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TOLEMAICO E COPERNICANO[1]
di GALILEO GALILEI
Serenissimo Gran Duca,
la differenza che è tra gli uomini e gli
altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco
dissimile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. Qual
proporzione ha da uno a mille? e pure è proverbio vulgato, che un solo
uomo vaglia per mille, dove mille non vagliano per un solo. Tal differenza
depende dalle abilità diverse degl'intelletti, il che io riduco
all'essere o non esser filosofo: poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli,
chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in
piú e men degno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira piú alto, si
differenzia piú altamente; e 'l volgersi al gran libro della natura, che
è 'l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli
occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d'Artefice
onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno
è piú spedito e piú degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce
l'opera e l'artifizio. La costituzione dell'universo, tra i naturali
apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se
quella, come universal contenente, in grandezza tutt'altri avanza, come regola
e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà. Però,
se a niuno toccò mai in eccesso differenziarsi nell'intelletto sopra gli
altri uomini, Tolomeo e 'l Copernico furon quelli che sí altamente lessero
s'affisarono e filosofarono nella mondana costituzione. Intorno all'opere de i
quali rigirandosi principalmente questi miei Dialoghi, non pareva doversi quei
dedicare ad altri che a Vostra Altezza; perché posandosi la lor dottrina su
questi due, ch'io stimo i maggiori ingegni che in simili speculazioni ci abbian
lasciate loro opere, per non far discapito di maggioranza, conveniva
appoggiarli al favore di Quello appo di me il maggiore, onde possan ricevere e
gloria e patrocinio. E se quei due hanno dato tanto lume al mio intendere, che
questa mia opera può dirsi loro in gran parte, ben potrà anche
dirsi di Vostr'Altezza, per la cui liberal magnificenza non solo mi s'è
dato ozio e quiete da potere scrivere, ma per mezo di suo efficace aiuto, non
mai stancatosi in onorarmi, s'è in ultimo data in luce. Accettila dunque
l'Altezza Vostra con la sua solita benignità; e se ci troverrà
cosa alcuna onde gli amatori del vero possan trar frutto di maggior cognizione
e di giovamento, riconoscala come propria di sé medesima, avvezza tanto a
giovare, che però nel suo felice dominio non ha niuno che
dell'universali angustie, che son nel mondo, ne senta alcuna che lo disturbi.
Con che pregandole prosperità, per crescer sempre in questa sua pia e
magnanima usanza, le fo umilissima reverenza.
Dell'Altezza Vostra Serenissima
Umilissimo e devotissimo servo e vassallo
GALILEO GALILEI
AL DISCRETO
LETTORE
Si promulgò a gli anni passati in Roma un
salutifero editto, che, per ovviare a' pericolosi scandoli dell'età
presente, imponeva opportuno silenzio all'opinione Pittagorica della
mobilità della Terra. Non mancò chi temerariamente asserí, quel
decreto essere stato parto non di giudizioso esame, ma di passione troppo poco
informata, e si udirono querele che consultori totalmente inesperti delle
osservazioni astronomiche non dovevano con proibizione repentina tarpar l'ale a
gl'intelletti speculativi. Non poté tacer il mio zelo in udir la
temerità di sí fatti lamenti. Giudicai, come pienamente instrutto di
quella prudentissima determinazione, comparir publicamente nel teatro del
mondo, come testimonio di sincera verità. Mi trovai allora presente in
Roma; ebbi non solo udienze, ma ancora applausi de i piú eminenti prelati di
quella Corte; né senza qualche mia antecedente informazione seguì poi la
publicazione di quel decreto. Per tanto è mio consiglio nella presente fatica
mostrare alle nazioni forestiere, che di questa materia se ne sa tanto in
Italia, e particolarmente in Roma, quanto possa mai averne imaginato la
diligenza oltramontana; e raccogliendo insieme tutte le speculazioni proprie
intorno al sistema Copernicano, far sapere che precedette la notizia di tutte
alla censura romana, e che escono da questo clima non solo i dogmi per la
salute dell'anima, ma ancora gl'ingegnosi trovati per delizie degl'ingegni.
A questo fine ho presa nel discorso la parte
Copernicana, procedendo in pura ipotesi matematica, cercando per ogni strada
artifiziosa di rappresentarla superiore, non a quella della fermezza della
Terra assolutamente, ma secondo che si difende da alcuni che, di professione
Peripatetici, ne ritengono solo il nome, contenti, senza passeggio, di adorar
l'ombre, non filosofando con l'avvertenza propria, ma con solo la memoria di
quattro principii mal intesi.
Tre capi principali si tratteranno. Prima
cercherò di mostrare, tutte l'esperienze fattibili nella Terra essere
mezi insufficienti a concluder la sua mobilità, ma indifferentemente
potersi adattare cosí alla Terra mobile, come anco quiescente; e spero che in
questo caso si paleseranno molte osservazioni ignote all'antichità.
Secondariamente si esamineranno li fenomeni celesti, rinforzando l'ipotesi
copernicana come se assolutamente dovesse rimaner vittoriosa, aggiungendo nuove
speculazioni, le quali però servano per facilità d'astronomia,
non per necessità di natura. Nel terzo luogo proporrò una fantasia
ingegnosa. Mi trovavo aver detto, molti anni sono, che l'ignoto problema del
flusso del mare potrebbe ricever qualche luce, ammesso il moto terrestre.
Questo mio detto, volando per le bocche degli uomini, aveva trovato padri
caritativi che se l'adottavano per prole di proprio ingegno. Ora, perché non
possa mai comparire alcuno straniero che, fortificandosi con l'armi nostre, ci
rinfacci la poca avvertenza in uno accidente cosí principale, ho giudicato
palesare quelle probabilità che lo renderebbero persuasibile, dato che la
Terra si movesse. Spero che da queste considerazioni il mondo conoscerà,
che se altre nazioni hanno navigato piú, noi non abbiamo speculato meno, e che
il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra, e prender il contrario
solamente per capriccio matematico, non nasce da non aver contezza di
quant'altri ci abbia pensato, ma, quando altro non fusse, da quelle ragioni che
la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza, e la
coscienza della debolezza dell'ingegno umano, ci somministrano.
Ho poi pensato tornare molto a proposito lo
spiegare questi concetti in forma di dialogo, che, per non esser ristretto alla
rigorosa osservanza delle leggi matematiche, porge campo ancora a digressioni,
tal ora non meno curiose del principale argomento.
Mi trovai, molt'anni sono, piú volte nella
maravigliosa città di Venezia in conversazione col signor Giovan
Francesco Sagredo, illustrissimo di nascita, acutissimo d'ingegno.Venne
là di Firenze il signor Filippo Salviati, nel quale il minore splendore
era la chiarezza del sangue e la magnificenza delle ricchezze; sublime
intelletto, che di niuna delizia piú avidamente si nutriva, che di specolazioni
esquisite. Con questi due mi trovai spesso a discorrer di queste materie, con
l'intervento di un filosofo peripatetico, al quale pareva che niuna cosa
ostasse maggiormente per l'intelligenza del vero, che la fama acquistata
nell'interpretazioni Aristoteliche.
Ora, poiché morte acerbissima ha, nel piú bel
sereno de gli anni loro, privato di quei due gran lumi Venezia e Firenze, ho
risoluto prolungar, per quanto vagliono le mie debili forze, la vita alla fama
loro sopra queste mie carte, introducendoli per interlocutori della presente
controversia. Né mancherà il suo luogo al buon Peripatetico, al quale,
pel soverchio affetto verso i comenti di Simplicio, è parso decente,
senza esprimerne il nome, lasciarli quello del reverito scrittore. Gradiscano
quelle due grand'anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento
del mio non mai morto amore, e con la memoria della loro eloquenza mi aiutino a
spiegare alla posterità le promesse speculazioni.
Erano casualmente occorsi (come interviene) varii
discorsi alla spezzata tra questi signori, i quali avevano piú tosto ne i loro
ingegni accesa, che consolata, la sete dell'imparare: però fecero saggia
risoluzione di trovarsi alcune giornate insieme, nelle quali, bandito ogni
altro negozio, si attendesse a vagheggiare con piú ordinate speculazioni le
maraviglie di Dio nel cielo e nella terra. Fatta la radunanza nel palazzo dell'illustrissimo
Sagredo, dopo i debiti, ma però brevi, complimenti, il signor Salviati
in questa maniera incominciò.
INTERLOCUTORI:
Salviati, Sagredo e Simplicio
SALV. Fu la conclusione e l'appuntamento di ieri,
che noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto piú distintamente e
particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e loro
efficacia, che per l'una parte e per l'altra sin qui sono state prodotte da i
fautori della posizione Aristotelica e Tolemaica e da i seguaci del sistema
Copernicano. E perché, collocando il Copernico la Terra tra i corpi mobili del
cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un pianeta, sarà bene
che il principio delle nostre considerazioni sia l'andare esaminando quale e
quanta sia la forza e l'energia de i progressi peripatetici nel dimostrare come
tale assunto sia del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in
natura sustanze diverse tra di loro, cioè la celeste e la elementare,
quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca. Il quale argomento
tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con discorsi dependenti da
alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni
particolari. Io, seguendo l'istesso ordine, proporrò, e poi liberamente
dirò il mio parere; esponendomi alla censura di voi, ed in particolare
del signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore della dottrina
Aristotelica.
È il primo passo del progresso peripatetico
quello dove Aristotile prova la integrità e perfezione del mondo
coll'additarci com'ei non è una semplice linea né una superficie pura,
ma un corpo adornato di lunghezza, di larghezza e di profondità; e
perché le dimensioni non son piú che queste tre, avendole egli, le ha tutte, ed
avendo il tutto, è perfetto. Che poi, venendo dalla semplice lunghezza
costituita quella magnitudine che si chiama linea, aggiunta la larghezza si
costituisca la superficie, e sopragiunta l'altezza o profondità ne
risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad
altra, sí che in queste tre sole si termini l'integrità e per cosí dire
la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato
dimostrato con necessità, e massime potendosi ciò esequire assai
chiaro e speditamente.
SIMP. Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°,
3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo? Non avete, primieramente, che
oltre alle tre dimensioni non ve n'è altra, perché il tre è ogni
cosa, e 'l tre è per tutte le bande? e ciò non vien egli
confermato con l'autorità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che
tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo e fine, che è il
numero del tutto? E dove lasciate voi l'altra ragione, cioè che, quasi
per legge naturale, cotal numero si usa ne' sacrifizii degli Dei? e che,
dettante pur cosí la natura, alle cose che son tre, e non a meno, attribuiscono
il titolo di tutte? perché di due si dice amendue, e non si dice tutte;
ma di tre, sí bene. E tutta questa dottrina l'avete nel testo 2°. Nel 3° poi, ad
pleniorem scientiam, si legge che l'ogni cosa, il tutto, e 'l perfetto,
formalmente son l'istesso; e che però solo il corpo tra le grandezze
è perfetto, perché esso solo è determinato da 3, che è il
tutto, ed essendo divisibile in tre modi, è divisibile per tutti i
versi: ma dell'altre, chi è divisibile in un modo, e chi in dua, perché
secondo il numero che gli è toccato, cosí hanno la divisione e la
continuità; e cosí quella è continua per un verso, questa per
due, ma quello, cioè il corpo, per tutti. Di piú nel testo 4°, doppo
alcune altre dottrine, non prov'egli l'istesso con un'altra dimostrazione,
cioè che non si facendo trapasso se non secondo qualche mancamento (e
cosí dalla linea si passa alla superficie, perché la linea è manchevole
di larghezza), ed essendo impossibile che il perfetto manchi, essendo egli per
tutte le bande, però non si può passare dal corpo ad altra
magnitudine? Or da tutti questi luoghi non vi par egli a sufficienza provato,
com'oltre alle tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità, non si
dà transito ad altra, e che però il corpo, che le ha tutte,
è perfetto?
