sí come, dico, io son sicuro che un tale, ancorché di perspicacissima immaginazione, non si potrebbe già mai figurare i pesci, l'oceano, le navi, le flotte e le armate di mare; cosí e molto piú, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota da noi e di materia per avventura molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d'ogni nostra immaginazione, come quelle che non abbiano similitudine alcuna con le nostre, e perciò del tutto inescogitabili, avvengaché quello che noi ci immaginiamo bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto di cose o di parti delle cose altra volta vedute; ché tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centauri, etc.

SALV. Io son molte volte andato fantasticando sopra queste cose, e finalmente mi pare di poter ritrovar bene alcune delle cose che non sieno né possan esser nella Luna, ma non già veruna di quelle che io creda che vi sieno e possano essere, se non con una larghissima generalità, cioè cose che l'adornino, operando e movendo e vivendo e, forse con modo diversissimo dal nostro, veggendo ed ammirando la grandezza e bellezza del mondo e del suo Facitore e Rettore, e con encomii continui cantando la Sua gloria, ed in somma (che è quello che io intendo) facendo quello tanto frequentemente da gli scrittor sacri affermato, cioè una perpetua occupazione di tutte le creature in laudare Iddio.

SAGR. Queste sono delle cose che, generalissimamente parlando, vi possono essere; ma io sentirei volentieri ricordar di quelle che ella crede che non vi sieno né possano essere, le quali è forza che piú particolarmente si possano nominare.

SALV. Avvertite, signor Sagredo, che questa sarà la terza volta che noi cosí di passo in passo, non ce n'accorgendo, ci saremo deviati dal nostro principale instituto, e che tardi verremo a capo de' nostri ragionamenti, facendo digressioni; però se vogliamo differir questo discorso tra gli altri che siam convenuti rimettere ad una particolar sessione, sarà forse ben fatto.

SAGR. Di grazia, già che siamo nella Luna, spediamoci dalle cose che appartengono a lei, per non avere a fare un'altra volta un sí lungo cammino.

SALV. Sia come vi piace. E per cominciar dalle cose piú generali, io credo che il globo lunare sia differente assai dal terrestre, ancorché in alcune cose si veggano delle conformità: dirò le conformità, e poi le diversità. Conforme è sicuramente la Luna alla Terra nella figura, la quale indubitabilmente è sferica, come di necessità si conclude dal vedersi il suo disco perfettamente circolare, e dalla maniera del ricevere il lume del Sole, dal quale, se la superficie sua fusse piana, verrebbe tutta nell'istesso tempo vestita, e parimente poi tutta, pur in un istesso momento, spogliata di luce, e non prima le parti che riguardano verso il Sole e successivamente le seguenti, sí che giunta all'opposizione, e non prima, resta tutto l'apparente disco illustrato; di che, all'incontro, accaderebbe tutto l'opposito, quando la sua visibil superficie fusse concava, cioè la illuminazione comincierebbe dalle parti avverse al Sole. Secondariamente, ella è, come la Terra, per se stessa oscura ed opaca, per la quale opacità è atta a ricevere ed a ripercuotere il lume del Sole, il che, quando ella non fusse tale, far non potrebbe. Terzo, io tengo la sua materia densissima e solidissima non meno della Terra; di che mi è argomento assai chiaro l'esser la sua superficie per la maggior parte ineguale, per le molte eminenze e cavità che vi si scorgono mercé del telescopio: delle quali eminenze ve ne son molte in tutto e per tutto simili alle nostre piú aspre e scoscese montagne, e vi se ne scorgono alcune tirate e continuazioni lunghe di centinaia di miglia; altre sono in gruppi piú raccolti, e sonvi ancora molti scogli staccati e solitari, ripidi assai e dirupati; ma quello di che vi è maggior frequenza, sono alcuni argini (userò questo nome, per non me ne sovvenir altro che piú gli rappresenti) assai rilevati, li quali racchiudono e circondano pianure di diverse grandezze, e formano varie figure, ma la maggior parte circolari, molte delle quali hanno nel mezo un monte rilevato assai, ed alcune poche son ripiene di materia alquanto oscura, cioè simile a quella delle gran macchie che si veggon con l'occhio libero, e queste sono delle maggiori piazze; il numero poi delle minori e minori è grandissimo, e pur quasi tutte circolari. Quarto, sí come la superficie del nostro globo è distinta in due massime parti, cioè nella terrestre e nell'acquatica, cosí nel disco lunare veggiamo una distinzion magna di alcuni gran campi piú risplendenti e di altri meno; all'aspetto de i quali credo che sarebbe quello della Terra assai simigliante, a chi dalla Luna o da altra simile lontananza la potesse vedere illustrata dal Sole, ed apparirebbe la superficie del mare piú oscura, e piú chiara quella della terra. Quinto, sí come noi dalla Terra veggiamo la Luna or tutta luminosa, or meza, or piú, or meno, talor falcata, e talvolta ci resta del tutto invisibile, cioè quando è sotto i raggi solari, sí che la parte che riguarda la Terra resta tenebrosa; cosí appunto si vedrebbe dalla Luna, coll'istesso periodo a capello e sotto le medesime mutazioni di figure, l'illuminazione fatta dal Sole sopra la faccia della Terra. Sesto…

SAGR. Piano un poco, signor Salviati. Che l'illuminazione della Terra, quanto alle diverse figure, si rappresentasse, a chi fusse nella Luna, simile in tutto a quello che noi scorgiamo nella Luna, l'intendo io benissimo; ma non resto già capace, come ella si mostrasse fatta coll'istesso periodo, avvenga che quello che fa l'illuminazion del Sole nella superficie lunare in un mese, lo fa nella terrestre in ventiquattr'ore.

SALV. È vero che l'effetto del Sole, circa l'illuminar questi due corpi e ricercar col suo splendore tutta la lor superficie, si spedisce nella Terra in un giorno naturale, e nella Luna in un mese; ma non da questo solo depende la variazione delle figure, sotto le quali dalla Luna si vedrebbero le parti illuminate della terrestre superficie, ma da i diversi aspetti che la Luna va mutando col Sole: sì che quando, verbigrazia, la Luna seguitasse puntualmente il moto del Sole, e stesse per caso sempre linearmente tra esso e la Terra in quell'aspetto che noi diciamo di congiunzione, vedendo ella sempre il medesimo emisferio della Terra che vedrebbe il Sole, lo vedrebbe perpetuamente tutto lucido; come, per l'opposito, quando ella restasse sempre all'opposizione del Sole, non vedrebbe mai la Terra, della quale sarebbe continuamente volta verso la Luna la parte tenebrosa, e perciò invisibile; ma quando la Luna è alla quadratura del Sole, dell'emisfero terrestre esposto alla vista della Luna quella metà che è verso il Sole è luminosa, e l'altra verso l'opposto del Sole è oscura, e però la parte della Terra illuminata si rappresenterebbe alla Luna sotto figura di mezo cerchio.

SAGR. Resto capacissimo del tutto; ed intendo già benissimo che partendosi la Luna dall'opposizione del Sole, di dove ella non vedeva niente dell'illuminato della terrestre superficie, e venendo di giorno in giorno verso il Sole, incomincia a poco a poco a scoprir qualche particella della faccia della Terra illuminata, e questa vede ella in figura di sottil falce, per esser la Terra rotonda; ed acquistando pur la Luna col suo movimento di dí in dí maggior vicinità al Sole, viene scoprendo piú e piú sempre dell'emisfero terrestre illuminato, sí che alla quadratura ne scuopre la metà giusto, sí come noi di lei veggiamo altrettanto; continuando poi di venir verso la congiunzione, scuopre successivamente parte maggiore della superficie illuminata, e finalmente nella congiunzione vede l'intero emisferio tutto luminoso. Ed in somma comprendo benissimo che quello che accade a gli abitatori della Terra, nel veder le varietà della Luna, accaderebbe a chi fusse nella Luna nel veder la Terra, ma con ordine contrario: cioè che quando la Luna è a noi piena ed all'opposizion del Sole, a loro la Terra sarebbe alla congiunzion col Sole e del tutto oscura ed invisibile; all'incontro, quello stato che a noi è congiunzion della Luna col Sole, e però Luna silente e non veduta, là sarebbe opposizion della Terra al Sole, e per cosí dire Terra piena, cioè tutta luminosa; e finalmente quanta parte a noi, di tempo in tempo, si mostra della superficie lunare illuminata, tanto dalla Luna si vedrebbe esser nell'istesso tempo la parte della Terra oscura, e quanto a noi resta della Luna privo di lume, tanto alla Luna è l'illuminato della Terra; sí che solo nelle quadrature questi veggono mezo cerchio della Luna luminoso, e quelli altrettanto della Terra. In una cosa mi par che differiscano queste scambievoli operazioni: ed è che, dato e non concesso che nella Luna fusse chi di là potesse rimirar la Terra, vedrebbe ogni giorno tutta la superficie terrestre, mediante il moto di essa Luna intorno alla Terra in ventiquattro o venticinque ore; ma noi non veggiamo mai altro che la metà della Luna, poiché ella non si rivolge in se stessa, come bisognerebbe per potercisi tutta mostrare.

SALV. Purché questo non accaggia per il contrario, cioè che il rigirarsi ella in se stessa sia cagione che noi non veggiamo mai l'altra metà; ché cosí sarebbe necessario che fusse, quando ella avesse l'epiciclo. Ma dove lasciate voi un'altra differenza, in contraccambio di questa avvertita da voi?

SAGR. E qual è? ché altra per ora non mi vien in mente.

SALV. È che, se la Terra (come bene avete notato) non vede altro che la metà della Luna, dove che dalla Luna vien vista tutta la Terra, all'incontro tutta la Terra vede la Luna, ma della Luna solo la metà vede la Terra; perché gli abitatori, per cosí dire, dell'emisfero superiore della Luna, che a noi è invisibile, son privi della vista della Terra, e questi son forse gli antictoni. Ma qui mi sovvien ora d'un particolare accidente, nuovamente osservato dal nostro Accademico nella Luna, per il quale si raccolgono due conseguenze necessarie: l'una è, che noi veggiamo qualche cosa di piú della metà della Luna, e l'altra è, che il moto della Luna ha giustamente relazione al centro della Terra: e l'accidente e l'osservazione è tale. Quando la Luna abbia una corrispondenza e natural simpatia con la Terra, verso la quale con una tal sua determinata parte ella riguardi, è necessario che la linea retta che congiugne i lor centri passi sempre per l'istesso punto della superficie della Luna, tal che quello che dal centro della Terra la rimirasse, vedrebbe sempre l'istesso disco della Luna, puntualmente terminato da una medesima circonferenza: ma di uno costituito sopra la superficie terrestre, il raggio che dall'occhio suo andasse sino al centro del globo lunare non passerebbe per l'istesso punto della superficie di quella per il quale passa la linea tirata dal centro della Terra a quel della Luna, se non quando ella gli fusse verticale; ma posta la Luna in oriente o in occidente, il punto dell'incidenza del raggio visuale resta superiore a quel della linea che congiugne i centri, e però si scuopre qualche parte dell'emisferio lunare verso la circonferenza di sopra, e si nasconde altrettanto dalla parte di sotto; si scuopre, dico, e si nasconde rispetto all'emisfero che si vedrebbe dal vero centro della Terra: e perché la parte della circonferenza della Luna che è superiore nel nascere, è inferiore nel tramontare, però assai notabile dovrà farsi la differenza dell'aspetto di esse parti superiore e inferiore, scoprendosi ora, ed ora ascondendosi, delle macchie o altre cose notabili di esse parti. Una simil variazione dovrebbe scorgersi ancora verso l'estremità boreale ed australe del medesimo disco, secondo che la Luna si trova in questo o in quel ventre del suo dragone; perché, quando ella è settentrionale, alcuna delle sue parti verso settentrione ci si nasconde, e si scuopre delle australi, e per l'opposito. Ora, che queste conseguenze si verifichino in fatto, il telescopio ce ne rende certi. Imperocché sono nella Luna due macchie particolari, una delle quali, quando la Luna è nel meridiano, guarda verso maestro, e l'altra gli è quasi diametralmente opposta, e la prima è visibile anco senza il telescopio, ma non già l'altra: è la maestrale una macchietta ovata, divisa dall'altre grandissime; l'opposta è minore, e parimente separata dalle grandissime, e situata in campo assai chiaro: in amendue queste si osservano molto manifestamente le variazioni già dette, e veggonsi contrariamente l'una dall'altra, ora vicine al limbo del disco lunare, ed ora allontanate, con differenza tale, che l'intervallo tra la maestrale e la circonferenza del disco è piú che il doppio maggiore una volta che l'altra; e quanto all'altra macchia (perché l'è piú vicina alla circonferenza), tal mutazione importa piú che il triplo da una volta all'altra. Di qui è manifesto, la Luna, come allettata da virtú magnetica, constantemente riguardare con una sua faccia il globo terrestre, né da quello divertir mai.

SAGR. E quando si ha a por termine alle nuove osservazioni e scoprimenti di questo ammirabile strumento?

SALV. Se i progressi di questa son per andar secondo quelli di altre invenzioni grandi, è da sperare che col progresso del tempo si sia per arrivar a veder cose a noi per ora inimmaginabili. Ma tornando al nostro primo discorso, dico, per la sesta congruenza tra la Luna e la Terra, che, sí come la Luna gran parte del tempo supplisce al mancamento del lume del Sole e ci rende, con la reflessione del suo, le notti assai chiare, cosí la Terra ad essa in ricompensa rende, quando ella n'è piú bisognosa, col refletterle i raggi solari, una molto gagliarda illuminazione, e tanto, per mio parere, maggior di quella che a noi vien da lei, quanto la superficie della Terra è piú grande di quella della Luna.

SAGR. Non piú, non piú, signor Salviati; lasciatemi il gusto di mostrarvi come a questo primo cenno ho penetrato la causa di un accidente al quale mille volte ho pensato, né mai l'ho potuto penetrare. Voi volete dire che certa luce abbagliata che si vede nella Luna, massimamente quando l'è falcata, viene dal reflesso del lume del Sole nella superficie della terra e del mare: e piú si vede tal lume chiaro, quanto la falce è piú sottile, perché allora maggiore è la parte luminosa della Terra che dalla Luna è veduta, conforme a quello che poco fa si concluse, cioè che sempre tanta è la parte luminosa della Terra che si mostra alla Luna, quanta l'oscura della Luna che guarda verso la Terra; onde quando la Luna è sottilmente falcata, ed in conseguenza grande è la sua parte tenebrosa, grande è la parte illuminata della Terra, veduta dalla Luna, e tanto piú potente la reflession del lume.

SALV. Questo è puntualmente quello ch'io voleva dire. In somma, gran dolcezza è il parlar con persone giudiziose e di buona apprensiva, e massime quando altri va passeggiando e discorrendo tra i veri. Io mi son piú volte incontrato in cervelli tanto duri, che, per mille volte che io abbia loro replicato questo che voi avete subito per voi medesimo penetrato, mai non è stato possibile che e' l'apprendano.

SIMP. Se voi volete dire di non averlo potuto persuadere loro sí che e' l'intendino, io molto me ne maraviglio, e son sicuro che non l'intendendo dalla vostra esplicazione, non l'intenderanno forse per quella di altri, parendomi la vostra espressiva molto chiara; ma se voi intendete di non gli aver persuasi sí che e' lo credano, di questo non mi maraviglio punto, perché io stesso confesso di esser un di quelli che intendono i vostri discorsi, ma non vi si quietano, anzi mi restano, in questa e in parte dell'altre sei congruenze, molte difficultà, le quali promoverò quando avrete finito di raccontarle tutte.

SALV. Il desiderio che ho di ritrovar qualche verità, nel quale acquisto assai mi possono aiutare le obbiezioni di uomini intelligenti, qual sete voi, mi farà esser brevissimo nello spedirmi da quel che ci resta. Sia dunque la settima congruenza il rispondersi reciprocamente non meno alle offese che a i favori: onde la Luna, che bene spesso nel colmo della sua illuminazione, per l'interposizion della Terra tra sé e il Sole, vien privata di luce ed ecclissata, cosí essa ancora, per suo riscatto, si interpone tra la Terra e il Sole, e con l'ombra sua oscura la Terra; e se ben la vendetta non è pari all'offesa, perché bene spesso la Luna rimane, ed anco per assai lungo tempo, immersa totalmente nell'ombra della Terra, ma non già mai tutta la Terra, né per lungo spazio di tempo, resta oscurata dalla Luna, tuttavia, avendosi riguardo alla picciolezza del corpo di questa in comparazion della grandezza di quello, non si può dir se non che il valore, in un certo modo, dell'animo sia grandissimo. Questo è quanto alle congruenze. Seguirebbe ora il discorrer circa le disparità; ma perché il signor Simplicio ci vuol favorire de i dubbi contro di quelle, sarà bene sentirgli e ponderargli, prima che passare avanti.

SAGR. Sí, perché è credibile che il signor Simplicio non sia per aver repugnanze intorno alle disparità e differenze tra la Terra e la Luna, già che egli stima le lor sustanze diversissime.

SIMP. Delle congruenze recitate da voi nel far parallelo tra la Terra e la Luna, non sento di poter ammetter senza repugnanza se non la prima e due altre. Ammetto la prima, cioè la figura sferica, se bene anco in questa vi è non so che, stimando io quella della Luna esser pulitissima e tersa come uno specchio, dove che questa della Terra tocchiamo con mano esser scabrosissima ed aspra, ma questa, attenente all'inegualità della superficie, va considerata in un'altra delle congruenze arrecate da voi; però mi riserbo a dirne quanto mi occorre nella considerazione di quella. Che la Luna sia poi, come voi dite nella seconda congruenza, opaca ed oscura per se stessa, come la Terra, io non ammetto se non il primo attributo della opacità, del che mi assicurano gli eclissi solari; ché quando la Luna fusse trasparente, l'aria nella totale oscurazione del Sole non resterebbe cosí tenebrosa come ella resta, ma per la trasparenza del corpo lunare trapasserebbe una luce refratta, come veggiamo farsi per le piú dense nugole. Ma quanto all'oscurità, io non credo che la Luna sia del tutto priva di luce, come la Terra, anzi quella chiarezza che si scorge nel resto del suo disco, oltre alle sottili corna illustrate dal Sole, reputo che sia suo proprio e natural lume, e non un reflesso della Terra, la quale io stimo impotente, per la sua somma asprezza ed oscurità, a reflettere i raggi del Sole. Nel terzo parallelo convengo con voi in una parte, e nell'altra dissento; convengo nel giudicar il corpo della Luna solidissimo e duro, come la Terra, anzi piú assai, perché se da Aristotile noi caviamo che il cielo sia di durezza impenetrabile, e le stelle parti piú dense del cielo, è ben necessario che le siano saldissime ed impenetrabilissime.

SAGR. Che bella materia sarebbe quella del cielo per fabbricar palazzi, chi ne potesse avere, cosí dura e tanto trasparente!

SALV. Anzi pessima, perché sendo, per la somma trasparenza, del tutto invisibile, non si potrebbe, senza gran pericolo di urtar negli stipiti e spezzarsi il capo, camminar per le stanze.

SAGR. Cotesto pericolo non si correrebbe egli, se è vero, come dicono alcuni Peripatetici, che la sia intangibile; e se la non si può toccare, molto meno si potrebbe urtare.

SALV. Di niuno sollevamento sarebbe cotesto; conciosiaché, se ben la materia celeste non può esser toccata, perché manca delle tangibili qualità, può ben ella toccare i corpi elementari; e per offenderci, tanto è che ella urti in noi, ed ancor peggio, che se noi urtassimo in lei. Ma lasciamo star questi palazzi o per dir meglio castelli in aria, e non impediamo il signor Simplicio.

SIMP. La quistione che voi avete cosí incidentemente promossa, è delle difficili che si trattino in filosofia, ed io ci ho intorno di bellissimi pensieri di un gran cattedrante di Padova; ma non è tempo di entrarvi adesso. Però, tornando al nostro proposito, replico che stimo la Luna solidissima piú della Terra, ma non l'argomento già, come fate voi, dalla asprezza e scabrosità della sua superficie, anzi dal contrario, cioè dall'essere atta a ricevere (come veggiamo tra noi nelle gemme piú dure) un pulimento e lustro superiore a qual si sia specchio piú terso; ché tale è necessario che sia la sua superficie, per poterci fare sí viva reflessione de' raggi del Sole. Quelle apparenze poi che voi dite, di monti, di scogli, di argini, di valli, etc., son tutte illusioni; ed io mi sono ritrovato a sentire in publiche dispute sostener gagliardamente, contro a questi introduttori di novità, che tali apparenze non da altro provengono che da parti inegualmente opache e perspicue, delle quali interiormente ed esteriormente è composta la Luna, come spesso veggiamo accadere nel cristallo, nell'ambra ed in molte pietre preziose perfettamente lustrate, dove, per la opacità di alcune parti e per la trasparenza di altre, appariscono in quelle varie concavità e prominenze. Nella quarta congruenza concedo che la superficie del globo terrestre, veduto di lontano, farebbe due diverse apparenze, cioè una piú chiara e l'altra piú oscura, ma stimo che tali diversità accaderebbono al contrario di quel che dite voi; cioè credo che la superficie dell'acqua apparirebbe lucida, perché è liscia e trasparente, e quella della terra resterebbe oscura per la sua opacità e scabrosità, male accomodata a riverberare il lume del Sole. Circa il quinto riscontro, lo ammetto tutto, e resto capace che quando la Terra risplendesse come la Luna si mostrerebbe, a chi di lassú la rimirasse, sotto figure conformi a quelle che noi veggiamo nella Luna; comprendo anco come il periodo della sua illuminazione e variazione di figure sarebbe di un mese, benché il Sole la ricerchi tutta in ventiquattr'ore; e finalmente non ho difficultà nell'ammettere che la metà sola della Luna vede tutta la Terra, e che tutta la Terra vede solo la metà della Luna. Nel sesto, reputo falsissimo che la Luna possa ricever lume dalla Terra, che è oscurissima, opaca ed inettissima a reflettere il lume del Sole, come ben lo reflette la Luna a noi; e, come ho detto, stimo che quel lume che si vede nel resto della faccia della Luna, oltre alle corna splendidissime per l'illuminazion del Sole, sia proprio e naturale della Luna, e gran cosa ci vorrebbe a farmi credere altrimenti. Il settimo, de gli eclissi scambievoli, si può anco ammettere, se ben propriamente si costuma chiamare eclisse del Sole questo che voi volete chiamare eclisse della Terra. E questo è quanto per ora mi occorre dirvi in contradizione alle sette congruenze; alle quali instanze se vi piacerà di replicare alcuna cosa, l'ascolterò volentieri.

SALV. Se io ho bene appreso quanto avete risposto, parmi che tra voi e noi restino ancora controverse alcune condizioni, le quali io faceva comuni alla Luna ed alla Terra; e son queste. Voi stimate la Luna tersa e liscia com'uno specchio, e, come tale, atta a refletterci il lume del Sole, ed all'incontro la Terra, per la sua asprezza, non potente a far simile reflessione. Concedete la Luna solida e dura, e ciò argumentate dall'esser ella pulita e tersa, e non dall'esser montuosa; e dell'apparir montuosa ne assegnate per causa l'essere di parti piú o meno opache e perspicue. E finalmente stimate, quella luce secondaria esser propria della Luna, e non per reflession della Terra; se ben par che al mare, per esser di superficie pulita, voi non neghiate qualche riflessione. Quanto al torvi di errore, che la reflession della Luna non si faccia come da uno specchio, ci ho poca speranza, mentre veggo che quello che in tal proposito si legge nel Saggiatore e nelle Lettere Solari del nostro amico comune non ha profittato nulla nel vostro concetto, se però voi avete attentamente letto quanto vi è scritto in tal materia.

SIMP. Io l'ho trascorso cosí, superficialmente, conforme al poco tempo che mi vien lasciato ozioso da studi piú sodi: però, se col replicare alcune di quelle ragioni o coll'addurne altre voi pensate risolvermi le difficultà, le ascolterò piú attentamente.

SALV. Io dirò quello che mi viene in mente al presente e potrebb'essere che fusse una mistione di concetti miei propri e di quelli che già lessi ne i detti libri, da i quali mi sovvien bene ch'io restai interamente persuaso, ancorché le conclusioni nel primo aspetto mi paresser gran paradossi. Noi cerchiamo, signor Simplicio, se per fare una reflession di lume simile a quello che ci vien dalla Luna, sia necessario che la superficie da cui vien la reflessione sia cosí tersa e liscia come di uno specchio, o pur sia piú accomodata una superficie non tersa e non liscia, ma aspra e mal pulita. Ora, quando a noi venisser due reflessioni, una piú lucida e l'altra meno, da due superficie opposteci, io vi domando, qual delle due superficie voi credete che si rappresentasse a gli occhi nostri piú chiara e qual piú oscura.

SIMP. Credo senza dubbio che quella che piú vivamente mi reflettesse il lume, mi si mostrerebbe in aspetto piú chiara, e l'altra piú oscura.

SALV. Pigliate ora in cortesia quello specchio che è attaccato a quel muro, ed usciamo qua nella corte. Venite, signor Sagredo. Attaccate lo specchio là a quel muro, dove batte il sole; discostiamoci e ritiriamoci qua all'ombra. Ecco là due superficie percosse dal sole, cioè il muro e lo specchio. Ditemi ora qual vi si rappresenta piú chiara: quella del muro o quella dello specchio? voi non rispondete?

SAGR. Io lascio rispondere al signor Simplicio, che ha la difficultà; ché io, quanto a me, da questo poco principio di esperienza son persuaso che bisogni per necessità che la Luna sia di superficie molto mal pulita.

SALV. Dite, signor Simplicio: se voi aveste a ritrar quel muro, con quello specchio attaccatovi, dove adoprereste voi colori piú oscuri, nel dipignere il muro o pur nel dipigner lo specchio?

SIMP. Assai piú scuri nel dipigner lo specchio.

SALV. Or se dalla superficie che si rappresenta piú chiara vien la reflession del lume piú potente, piú vivamente ci refletterà i raggi del Sole il muro che lo specchio.

SIMP. Benissimo, signor mio; avete voi migliori esperienze di queste? Voi ci avete posti in luogo dove non batte il reverbero dello specchio; ma venite meco un poco piú in qua: no, venite pure.

SAGR. Cercate voi forse il luogo della reflessione che fa lo specchio?

SIMP. Signor sí.

SAGR. Oh vedetela là nel muro opposto, grande giusto quanto lo specchio, e chiara poco meno che se vi battesse il Sole direttamente.

SIMP. Venite dunque qua, e guardate di lì la superficie dello specchio, e sappiatemi dire se l'è piú scura di quella del muro.

SAGR. Guardatela pur voi, ché io per ancora non voglio acceccare; e so benissimo, senza guardarla, che la si mostra vivace e chiara quanto il Sole istesso, o poco meno

SIMP. Che dite voi dunque che la reflession di uno specchio sia men potente di quella di un muro? io veggo che in questo muro opposto, dove arriva il reflesso dell'altra parete illuminata insieme con quel dello specchio, questo dello specchio è assai piú chiaro; e veggio parimente che di qui lo specchio medesimo mi apparisce piú chiaro assai che il muro.

SALV. Voi con la vostra accortezza mi avete prevenuto, perché di questa medesima osservazione avevo bisogno per dichiarar quel che resta. Voi vedete dunque la differenza che cade tra le due reflessioni, fatte dalle due superficie del muro e dello specchio, percosse nell'istesso modo per l'appunto da i raggi solari; e vedete come la reflession che vien dal muro si diffonde verso tutte le parti opposteli, ma quella dello specchio va verso una parte sola, non punto maggiore dello specchio medesimo; vedete parimente come la superficie del muro, riguardata da qualsivoglia luogo, si mostra chiara sempre egualmente a se stessa, e per tutto assai piú chiara che quella dello specchio, eccettuatone quel piccolo luogo solamente dove batte il reflesso dello specchio, ché di lí apparisce lo specchio molto piú chiaro del muro. Da queste cosí sensate e palpabili esperienze mi par che molto speditamente si possa venire in cognizione, se la reflessione che ci vien dalla Luna venga come da uno specchio, o pur come da un muro, cioè se da una superficie liscia o pure aspra.

SAGR. Se io fussi nella Luna stessa, non credo che io potessi con mano toccar piú chiaramente l'asprezza della sua superficie di quel ch'io me la scorga ora con l'apprensione del discorso. La Luna, veduta in qualsivoglia positura, rispetto al Sole e a noi, ci mostra la sua superficie tocca dal Sole sempre egualmente chiara; effetto che risponde a capello a quel del muro, che, riguardato da qualsivoglia luogo, apparisce egualmente chiaro, e discorda dallo specchio, che da un luogo solo si mostra luminoso e da tutti gli altri oscuro. In oltre, la luce che mi vien dalla reflession del muro è tollerabile e debile, in comparazion di quella dello specchio gagliardissima ed offensiva alla vista poco meno della primaria e diretta del Sole: e cosí con suavità riguardiamo la faccia della Luna; che quando ella fusse come uno specchio, mostrandocisi anco, per la vicinità, grande quanto l'istesso Sole, sarebbe il suo fulgore assolutamente intollerabile, e ci parrebbe di riguardare quasi un altro Sole.

SALV. Non attribuite di grazia, signor Sagredo, alla mia dimostrazione piú di quello che le si perviene. Io voglio muovervi contro un'instanza, che non so quanto sia di agevole scioglimento. Voi portate per gran diversità tra la Luna e lo specchio, che ella rimandi la reflessione verso tutte le parti egualmente, come fa il muro, dove che lo specchio la manda in un luogo solo determinato; e di qui concludete, la Luna esser simile al muro, e non allo specchio. Ma io vi dico che quello specchio manda la reflessione in un luogo solo, perché la sua superficie è piana, e dovendo i raggi reflessi partirsi ad angoli eguali a quelli de' raggi incidenti, è forza che da una superficie piana si partano unitamente verso il medesimo luogo; ma essendo che la superficie della Luna è non piana, ma sferica, ed i raggi incidenti sopra una tal superficie trovano da reflettersi ad angoli eguali a quelli dell'incidenza verso tutte le parti, mediante la infinità delle inclinazioni che compongono la superficie sferica, adunque la Luna può mandar la reflessione per tutto, e non è necessitata a mandarla in un luogo solo, come quello specchio che è piano.

SIMP. Questa è appunto una delle obbiezioni che io volevo fargli contro.

SAGR. Se questa è una, è forza che voi ne abbiate delle altre; però ditele, ché quanto a questa prima mi par che ella sia per riuscire piú contro di voi che in favore.

SIMP. Voi avete pronunziato come cosa manifesta, che la reflession fatta da quel muro sia cosí chiara ed illuminante come quella che ci vien dalla Luna, ed io la stimo come nulla in comparazion di quella: imperocché «in questo negozio dell'illuminazione bisogna aver riguardo e distinguere la sfera di attività; e chi dubita che i corpi celesti abbiano maggiore sfera di attività che questi nostri elementari, caduchi e mortali? e quel muro, finalmente, che è egli altro che un poco di terra, oscura ed inetta all'illuminare?»