SALV. Io, per dire il vero, in tutti questi
discorsi non mi son sentito strignere a concedere altro se non che quello che
ha principio, mezo e fine, possa e deva dirsi perfetto: ma che poi, perché
principio, mezo e fine son 3, il numero 3 sia numero perfetto, ed abbia ad aver
facultà di conferir perfezione a chi l'averà, non sento io cosa
che mi muova a concederlo; e non intendo e non credo che, verbigrazia, per le
gambe il numero 3 sia piú perfetto che 'l 4 o il 2; né so che 'l numero 4 sia
d'imperfezione a gli elementi, e che piú perfetto fusse ch'e' fusser 3. Meglio
dunque era lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo intento con
dimostrazione necessaria, ché cosí convien fare nelle scienze dimostrative.
SIMP. Par che voi pigliate per ischerzo queste
ragioni: e pure è tutta dottrina de i Pittagorici, i quali tanto
attribuivano a i numeri; e voi, che sete matematico, e, credo anco, in molte
opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.
SALV. Che i Pittagorici avessero in somma stima la
scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l'intelletto umano e lo
stimasse partecipe di divinità solo per l'intender egli la natura de'
numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano dal farne l'istesso giudizio; ma
che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione
la scienza de' numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e per le
carte del volgo, non credo io in veruna maniera; anzi perché so che essi,
acciò le cose mirabili non fussero esposte alle contumelie e al
dispregio della plebe, dannavano come sacrilegio il publicar le piú recondite
proprietà de' numeri e delle quantità incommensurabili ed
irrazionali da loro investigate, e predicavano che quello che le avesse
manifestate era tormentato nell'altro mondo, penso che tal uno di loro per dar
pasto alla plebe e liberarsi dalle sue domande, gli dicesse, i misterii loro
numerali esser quelle leggerezze che poi si sparsero tra il vulgo; e questo con
astuzia ed accorgimento simile a quello del sagace giovane che, per torsi
dattorno l'importunità non so se della madre o della curiosa moglie, che
l'assediava acciò le conferisse i segreti del senato, compose quella
favola onde essa con molte altre donne rimasero dipoi, con gran risa del
medesimo senato, schernite.
SIMP. Io non voglio esser nel numero de' troppo
curiosi de' misterii de' Pittagorici; ma stando nel proposito nostro, replico
che le ragioni prodotte da Aristotile per provare, le dimensioni non esser, né
poter esser, piú di tre, mi paiono concludenti; e credo che quando ci fusse
stata dimostrazione piú necessaria, Aristotile non l'avrebbe lasciata in
dietro.
SAGR. Aggiugnetevi almanco, se l'avesse saputa, o
se la gli fusse sovvenuta. Ma voi, signor Salviati, mi farete ben gran piacere
di arrecarmene qualche evidente ragione, se alcuna ne avete cosí chiara, che
possa esser compresa da me.
SALV. Anzi, e da voi e dal signor Simplicio ancora;
e non pur compresa, ma di già anche saputa, se ben forse non avvertita.
E per piú facile intelligenza piglieremo carta e penna, che già veggio
qui per simili occorrenze apparecchiate, e ne faremo un poco di figura. E prima
noteremo questi due
punti A, B, e tirate dall'uno all'altro le linee
curve A C B, A D B e la retta A B, vi domando qual di esse nella mente vostra
è quella che determina la distanza tra i termini A, B, e perché.
SAGR. Io direi la retta, e non le curve; sí perché
la retta è la piú breve; sí perché l'è una, sola e determinata,
dove le altre sono infinite, ineguali e piú lunghe, e la determinazione mi pare
che si deva prendere da quel che è uno e certo.
SALV. Noi dunque aviamo la linea retta per
determinatrice della lunghezza tra due termini: aggiunghiamo adesso un'altra
linea retta e parallela alla A B, la quale sia C D, sí che tra esse resti
frapposta una superficie, della quale io vorrei che voi mi assegnaste la
larghezza. Però partendovi dal termine A, ditemi dove e come voi volete
andare a terminare nella linea C D per assegnarmi la larghezza tra esse linee
compresa; dico se voi la determinerete secondo la quantità della curva A
E, o pur della retta A F, o pure…
SIMP. Secondo la retta A F, e non secondo la curva,
essendosi già escluse le curve da simil uso.
SAGR. Ma io non mi servirei né dell'una né
dell'altra, vedendo la retta A F andare obliquamente; ma vorrei tirare una
linea che fusse a squadra sopra la C D, perché questa mi par che sarebbe la
brevissima, ed unica delle infinite maggiori, e tra di loro ineguali, che dal
termine A si possono produrre ad altri ed altri punti della linea opposta C D.
SALV. Parmi la vostra elezione, e la ragione che
n'adducete, perfettissima: talché sin qui noi abbiamo, che la prima dimensione
si determina con una linea retta; la seconda, cioè la larghezza, con
un'altra linea pur retta, e non solamente retta, ma, di piú, ad angoli retti
sopra l'altra che determinò la lunghezza; e cosí abbiamo definite le due
dimensioni della superficie, cioè la lunghezza e la larghezza. Ma quando
voi aveste a determinare un'altezza, come, per esempio, quanto sia alto questo
palco dal pavimento che noi abbiamo sotto i piedi; essendo che da qualsivoglia
punto del palco si possono tirare infinite linee, e curve e rette, e tutte di
diverse lunghezze, ad infiniti punti del sottoposto pavimento, di quale di
cotali linee vi servireste voi?
SAGR. Io attaccherei un filo al palco, e con un
piombino, che pendesse da quello, lo lascerei liberamente distendere sino che
arrivasse prossimo al pavimento; e la lunghezza di tal filo, essendo la retta e
brevissima di quante linee si potessero dal medesimo punto tirare al pavimento,
direi che fusse la vera altezza di questa stanza.
SALV. Benissimo. E quando dal punto notato nel
pavimento da questo filo pendente (posto il pavimento a livello, e non
inclinato) voi faceste partire due altre linee rette, una per la lunghezza e
l'altra per la larghezza della superficie di esso pavimento, che angoli
conterrebber elleno con esso filo?
SAGR. Conterrebbero sicuramente angoli retti,
cadendo esso filo a piombo ed essendo il pavimento ben piano e ben livellato.
SALV. Adunque se voi stabilirete alcun
punto per capo e termine delle misure, e da esso farete partire una retta linea
come determinatrice della prima misura, cioè della lunghezza,
bisognerà per necessità che quella che dee definir la larghezza
si parta ad angolo retto sopra la prima, e che quella che ha da notar
l'altezza, che è la terza dimensione, partendo dal medesimo punto formi,
pur con le altre due, angoli non obliqui, ma retti: e cosí dalle tre
perpendicolari avrete, come da tre linee une e certe e brevissime, determinate
le tre dimensioni, A B lunghezza, A C larghezza, A D altezza.
E perché chiara cosa è, che al medesimo
punto non può concorrere altra linea che con quelle faccia angoli retti,
e le dimensioni dalle sole linee rette che tra di loro fanno angoli retti deono
esser determinate, adunque le dimensioni non sono piú che 3; e chi ha le 3 le
ha tutte, e chi le ha tutte è divisibile per tutti i versi, e chi
è tale è perfetto, etc.
SIMP. E chi lo dice che non si possan tirare altre
linee? e perché non poss'io far venir di sotto un'altra linea sino al punto A,
che sia a squadra con l'altre?
SALV. Voi non potete sicuramente ad un istesso
punto far concorrere altro che tre linee rette sole, che fra di loro
costituiscano angoli retti.
SAGR. Sí, perché quella che vuol dire il signor
Simplicio par a me che sarebbe l'istessa D A prolungata in giú: ed in questo
modo si potrebbe tirarne altre due, ma sarebbero le medesime prime tre, non
differenti in altro, che dove ora si toccano solamente, all'ora si
segherebbero, ma non apporterebbero nuove dimensioni.
SIMP. Io non dirò che questa vostra ragione
non possa esser concludente, ma dirò bene con Aristotile che nelle cose
naturali non si deve sempre ricercare una necessità di dimostrazion
matematica.
SAGR. Sí, forse, dove la non si può avere;
ma se qui ella ci è, perché non la volete voi usare? Ma sarà bene
non ispender piú parole in questo particolare, perché io credo che il signor
Salviati ad Aristotile ed a voi senza altre dimostrazioni avrebbe conceduto, il
mondo esser corpo, ed esser perfetto e perfettissimo, come opera massima di
Dio.
SALV. Cosí è veramente. Però lasciata
la general contemplazione del tutto, venghiamo alla considerazione delle parti,
le quali Aristotile nella prima divisione fa due, e tra di loro diversissime ed
in certo modo contrarie; dico, la celeste e la elementare: quella,
ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, impassibile, etc.; e questa,
esposta ad una continua alterazione, mutazione, etc. La qual differenza cava
egli, come da suo principio originario, dalla diversità de i moti
locali: e camina con tal progresso.
Uscendo, per cosí dire, del mondo sensibile e
ritirandosi al mondo ideale, comincia architettonicamente a considerare, che
essendo la natura principio di moto, conviene che i corpi naturali siano mobili
di moto locale. Dichiara poi, i movimenti locali esser di tre generi,
cioè circolare, retto, e misto del retto e del circolare; e li duoi
primi chiama semplici, perché di tutte le linee la circolare e la retta sole
son semplici. E di qui, ristringendosi alquanto, di nuovo definisce, de i
movimenti semplici uno esser il circolare, cioè quello che si fa intorno
al mezo, ed il retto all'insú ed all'ingiú, cioè all'insú quello che si
parte dal mezo, all'ingiú quello che va verso il mezo: e di qui inferisce come
necessariamente conviene che tutti i movimenti semplici si ristringano a queste
tre spezie, cioè al mezo, dal mezo, ed intorno al mezo; il che risponde,
dice egli, con certa bella proporzione a quel che si è detto di sopra
del corpo, che esso ancora è perfezionato in tre cose, e cosí il suo
moto. Stabiliti questi movimenti, segue dicendo che, essendo, de i corpi
naturali, altri semplici ed altri composti di quelli (e chiama corpi semplici
quelli che hanno da natura principio di moto, come il fuoco e la terra),
conviene che i movimenti semplici sieno de i corpi semplici, ed i misti de'
composti, in modo però che i composti seguano il moto della parte
predominante nella composizione.
SAGR. Di grazia, signor Salviati, fermatevi
alquanto, perché io mi sento in questo progresso pullular da tante bande tanti
dubbi, che mi sarà forza o dirgli, s'io vorrò sentir con
attenzione le cose che voi soggiugnerete, o rimuover l'attenzione dalle cose da
dirsi, se vorrò conservare la memoria de' dubbi.
SALV. Io molto volentieri mi fermerò, perché
corro ancor io simil fortuna, e sto di punto in punto per perdermi, mentre mi
conviene veleggiar tra scogli ed onde cosí rotte, che mi fanno, come si dice,
perder la bussola: però, prima che far maggior cumulo, proponete le
vostre difficultà.