SAGR. E qui ancora credo che voi vi inganniate di assai. Ma vengo alla prima instanza mossa dal signor Salviati: e considero che per far che un oggetto ci apparisca luminoso, non basta che sopra esso caschino i raggi del corpo illuminante, ma ci bisogna che i raggi reflessi vengano all'occhio nostro; come apertamente si vede nell'esempio di quello specchio, sopra il quale non ha dubbio che vengono i raggi luminosi del Sole, con tutto ciò ei non ci si mostra chiaro ed illustrato se non quando noi mettiamo l'occhio in quel luogo particulare dove va la reflessione. Consideriamo adesso quel che accaderebbe quando lo specchio fusse di superficie sferica: ché senz'altro noi troveremo che della reflessione che si fa da tutta la superficie illuminata, piccolissima parte è quella che perviene all'occhio di un particolar riguardante, per esser una minimissima particella di tutta la superficie sferica quella l'inclinazion della quale ripercuote il raggio al luogo particolare dell'occhio; onde minima convien che sia la parte della superficie sferica che all'occhio si mostra splendente, rappresentandosi tutto il rimanente oscuro. Quando dunque la Luna fusse tersa come uno specchio, piccolissima parte si mostrerebbe a gli occhi di un particulare illustrata dal Sole, ancorché tutto un emisferio fusse esposto a' raggi solari, ed il resto rimarrebbe all'occhio del riguardante come non illuminato e perciò invisibile, e finalmente invisibile ancora del tutto la Luna, avvenga che quella particella onde venisse la riflessione, per la sua piccolezza e gran lontananza si perderebbe; e sí come all'occhio ella resterebbe invisibile, cosí la sua illuminazione resterebbe nulla, ché bene è impossibile che un corpo luminoso togliesse via le nostre tenebre col suo splendore e che noi non lo vedessimo.

SALV. Fermate in grazia, signor Sagredo, perché io veggo alcuni movimenti nel viso e nella persona del signor Simplicio, che mi sono indizi ch'ei non resti o ben capace o soddisfatto di questo che voi con somma evidenza ed assoluta verità avete detto; e pur ora mi è sovvenuto di potergli con altra esperienza rimuovere ogni scrupolo. Io ho veduto in una camera di sopra un grande specchio sferico: facciamolo portar qua, e mentre che si conduce, torni il signor Simplicio a considerare quanta è grande la chiarezza che vien nella parete qui sotto la loggia dal reflesso dello specchio piano.

SIMP. Io veggo che l'è chiara poco meno che se vi percotesse direttamente il Sole.

SALV. Cosí è veramente. Or ditemi: se, levando via quel piccolo specchio piano, metteremo nell'istesso luogo quel grande sferico, qual effetto credete voi che sia per far la sua reflessione nella medesima parete?

SIMP Credo che gli arrecherà lume molto maggiore e molto più amplo.

SALV. Ma se l'illuminazione sarà nulla, o cosí piccola che appena ve ne accorgiate, che direte allora?

SIMP. Quando avrò visto l'effetto, penserò alla risposta.

SALV. Ecco lo specchio, il quale voglio che sia posto accanto all'altro. Ma prima andiamo là vicino al reflesso di quel piano, e rimirate attentamente la sua chiarezza: vedete come è chiaro qui dove e' batte, e come distintamente si veggono tutte queste minuzie del muro.

SIMP. Ho visto e osservato benissimo: fate metter l'altro specchio a canto al primo.

SALV. Eccolo là. Vi fu messo subito che cominciaste a guardare le minuzie, e non ve ne sete accorto, sí grande è stato l'accrescimento del lume nel resto della parete. Or tolgasi via lo specchio piano. Eccovi levata via ogni reflessione, ancorché vi sia rimasto il grande specchio convesso. Rimuovasi questo ancora, e poi vi si riponga quanto vi piace: voi non vedrete mutazione alcuna di luce in tutto il muro. Eccovi dunque mostrato al senso come la reflessione del Sole fatta in ispecchio sferico convesso non illumina sensibilmente i luoghi circonvicini. Ora che risponderete voi a questa esperienza?

SIMP. Io ho paura che qui non entri qualche giuoco di mano. Io veggo pure, nel riguardar quello specchio, uscire un grande splendore, che quasi mi toglie la vista, e, quel che piú importa, ve lo veggo sempre da qualsivoglia luogo ch'io lo rimiri, e veggolo andar mutando sito sopra la superficie dello specchio, secondo ch'io mi pongo a rimirarlo in questo o in quel luogo: argomento necessario, che il lume si reflette vivo assai verso tutte le bande, ed in conseguenza cosí potente sopra tutta quella parete come sopra il mio occhio.

SALV. Or vedete quanto bisogni andar cauto e riservato nel prestare assenso a quello che il solo discorso ci rappresenta. Non ha dubbio che questo che voi dite ha assai dell'apparente; tuttavia potete vedere come la sensata esperienza mostra in contrario.

SIMP. Come dunque cammina questo negozio?

SALV. Io vi dirò quel che ne sento, che non so quanto vi sia per appagare. E prima, quello splendore cosí vivo che voi vedete sopra lo specchio, e che vi par che ne occupi assai buona parte, non è cosí grande a gran pezzo, anzi è piccolo assai assai; ma la sua vivezza cagiona nell'occhio vostro, mediante la reflessione fatta nell'umido de gli orli delle palpebre, la quale si distende sopra la pupilla, una irradiazione avventizia, simile a quel capillizio che ci par di vedere intorno alla fiammella di una candela posta alquanto lontana, o vogliate assimigliarla allo splendore avventizio di una stella; che se voi paragonerete il piccolo corpicello, verbigrazia, della Canicola, veduto di giorno col telescopio, quando si vede senza irradiazione, col medesimo veduto di notte coll'occhio libero, voi fuor di ogni dubbio comprenderete che l'irraggiato si mostra piú di mille volte maggiore del nudo e real corpicello: ed un simile o maggior ricrescimento fa l'immagine del Sole che voi vedete in quello specchio; dico maggiore, per esser ella piú viva della stella, come è manifesto dal potersi rimirar la stella con assai minor offesa alla vista, che questa reflession dello specchio. Il reverbero dunque, che si ha da participare sopra tutta questa parete, viene da piccola parte di quello specchio; e quello che pur ora veniva da tutto lo specchio piano, si participava e ristrigneva a piccolissima parte della medesima parete: qual meraviglia è dunque che la reflessione prima illumini molto vivamente, e che quest'altra resti quasi impercettibile?

SIMP. Io mi trovo piú inviluppato che mai, e mi sopraggiugne l'altra difficultà, come possa essere che quel muro, essendo di materia cosí oscura e di superficie cosí mal pulita, abbia a ripercuoter lume piú potente e vivace  che uno specchio ben terso e pulito.

SALV. Piú vivace no, ma ben piú universale, ché, quanto alla vivezza, voi vedete che la reflessione di quello specchietto piano, dove ella ferisce là sotto la loggia, illumina gagliardamente, ed il restante della parete, che riceve la reflession del muro, dove è attaccato lo specchio, non è a gran segno illuminato come la piccola parte dove arriva il reflesso dello specchio. E se voi desiderate intender l'intero di questo negozio, considerate come l'esser la superficie di quel muro aspra, è l'istesso che l'esser composta di innumerabili superficie piccolissime, disposte secondo innumerabili diversità di inclinazioni, tra le quali di necessità accade che ne sieno molte disposte a mandare i raggi, reflessi da loro, in un tal luogo, molte altre in altro; ed in somma non è luogo alcuno al quale non arrivino moltissimi raggi reflessi da moltissime superficiette sparse per tutta l'intera superficie del corpo scabroso, sopra il quale cascano i raggi luminosi: dal che segue di necessità che sopra qualsivoglia parte di qualunque superficie opposta a quella che riceve i raggi primarii incidenti, pervengano raggi reflessi, ed in conseguenza l'illuminazione. Seguene ancora, che il medesimo corpo sul quale vengono i raggi illuminanti, rimirato da qualsivoglia luogo, si mostri tutto illuminato e chiaro: e però la Luna, per esser di superficie aspra e non tersa, rimanda la luce del Sole verso tutte le bande, ed a tutti i riguardanti si mostra egualmente lucida. Che se la superficie sua, essendo sferica, fusse ancora liscia come uno specchio, resterebbe del tutto invisibile, atteso che quella piccolissima parte dalla quale potesse venir reflessa l'immagine del Sole, all'occhio di un particolare, per la gran lontananza, resterebbe invisibile, come già abbiam detto.

SIMP. Resto assai ben capace del vostro discorso; tuttavia mi par di poter risolverlo con pochissima fatica, e mantener benissimo che la Luna sia rotonda e pulitissima e che refletta il lume del Sole a noi al modo di uno specchio: né perciò l'immagine del Sole si deve veder nel suo mezo; avvengaché «non per le spezie dell'istesso Sole possa vedersi in sí gran distanza la piccola figura del Sole, ma sia compresa da noi per il lume prodotto dal Sole l'illuminazione di tutto il corpo lunare. Una tal cosa possiamo noi vedere in una piastra dorata e ben brunita, che, percossa da un corpo luminoso, si mostra, a chi la guarda da lontano, tutta risplendente; e solo da vicino si scorge nel mezo di essa la piccola immagine del corpo luminoso».

SALV. Confessando ingenuamente la mia incapacità, dico che non intendo di questo vostro discorso altro che di quella piastra dorata; e se voi mi concedete il parlar liberamente, ho grande opinione che voi ancora non l'intendiate, ma abbiate imparate a mente quelle parole scritte da qualcuno per desiderio di contraddire e mostrarsi piú intelligente dell'avversario, mostrarsi, però, a quelli che, per apparir eglino ancora intelligenti, applaudono a quello che e' non intendono, e maggior concetto si formano delle persone secondo che da loro son manco intese; e pur che lo scrittore stesso non sia (come molti ce ne sono) di quelli che scrivono quel che non intendono, e che però non s'intende quel che essi scrivono. Però, lasciando il resto, vi rispondo quanto alla piastra dorata, che quando ella sia piana e non molto grande, potrà apparir da lontano tutta risplendente, mentre sia ferita da un lume gagliardo, ma però si vedrà tale quando l'occhio sia in una linea determinata, cioè in quella de i raggi reflessi; e vedrassi piú fiammeggiante che se fusse, verbigrazia, d'argento, mediante l'esser colorata ed atta, per la somma densità del metallo, a ricevere brunimento perfettissimo: e quando la sua superficie, essendo benissimo lustrata, non fusse poi esattamente piana, ma avesse varie inclinazioni, allora anco da piú luoghi si vedrebbe il suo splendore, cioè da tanti a quanti pervenissero le varie reflessioni fatte dalle diverse superficie; che però si lavorano i diamanti a molte facce, acciò il lor dilettevol fulgore si scorga da molti luoghi: ma quando la piastra fusse molto grande, non però da lontano, ancorché ella fusse tutta piana, si vedrebbe tutta risplendente. E per meglio dichiararmi, intendasi una piastra dorata piana e grandissima esposta al Sole: mostrerassi a un occhio lontano l'immagine del Sole occupare una parte di tal piastra solamente, cioè quella donde viene la reflessione de i raggi solari incidenti; ma è vero che per la vivacità del lume tal immagine apparirà inghirlandata di molti raggi, e però sembrerà occupare maggior parte assai della piastra che veramente ella non occuperà. E che ciò sia vero, notato il luogo particolare della piastra donde viene la reflessione, e figurato parimente quanto grande mi si rappresenta lo spazio risplendente, cuoprasi di esso spazio la maggior parte, lasciando solamente scoperto intorno al mezo: non però si diminuirà punto la grandezza dell'apparente splendore a quello che di lontano lo rimira, anzi si vedrà egli largamente sparso sopra il panno o altro con che si ricoperse. Se dunque alcuno col vedere una piccola piastra dorata da lontano tutta risplendente, si sarà immaginato che l'istesso dovesse accadere anco di piastre grandi quanto la Luna, si è ingannato non meno che se credesse, la Luna non esser maggiore di un fondo di tino. Quando poi la piastra fusse di superficie sferica, vedrebbesi in una sola sua particella il reflesso gagliardo, ma ben, mediante la vivezza, si mostrerebbe inghirlandato di molti raggi assai vibranti: il resto della palla si vedrebbe come colorato, e questo anco solamente quando e' non fusse in sommo grado pulito; ché quando e' fusse brunito perfettamente, apparirebbe oscuro. Esempio di questo aviamo giornalmente avanti gli occhi ne i vasi d'argento, li quali, mentre sono solamente bolliti nel bianchimento, son tutti candidi come la neve, né punto rendono l'immagini; ma se in alcuna parte si bruniscono, in quella subito diventano oscuri, e di lí rendono l'immagini come specchi: e quel divenire oscuro non procede da altro che dall'essersi spianata una finissima grana che faceva la superficie dell'argento scabrosa, e però tale che rifletteva il lume verso tutte le parti, per lo che da tutti i luoghi si mostrava egualmente illuminata; quando poi, col brunirla, si spianano esquisitamente quelle minime inegualità, sí che la reflessione de i raggi incidenti si drizza tutta in luogo determinato, allora da quel tal luogo si mostra la parte brunita assai piú chiara e lucida del restante, che è solamente bianchito, ma da tutti gli altri luoghi si vede molto oscura. È noto che la diversità delle vedute, nel rimirar superficie brunite, cagiona differenze tali di apparenze, che per imitare e rappresentare in pittura, verbigrazia, una corazza brunita, bisogna accoppiare neri schietti e bianchi, l'uno a canto all'altro, in parti di essa arme dove il lume cade egualmente.

SAGR. Adunque, quando questi Signori filosofi si contentassero di conceder che la Luna, Venere e gli altri pianeti fussero di superficie non cosí lustra e tersa come uno specchio, ma un capello manco, cioè quale è una piastra di argento bianchita solamente, ma non brunita, questo basterebbe a poterla far visibile ed accomodata a ripercuoterci il lume del Sole?

SALV. Basterebbe in parte; ma non renderebbe un lume cosí potente, come fa essendo montuosa ed in somma piena di eminenze e cavità grandi Ma questi Signori filosofi non la concederanno mai pulita meno di uno specchio, ma bene assai piú, se piú si può immaginare, perché stimando eglino che a' corpi perfettissimi si convengano figure perfettissime, bisogna che la sfericità di quei globi celesti sia assolutissima; oltre che, quando e' mi concedessero qualche inegualità, ancorché minima, io me ne prenderei senza scrupolo alcuno altra assai maggiore, perché consistendo tal perfezione in indivisibili, tanto la guasta un capello quanto una montagna.

SAGR. Qui mi nascono due dubbi: l'uno è l'intendere, perché la maggior inegualità di superficie abbia a far piú potente reflession di lume; l'altro è, perché questi Signori Peripatetici voglian questa esatta figura.

SALV. Al primo risponderò io, ed al signor Simplicio lascerò la cura di rispondere al secondo. Devesi dunque avvertire che le medesime superficie vengono dal medesimo lume piú e meno illuminate, secondoché i raggi illuminanti vi cascano sopra piú o meno obliquamente, sí che la massima illuminazione è dove i raggi son perpendicolari. Ed ecco ch'io ve lo mostro al senso. Io piego questo foglio tanto che una parte faccia angolo sopra l'altra; ed esponendole alla reflession del lume di quel muro opposto, vedete come questa faccia, che riceve i raggi obliquamente, è manco chiara di quest'altra, dove la reflessione viene ad angoli retti; e notate come secondo che io gli vo ricevendo piú e piú obliquamente, l'illuminazione si fa piú debole.

SAGR. Veggo l'effetto, ma non comprendo la causa.

SALV. Se voi ci pensaste un centesimo d'ora, la trovereste; ma per non consumare il tempo, eccovene un poco di dimostrazione in questa figura.

SAGR. La sola vista della figura mi ha chiarito il tutto, però seguite.

SIMP. Dite in grazia il resto a me, che non sono di sí veloce apprensiva.

SALV. Fate conto che tutte le linee parallele che voi vedete partirsi da i termini A, B, sieno i raggi che sopra la linea C D vengono ad angoli retti: inclinate ora la medesima C D, sí che penda come D O: non vedete voi che buona parte di quei raggi che ferivano la C D, passano senza toccar la D O?

Adunque se la D O è illuminata da manco raggi, è ben ragionevole che il lume ricevuto da lei sia piú debole. Torniamo ora alla Luna, la quale, essendo di figura sferica, quando la sua superficie fusse pulita quanto questa carta, le parti del suo emisferio illuminato dal Sole che sono verso l'estremità, riceverebbero minor lume assaissimo che le parti di mezo, cadendo sopra quelle i raggi obliquissimi, e sopra queste ad angoli retti; per lo che nel plenilunio, quando noi veggiamo quasi tutto l'emisferio illuminato, le parti verso il mezo ci si dovrebbero mostrare piú risplendenti, che l'altre verso la circonferenza: il che non si vede. Figuratevi ora la faccia della Luna piena di montagne ben alte: non vedete voi come le piagge e i dorsi loro, elevandosi sopra la convessità della perfetta superficie sferica, vengono esposti alla vista del Sole, ed accomodati a ricevere i raggi, assai meno obliquamente, e perciò a mostrarsi illuminati quanto il resto?

SAGR. Tutto bene: ma se vi sono tali montagne, è vero che il Sole le ferirà assai piú direttamente che non farebbe l'inclinazione di una superficie pulita, ma è anco vero che tra esse montagne resterebbero tutte le valli oscure, mediante l'ombre grandissime che in quel tempo verrebber da i monti; dove che le parti di mezo, benché piene di valli e monti, mediante l'avere il Sole elevato, rimarrebbero senz'ombre, e però piú lucide assai che le parti estreme, sparse non men di ombre che di lume: e pur tuttavia non si vede tal differenza.

SIMP. Una simil difficultà mi si andava avvolgendo per la fantasia.

SALV. Quanto è piú pronto il signor Simplicio a penetrar le difficultà che favoriscono le opinioni d'Aristotile, che le soluzioni! Ma io ho qualche sospetto che a bello studio e' voglia anco talvolta tacerle; e nel presente particulare, avendo da per sé potuto veder l'obbiezione, che pure è assai ingegnosa, non posso credere che e' non abbia ancora avvertita la risposta, ond'io voglio tentar di cavargliela (come si dice) di bocca. Però ditemi, signor Simplicio: credete voi che possa essere ombra dove feriscono i raggi del Sole?

SIMP. Credo, anzi son sicuro, che no, perché essendo egli il massimo luminare, che scaccia con i suoi raggi le tenebre, è impossibile che dove egli arriva resti tenebroso; e poi aviamo la definizione che tenebræ sunt privatio luminis.

SALV. Adunque il Sole, rimirando la Terra o la Luna o altro corpo opaco, non vede mai alcuna delle sue parti ombrose, non avendo altri occhi da vedere che i suoi raggi apportatori del lume; ed in conseguenza uno che fusse nel Sole, non vedrebbe mai niente di adombrato, imperocché i raggi suoi visivi andrebbero sempre in compagnia de i solari illuminanti.

SIMP. Questo è verissimo, senza contradizione alcuna.

SALV. Ma quando la Luna è all'opposizion del Sole, qual differenza è tra il viaggio che fanno i raggi della vostra vista, e quello che fanno i raggi del Sole?

SIMP. Ora ho inteso; voi volete dire che caminando i raggi della vista e quelli del Sole per le medesime linee, noi non possiamo scoprir alcuna delle valli ombrose della Luna. Di grazia, toglietevi giú di questa opinione, ch'io sia simulatore o dissimulatore; e vi giuro da gentiluomo che non avevo penetrata cotal risposta, né forse l'avrei ritrovata senza l'aiuto vostro o senza lungo pensarvi.

SAGR. La soluzione che fra tutti due avete addotta circa quest'ultima difficultà, ha veramente soddisfatto a me ancora; ma nel medesimo tempo questa considerazione del camminare i raggi della vista con quelli del Sole, mi ha destato un altro scrupolo circa l'altra parte: ma non so se io lo saprò spiegare, perché, essendomi nato di presente, non l'ho per ancora ordinato a modo mio; ma vedremo fra tutti di ridurlo a chiarezza. E' non è dubbio alcuno che le parti verso la circonferenza dell'emisferio pulito, ma non brunito, che sia illuminato dal Sole, ricevendo i raggi obliquamente, ne ricevono assai meno che le parti di mezo, le quali direttamente gli ricevono; e può essere che una striscia larga, verbigrazia, venti gradi, che sia verso l'estremità dell'emisferio, non riceva piú raggi che un'altra verso le parti di mezo, larga non piú di quattro gradi; onde quella veramente sarà assai piú oscura di questa, e tale apparirà a chiunque le rimirasse amendue in faccia o vogliam dire in maestà. Ma quando l'occhio del riguardante fusse costituito in luogo tale che la larghezza de i venti gradi della striscia oscura se gli rappresentasse non piú lunga d'una di quattro gradi posta sul mezo dell'emisferio, io non ho per impossibile che se gli potesse mostrare egualmente chiara e luminosa come l'altra, perché finalmente dentro a due angoli eguali, cioè di quattro gradi l'uno, vengono all'occhio le reflessioni di due eguali moltitudini di raggi, di quelli, cioè, che si reflettono dalla striscia di mezo, larga gradi quattro, e de i reflessi dall'altra di venti gradi, ma veduta in iscorcio sotto la quantità di gradi quattro: ed un sito tale otterrà l'occhio, quando e' sia collocato tra 'l detto emisfero e 'l corpo che l'illumina, perché allora la vista e i raggi vanno per le medesime linee. Par dunque che non sia impossibile che la Luna possa esser di superficie assai bene eguale, e che non dimeno nel plenilunio si mostri non men luminosa nell'estremità che nelle parti di mezo.

SALV. La dubitazione è ingegnosa e degna d'esser considerata: e comeché ella vi è nata pur ora improvisamente, io parimente risponderò quello che improvisamente mi cade in mente, e forse potrebb'essere che col pensarvi piú mi sovvenisse miglior risposta. Ma prima che io produca altro in mezo, sarà bene che noi ci assicuriamo con l'esperienza se la vostra opposizione risponde cosí in fatto, come par che concluda in apparenza. E però, ripigliando la medesima carta, inclinandone, col piegarla, una piccola parte sopra il rimanente, proviamo se esponendola al lume, sí che sopra la minor parte caschino i raggi del lume direttamente, e sopra l'altra obliquamente, questa che riceve i raggi diretti si mostri piú chiara; ed ecco già l'esperienza manifesta, che l'è notabilmente piú luminosa. Ora, quando la vostra opposizione sia concludente, bisognerà che, abbassando noi l'occhio tanto che, rimirando l'altra maggior parte, meno illuminata, in iscorcio, ella ci apparisca non piú larga dell'altra piú illuminata, e che in conseguenza non sia veduta sotto maggior angolo che quella, bisognerà, dico, che il suo lume si accresca sí, che ci sembri cosí lucida come l'altra. Ecco che io la guardo, e la veggo sí obliquamente che la mi apparisce piú stretta dell'altra; ma con tutto ciò la sua oscurità non mi si rischiara punto. Guardate ora se l'istesso accade a voi.

SAGR. Ho visto, né, perché io abbassi l'occhio, veggo punto illuminarsi o rischiararsi davvantaggio la detta superficie; anzi mi par piú tosto che ella si imbrunisca.

SALV. Siamo dunque sin ora sicuri dell'inefficacia dell'opposizione. Quanto poi alla soluzione, credo che, per esser la superficie di questa carta poco meno che tersa, pochi sieno i raggi che si reflettano verso gl'incidenti, in comparazione della moltitudine che si reflette verso le parti opposte, e che di quei pochi se ne perdano sempre piú quanto piú si accostano i raggi visivi a essi raggi luminosi incidenti; e perché non i raggi incidenti, ma quelli che si reffettono all'occhio, fanno apparir l'oggetto luminoso, però nell'abbassar l'occhio, piú è quello che si perde che quello che si acquista, come anco voi stesso dite apparirvi nel vedere il foglio più oscuro.

SAGR. Io dell'esperienza e della ragione mi appago. Resta ora che 'l signor Simplicio risponda all'altro mio quesito, dichiarandomi quali cose muovano i Peripatetici a voler questa rotondità ne i corpi celesti tanto esatta.

SIMP. L'essere i corpi celesti ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, impassibili, immortali, etc., fa che e' sieno assolutamente perfetti; e l'essere assolutamente perfetti si tira in conseguenza che in loro sia ogni genere di perfezione, e però che la figura ancora sia perfetta, cioè sferica, e assolutamente e perfettamente sferica, e non aspera ed irregolare.

SALV. E questa incorruttibilità da che la cavate voi?

SIMP. Dal mancar di contrari immediatamente, e mediatamente dal moto semplice circolare.

SALV. Talché, per quanto io raccolgo dal vostro discorso, nel costituir l'essenza de i corpi celesti incorruttibile, inalterabile etc., non v'entra come causa o requisito necessario, la rotondità; che quando questa cagionasse l'inalterabilità, noi potremo ad arbitrio nostro far incorruttibile il legno, la cera, ed altre materie elementari, col ridurle in figura sferica.

SIMP. E non è egli manifesto che una palla di legno meglio e piú lungo tempo si conserverà che una guglia o altra forma angolare, fatta di altrettanto del medesimo legno?

SALV. Cotesto è verissimo, ma non però di corruttibile diverrà ella incorruttibile; anzi resterà pur corruttibile, ma ben di piú lunga durata. Però è da notarsi che il corruttibile è capace di piú e di meno tale, potendo noi dire: «Questo è men corruttibile di quello», come, per esempio, il diaspro è men corruttibile della pietra serena; ma l'incorruttibile non riceve il piú e 'l meno, sí che si possa dire: «Questo è piú incorruttibile di quell'altro», se amendue sono incorruttibili ed eterni. La diversità dunque di figura non può operare se non nelle materie che son capaci del piú o del meno durare; ma nelle eterne, che non posson essere se non egualmente eterne, cessa l'operazione della figura. E per tanto, già che la materia celeste non per la figura è incorruttibile, ma per altro, non occorre esser cosí ansioso di questa perfetta sfericità, perché, quando la materia sarà incorruttibile, abbia pur che figura si voglia, ella sarà sempre tale.

SAGR. Ma io vo considerando qualche cosa di piú, e dico che, conceduto che la figura sferica avesse facultà di conferire l'incorruttibilità, tutti i corpi, di qualsivoglia figura, sarebbero eterni e incorruttibili. Imperocché essendo il corpo rotondo incorruttibile, la corruttibilità verrebbe a consistere in quelle parti che alterano la perfetta rotondità: come, per esempio, in un dado vi è dentro una palla perfettamente rotonda, e come tale incorruttibile; resta dunque che corruttibili sieno quelli angoli che ricuoprono ed ascondono la rotondità; al piú dunque che potesse accadere, sarebbe che tali angoli e (per cosí dire) escrescenze si corrompessero. Ma se piú internamente andremo considerando, in quelle parti ancora verso gli angoli vi son dentro altre minori palle della medesima materia, e però esse ancora, per esser rotonde, incorruttibili; e cosí ne' residui che circondano queste otto minori sferette, vi se ne possono intendere altre; talché finalmente, risolvendo tutto il dado in palle innumerabili, bisognerà confessarlo incorruttibile. E questo medesimo discorso ed una simile resoluzione si può far di tutte le altre figure.

SALV. Il progresso cammina benissimo: sí che quando, verbigrazia, un cristallo sferico avesse dalla figura l'esser incorruttibile, cioè la facultà di resistere a tutte le alterazioni interne ed esterne, non si vede che l'aggiugnerli altro cristallo e ridurlo, verbigrazia, in cubo l'avesse ad alterar dentro, né anco di fuori, sí che ne divenisse meno atto a resistere al nuovo ambiente, fatto dell'istessa materia, che non era all'altro di materia diversa, e massime se è vero che la corruzione si faccia da i contrari, come dice Aristotile; e di qual cosa si può circondare quella palla di cristallo, che gli sia manco contraria del cristallo medesimo? Ma noi non ci accorgiamo del fuggir dell'ore, e tardi verremo a capo de' nostri ragionamenti, se sopra ogni particulare si hanno da fare sí lunghi discorsi; oltre che la memoria si confonde talmente nella multiplicità delle cose, che difficilmente posso ricordarmi delle proposizioni che ordinatamente aveva proposte il signor Simplicio da considerarsi.

SIMP. Io me ne ricordo benissimo; e circa questo particulare della montuosità della Luna, resta ancora in piede la causa che io addussi di tale apparenza, potendosi benissimo salvare con dir ch'ella sia un'illusione procedente dall'esser le parti della Luna inegualmente opache e perspicue.

SAGR. Poco fa, quando il signor Simplicio attribuiva le apparenti inegualità della Luna, conforme all'opinione di certo Peripatetico amico suo, alle parti di essa Luna diversamente opache e perspicue, conforme a che simili illusioni si veggono in cristalli e gemme di piú sorti, mi sovvenne una materia molto piú accomodata per rappresentar cotali effetti, e tale che credo certo che quel filosofo la pagherebbe qualsivoglia prezo; e queste sono le madreperle, le quali si lavorano in varie figure, e benché ridotte ad una estrema liscezza, sembrano all'occhio tanto variamente in diverse parti cave e colme, che appena al tatto stesso si può dar fede della loro egualità.

SALV. Bellissimo è veramente questo pensiero; e quel che non è stato fatto sin ora, potrebbe esser fatto un'altra volta, e se sono state prodotte altre gemme e cristalli, che non han che fare con l'illusioni delle madreperle, saran ben prodotte queste ancora. Intanto, per non tagliar l'occasione ad alcuno, tacerò la risposta che ci andrebbe, e solo procurerò per ora di sodisfare alle obbiezioni portate dal signor Simplicio. Dico per tanto che questa vostra è una ragion troppo generale, e come voi non l'applicate a tutte le apparenze ad una ad una che si veggono nella Luna, e per le quali io ed altri si son mossi a tenerla montuosa, non credo che voi siate per trovare chi si soddisfaccia di tal dottrina; né credo che voi stesso né l'autor medesimo trovi in essa maggior quiete, che in qualsivoglia altra cosa remota dal proposito. Delle molte e molte apparenze varie che si scorgono di sera in sera in un corso lunare, voi pur una sola non ne potrete imitare col fabbricare una palla a vostro arbitrio di parti piú e meno opache e perspicue e che sia di superficie pulita; dove che, all'incontro, di qualsivoglia materia solida e non trasparente si fabbricheranno palle le quali, solo con eminenze e cavità e col ricevere variamente l'illuminazione, rappresenteranno l'istesse viste e mutazioni a capello, che d'ora in ora si scorgono nella Luna. In esse vedrete i dorsi dell'eminenze esposte al lume del Sole chiari assai, e doppo di loro le proiezioni dell'ombre oscurissime; vedrete le maggiori e minori, secondo che esse eminenze si troveranno piú o meno distanti dal confine che distingue la parte della Luna illuminata dalla tenebrosa; vedrete l'istesso termine e confine, non egualmente disteso, qual sarebbe se la palla fusse pulita, ma anfrattuoso e merlato; vedrete, oltre al detto termine, nella parte tenebrosa, molte sommità illuminate e staccate dal resto già luminoso; vedrete l'ombre sopradette, secondoché l'illuminazione si va alzando, andarsi elleno diminuendo, sinché del tutto svaniscono, né piú vedersene alcuna quando tutto l'emisferio sia illuminato; all'incontro poi, nel passare il lume verso l'altro emisfero lunare, riconoscerete l'istesse eminenze osservate prima, e vedrete le proiezioni dell'ombre loro farsi al contrario ed andar crescendo: delle quali cose torno a replicarvi che voi pur una non potrete rappresentarmi col vostro opaco e perspicuo.

SAGR. Anzi pur se ne imiterà una, cioè quella del plenilunio, quando, per esser il tutto illuminato, non si scorge piú né ombre né altro che dalle eminenze e cavità riceva alcuna variazione. Ma di grazia, signor Salviati, non perdete piú tempo in questo particolare, perché uno che avesse avuto pazienza di far l'osservazioni di una o due lunazioni e non restasse capace di questa sensatissima verità, si potrebbe ben sentenziare per privo del tutto di giudizio; e con simili, a che consumar tempo e parole indarno?

SIMP. Io veramente non ho fatte tali osservazioni, perché non ho avuta questa curiosità, né meno strumento atto a poterle fare; ma voglio per ogni modo farle: e intanto possiamo lasciar questa questione in pendente e passare a quel punto che segue, producendo i motivi per i quali voi stimate che la Terra possa reflettere il lume del Sole non men gagliardamente che la Luna, perché a me par ella tanto oscura ed opaca, che un tale effetto mi si rappresenta del tutto impossibile.

SALV. La causa per la quale voi reputate la Terra inetta all'illuminazione non è altramente cotesta, signor Simplicio. E non sarebbe bella cosa che io penetrassi i vostri discorsi meglio che voi medesimo?

SIMP. Se io mi discorra bene o male, potrebb'esser che voi meglio di me lo conosceste; ma, o bene o mal ch'io mi discorra, che voi possiate meglio di me penetrar il mio discorso, questo non crederò io mai.

SALV. Anzi vel farò io creder pur ora. Ditemi un poco: quando la Luna è presso che piena, sí che ella si può veder di giorno ed anco a meza notte, quando vi par ella piú splendente, il giorno o la notte?

SIMP. La notte, senza comparazione, e parmi che la Luna imiti quella colonna di nugole e di fuoco che fu scorta a i figliuoli di Isdraele, che alla presenza del Sole si mostrava come una nugoletta, ma la notte poi era splendidissima. Cosí ho io osservato alcune volte di giorno tra certe nugolette la Luna non altramente che una di esse biancheggiante; ma la notte poi si mostra splendentissima.

SALV. Talché quando voi non vi foste mai abbattuto a veder la Luna se non di giorno, voi non l'avreste giudicata piú splendida di una di quelle nugolette.

SIMP. Cosí credo fermamente.

SALV. Ditemi ora: credete voi che la Luna sia realmente piú lucente la notte che 'l giorno, o pur che per qualche accidente ella si mostri tale?

SIMP. Credo che realmente ella risplenda in se stessa tanto di giorno quanto di notte, ma che 'l suo lume si mostri maggiore di notte perché noi la vediamo nel campo oscuro del cielo; ed il giorno, per esser tutto l'ambiente assai chiaro, sí che ella di poco lo avanza di luce, ci si rappresenta assai men lucida.

SALV. Or ditemi; avete voi veduto mai in su la meza notte il globo terrestre illuminato dal Sole?

SIMP. Questa mi pare una domanda da non farsi se non per burla, o vero a qualche persona conosciuta per insensata affatto.

SALV. No, no, io v'ho per uomo sensatissimo, e fo la domanda sul saldo: e però rispondete pure, e poi se vi parrà che io parli a sproposito, mi contento d'esser io l'insensato; ché bene è piú sciocco quello che interroga scioccamente, che quello a chi si fa interrogazione.

SIMP. Se dunque voi non mi avete per semplice affatto, fate conto ch'io v'abbia risposto, e detto che è impossibile che uno che sia in Terra, come siamo noi, vegga di notte quella parte della Terra dove è giorno, cioè che è percossa dal Sole.

SALV. Adunque non vi è toccato mai a veder la Terra illuminata se non di giorno; ma la Luna la vedete anco nella piú profonda notte risplendere in cielo: e questa, signor Simplicio, è la cagione che vi fa credere che la Terra non risplenda come la Luna; che se voi poteste veder la Terra illuminata mentreché voi fuste in luogo tenebroso come la nostra notte, la vedreste splendida piú che la Luna. Ora, se voi volete che la comparazione proceda bene, bisogna far parallelo del lume della Terra con quel della Luna veduta di giorno, e non con la Luna notturna, poiché non ci tocca a veder la Terra illuminata se non di giorno. Non sta cosí?

SIMP. Cosí è dovere.

SALV. E perché voi medesimo avete già confessato d'aver veduta la Luna di giorno tra nugolette biancheggianti e similissima, quanto all'aspetto, ad una di esse, già primamente venite a confessare che quelle nugolette, che pur son materie elementari, son atte a ricever l'illuminazione quanto la Luna, ed ancor piú, se voi vi ridurrete in fantasia d'aver vedute talvolta alcune nugole grandissime, e candidissime come la neve; e non si può dubitare che se una tale si potesse conservar cosí luminosa nella piú profonda notte, ella illuminerebbe i luoghi circonvicini piú che cento Lune. Quando dunque noi fussimo sicuri che la Terra si illuminasse dal Sole al pari di una di quelle nugolette, non resterebbe dubbio che ella fusse non meno risplendente della Luna. Ma di questo cessa ogni dubbio, mentre noi veggiamo le medesime nugole, nell'assenza del Sole, restar la notte cosí oscure come la Terra; e, quel che è piú, non è alcuno di noi al quale non sia accaduto di veder piú volte alcune tali nugole basse e lontane, e stare in dubbio se le fussero nugole o montagne: segno evidente, le montagne non esser men luminose di quelle nugole.

SAGR. Ma che piú altri discorsi? Eccovi là su la Luna, che è piú di meza; eccovi là quel muro alto, dove batte il Sole; ritiratevi in qua, sí che la Luna si vegga accanto al muro; guardate ora: che vi par piú chiaro? non vedete voi che se vantaggio vi è, l'ha il muro? Il Sole percuote in quella parete; di lí si reverbera nelle pareti della sala; da quelle si reflette in quella camera, sí che in essa arriva con la terza riflessione: e ad ogni modo son sicuro che vi è piú lume, che se direttamente vi arrivasse il lume della Luna.

SIMP. Oh questo non credo io, perché quel della Luna, e massime quando ell'è piena, è un grande illuminare.

SAGR. Par grande per l'oscurità de i luoghi circonvicini ombrosi, ma assolutamente non è molto, ed è minore che quel del crepuscolo di mez'ora doppo il tramontar del Sole; il che è manifesto, perché non prima che allora vedrete cominciare a distinguersi in Terra le ombre de i corpi illuminati dalla Luna. Se poi quella terza reflessione in quella camera illumini piú che la prima della Luna, si potrà conoscere andando là, col legger quivi un libro, e provar poi stasera al lume della Luna se si legge piú agevolmente o meno, che credo senz'altro che si leggerà meno.

SALV. Ora, signor Simplicio (se però voi sete stato appagato), potete comprender come voi medesimo sapevi veramente che la Terra risplendeva non meno che la Luna, e che il ricordarvi solamente alcune cose sapute da per voi, e non insegnate da me, ve n'ha reso certo: perché io non vi ho insegnato che la Luna si mostra piú risplendente la notte che 'l giorno, ma già lo sapevi da per voi, come anco sapevi che tanto si mostra chiara una nugoletta quanto la Luna; sapevi parimente che l'illuminazion della Terra non si vede di notte, ed in somma sapevi il tutto, senza saper di saperlo. Di qui non doverà di ragione esservi difficile il conceder che la reflessione della Terra possa illuminar la parte tenebrosa della Luna, con luce non minor di quella con la quale la Luna illustra le tenebre della notte, anzi tanto piú, quanto che la Terra è quaranta volte maggior della Luna.

SIMP. Veramente io credeva che quel lume secondario fosse proprio della Luna.

SALV. E questo ancora sapete da per voi, e non v'accorgete di saperlo. Ditemi: non avete voi per voi stesso saputo che la Luna si mostra piú luminosa assai la notte che il giorno, rispetto all'oscurità del campo ambiente? ed in conseguenza non venite voi a sapere in genere, che ogni corpo lucido si mostra piú chiaro quanto l'ambiente è piú oscuro?

SIMP. Questo so io benissimo.

SALV. Quando la Luna è falcata e vi mostra assai chiaro quel lume secondario, non è ella sempre vicina al Sole, ed in conseguenza nel lume del crepusculo?

SIMP. Èvvi; e molte volte ho desiderato che l'aria si facesse piú fosca per poter veder quel tal lume piú chiaro, ma l'è tramontata avanti notte oscura.

SALV. Voi dunque sapete benissimo che nella profonda notte quel lume apparirebbe piú?

SIMP. Signor sí, ed ancor piú se si potesse tor via il gran lume delle corna tocche dal Sole, la presenza del quale offusca assai l'altro minore.

SALV. Oh non accad'egli talvolta di poter vedere dentro ad oscurissima notte tutto il disco della Luna, senza punto essere illuminato dal Sole?

SIMP. Io non so che questo avvenga mai, se non ne gli eclissi totali della Luna.

SALV. Adunque allora dovrebbe questa sua luce mostrarsi vivissima, essendo in un campo oscurissimo e non offuscata dalla chiarezza delle corna luminose: ma voi in quello stato come l'avete veduta lucida?

SIMP. Holla veduta talvolta del color del rame ed un poco albicante; ma altre volte è rimasta tanto oscura, che l'ho del tutto persa di vista.

SALV. Come dunque può esser sua propria quella luce, che voi cosí chiara vedete nell'albor del crepuscolo, non ostante l'impedimento dello splendor grande e contiguo delle corna, e che poi nella piú oscura notte, rimossa ogni altra luce, non apparisce punto?

SIMP. Intendo esserci stato chi ha creduto cotal lume venirle participato dall'altre stelle, ed in particolare da Venere, sua vicina.

SALV. E cotesta parimente è una vanità, perché nel tempo della sua totale oscurazione dovrebbe pur mostrarsi piú lucida che mai, ché non si può dire che l'ombra della Terra gli asconda la vista di Venere né dell'altre stelle; ma ben ne riman ella del tutto priva allora, perché l'emisferio terrestre che in quel tempo riguarda verso la Luna, è quello dove è notte, cioè un'intera privazion del lume del Sole. E se voi diligentemente andrete osservando, vedrete sensatamente che, sí come la Luna, quando è sottilmente falcata, pochissimo illumina la Terra, e secondoché in lei vien crescendo la parte illuminata dal Sole, cresce parimente lo splendore a noi, che da quella vienci reflesso; cosí la Luna, mentre è sottilmente falcata e che, per esser tra 'l Sole e la Terra, scuopre grandissima parte dell'emisferio terreno illuminato, si mostra assai chiara, e discostandosi dal Sole e venendo verso la quadratura, si vede tal lume andar languendo, ed oltre la quadratura si vede assai debile, perché sempre va perdendo della vista della parte luminosa della Terra: e pur dovrebbe accadere il contrario quando tal lume fusse suo o comunicatole dalle stelle, perché allora la possiamo vedere nella profonda notte e nell'ambiente molto tenebroso.

SIMP. Fermate, di grazia, che pur ora mi sovviene aver letto in un libretto moderno di conclusioni, pieno di molte novità, «che questo lume secondario non è cagionato dalle stelle né è proprio della Luna e men di tutti comunicatogli dalla Terra, ma che deriva dalla medesima illuminazion del Sole, la quale, per esser la sustanza del globo lunare alquanto trasparente, penetra per tutto il suo corpo, ma piú vivamente illumina la superficie dell'emisfero esposto a i raggi del Sole, e la profondità, imbevendo e, per cosí dire, inzuppandosi di tal luce a guisa di una nugola o di un cristallo, la trasmette e si rende visibilmente lucida. E questo (se ben mi ricorda) prova egli con l'autorità, con l'esperienza e con la ragione, adducendo Cleomede, Vitellione, Macrobio e qualch'altro autor moderno, e soggiugnendo, vedersi per esperienza ch'ella si mostra molto lucida ne i giorni prossimi alla congiunzione, cioè quando è falcata, e massimamente risplende intorno al suo limbo; e di piú scrive che negli eclissi solari, quando ella è sotto il disco del Sole, si vede tralucere, e massime intorno all'estremo cerchio. Quanto poi alle ragioni, parmi ch'e' dica che non potendo ciò derivare né dalla Terra né dalle stelle né da se stessa, resta necessariamente ch'e' venga dal Sole; oltreché, fatta questa supposizione, benissimo si rendono accomodate ragioni di tutti i particulari che accascano. Imperocché del mostrarsi tal luce secondaria piú vivace intorno all'estremo limbo, ne è cagione la brevità dello spazio da esser penetrato da i raggi del Sole, essendoché delle linee che traversano un cerchio, la massima è quella che passa per il centro, e delle altre le piú lontane da questa son sempre minori delle piú vicine. Dal medesimo principio dice egli derivare che tal lume poco diminuisce. E finalmente, per questa via si assegna la causa onde avvenga che quel cerchio piú lucido intorno all'estremo margine della Luna si scorga nell'eclisse solare in quella parte che sta sotto il disco del Sole, ma non in quella che è fuor del disco; provenendo ciò, perché i raggi del Sole trapassano a dirittura al nostro occhio per le parti della Luna sottoposte, ma per le parti che son fuori, cascano fuori dell'occhio».

SALV. Se questo filosofo fusse stato il primo autore di tale opinione, io non mi maraviglierei che e' vi fusse talmente affezionato, che e' l'avesse ricevuta per vera; ma ricevendola da altri, non saprei addur ragione bastante per iscusarlo dal non aver comprese le sue fallacie, e massime doppo l'aver egli sentita la vera causa di tale effetto, ed aver potuto con mille esperienze e manifesti riscontri assicurarsi, ciò dal reflesso della Terra, e non da altro, procedere; e quanto questa cognizione fa desiderar qualche cosa nell'accorgimento di questo autore e di tutti gli altri che non le prestano l'assenso, tanto il non l'avere intesa e non esser loro sovvenuta mi rende scusabili quei piú antichi, i quali son ben sicuro che se adesso l'intendessero, senza una minima repugnanza l'ammetterebbero. E se io vi devo schiettamente dire il mio concetto, non posso creder che quest'autor moderno internamente non la creda, ma dubito che il non potersen'egli fare il primo autore, lo stimoli un poco a tentare di supprimerla o smaccarla almanco appresso a i semplici, il numero de i quali sappiamo esser grandissimo; e molti sono che godono assai piú dell'applauso numeroso del popolo, che dell'assenso de i pochi non vulgari.

SAGR. Fermate un poco, signor Salviati, ché mi par di vedere che voi non andiate drittamente al vero punto nel vostro parlare; perché questi, che tendono le pareti al comune, si sanno anco fare autori dell'invenzioni di altri, purché non sieno tanto antiche e fatte pubbliche per le cattedre e per le piazze, che sieno piú che notorie a tutti.

SALV. Oh io son piú cattivo di voi. Che dite voi di pubbliche o di notorie? non è egli l'istesso l'esser l'opinioni e l'invenzioni nuove a gli uomini, che l'esser gli uomini nuovi a loro? se voi vi contentaste della stima de' principianti nelle scienze, che vengon su di tempo in tempo, potreste farvi anco inventore sin dell'alfabeto, e cosí rendervi ad essi ammirando; e se ben poi col progresso del tempo si scoprisse la vostra sagacità, ciò poco pregiudica al vostro fine, perché altri sottentrano a mantenere il numero de i fautori. Ma torniamo a mostrare al signor Simplicio la inefficacia de i discorsi del suo moderno autore, ne i quali ci sono falsità e cose non concludenti ed inopinabili. E prima, è falso che questa luce secondaria sia piú chiara intorno all'estremo margine che nelle parti di mezo, sí che si formi quasi un anello o cerchio piú risplendente del resto del campo. Ben è vero che guardando la Luna posta nel crepuscolo, si mostra, nel primo apparire, un tal cerchio, ma con inganno che nasce dalla diversità de i confini con i quali termina il disco lunare, sparso di questa luce secondaria: imperocché dalla parte verso il Sole confina con le corna lucidissime della Luna, e dall'altra ha per termine confinante il campo oscuro del crepuscolo, la relazion del quale ci fa parere piú chiaro l'albore del disco lunare, il quale nella parte opposta viene offuscato dallo splendor maggiore delle corna. Che se l'autor moderno avesse provato a farsi ostacolo tra l'occhio e lo splendor primario col tetto di qualche casa o con altro tramezzo, sí che visibile restasse solamente la piazza della Luna fuori delle corna, l'avrebbe veduta tutta egualmente luminosa.

SIMP. Mi par pur ricordare che egli scriva d'essersi servito di un simile artifizio per nascondersi la falce lucida.

SALV. Oh come questo è, la sua, che io stimava inavvertenza, diventa bugia; la quale pizzica anco di temerità, poiché ciascheduno ne può far frequentemente la riprova. Che poi nell'eclisse del Sole si vegga il disco della Luna in altro modo che per privazione, io ne dubito assai, e massime quando l'eclisse non sia totale, come necessariamente bisogna che siano state le osservate dall'autore; ma quando anco e' si scorgesse come lucido, questo non contraria, anzi favorisce l'opinion nostra, avvengaché allora si oppone alla Luna tutto l'emisferio terrestre illuminato dal Sole, ché se bene l'ombra della Luna ne oscura una parte, questa è pochissima in comparazione di quella che rimane illuminata. Quello che aggiugne di piú, che in questo caso la parte del margine che soggiace al Sole si mostri assai lucida, ma non cosí quella che resta fuori, e ciò derivare dal venirci direttamente per quella parte i raggi solari all'occhio, ma non per questa, è bene una di quelle favole che manifestano le altre finzioni di colui che le racconta; perché, se per farci visibile di luce secondaria il disco lunare bisogna che i raggi del Sole vengano direttamente al nostro occhio, non vede il poverino che noi mai non vedremmo tal luce secondaria se non nell'eclisse del Sole? E se l'esser una parte della Luna remota dal disco solare solamente manco assai di mezo grado può deviare i raggi del Sole, sí che non arrivino al nostro occhio, che sarà quando ella se ne trovi lontana venti e trenta, quale ella ne è nella sua prima apparizione? e come verranno i raggi del Sole, che hanno a trapassar per il corpo della Luna, a trovar l'occhio nostro? Quest'uomo si va di mano in mano figurando le cose quali bisognerebbe ch'elle fussero per servire al suo proposito, e non va accomodando i suoi propositi di mano in mano alle cose quali elle sono. Ecco: per far che lo splendor del Sole possa penetrar la sustanza della Luna, ei la fa in parte diafana, quale è, verbigrazia, la trasparenza di una nugola o di un cristallo; ma non so poi quello ch'ei si giudicasse, circa una tal trasparenza, quando i raggi solari avessero a penetrare una profondità di nugola di piú di dua mila miglia. Ma ammettasi che egli arditamente rispondesse, ciò potere esser benissimo ne i corpi celesti, che sono altre faccende che questi nostri elementari, impuri e fecciosi, e convinchiamo l'error suo con mezi che non ammettono risposta, o per dir meglio, sutterfugii. Quando ei voglia mantenere che la sustanza della Luna sia diafana, bisogna ch'ei dica che ella è tale mentreché i raggi del Sole abbiano a penetrar tutta la sua profondità, cioè ne abbiano a penetrar piú di dua mila miglia, ma che opponendosigliene solo un miglio ed anco meno, non la penetreranno piú che e' si penetrino una delle nostre montagne.

SAGR. Voi mi fate sovvenire di uno che mi voleva vendere un segreto di poter parlare, per via di certa simpatia di aghi calamitati, a uno che fusse stato lontano due o tre mila miglia; e dicendogli io che volentieri l'avrei comprato, ma che volevo vederne l'esperienza, e che mi bastava farla stando io in una delle mie camere ed egli in un'altra, mi rispose che in sí piccola distanza non si poteva veder ben l'operazione: onde io lo licenziai, con dire che non mi sentivo per allora di andare nel Cairo o in Moscovia per veder tale esperienza; ma se pure voleva andare esso, che io arei fatto l'altra parte, restando in Venezia. Ma sentiamo come va la conseguenza dell'autore, e come bisogni ch'egli ammetta, la materia della Luna esser permeabilissima da i raggi solari nella profondità di dua mila miglia, ma opacissima piú di una montagna delle nostre nella grossezza di un miglio solo.

SALV. L'istesse montagne appunto della Luna ce ne fanno testimonianza, le quali, ferite da una parte dal Sole, gettano dall'opposta ombre negrissime, terminate e taglienti piú assai dell'ombre delle nostre; che quando elle fussero diafane, mai non avremmo potuto conoscere asprezza veruna nella superficie della Luna, né veder quelle cuspidi luminose staccate dal termine che distingue la parte illuminata dalla tenebrosa; anzi né meno vedremmo noi questo medesimo termine cosí distinto, se fusse vero che 'l lume del Sole penetrasse la profondità della Luna; anzi, per il detto medesimo dell'autore, bisognerebbe vedere il passaggio e confine tra la parte vista e la non vista dal Sole assai confuso e misto di luce e tenebre, ché bene è necessario che quella materia che dà il transito a i raggi solari nella profondità di dua mila miglia, sia tanto trasparente che pochissimo gli contrasti nella centesima o minor parte di tal grossezza: tuttavia il termine che separa la parte illuminata dalla oscura è tagliente e cosí distinto quanto è distinto il bianco dal nero, e massime dove il taglio passa sopra la parte della Luna naturalmente piú chiara e piú aspra; ma dove sega le macchie antiche, le quali sono pianure, per andare elle sfericamente inclinandosi, sí che ricevono i raggi del Sole obliquissimi, quivi il termine non è cosí tagliente, mediante la illuminazione piú languida. Quello finalmente ch'ei dice del non si diminuire ed abbacinare la luce secondaria secondo che la Luna va crescendo, ma conservarsi continuamente della medesima efficacia, è falsissimo; anzi, poco si vede nella quadratura, quando, per l'opposito, ella dovrebbe vedersi piú viva, potendosi vedere fuor del crepuscolo, nella notte piú profonda. Concludiamo per tanto, esser la reflession della Terra potentissima nella Luna; e, quello di che dovrete far maggiore stima, cavatene un'altra congruenza bellissima: cioè, che se è vero che i pianeti operino sopra la Terra col moto e col lume, forse la Terra non meno sarà potente a operar reciprocamente in loro col medesimo lume e per avventura col moto ancora; e quando anco ella non si movesse, pur gli può restare la medesima operazione, perché già, come si è veduto, l'azione del lume è la medesima appunto, cioè del lume del Sole reflesso, e 'l moto non fa altro che la variazione de gli aspetti, la quale segue nel modo medesimo facendo muover la Terra e star fermo il Sole, che se si faccia per l'opposito.

SIMP. Non si troverà alcuno de i filosofi che abbia detto che questi corpi inferiori operino ne i celesti, ed Aristotile dice chiaro il contrario.

SALV. Aristotile e gli altri che non han saputo che la Terra e la Luna si illuminino scambievolmente, son degni di scusa; ma sarebber ben degni di riprensione se, mentre vogliono che noi concediamo e crediamo a loro che la Luna operi in Terra col lume, e' volessin poi a noi, che gli aviamo insegnato che la Terra illumina la Luna, negare l'azione della Terra nella Luna.

SIMP. In somma io sento in me un'estrema repugnanza nel potere ammettere questa società che voi vorreste persuadermi tra la Terra e la Luna, ponendola, come si dice, in ischiera con le stelle; ché, quando altro non ci fusse, la gran separazione e lontananza tra essa e i corpi celesti mi par che necessariamente concluda una grandissima dissimilitudine tra di loro.

SALV. Vedete, signor Simplicio, quanto può un inveterato affetto ed una radicata opinione; poiché è tanto gagliarda, che vi fa parer favorevoli quelle cose medesime che voi stesso producete contro di voi. Che se la separazione e lontananza sono accidenti validi per persuadervi una gran diversità di nature, convien che per l'opposito la vicinanza e contiguità importino similitudine: ma quanto è piú vicina la Luna alla Terra che a qualsivoglia altro de i globi celesti? Confessate dunque, per la vostra medesima concessione (ed averete anco altri filosofi per compagni), grandissima affinità esser tra la Terra e la Luna. Or seguitiamo avanti, e proponete se altro ci resta da considerare circa le difficultà che voi moveste contro le congruenze tra questi due corpi.

SIMP. Ci resterebbe non so che in proposito della solidità della Luna, la quale io argumentava dall'esser ella sommamente pulita e liscia, e voi dall'esser montuosa. Un'altra difficultà mi nasceva per il credere io che la reflession del mare dovesse esser, per l'egualità della sua superficie, piú gagliarda che quella della Terra, la cui superficie è tanto scabrosa ed opaca.

SALV. Quanto al primo dubbio, dico che, sí come nelle parti della Terra, che tutte per la lor gravità conspirano ad approssimarsi quanto piú possono al centro, alcune tuttavia ne rimangono piú remote che l'altre, cioè le montagne piú delle pianure, e questo per la lor solidità e durezza (ché se fusser di materia fluida si spianerebbero), cosí il veder noi alcune parti della Luna restare elevate sopra la sfericità delle parti piú basse arguisce la loro durezza, perché è credibile che la materia della Luna si figuri in forma sferica per la concorde conspirazione di tutte le sue parti al medesimo centro. Circa l'altro dubbio, parmi che per le cose che aviamo considerate accader negli specchi, possiamo intender benissimo che la reflession del lume che vien dal mare sia inferiore assai a quella che vien dalla terra, intendendo però della reflessione universale; perché quanto alla particolare che la superficie dell'acqua quieta manda in un luogo determinato, non ha dubbio che chi si constituirà in tal luogo, vedrà nell'acqua un reflesso potentissimo, ma da tutti gli altri luoghi si vedrà la superficie dell'acqua piú oscura di quella della terra. E per mostrarlo al senso, andiamo qua in sala e versiamo un poco di acqua sul pavimento: ditemi ora, non si mostr'egli questo mattone bagnato piú oscuro assai degli altri asciutti? Certo sí, e tale si mostrerà egli rimirato da qualsivoglia luogo, eccettuatone un solo, e questo è quello dove arriva il reflesso del lume che entra per quella finestra: tiratevi adunque indietro pian piano.

SIMP. Di qui veggo io la parte bagnata piú lucida del resto del pavimento, e veggo che ciò avviene perché il reflesso del lume, che entra per la finestra, viene verso di me.

SALV. Quel bagnare non ha fatto altro che riempier quelle piccole cavità che sono nel mattone e ridur la sua superficie a un piano esquisito, onde poi i raggi reflessi vanno uniti verso un medesimo luogo: ma il resto del pavimento asciutto ha la sua asprezza, cioè una innumerabil varietà di inclinazioni nelle sue minime particelle, onde le reflessioni del lume vanno verso tutte le parti, ma piú debili che se andasser tutte unite insieme; e però poco o niente si varia il suo aspetto per riguardarlo da diverse bande, ma da tutti i luoghi si mostra l'istesso, ma ben men chiaro assai che quella reflession della parte bagnata. Concludo per tanto che la superficie del mare, veduta dalla Luna, sí come apparirebbe egualissima (trattone le isole e gli scogli), cosí apparirebbe men chiara che quella della terra, montuosa e ineguale. E se non fusse ch'io non vorrei parer, come si dice, di volerne troppo, vi direi d'aver osservato nella Luna quel lume secondario, ch'io dico venirle dalla reflession del globo terrestre, esser notabilmente piú chiaro due o tre giorni avanti la congiunzione che doppo, cioè quando noi la veggiamo avanti l'alba in oriente che quando si vede la sera, doppo il tramontar del Sole, in occidente; della qual differenza ne è causa che l'emisferio terrestre che si oppone alla Luna orientale ha poco mare ed assaissima terra, avendo tutta l'Asia, doveché, quando ella è in occidente, riguarda grandissimi mari, cioè tutto l'Oceano Atlantico sino alle Americhe: argomento assai probabile del mostrarsi meno splendida la superficie dell'acqua che quella della terra.

SIMP. [Adunque, per vostro credere, ella farebbe un aspetto simile a quello che noi veggiamo nella Luna, delle 2 parti massime.] Ma credete voi forse che quelle gran macchie che si veggono nella faccia della Luna siano mari, e il resto piú chiaro terra, o cosa tale?

 

SALV. Questo che voi domandate è il principio delle incongruenze ch'io stimo esser tra la Luna e la Terra, dalle quali sarà tempo che noi ci sbrighiamo, ché pur troppo siamo dimorati in questa Luna. Dico dunque che quando in natura non fusse altro che un modo solo per far apparir due superficie, illustrate dal Sole, una piú chiara dell'altra, e che questo fosse per esser una di terra e l'altra di acqua, bisognerebbe necessariamente dire che la superficie della Luna fosse parte terrea e parte aquea; ma perché vi sono piú modi conosciuti da noi, che posson cagionare il medesimo effetto, ed altri per avventura ne posson essere incogniti a noi, però io non ardirei di affermare, questo piú che quello esser nella Luna. Già si è veduto di sopra come una piastra d'argento bianchito, col toccarlo col brunitoio, di candido si rappresenta oscuro; la parte umida della Terra si mostra piú oscura della arida; ne i dorsi delle montagne, le parti silvose appariscono assai piú fosche delle nude e sterili; ciò accade, perché tra le piante casca gran quantità di ombra, ed i luoghi aprici son tutti illuminati dal Sole; e questa mistione di ombre opera tanto, che voi vedete ne i velluti a opera il color della seta tagliata mostrarsi molto piú oscuro che quel della non tagliata, mediante le ombre disseminate tra pelo e pelo, ed il velluto piano parimente assai piú fosco che un ermisino fatto della medesima seta; sí che quando nella Luna fossero cose che imitassero grandissime selve, l'aspetto loro potrebbe rappresentarci le macchie che noi veggiamo; una tal differenza farebbero s'elle fusser mari; e finalmente non repugna che potesse esser che quelle macchie fosser realmente di color piú oscuro del rimanente, ché in questa guisa la neve fa comparir le montagne piú chiare. Quello che si vede manifestamente nella Luna è che le parti piú oscure son tutte pianure, con pochi scogli e argini dentrovi, ma pur ve ne son alcuni: il restante piú chiaro è tutto pieno di scogli, montagne, arginetti rotondi e di altre figure; ed in particolare intorno alle macchie sono grandissime tirate di montagne. Dell'esser le macchie superficie piane, ce ne assicura il veder come il termine che distingue la parte illuminata dall'oscura, nel traversar le macchie fa il taglio eguale, ma nelle parti chiare si mostra per tutto anfrattuoso e merlato. Ma non so già se questa egualità di superficie possa esser bastante per sé sola a far apparir l'oscurità, e credo piú tosto di no. Reputo, oltre a questo, la Luna differentissima dalla Terra, perché, se bene io mi immagino che quelli non sien paesi oziosi e morti, non affermo però che vi sieno movimenti e vita, e molto meno che vi si generino piante, animali o altre cose simili alle nostre, ma, se pur ve n'è, fussero diversissime, e remote da ogni nostra immaginazione: e muovomi a cosí credere, perché, primamente, stimo che la materia del globo lunare non sia di terra e di acqua, e questo solo basta a tòr via le generazioni e alterazioni simili alle nostre; ma, posto anco che lassú fosse acqua e terra, ad ogni modo non vi nascerebbero piante ed animali simili a i nostri, e questo per due ragioni principali. La prima è, che per le nostre generazioni son tanto necessarii gli aspetti variabili del Sole, che senza essi il tutto mancherebbe: ora le abitudini del Sole verso la Terra son molto differenti da quelle verso la Luna Noi, quanto all'illuminazion diurna, abbiamo nella maggior parte della Terra ogni ventiquattr'ore parte di giorno e parte di notte, il quale effetto nella Luna si fa in un mese; e quello abbassamento ed alzamento annuo per il quale il Sole ci apporta le diverse stagioni e la disegualità de i giorni e delle notti, nella Luna si finisce pur in un mese; e dove il Sole a noi si alza ed abbassa tanto, che dalla massima alla minima altezza vi corre circa quarantasette gradi di differenza, cioè quanta è la distanza dall'uno all'altro tropico, nella Luna non importa altro che gradi dieci o poco piú, ché tanto importano le massime latitudini del dragone  di qua e di là dall'eclittica. Considerisi ora qual sarebbe l'azion del Sole dentro alla zona torrida quando e' durasse quindici giorni continui a ferirla con i suoi raggi, che senz'altro s'intenderà che tutte le piante e le erbe e gli animali si dispergerebbero; e se pur vi si facessero generazioni, sarebber di erbe, piante ed animali diversissimi da i presenti. Secondariamente, io tengo per fermo che nella Luna non siano piogge, perché quando in qualche parte vi si congregassero nugole, come intorno alla Terra, ci verrebbero ad ascondere alcuna di quelle cose che noi col telescopio veggiamo nella Luna, ed in somma in qualche particella ci varierebber la vista; effetto che io per lunghe e diligenti osservazioni non ho veduto mai, ma sempre vi ho scorto una uniforme serenità purissima.