SAGR. Voi, insieme con Aristotile, da principio mi
separaste alquanto dal mondo sensibile per additarmi l'architettura con la
quale egli doveva esser fabbricato, e con mio gusto mi cominciaste a dire che
il corpo naturale è per natura mobile, essendo che si è diffinito
altrove, la natura esser principio di moto. Qui mi nacque un poco di dubbio; e
fu, per qual cagione Aristotile non disse che de' corpi naturali alcuni sono
mobili per natura ed altri immobili, avvengaché nella definizione vien detto,
la natura esser principio di moto e di quiete; che se i corpi naturali hanno
tutti principio di movimento, o non occorreva metter la quiete nella
definizione della natura, o non occorreva indur tal definizione in questo
luogo. Quanto poi al dichiararmi, quali egli intenda esser i movimenti semplici
e come ei gli determina da gli spazi, chiamando semplici quelli che si fanno
per linee semplici, che tali sono la circolare e la retta solamente, lo ricevo
quietamente, né mi curo di sottilizargli l'instanza della elica intorno al
cilindro, che, per esser in ogni sua parte simile a se stessa, par che si
potesse annoverar tra le linee semplici. Ma mi risento bene alquanto nel
sentirlo ristrignere (mentre par che con altre parole voglia replicar le
medesime definizioni) a chiamare quello, movimento intorno al mezo, e questo, sursum
et deorsum, cioè in su e in giú; li quali termini non si usano fuori
del mondo fabbricato, ma lo suppongono non pur fabbricato, ma di già
abitato da noi. Che se il moto retto è semplice per la semplicità
della linea retta, e se il moto semplice è naturale, sia pur egli fatto
per qualsivoglia verso, dico in su, in giú, innanzi, in dietro, a destra ed a
sinistra, e se altra differenza si può immaginare, purché sia retto,
dovrà convenire a qualche corpo naturale semplice; o se no, la
supposizione d'Aristotile è manchevole. Vedesi in oltre che Aristotile
accenna, un solo esser al mondo il moto circolare, ed in conseguenza un solo
centro, al quale solo si riferiscano i movimenti retti in su e in giú; tutti
indizi che egli ha mira di cambiarci le carte in mano, e di volere accomodar l'architettura
alla fabbrica, e non costruire la fabbrica conforme a i precetti
dell'architettura: ché se io dirò che nell'università della
natura ci posson essere mille movimenti circolari, ed in conseguenza mille
centri, vi saranno ancora mille moti in su e in giú. In oltre ei pone, come
è detto, moti semplici e moto misto, chiamando semplici il circolare ed
il retto, e misto il composto di questi; de i corpi naturali chiama altri
semplici (cioè quelli che hanno principio naturale al moto semplice), ed
altri composti; ed i moti semplici gli attribuisce a' corpi semplici, ed a'
composti il composto: ma per moto composto e' non intende piú il misto di retto
e circolare, che può essere al mondo, ma introduce un moto misto tanto
impossibile, quanto è impossibile a mescolare movimenti opposti fatti
nella medesima linea retta, sí che da essi ne nasca un moto che sia parte in su
e parte in giú; e per moderare una tanta sconvenevolezza e
impossibilità, si riduce a dire che tali corpi misti si muovono secondo la
parte semplice predominante; che finalmente necessita altrui a dire che anco il
moto fatto per la medesima linea retta è alle volte semplice e tal ora
anche composto, sí che la semplicità del moto non si attende piú dalla
semplicità della linea solamente.
SIMP. Oh non vi par ella differenza bastevole se il
movimento semplice ed assoluto sarà piú veloce assai di quello che vien
dal predominio? e quanto vien piú velocemente all'ingiú un pezzo di terra pura,
che un pezzuol di legno?
SAGR. Bene, signor Simplicio; ma se la
semplicità si ha da mutar per questo, oltre che ci saranno centomila
moti misti, voi non mi saprete determinare il semplice; anzi, di piú, se la
maggiore e minor velocità possono alterar la semplicità del moto,
nessun corpo semplice si moverà mai di moto semplice, avvengaché in
tutti i moti retti naturali la velocità si va sempre agumentando, ed in
conseguenza sempre mutando la semplicità, la quale, per esser
semplicità, conviene che sia immutabile; e, quel che piú importa, voi graverete
Aristotile d'una nuova nota, come quello che nella definizione del moto
composto non ha fatto menzione di tardità né di velocità, la
quale ora voi ponete per articolo necessario ed essenziale. Aggiugnesi che né
anco potrete da cotal regola trar frutto veruno; imperocché ci saranno de'
misti, e non pochi, de' quali altri si moveranno piú lentamente, ed altri piú
velocemente, del semplice, come, per esempio, il piombo e 'l legno in
comparazione della terra: e però tra questi movimenti quale chiamerete
voi il semplice, e quale il composto?
SIMP. Chiamerassi semplice quello che vien fatto
dal corpo semplice, e misto quel del corpo composto.
SAGR. Benissimo veramente. E che dite voi, signor
Simplicio? poco fa volevi che il moto semplice e il composto m'insegnassero
quali siano i corpi semplici e quali i misti; ed ora volete che da i corpi
semplici e da i misti io venga in cognizione di qual sia il moto semplice e
quale il composto: regola eccellente per non saper mai conoscer né i moti né i
corpi. Oltre che già venite a dichiararvi come non vi basta piú la
maggior velocità, ma ricercate una terza condizione per definire il
movimento semplice, per il quale Aristotile si contentò d'una sola,
cioè della semplicità dello spazio; ma ora, secondo voi, il moto
semplice sarà quello che vien fatto sopra una linea semplice, con certa
determinata velocità, da un corpo mobile semplice. Or sia come a voi
piace, e torniamo ad Aristotile, il qual mi definí, il moto misto esser quello
che si compone del retto e del circolare; ma non mi trovò poi corpo
alcuno che fusse naturalmente mobile di tal moto.
SALV. Torno dunque ad Aristotile, il quale, avendo
molto bene e metodicamente cominciato il suo discorso, ma avendo piú la mira di
andare a terminare e colpire in uno scopo, prima nella mente sua stabilitosi,
che dove dirittamente il progresso lo conduceva, interrompendo il filo ci esce
traversalmente a portar come cosa nota e manifesta, che quanto a i moti retti
in su e in giú, questi naturalmente convengono al fuoco ed alla terra, e che
però è necessario che oltre a questi corpi, che sono appresso di
noi, ne sia un altro in natura al quale convenga il movimento circolare, il
quale sia ancora tanto piú eccellente, quanto il moto circolare è piú
perfetto del moto retto: quanto poi quello sia piú perfetto di questo, lo
determina dalla perfezion della linea circolare sopra la retta, chiamando
quella perfetta, ed imperfetta questa; imperfetta, perché se è infinita,
manca di fine e di termine; se è finita, fuori di lei ci è alcuna
cosa dove ella si può prolungare. Questa è la prima pietra, base
e fondamento di tutta la fabbrica del mondo Aristotelico, sopra la quale si
appoggiano tutte l'altre proprietà di non grave né leggiero,
d'ingenerabile, incorruttibile ed esente da ogni mutazione, fuori della locale,
etc.: e tutte queste passioni afferma egli esser proprie del corpo semplice e
mobile di moto circolare; e le condizioni contrarie, di gravità,
leggerezza, corruttibilità, etc., le assegna a' corpi mobili
naturalmente di movimenti retti. Là onde qualunque volta nello stabilito
sin qui si scuopra mancamento, si potrà ragionevolmente dubitar di tutto
il resto, che sopra gli vien costrutto. Io non nego che questo, che sin qui
Aristotile ha introdotto con discorso generale, dependente da principii universali
e primi, non venga poi nel progresso riconfermato con ragioni particolari e con
esperienze, le quali tutte è necessario che vengano distintamente
considerate e ponderate; ma già che nel detto sin qui si rappresentano
molte, e non picciole, difficultà (e pur converrebbe che i primi
principii e fondamenti fussero sicuri fermi e stabili, acciocché piú
risolutamente si potesse sopra di quelli fabbricare), non sarà forse se
non ben fatto, prima che si accresca il cumulo de i dubbi, vedere se per
avventura (sí come io stimo) incamminandoci per altra strada ci indrizzassimo a
piú diritto e sicuro cammino, e con precetti d'architettura meglio considerati
potessimo stabilire i primi fondamenti. Però, sospendendo per ora il
progresso d'Aristotile, il quale a suo tempo ripiglieremo e partitamente
esamineremo, dico che, delle cose da esso dette sin qui, convengo seco ed
ammetto che il mondo sia corpo dotato di tutte le dimensioni, e però
perfettissimo; ed aggiungo, che come tale ei sia necessariamente ordinatissimo,
cioè di parti con sommo e perfettissimo ordine tra di loro disposte: il
quale assunto non credo che sia per esser negato né da voi né da altri.
SIMP. E chi volete voi che lo neghi? La prima cosa,
egli è d'Aristotile stesso; e poi, la sua denominazione non par che sia
presa d'altronde, che dall'ordine che egli perfettamente contiene.
SALV. Stabilito dunque cotal principio, si
può immediatamente concludere che, se i corpi integrali del mondo devono
esser di lor natura mobili, è impossibile che i movimenti loro siano
retti, o altri che circolari: e la ragione è assai facile e manifesta.
Imperocché quello che si muove di moto retto, muta luogo; e continuando di
muoversi, si va piú e piú sempre allontanando dal termine ond'ei si partí e da
tutti i luoghi per i quali successivamente ei va passando; e se tal moto
naturalmente se gli conviene, adunque egli da principio non era nel luogo suo
naturale, e però non erano le parti del mondo con ordine perfetto
disposte: ma noi supponghiamo, quelle esser perfettamente ordinate: adunque,
come tali, è impossibile che abbiano da natura di mutar luogo, ed in
conseguenza di muoversi di moto retto. In oltre, essendo il moto retto di sua
natura infinito, perché infinita e indeterminata è la linea retta,
è impossibile che mobile alcuno abbia da natura principio di muoversi
per linea retta, cioè verso dove è impossibile di arrivare, non
vi essendo termine prefinito; e la natura, come ben dice Aristotile medesmo,
non intraprende a fare quello che non può esser fatto, né intraprende a
muovere dove è impossibile a pervenire. E se pur alcuno dicesse, che se
bene la linea retta, ed in conseguenza il moto per essa, è produttibile
in infinito, cioè interminato, tuttavia però la natura, per cosí
dire, arbitrariamente gli ha assegnati alcuni termini, e dato naturali instinti
a' suoi corpi naturali di muoversi a quelli, io risponderò che
ciò per avventura si potrebbe favoleggiare che fusse avvenuto del primo
caos, dove confusamente ed inordinatamente andavano indistinte materie vagando,
per le quali ordinare la natura molto acconciamente si fusse servita de i
movimenti retti, i quali, sí come movendo i corpi ben costituiti gli
disordinano, cosí sono acconci a ben ordinare i pravamente disposti; ma dopo
l'ottima distribuzione e collocazione è impossibile che in loro resti
naturale inclinazione di piú muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne
seguirebbe il rimuoversi dal proprio e natural luogo, cioè il
disordinarsi. Possiamo dunque dire, il moto retto servire a condur le materie
per fabbricar l'opera, ma fabbricata ch'ell'è, o restare immobile, o, se
mobile, muoversi solo circolarmente; se però noi non volessimo dir con
Platone, che anco i corpi mondani, dopo l'essere stati fabbricati e del tutto
stabiliti, furon per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma che
dopo l'esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno
in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si son mantenuti e
tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone, intorno al quale
mi sovviene aver sentito discorrere il nostro comune amico Accademico Linceo; e
se ben mi ricorda, il discorso fu tale. Ogni corpo costituito per qualsivoglia
causa in istato di quiete, ma che per sua natura sia mobile, posto in
libertà si moverà, tutta volta però ch'egli abbia da
natura inclinazione a qualche luogo particolare; ché quando e' fusse
indifferente a tutti, resterebbe nella sua quiete, non avendo maggior ragione
di muoversi a questo che a quello. Dall'aver questa inclinazione ne nasce necessariamente
che egli nel suo moto si anderà continuamente accelerando; e cominciando
con moto tardissimo, non acquisterà grado alcuno di velocità, che
prima e' non sia passato per tutti i gradi di velocità minori, o
vogliamo dire di tardità maggiori: perché, partendosi dallo stato della
quiete (che è il grado di infinita tardità di moto), non ci
è ragione nissuna per la quale e' debba entrare in un tal determinato
grado di velocità, prima che entrare in un minore, ed in un altro ancor
minore prima che in quello; anzi par molto ben ragionevole passar prima per i
gradi piú vicini a quello donde ei si parte, e da quelli a i piú remoti; ma il
grado di dove il mobile piglia a muoversi è quello della somma
tardità, cioè della quiete. Ora, questa accelerazion di moto non
si farà se non quando il mobile nel muoversi acquista; né altro è
l'acquisto suo se non l'avvicinarsi al luogo desiderato, cioè dove
l'inclinazion naturale lo tira; e là si condurrà egli per la piú
breve, cioè per linea retta. Possiamo dunque ragionevolmente dire che la
natura, per conferire in un mobile, prima costituito in quiete, una determinata
velocità, si serva del farlo muover, per alcun tempo e per qualche
spazio, di moto retto. Stante questo discorso, figuriamoci aver Iddio creato il
corpo, verbigrazia, di Giove, al quale abbia determinato di voler conferire una
tal velocità, la quale egli poi debba conservar perpetuamente uniforme:
potremo con Platone dire che gli desse di muoversi da principio di moto retto
ed accelerato, e che poi, giunto a quel tal grado di velocità,
convertisse il suo moto retto in circolare, del quale poi la velocità
naturalmente convien esser uniforme.