SAGR. A questo si potrebbe rispondere, o che vi fossero grandissime rugiade, o che vi piovesse ne i tempi della lor notte, cioè quando il Sole non la illumina.

SALV. Se per altri riscontri noi avessimo indizii che in essa si facesser generazioni simili alle nostre, e solo ci mancasse il concorso delle piogge, potremmo trovarci questo o altro temperamento che supplisse in vece di quelle, come accade nell'Egitto dell'inondazione del Nilo; ma non incontrando accidente alcuno che concordi co i nostri, de' molti che si ricercherebbero per produrvi gli effetti simili, non occorre affaticarsi per introdurne un solo, e quello anco non perché se n'abbia sicura osservazione, ma per una semplice non repugnanza. Oltre che, quando mi fosse domandato quello che la prima apprensione ed il puro naturale discorso mi detta circa il prodursi là cose simili o pur differenti dalle nostre, io direi sempre, differentissime ed a noi del tutto inimmaginabili, che cosí mi pare che ricerchi la ricchezza della natura e l'onnipotenza del Creatore e Governatore.

SAGR. Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all'incontro, e' non è effetto alcuno in natura, per minimo che e' sia, all'intera cognizion del quale possano arrivare i piú specolativi ingegni. Questa cosí vana prosunzione d'intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell'infinità dell'altre conclusioni niuna ne intende.

SALV. Concludentissimo è il vostro discorso; in confermazion del quale abbiamo l'esperienza di quelli che intendono o hanno inteso qualche cosa, i quali quanto piú sono sapienti, tanto piú conoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per tale sentenziato da gli oracoli, diceva apertamente conoscer di non saper nulla.

SIMP. Convien dunque dire, o che l'oracolo, o l'istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo, e dicendo questo di conoscersi ignorantissimo.

SALV. Non ne seguita né l'uno né l'altro, essendo che amendue i pronunziati posson esser veri. Giudica l'oracolo sapientissimo Socrate sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si conosce Socrate non saper nulla in relazione alla sapienza assoluta, che è infinita; e perché dell'infinito tal parte n'è il molto che 'l poco e che il niente (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto è l'accumular migliaia, quanto decine e quanto zeri), però ben conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all'infinita, che gli mancava. Ma perché pur tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non egualmente compartito a tutti, potette Socrate averne maggior parte de gli altri, e perciò verificarsi il responso dell'oracolo.

SAGR. Parmi di intender benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare, ma non egualmente participata da tutti: e non è dubbio che la potenza d'un imperadore è maggiore assai che quella d'una persona privata; ma e questa e quella è nulla in comparazione dell'onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono alcuni che intendon meglio l'agricoltura che molti altri; ma il saper piantar un sermento di vite in una fossa, che ha da far col saperlo far barbicare, attrarre il nutrimento, da quello scierre questa parte buona per farne le foglie, quest'altra per formarne i viticci, quella per i grappoli, quell'altra per l'uva, ed un'altra per i fiocini, che son poi l'opere della sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle innumerabili che fa la natura, ed in essa sola si conosce un'infinita sapienza, talché si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito.

SALV. Eccone un altro esempio. Non direm noi che 'l sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato l'ingegno del Buonarruoti assai assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa opera non è altro che imitare una sola attitudine e disposizion di membra esteriore e superficiale d'un uomo immobile; e però che cosa è in comparazione d'un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i tanti e sí diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze dell'anima, e finalmente dell'intendere? non possiamo noi dire, e con ragione, la fabbrica d'una statua cedere d'infinito intervallo alla formazion d'un uomo vivo, anzi anco alla formazion d'un vilissimo verme?

SAGR. E qual differenza crediamo che fusse tra la colomba d'Archita ed una della natura?

SIMP. O io non sono un di quegli uomini che intendano, o 'n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all'uomo, fatto dalla natura, questo dell'intendere; e poco fa dicevi con Socrate che 'l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco la natura abbia inteso il modo di fare un intelletto che intenda.

SALV. Molto acutamente opponete; e per rispondere all'obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l'intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l'intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all'infinità è come un zero; ma pigliando l'intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n'abbia l'intessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore.

SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito.

SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d'ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d'alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle piú semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un'altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l'intelletto divino con la semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per esser infinite, forse sono una sola nell'essenza loro e nella mente divina. Il che né anco all'intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo velocemente trascorrere: perché in somma, che altro è l'esser nel triangolo il quadrato opposto all'angolo retto eguale a gli altri due che gli sono intorno, se non l'esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le parallele, tra loro eguali? e questo non è egli finalmente il medesimo che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano, ma si racchiuggono dentro al medesimo termine? Or questi passaggi, che l'intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l'intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l'istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l'intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d'infinito intervallo superato dal divino; ma non però l'avvilisco tanto, ch'io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle piú eccellenti.

SAGR. Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia l'acutezza dell'ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sí nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S'io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: «E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e scoprire sí bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?» S'io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl'intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell'udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sí diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l'invenzion de' concetti e la spiegatura loro? Che diremo dell'architettura? che dell'arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di trovar modo di comunicare i suoi piú reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de' nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore piú calde, il signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri freschi in barca; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i discorsi cominciati, etc.


 

GIORNATA SECONDA

 

SALV. Le diversioni di ieri, che ci torsero dal dritto filo de' nostri principali discorsi, furon tante e tali, ch'io non so se potrò senza l'aiuto vostro rimettermi su la traccia, per poter procedere avanti.

SAGR. Io non mi meraviglio che voi, che avete ripiena e ingombrata la fantasia tanto delle cose dette quanto di quelle che restan da dirsi, vi troviate in qualche confusione; ma io, che per esser semplice ascoltatore, altro non ritengo che le cose udite, potrò per avventura, col ricordarle sommariamente, rimettere il ragionamento su 'l suo filo. Per quello dunque che mi è restato in mente, fu la somma de i discorsi di ieri l'andar esaminando da i fondamenti loro, qual delle due opinioni sia piú probabile e ragionevole: quella che tiene, la sustanza de i corpi celesti esser ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, impassibile, ed in somma esente da ogni mutazione, fuor che dalla locale, e però essere una quinta essenza diversissima da questa de i nostri corpi elementari, generabili, corruttibili, alterabili, etc.; o pur l'altra che, levando tal difformità di parti dal mondo, reputa la Terra goder delle medesime perfezioni che gli altri corpi integranti dell'universo, ed esser in somma un globo mobile e vagante non men che la Luna, Giove, Venere o altro pianeta. Fecersi in ultimo molti paralleli particolari tra essa Terra e la Luna, e piú con la Luna che con altro pianeta forse per aver noi di quella maggiore e piú sensata notizia, mediante la sua minor lontananza. Ed avendo finalmente concluso, questa seconda opinione aver piú del verisimile dell'altra, parmi che 'l progresso ne tirasse a cominciare a esaminare se la Terra si deva stimare immobile, come da i piú è stato sin qui creduto, o pur mobile, come alcuni antichi filosofi credettero ed altri da non molto tempo in qua stimano, e se mobile, qual possa essere il suo movimento.

SALV. Già comprendo e riconosco il segno del nostro cammino; ma innanzi che si cominci a procedere piú oltre, devo dirvi non so che sopra queste ultime parole che avete detto, dell'essersi concluso la opinione che tien la Terra dotata delle medesime condizioni de i corpi celesti esser piú verisimile della contraria: imperocché questo non ho io concluso, sí come non son né anco per concludere verun'altra delle proposizioni controverse; ma solo ho auta intenzione di produrre, tanto per l'una quanto per l'altra parte, quelle ragioni e risposte, instanze e soluzioni, che ad altri sin qui sono sovvenute, con qualche altra ancora che a me, nel lungamente pensarvi, è cascata in mente, lasciando poi la decisione all'altrui giudizio.

SAGR. Io mi era lasciato trasportare dal mio proprio sentimento, e credendo che in altri dovesse esser quel che io sentiva in me, feci universale quella conclusione che doveva far particolare; e veramente ho errato, e massime non sapendo il concetto del signor Simplicio qui presente.

SIMP. Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai piú dall'autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare… Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza.

SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch'io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare.

SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d'avervi esso mosse le risa.

SAGR. Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera».

SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell'origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa come forse alcuno si persuade.

SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d'Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit.

SIMP. Aristotile non si è acquistata sí grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne' suoi libri, che se ne sia formata un'idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e' non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tutta quella grande idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un altro remotissimo; ch'e' non è dubbio che chi averà questa pratica, saprà cavar da' suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa.

SAGR. Ma, signor Simplicio mio, come l'esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate con l'accozzamento e con la combinazione di varie particelle trarne il sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi d'Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto assai piú breve d'Aristotile e d'Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l'accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell'altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che con essi si possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia, penne, queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi.

SALV. E' son vivi e sani alcuni gentil uomini che furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio famoso, nel sentir circoscrivere il telescopio, da sé non ancor veduto, disse che l'invenzione era presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo dove si rende la ragione onde avvenga che dal fondo d'un pozzo molto cupo si possano di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: «Eccovi il pozzo, che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta l'invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista nel passare i raggi per il diafano piú denso e oscuro».

SAGR. Questo è un modo di contener tutti gli scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima, anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire: o vogliam dire che e' sia simile alle profezie di Giovacchino o a' responsi degli oracoli de' gentili, che non s'intendono se non doppo gli eventi delle cose profetizate.

SALV. E dove lasciate voi le predizioni de' genetliaci, che tanto chiaramente doppo l'esito si veggono nel tema o vogliam dire nella figura celeste?

SAGR. In questa guisa trovano gli alchimisti, guidati dall'umor melanconico, tutti i più elevati ingegni del mondo non aver veramente scritto mai d'altro che del modo di far l'oro, ma, per dirlo senza palesarlo al volgo, esser andati ghiribizando chi questa e chi quell'altra maniera di adombrarlo sotto varie coperte: e piacevolissima cosa è il sentire i comenti loro sopra i poeti antichi, ritrovando i misteri importantissimi che sotto le favole loro si nascondono, e quello che importino gli amori della Luna, e 'l suo scendere in Terra per Endimione, l'ira sua contro Atteone, e quando Giove si converte in pioggia d'oro, e quando in fiamme ardenti, e quanti gran segreti dell'arte sieno in quel Mercurio interprete, in quei ratti di Plutone, in quei rami d'oro.

SIMP. Io credo, e in parte so, che non mancano al mondo de' cervelli molto stravaganti, le vanità de' quali non dovrebbero ridondare in pregiudizio d'Aristotile, del quale mi par che voi parliate talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e 'l gran nome che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe bastar a renderlo riguardevole appresso di tutti i letterati.

SALV. Il fatto non cammina cosí, signor Simplicio: sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere alle loro leggereze. E voi, ditemi in grazia, sete cosí semplice che non intendiate che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto piú alterato contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e' non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle piú sensate dottrine, discacciando da sé quei cosí poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s'inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l'autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpata o presa; e perché è piú facile il coprirsi sotto lo scudo d'un altro che 'l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d'allontanarsi un sol passo, e piú tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura.

SAGR. Questi tali mi fanno sovvenire di quello scultore, che avendo ridotto un gran pezzo di marmo all'immagine non so se d'un Ercole o di un Giove fulminante, e datogli con mirabile artifizio tanta vivacità e fierezza che moveva spavento a chiunque lo rimirava, esso ancora cominciò ad averne paura, se ben tutto lo spirito e la movenza era opera delle sue mani; e 'l terrore era tale, che piú non si sarebbe ardito di affrontarlo con le subbie e 'l mazzuolo.

SALV. Io mi son piú volte maravigliato come possa esser che questi puntuali mantenitori d'ogni detto d'Aristotile non si accorgano di quanto gran progiudizio e' sieno alla reputazione ed al credito di quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene detraggano; perché, mentre io gli veggo ostinati in voler sostener proposizioni le quali io tocchi con mano esser manifestamente false, ed in volermi persuadere che cosí far convenga al vero filosofo e che cosí farebbe Aristotile medesimo, molto si diminuisce in me l'opinione che egli abbia rettamente filosofato intorno ad altre conclusioni a me piú recondite: ché quando io gli vedessi cedere e mutare opinione per le verità manifeste, io crederei che in quelle dove e' persistessero, potessero avere salde dimostrazioni, da me non intese o sentite.

SAGR. O vero, quando gli paresse di metter troppo della lor reputazione e di quella d'Aristotile nel confessar di non aver saputa questa o quella conclusione ritrovata da un altro, non sarebb'ei manco male il ritrovarla tra i suoi testi con l'accozzarne diversi, conforme alla prattica significataci dal signor Simplicio? perché se vi è ogni scibile, è ben anco forza che vi si possa ritrovare.

SALV. Signor Sagredo, non vi fate beffe di questo avvedimento, che mi par che lo proponghiate burlando; perché non è gran tempo che avendo un filosofo di gran nome composto un libro dell'anima, nel quale, in riferir l'opinione d'Aristotile circa l'esser o non essere immortale, adduceva molti testi, non già de i citati da Alessandro, perché in quelli diceva che Aristotile non trattava né anco di tal materia, non che determinasse cosa veruna attenente a ciò, ma altri da sé ritrovati in altri luoghi reconditi, che piegavano al senso pernizioso, e venendo avvisato che egli avrebbe avute delle difficultà nel farlo licenziare, riscrisse all'amico che non però restasse di procurarne la spedizione, perché quando non se gli intraversasse altro ostacolo, non aveva difficultà niuna circa il mutare la dottrina d'Aristotile, e con altre esposizioni e con altri testi sostener l'opinion contraria, pur conforme alla mente d'Aristotile.

SAGR. O questo dottor sí, che mi può comandare, che non si vuol lasciar infinocchiar da Aristotile, ma vuol esso menar lui per il naso e farlo dire a suo modo! Vedete quanto importa il saper pigliar il tempo opportuno! Ei non si deve ridurre a negoziar con Ercole mentre è imbizarrito e su le furie, ma quando sta favoleggiando tra le meonie ancelle. Ah viltà inaudita d'ingegni servili! farsi spontaneamente mancipio, accettar per inviolabili decreti, obligarsi a chiamarsi persuaso e convinto da argomenti che sono tanto efficaci e chiaramente concludenti, che gli stessi non sanno risolversi s'e' sien pure scritti in quel proposito e se e' servano per provar quella tal conclusione! Ma dichiamo la pazzia maggiore: che tra lor medesimi sono ancor dubbi, se l'istesso autore abbia tenuto la parte affermativa o la negativa. È egli questo un far loro oracolo una statua di legno, ed a quella correr per i responsi, quella temere, quella riverire, quella adorare?

SIMP. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore

SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica piú a cercar d'intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è piú vergognosa che 'l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all'avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt'oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. E perché nel discorso di ieri si cavò dalle tenebre e si espose al cielo aperto la Terra, mostrando che 'l volerla connumerare tra quelli che noi chiamiamo corpi celesti non era proposizione talmente convinta e prostrata che non gli restasse qualche spirito vitale, séguita che noi andiamo esaminando quello che abbia di probabile il tenerla fissa e del tutto immobile, intendendo quanto al suo intero globo, e quanto possa avere di verisimilitudine il farla mobile di alcun movimento, e di quale: e perché in tal quistione io sono ambiguo, ed il signor Simplicio risoluto, insieme con Aristotile, per la parte dell'immobilità, egli di passo in passo andrà portando i motivi per la loro opinione, ed io le risposte e gli argomenti per la parte contraria, ed il signor Sagredo dirà i moti dell'animo suo ed in qual parte e' si sentirà tirare

SAGR. Io son molto contento, con questo però che a me ancora resti libertà di produrre quel che mi dettasse talora il discorso semplice naturale.

SALV. Anzi di cotesto io in particolare ve ne supplico; perché delle considerazioni piú facili e, per cosí dire, materiali, credo che poche ne sieno state lasciate indietro da gli scrittori, talché solamente qualcuna delle piú sottili e recondite può desiderarsi e mancare; e per investigar queste, qual altra sottigliezza può esser piú atta di quella dell'ingegno del signor Sagredo, acutissimo e perspicacissimo?

SAGR. Io son tutto quel che piace al signor Salviati, ma di grazia non mettiam mano in un'altra sorte di diversioni di cerimonie, perché ora son filosofo, e sono in scuola e non al Broio.

SALV. Sia dunque il principio della nostra contemplazione il considerare che qualunque moto venga attribuito alla Terra, è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza partecipi del medesimo, ei resti del tutto impercettibile e come s'e' non fusse, mentre che noi riguardiamo solamente alle cose terrestri; ma è bene, all'incontro, altrettanto necessario che il medesimo movimento ci si rappresenti comunissimo di tutti gli altri corpi ed oggetti visibili che, essendo separati dalla Terra, mancano di quello. A tal che il vero metodo per investigare se moto alcuno si può attribuire alla Terra, e, potendosi, quale e' sia, è il considerare ed osservare se ne i corpi separati dalla Terra si scorge apparenza alcuna di movimento, il quale egualmente competa a tutti; perché un moto che solamente si scorgesse, verbigrazia, nella Luna, e che non avesse che far niente con Venere o con Giove né con altre stelle, non potrebbe in veruna maniera esser della Terra, né di altri che della Luna. Ora, ci è un moto generalissimo e massimo sopra tutti, ed è quello per il quale il Sole, la Luna, gli altri pianeti e le stelle fisse, ed in somma l'universo tutto, trattane la sola Terra, ci appariscono unitamente muoversi da oriente verso occidente dentro allo spazio di venti quattr'ore, e questo, in quanto a questa prima apparenza, non ha repugnanza di potere esser tanto della Terra sola, quanto di tutto il resto del mondo, trattone la Terra; imperocché le medesime apparenze si vedrebbero tanto nell'una posizione quanto nell'altra. Quindi è che Aristotile e Tolomeo, come quelli che avevano penetrata questa considerazione, nel voler provare la Terra esser immobile, non argumentano contro ad altro movimento che a questo diurno; salvo però che Aristotile tocca un non so che contro ad un altro moto attribuitogli da un antico, del quale parleremo a suo luogo.

SAGR. Io resto molto ben capace della necessità con la quale conclude il vostro discorso, ma mi nasce un dubbio, del quale non so liberarmi: e questo è, che attribuendo il Copernico alla Terra un altro movimento oltre al diurno, il quale, per la regola pur ora dichiarata, dovrebbe restare a noi, quanto all'apparenza, impercettibile nella Terra, ma visibile in tutto il resto del mondo, parmi di poter necessariamente concludere, o che egli abbia manifestamente errato nell'assegnare alla Terra un moto del quale non apparisca in cielo la sua general corrispondenza, o vero che, se la rispondenza vi è, altrettanto sia stato manchevole Tolomeo a non reprovar questo, sí come reprovò l'altro.

SALV. Molto ragionevolmente avete dubitato; e quando verremo a trattare dell'altro movimento, vedrete di quanto intervallo abbia il Copernico superato di accortezza e perspicacità d'ingegno Tolomeo, mentre egli ha veduto quello che esso non vedde, dico la mirabil corrispondenza con la quale tal movimento si reflette in tutto il resto de i corpi celesti. Ma per ora sospendiamo questa parte e torniamo alla prima considerazione; intorno alla quale andrò proponendo, cominciandomi dalle cose piú generali, quelle ragioni che par che favoriscano la mobilità della Terra, per sentir poi dal signor Simplicio le repugnanti. E prima, se noi considereremo solamente la mole immensa della sfera stellata, in comparazione della piccolezza del globo terrestre, contenuto da quella per tanti milioni di volte, e piú penseremo alla velocità del moto che deve in un giorno e in una notte fare una intera conversione, io non mi posso persuadere che trovar si potesse alcuno che avesse per cosa piú ragionevole e credibile che la sfera celeste fusse quella che desse la volta, ed il globo terrestre restasse fermo.

SAGR. Se per tutta l'università degli effetti che possono aver in natura dependenza da movimenti tali, seguissero indifferentemente tutte le medesime conseguenze a capello tanto dall'una posizione quanto dall'altra, io, quanto alla mia prima e generale apprensione, stimerei che colui che reputasse piú ragionevole il far muover tutto l'universo, per ritener ferma la Terra, fusse piú irragionevole di quello che, sendo salito in cima della vostra Cupola non per altro che per dare una vista alla città ed al suo contado, domandasse che se gli facesse girare intorno tutto il paese, acciò non avesse egli ad aver la fatica di volger la testa: e ben vorrebbero esser molte e grandi le comodità che si traesser da quella posizione e non da questa, che pareggiassero nel mio concetto e superasser questo assurdo, sí che mi rendesser piú credibile quella che questa. Ma forse Aristotile, Tolomeo e il signor Simplicio ci devono trovare i lor vantaggi, li quali sarà bene che sien proposti a noi ancora, se vi sono, o mi sia dichiarato come e' non vi sieno né possano essere.

SALV. Io sí come, per molto che ci abbia pensato, non ho potuto trovar diversità alcuna, cosí mi par d'aver trovato che diversità alcuna non vi possa essere; onde io stimo il piú cercarla esser in vano. Però notate: il moto in tanto è moto, e come moto opera, in quanto ha relazione a cose che di esso mancano; ma tra le cose che tutte ne participano egualmente, niente opera ed è come s'e' non fusse: e cosí le mercanzie delle quali è carica la nave, in tanto si muovono, in quanto, lasciando Venezia, passano per Corfú, per Candia, per Cipro, e vanno in Aleppo, li quali Venezia, Corfú, Candia etc. restano, né si muovono con la nave; ma per le balle, casse ed altri colli, de' quali è carica e stivata la nave, e rispetto alla nave medesima, il moto da Venezia in Soría è come nullo, e niente altera la relazione che è tra di loro, e questo, perché è comune a tutti ed egualmente da tutti è participato; e quando delle robe che sono in nave una balla si sia discostata da una cassa un sol dito, questo solo sarà stato per lei movimento maggiore, in relazione alla cassa, che 'l viaggio di dua mila miglia fatto da loro di conserva.

SIMP. Questa è dottrina buona, soda e tutta peripatetica.

SALV. Io l'ho per piú antica; e dubito che Aristotile, nel pigliarla da qualche buona scuola, non la penetrasse interamente, e che però, avendola scritta alterata, sia stato causa di confusione, mediante quelli che voglion sostenere ogni suo detto: e quando egli scrisse che tutto quel che si muove, si muove sopra qualche cosa immobile, dubito che equivocasse dal dire che tutto quel che si muove, si muove rispetto a qualche cosa immobile, la qual proposizione non patisce difficultà veruna, e l'altra ne ha molte.

SAGR. Di grazia, non rompiamo il filo, e seguite avanti il discorso incominciato.

SALV. Essendo dunque manifesto che il moto il quale sia comune a molti mobili, è ozioso e come nullo in quanto alla relazione di essi mobili tra di loro, poiché tra di essi niente si muta, e solamente è operativo nella relazione che hanno essi mobili con altri che manchino di quel moto, tra i quali si muta abitudine; ed avendo noi diviso l'universo in due parti, una delle quali è necessariamente mobile, e l'altra immobile; per tutto quello che possa depender da cotal movimento, tanto è far muover la Terra sola quanto tutto 'l resto del mondo, poiché l'operazione di tal moto non è in altro che nella relazione che cade tra i corpi celesti e la Terra, la qual sola relazione è quella che si muta. Ora, se per conseguire il medesimo effetto ad unguem tanto fa se la sola Terra si muova, cessando tutto il resto dell'universo, che se, restando ferma la Terra sola, tutto l'universo si muova di un istesso moto, chi vorrà credere che la natura (che pur, per comun consenso, non opera con l'intervento di molte cose quel che si può fare col mezo di poche) abbia eletto di far muovere un numero immenso di corpi vastissimi, e con una velocità inestimabile, per conseguir quello che col movimento mediocre di un solo intorno al suo proprio centro poteva ottenersi?

SIMP. Io non bene intendo come questo grandissimo moto sia come nullo per il Sole, per la Luna, per gli altri pianeti e per l'innumerabile schiera delle stelle fisse. E come direte voi esser nulla il passare il Sole da un meridiano all'altro, alzarsi sopra questo orizonte, abbassarsi sotto quello, arrecare ora il giorno ora la notte, simili variazioni far la Luna e gli altri pianeti e le stelle fisse ancora?

SALV. Tutte coteste variazioni raccontate da voi non son nulla, se non in relazion alla Terra. E che ciò sia vero, rimovete con l'immaginazione la Terra: non resta piú al mondo né nascere né tramontar di Sole o di Luna, né orizonti né meridiani, né giorni né notti, né in somma per tal movimento nasce mai mutazione alcuna tra la Luna e 'l Sole o altre qualsivoglino stelle, sian fisse o erranti; ma tutte le mutazioni hanno relazione alla Terra; le quali tutte in somma non importano poi altro che 'l mostrare il Sole ora alla Cina, poi alla Persia, dopo all'Egitto, alla Grecia, alla Francia, alla Spagna, all'America etc., e far l'istesso della Luna e del resto de i corpi celesti, la qual fattura segue puntualmente nel modo medesimo se, senza imbrigar sí gran parte dell'universo, si faccia rigirare in se stesso il globo terrestre. Ma raddoppiamo la difficoltà con un'altra grandissima: la quale è, che quando si attribuisca questo gran moto al cielo, bisogna di necessità farlo contrario a i moti particolari di tutti gli orbi de i pianeti, de i quali ciascheduno senza controversia ha il movimento suo proprio da occidente verso oriente, e questo assai piacevole e moderato, e convien poi fargli rapire in contrario, cioè da oriente in occidente, da questo rapidissimo moto diurno; dove che, facendosi muover la Terra in se stessa, si leva la contrarietà de' moti, ed il solo movimento da occidente in oriente si accomoda a tutte le apparenze e sodisfà a tutte compiutamente.

SIMP. Quanto alla contrarietà de i moti, importerebbe poco, perché Aristotile dimostra che i moti circolari non son contrarii fra di loro, e che la loro non si può chiamar vera contrarietà.

SALV. Lo dimostra Aristotile, o pur lo dice solamente perché cosí compliva a certo suo disegno? Se contrarii son quelli, come egli stesso afferma, che scambievolmente si destruggono, io non so vedere come due mobili che s'incontrino sopra una linea circolare, si abbiano a offender meno che incontrandosi sopra una linea retta.

SAGR. Di grazia, fermate un poco. Ditemi, signor Simplicio, quando due cavalieri si incontrano giostrando a campo aperto, o pure quando due squadre intere o due armate in mare si vanno ad investire e si rompono e si sommergono, chiameresti voi cotali incontri contrarii tra di loro?

SIMP. Diciamoli contrarii.

SAGR. Come dunque ne i moti circolari non è contrarietà? Questi, essendo fatti sopra la superficie della terra o dell'acqua, che sono, come voi sapete, sferiche, vengono ad esser circolari. Sapete voi, signor Simplicio, quali sono i moti circolari che non son tra loro contrarii? son quelli di due cerchi che si toccano per di fuora, che, girandone uno, fa naturalmente muover l'altro diversamente; ma se uno sarà dentro all'altro, è impossibil che i moti loro fatti in diverse parti non si contrastino l'un l'altro.

SALV. Ma contrarii o non contrarii, queste sono altercazioni di parole; ed io so che in fatti molto piú semplice e natural cosa è il poter salvare il tutto con un movimento solo, che l'introdurne due, se non volete chiamarli contrarii, ditegli opposti: né io vi porgo questa introduzione per impossibile, né pretendo di trar da essa una dimostrazione necessaria, ma solo una maggior probabilità. Si rinterza l'inverisimile col disordinare sproporzionatissimamente l'ordine che noi veggiamo sicuramente esser tra quei corpi celesti la circolazion de' quali non è dubbia, ma certissima. E l'ordine è, che secondo che un orbe è maggiore, finisce il suo rivolgimento in tempo piú lungo, ed i minori in piú breve: e cosí Saturno, descrivendo un cerchio maggior di tutti gli altri pianeti, lo complisce in trent'anni; Giove si rivolge nel suo minore in anni dodici, Marte in dua; la Luna passa il suo, tanto piú piccolo, in un sol mese; e non men sensibilmente vediamo, delle Stelle Medicee la piú vicina a Giove far il suo rivolgimento in brevissimo tempo, cioè in ore quarantadua in circa, la seguente in tre giorni e mezo, la terza in giorni sette, e la piú remota in sedici: e questo tenore assai concorde non punto verrà alterato mentre si faccia che il movimento delle ventiquattr'ore sia del globo terrestre in se stesso; che, quando si voglia ritener la Terra immobile, è necessario, dopo l'esser passati dal periodo brevissimo della Luna a gli altri conseguentemente maggiori, fino a quel di Marte in due anni, e di lí a quel della maggiore sfera di Giove in anni dodici, e da questa all'altra maggiore di Saturno, il cui periodo è di trent'anni, è necessario, dico, trapassare ad un'altra sfera incomparabilmente maggiore, e farla finire un'intera revoluzione in vintiquattr'ore. E questo poi è il minimo disordinamento che si possa introdurre; perché se altri volesse dalla sfera di Saturno passare alla stellata, e farla tanto piú grande di quella di Saturno, quanto a proporzione converrebbe rispetto al suo movimento tardissimo di molte migliaia d'anni, bisognerebbe con molto piú sproporzionato salto trapassar da questa ad un'altra maggiore, e farla convertibile in ventiquattr'ore. Ma dandosi la mobilità alla Terra, l'ordine de' periodi vien benissimo osservato, e dalla sfera pigrissima di Saturno si trapassa alle stelle fisse, del tutto immobili, e viensi a sfuggire una quarta difficoltà, la qual bisogna necessariamente ammettere quando la sfera stellata si faccia mobile; e questa è la disparità immensa tra i moti di esse stelle, delle quali altre verranno a muoversi velocissimamente in cerchi vastissimi, altre lentissimamente in cerchi piccolissimi, secondo che queste e quelle si troveranno piú o meno vicine a i poli; che pure ha dell'inconveniente, sí perché noi veggiamo quelle, del moto delle quali non si dubita, muoversi tutte in cerchi massimi, sí ancora perché pare con non buona determinazione fatto il constituir corpi, che s'abbiano a muover circolarmente, in distanze immense dal centro, e fargli poi muovere in cerchi piccolissimi. E non pure le grandezze de i cerchi ed in conseguenza le velocità de i moti di queste stelle saranno diversissimi da i cerchi e moti di quell'altre, ma le medesime stelle andranno variando suoi cerchi e sue velocità (e sarà il quinto inconveniente), avvengaché quelle che due mil'anni fa erano nell'equinoziale, ed in conseguenza descrivevano col moto cerchi massimi, trovandosene a i tempi nostri lontane per molti gradi, bisogna che siano fatte piú tarde di moto e ridottesi a muoversi in minori cerchi; e non è lontano dal poter accader che venga tempo nel quale alcuna di loro, che per l'addietro si sia mossa sempre, si riduca, congiugnendosi col polo, a star ferma, e poi ancora, dopo la quiete di qualche tempo, torni a muoversi: dove che l'altre stelle, che si muovono sicuramente, tutte descrivono, come si è detto, il cerchio massimo dell'orbe loro, ed in quello immutabilmente si mantengono. Accresce l'inverisimile (e sia il sesto inconveniente), a chi piú saldamente discorre, l'essere inescogitabile qual deva esser la solidità di quella vastissima sfera, nella cui profondità sieno cosí tenacemente saldate tante stelle, che senza punto variar sito tra loro, concordemente vengono con sí gran disparità di moti portate in volta: o se pure il cielo è fluido, come assai piú ragionevolmente convien credere, sí che ogni stella per se stessa per quello vadia vagando, qual legge regolerà i moti loro ed a che fine, per far che, rimirati dalla Terra, appariscano come fatti da una sola sfera? A me pare che per conseguir ciò, sia tanto piú agevole ed accomodata maniera il costituirle immobili che 'l farle vaganti, quanto piú facilmente si tengono a segno molte pietre murate in una piazza, che le schiere de' fanciulli che sopra vi corrono. E finalmente, per la settima instanza, se noi attribuiamo la conversion diurna al cielo altissimo, bisogna farla di tanta forza e virtú, che seco porti l'innumerabil moltitudine delle stelle fisse, corpi tutti vastissimi e maggiori assai della Terra, e di piú tutte le sfere de i pianeti, ancorché e questi e quelle per lor natura si muovano in contrario; ed oltre a questo è forza concedere che anco l'elemento del fuoco e la maggior parte dell'aria siano parimente rapiti, e che il solo piccol globo della Terra resti contumace e renitente a tanta virtú: cosa che a me pare che abbia molto del difficile, né saprei intender come la Terra, corpo pensile e librato sopra 'l suo centro, indifferente al moto ed alla quiete, posto e circondato da un ambiente liquido, non dovesse cedere ella ancora ed esser portata in volta. Ma tali intoppi non troviamo noi nel far muover la Terra, corpo minimo ed insensibile in comparazione dell'universo, e perciò inabile al fargli violenza alcuna.

SAGR. Io mi sento raggirar per la fantasia alcuni concetti, cosí in confuso destatimi da i discorsi fatti; che s'io voglio potermi con attenzione applicar alle cose da dirsi, è forza ch'io vegga se mi succedesse meglio ordinargli e trarne quel costrutto che vi è, se però ve ne sarà alcuno: e per avventura il procedere per interrogazioni mi aiuterà a piú agevolmente spiegarmi. Però domando al signor Simplicio, prima, se e' crede che al medesimo corpo semplice mobile possano naturalmente competere diversi movimenti, o pure che un solo convenga, che sia il suo proprio e naturale.

SIMP. D'un mobile semplice un solo, e non piú, può essere il moto che gli convenga naturalmente, e gli altri tutti per accidente e per participazione; in quel modo che a colui che passeggia per la nave, suo moto proprio è quello del passeggio, e per participazione quello che lo conduce in porto, dove egli mai col passeggio non sarebbe arrivato, se la nave col moto suo non ve l'avesse condotto.

SAGR. Ditemi, secondariamente: quel movimento che per participazione vien comunicato a qualche mobile, mentre egli per se stesso si muove di altro moto diverso dal participato, è egli necessario che risegga in qualche suggetto per se stesso, o pur può esser anco in natura senz'altro appoggio?

SIMP. Aristotile vi risponde a tutte queste domande, e vi dice che sí come d'un mobile uno è il moto, cosí di un moto uno è il mobile, ed in conseguenza che senza l'inerenza del suo suggetto non può né essere né anco immaginarsi alcun movimento.

SAGR. Io vorrei che voi mi diceste, nel terzo luogo, se voi credete che la Luna e gli altri pianeti e corpi celesti abbiano lor movimenti proprii, e quali e' siano.

SIMP. Hannogli, e son quelli secondo i quali e' vanno scorrendo il zodiaco: la Luna in un mese, il Sole in un anno, Marte in dua, la sfera stellata in quelle tante migliaia; e questi sono i moti loro proprii e naturali.

SAGR. Ma quel moto col quale io veggo le stelle fisse, e con esse tutti i pianeti, andare unitamente da levante a ponente e ritornare in oriente in ventiquattr'ore, in che modo gli compete?

SIMP. Hannolo per participazione.

SAGR. Questo dunque non risiede in loro; e non risedendo in loro, né potendo esser senza qualche suggetto nel quale e' risegga, è forza farlo proprio e naturale di qualche altra sfera.

SIMP. Per questo rispetto hanno ritrovata gli astronomi ed i filosofi un'altra sfera altissima senza stelle, alla quale naturalmente compete la conversion diurna, e questa hanno chiamata il primo mobile, il quale poi rapisce seco tutte le sfere inferiori, contribuendo e participando loro il movimento suo.

SAGR. Ma quando, senza introdurr'altre sfere incognite e vastissime, senza altri movimenti o rapimenti participati, col lasciare a ciascheduna sfera il suo solo e semplice movimento, senza mescolar movimenti contrarii, ma fargli tutti per il medesimo verso, come è necessario ch'e' sieno dependendo tutti da un sol principio, tutte le cose caminano e rispondono con perfettissima armonia, perché rifiutar questo partito, e dar assenso a quelle cosí strane e laboriose condizioni?

SIMP. Il punto sta in trovar questo modo cosí semplice e spedito.

SAGR. Il modo mi par bell'e trovato. Fate che la Terra sia il primo mobile, cioè fatela rivolgere in se stessa in ventiquattr'ore e per il medesimo verso che tutte le altre sfere, che senza participar tal moto a nessun altro pianeta o stelle, tutte avranno i lor orti, occasi ed in somma tutte l'altre apparenze.

SIMP. L'importanza è il poterla muovere senza mille inconvenienti.

SALV. Tutti gli inconvenienti si torranno via secondo che voi gli andrete proponendo: e le cose dette sin qui sono solamente i primi e piú generali motivi per i quali par che si renda non del tutto improbabile che la diurna conversione sia piú tosto della Terra che di tutto 'l resto dell'universo; li quali io non vi porto come leggi infrangibili, ma come motivi che abbiano qualche apparenza. E perché benissimo intendo che una sola esperienza o concludente dimostrazione che si avesse in contrario, basta a battere in terra questi ed altri centomila argomenti probabili, però non bisogna fermarsi qui, ma procedere avanti e sentire quel che risponde il signor Simplicio, e quali migliori probabilità o piú ferme ragioni egli adduce in contrario.

SIMP. Io dirò prima alcuna cosa in generale sopra tutte queste considerazioni insieme, poi verrò a qualche particolare. Parmi che universalmente voi vi fondiate su la maggior semplicità e facilità di produrre i medesimi effetti, mentre stimate che quanto al causargli tanto sia il muover la Terra sola quanto tutto 'l resto del mondo, trattone la Terra, ma quanto all'operazione voi reputate molto piú facile quella che questa. Al che io vi rispondo che a me ancora par l'istesso, mentre io riguardo alla forza mia, non pur finita, ma debolissima; ma rispetto alla virtú del Motore, che è infinita, non è meno agevole il muover l'universo, che la Terra e che una paglia. E se la virtú è infinita, perché non se ne deve egli esercitare piú tosto una gran parte che una minima? Per tanto parmi che il discorso in generale non sia efficace.

SALV. Se io avessi mai detto che l'universo non si muove per mancamento di virtú del Motore, io avrei errato, e la vostra correzzione sarebbe oportuna; e vi concedo che a una potenza infinita tanto è facile il muover centomila, quanto uno. Ma quello che ho detto io non ha riguardo al Motore, ma solamente a i mobili, ed in essi non solo alla loro resistenza, la quale non è dubbio esser minore nella Terra che nell'universo, ma a i molti altri particolari pur ora considerati. Al dir poi che d'una virtú infinita sia meglio esercitarne una gran parte che una minima, vi rispondo che dell'infinito una parte non è maggior dell'altra, quando amendue sien finite; né si può dire che del numero infinito il centomila sia parte maggiore che 'l due, se ben quello è cinquantamila volte maggior di questo; e quando per muover l'universo ci voglia una virtú finita, benché grandissima in comparazione di quella che basterebbe per muover la Terra sola, non però se n'impiegherebbe maggior parte dell'infinita, né minore sarebbe che infinita quella che resterebbe oziosa; talché l'applicar per un effetto particolare un poco piú o un poco meno virtú non importa niente: oltre che l'operazione di tal virtú non ha per termine e fine il solo movimento diurno, ma sono al mondo altri movimenti assai che noi sappiamo, e molti altri piú ve ne posson essere incogniti a noi. Avendo dunque riguardo a i mobili, e non si dubitando che operazione piú breve e spedita è il muover la Terra che l'universo, e di piú avendo l'occhio alle tante altre abbreviazioni ed agevolezze che con questo solo si conseguiscono, un verissimo assioma d'Aristotile che c'insegna che frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora ci rende piú probabile, il moto diurno esser della Terra sola, che dell'universo, trattone la Terra.

SIMP. Voi nel referir l'assioma avete lasciato una clausola che importa il tutto, e massime nel presente proposito. La particola lasciata è un æque bene; bisogna dunque esaminare se si possa egualmente bene sodisfare al tutto con questo e con quello assunto.

SALV. Il vedere se l'una e l'altra posizione sodisfaccia egualmente bene, si comprenderà da gli esami particolari dell'apparenze alle quali si ha da sodisfare, perché sin ora si è discorso, e si discorrerà, ex hypothesi, supponendo che quanto al sodisfare all'apparenze amendue le posizioni sieno egualmente accomodate. La particola poi, che voi dite essere stata lasciata da me, ho piú tosto sospetto che sia superfluamente aggiunta da voi: perché il dire «egualmente bene» è una relazione, la quale necessariamente ricerca due termini almeno, non potendo una cosa aver relazione a se stessa, e dirsi, verbigrazia, la quiete esser egualmente buona come la quiete; e perché quando si dice «invano si fa con piú mezi quello che si può fare con manco mezi», s'intende che quel che si ha da fare deva esser la medesima cosa, e non due cose differenti, e perché la medesima cosa non può dirsi egualmente ben fatta come se medesima, adunque l'aggiunta della particola «egualmente bene» è superflua ed una relazione che ha un termine solo.

SAGR. Se noi non vogliamo che ci intervenga come ieri, ritornisi, di grazia, nella materia, ed il signor Simplicio cominci a produr quelle difficultà che gli paiono contrarianti a questa nuova disposizione del mondo.

SIMP. La disposizione non è nuova, anzi antichissima, e che ciò sia vero, Aristotile la confuta, e le sue confutazioni son queste. «Prima, se la Terra si movesse o in se stessa, stando nel centro, o in cerchio, essendo fuor del centro, è necessario che violentemente ella si movesse di tal moto, imperò che e' non è suo naturale; ché s'e' fusse suo, l'avrebbe ancora ogni sua particella; ma ognuna di loro si muove per linea retta al centro: essendo dunque violento e preternaturale, non potrebbe essere sempiterno: ma l'ordine del mondo è sempiterno: adunque etc. Secondariamente, tutti gli altri mobili di moto circolare par che restino indietro e si muovano di piú di un moto, trattone però il primo mobile: per lo che sarebbe necessario che la Terra ancora si movesse di due moti; e quando ciò fosse, bisognerebbe di necessità che si facessero mutazioni nelle stelle fisse: il che non si vede, anzi senza variazione alcuna le medesime stelle nascono sempre da i medesimi luoghi, e ne i medesimi tramontano. Terzo, il moto delle parti e del tutto è naturalmente al centro dell'universo, e per questo ancora in esso si sta. Muove poi la dubitazione se il moto delle parti è per andare naturalmente al centro dell'universo, o pure al centro della Terra; e conclude, esser suo instinto proprio di andare al centro dell'universo, e per accidente al centro della Terra: del qual dubbio si discorse ieri a lungo. Conferma finalmente l'istesso col quarto argomento preso dall'esperienza de' gravi, li quali, cadendo da alto a baso, vengono a perpendicolo sopra la superficie della Terra; e medesimamente i proietti tirati a perpendicolo in alto, a perpendicolo per le medesime linee ritornano a basso, quanto bene fussero stati tirati in immensa altezza: argomenti necessariamente concludenti, il moto loro esser al centro della Terra, che senza punto muoversi gli aspetta e riceve. Accenna poi in ultimo, esser da gli astronomi prodotte altre ragioni in confermazione dell'istesse conclusioni, dico dell'esser la Terra nel centro dell'universo ed immobile; ed una sola ne produce, che è il risponder tutte le apparenze, che si veggono ne' movimenti delle stelle, alla posizione di essa Terra nel centro, la qual rispondenza non avrebbe quando ella non vi fusse». Le altre, prodotte da Tolomeo e da altri astronomi, le potrò arrecare ora, se cosí vi piace, o dopo che arete detto quanto vi occorre in risposta di queste di Aristotile.

SALV. Gli argumenti che si producono in questa materia, son di due generi: altri hanno riguardo a gli accidenti terrestri, senza relazione alcuna alle stelle, ed altri si cavano dalle apparenze ed osservazioni delle cose celesti. Gli argomenti d'Aristotile son per lo piú cavati dalle cose intorno a noi, e lascia gli altri alli astronomi; però sarà bene, se cosí vi pare, esaminar questi presi dalle esperienze di Terra, e poi verremo all'altro genere. E perché da Tolomeo, da Ticone e da altri astronomi e filosofi, oltre a gli argomenti d'Aristotile, presi, confermati e fortificati da loro, ne son prodotti de gli altri, si potranno unir tutti insieme, per non aver poi a replicar le medesime o simili risposte due volte. Però, signor Simplicio, o vogliate referirgli voi, o vogliate ch'io vi levi questa briga, son per compiacervi.

SIMP. Sarà meglio che voi gli portiate, che, per averci fatto maggiore studio, gli arete piú in pronto, ed anco in maggior numero.

SALV. Per la piú gagliarda ragione si produce da tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a basso vengono per una linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la conversion diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo che 'l sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere in terra lontano dalla radice della torre. Il quale effetto confermano con un'altra esperienza, cioè col lasciar cadere una palla di piombo dalla cima dell'albero di una nave che stia ferma, notando il segno dove ella batte, che è vicino al piè dell'albero; ma se dal medesimo luogo si lascerà cadere la medesima palla quando la nave cammini, la sua percossa sarà lontana dall'altra per tanto spazio quanto la nave sarà scorsa innanzi nel tempo della caduta del piombo, e questo non per altro se non perché il movimento naturale della palla posta in sua libertà è per linea retta verso 'l centro della Terra. Fortificasi tal argomento con l'esperienza d'un proietto tirato in alto per grandissima distanza, qual sarebbe una palla cacciata da una artiglieria drizzata a perpendicolo sopra l'orizonte, la quale nella salita e nel ritorno consuma tanto tempo, che nel nostro parallelo l'artiglieria e noi insieme saremmo per molte miglia portati dalla Terra verso levante, talché la palla, cadendo, non potrebbe mai tornare appresso al pezzo, ma tanto lontana verso occidente quanto la Terra fosse scorsa avanti. Aggiungono di piú la terza e molto efficace esperienza, che è: tirandosi con una colubrina una palla di volata verso levante, e poi un'altra con egual carica ed alla medesima elevazione verso ponente, il tiro verso ponente riuscirebbe estremamente maggiore dell'altro verso levante; imperocché mentre la palla va verso occidente, e l'artiglieria, portata dalla Terra, verso oriente, la palla verrebbe a percuotere in terra lontana dall'artiglieria tanto spazio quanto è l'aggregato de' due viaggi, uno fatto da sé verso occidente, e l'altro dal pezzo, portato dalla Terra, verso levante; e per l'opposito, del viaggio fatto dalla palla tirata verso levante bisognerebbe detrarne quello che avesse fatto l'artiglieria seguendola: posto dunque, per esempio, che 'l viaggio della palla per se stesso fosse cinque miglia, e che la Terra in quel tal parallelo nel tempo della volata della palla scorresse tre miglia, nel tiro di ponente la palla cadrebbe in terra otto miglia lontana dal pezzo, cioè le sue cinque verso ponente e le tre del pezzo verso levante; ma il tiro d'oriente non riuscirebbe piú lungo di due miglia, ché tanto resta detratto dalle cinque del tiro le tre del moto del pezzo verso la medesima parte: ma l'esperienza mostra i tiri essere eguali; adunque l'artiglieria sta immobile, e per conseguenza la Terra ancora. Ma non meno di questi, i tiri altresí verso mezo giorno o verso tramontana confermano la stabilità della Terra: imperocché mai non si correbbe nel segno che altri avesse tolto di mira, ma sempre sarebbero i tiri costieri verso ponente, per lo scorrere che farebbe il bersaglio, portato dalla Terra, verso levante, mentre la palla è per aria. E non solo i tiri per le linee meridiane, ma né anco i fatti verso oriente o verso occidente riuscirebber giusti, ma gli orientali riuscirebbero alti, e gli occidentali bassi, tuttavolta che si tirasse di punto in bianco; perché sendo il viaggio della palla in amendue i tiri fatto per la tangente, cioè per una linea parallela all'orizonte, ed essendo che al moto diurno, quando sia della Terra, l'orizonte si va sempre abbassando verso levante ed alzandosi da ponente (che però ci appariscono le stelle orientali alzarsi, e le occidentali abbassarsi), adunque il bersaglio orientale s'andrebbe abbassando sotto il tiro, onde il tiro riuscirebbe alto, e l'alzamento del bersaglio occidentale renderebbe basso il tiro verso occidente. Talché mai non si potrebbe verso nissuna parte tirar giusto: e perché l'esperienza è in contrario, è forza dire che la Terra sta immobile.

SIMP. Oh queste son ben ragioni, alle quali è impossibile trovar risposta che vaglia.

SALV. Vi giungono forse nuove?

SIMP. Veramente sí. Ed ora veggo con quante belle esperienze la natura ci è voluta esser cortese per aiutarci a venire in cognizione del vero. Oh come bene una verità si accorda con l'altra, e tutte conspirano al rendersi inespugnabili!

SAGR. Che peccato che l'artiglierie non fussero al tempo di Aristotile! Avrebbe ben egli con esse espugnata l'ignoranza, e parlato senza punto titubare delle cose del mondo.

SALV. Ho avuto molto caro che queste ragioni vi sien giunte nuove, acciò che voi non restiate nell'opinione della maggior parte de i Peripatetici, che credono che se alcuno si parte dalla dottrina d'Aristotile, ciò avvenga da non avere intese né penetrate ben le sue dimostrazioni. Ma voi sentirete sicuramente dell'altre novità, e sentirete da questi seguaci del nuovo sistema produr contro a se stessi osservazioni, esperienze e ragioni di forza assai maggiore che le prodotte da Aristotile e Tolomeo o da altri oppugnatori delle medesime conclusioni, e cosí verrete a certificarvi che non per ignoranza o inesperienza si sono indotti a seguir tale opinione.

SAGR. Egli è forza che con questa occasione io vi racconti alcuni accidenti occorsimi da poi in qua ch'io cominciai a sentir parlare di questa opinione. Essendo assai giovanetto, che appena avevo finito il corso della filosofia, tralasciato poi per essermi applicato ad altre occupazioni, occorse che certo oltramontano di Rostochio, e credo che 'l suo nome fosse Cristiano Vurstisio, seguace dell'opinione del Copernico, capitò in queste bande, ed in una Accademia fece dua o ver tre lezzioni in questa materia, con concorso di uditori, e credo piú per la novità del suggetto che per altro: io però non v'intervenni, avendo fatta una fissa impressione che tale opinione non potesse essere altro che una solenne pazzia. Interrogati poi alcuni che vi erano stati, sentii tutti burlarsene, eccettuatone uno che mi disse che 'l negozio non era ridicolo del tutto; e perché questo era reputato da me per uomo intelligente assai e molto circospetto, pentitomi di non vi essere andato, cominciai da quel tempo in qua, secondo che m'incontravo in alcuno che tenesse l'opinione Copernicana, a domandarlo se egli era stato sempre dell'istesso parere; né per molti ch'io n'abbia interrogati, ho trovato pur un solo che non m'abbia detto d'essere stato lungo tempo dell'opinion contraria, ma esser passato in questa mosso dalla forza delle ragioni che la persuadono: esaminatigli poi ad uno ad uno, per veder quanto bene e' possedesser le ragioni dell'altra parte, gli ho trovati tutti averle prontissime, tal che non ho potuto veramente dire che per ignoranza o per vanità o per far, come si dice, il bello spirito si sieno gettati in questa opinione. All'incontro, di quanti io abbia interrogati de i Peripatetici e Tolemaici (che per curiosità ne ho interrogati molti), quale studio abbiano fatto nel libro del Copernico, ho trovato pochissimi che appena l'abbiano veduto, ma di quelli ch'io creda che l'abbiano inteso, nessuno: e de i seguaci pur della dottrina peripatetica ho cercato d'intendere se mai alcuno di loro ha tenuto l'altra opinione, e parimente non ne ho trovato alcuno. Là onde, considerando io come nessun è che segua l'opinion del Copernico, che non sia stato prima della contraria e che non sia benissimo informato delle ragioni di Aristotile e di Tolomeo, e che all'incontro nissuno è de' seguaci di Tolomeo e d'Aristotile, che sia stato per addietro dell'opinione del Copernico e quella abbia lasciata per venire in quella d'Aristotile, considerando, dico, queste cose, cominciai a credere che uno che lascia un'opinione imbevuta col latte e seguita da infiniti, per venire in un'altra da pochissimi seguita, e negata da tutte le scuole e che veramente sembra un paradosso grandissimo, bisognasse per necessità che fusse mosso, per non dir forzato, da ragioni piú efficaci. Per questo son io divenuto curiosissimo di toccar, come si dice, il fondo di questo negozio, e reputo a mia gran ventura l'incontro di amendue voi, da i quali io possa senza veruna fatica sentir tutto quel ch'è stato detto, e forse che si può dire, in questa materia, sicuro di dover esser, in virtú de' vostri ragionamenti, cavato di dubbio e posto in istato di certezza.

SIMP. Ma purché l'opinione e la speranza non vi vadia fallita, e che in ultimo non vi troviate piú confuso che prima.

SAGR. Mi par d'esser sicuro che cotesto non possa intervenire in veruna maniera.

SIMP. E perché no? Io son buon testimonio a me medesimo, che quanto piú si va avanti, piú mi confondo.

SAGR. Cotesto è indizio che quelle ragioni che sin qui vi erano parse concludenti, e vi tenevano sicuro della verità della vostra opinione, cominciano a mutare aspetto nella vostra mente ed a lasciarvi pian piano, se non passare, almeno inclinare verso la contraria. Ma io, che sono, e sono stato sin ora, indifferente, confido grandemente d'avermi a ridurre in quiete e in sicurezza; e voi stesso non me lo negherete, se volete sentir qual cosa mi persuada a cosí sperare.

SIMP. La sentirò volentieri, e non men grato mi sarebbe che in me operasse il medesimo effetto.

SAGR. Favoritemi dunque di rispondere alle mie interrogazioni. E prima, ditemi, signor Simplicio: non è la conclusione della quale noi cerchiamo la cognizione, se si deva tener, con Aristotile e Tolomeo, che stando ferma la Terra sola nel centro dell'universo, i corpi celesti si muovano tutti; o pur se, stando ferma la sfera stellata ed il Sole nel centro, la Terra ne sia fuori, e siano suoi quei movimenti che ci appariscono esser del Sole e delle stelle fisse?

SIMP. Queste son le conclusioni delle quali si disputa.

SAGR. Queste due conclusioni non son ellen tali, che per necessità bisogna che una sia vera e l'altra falsa?

SIMP. Cosí è: noi siamo in un dilemma, una parte del quale bisogna per necessità che sia vera, e l'altra falsa; perché tra 'l moto e la quiete, che son contradittorii, non si dà un terzo, sí che si possa dire: «La Terra non si muove, e non sta ferma; il Sole e le stelle non si muovono, né stanno ferme».

SAGR. La Terra, il Sole e le stelle che cosa sono in natura? son cose minime, o pur considerabili?

SIMP. Son corpi principalissimi, nobilissimi, integranti dell'universo, vastissimi, considerabilissimi.

SAGR. E 'l moto e la quiete quali accidenti sono in natura?

SIMP. Tanto grandi e principali, che la natura stessa per quelli si definisce.

SAGR. Talché il muoversi eternamente e l'esser del tutto immobile sono due condizioni molto considerabili in natura ed indicanti grandissima diversità, e massime attribuite a corpi principalissimi dell'universo, in conseguenza delle quali non posson venire se non eventi dissimilissimi.

SIMP. Cosí è sicuramente.

SAGR. Or rispondetemi ad un altro punto. Credete voi che in dialettica, in rettorica, in fisica, in metafisica, in matematica, e finalmente nell'università de' discorsi, sieno argomenti potenti a persuadere e dimostrare altrui non meno le conclusioni false che le vere?

SIMP. Signor no; anzi tengo per fermo e son sicuro che per la prova di una conclusion vera e necessaria sieno in natura non solo una ma molte dimostrazioni potissime, e che intorno ad essa si possa discorrere e rigirarsi con mille e mille riscontri, senza intoppar mai in veruna repugnanza, e che quanto piú qualche sofista volesse intorbidarla, tanto piú chiara si farebbe sempre la sua certezza; e che, all'opposito, per far apparir vera una proposizion falsa e per persuaderla non si possa produrre altro che fallacie, sofismi, paralogismi, equivocazioni e discorsi vani, inconsistenti e pieni di repugnanze e contradizioni.

SAGR. Ora, se il moto eterno e la quiete eterna sono accidenti tanto principali in natura, e tanto diversi che da essi non posson dependere se non diversissime conseguenze, e massime applicati al Sole ed alla Terra, corpi tanto vasti ed insigni nell'universo, ed essendo di piú impossibile che l'una delle due proposizioni contradittorie non sia vera e l'altra falsa, e non si potendo per prove della falsa produrr'altro che fallacie, ed essendo la vera persuasibile per ogni genere di ragioni concludenti e demostrative; come volete che quello di voi che si sarà appreso a sostener la proposizion vera non mi abbia a persuadere? Bisognerebbe bene ch'io fussi d'ingegno stupido, di giudizio stravolto, e stolido di mente e d'intelletto, e cieco di discorso, ch'io non avessi a discernere la luce dalle tenebre, le gemme da i carboni, il vero dal falso.

SIMP. Io vi dico, e vi ho detto altre volte, che il maggior maestro per insegnare a conoscere i sofismi e paralogismi ed altre fallacie è stato Aristotile, il quale in questa parte non si può mai esser ingannato.

SAGR. Voi l'avete pur con Aristotile, che non può parlare; ed io vi dico che se Aristotile fosse qui, e' rimarrebbe da noi persuaso, o sciorrebbe le nostre ragioni e con altre migliori persuaderebbe noi. Ma che? voi medesimo nel sentir recitar l'esperienze dell'artiglierie, non l'avete voi conosciute ed ammirate e confessate piú concludenti di quelle d'Aristotile? con tutto ciò non sento che 'l signor Salviati, il quale le ha prodotte e sicuramente esaminate e scandagliate puntualissimamente, confessi d'esser persuaso da quelle, né meno da altre di maggiore efficacia ancora, che egli accenna d'esser per farci sentire. E non so con che fondamento voi vogliate riprender la natura, come quella che per la molta età sia imbarbogita ed abbia dimenticato a produrre ingegni specolativi, né sappia farne piú se non di quelli che, facendosi mancipii d'Aristotile, abbiano a intender col suo cervello e sentir co i suoi sensi. Ma sentiamo il rimanente delle ragioni favorevoli alla sua opinione, per venir poi al lor cimento, coppellandole e ponderandole con la bilancia del saggiatore.

SALV. Prima che proceder piú oltre, devo dire al signor Sagredo che in questi nostri discorsi fo da copernichista, e lo imito quasi sua maschera; ma quello che internamente abbiano in me operato le ragioni che par ch'io produca in suo favore, non voglio che voi lo giudichiate dal mio parlare mentre siamo nel fervor della rappresentazione della favola, ma dopo che avrò deposto l'abito, che forse mi troverete diverso da quello che mi vedete in scena. Ora seguitiamo avanti. Produce Tolomeo ed i suoi seguaci un'altra esperienza, simile a quella de i proietti, ed è delle cose che, separate dalla Terra, lungamente si trattengono per aria, quali sono le nugole e gli uccelli volanti; e come che di quelle non si può dir che sieno portate dalla Terra, non essendo a lei aderenti, non par possibile ch'elle possin seguire la velocità di quella, anzi dovrebbe parere a noi che tutte velocissimamente si movessero verso occidente; e se noi, portati dalla Terra, passiamo il nostro parallelo in vintiquattr'ore, che pure è almeno sedici mila miglia, come potranno gli uccelli tener dietro a un tanto corso? dove, all'incontro, senza veruna sensibil differenza gli vediamo volar tanto verso levante quanto verso occidente e verso qualsivoglia parte. Oltre a ciò, se mentre corriamo a cavallo sentiamo assai gagliardamente ferirci il volto dall'aria, qual vento dovremmo noi perpetuamente sentir dall'oriente, portati con sí rapido corso incontro all'aria? e pur nulla di tale effetto si sente. Ècci un'altra molto ingegnosa ragione, presa da certa esperienza, ed è tale. Il moto circolare ha facoltà di estrudere, dissipare e scacciar dal suo centro le parti del corpo che si muove, qualunque volta o 'l moto non sia assai tardo o esse parti non sian molto saldamente attaccate insieme; che per ciò, quando, verbigrazia, noi facessimo velocissimamente girare una di quelle gran ruote dentro le quali caminando uno o dua uomini muovono grandissimi pesi, come la massa delle gran pietre del mangano, o barche cariche che d'un'acqua in un'altra si traghettano strascinandole per terra, quando le parti di essa ruota rapidamente girata non fossero piú che saldamente conteste, si dissiperebbero tutte, né, per molto che tenacemente fossero sopra la sua esterior superficie attaccati sassi o altre materie gravi, potrebbero resistere all'impeto, che con gran violenza le scaglierebbe in diverse parti lontane dalla ruota, ed in conseguenza dal suo centro. Quando dunque la Terra si movesse con tanto e tanto maggior velocità, qual gravità, qual tenacità di calcine o di smalti, riterrebbe i sassi, le fabbriche e le città intere, che da sí precipitosa vertigine non fusser lanciate verso 'l cielo? e gli uomini e le fiere, che niente sono attaccati alla Terra, come resisterebbero a un tanto impeto? dove che, all'opposito, e queste ed assai minori resistenze, di sassetti, di rena, di foglie, vediamo quietissimamente riposarsi in Terra, e sopra quella ridursi cadendo, ancorché con lentissimo moto. Eccovi, signor Simplicio, le ragioni potissime, prese, per cosí dire, dalle cose terrestri: restano quelle dell'altro genere, cioè quelle che hanno relazione all'apparenze celesti, le quali ragioni tendon veramente piú a dimostrar l'esser la Terra nel centro dell'universo, ed a spogliarla in conseguenza del movimento annuo intorno ad esso, attribuitogli dal Copernico; le quali, come di materia alquanto differente, si potranno produr dopo che averemo esaminata la forza di queste sin qui proposte.

SAGR. Che dite, signor Simplicio? parv'egli che 'l signor Salviati possegga e sappia esplicare le ragioni tolemaiche e aristoteliche? credete voi che nissuno peripatetico sia altrettanto posseditore delle dimostrazioni copernicane?

SIMP. Se non fusse il gran concetto che per i discorsi avuti sin qui mi son formato della saldezza di dottrina del signor Salviati e dell'acutezza d'ingegno del signor Sagredo, io, con lor buona grazia, mi vorrei partire senza piú sentir altro, parendomi impossibil cosa che contradir si possa a sí palpabili esperienze, e vorrei senza sentir altro restar nella mia opinione antica, perché mi par che quando bene ella fusse falsa, l'essere appoggiata su tanto verisimili ragioni la renderebbe scusabile: e se queste son fallacie, quali vere dimostrazioni furon mai cosí belle?

SAGR. È pur bene che noi sentiamo le risposte del signor Salviati: le quali se saranno vere, è forza che sieno ancora piú belle e infinitarnente piú belle, e che quelle sien brutte anzi bruttissime, se è vera la proposizion metafisicale che 'l vero e 'l bello sono una cosa medesima, come ancora il falso e 'l brutto. Però, signor Salviati, non perdiamo piú tempo.