SAGR. Io sento con gran gusto questo discorso, e
maggiore credo che sarà doppo che mi abbiate rimossa una
difficultà: la quale è, che io non resto ben capace come di
necessità convenga che un mobile, partendosi dalla quiete ed entrando in
un moto al quale egli abbia inclinazion naturale, passi per tutti i gradi di
tardità precedenti, che sono tra qualsivoglia segnato grado di
velocità e lo stato di quiete, li quali gradi sono infiniti; sí che non
abbia potuto la natura contribuire al corpo di Giove, subito creato, il suo
moto circolare, con tale e tanta velocità.
SALV. Io non ho detto, né ardirei di dire, che alla
natura e a Dio fusse impossibile il conferir quella velocità, che voi
dite, immediatamente; ma dirò bene che de facto la natura non lo
fa; talché il farlo verrebbe ad esser operazione fuora del corso naturale e
però miracolosa [Muovasi con qual si voglia velocità qual si sia
poderosissimo mobile, ed incontri qual si voglia corpo costituito in quiete,
ben che debolissimo e di minima resistenza; quel mobile, incontrandolo,
già mai non gli conferirà immediatamente la sua velocità:
segno evidente di che ne è il sentirsi il suono della percossa, il quale
non si sentirebbe, o per dir meglio non sarebbe, se il corpo che stava in
quiete ricevesse, nell'arrivo del mobile, la medesima velocità di
quello.] .
SAGR. Adunque voi credete che un sasso, partendosi
dalla quiete, ed entrando nel suo moto naturale verso il centro della Terra,
passi per tutti i gradi di tardità inferiori a qualsivoglia grado di
velocità?
SALV. Credolo, anzi ne son sicuro, e sicuro con
tanta certezza, che posso renderne sicuro voi ancora.
SAGR. Quando in tutto il ragionamento d'oggi io non
guadagnassi altro che una tal cognizione, me lo reputerei per un gran capitale.
SALV. Per quanto mi par di comprendere dal vostro
ragionare, gran parte della vostra difficultà consiste in quel dover
passare in un tempo, ed anco brevissimo, per quelli infiniti gradi di
tardità precedenti a qual si sia velocità acquistata dal mobile
in quel tal tempo: e però, prima che venire ad altro, cercherò di
rimovervi questo scrupolo; che doverà esser agevol cosa, mentre io vi
replico che il mobile passa per i detti gradi, ma il passaggio è fatto
senza dimorare in veruno, talché, non ricercando il passaggio piú di un solo
instante di tempo, e contenendo qualsivoglia piccol tempo infiniti instanti,
non ce ne mancheranno per assegnare il suo a ciascheduno de gl'infiniti gradi
di tardità, e sia il tempo quanto si voglia breve.
SAGR. Sin qui resto capace: tuttavia mi par gran
cosa che quella palla d'artiglieria (che tal mi figuro esser il mobile
cadente), che pur si vede scendere con tanto precipizio che in manco di dieci
battute di polso passerà piú di dugento braccia di altezza, si sia nel
suo moto trovata congiunta con sí picciol grado di velocità, che, se
avesse continuato di muoversi con quello senza piú accelerarsi, non l'averebbe
passata in tutto un giorno.
SALV. Dite pure in tutto un anno, né in dieci, né
in mille, sí come io m'ingegnerò di persuadervi, ed anco forse senza
vostra contradizione ad alcune assai semplici interrogazioni ch'io vi
farò. Però ditemi se voi avete difficultà nessuna in
concedere che quella palla, nello scendere, vadia sempre aquistando maggior
impeto e velocità.
SAGR. Sono di questo sicurissimo.
SALV. E se io dirò che l'impeto aquistato in
qualsivoglia luogo del suo moto sia tanto che basterebbe a ricondurla a quell'altezza
donde si partí, me lo concedereste?
SAGR. Concedere'lo senza contradizione, tuttavolta
che la potesse applicar, senz'esser impedita, tutto il suo impeto in quella
sola operazione, di ricondur se medesima, o altro eguale a sé, a quella medesima
altezza: come sarebbe se la Terra fusse perforata per il centro, e che, lontano
da esso cento o mille braccia, si lasciasse cader la palla; credo sicuramente
che ella passerebbe oltre al centro, salendo altrettanto quanto scese: e cosí
mi mostra l'esperienza accadere d'un peso pendente da una corda, che rimosso
dal perpendicolo, che è il suo stato di quiete, e lasciato poi in
libertà, cala verso detto perpendicolo e lo trapassa per altrettanto
spazio, o solamente tanto meno quanto il contrasto dell'aria e della corda o di
altri accidenti l'impediscono. Mostrami l'istesso l'acqua, che scendendo per un
sifone, rimonta altrettanto quanto fu la sua scesa.
SALV. Voi perfettamente discorrete. E perch'io so
che non avete dubbio in conceder che l'acquisto dell'impeto sia mediante
l'allontanamento dal termine donde il mobile si parte, e l'avvicinamento al
centro dove tende il suo moto, arete voi difficultà nel concedere che
due mobili eguali, ancorché scendenti per diverse linee, senza veruno
impedimento, facciano acquisto d'impeti eguali, tuttavolta che l'avvicinamento
al centro sia eguale?
SAGR. Non intendo bene il quesito.
SALV. Mi dichiarerò meglio col segnarne un
poco di figura. Però noterò questa linea A B parallela
all'orizonte, e sopra il punto B drizzerò la perpendicolare B C, e poi
congiugnerò questa inclinata C A. Intendendo ora la linea C A esser un
piano inclinato, esquisitamente pulito e duro, sopra il quale scenda una palla
perfettamente rotonda e di materia durissima, ed una simile scenderne liberamente
per la perpendicolare C B, domando se voi concedereste che l'impeto della
scendente per il piano C A, giunta che la fusse al termine A, potesse essere
eguale all'impeto acquistato dall'altra nel punto B, doppo la scesa per la
perpendicolare C B.
SAGR. Io credo risolutamente di sí,
perché in effetto amendue si sono avvicinate al centro egualmente, e, per
quello che pur ora ho conceduto, gl'impeti loro sarebbero egualmente bastanti a
ricondur loro stesse alla medesima altezza.
SALV. Ditemi ora quello che voi credete che facesse
quella medesima palla posata sul piano orizontale A B.
SAGR. Starebbe ferma, non avendo esso piano veruna
inclinazione.
SALV. Ma sul piano inclinato C A scenderebbe, ma
con moto piú lento che per la perpendicolare C B.
SAGR. Sono stato per risponder risolutamente di sí,
parendomi pur necessario che il moto per la perpendicolare C B debba esser piú
veloce che per l'inclinata C A: tuttavia, se questo è, come potrà
il cadente per l'inclinata, giunto al punto A, aver tanto impeto, cioè
tal grado di velocità, quale e quanto il cadente per la perpendicolare
avrà nel punto B? Queste due proposizioni par che si contradicano.
SALV. Adunque molto piú vi parrà falso se io
dirò che assolutamente le velocità de' cadenti per la
perpendicolare e per l'inclinata siano eguali. E pur questa è
proposizione verissima; sí come vera è questa ancora che dice che il
cadente si muove piú velocemente per la perpendicolare che per la inclinata.
SAGR. Queste al mio orecchio suonano proposizioni
contradittorie; ed al vostro, signor Simplicio?
SIMP. Ed a me par l'istesso.
SALV. Credo che voi mi burliate, fingendo di non
capire quel che voi intendete meglio di me. Però ditemi, signor
Simplicio: quando voi v'immaginate un mobile esser piú veloce d'un altro, che
concetto vi figurate voi nella mente?
SIMP. Figuromi, l'uno passar nell'istesso tempo
maggiore spazio dell'altro, o vero passare spazio eguale, ma in minor tempo.
SALV. Benissimo: e per mobili egualmente veloci,
che concetto vi figurate?
SIMP. Figuromi che passino spazi eguali in tempi
eguali.
SALV. E non altro concetto che questo?
SIMP. Questo mi par che sia la propria definizione
de' moti eguali.
SAGR. Aggiunghiamoci pure quest'altra di piú:
cioè chiamarsi ancora le velocità esser eguali, quando gli spazi
passati hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali son passati, e
sarà definizione piú universale.
SALV. Cosí è, perché comprende gli spazi
eguali passati in tempi eguali, e gl'ineguali ancora, passati in tempi
ineguali, ma proporzionali a essi spazi. Ripigliate ora la medesima figura, ed
applicandovi il concetto che vi figurate del moto piú veloce, ditemi perché vi
pare che la velocità del cadente per C B sia maggiore della
velocità dello scendente per la C A.
SIMP. Parmi, perché nel tempo che 'l cadente
passerà tutta la C B, lo scendente passerà nella C A una parte
minor della C B.
SALV. Cosí sta; e cosí si verifica, il mobile
muoversi piú velocemente per la perpendicolare che per l'inclinata. Considerate
ora se in questa medesima figura si potesse in qualche modo verificare l'altro
concetto, e trovare che i mobili fussero egualmente veloci in amendue le linee
C A, C B.
SIMP. Io non ci so veder cosa tale, anzi pur mi par
contradizione al già detto.
SALV. E voi che dite, signor Sagredo? Io non vorrei
già insegnarvi quel che voi medesimi sapete, e quello di che pur ora mi
avete arrecato la definizione.
SAGR. La definizione che io ho addotta è
stata, che i mobili si possan chiamare egualmente veloci quando gli spazi
passati da loro hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali gli
passano: però a voler che la definizione avesse luogo nel presente caso,
bisognerebbe che il tempo della scesa per C A al tempo della caduta per C B
avesse la medesima proporzione che la stessa linea C A alla C B; ma ciò
non so io intender che possa essere, tuttavolta che il moto per la C B sia piú
veloce che per la C A.