SALV. Fu, se ben mi ricorda, il primo argomento prodotto dal signor Simplicio questo: La Terra non si può muover circolarmente, perché tal moto gli sarebbe violento, e però non perpetuo: dell'esser poi violento la ragione era, perché quando fosse naturale, le parti sue ancora si moverebbero naturalmente in giro, il che è impossibile, perché naturale delle parti è il muoversi di moto retto all'ingiú. Qui rispondo che averei auto caro che Aristotile si fosse meglio dichiarato, quando disse: «Le parti ancora si moverebber circolarmente», imperocché questo muoversi circolarmente può intendersi in due modi: uno è, che ogni particella separata dal suo tutto si movesse circolarmente intorno al suo proprio centro, descrivendo i suoi piccoli cerchiettini; l'altro è, che movendosi tutto 'l globo intorno al suo centro in ventiquattr'ore, le parti ancora girassero intorno al medesimo centro in ventiquattr'ore. Il primo sarebbe una impertinenza non minore che se altri dicesse che di una circonferenza di cerchio ogni parte bisogna che sia un cerchio, o vero perché la Terra è sferica, ogni parte di Terra bisogna che sia una palla, perché cosí richiede l'assioma eadem est ratio totius et partium. Ma s'egli intese nell'altro, cioè che le parti, a imitazion del tutto, si moverebbero naturalmente intorno al centro di tutto il globo in ventiquattr'ore, io dico che lo fanno; ed a voi, in vece d'Aristotile, toccherà a provar che no.

SIMP. Questo è provato da Aristotile nel medesimo luogo, mentre dice che naturale delle parti è il moto retto al centro dell'universo, onde il circolare non gli può naturalmente competere.

SALV. Ma non vedete voi che nelle medesime parole vi è anco la confutazione di questa risposta?

SIMP. In che modo? e dove?

SALV. Non dic'egli che 'l moto circolare alla Terra sarebbe violento? e però non eterno? e che questo è assurdo, perché l'ordine del mondo è eterno?

SIMP. Dicelo.

SALV. Ma se quello che è violento non può esser eterno, pel converso quello che non può esser eterno non potrà esser naturale: ma il moto della Terra all'ingiú non può essere altramente eterno: adunque meno può esser naturale, né gli potrà esser naturale moto alcuno che non gli sia anco eterno. Ma se noi faremo la Terra mobile di moto circolare, questo potrà esser eterno ad essa ed alle parti, e però naturale.

SIMP. Il moto retto è naturalissimo delle parti della Terra e gli è eterno, né mai accaderà che di moto retto non si muovano, intendendo però sempre, rimossi gli impedimenti.

SALV. Voi equivocate, signor Simplicio, ed io voglio pur vedere di liberarvi dall'equivoco. Però ditemi: credete voi che una nave che dallo stretto di Gibilterra andasse verso Palestina, potesse eternamente navigare verso quella spiaggia, movendosi sempre con egual corso?

SIMP. Non altramente.

SALV. E perché no?

SIMP. Perché quella navigazione è ristretta e terminata tra le Colonne e 'l lito di Palestina, ed essendo la distanza terminata, si passa in tempo finito: se già altri non volesse, col ritornare in dietro con movimento contrario, tornar poi a replicar il medesimo viaggio; ma questo sarebbe un moto interrotto, e non continuato.

SALV. Verissima risposta. Ma la navigazione dallo stretto di Magaglianes per il mar Pacifico, per le Molucche, per il capo di Buona Speranza, e di lí per il medesimo stretto e di nuovo per il mar Pacifico etc., credete voi ch'ella si potesse perpetuare?

SIMP. Potrebbesi, perché essendo questa una circolazione, che ritorna in se stessa, col replicarla infinite volte si potrebbe perpetuare senza veruno interrompimento.

SALV. Adunque una nave in questo viaggio potrebbe durare a navigare in eterno.

SIMP. Potrebbe, quando la nave fusse incorruttibile, ma dissolvendosi la nave, si terminerebbe di necessità la navigazione.

SALV. Ma nel Mediterraneo, quando anco la nave fusse incorruttibile, non però potrebbe muoversi perpetuamente verso Palestina, per esser tal viaggio terminato. Due cose adunque si ricercano, acciò che un mobile senza intermissione possa muoversi eternamente: l'una è che il moto possa di sua natura essere interminato e infinito; e l'altra, che il mobile sia parimente incorruttibile ed eterno.

SIMP. Tutto questo è necessario.

SALV. Adunque già per voi stesso venite ad aver confessato, esser impossibile che mobile alcuno si muova eternamente di moto retto, essendo che il moto retto, o vogliatelo in su o vogliatelo in giú, voi stesso lo fate terminato dalla circonferenza e dal centro: sí che quando bene il mobile, cioè la Terra, sia eterna, tuttavia, per non essere il moto retto di sua natura eterno, ma terminatissimo, non può naturalmente competere alla Terra, anzi, come pure ieri si disse, Aristotile medesimo è costretto a far il globo della Terra eternamente stabile. Quando poi voi dite che le parti della Terra sempre si moveranno all'ingiú rimossi gli impedimenti, equivocate gagliardamente, perché all'incontro bisogna impedirle, contrariarle e violentarle, se voi volete ch'elle si muovano; perché, cadute ch'elle sono una volta, bisogna con violenza rigettarle in alto, acciò tornino a cader la seconda: e quanto a gli impedimenti, questi gli tolgono solamente l'arrivare al centro; ché quando ci fosse un pozzo che passasse oltre al centro, non però una zolla di terra si moverebbe oltre a quello, se non in quanto traportata dall'impeto lo trapassasse, per ritornarvi poi e finalmente fermarvisi. Quanto dunque al poter sostenere che il movimento per linea retta convenga o possa convenir naturalmente né alla Terra né ad altro mobile, mentre l'universo resti nel suo ordine perfetto, toglietevene pur giú del tutto, e fate pur forza (se voi non le volete concedere il moto circolare) di mantenerle e difenderle l'immobilità.

SIMP. Quanto all'immobilità, gli argomenti di Aristotile, e piú gli altri prodotti da voi, mi par che la concludano necessariamente sin ora, e gran cose ci vorranno, per mio giudizio, a confutargli.

SALV. Venghiamo dunque al secondo argomento: che era che quei corpi de i quali noi siam sicuri che circolarmente si muovono, hanno piú d'un moto, trattone il primo mobile; e però quando la Terra si movesse circolarmente, dovrebbe muoversi di due moti, dal che ne seguirebbe mutazione circa gli orti e gli occasi delle stelle fisse; il che non si vede seguire; adunque etc. La risposta semplicissima e propriissima a questa instanza è nell'argomento stesso, ed Aristotile medesimo ce la mette in bocca, e non può essere che voi, signor Simplicio, non l'abbiate veduta.

SIMP. Né l'ho veduta, né ancor la veggo.

SALV. Non può essere, perché ella vi è troppo chiara.

SIMP. Io voglio, con vostra licenza, dare un'occhiata al testo.

SAGR. Faremo portare il testo adesso adesso.

SIMP. Io lo porto sempre in tasca. Eccolo qui; e so per appunto il luogo, che è nel secondo del Cielo, al cap. 14. Eccolo: testo 97: Præterea, omnia quæ feruntur latione circulari, subdeficere videntur, ac moveri pluribus una latione, præter primam sphæram; quare et Terram necessarium est, sive circa medium sive in medio posita feratur, duabus moveri lationibus: si autem hoc acciderit, necessarium est fieri mutationes ac conversiones fixorum astrorum: hoc autem non videtur fieri; sed semper eadem apud eadem loca ipsius et oriuntur et occidunt. Or qui non veggo io fallacia nissuna, e parmi l'argomento concludentissimo.

SALV. Ed a me questa nuova lettura ha confermata la fallacia nell'argumentare, e di piú scoperto un'altra falsità. Però notate. Due posizioni, o vogliam dire due conclusioni, son quelle che Aristotile vuole impugnare: l'una è di quelli che, collocando la Terra nel mezo, la facesser muovere in se stessa circa 'l proprio centro: l'altra è di quelli che, costituendola lontana dal mezo, la facessero andar con moto circolare intorno ad esso mezo: ed amendue queste posizioni impugna congiuntamente con l'istesso argomento. Ora io dico che egli erra nell'una e nell'altra impugnazione, e che l'errore contro la prima posizione è di uno equivoco o paralogismo, e contro alla seconda è una conseguenza falsa. Venghiamo alla prima posizione, che costituisce la Terra nel mezo e la fa mobile in se stessa circa il proprio centro, ed affrontiamola con l'istanza d'Aristotile, dicendo: Tutti i mobili che si muovono circolarmente, par che restino indietro, e si muovono di piú d'una lazione, eccettuata la prima sfera (cioè il primo mobile); adunque la Terra, movendosi circa il proprio centro, essendo posta nel mezo, bisogna che si muova di due lazioni, e resti in dietro: ma quando questo fusse, bisognerebbe che si variassero gli orti e gli occasi delle stelle fisse; il che non si vede fare: adunque la Terra non si muove etc. Qui è il paralogismo; per iscoprirlo, discorro con Aristotile in tal modo. Tu di', o Aristotile, che la Terra posta nel mezo non può muoversi in se stessa, perché sarebbe necessario attribuirle due lazioni: adunque, quando non fusse necessario attribuirle altro che una lazion sola, tu non avresti per impossibile che di una tal sola ella si movesse, perché fuor di proposito ti saresti ristretto a ripor l'impossibilità nella pluralità delle lazioni, quando anco di una sola ella muover non si potesse. E perché di tutti i mobili del mondo tu fai che un solo si muova d'una lazion sola, e tutti gli altri di piú d'una; e questo tal mobile affermi che è la prima sfera, cioè quello per il quale tutte le stelle fisse ed erranti ci appariscono muoversi concordemente da levante a ponente; quando la Terra potesse esser quella prima sfera, che col muoversi d'una lazion sola facesse apparir le stelle muoversi da levante in ponente, tu non gliela negheresti: ma chi dice che la Terra posta nel mezo si volge in se stessa, non gli attribuisce altro moto che quello per il quale tutte le stelle appariscono muoversi da levante a ponente, e cosí ella viene a esser quella prima sfera che tu stesso concedi muoversi d'una lazione sola: bisogna dunque, o Aristotile, se tu vuoi concluder qualcosa, che tu dimostri che la Terra posta nel mezo non possa muoversi né anco di una sola lazione, o vero che né meno la prima sfera possa aver un sol movimento; altrimenti tu nel tuo medesimo silogismo commetti la fallacia e ve la manifesti, negando ed insieme concedendo l'istessa cosa. Vengo ora alla seconda posizione, che è di quelli che ponendo la Terra lontana dal mezo, la fanno mobile intorno ad esso, cioè la fanno un pianeta ed una stella errante; contro alla qual posizione procede l'argomento, e quanto alla forma è concludente, ma pecca in materia: imperocché, conceduto che la Terra si muova in cotal guisa, e che si muova di due lazioni, non però ne segue di necessità che, quando ciò sia, s'abbiano a far mutazioni ne gli orti e ne gli occasi delle stelle fisse, come a suo luogo dichiarerò. E qui voglio scusar bene l'error d'Aristotile, anzi lo voglio lodar d'aver egli arrecato il piú sottile argomento contro alla posizion del Copernico, che arrecar si possa; e se l'instanza è acuta, ed in apparenza concludentissima, vedrete tanto piú esser sottile ed ingegnosa la soluzione, e da non esser ritrovata da ingegno men acuto di quello del Copernico; e dalla difficultà nell'intenderla potrete argomentare la difficultà, tanto maggiore, del ritrovarla. Lasciamo in tanto per ora la risposta in pendente, la quale a suo luogo e tempo intenderete, dopo l'aver replicata l'instanza medesima d'Aristotele, e di piú fortificata grandemente a favor suo. Or passiamo all'argomento terzo, pur d'Aristotile, intorno al quale non fa bisogno replicar altro, essendosegli a bastanza risposto tra ieri e oggi: imperocché e' replica che 'l moto de' gravi è naturalmente per linea retta al centro, e cerca poi se al centro della Terra o pur dell'universo, e conclude che naturalmente al centro dell'universo, ma per accidente a quel della Terra. Però possiamo passare al quarto, nel quale converrà che ci trattenghiamo assai, per esser fondato sopra quella esperienza dalla quale prende poi forza la maggior parte degli argomenti che restano. Dice dunque Aristotile, argomento certissimo dell'immobilità della Terra essere il veder noi i proietti in alto a perpendicolo ritornar per l'istessa linea nel medesimo luogo di dove furon tirati, e questo, quando bene il movimento fusse altissimo; il che non potrebbe accadere quando la Terra si movesse, perché nel tempo che 'l proietto si muove in su e 'n giú, separato dalla Terra, il luogo dove ebbe principio il moto del proietto scorrerebbe, mercè del rivolgimento della Terra, per lungo tratto verso levante, e per tanto spazio, nel cadere, il proietto percuoterebbe in Terra lontano dal detto luogo: sí che qui s'accomoda l'argomento della palla tirata in su coll'artiglieria, sí ancora l'altro usato da Aristotile e da Tolomeo, del vedere i gravi cadenti da grandi altezze venir per linea retta e perpendicolare alla superficie terrestre. Ora, per cominciar a sviluppar questi nodi, domando al signor Simplicio, quando altri negasse a Tolomeo e ad Aristotile che i gravi nel cader liberamente da alto venissero per linea retta e perpendicolare, cioè diretta al centro, con qual mezo lo proverebbero.

SIMP. Col mezo del senso, il quale ci assicura che quella torre è diritta e perpendicolare, e ci mostra quella pietra nel cadere venirla radendo, senza piegar pur un capello da questa o da quella parte, e percuotere al piede giusto sotto 'l luogo donde fu lasciata.

SALV. Ma quando per fortuna il globo terrestre si movesse in giro, ed in conseguenza portasse seco la torre ancora, e che ad ogni modo si vedesse la pietra nel cadere venir radendo il filo della torre, qual bisognerebbe che fusse il suo movimento?

SIMP. Bisognerebbe in questo caso dir piú tosto «i suoi movimenti», perché uno sarebbe quello col quale verrebbe da alto a basso, e un altro converrebbe ch'ella n'avesse per seguire il corso della torre.

SALV. Sarebbe dunque il moto suo un composto di due, cioè di quello col quale ella misura la torre, e dell'altro col quale ella la segue: dal qual composto ne risulterebbe che 'l sasso descriverebbe non piú quella semplice linea retta e perpendicolare, ma una trasversale, e forse non retta.

SIMP. Del non retta non lo so; ma intendo bene che di necessità sarebbe trasversale, e differente dall'altra retta perpendicolare, che ella descrisse stando la Terra immobile.

SALV. Adunque dal solamente vedere la pietra cadente rader la torre, voi non potete sicuramente affermare che ella descriva una linea retta e perpendicolare, se non supposto prima che la Terra stia ferma.

SIMP. Cosí è; perché quando la Terra si movesse, il moto della pietra sarebbe trasversale, e non a perpendicolo.

SALV. Ecco dunque il paralogismo d'Aristotile e di Tolomeo evidente e chiaro, e scoperto da voi medesimo, nel quale si suppon per noto quello che s'intende di dimostrare.

SIMP. In che modo? A me si dimostra silogismo in buona forma, e non una petizion di principio.

SALV. Eccovi in che modo. Ditemi un poco: nella dimostrazione non si pon egli la conclusione ignota?

SIMP. Ignota, perché altrimenti il dimostrarla sarebbe superfluo.

SALV. Ma il mezo termine non conviene egli che sia noto?

SIMP. È necessario, perché altramente sarebbe un voler provare ignotum per æque ignotum.

SALV. La nostra conclusione da provarsi, e che è ignota, non è la stabilità della Terra?

SIMP. Cotesta è.

SALV. Il mezo, che deve esser noto, non è la caduta del sasso retta e perpendicolare?

SIMP. Questo è il mezo.

SALV. Ma non s'è egli poco fa concluso, che noi non possiamo aver notizia che tal caduta sia retta e perpendicolare, se prima non ci è noto che la Terra stia ferma? adunque nel vostro silogismo la certezza del mezo si cava dall'incertezza della conclusione. Vedete dunque quale e quanto è il paralogismo.

SAGR. Io vorrei, in grazia del signor Simplicio, difender, se fusse possibile, Aristotile, o almeno restar io meglio capace della forza della vostra illazione. Voi dite: Il veder rader la torre non basta per assicurarsi che 'l moto del sasso sia perpendicolare, che è il mezo termine del silogismo, se non si suppone che la Terra stia ferma, che è la conclusione da provarsi; perché, quando la torre si movesse insieme con la Terra, ed il sasso la radesse, il moto del sasso sarebbe trasversale, e non perpendicolare. Ma io risponderò, che quando la torre si movesse, sarebbe impossibile che 'l sasso cadesse radendola, e però dal cader radendo s'inferisce la stabilità della Terra.

SIMP. Cosí è; perché a voler che 'l sasso venisse radendo la torre, quando ella fusse portata dalla Terra, bisognerebbe che 'l sasso avesse due moti naturali, cioè 'l retto verso 'l centro e 'l circolare intorno al centro, il che è poi impossibile.

SALV. La difesa dunque d'Aristotile consiste nell'esser impossibile, o almeno nell'aver egli stimato impossibile, che 'l sasso potesse muoversi di un moto misto di retto e di circolare; perché quando e' non avesse avuto per impossibile che la pietra potesse muoversi al centro e 'ntorno al centro unitamente, egli averebbe inteso che poteva accadere che 'l sasso cadente potesse venir radendo la torre tanto movendosi ella quanto stando ferma, e in conseguenza si sarebbe accorto che da questo radere non si poteva inferir niente attenente al moto o alla quiete della Terra. Ma questo non iscusa altramente Aristotile, non solamente perché doveva dirlo, quando egli avesse auto tal concetto, essendo un punto tanto principale nel suo argumento, ma di piú ancora perché non si può dir né che tale effetto sia impossibile né che Aristotile l'abbia stimato impossibile. Non si può dire il primo, perché di qui a poco mostrerò ch'egli è non pur possibile, ma necessario: né meno si può dire il secondo, perché Aristotile medesimo concede al fuoco l'andare in su naturalmente per linea retta e 'l muoversi in giro col moto diurno, participato dal cielo a tutto l'elemento del fuoco ed alla maggior parte dell'aria; se dunque e' non ha per impossibile mescolare il retto in su col circolare, comunicato al fuoco ed all'aria dal concavo lunare, assai meno dovrà reputare impossibile il retto in giú del sasso col circolare, che fusse naturale di tutto 'l globo terrestre, del quale il sasso è parte.

SIMP. A me non par cotesta cosa, perché quando l'elemento del fuoco vadia in giro insieme con l'aria, facilissima anzi necessaria cosa è che una particella di fuoco, che da Terra sormonti in alto, nel passar per l'aria mobile riceva l'istesso movimento, essendo corpo cosí tenue e leggiero e agevolissimo ad esser mosso; ma che un sasso gravissimo o una palla d'artiglieria, che da alto venga a basso e sia già posta in sua balía, si lasci trasportar né da aria né da altro, ha del tutto dell'inopinabile. Oltre che ci è l'esperienza tanto propria, della pietra lasciata dalla cima dell'albero della nave, la qual, mentre la nave sta ferma, casca al piè dell'albero, ma quando la nave camina, cade tanto lontana dal medesimo termine, quanto la nave nel tempo della caduta del sasso è scorsa avanti; che non son poche braccia, quando 'l corso della nave è veloce.

SALV. Gran disparità è tra 'l caso della nave e quel della Terra, quando 'l globo terrestre avesse il moto diurno. Imperocché manifestissima cosa è che il moto della nave, sí come non è suo naturale, cosí è accidentario di tutte le cose che sono in essa; onde non è meraviglia che quella pietra, che era ritenuta in cima dell'albero, lasciata in libertà scenda a basso, senza obligo di seguire il moto della nave. Ma la conversion diurna si dà per moto proprio e naturale al globo terrestre, ed in conseguenza a tutte le sue parti, e come impresso dalla natura è in loro indelebile; e però quel sasso che è in cima della torre, ha per suo primario instinto l'andare intorno al centro del suo tutto in ventiquattr'ore, e questo natural talento esercita egli eternamente, sia pur posto in qualsivoglia stato. E per restar persuaso di questo, non avete a far altro che mutar un'antiquata impressione fatta nella vostra mente, e dire: «Sí come, per avere stimato io sin ora che sia proprietà del globo terrestre lo stare immobile intorno al suo centro, non ho mai auto difficultà o repugnanza alcuna in apprendere che qualsivoglia sua particella resti essa ancora naturalmente nella medesima quiete; cosí è ben dovere che quando naturale instinto fusse del globo terreno l'andare intorno in ventiquattr'ore, sia d'ogni sua parte ancora intrinseca e naturale inclinazione non lo star ferma, ma seguire il medesimo corso»: e cosí senza urtare in veruno inconveniente si potrà concludere, che per non esser naturale, ma straniero, il moto conferito alla nave dalla forza de' remi, e per essa a tutte le cose che in lei si ritrovano, sia ben dovere che quel sasso, separato che e' sia dalla nave, si riduca alla sua naturalezza e ritorni ad esercitare il puro e semplice suo natural talento. Aggiugnesi che è necessario che almeno quella parte d'aria che è inferiore alle maggiori altezze de i monti, venga dall'asprezza della superficie terrestre rapita e portata in giro, o pure che, come mista di molti vapori ed esalazioni terrestri, naturalmente séguiti il moto diurno; il che non avviene dell'aria che è intorno alla nave cacciata da i remi: per lo che l'argumentare dalla nave alla torre non ha forza d'illazione; perché quel sasso che vien dalla cima dell'albero, entra in un mezo che non ha il moto della nave; ma quel che si parte dall'altezza della torre, si trova in un mezo che ha l'istesso moto che tutto 'l globo terrestre, talché, senz'esser impedito dall'aria, anzi piú tosto favorito dal moto di lei, può seguire l'universal corso della Terra.

SIMP. Io non resto capace, che l'aria possa imprimere in un grandissimo sasso o in una grossa palla di ferro o di piombo, che passasse, verbigrazia, dugento libre, il moto col quale essa medesima si muove e che per avventura ella comunica alle piume, alla neve ed altre cose leggierissime; anzi veggo che un peso di quella sorte, esposto a qualsivoglia piú impetuoso vento, non vien pur mosso di luogo un sol dito: or pensate se l'aria lo porterà seco.

SALV. Gran disparità è tra la vostra esperienza e 'l nostro caso. Voi fate sopraggiugnere il vento a quel sasso posto in quiete; e noi esponghiamo nell'aria, che già si muove, il sasso, che pur si muove esso ancora con l'istessa velocità, talché l'aria non gli ha a conferire un nuovo moto, ma solo mantenerli, o per meglio dire non impedirli, il già concepito: voi volete cacciar il sasso d'un moto straniero e fuor della sua natura; e noi, conservarlo nel suo naturale. Se voi volevi produrre una piú aggiustata esperienza, dovevi dire che si osservasse, se non con l'occhio della fronte, almeno con quel della mente, ciò che accaderebbe quando un'aquila portata dall'impeto del vento si lasciasse cader da gli artigli una pietra; la quale, perché già nel partirsi dalle branche volava al pari del vento, e dopo partita entra in un mezo mobile con egual velocità, ho grande opinione che non si vedrebbe cader giú a perpendicolo, ma che, seguendo 'l corso del vento ed aggiugnendovi quel della propria gravità, si moverebbe di un moto trasversale.

SIMP. Bisognerebbe poterla fare una tale esperienza, e poi secondo l'evento giudicare; in tanto l'effetto della nave sin qui mostra di applaudere all'opinion nostra.

SALV. Ben diceste, sin qui; perché forse di qui a poco potrebbe mutar sembianza. E per non vi tener, come si dice, piú su le bacchette, ditemi, signor Simplicio: parv'egli internamente che l'esperienza della nave quadri cosí bene al proposito nostro, che ragionevolmente si debba credere che quello che si vede accadere in lei, debba ancora accadere nel globo terrestre?

SIMP. Sin qui mi è parso di sí; e benché voi abbiate arrecate alcune piccole disuguaglianze, non mi paion di tal momento che basti a rimuovermi di parere.

SALV. Anzi desidero che voi ci continuiate, e tenghiate saldo che l'effetto della Terra abbia a rispondere a quel della nave, purché quando ciò si scoprisse progiudiziale al vostro bisogno, non vi venisse umore di mutar pensiero. Voi dite: «Perché, quando la nave sta ferma, il sasso cade al piè dell'albero, e quando ell'è in moto cade lontano dal piede adunque, per il converso, dal cadere il sasso al piede si inferisce la nave star ferma, e dal caderne lontano s'argumenta la nave muoversi; e perché quello che occorre della nave deve parimente accader della Terra, però dal cader della pietra al piè della torre si inferisce di necessità l'immobilità del globo terrestre». Non è questo il vostro discorso?

SIMP. È per appunto, ridotto in brevità, che lo rende agevolissimo ad apprendersi.

SALV. Or ditemi: se la pietra lasciata dalla cima dell'albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l'assicurarvi se 'l vassello sta fermo o pur se cammina?

SIMP. Assolutamente nissuno: in quel modo che, per esempio, dal batter del polso non si può conoscere se altri dorme o è desto, poiché il polso batte nell'istesso modo ne' dormienti che ne i vegghianti.

SALV. Benissimo. Avete voi fatta mai l'esperienza della nave?

SIMP. Non l'ho fatta; ma ben credo che quelli autori che la producono, l'abbiano diligentemente osservata: oltre che si conosce tanto apertamente la causa della disparità, che non lascia luogo di dubitare.

SALV. Che possa esser che quelli autori la portino senza averla fatta, voi stesso ne sete buon testimonio, che senza averla fatta la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede al detto loro: sí come è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora, dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l'abbia fatta; perché chiunque la farà, troverà l'esperienza mostrar tutto 'l contrario di quel che viene scritto: cioè mostrerà che la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi con qualsivoglia velocità. Onde, per esser la medesima ragione della Terra che della nave, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della Terra.

SIMP. Se voi mi rimetteste ad altro mezo che all'esperienza, io credo bene che le dispute nostre non finirebber per fretta; perché questa mi pare una cosa tanto remota da ogni uman discorso, che non lasci minimo luogo alla credulità o alla probabilità.

SALV. E pur l'ha ella lasciato in me.

SIMP. Che dunque voi non n'avete fatte cento, non che una prova, e l'affermate cosí francamente per sicura? Io ritorno nella mia incredulità, e nella medesima sicurezza che l'esperienza sia stata fatta da gli autori principali che se ne servono, e che ella mostri quel che essi affermano.

SALV. Io senza esperienza son sicuro che l'effetto seguirà come vi dico, perché cosí è necessario che segua; e piú v'aggiungo che voi stesso ancora sapete che non può seguire altrimenti, se ben fingete, o simulate di fingere, di non lo sapere. Ma io son tanto buon cozzon di cervelli, che ve lo farò confessare a viva forza. Ma il signor Sagredo sta molto cheto: mi pareva pur di vedervi far non so che moto, per dir alcuna cosa.

SAGR. Volevo veramente dir non so che; ma la curiosità che mi ha mossa questo sentir dire di far tal violenza al signor Simplicio, che palesi la scienza che e' ci vuole occultare, mi ha fatto deporre ogni altro desiderio: però vi prego ad effettuare il vanto.

SALV. Purché il signor Simplicio si contenti di rispondere alle mie interrogazioni, io non mancherò.

SIMP. Io risponderò quel che saprò, sicuro che avrò poca briga, perché delle cose che io tengo false non credo di poterne saper nulla, essendoché la scienza è de' veri, e non de' falsi.

SALV. Io non desidero che voi diciate o rispondiate di saper niente altro che quello che voi sicuramente sapete. Però ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima come uno specchio e di materia dura come l'acciaio, e che fusse non parallela all'orizonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente sferica e di materia grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo, lasciata in sua libertà che credete voi che ella facesse? non credete voi (sí come credo io) che ella stesse ferma?

SIMP. Se quella superficie fusse inclinata?

SALV. Sí, ché cosí già ho supposto.

SIMP. Io non credo che ella si fermasse altrimente, anzi pur son sicuro ch'ella si moverebbe verso il declive spontaneamente.

SALV. Avvertite bene a quel che voi dite, signor Simplicio, perché io son sicuro ch'ella si fermerebbe in qualunque luogo voi la posaste.

SIMP. Come voi, signor Salviati, vi servite di questa sorte di supposizioni, io comincierò a non mi maravigliar che voi concludiate conclusioni falsissime.

SALV. Avete dunque per sicurissimo ch'ella si moverebbe verso il declive spontaneamente?

SIMP. Che dubbio?

SALV. E questo lo tenete per fermo, non perché io ve l'abbia insegnato (perché io cercavo di persuadervi il contrario), ma per voi stesso e per il vostro giudizio naturale.

SIMP. Ora intendo il vostro artifizio: voi dicevi cosí per tentarmi e (come si dice dal vulgo) per iscalzarmi, ma non che in quella guisa credeste veramente.

SALV. Cosí sta. E quanto durerebbe a muoversi quella palla, e con che velocità? E avvertite che io ho nominata una palla perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito, per rimuover tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii: e cosí voglio che voi astragghiate dall'impedimento dell'aria, mediante la sua resistenza all'essere aperta, e tutti gli altri ostacoli accidentarii, se altri ve ne potessero essere.

SIMP. Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla vostra domanda, rispondo che ella continuerebbe a muoversi in infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato continuamente; ché tale è la natura de i mobili gravi, che vires acquirant eundo: e quanto maggior fusse la declività, maggior sarebbe la velocità.

SALV. Ma quand'altri volesse che quella palla si movesse all'insú sopra quella medesima superficie, credete voi che ella vi andasse?

SIMP. Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con violenza gettatavi.

SALV. E quando da qualche impeto violentemente impressole ella fusse spinta, quale e quanto sarebbe il suo moto?

SIMP. Il moto andrebbe sempre languendo e ritardandosi, per esser contro a natura, e sarebbe piú lungo o piú breve secondo il maggiore o minore impulso e secondo la maggiore o minore acclività.

SALV. Parmi dunque sin qui che voi mi abbiate esplicati gli accidenti d'un mobile sopra due diversi piani; e che nel piano inclinato il mobile grave spontaneamente descende e va continuamente accelerandosi, e che a ritenervelo in quiete bisogna usarvi forza; ma sul piano ascendente ci vuol forza a spignervelo ed anco a fermarvelo, e che 'l moto impressogli va continuamente scemando, sí che finalmente si annichila. Dite ancora di piú che nell'un caso e nell'altro nasce diversità dall'esser la declività o acclività del piano, maggiore o minore; sí che alla maggiore inclinazione segue maggior velocità, e, per l'opposito, sopra 'l piano acclive il medesimo mobile cacciato dalla medesima forza in maggior distanza si muove quanto l'elevazione è minore. Ora ditemi quel che accaderebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fusse né acclive né declive.

SIMP. Qui bisogna ch'io pensi un poco alla risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere inclinazione naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi può esser resistenza all'esser mosso, talché verrebbe ad essere indifferente tra la propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che e' dovrebbe restarvi naturalmente fermo. Ma io sono smemorato, perché non è molto che 'l signor Sagredo mi fece intender che cosí seguirebbe.

SALV. Cosí credo, quando altri ve lo posasse fermo; ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe?

SIMP. Seguirebbe il muoversi verso quella parte.

SALV. Ma di che sorte di movimento? di continuamente accelerato, come ne' piani declivi, o di successivamente ritardato, come negli acclivi?

SIMP. Io non ci so scorgere causa di accelerazione né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività.

SALV. Sì. Ma se non vi fusse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser di quiete: quanto dunque vorreste voi che il mobile durasse a muoversi?

SIMP. Tanto quanto durasse la lunghezza di quella superficie né erta né china.

SALV. Adunque se tale spazio fusse interminato, il moto in esso sarebbe parimente senza termine, cioè perpetuo?

SIMP. Parmi di sí, quando il mobile fusse di materia da durare.

SALV. Già questo si è supposto, mentre si è detto che si rimuovano tutti gl'impedimenti accidentarii ed esterni, e la fragilità del mobile, in questo fatto, è un degli impedimenti accidentarii. Ditemi ora: quale stimate voi la cagione del muoversi quella palla spontaneamente sul piano inclinato, e non, senza violenza, sopra l'elevato?

SIMP. Perché l'inclinazion de' corpi gravi è di muoversi verso 'l centro della Terra, e solo per violenza in su verso la circonferenza; e la superficie inclinata è quella che acquista vicinità al centro, e l'acclive discostamento.

SALV. Adunque una superficie che dovesse esser non declive e non acclive, bisognerebbe che in tutte le sue parti fusse egualmente distante dal centro. Ma di tali superficie ve n'è egli alcuna al mondo?

SIMP. Non ve ne mancano: ècci quella del nostro globo terrestre, se però ella fusse ben pulita, e non, quale ella è, scabrosa e montuosa; ma vi è quella dell'acqua, mentre è placida e tranquilla.

SALV. Adunque una nave che vadia movendosi per la bonaccia del mare, è un di quei mobili che scorrono per una di quelle superficie che non sono né declivi né acclivi, e però disposta, quando le fusser rimossi tutti gli ostacoli accidentarii ed esterni, a muoversi, con l'impulso concepito una volta, incessabilmente e uniformemente

SIMP. Par che deva esser cosí.

SALV. E quella pietra ch'è su la cima dell'albero non si muov'ella, portata dalla nave, essa ancora per la circonferenza d'un cerchio intorno al centro, e per conseguenza d'un moto indelebile in lei, rimossi gli impedimenti esterni? e questo moto non è egli cosí veloce come quel della nave?

SIMP. Sin qui tutto cammina bene. Ma il resto?

SALV. Cavatene in buon'ora l'ultima conseguenza da per voi, se da per voi avete sapute tutte le premesse.

SIMP. Voi volete dir per ultima conclusione, che movendosi quella pietra d'un moto indelebilmente impressole, non l'è per lasciare, anzi è per seguire la nave, ed in ultimo per cadere nel medesimo luogo dove cade quando la nave sta ferma; e cosí dico io ancora che seguirebbe quando non ci fussero impedimenti esterni, che sturbassero il movimento della pietra dopo esser posta in libertà: li quali impedimenti son due; l'uno è l'essere il mobile impotente a romper l'aria col suo impeto solo, essendogli mancato quello della forza de' remi, del quale era partecipe, come parte della nave, mentre era su l'albero; l'altro è il moto novello del cadere a basso, che pur bisogna che sia d'impedimento all'altro progressivo.

SALV. Quanto all'impedimento dell'aria, io non ve lo nego; e quando il cadente fusse materia leggiera, come una penna o un fiocco di lana, il ritardamento sarebbe molto grande; ma in una pietra grave, è piccolissimo: e voi stesso poco fa avete detto che la forza del piú impetuoso vento non basta a muover di luogo una grossa pietra; or pensate quel che farà l'aria quieta incontrata dal sasso, non piú veloce di tutto 'l navilio. Tuttavia, come ho detto, vi concedo questo piccolo effetto, che può dependere da tale impedimento; sí come so che voi concederete a me che quando l'aria si movesse con l'istessa velocità della nave e del sasso, l'impedimento sarebbe assolutamente nullo. Quanto all'altro, del sopravegnente moto in giú, prima è manifesto che questi due, dico il circolare intorno al centro e 'l retto verso 'l centro, non son contrarii né destruttivi l'un dell'altro né incompatibili, perché, quanto al mobile, ei non ha repugnanza alcuna a cotal moto: ché già voi stesso avete conceduto, la repugnanza esser contro al moto che allontana dal centro, e l'inclinazione, verso il moto che avvicina al centro; onde necessariamente segue che al moto che non appressa né discosta dal centro, non ha il mobile né repugnanza né propensione né, in conseguenza, cagione di diminuirsi in lui la facultà impressagli: e perché la causa motrice non è una sola, che si abbia, per la nuova operazione, a inlanguidire, ma son due tra loro distinte, delle quali la gravità attende solo a tirare il mobile al centro, e la virtú impressa a condurlo intorno al centro, non resta occasione alcuna d'impedimento.

SIMP. Il discorso veramente è in apparenza assai probabile, ma in essenza turbato un poco da qualche intoppo mal agevole a superarsi. Voi in tutto 'l progresso avete fatta una supposizione, che dalla scuola peripatetica non di leggiero vi sarà conceduta, essendo contrariissima ad Aristotile: e questa è il prender come cosa notoria e manifesta che 'l proietto separato dal proiciente continui il moto per virtú impressagli dall'istesso proiciente, la qual virtú impressa è tanto esosa nella peripatetica filosofia, quanto il passaggio d'alcuno accidente d'uno in un altro suggetto: nella qual filosofia si tiene, come credo che vi sia noto, che 'l proietto sia portato dal mezo, che nel nostro caso viene ad esser l'aria e però se quel sasso, lasciato dalla cima dell'albero, dovesse seguire il moto della nave, bisognerebbe attribuire tal effetto all'aria, e non a virtú impressagli: ma voi supponete che l'aria non séguiti il moto della nave, ma sia tranquilla. Oltre che colui che lo lascia cadere, non l'ha a scagliare né dargli impeto col braccio, ma deve semplicemente aprir la mano e lasciarlo: e cosí, né per virtú impressagli dal proiciente, né per benefizio dell'aria, potrà il sasso seguire 'l moto della nave, e però resterà indietro.

SALV. Parmi dunque di ritrar dal vostro parlare, che non venendo la pietra cacciata dal braccio di colui, la sua non venga altrimenti ad essere una proiezione.

SIMP. Non si può propriamente chiamar moto di proiezione.

SALV. Quello dunque che dice Aristotile del moto, del mobile e del motore de i proietti, non ha che fare nel nostro proposito; e se non ci ha che fare, perché lo producete?

SIMP. Producolo per amor di quella virtú impressa, nominata ed introdotta da voi, la quale, non essendo al mondo, non può operar nulla, perché non entium nullæ sunt operationes; e però non solo del moto de i proietti, ma di ogn'altro che non sia naturale, bisogna attribuirne la causa motrice al mezo, del quale non si è avuta la debita considerazione; e però il detto sin qui resta inefficace.

SALV. Orsú tutto in buon'ora. Ma ditemi: già che la vostra instanza si fonda tutta su la nullità della virtú impressa, quando io vi abbia dimostrato che 'l mezo non ha che fare nella continuazion del moto de' proietti, dopo che son separati dal proiciente, lascierete voi in essere la virtú impressa, o pur vi moverete con qualch'altr'assalto alla sua destruzione?

SIMP. Rimossa l'azione del mezo, non veggo che si possa ricorrere ad altro che alla facultà impressa dal movente.

SALV. Sarà bene, per levare il piú che sia possibile le cause dell'andarsene in infinito con le altercazioni, che voi quanto si può distintamente spianiate qual sia l'operazione del mezo nel continuar il moto al proietto.

SIMP. Il proiciente ha il sasso in mano; muove con velocità e forza il braccio, al cui moto si muove non piú il sasso che l'aria circonvicina, onde il sasso, nell'esser abbandonato dalla mano, si trova nell'aria che già si muove con impeto, e da quella vien portato: che se l'aria non operasse, il sasso cadrebbe dalla mano al piede del proiciente.

SALV. E voi sete stato tanto credulo che vi sete lasciato persuader queste vanità, mentre in voi stesso avevi i sensi da confutarle e da intenderne il vero? Però ditemi: quella gran pietra e quella palla d'artiglieria che, posata solamente sopra una tavola, restava immobile contro a qualsivoglia impetuoso vento, secondo che voi poco fa affermaste, se fusse stata una palla di sughero o altrettanta bambagia, credete che il vento l'avesse mossa di luogo?

SIMP. Anzi so certo che l'averebbe portata via, e tanto piú velocemente, quanto la materia fusse stata piú leggiera; ché per questo veggiamo noi le nugole esser portate con velocità pari a quella del vento stesso che le spigne.

SALV. E 'l vento che cosa è?

SIMP. Il vento si definisce, non esser altro che aria mossa.

SALV. Adunque l'aria mossa molto piú velocemente e 'n maggior distanza traporta le materie leggierissime che le gravissime?

SIMP. Sicuramente.

SALV. Ma quando voi aveste a scagliar col braccio un sasso, e poi un fiocco di bambagia, chi si moverebbe con piú velocità e in maggior lontananza?

SIMP. La pietra assaissimo; anzi la bambagia mi cascherebbe a i piedi.

SALV. Ma se quel che muove il proietto, doppo l'esser lasciato dalla mano, non è altro che l'aria mossa dal braccio, e l'aria mossa piú facilmente spigne le materie leggiere che le gravi, come dunque il proietto di bambagia non va piú lontano e piú veloce di quel di pietra? bisogna pure che nella pietra resti qualche cosa, oltre al moto dell'aria. Di piú, se da quella trave pendessero due spaghi lunghi egualmente, e in capo dell'uno fusse attaccata una palla di piombo, e una di bambagia nell'altro, ed amendue si allontanassero egualmente dal perpendicolo, e poi si lasciassero in libertà, non è dubbio che l'una e l'altra si moverebbe verso 'l perpendicolo, e che spinta dal proprio impeto lo trapasserebbe per certo intervallo, e poi vi ritornerebbe. Ma qual di questi due penduli credete voi che durasse piú a muoversi, prima che fermarsi a piombo?

SIMP. La palla di piombo andrà in qua e 'n là mille volte, e quella di bambagia dua o tre al piú.

SALV. Talché quell'impeto e quella mobilità, qualunque se ne sia la causa, piú lungamente si conserva nelle materie gravi che nelle leggieri. Vengo ora a un altro punto, e vi domando: perché l'aria non porta via adesso quel cedro ch'è su quella tavola?

SIMP. Perché ella stessa non si muove.

SALV. Bisogna dunque che il proiciente conferisca il moto all'aria, col quale ella poi muova il proietto. Ma se tal virtú non si può imprimere, non si potendo far passare un accidente d'un subbietto in un altro, come può passare dal braccio nell'aria? non è forse l'aria un subbietto altro dal braccio?

SIMP. Rispondesi che l'aria, per non esser né grave né leggiera nella sua regione, è disposta a ricevere facilissimamente ogni impulso ed a conservarlo ancora.

SALV. Ma se i penduli adesso adesso ci hanno mostrato che il mobile, quanto meno participa di gravità, tanto è meno atto a conservare il moto, come potrà essere che l'aria, che in aria non ha punto di gravità, essa sola conservi il moto concepito? Io credo, e so che voi ancora credete al presente, che non prima si ferma il braccio, che l'aria attornogli. Entriamo in camera, e con uno sciugatoio agitiamo quanto piú si possa l'aria, e fermato il panno conducasi una piccola candeletta accesa nella stanza, o lascivisi andare una foglia d'oro volante; che voi dal vagar quieto dell'una e dell'altra v'accorgerete dell'aria ridotta immediatamente a tranquillità. Io potrei addurvi mille esperienze, ma dove non bastasse una di queste, si potrebbe aver la cura per disperata affatto.

SAGR. Quando si tira una freccia contr'al vento, quanto è incredibil cosa che quel filetto d'aria, spinto dalla corda vadia al dispetto della fortuna accompagnando la freccia! Ma io ancora vorrei sapere un particolare da Aristotile, per il quale prego il signor Simplicio che mi favorisca di risposta. Quando col medesimo arco fussero tirate due freccie, una per punta al modo consueto, e l'altra per traverso, cioè posandola per lo lungo su la corda, e cosí distesa tirandola, vorrei sapere qual di esse andrebbe piú lontana. Favoritemi in grazia di risposta, benché forse la dimanda vi paia piú tosto ridicola che altrimenti; e scusatemi, perché io, che ho, come voi vedete, anzi del grossetto che no, non arrivo piú in alto con la mia speculativa.

SIMP. Io non ho veduto mai tirar le freccie per traverso: tuttavia credo che intraversata non andrebbe né anco la ventesima parte di quel ch'ella va per punta.

SAGR. E perché io ho creduto l'istesso, quindi è che mi è nata occasione di metter dubbio tra 'l detto d'Aristotile e l'esperienza. Perché, quanto all'esperienza, s'io metterò sopra quella tavola due freccie in tempo che spiri vento gagliardo, una posata per il filo del vento e l'altra intraversata il vento porterà via speditamente questa e lascierà star l'altra: ed il medesimo par che dovesse accadere, quando la dottrina d'Aristotile fusse vera, delle due tirate con l'arco; imperocché la traversa vien cacciata da una gran quantità dell'aria mossa dalla corda, cioè da tanta quanta è la sua lunghezza, dove che l'altra freccia non riceve impulso da piú aria che si sia il piccolissimo cerchietto della sua grossezza: ed io non so immaginarmi la cagione di tal diversità, e desidererei di saperla.

SIMP. La causa mi par assai manifesta, ed è perché la freccia tirata per punta ha a penetrar poca quantità d'aria, e l'altra ne ha da fender tanta quanta è tutta la sua lunghezza.

SAGR. Adunque le freccie tirate hanno a penetrar l'aria? Oh se l'aria va con loro, anzi è quella che le conduce, che penetrazione vi può essere? non vedete voi che a questo modo bisognerebbe che la freccia si movesse con maggior velocità che l'aria? e questa maggior velocità, chi la conferisce alla freccia? vorrete voi dir che l'aria le dia velocità maggiore della sua propria? Intendete dunque, signor Simplicio, che 'l negozio procede per l'appunto a rovescio di quel che dice Aristotile, e che tanto è falso che 'l mezo conferisca il moto al proietto, quanto è vero che egli solo è che gli arreca impedimento: e inteso questo, intenderete senza trovar difficultà che quando l'aria si muove veramente, molto meglio porta seco la freccia per traverso che per lo dritto, perché molta è l'aria che la spigne in quella postura, e pochissima in questa; ma tirate con l'arco, perché l'aria sta ferma, la freccia traversa, percotendo in molt'aria, molto viene impedita, e l'altra per punta facilissimamente supera l'ostacolo della minima quantità d'aria che se le oppone.

SALV. Quante proposizioni ho io notate in Aristotile (intendendo sempre nella filosofia naturale), che sono non pur false, ma false in maniera, che la sua diametralmente contraria è vera, come accade di questa! Ma seguitando il nostro proposito, credo che il signor Simplicio resti persuaso che dal veder cader la pietra nel medesimo luogo sempre, non si possa conietturare circa il moto o la stabilità della nave; e quando il detto sin qui non gli bastasse, ci è l'esperienza di mezo, che lo potrà del tutto assicurare: nella quale esperienza, al piú che e' potesse vedere, sarebbe il rimanere indietro il mobile cadente, quando e' fusse di materia assai leggiera e che l'aria non seguisse il moto della nave; ma quando l'aria si movesse con pari velocità, niuna immaginabil diversità si troverebbe né in questa né in qualsivoglia altra esperienza, come appresso son per dirvi. Or, quando in questo caso non apparisca diversità alcuna, che si deve pretender di veder nella pietra cadente dalla sommità della torre, dove il movimento in giro è alla pietra non avventizio e accidentario, ma naturale ed eterno, e dove l'aria segue puntualmente il moto della torre, e la torre quel del globo terrestre? Avete voi, signor Simplicio, da replicar altro sopra questo particulare?

SIMP. Non altro, se non che non veggio sin qui provata la mobilità della Terra.

SALV. Né io tampoco ho preteso di provarla, ma solo di mostrare come dall'esperienza portata da gli avversarii per argomento della fermezza non si può cavar nulla; sí come credo mostrar dell'altre.

SAGR. Di grazia, signor Salviati, prima che passare ad altro, concedetemi che io metta in campo certa difficultà che mi si è raggirata per la fantasia mentre voi stavi con tanta flemma sminuzolando al signor Simplicio questa esperienza della nave.

SALV. Noi siam qui per discorrere, ed è bene che ogn'uno muova le difficultà che gli sovvengono, ché questa è la strada per venir in cognizion del vero. Però dite.

SAGR. Quando sia vero che l'impeto col quale si muove la nave resti impresso indelebilmente nella pietra, dopo che s'è separata dall'albero, e sia in oltre vero che questo moto non arrechi impedimento o ritardamento al moto retto all'ingiú, naturale alla pietra, è forza che ne segua un effetto meraviglioso in natura. Stia la nave ferma, e sia il tempo della caduta d'un sasso dalla cima dell'albero due battute di polso: muovasi poi la nave, e lascisi andar dal medesimo luogo l'istesso sasso, il quale, per le cose dette, metterà pur il tempo di due battute ad arrivare a basso, nel qual tempo la nave avrà, verbigrazia, scorso venti braccia, talché il vero moto della pietra sarà stato una linea trasversale, assai piú lunga della prima retta e perpendicolare, che è la sola lunghezza dell'albero: tuttavia la palla l'avrà passata nel medesimo tempo. Intendasi di nuovo il moto della nave accelerato assai piú, sí che la pietra nel cadere dovrà passare una trasversale ancor piú lunga dell'altra; ed insomma, crescendosi la velocità della nave quanto si voglia, il sasso cadente descriverà le sue trasversali sempre piú e piú lunghe, e pur tutte le passerà nelle medesime due battute di polso: ed a questa similitudine, quando in cima di una torre fusse una colubrina livellata, e con essa si tirassero tiri di punto bianco, cioè paralleli all'orizonte, per poca o molta carica che si desse al pezzo, sí che la palla andasse a cadere ora lontana mille braccia, or quattro mila, or sei mila, or dieci mila etc., tutti questi tiri si spedirebbero in tempi eguali tra di loro, e ciascheduno eguale al tempo che la palla consumerebbe a venire dalla bocca del pezzo sino in terra, lasciata, senz'altro impulso, cadere semplicemente giú a perpendicolo. Or par meravigliosa cosa che nell'istesso breve tempo della caduta a piombo sino in terra dall'altezza, verbigrazia, di cento braccia, possa la medesima palla, cacciata dal fuoco, passare or quattrocento, or mille, or quattromila, ed or diecimila braccia, sí che la palla in tutti i tiri di punto bianco si trattenga sempre in aria per tempi eguali.

SALV. La considerazione per la sua novità è bellissima, e quando l'effetto sia vero, è meraviglioso: e della sua verità io non ne dubito; e quando non ci fusse l'impedimento accidentario dell'aria, io tengo per fermo che se nell'uscir la palla del pezzo si lasciasse cader un'altra dalla medesima altezza giú a piombo, amendue arriverebbero in terra nel medesimo instante, ancorché quella avesse camminato diecimila braccia di distanza, e questa cento solamente; intendendo che il piano della Terra fusse eguale, che per sicurezza si potrebbe tirare sopra qualche lago. L'impedimento poi che potesse venir dall'aria, sarebbe nel ritardar il moto velocissimo del tiro. Or, se cosí vi piace, venghiamo alle soluzioni degli altri argomenti, già che il signor Simplicio resta (per quanto io mi creda) ben capace della nullità di questo primo, preso da i cadenti da alto a basso.

SIMP. Io non mi sento rimossi tutti gli scrupoli; e forse il difetto è mio, per non esser di cosí facile e veloce apprensiva come il signor Sagredo. E parmi che quando questo moto participato dalla pietra, mentre era su l'albero della nave, s'avesse, come voi dite, a conservar indelebilmente in lei, dopo ancora che si trova separata dalla nave, bisognerebbe che similmente quando alcuno, sendo sopra un cavallo che corresse velocemente, si lasciasse cader di mano una palla, quella, caduta in terra, continuasse il suo moto e seguitasse il corso del cavallo senza restargli a dietro: il quale effetto non credo io che si vegga, se non quando colui ch'è sul cavallo la gettasse con forza verso la parte del corso; ma senza questo, credo ch'ella resterà in terra dov'ella percuote.

SALV. Io credo che voi v'inganniate d'assai, e son sicuro che l'esperienza vi mostrerà il contrario, e che la palla, arrivata che sia in terra, correrà insieme col cavallo, né gli resterà indietro se non quanto l'asprezza ed inegualità della strada l'impedirà: e la ragione mi par pure assai chiara. Imperocché, quando voi, stando fermo, tiraste per terra la medesima palla, non continuerebbe ella il moto anco fuor della vostra mano? e per tanto piú lungo intervallo, quanto la superficie fusse piú eguale, sí che, verbigrazia, sopra il ghiaccio andrebbe lontanissima?

SIMP. Questo non ha dubbio, quando io gli do impeto col braccio; ma nell'altro caso si suppone che colui che è sul cavallo la lasci solamente cadere.

SALV. Cosí voglio io che segua. Ma quando voi la tirate col braccio, che altro rimane alla palla, uscita che ella vi è di mano, che il moto concepito dal vostro braccio, il quale, in lei conservato, continua di condurla innanzi? ora, che importa che quell'impeto sia conferito alla palla piú dal vostro braccio che dal cavallo? mentre che voi sete a cavallo, non corre la vostra mano, ed in conseguenza la palla, cosí veloce come il cavallo stesso? certo sí; adunque, nell'aprir solamente la mano, la palla si parte col moto già concepito non dal vostro braccio per moto vostro particolare, ma dal moto dependente dall'istesso cavallo, che vien comunicato a voi, al braccio, alla mano, e finalmente alla palla. Anzi voglio dirvi di piú, che se colui nel correre getterà col braccio la palla al contrario del corso, ella, arrivata che sia in terra, talvolta, ancorché scagliata al contrario, pur seguiterà il corso del cavallo, e talvolta resterà ferma in terra, e solamente si muoverà all'opposito del corso, quando il moto ricevuto dal braccio superasse in velocità quello della carriera. Ed è una vanità quella di alcuni che dicono, potersi dal cavaliere lanciare una zagaglia per aria verso la parte del corso, e col cavallo seguirla e raggiugnerla e finalmente ripigliarla: e dico una vanità, perché a far che il proietto vi torni in mano, bisogna tirarlo all'insú, nel modo medesimo che se altri stesse fermo; perché, sia pure il corso quanto si voglia veloce, purché sia uniforme ed il proietto non sia una cosa leggierissima, sempre ricaderà in mano al proiciente, e sia pur gettato in alto quanto si voglia.

SAGR. Da questa dottrina io vengo in cognizione di alcuni problemi assai curiosi, in materia di questi proietti; il primo de' quali dovrà parer molto strano al signor Simplicio. E il problema è questo: ch'io dico che è possibile che lasciata cader semplicemente la palla da uno che in qualsivoglia modo corra velocemente, arrivata che ella sia in terra, non solo segua il corso di colui, ma di assai lo anticipi; il qual problema è connesso con questo, che il mobile lanciato dal proiciente sopra il piano dell'orizonte, può acquistar nuova velocità, maggiore assai della conferitagli da esso proiciente. Il quale effetto ho io piú volte con ammirazione osservato nello stare a veder costoro che giuocano a tirar con le ruzzole, le quali si veggono, uscite che son della mano, andar per aria con certa velocità, la qual poi se gli accresce assai nell'arrivare in terra; e se ruzzolando urtano in qualche intoppo che le faccia sbalzare in alto, si veggono per aria andar assai lentamente, e ricadute in terra pur tornano a muoversi con velocità maggiore: ma quel che è ancora piú stravagante, ho io ancora osservato che non solamente vanno sempre piú veloci per terra che per aria, ma di due spazi fatti amendue per terra, tal volta un moto nel secondo spazio è piú veloce che nel primo. Or che direbbe qui il signor Simplicio?

SIMP. Direi, la prima cosa, di non aver fatta cotale osservazione; secondariamente, direi di non la credere; direi poi, nel terzo luogo, che, quando voi me ne accertaste e che demostrativamente me l'insegnaste, voi fuste un gran demonio.

SAGR. Di quelli però di Socrate, non di quei dell'Inferno. Ma voi pur tornate su questo insegnare; io vi dico che quando uno non sa la verità da per sé, è impossibile che altri gliene faccia sapere; posso bene insegnarvi delle cose che non son né vere né false, ma le vere, cioè le necessarie, cioè quelle che è impossibile ad esser altrimenti, ogni mediocre discorso o le sa da sé o è impossibile che ei le sappia mai: e cosí so che crede anco il signor Salviati. E però vi dico che de i presenti problemi le ragioni son sapute da voi, ma forse non avvertite.

SIMP. Lasciamo per ora questa disputa, e concedetemi ch'io dica che non intendo né so queste cose che si trattano, e vedete pur di farmi restar capace de' problemi.

SAGR. Questo primo depende da un altro; il quale è, onde avvenga che, tirando la ruzzola con lo spago, assai piú lontano ed in conseguenza con maggior forza va, che tirata con la semplice mano.

SIMP. Aristotile ancora fa non so che problemi intorno a questi proietti.

SALV. Sì, e molto ingegnosi, ed in particolare quello onde avvenga che le ruzzole tonde vanno meglio che le quadre.

SAGR. E di questo, signor Simplicio, non vi darebbe l'animo di sapere la ragione, senza altrui insegnamento?

SIMP. Sì bene, sì bene; ma lasciamo le beffe.

SAGR. Tanto sapete ancora la ragion di quest'altro. Ditemi dunque: sapete che una cosa che si muova, quando vien impedita si ferma?

SIMP. Sollo; quando però l'impedimento è tanto che basti.

SAGR. Sapete voi che maggiore impedimento arreca al mobile l'avere a muoversi per terra che per aria, essendo la terra scabrosa e dura, e l'aria molle e cedente?

SIMP. E perché so questo, so che la ruzzola andrà piú veloce per aria che per terra; talché il mio sapere è tutto all'opposito di quel che voi stimavi.

SAGR. Adagio, signor Simplicio. Sapete voi che nelle parti di un mobile che giri intorno al suo centro, si ritrovano movimenti verso tutte le bande? sí che altre ascendono altre descendono, altre vanno innanzi, altre all'indietro?

SIMP. Lo so, ed Aristotile me l'ha insegnato.

SAGR. E con qual dimostrazione? ditemela di grazia.

SIMP. Con quella del senso.

SAGR. Adunque Aristotile vi ha fatto vedere quel che senza lui non avereste veduto? avrebbev'egli prestato mai i suoi occhi? Voi volevi dire che Aristotile ve l'aveva detto, avvertito, ricordato, e non insegnato. Quando dunque una ruzzola, senza mutar luogo, gira in se stessa, non parallela, ma eretta all'orizonte, alcune sue parti ascendono, le opposte descendono, le superiori vanno per un verso, l'inferiori per il contrario. Figuratevi ora una ruzzola che, senza mutar luogo, velocemente giri in se stessa e stia sospesa in aria, e che, in tal guisa girando, sia lasciata cadere in terra a perpendicolo: credete voi che arrivata che ella sarà in terra, seguiterà di girare in se stessa senza mutar luogo, come prima?

SIMP. Signor no.

SAGR. Ma che farà?

SIMP. Correrà per terra velocemente.

SAGR. E verso qual parte?

SIMP. Verso quella dove la porterà la sua vertigine.

SAGR. Nella sua vertigine ci son delle parti, cioè le superiori, che si muovono al contrario delle inferiori; però bisogna dire a quali ella ubidirà: ché quanto alle parti ascendenti e descendenti, l'une non cederanno all'altre, né 'l tutto andrà in giú, impedito dalla terra, né in su, per esser grave.

SIMP. Andrà la ruzzola girando per terra verso quella parte dove tendono le parti sue superiori.

SAGR. E perché non dove tendono le contrarie, cioè quelle che toccan terra?

SIMP. Perché quelle di terra vengono impedite dall'asprezza del toccamento, cioè dall'istessa scabrosità della terra; ma le superiori, che sono nell'aria tenue e cedente, sono impedite pochissimo o niente, e però la ruzzola andrà per il loro verso.

SAGR. Talché quell'attaccarsi, per cosí dire, le parti di sotto alla terra, fa ch'elle restano, e solo si spingono avanti le superiori.

SALV. E però quando la ruzzola cadesse sul ghiaccio o altra superficie pulitissima, non cosí bene scorrerebbe innanzi, ma potrebbe per avventura continuar di girare in se stessa, senza acquistar altro moto progressivo.

SAGR. È facil cosa che cosí seguisse; ma almeno non cosí speditamente andrebbe ruzzolando, come cadendo su la superficie alquanto aspra. Ma dicami il signor Simplicio: quando la ruzzola, girando velocemente in se stessa, vien lasciata cadere, perché non va ella anche per aria innanzi, come fa poi quando è in terra?

SIMP. Perché, avendo aria di sopra e di sotto, né queste parti né quelle hanno dove attaccarsi, e non avendo occasione di andar piú innanzi che indietro, cade a piombo.

SAGR. Talché la sola vertigine in se stessa, senz'altro impeto, può spigner la ruzzola, arrivata che sia in terra, assai velocemente. Or venghiamo al resto. Quello spago che il ruzzolante si lega al braccio, e col quale, avvolto intorno alla ruzzola, e' la tira, che effetto fa in essa?

SIMP. La costringe a girare in se stessa, per isvilupparsi dalla corda.

SAGR. Talché quando la ruzzola arriva in terra, ella vi giugne girando in se stessa, mercé dello spagno. Non ha ella dunque cagione in se stessa di muoversi più velocemente per terra, che ella non faceva mentre era per aria?

SIMP. Certo sí: perché per aria non aveva altro impulso che quel del braccio del proiciente, e se ben aveva ancora la vertigine, questa (come si è detto) per aria non spigne punto; ma arrivando in terra, al moto del braccio s'aggiugne la progressione della vertigine, onde la velocità si raddoppia. E già intendo benissimo che rimbalzando la ruzzola in alto, la sua velocità scemerà, perché l'aiuto della circolazione gli manca; e nel ricadere in terra lo viene a racquistare, e però torna a muoversi piú velocemente che per aria. Restami solo da intender che in questo secondo moto per terra ella vadia piú velocemente che nel primo, perchè cosí ella si moverebbe in infinito, accelerandosi sempre.

SAGR. Io non ho detto assolutamente che questo secondo moto sia piú veloce del primo, ma che può talvolta accader ch'e' sia piú veloce.

SIMP. Questo è quello ch'io non capisco e ch'io vorrei intendere.

SAGR. E questo ancora sapete per voi stesso. Però ditemi: quando voi vi lasciaste cader la ruzzola di mano senza che ella girasse in se stessa, che farebbe percotendo in terra?

SIMP. Niente, ma resterebbe quivi.

SAGR. Non potrebb'egli accadere che nel percuotere in terra ella acquistasse moto? pensateci meglio.

SIMP. Se noi non la lasciassimo cadere su qualche pietra che avesse pendio, come fanno i fanciulli con le chiose, e che battendo a sbiescio su la pietra pendente acquistasse movimento in se stessa in giro, col quale poi ella seguitasse di muoversi progressivamente in terra, non saprei in qual altra maniera ella potesse far altro che fermarsi dove ella battesse.

SAGR. Ecco pure che in qualche modo ella può acquistar nuova vertigine. Quando dunque la ruzzola sbalzata in alto ricade in giú, perché non può ella abbattersi a dare su lo sbiescio di qualche sasso fitto in terra e che abbia il pendio verso dove è il moto, ed acquistando, per tal percossa, nuova vertigine, oltre a quella prima dello spago, raddoppiar il suo moto, e farlo piú veloce che non fu nel suo primo battere in terra?

SIMP. Ora intendo che ciò può facilmente seguire. E vo considerando che quando la ruzzola si facesse girare al contrario, nell'arrivare in terra farebbe contrario effetto, cioè il moto della vertigine ritarderebbe quel del proiciente.