SALV. E pur è forza che voi l'intendiate.
Ditemi un poco: questi moti non si vann'eglino continuamente accelerando?
SAGR. Vannosi accelerando, ma piú nella
perpendicolare che nell'inclinata.
SALV. Ma questa accelerazione nella perpendicolare
è ella però tale, in comparazione di quella dell'inclinata, che
prese due parti eguali in qualsivoglia luogo di esse linee, perpendicolare e
inclinata, il moto nella parte della perpendicolare sia sempre piú veloce che
nella parte dell'inclinata?
SAGR. Signor no, anzi potrò io pigliare uno
spazio nell'inclinata, nel quale la velocità sia maggiore assai che in
altrettanto spazio preso nella perpendicolare; e questo sarà, se lo
spazio nella perpendicolare sarà preso vicino al termine C, e
nell'inclinata molto lontano.
SALV. Vedete dunque che la proposizione che dice
«Il moto per la perpendicolare è piú veloce che per l'inclinata» non si
verifica universalmente se non de i moti che cominciano dal primo termine,
cioè dalla quiete; senza la qual condizione la proposizione sarebbe
tanto difettosa, che anco la sua contradittoria potrebbe esser vera,
cioè che il moto nell'inclinata è piú veloce che nella
perpendicolare, perché è vero che nell'inclinata possiamo pigliare uno
spazio passato dal mobile in manco tempo che altrettanto spazio passato nella
perpendicolare. Ora, perché il moto nell'inclinata è in alcuni luoghi piú
veloce ed in altri meno che nella perpendicolare, adunque in alcuni luoghi
dell'inclinata il tempo del moto del mobile al tempo del moto del mobile per
alcuni luoghi della perpendicolare avrà maggior proporzione che lo
spazio passato allo spazio passato, ed in altri luoghi la proporzione del tempo
al tempo sarà minore di quella dello spazio allo spazio. Come, per
esempio, partendosi due mobili dalla quiete, cioè dal punto C, uno per
la perpendicolare C B e l'altro per l'inclinata C A, nel tempo che nella
perpendicolare il mobile avrà passata tutta la C B, l'altro avrà
passata la C T, minore; e però il tempo per C T al tempo per C B (che
gli è eguale) arà maggior proporzione che la linea T C alla C B,
essendo che la medesima alla minore ha maggior proporzione che alla maggiore: e
per l'opposito, quando nella C A, prolungata quanto bisognasse, si prendesse
una parte eguale alla C B, ma passata in tempo piú breve, il tempo
nell'inclinata al tempo nella perpendicolare arebbe proporzione minore che lo
spazio allo spazio. Se dunque nell'inclinata e nella perpendicolare possiamo
intendere spazi e velocità tali che le proporzioni tra essi spazi siano
e minori e maggiori delle proporzioni de' tempi, possiamo ben ragionevolmente
concedere che vi sieno anco spazi per i quali i tempi de i movimenti ritengano
la medesima proporzione che gli spazi.
SAGR. Già mi sent'io levato lo
scrupolo maggiore, e comprendo esser non solo possibile, ma dirò
necessario, quello che mi pareva un contradittorio: ma non però intendo
per ancora che uno di questi casi possibili o necessari sia questo del quale
abbiamo bisogno di presente, sí che vero sia che il tempo della scesa per C A
al tempo della caduta per C B abbia la medesima proporzione che la linea C A alla
C B, onde e' si possa senza contradizione dire che le velocità per la
inclinata C A e per la perpendicolare C B sieno eguali.
SALV. Contentatevi per ora ch'io
v'abbia rimossa l'incredulità; ma la scienza aspettatela un'altra volta,
cioè quando vedrete le cose dimostrate dal nostro Accademico intorno a i
moti locali: dove troverete dimostrato, che nel tempo che 'l mobile cade per
tutta la C B, l'altro scende per la C A sino al punto T, nel quale cade la
perpendicolare tiratavi dal punto B; e per trovare dove il medesimo cadente per
la perpendicolare si troverebbe quando l'altro arriva al punto A, tirate da
esso A la perpendicolare sopra la C A, prolungando essa e la C B sino al
concorso, e quello sarà il punto cercato. Intanto vedete come è
vero che il moto per la C B è piú veloce che per l'inclinata C A
(ponendo il termine C per principio de' moti de' quali facciamo comparazione);
perché la linea C B è maggiore della C T, e l'altra da C sino al
concorso della perpendicolare tirata da A sopra la C A è maggiore della
C A, e però il moto per essa è piú veloce che per la C A. Ma
quando noi paragoniamo il moto fatto per tutta la C A, non con tutto 'l moto
fatto nel medesimo tempo per la perpendicolare prolungata, ma col fatto in
parte del tempo per la sola parte C B, non repugna che il mobile per C A,
continuando di scendere oltre al T, possa in tal tempo arrivare in A, che qual
proporzione si trova tra le linee C A, C B, tale sia tra essi tempi. Ora,
ripigliando il nostro primo proposito, che era di mostrare come il mobile
grave, partendosi dalla quiete, passa, scendendo, per tutti i gradi di
tardità precedenti a qualsivoglia grado di velocità che egli
acquisti, ripigliando la medesima figura, ricordiamoci che eramo convenuti che il
cadente per la perpendicolare C B ed il descendente per l'inclinata C A, ne i
termini B, A si trovassero avere acquistati eguali gradi di velocità.
Ora, seguitando piú avanti, non credo che voi abbiate difficultà veruna
in concedere che sopra un altro piano meno elevato di A C, qual sarebbe,
verbigrazia, D A, il moto del descendente sarebbe ancora piú tardo che nel
piano CA:
talché non è da dubitar punto che si possano notar piani
tanto poco elevati sopra l'orizonte A B, che 'l mobile, cioè la medesima
palla, in qualsivoglia lunghissimo tempo si condurrebbe al termine A,
già che per condurvisi per il piano B A non basta tempo infinito, ed il
moto si fa sempre piú lento quanto la declività è minore. Bisogna
dunque necessariamente confessare, potersi sopra il termine B pigliare un punto
tanto ad esso B vicino, che tirando da esso al punto A un piano, la palla non
lo passasse né anco in un anno. Bisogna ora che voi sappiate, che l'impeto,
cioè il grado di velocità, che la palla si trova avere acquistato
quando arriva al punto A è tale, che quando ella continuasse di muoversi
con questo medesimo grado uniformemente, cioè senza accelerarsi o
ritardarsi, in altrettanto tempo in quanto è venuta per il piano inclinato
passerebbe uno spazio lungo il doppio del piano inclinato; cioè (per
esempio) se la palla avesse passato il piano D A in un'ora, continuando di
muoversi uniformemente con quel grado di velocità che ella si trova
avere nel giugnere al termine A, passerebbe in un'ora uno spazio doppio della
lunghezza D A: e perché (come dicevamo) i gradi di velocità acquistati
ne i punti B, A da i mobili che si partono da qualsivoglia punto preso nella
perpendicolare C B, e che scendono l'uno per il piano inclinato e l'altro per
essa perpendicolare, son sempre eguali, adunque il cadente per la
perpendicolare può partirsi da un termine tanto vicino al B, che 'l
grado di velocità acquistato in B non fusse bastante (conservandosi
sempre l'istesso) a condurre il mobile per uno spazio doppio della lunghezza
del piano inclinato in un anno né in dieci né in cento. Possiamo dunque
concludere che se è vero che, secondo il corso ordinario di natura, un
mobile, rimossi tutti gl'impedimenti esterni ed accidentarii, si muova sopra
piani inclinati con maggiore e maggior tardità secondo che
l'inclinazione sarà minore, sí che finalmente la tardità si
conduca a essere infinita, che è quando si finisce l'inclinazione e
s'arriva al piano orizontale; e se è vero parimente che al grado di
velocità acquistato in qualche punto del piano inclinato sia eguale quel
grado di velocità che si trova avere il cadente per la perpendicolare
nel punto segato da una parallela all'orizonte che passa per quel punto del
piano inclinato; bisogna di necessità confessare che il cadente, partendosi
dalla quiete, passa per tutti gl'infiniti gradi di tardità, e che, in
conseguenza, per acquistar un determinato grado di velocità bisogna
ch'e' si muova prima per linea retta, descendendo per breve o lungo spazio,
secondo che la velocità da acquistarsi dovrà essere minore o
maggiore, e secondo che 'l piano sul quale si scende sarà poco o molto
inclinato: talché può darsi un piano con sí poca inclinazione, che, per
acquistarvi quel tal grado di velocità, bisognasse prima muoversi per
lunghissimo spazio ed in lunghissimo tempo; sí che nel piano orizontale qual si
sia velocità non s'acquisterà naturalmente mai, avvenga che il
mobile già mai non vi si muoverà. Ma il moto per la linea
orizontale, che non è declive né elevata, è moto circolare
intorno al centro: adunque il moto circolare non s'acquisterà mai
naturalmente senza il moto retto precedente, ma bene, acquistato che e' si sia,
si continuerà egli perpetuamente con velocità uniforme. Io potrei
dichiararvi, ed anco dimostrarvi, con altri discorsi queste medesime
verità; ma non voglio interromper con sí gran digressioni il principal
nostro ragionamento, e piú tosto ci ritornerò con altra occasione, e
massime che ora si è venuto in questo proposito non per servirsene per
una dimostrazion necessaria, ma per adornare un concetto platonico: al quale
voglio aggiugnere un'altra particolare osservazione, pur del nostro Accademico,
che ha del mirabile. Figuriamoci, tra i decreti del divino Architetto essere
stato pensiero di crear nel mondo questi globi, che noi veggiamo continuamente
muoversi in giro, ed avere stabilito il centro delle lor conversioni ed in esso
collocato il Sole immobile, ed aver poi fabbricati tutti i detti globi nel
medesimo luogo, e di lí datali inclinazione di muoversi, discendendo verso il
centro, sin che acquistassero quei gradi di velocità che pareva alla
medesima Mente divina, li quali acquistati, fussero volti in giro, ciascheduno
nel suo cerchio, mantenendo la già concepita velocità: si cerca
in quale altezza e lontananza dal Sole era il luogo dove primamente furono essi
globi creati, e se può esser che la creazion di tutti fusse stata
nell'istesso luogo. Per far questa investigazione bisogna pigliare da i piú
periti astronomi le grandezze de i cerchi ne i quali i pianeti si rivolgono, e
parimente i tempi delle loro revoluzioni: dalle quali due cognizioni si
raccoglie quanto, verbigrazia, il moto di Giove è piú veloce del moto di
Saturno; e trovato (come in effetto è) che Giove si muove piú
velocemente, conviene che, sendosi partiti dalla medesima altezza, Giove sia
sceso piú che Saturno, sí come pure sappiamo essere veramente, essendo l'orbe
suo inferiore a quel di Saturno. Ma venendo piú avanti, dalla proporzione che
hanno le due velocità di Giove e di Saturno, e dalla distanza che è
tra gli orbi loro e dalla proporzione dell'accelerazion del moto naturale, si
può ritrovare in quanta altezza e lontananza dal centro delle lor
revoluzioni fusse il luogo donde e' si partirono. Ritrovato e stabilito questo,
si cerca se Marte scendendo di là sino al suo orbe […] si trova che la
grandezza dell'orbe e la velocità del moto convengono con quello che dal
calcolo ci vien dato; ed il simile si fa della Terra, di Venere e di Mercurio,
de i quali le grandezze de i cerchi e le velocità de i moti s'accostano
tanto prossimamente a quel che ne danno i computi, che è cosa
maravigliosa.
SAGR. Ho con estremo gusto sentito questo pensiero,
e se non ch'io credo che il far quei calcoli precisamente sarebbe impresa lunga
e laboriosa, e forse troppo difficile da esser compresa da me, io ve ne vorrei
fare instanza.
SALV. L'operazione è veramente lunga e
difficile, ed anco non m'assicurerei di ritrovarla cosí prontamente;
però la riserberemo ad un'altra volta
[SIMP. Di grazia, sia conceduto alla mia poca pratica nelle
scienze matematiche dir liberamente come i vostri discorsi, fondati sopra
proporzioni maggiori o minori e sopra altri termini da me non intesi quanto
bisognerebbe, non mi hanno rimosso il dubbio, o, per meglio dire,
l'incredulità, dell'esser necessario che quella gravissima palla di
piombo di 100 libre di peso, lasciata cadere da alto, partendosi dalla quiete
passi per ogni altissimo grado di tardità, mentre si vede in quattro
battute di polso aver passato piú di 100 braccia di spazio: effetto che mi rende
totalmente incredibile, quella in alcuno momento essersi trovata in stato tale
di tardità, che continuandosi di muover con quella, non avesse né anco
in mille anni passato lo spazio di mezo dito. E pure se questo è, vorrei
esserne fatto capace.
SAGR. Il signor Salviati, come di profonda dottrina, stima bene
spesso che quei termini che a se medesimo sono notissimi e familiari, debbano
parimente esser tali per gli altri ancora, e però tal volta gli esce di
mente che parlando con noi altri convien aiutar la nostra incapacità con
discorsi manco reconditi: e però io, che non mi elevo tanto, con sua
licenza tenterò di rimuover almeno in parte il signor Simplicio dalla
sua incredulità con mezo sensato. E stando pure sul caso della palla
d'artiglieria, ditemi in grazia, signor Simplicio: non concederete voi che nel
far passaggio da uno stato a un altro sia naturalmente piú facile e pronto il
passare ad uno piú propinquo che ad altro piú remoto?
SIMP. Questo lo intendo e lo concedo: e non ho dubbio che,
verbigrazia, un ferro infocato, nel raffreddarsi, prima passerà da i 10
gradi di caldo a i 9, che da i
SAGR. Benissimo. Ditemi appresso: quella palla d'artiglieria,
cacciata in su a perpendicolo dalla violenza del fuoco, non si va ella
continuamente ritardando nel suo moto sin che finalmente si conduce al termine
altissimo, che è quello della quiete? e nel diminuirsi la
velocità, o volete dire nel crescersi la tardità, non è
egli ragionevole che si faccia piú presto trapasso da i 10 gradi a gli 11, che
da i
SIMP. Cosí è ragionevole.
SAGR. Ma qual grado di tardità è cosí lontano da
qualsisia moto, che piú lontano non ne sia lo stato della quiete, ch'è
di tardità infinita? per lo che non è da metter dubio che la
detta palla, prima che si conduca al termine della quiete, trapassi per tutti i
gradi di tardità maggiori e maggiori, e per conseguenza per quello ancora
che in 1000 anni non trapasserebbe lo spazio di un dito. Ed essendo questo, sí
come è, verissimo, non dovrà, signor Simplicio, parervi
improbabile che, nel ritornare in giú, la medesima palla partendosi dalla
quiete recuperi la velocità del moto col ripassare per quei medesimi gradi
di tardità per i quali ella passò nell'andare in su, ma debba,
lasciando gli altri gradi di tardità maggiori e piú vicini allo stato di
quiete, passar di salto ad uno piú remoto.
SIMP. Io resto per questo discorso piú
capace assai che per quelle sottigliezze matematiche; e però
potrà il signor Salviati ripigliare e continuare il suo ragionamento.]
SALV. Ritorneremo dunque al nostro primo proposito,
ripigliando là di dove digredimmo, che, se ben mi ricorda, eramo sul
determinare come il moto per linea retta non può esser di uso alcuno
nelle parti del mondo bene ordinate; e seguitavamo di dire che non cosí avviene
de i movimenti circolari, de i quali quello che è fatto dal mobile in se
stesso, già lo ritien sempre nel medesimo luogo, e quello che conduce il
mobile per la circonferenza d'un cerchio intorno al suo centro stabile e fisso,
non mette in disordine né sé né i circonvicini. Imperocché tal moto,
primieramente, è finito e terminato, anzi non pur finito e terminato, ma
non è punto alcuno nella circonferenza, che non sia primo ed ultimo
termine della circolazione; e continuandosi nella circonferenza assegnatagli,
lascia tutto il resto, dentro e fuori di quella, libero per i bisogni d'altri,
senz'impedirgli o disordinargli già mai. Questo, essendo un movimento
che fa che il mobile sempre si parte e sempre arriva al termine, può,
primieramente, esso solo essere uniforme: imperocché l'accelerazione del moto
si fa nel mobile quando e' va verso il termine dove egli ha inclinazione, ed il
ritardamento accade per la repugnanza ch'egli ha di partirsi ed allontanarsi
dal medesimo termine; e perché nel moto circolare il mobile sempre si parte da
termine naturale, e sempre si muove verso il medesimo, adunque in lui la
repugnanza e l'inclinazione son sempre di eguali forze; dalla quale
egualità ne risulta una non ritardata né accelerata velocità,
cioè l'uniformità del moto. Da questa uniformità e
dall'esser terminato ne può seguire la continuazion perpetua, col
reiterar sempre le circolazioni, la quale in una linea interminata ed in un
moto continuamente ritardato o accelerato non si può naturalmente
ritrovare: e dico naturalmente, perché il moto retto che si ritarda,
è il violento, che non può esser perpetuo, e l'accelerato arriva
necessariamente al termine, se vi è; e se non vi è, non vi
può né anco esser moto, perché la natura non muove dove è
impossibile ad arrivare. Concludo per tanto, il solo movimento circolare poter
naturalmente convenire a i corpi naturali integranti l'universo e costituiti
nell'ottima disposizione; ed il retto, al piú che si possa dire, essere
assegnato dalla natura a i suoi corpi e parti di essi, qualunque volta si
ritrovassero fuori de' luoghi loro, costituite in prava disposizione, e
però bisognose di ridursi per la piú breve allo stato naturale. Di qui
mi par che assai ragionevolmente si possa concludere, che per mantenimento
dell'ordine perfetto tra le parti del mondo bisogni dire che le mobili sieno
mobili solo circolarmente, e se alcune ve ne sono che circolarmente non si
muovano, queste di necessità sieno immobili, non essendo altro, salvo
che la quiete e 'l moto circolare, atto alla conservazione dell'ordine. Ed io
non poco mi maraviglio che Aristotile, il quale pure stimò che 'l globo
terrestre fusse collocato nel centro del mondo e che quivi immobilmente si
rimanesse, non dicesse che de' corpi naturali altri erano mobili per natura ed
altri immobili, e massime avendo già definito, la natura esser principio
di moto e di quiete.
SIMP. Aristotile, come quello che non si prometteva
del suo ingegno, ancorché perspicacissimo, piú di quello che si conviene,
stimò, nel suo filosofare, che le sensate esperienze si dovessero
anteporre a qualsivoglia discorso fabbricato da ingegno umano, e disse che
quelli che avessero negato il senso, meritavano di esser gastigati col levargli
quel tal senso: ora, chi è quello cosí cieco che non vegga, le parti
della terra e dell'acqua muoversi, come gravi, naturalmente all'ingiú,
cioè verso il centro dell'universo, assegnato dall'istessa natura per fine
e termine del moto retto deorsum; e non vegga parimente, muoversi il
fuoco e l'aria all'insú rettamente verso il concavo dell'orbe lunare, come a
termine naturale del moto sursum? e vedendosi tanto manifestamente
questo, ed essendo noi sicuri che eadem est ratio totius et partium,
come non si deve egli dire, esser proposizion vera e manifesta che il movimento
naturale della terra è il retto ad medium, e del fuoco il retto a
medio?
SALV. In virtú di questo vostro discorso, al piú al
piú che voi poteste pretendere che vi fusse conceduto è che, sí come le
parti della terra rimosse dal suo tutto, cioè dal luogo dove esse
naturalmente dimorano, cioè, finalmente, ridotte in prava e disordinata
disposizione, tornano al luogo loro spontaneamente, e però naturalmente,
con movimento retto, cosí (conceduto che eadem sit ratio totius et partium)
si potrebbe inferire che rimosso per violenza il globo terrestre dal luogo
assegnatogli dalla natura, egli vi ritornerebbe per linea retta. Questo, come
ho detto, è quanto al piú vi si potesse concedere, fattavi ancora ogni
sorte d'agevolezza: ma chi volesse riveder con rigore queste partite, prima vi
negherebbe che le parti della terra nel ritornare al suo tutto si movessero per
linea retta, e non per circolare o altra mista; e voi sicuramente avereste che
fare assai a dimostrare il contrario, come apertamente intenderete nelle
risposte alle ragioni ed esperienze particolari addotte da Tolomeo e da
Aristotile. Secondariamente, se altri vi dicesse che le parti della terra si
muovono non per andar al centro del mondo, ma per andare a riunirsi col suo
tutto, e che per ciò hanno naturale inclinazione verso il centro del
globo terrestre, per la quale inclinazione conspirano a formarlo e conservarlo,
qual altro tutto e qual altro centro trovereste voi al mondo, al quale l'intero
globo terreno, essendone rimosso, cercasse di ritornare, onde la ragion del
tutto fusse simile a quella delle parti? Aggiugnete che né Aristotile né voi
proverete già mai che la Terra de facto sia nel centro
dell'universo; ma, se si può assegnare centro alcuno all'universo,
troveremo in quello esser piú presto collocato il Sole, come nel progresso
intenderete.
Ora, sí come dal cospirare concordemente tutte le
parti della terra a formare il suo tutto ne segue che esse da tutte le parti
con eguale inclinazione vi concorrano, e, per unirsi al piú che sia possibile
insieme, sfericamente vi si adattano; perché non doviamo noi credere che la
Luna, il Sole e gli altri corpi mondani siano essi ancora di figura rotonda non
per altro che per un concorde instinto e concorso naturale di tutte le loro
parti componenti? delle quali se tal ora alcuna per qualche violenza fusse dal
suo tutto separata, non è egli ragionevole il credere che spontaneamente
e per naturale instinto ella vi ritornerebbe? ed in questo modo concludere che
'l moto retto competa egualmente a tutti i corpi mondani?
SIMP. E' non è dubbio alcuno che come voi
volete negare non solamente i principii nelle scienze, ma esperienze manifeste
ed i sensi stessi, voi non potrete già mai esser convinto o rimosso da
veruna oppinione concetta; e io piú tosto mi quieterò perché contra
negantes principia non est disputandum, che persuaso in virtú delle vostre
ragioni. E stando su le cose da voi pur ora pronunziate (già che mettete
in dubbio insino nel moto de i gravi se sia retto o no), come potete voi mai
ragionevolmente negare che le parti della terra, cioè che le materie
gravissime, descendano verso il centro con moto retto, se, lasciate da una
altissima torre, le cui parete sono dirittissime e fabbricate a piombo, esse
gli vengono, per cosí dire, lambendo, e percotendo in terra in quel medesimo
punto a capello dove verrebbe a terminare il piombo che pendesse da uno spago
legato in alto ivi per l'appunto onde si lasciò cadere il sasso? non
è questo argomento piú che evidente, cotal moto esser retto e verso il
centro? Nel secondo luogo, voi revocate in dubbio se le parti della terra si
muovano per andar, come afferma Aristotile, al centro del mondo, quasi che egli
non l'abbia concludentemente dimostrato per i movimenti contrari, mentre in
cotal guisa argomenta: il movimento de i gravi è contrario a quello de i
leggieri; ma il moto de i leggieri si vede esser dirittamente all'insú,
cioè verso la circonferenza del mondo; adunque il moto de i gravi
è rettamente verso il centro del mondo, ed accade per accidens
che e' sia verso il centro della Terra, poiché questo si abbatte ad essere
unito con quello. Il cercar poi quello che facesse una parte del globo lunare o
del Sole, quando fusse separata dal suo tutto, è vanità, perché
si cerca quello che seguirebbe in conseguenza d'un impossibile, atteso che,
come pur dimostra Aristotile, i corpi celesti sono impassibili, impenetrabili,
infrangibili, sí che non si può dare il caso; e quando pure e' si desse,
e che la parte separata ritornasse al suo tutto, ella non vi tornerebbe come
grave o leggiera, ché pur il medesimo Aristotile prova che i corpi celesti non
sono né gravi né leggieri.