SAGR. E lo ritarderebbe, e l'impedirebbe tal volta del tutto, quando la vertigine fusse assai veloce. E di qui nasce la soluzione di quell'effetto che i giuocatori di palla a corda piú esperti fanno con lor vantaggio, cioè d'ingannar l'avversario col trinciar (che tale è il loro termine) la palla, cioè rimetterla con la racchetta obliqua, in modo che ella acquisti una vertigine in se stessa contraria al moto proietto; dal che ne séguita che, nell'arrivare in terra, il balzo che, quando la palla non girasse, andrebbe verso l'avversario, porgendoli il consueto tempo di poterla rimettere, resta come morto, e la palla si schiaccia in terra, o meno assai del solito ribalza, e rompe il tempo della rimessa. Per questo anco si veggono quelli che giuocano con palle di legno a chi piú s'accosta a un segno determinato, quando giuocano in una strada sassosa e piena d'intoppi, da far deviar in mille modi la palla né punto andar verso il segno, per isfuggirli tutti, gettar la palla non ruzzolando per terra, ma di posta per aria, come se avessero a gettare una piastra piana; ma perché nel gettar la palla ella esce di mano con qualche vertigine conferitale dalle dita, tuttavoltaché la mano si tenesse sotto la palla, come comunemente si tiene, onde la palla, nel percuotere in terra presso al segno, tra 'l moto del proiciente e quel della vertigine scorrerebbe assai lontana, per far ch'ella si fermi, abbrancano artifiziosamente la palla, tenendo la mano di sopra e la palla di sotto, alla quale nello scappar vien conferita dalle dita la vertigine al contrario, per la quale, nel battere in terra vicino al segno, quivi si ferma o poco piú avanti scorre. Ma per tornar al principal problema, che è stato causa di far nascer questi altri, dico che è possibile che uno mosso velocissimamente si lasci uscir una palla di mano la quale, giunta che sia in terra, non solo séguiti il moto di colui, ma lo anticipi ancora, movendosi con velocità maggiore. E per vedere un tal effetto, voglio che il corso sia d'una carretta, alla quale per banda di fuori sia fermata una tavola pendente, sí che la parte inferiore resti verso i cavalli e la superiore verso le ruote di dietro. Ora, se nel maggior corso della carretta alcuno, che vi sia dentro, lascerà cadere una palla giú per il pendio di quella tavola, ella nel venir giú ruzzolando acquisterà vertigine in se stessa, la quale, aggiunta al moto impresso dalla carretta, porterà la palla per terra assai piú velocemente della carretta: e quando si accomodasse un'altra tavola pendente all'opposito, si potrebbe temperare il moto della carretta in modo, che la palla scorsa giú per la tavola, nell'arrivare in terra, restasse immobile, ed anco talvolta corresse al contrario della carretta. Ma troppo lungamente ci siam partiti dalla materia; e se il signor Simplicio resta appagato della soluzione del primo argomento contro alla mobilità della Terra, preso da i cadenti a perpendicolo, si potrà venire a gli altri.

SALV. Le digressioni fatte sin qui non son talmente aliene dalla materia che si tratta, che si possan chiamar totalmente separate da quella; oltreché dependono i ragionamenti da quelle cose che si vanno destando per la fantasia non a un solo, ma a tre, che anco, di piú, discorriamo per nostro gusto, né siamo obligati a quella strettezza che sarebbe uno che ex professo trattasse metodicamente una materia, con intenzione anco di publicarla. Non voglio che il nostro poema si astringa tanto a quella unità, che non ci lasci campo aperto per gli episodii, per l'introduzion de' quali dovrà bastarci ogni piccolo attaccamento, e quasi che noi ci fussimo radunati a contar favole, quella sia lecito dire a me, che mi farà sovvenire il sentir la vostra.

SAGR. Questo a me piace grandemente: e già che noi siamo in questa larghezza, siami lecito, prima che passare piú innanzi, ricercar da voi, signor Salviati, se mai vi è venuto pensato qual si possa credere che sia la linea descritta dal mobile grave, naturalmente cadente dalla cima della torre a basso; e se vi avete fatto sopra reflessione, ditemi in grazia il vostro pensiero.

SALV. Io ci ho talvolta pensato: e non dubito punto che quando altri fusse sicuro della natura del moto col quale il grave descende per condursi al centro del globo terrestre, mescolandolo poi col movimento comune circolare della conversion diurna, si troverrebbe precisamente qual sorte di linea sia quella che dal centro della gravità del mobile vien descritta nella composizion di tali due movimenti.

SAGR. Del semplice movimento verso il centro, dependente dalla gravità, credo che si possa assolutamente senza errore credere che sia per linea retta, quale appunto sarebbe quando la Terra fusse immobile.

SALV. Quanto a questa parte, non solamente possiamo crederla, ma l'esperienza ce ne rende certi.

SAGR. Ma come ce ne assicura l'esperienza, se noi non veggiamo mai altro moto che il composto delli due, circolare ed in giú?

SALV. Anzi pur, signor Sagredo, non veggiamo noi altro che il semplice in giú, avvenga che l'altro circolare, comune alla Terra alla torre ed a noi, resta impercettibile e come nullo, e solo ci resta notabile quello della pietra, non participato da noi; e di questo il senso dimostra che sia per linea retta, venendo sempre parallelo alla stessa torre, che sopra la superficie terrestre è fabbricata rettamente ed a perpendicolo.

SAGR. Avete ragione, e ben troppo dappoco mi son dimostrato, mentre non m'è sovvenuto una cosa sí facile. Ma già che questo è notissimo, che altro dite voi di desiderare per intender la natura di questo movimento a basso?

SALV. Non basta intender che sia retto, ma bisogna sapere se sia uniforme o pure difforme, cioè se mantenga sempre un'istessa velocità o pur si vadia ritardando o accelerando.

SAGR. Già è chiaro che si va accelerando continuamente.

SALV. Né questo basta, ma converrebbe sapere secondo qual proporzione si faccia tal accelerazione: problema, che sin qui non credo che sia stato saputo da filosofo né da matematico alcuno, ancorché da filosofi, ed in particolare Peripatetici, sieno stati volumi intieri, e grandissimi, scritti intorno al moto.

SIMP. I filosofi si occupano sopra gli universali principalmente; trovano le definizioni ed i piú comuni sintomi, lasciando poi certe sottigliezze e certi tritumi, che son poi piú tosto curiosità, a i matematici: ed Aristotile si è contentato di definire eccellentemente che cosa sia il moto in universale, e del locale mostrare i principali attributi, cioè che altro è naturale, altro violento, che altro è semplice, altro è composto, che altro è equabile, altro accelerato; e dell'accelerato si è contentato di render la ragione dell'accelerazione, lasciando poi l'investigazione della proporzione di tale accelerazione e di altri piú particolari accidenti al mecanico o ad altro inferiore artista.

SAGR. Tutto bene, signor Simplicio mio. Ma voi, signor Salviati, calandovi talvolta dal trono della maestà peripatetica, avete mai scherzato intorno all'investigazione di questa proporzione dell'accelerazione del moto de' gravi descendenti?

SALV. Non mi è stato bisogno di pensarvi, attesoché l'Accademico, nostro comun amico, mi mostrò già un suo trattato del moto, dove era dimostrato questo, con molti altri accidenti; ma troppo gran digressione sarebbe se per questo volessimo interromper il presente discorso, che pure esso ancora è una digressione, e far, come si dice, una commedia in commedia.

SAGR. Mi contento d'assolvervi da tal narrazione per al presente, con patto però che questa sia una delle proposizioni riservata da esaminarsi tra le altre in altra particolar sessione, perché tal notizia è da me desideratissima: ed intanto torniamo alla linea descritta dal grave cadente dalla sommità della torre sino alla sua base.

SALV. Quando il movimento retto verso il centro della Terra fusse uniforme, essendo anco uniforme il circolare verso oriente,. si verrebbe a comporre di amendue un moto per una linea spirale, di quelle definite da Archimede nel libro delle sue spirali, che sono quando un punto si muove uniformemente sopra una linea retta, mentre essa pur uniformemente si gira intorno a un de i suoi estremi punti, fisso come centro del suo rivolgimento. Ma perché il moto retto del grave cadente è continuamente accelerato, è forza che la linea del composto de i due movimenti si vadia sempre con maggior proporzione allontanando successivamente dalla circonferenza di quel cerchio che avrebbe disegnato il centro della gravità della pietra quando ella fusse restata sempre sopra la torre; e bisogna che questo allontanamento sul principio sia piccolo, anzi minimo, anzi pur minimissimo, avvengaché il grave descendente, partendosi dalla quiete, cioè dalla privazion del moto a basso, ed entrando nel moto retto in giú, è forza che passi per tutti i gradi di tardità che sono tra la quiete e qualsivoglia velocità, li quali gradi sono infiniti, sí come già a lungo si è discorso e concluso.

Stante dunque che tale sia il progresso dell'accelerazione, ed essendo oltre di ciò vero che il grave descendente va per terminare nel centro della Terra, bisogna che la linea del suo moto composto sia tale, che ben si vadia sempre con maggior proporzione allontanando dalla cima della torre, o, per dir meglio, dalla circonferenza del cerchio descritto dalla cima della torre per la conversion della Terra, ma che tali discostamenti sieno minori e minori in infinito, quanto meno e meno il mobile si trova essersi scostato dal primo termine dove posava. Oltre di ciò è necessario che questa tal linea del moto composto vadia a terminar nel centro della Terra. Or, fatti questi due presupposti, venni già descrivendo intorno al centro A col semidiametro A B il cerchio B I, rappresentantemi il globo terrestre; e prolungando il semidiametro AB in C, descrissi l'altezza della torre BC, la quale, portata dalla Terra sopra la circonferenza B I, descrive con la sua sommità l'arco C D; divisa poi la linea C A in mezo in E, col centro E, intervallo E C, descrivo il mezo cerchio C I A, per il quale dico ora che assai probabilmente si può credere che una pietra, cadendo dalla sommità della torre C, venga movendosi del moto composto del comune circolare e del suo proprio retto.

Imperocché, segnando nella circonferenza C D alcune parti eguali C F, F G, G H, H L, e da i punti F, G, H, L tirate verso il centro A linee rette, le parti di esse intercette fra le due circonferenze C D, B I ci rappresenteranno sempre la medesima torre C B, trasportata dal globo terrestre verso D I, nelle quali linee i punti dove esse vengono segate dall'arco del mezo cerchio C I sono i luoghi dove di tempo in tempo la pietra cadente si ritrova; li quali punti si vanno sempre con maggior proporzione allontanando dalla cima della torre, che è quello che fa che il moto retto fatto lungo la torre ci si mostra sempre piú e piú accelerato. Vedesi ancora come, mercé della infinita acutezza dell'angolo del contatto delli due cerchi D C, C I, il discostamento del cadente dalla circonferenza CFD, cioè dalla cima della torre, è verso il principio piccolissimo, che è quanto a dire il moto in giú esser lentissimo, e piú e piú tardo in infinito secondo la vicinità al termine C, cioè allo stato della quiete; e finalmente s'intende come in ultimo tal moto andrebbe a terminar nel centro della Terra A.

SAGR. Intendo perfettamente il tutto, né posso credere che 'l mobile cadente descriva col centro della sua gravità altra linea che una simile.

SALV. Ma piano, signor Sagredo; ché io ho da portarvi ancora tre mie meditazioncelle, che forse non vi dispiaceranno. La prima delle quali è, che se noi ben consideriamo, il mobile non si muove realmente d'altro che di un moto semplice circolare, sí come quando posava sopra la torre pur si muoveva di un moto semplice e circolare. La seconda è ancora piú bella: imperocché egli non si muove punto piú o meno che se fusse restato continuamente su la torre, essendo che a gli archi C F, F G, G H, etc., che egli avrebbe passati stando sempre su la torre, sono precisamente eguali gli archi della circonferenza C I rispondenti sotto gli stessi C F, F G, G H, etc. Dal che ne séguita la terza meraviglia: che il moto vero e reale della pietra non vien altrimenti accelerato, ma è sempre equabile ed uniforme, poiché tutti gli archi eguali notati nella circonferenza C D ed i loro corrispondenti segnati nella circonferenza C I vengono passati in tempi eguali. Talché noi venghiamo liberi di ricercar nuove cause di accelerazione o di altri moti, poiché il mobile, tanto stando su la torre quanto scendendone, sempre si muove nel modo medesimo, cioè circolarmente, con la medesima velocità e la medesima uniformità. Or ditemi quel che vi pare di questa mia bizzarria.

SAGR. Dicovi che non potrei a bastanza con parole esprimer quanto ella mi par maravigliosa: e per quanto al presente mi si rappresenta all'intelletto, io non credo che il negozio passi altrimenti; e volesse Dio che tutte le dimostrazioni de' filosofi avesser la metà della probabilità di questa. Vorrei bene, per mia intera sodisfazione, sentir la prova come quelli archi sieno eguali.

SALV. La dimostrazion è facilissima. Intendete esser tirata questa linea I E; ed essendo il semidiametro del cerchio C D, cioè la linea C A, doppio del semidiametro C E del cerchio C I, sarà la circonferenza doppia della circonferenza, ed ogn'arco del maggior cerchio doppio di ogni arco simile del minore, ed in conseguenza la metà dell'arco del cerchio maggiore eguale all'arco del minore: e perché l'angolo C E I, fatto nel centro E del minor cerchio e che insiste su l'arco C I, è doppio dell'angolo C A D, fatto nel centro A del cerchio maggiore, al quale suttende l'arco C D, adunque l'arco C D è la metà dell'arco del maggior cerchio simile all'arco C I, e però sono li due archi C D, C I eguali: e nell'istesso modo si dimostrerrà di tutte le parti. Ma che il negozio, quanto al moto de i gravi descendenti, proceda cosí puntualmente, io per ora non lo voglio affermare; ma dirò bene che se la linea descritta dal cadente non è questa per l'appunto, ella gli è sommamente prossima.

SAGR. Ma io, signor Salviati, vo pur ora considerando un'altra cosa mirabile: e questa è, che stanti queste considerazioni, il moto retto vadia del tutto a monte e che la natura mai non se ne serva, poiché anco quell'uso che da principio gli si concedette, che fu di ridurre al suo luogo le parti de i corpi integrali quando fussero dal suo tutto separate e però in prava disposizione costituite, gli vien levato, ed assegnato pur al moto circolare.

SALV. Questo seguirebbe necessariamente quando si fusse concluso, il globo terrestre muoversi circolarmente, cosa che io non pretendo che sia fatta, ma solamente si è andato sin qui, e si andrà, considerando la forza delle ragioni che vengono assegnate da i filosofi per prova dell'immobilità della Terra: delle quali questa prima, presa da i cadenti a perpendicolo, patisce le difficultà che avete sentite; le quali non so di quanto momento sieno parse al signor Simplicio, e però, prima che passare al cimento de gli altri argomenti, sarebbe bene ch'ei producesse se cosa ha da replicare in contrario.

SIMP. Quanto a questo primo, confesso veramente aver sentito varie sottigliezze alle quali non avevo pensato, e come che elle mi giungono nuove, non posso aver le risposte cosí in pronto. Ma questo, preso da i cadenti a perpendicolo, non l'ho per de i piú gagliardi argomenti per l'immobilità della Terra, e non so quello che accaderà de i tiri dell'artiglierie, e massime di quelli contro al moto diurno.

SAGR. Tanto mi desse fastidio il volar de gli uccelli, quanto mi fanno difficultà le artiglierie e tutte le altre esperienze arrecate di sopra! Ma questi uccelli, che ad arbitrio loro volano innanzi e 'n dietro e rigirano in mille modi, e, quel che importa piú, stanno le ore intere sospesi per aria, questi, dico, mi scompigliano la fantasia, né so intendere come tra tante girandole e' non ismarriscano il moto della Terra, o come e' possin tener dietro a una tanta velocità, che finalmente supera a parecchi e parecchi doppi il lor volo.

SALV. Veramente il dubitar vostro non è senza ragione, e forse il Copernico stesso non ne dovette trovar scioglimento di sua intera sodisfazione, e perciò per avventura lo tacque; se ben anco nell'esaminar l'altre ragioni in contrario fu assai conciso, credo per altezza d'ingegno, e fondato su maggiori e piú alte contemplazioni, nel modo che i leoni poco si muovono per l'importuno abbaiar de i picciol cani. Serberemo dunque l'instanza de gli uccelli in ultimo, e 'n tanto cercheremo di dar sodisfazione al signor Simplicio nell'altre, col mostrargli, al modo solito, che egli stesso ha le soluzioni in mano, se bene non se n'accorge. E facendo principio da i tiri di volata, fatti, col medesimo pezzo polvere e palla, l'uno verso oriente e l'altro verso occidente, dicami qual cosa sia quella che lo muove a credere che 'l tiro verso occidente (quando la revoluzion diurna fusse del globo terrestre) dovrebbe riuscir piú lungo assai che l'altro verso levante.

SIMP. Muovomi a cosí credere, perché nel tiro verso levante la palla, mentre che è fuori dell'artiglieria, viene seguita dall'istessa artiglieria, la quale, portata dalla Terra pur velocemente corre verso la medesima parte, onde la caduta della palla in terra vien poco lontana dal pezzo. All'incontro nel tiro occidentale, avanti che la palla percuota in terra, il pezzo si è ritirato assai verso levante, onde lo spazio tra la palla e'l pezzo, cioè il tiro, apparirà piú lungo dell'altro quanto sarà stato il corso dell'artiglieria, cioè della Terra, ne' tempi che amendue le palle sono state per aria.

SALV. Io vorrei che noi trovassimo qualche modo di far una esperienza corrispondente al moto di questi proietti, come quella della nave al moto de i cadenti da alto a basso, e vo pensando la maniera.

SAGR. Credo che prova assai accomodata sarebbe il pigliare una carrozzetta scoperta, ed accomodare in essa un balestrone da bolzoni a meza elevazione, acciò il tiro riuscisse il massimo di tutti, e mentre i cavalli corressero, tirare una volta verso la parte dove si corre, e poi un'altra verso la contraria, facendo benissimo notare dove si trova la carrozza in quel momento di tempo che 'l bolzone si ficca in terra, sí nell'uno come nell'altro tiro; ché cosí potrà vedersi per appunto quanto l'uno riesce maggior dell'altro.

SIMP. Parmi che tale esperienza sia molto accomodata; e non ho dubbio che 'l tiro, cioè che lo spazio tra la freccia e dove si trova la carrozza nel momento che la freccia si ficca in terra, sarà minore assai quando si tira verso il corso della carrozza, che quando si tira per l'opposito. Sia, per esempio, il tiro in se stesso trecento braccia, e 'l corso della carrozza, nel tempo che il bolzone sta per aria, sia braccia cento: adunque, tirandosi verso il corso, delle trecento braccia del tiro la carrozzetta ne passa cento, onde nella percossa del bolzone in terra lo spazio tra esso e la carrozza sarà braccia dugento solamente; ma all'incontro nell'altro tiro, correndo la carrozza al contrario del bolzone, quando il bolzone arà passate le sue trecento braccia e la carrozza le sua cento altre in contrario, la distanza traposta si troverà esser di braccia quattrocento.

SALV. Sarebbec'egli modo alcuno per far che questi tiri riuscissero eguali?

SIMP. Io non saprei altro modo che col far star ferma la carrozza.

SALV. Questo si sa: ma io domando, facendo correr la carrozza a tutto corso.

SIMP. Chi non ingagliardisse l'arco nel tirar secondo il corso, e poi l'indebolisse per tirar contro al corso.

SALV. Ecco dunque che pur ci è qualch'altro rimedio. Ma quanto bisognerebbe ingagliardirlo di piú, e quanto poi indebolirlo?

SIMP. Nell'esempio nostro, dove aviamo supposto che l'arco tirasse trecento braccia, bisognerebbe, per il tiro verso il corso, ingagliardirlo sí che tirasse braccia quattrocento, e per l'altro indebolirlo tanto che non tirasse piú di dugento, perché cosí l'uno e l'altro tiro riuscirebbe di braccia trecento in relazione alla carrozza, la quale col suo corso di cento braccia, che ella sottrarrebbe al tiro delle quattrocento e l'aggiugnerebbe a quel delle dugento, verrebbe a ridurgli amendue alle trecento.

SALV. Ma che effetto fa nella freccia la maggior o minor gagliardia dell'arco?

SIMP. L'arco gagliardo la caccia con maggior velocità, e 'l piú debole con minore; e l'istessa freccia va tanto piú lontana una volta che l'altra, con quanta maggior velocità ella esce della cocca l'una volta che l'altra.

SALV. Talché per far che la freccia tirata tanto per l'uno quanto per l'altro verso s'allontani egualmente dalla carrozza corrente, bisogna che se nel primo tiro dell'esempio proposto ella si parte, verbigrazia, con quattro gradi di velocità, nell'altro tiro ella si parta con due solamente. Ma se si adopra il medesimo arco, da esso ne riceve sempre tre gradi.

SIMP. Cosí è; e per questo, tirando con l'arco medesimo, nel corso della carrozza i tiri non posson riuscire eguali.

SALV. Mi ero scordato di domandar con che velocità si suppone, pur in questa esperienza particolare, che corra la carrozza.

SIMP. La velocità della carrozza bisogna supporla di un grado, in comparazione di quella dell'arco, che è tre.

SALV. Sí, sí, cosí torna il conto giusto. Ma ditemi: quando la carrozza corre, non si muovono ancora con la medesima velocità tutte le cose che son nella carrozza?

SIMP. Senza dubbio.

SALV. Adunque il bolzone ancora, e l'arco, e la corda su la quale è teso.

SIMP. Cosí è.

SALV. Adunque, nello scaricare il bolzone verso il corso della carrozza l'arco imprime i suoi tre gradi di velocità in un bolzone che ne ha già un grado, mercé della carrozza che verso quella parte con tanta velocità lo porta, talché nell'uscir della cocca e' si trova con quattro gradi di velocità; ed all'incontro, tirando per l'altro verso, il medesimo arco conferisce i suoi medesimi tre gradi in un bolzone che si muove in contrario con un grado, talché nel separarsi dalla corda non gli restano altro che dua soli gradi di velocità. Ma già voi stesso avete deposto che per fare i tiri eguali bisogna che il bolzone si parta una volta con quattro gradi e l'altra con due: adunque, senza mutar arco, l'istesso corso della carrozza è quello che aggiusta le partite, e l'esperienza è poi quella che le sigilla a coloro che non volessero o non potessero esser capaci della ragione. Ora applicate questo discorso all'artiglieria, e troverete che, muovasi la Terra o stia ferma, i tiri fatti dalla medesima forza hanno a riuscir sempre eguali, verso qualsivoglia parte indrizzati. L'errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti gli altri, ha radice in quella fissa e inveterata impressione, che la Terra stia ferma, della quale non vi potete o sapete spogliare né anco quando volete filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse; e cosí nell'altro argomento, non considerando che mentre che la pietra è su la torre, fa, circa il muoversi o non muoversi, quel che fa il globo terrestre, perché avete fisso nella mente che la Terra stia ferma, discorrete intorno alla caduta del sasso sempre come se si partisse dalla quiete, dove che bisogna dire: Se la Terra sta ferma, il sasso si parte dalla quiete e scende perpendicolarmente; ma se la Terra si muove, la pietra altresí si muove con pari velocità, né si parte dalla quiete, ma dal moto eguale a quel della Terra, col quale mescola il sopravegnente in giú e ne compone un trasversale.

SIMP. Ma, Dio buono, come, se ella si muove trasversalmente, la veggo io muoversi rettamente e perpendicolarmente? questo è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve credere al senso, per qual altra porta si deve entrare a filosofare?

SALV. Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre. Voi non sete il primo che senta gran repugnanza in apprender questo nulla operar il moto tra le cose delle quali egli è comune.

SAGR. Ora mi sovviene di certo mio fantasticamento, che mi passò un giorno per l'immaginativa mentre navigava nel viaggio di Aleppo, dove andava consolo della nostra nazione; e forse potrebb'esser di qualche aiuto, per esplicar questo nulla operare del moto comune ed esser come se non fusse per tutti i participanti di quello: e voglio, se cosí piace al signor Simplicio, discorrer seco quello che allora fantasticava da me solo.

SIMP. La novità delle cose che sento mi fa curioso, non che tollerante, di ascoltare: però dite pure.

SAGR. Se la punta di una penna da scrivere, che fusse stata in nave per tutta la mia navigazione da Venezia sino in Alessandretta, avesse avuto facultà di lasciar visibil segno di tutto il suo viaggio, che vestigio, che nota, che linea avrebb'ella lasciata?

SIMP. Avrebbe lasciato una linea distesa da Venezia sin là, non perfettamente diritta o, per dir meglio, distesa in perfetto arco di cerchio, ma dove piú e dove meno flessuosa, secondo che il vassello fusse andato or piú or meno fluttuando; ma questo inflettersi in alcuni luoghi un braccio o due, a destra o a sinistra, in alto o a basso, in una lunghezza di molte centinaia di miglia piccola alterazione arebbe arrecato all'intero tratto della linea, sí che a pena sarebbe stato sensibile, e senza error di momento si sarebbe potuta chiamare una parte d'arco perfetto.

SAGR. Sì che il vero, vero, verissimo moto di quella punta di penna sarebbe anco stato un arco di cerchio perfetto, quando il moto del vassello, tolta la fluttuazion dell'onde, fusse stato placido e tranquillo. E se io avessi tenuta continuamente quella medesima penna in mano, e solamente l'avessi talvolta mossa un dito o due in qua o in là, qual alterazione arei io arrecata a quel suo principale e lunghissimo tratto?

SIMP. Minore di quella che arrecherebbe a una linea retta lunga mille braccia il declinar in varii luoghi dall'assoluta rettitudine quanto è un occhio di pulce.

SAGR. Quando dunque un pittore nel partirsi dal porto avesse cominciato a disegnar sopra una carta con quella penna, e continuato il disegno sino in Alessandretta, avrebbe potuto cavar dal moto di quella un'intera storia di molte figure perfettamente dintornate e tratteggiate per mille e mille versi, con paesi, fabbriche, animali ed altre cose, se ben tutto il vero, reale ed essenzial movimento segnato dalla punta di quella penna non sarebbe stato altro che una ben lunga ma semplicissima linea; e quanto all'operazion propria del pittore, l'istesso a capello avrebbe delineato quando la nave fusse stata ferma. Che poi del moto lunghissimo della penna non resti altro vestigio che quei tratti segnati su la carta, la cagione ne è l'essere stato il gran moto da Venezia in Alessandretta comune della carta e della penna e di tutto quello che era in nave; ma i moti piccolini, innanzi e 'n dietro, a destra ed a sinistra, comunicati dalle dita del pittore alla penna e non al foglio, per esser proprii di quella, potettero lasciar di sé vestigio su la carta, che a tali movimenti restava immobile. Cosí parimente è vero, che movendosi la Terra, il moto della pietra, nel venire a basso, è stato realmente un lungo tratto di molte centinaia ed anco di molte migliaia di braccia, e se avesse potuto segnare in un'aria stabile o altra superficie il tratto del suo corso, averebbe lasciata una lunghissima linea trasversale; ma quella parte di tutto questo moto che è comune del sasso, della torre e di noi, ci resta insensibile e come se non fusse, e solo rimane osservabile quella parte della quale né la torre né noi siamo partecipi, che è in fine quello con che la pietra, cadendo, misura la torre.

SALV. Sottilissimo pensiero per esplicar questo punto, assai difficile per esser capito da molti. Or, se il signor Simplicio non vuol replicar altro, possiamo passare all'altre esperienze, lo scioglimento delle quali riceverà non poca agevolezza dalle cose dichiarate sin qui.

SIMP. Io non ho che dir altro, ed era mezo astratto su quel disegno, e sul pensare come quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giú, innanzi, in dietro, e 'ntrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun'altra alterazione che il declinar dal tratto dirittissimo talvolta un pochettino a destra e a sinistra e il muoversi la punta della penna or piú veloce ed or piú tarda, ma con minima inegualità: e considero che nel medesimo modo si scriverebbe una lettera, e che questi scrittori piú leggiadri, che, per mostrar la scioltezza della mano, senza staccar la penna dal foglio, in un sol tratto segnano con mille e mille ravvolgimenti una vaga intrecciatura, quando fussero in una barca che velocemente scorresse, convertirebbero tutto il moto della penna, che in essenza è una sola linea tirata tutta verso la medesima parte e pochissimo inflessa o declinante dalla perfetta drittezza, in un ghirigoro: ed ho gran gusto che il signor Sagredo m'abbia destato questo pensiero. Però seguitiamo innanzi, ché la speranza di poterne sentir de gli altri mi terrà piú attento.

SAGR. Quando voi aveste curiosità di sentir di simili arguzie, che non sovvengono cosí a ognuno, non ce ne mancano, e massime in questa cosa della navigazione. E non vi parrà un bel pensiero quello che mi sovvenne pur nella medesima navigazione, quando mi accorsi che l'albero della nave, senza rompersi o piegarsi, aveva fatto piú viaggio con la gaggia, cioè con la cima, che col piede? perché la cima, essendo piú lontana dal centro della Terra che non è il piede, veniva ad aver descritto un arco di un cerchio maggiore del cerchio per il quale era passato il piede.

SIMP. E cosí, quand'un uomo cammina, fa piú viaggio col capo che co i piedi?

SAGR. L'avete da per voi stesso e di vostro ingegno penetrata benissimo. Ma non interrompiamo il signor Salviati.

SALV. Mi piace di veder che il signor Simplicio si va addestrando, se però il pensiero è suo, e non l'ha imparato da certo libretto di conclusioni, dove ne sono parecchi altri non men vaghi e arguti. Segue che noi parliamo dell'artiglieria eretta a perpendicolo sopra l'orizonte, cioè del tiro verso il nostro vertice, e finalmente del ritorno della palla per l'istessa linea sopra l'istesso pezzo, ancorché nella lunga dimora che ella sta separata dal pezzo, la Terra l'abbia per molte miglia portato verso levante, e par che per tanto spazio dovrebbe la palla cader lontana dal pezzo verso occidente; il che non accade; adunque l'artiglieria, senza essersi mossa, l'ha aspettata. La soluzione è l'istessa che quella della pietra cadente dalla torre, e tutta la fallacia e l'equivocazione consiste nel suppor sempre per vero quello che è in quistione; perché l'avversario ha sempre fermo nel concetto che la palla si parta dalla quiete, nel venir cacciata dal fuoco fuor del pezzo, e partirsi dallo stato di quiete non può esser se non supposta la quiete del globo terrestre, che è poi la conclusione di che si quistioneggia. Replico per tanto che quelli che fanno la Terra mobile, rispondono che l'artiglieria e la palla che vi è dentro participano il medesimo moto che ha la Terra, anzi che questo, insieme con lei, hann'eglino da natura, e che però la palla non si parte altrimenti dalla quiete, ma congiunta co 'l suo moto intorno al centro, il quale dalla proiezione in su non le vien né tolto né impedito, ed in tal guisa, seguitando il moto universale della Terra verso oriente, sopra l'istesso pezzo di continuo si mantiene, sí nell'alzarsi come nel ritorno: e l'istesso vedrete voi accadere facendo l'esperienza in nave di una palla tirata in su a perpendicolo con una balestra, la quale ritorna nell'istesso luogo, muovasi la nave o stia ferma.

SAGR. Questo sodisfà benissimo al tutto: ma perché ho veduto che il signor Simplicio prende gusto di certe arguzie da chiappar (come si dice) il compagno, gli voglio domandare se, supposto per ora che la Terra stia ferma, e sopra essa l'artiglieria eretta perpendicolarmente e drizzata al nostro zenit, egli ha difficultà nessuna in intender che quello è il vero tiro a perpendicolo, e che la palla nel partirsi e nel ritorno sia per andar per l'istessa linea retta, intendendo sempre rimossi tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii.

SIMP. Io intendo che il fatto deva succeder cosí per appunto.

SAGR. Ma quando l'artiglieria si piantasse non a perpendicolo, ma inclinata verso qualche parte, qual dovrebbe essere il moto della palla? andrebbe ella forse, come nell'altro tiro, per la linea perpendicolare, e ritornando anco poi per l'istessa?

SIMP. Questo non farebb'ella, ma uscita del pezzo seguiterebbe il suo moto per la linea retta che continu