SALV. Quanto ragionevolmente io dubiti, se i gravi
si muovano per linea retta e perpendicolare, lo sentirete, come pur ora ho
detto, quando esaminerò questo argomento particolare. Circa il secondo
punto, io mi meraviglio che voi abbiate bisogno che 'l paralogismo d'Aristotile
vi sia scoperto, essendo per se stesso tanto manifesto, e che voi non vi
accorgiate che Aristotile suppone quello che è in quistione. Però
notate…
SIMP. Di grazia, signor Salviati parlate con piú
rispetto d'Aristotile. Ed a chi potrete voi persuader già mai che quello
che è stato il primo, unico ed ammirabile esplicator della forma
silogistica, della dimostrazione, de gli elenchi, de i modi di conoscere i
sofismi, i paralogismi, ed in somma di tutta la logica, equivocasse poi sí
gravemente in suppor per noto quello che è in quistione? Signori, bisogna
prima intenderlo perfettamente, e poi provarsi a volerlo impugnare.
SALV. Signor Simplicio, noi siamo qui tra noi
discorrendo familiarmente per investigar qualche verità; io non
arò mai per male che voi mi palesiate i miei errori, e quando io non
avrò conseguita la mente d'Aristotile, riprendetemi pur liberamente, che
io ve ne arò buon grado. Concedetemi in tanto che io esponga le mie
difficultà, e ch'io risponda ancora alcuna cosa a le vostre ultime
parole, dicendovi che la logica, come benissimo sapete, è l'organo col
quale si filosofa; ma, sí come può esser che un artefice sia eccellente
in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sonare, cosí può esser un
gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica; sí come ci son
molti che sanno per lo senno a mente tutta la poetica, e son poi infelici nel
compor quattro versi solamente; altri posseggono tutti i precetti del Vinci, e
non saprebber poi dipignere uno sgabello. Il sonar l'organo non s'impara da
quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s'impara dalla
continua lettura de' poeti; il dipignere s'apprende col continuo disegnare e
dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che
sono i matematici soli, e non i logici. Ora, tornando al proposito, dico che
quello che vede Aristotile del moto de i corpi leggieri, è il partirsi
il fuoco da qualunque luogo della superficie del globo terrestre e dirittamente
discostarsene, salendo in alto; e questo è veramente muoversi verso una
circonferenza maggiore di quella della Terra, anzi il medesimo Aristotile lo fa
muovere al concavo della Luna: ma che tal circonferenza sia poi quella del
mondo, o concentrica a quella, sí che il muoversi verso questa sia un muoversi
anco verso quella del mondo, ciò non si può affermare se prima
non si suppone che 'l centro della Terra, dal quale noi vediamo discostarsi i
leggieri ascendenti, sia il medesimo che 'l centro del mondo, che è
quanto dire che 'l globo terrestre sia costituito nel centro del mondo; che
è poi quello di che noi dubitiamo e che Aristotile intende di provare. E
questo direte che non sia un manifesto paralogismo?
SAGR. Questo argomento d'Aristotile mi era parso,
anco per un altro rispetto, manchevole e non concludente, quando bene se gli
concedesse che quella circonferenza alla quale si muove rettamente il fuoco,
fusse quella che racchiude il mondo. Imperocché, preso dentro a un cerchio non
solamente il centro, ma qualsivoglia altro punto, ogni mobile che partendosi da
quello camminerà per linea retta, e verso qualsivoglia parte, senz'alcun
dubbio andrà verso la circonferenza, e continuando il moto vi
arriverà ancora, sí che verissimo sarà il dire che egli verso la
circonferenza si muova; ma non sarà già vero che quello che per
le medesime linee si movesse con movimento contrario, vadia verso il centro, se
non quando il punto preso fusse l'istesso centro, o che 'l moto fusse fatto per
quella sola linea che, prodotta dal punto assegnato, passa per lo centro.
Talché il dire: «Il fuoco, movendosi rettamente, va verso la circonferenza del
mondo; adunque le parti della terra, le quali per le medesime linee si muovono
di moto contrario, vanno verso 'l centro del mondo», non conclude altrimenti,
se non supposto prima che le linee del fuoco, prolungate, passino per il centro
del mondo: e perché di esse noi sappiamo certo che le passano per il centro del
globo terrestre (essendo a perpendicolo sopra la sua superficie, e non
inclinate), adunque, per concludere, bisogna supporre che il centro della Terra
sia l'istesso che il centro del mondo, o almeno che le parti del fuoco e della
terra non ascendano e descendano se non per una linea sola che passi per il
centro del mondo; il che è poi falso e repugna all'esperienza, la qual
ci mostra che le parti del fuoco non per una linea sola, ma per le infinite
prodotte dal centro della Terra verso tutte le parti del mondo, ascendono
sempre per linee perpendicolari alla superficie del globo terrestre.
SALV. Voi, signor Sagredo, molto ingegnosamente
conducete Aristotile al medesimo inconveniente, mostrando l'equivoco manifesto;
ma aggiugnete un'altra sconvenevolezza. Noi veggiamo la Terra essere sferica, e
però siamo sicuri che ella ha il suo centro; a quello veggiamo che si
muovono tutte le sue parti, ché cosí è necessario dire mentre i movimenti
loro son tutti perpendicolari alla superficie terrestre; intendiamo come,
movendosi al centro della Terra, si muovono al suo tutto ed alla sua madre
universale; e siamo poi tanto buoni, che ci vogliam lasciar persuadere che
l'instinto loro naturale non è di andar verso il centro della Terra, ma
verso quel dell'universo, il quale non sappiamo dove sia, né se sia, e che
quando pur sia, non è altro ch'un punto imaginario ed un niente senza
veruna facultà. All'ultimo detto poi del signor Simplicio, che il
contendere se le parti del Sole o della Luna o di altro corpo celeste, separate
dal suo tutto, ritornassero naturalmente a quello, sia una vanità, per
essere il caso impossibile, essendo manifesto, per dimostrazioni di Aristotile,
che i corpi celesti sono impassibili, impenetrabili, impartibili, etc.,
rispondo, niuna delle condizioni per le quali Aristotile fa differire i corpi
celesti da gli elementari avere altra sussistenza che quella ch'ei deduce dalla
diversità de i moti naturali di quelli e di questi; in modo che, negato
che il moto circolare sia solo de i corpi celesti, ed affermato ch'ei convenga
a tutti i corpi naturali mobili, bisogna per necessaria conseguenza dire che
gli attributi di generabile o ingenerabile, alterabile o inalterabile, partibile
o impartibile, etc., egualmente e comunemente convengano a tutti i corpi
mondani, cioè tanto a i celesti quanto a gli elementari, o che malamente
e con errore abbia Aristotile dedotti dal moto circolare quelli che ha
assegnati a i corpi celesti.
SIMP. Questo modo di filosofare tende alla
sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in
conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo. Ma io credo che i fondamenti
de i Peripatetici sien tali, che non ci sia da temere che con la rovina loro si
possano construire nuove scienze.
SALV. Non vi pigliate già
pensiero del cielo né della Terra, né temiate la lor sovversione, come né anco
della filosofia; perché, quanto al cielo, in vano è che voi temiate di
quello che voi medesimo reputate inalterabile e impassibile; quanto alla Terra,
noi cerchiamo di nobilitarla e perfezionarla, mentre proccuriamo di farla
simile a i corpi celesti e in certo modo metterla quasi in cielo, di dove i
vostri filosofi l'hanno bandita. La filosofia medesima non può se non
ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno
veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi, col ributtargli, maggiormente
verranno confermate le prime dottrine. Pigliatevi piú tosto pensiero di alcuni
filosofi, e vedete di aiutargli e sostenergli, ché quanto alla scienza stessa,
ella non può se non avanzarsi. E ritornando al nostro proposito,
producete liberamente quello che vi sovviene per mantenimento della somma
differenza che Aristotile pone tra i corpi celesti e la parte elementare, nel
far quelli ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, etc., e questa
corruttibile, alterabile, etc. [Per quelli che si perturbano per aver a mutar
tutta la Filosofia si mostri come non è cosí, e che resta la medesima
dottrina dell'anima, delle generazioni, delle meteore, degli animali.]
SIMP. Io non veggo per ancora che Aristotile sia
bisognoso di soccorso, restando egli in piede, saldo e forte, anzi non essendo
per ancora pure stato assalito, non che abbattuto, da voi. E qual sarà
il vostro schermo in questo primo assalto? Scrive Aristotile: Quello che si
genera, si fa da un contrario in qualche subietto, e parimente si corrompe in
qualche subietto da un contrario in un contrario, sí che (notate bene) la
corruzzione e generazione non è se non ne i contrari; ma de i contrari i
movimenti son contrari; se dunque al corpo celeste non si può assegnar
contrario, imperocché al moto circolare niun altro movimento è
contrario, adunque benissimo ha fatto la natura a fare esente da i contrari
quello che doveva essere ingenerabile ed incorruttibile. Stabilito questo primo
fondamento, speditamente si cava in conseguenza ch'ei sia inaugumentabile,
inalterabile, impassibile, e finalmente eterno ed abitazione proporzionata a
gli Dei immortali, conforme alla opinione ancora di tutti gli uomini che de gli
Dei hanno concetto. Conferma poi l'istesso ancor per il senso; avvenga che in
tutto il tempo passato, secondo le tradizioni e memorie, nissuna cosa si vede
essersi trasmutata, né secondo tutto l'ultimo cielo né secondo alcuna sua
propria parte. Che poi al moto circolare niuno altro sia contrario, lo prova
Aristotile in molte maniere; ma senza replicarle tutte, assai apertamente resta
dimostrato, mentre che i moti semplici non sono altri che tre, al mezo, dal
mezo e intorno al mezo, de i quali i dua retti sursum et deorsum sono
manifestamente contrari, e perché un solo ha un solo per contrario, adunque non
resta altro movimento che possa esser contrario al circolare. Eccovi il
discorso di Aristotile argutissimo e concludentissimo, per il quale si prova
l'incorruttibilità del cielo.
SALV. Questo non è niente di piú che il puro
progresso d'Aristotile, già da me accennato, nel quale, tuttavolta che
io vi neghi che il moto, che voi attribuite a i corpi celesti, non convenga
ancora alla Terra, la sua illazione resta nulla. Dicovi per tanto che quel moto
circolare, che voi assegnate a i corpi celesti, conviene ancora alla Terra: dal
che, posto che il resto del vostro discorso sia concludente, seguirà una
di queste tre cose, come poco fa si è detto ed or vi replico,
cioè, o che la Terra sia essa ancora ingenerabile e incorruttibile, come
i corpi celesti, o che i corpi celesti sieno, come gli elementari, generabili,
alterabili, etc., o che questa differenza di moti non abbia che far con la
generazione e corruzione. Il discorso di Aristotile e vostro contiene molte
proposizioni da non esser di leggiero ammesse, e per poterlo meglio esaminare,
sarà bene ridurlo piú al netto ed al distinto, che sia possibile: e scusimi
il signor Sagredo se forse con qualche tedio sente replicar piú volte le
medesime cose, e faccia conto di sentir ripigliar gli argomenti ne i publici
circoli de i disputanti. Voi dite: «La generazione e corruzione non si fa se
non dove sono i contrari; i contrari non sono se non tra i corpi semplici
naturali, mobili di movimenti contrari; movimenti contrari sono solamente
quelli che si fanno per linee rette tra termini contrari, e questi sono
solamente dua cioè dal mezo ed al mezo, e tali movimenti non sono di
altri corpi naturali che della terra, del fuoco e degli altri due elementi;
adunque la generazione e corruzione non è se non tra gli elementi. E
perché il terzo movimento semplice, cioè il circolare intorno al mezo,
non ha contrario (perché contrari sono gli altri dua, e un solo ha un solo per
contrario), però quel corpo naturale al quale tal moto compete, manca di
contrario; e non avendo contrario, resta ingenerabile e incorruttibile etc.,
perché dove non è contrarietà, non è generazione né corruzione
etc.: ma tal moto compete solamente a i corpi celesti: adunque soli questi sono
ingenerabili, incorruttibili, etc.». E prima, a me si rappresenta assai piú
agevol cosa il potersi assicurare se la Terra, corpo vastissimo e per
vicinità a noi trattabilissimo, si muova di un movimento massimo, qual
sarebbe per ora il rivolgersi in se stessa in ventiquattro ore, che non
è l'intendere ed assicurarsi se la generazione e corruzione si facciano
da i contrari, anzi pure se la corruzione e la generazione ed i contrari sieno
in natura: e se voi, signor Simplicio, mi sapeste assegnare qual sia il modo di
operare della natura nel generare in brevissimo tempo centomila moscioni da un
poco di fumo di mosto, mostrandomi quali sieno quivi i contrari, qual cosa si corrompa
e come, io vi reputerei ancora piú di quello ch'io fo, perché io nessuna di
queste cose comprendo. In oltre arei molto caro d'intendere come e perché
questi contrari corruttivi sieno cosí benigni verso le cornacchie e cosí fieri
verso i colombi, cosí tolleranti verso i cervi ed impazienti contro a i
cavalli, che a quelli concedano piú anni di vita cioè
d'incorruttibilità, che settimane a questi. I peschi, gli ulivi, hanno
pur radice ne i medesimi terreni, sono esposti a i medesimi freddi, a i
medesimi caldi, alle medesime pioggie e venti, ed in somma alle medesime
contrarietà; e pur quelli vengono destrutti in breve tempo, e questi
vivono molte centinaia d'anni. Di piú, io non son mai restato ben capace di
questa trasmutazione sustanziale (restando sempre dentro a i puri termini
naturali), per la quale una materia venga talmente trasformata, che si deva per
necessità dire, quella essersi del tutto destrutta, sí che nulla del suo
primo essere vi rimanga e ch'un altro corpo, diversissimo da quella, se ne sia
prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto e di lí a poco sotto
un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una
semplice trasposizione di parti, senza corrompere o generar nulla di nuovo,
perché di simili metamorfosi ne vediamo noi tutto il giorno. Sí che torno a
replicarvi che come voi mi vorrete persuader che la Terra non si possa muover
circolarmente per via di corruttibilità e generabilità, averete
che fare assai piú di me, che con argomenti ben piú difficili, ma non men
concludenti, vi proverò il contrario.
SAGR. Signor Salviati, perdonatemi se io interrompo
il vostro ragionamento, il quale, sí come mi diletta assai, perché io ancora mi
trovo involto nelle medesime difficultà, cosí dubito che sia impossibile
il poterne venire a capo senza deporre in tutto e per tutto la nostra principal
materia; però, quando si potesse tirare avanti il primo discorso,
giudicherei che fusse bene rimettere ad un altro separato ed intero
ragionamento questa quistione della generazione e corruzione, sí come anco,
quando ciò piaccia a voi ed al signor Simplicio, si potrà fare di
altre quistioni particolari, che il corso de' ragionamenti ci porgesse avanti,
delle quali io terrò memoria a parte, per proporle un altro giorno e
minutamente esaminarle. Or, quanto alla presente, già che voi dite che,
negato ad Aristotile che il moto circolare non sia della Terra, come degli
altri corpi celesti, ne seguirà che quello che accade della Terra, circa
l'esser generabile, alterabile, etc., sia ancora del cielo, lasciamo star se la
generazione e corruzione sieno o non sieno in natura, e torniamo a veder
d'investigare quel che faccia il globo terrestre.
SIMP. Io non posso accomodar l'orecchie a sentir
mettere in dubbio se la generazione e corruzione sieno in natura, essendo una
cosa che noi continuamente aviamo innanzi a gli occhi, e della quale Aristotile
ha scritto due libri interi. Ma quando si abbiano a negare i principii nelle
scienze e mettere in dubbio le cose manifestissime, chi non sa che si
potrà provare quel che altri vuole e sostener qualsivoglia paradosso? E
se voi non vedete tutto il giorno generarsi e corrompersi erbe, piante, animali,
che altra cosa vedete voi? come non vedete perpetuamente giostrarsi in contro
le contrarietà, e la terra mutarsi in acqua, l'acqua convertirsi in
aria, l'aria in fuoco, e di nuovo l'aria condensarsi in nuvole, in pioggie,
grandini e tempeste?
SAGR. Anzi veggiamo pur tutte queste cose, e
però vogliamo concedervi il discorso d'Aristotile, quanto a questa parte
della generazione e corruzione fatta da i contrari; ma se io vi
concluderò, in virtú delle medesime proposizioni concedute ad
Aristotile, che i corpi celesti sieno essi ancora, non meno che gli elementari,
generabili e corruttibili, che cosa direte voi?
SIMP. Dirò che voi abbiate fatto quello che
è impossibile a farsi.
SAGR. Ditemi un poco, signor Simplicio: non sono
queste affezioni contrarie tra di loro?
SIMP. Quali?
SAGR. Eccovele: alterabile, inalterabile,
passibile, impassibile, generabile, ingenerabile, corruttibile, incorruttibile?
SIMP. Sono contrarissime
SAGR. Come questo sia, e sia vero ancora che i
corpi celesti sieno ingenerabili e incorruttibili, io vi provo che di
necessità bisogna che i corpi celesti sien generabili e corruttibili.
SIMP. Questo non potrà esser altro che un
soffisma.
SAGR. Sentite l'argomento, e poi nominatelo e
solvetelo. I corpi celesti, perché sono ingenerabili ed incorruttibili, hanno
in natura de i contrari, che sono i corpi generabili e corruttibili; ma dove
è contrarietà, quivi è generazione e corruzione; adunque i
corpi celesti son generabili e corruttibili.
SIMP. Non vi diss'io che non poteva esser altro
ch'un soffisma? Questo è un di quelli argomenti cornuti, che si chiamano
soriti: come quello del Candiotto, che diceva che tutti i Candiotti erano
bugiardi, però, essendo egli Candiotto, veniva a dir la bugia, mentre
diceva che i Candiotti erano bugiardi; bisogna adunque che i Candiotti fussero
veridici, ed in conseguenza esso, come Candiotto, veniva ad esser veridico, e
però, nel dir che i Candiotti erano bugiardi, diceva il vero, e
comprendendo sé, come Candiotto, bisognava che e' fusse bugiardo. E cosí in
questa sorte di soffismi si durerebbe in eterno a rigirarsi, senza concluder
mai niente.
SAGR. Voi sin qui l'avete nominato: resta ora che
lo sciogliate, mostrando la fallacia.
SIMP. Quanto al solverlo e mostrar la sua fallacia,
non vedete voi, prima, la contradizion manifesta? i corpi celesti sono
ingenerabili e incorruttibili; adunque i corpi celesti son generabili e
corruttibili? E poi, la contrarietà non è tra i corpi celesti, ma
è tra gli elementi, li quali hanno la contrarietà de i moti sursum
et deorsum e della leggerezza e gravità; ma i cieli, che si muovono
circolarmente, al qual moto niun altro è contrario, mancano di
contrarietà, e però sono incorruttibili etc.
SAGR. Piano, signor Simplicio. Questa
contrarietà, per la quale voi dite alcuni corpi semplici esser corruttibili,
risied'ella nell'istesso corpo che si corrompe, o pure ha relazione ad un
altro? dico se l'umidità, per esempio, per la quale si corrompe una
parte di terra, risiede nell'istessa terra o pure in un altro corpo, qual
sarebbe l'aria o l'acqua. Io credo pur che voi direte che, sí come i movimenti
in su e in giú, e la gravità e la leggerezza, che voi fate i primi
contrari, non posson essere nel medesimo suggetto, cosí né anco l'umido e 'l
secco, il caldo e 'l freddo: bisogna dunque che voi diciate, che quando il
corpo si corrompe, ciò avvenga per la qualità che si trova in un
altro, contraria alla sua propria. Però, per far che 'l corpo celeste
sia corruttibile, basta che in natura ci sieno corpi che abbiano
contrarietà al corpo celeste; e tali sono gli elementi, se è vero
che la corruttibilità sia contraria all'incorruttibilità.
SIMP. Non basta questo, Signor mio. Gli elementi si
alterano e si corrompono perché si toccano e si mescolano tra di loro, e cosí
possono esercitare le lor contrarietà; ma i corpi celesti sono separati
da gli elementi, da i quali non son né anco tocchi, se ben essi toccano gli
elementi. Bisogna, se voi volete provar la generazione e corruzione ne i corpi
celesti, che voi mostriate che tra loro riseggano le contrarietà.
SAGR. Ecco ch'io ve le trovo tra di loro. Il primo
fonte dal quale voi cavate le contrarietà de gli elementi, è la
contrarietà de' moti loro in su e in giú; adunque è forza che
contrari sieno parimente tra di loro quei principii da i quali dependono tali
movimenti; e perché quello è mobile in su per la leggerezza, e questo in
giú per la gravità, è necessario che leggerezza e gravità
sieno tra di loro contrarie; né meno si deve credere che sien contrari quegli
altri principii che son cagioni che questo sia grave, e leggiero quello. Ma,
per voi medesimi, la leggerezza e la gravità vengono in conseguenza
della rarità e densità; adunque contrarie saranno la
densità e la rarità: le quali condizioni tanto amplamente si
ritrovano ne i corpi celesti, che voi stimate le stelle non esser altro che
parti piú dense del lor cielo; e quando ciò sia, bisogna che la
densità delle stelle superi quasi d'infinito intervallo quella del resto
del cielo; il che è manifesto dall'essere il cielo sommamente trasparente,
e le stelle sommamente opache, e dal non si trovare lassú altre qualità
che 'l piú e 'l meno denso o raro, che della maggiore e minor trasparenza
possano esser principii. Essendo dunque tali contrarietà tra i corpi
celesti, è necessario che essi ancora sien generabili e corruttibili, in
quel medesimo modo che son tali i corpi elementari, o vero che non la
contrarietà sia causa della corruttibilità, etc.
SIMP. Non è necessario né l'un né l'altro:
perché la densità e rarità ne i corpi celesti non son contrarie
tra loro, come ne i corpi elementari; imperocché non dependono dalle prime
qualità, caldo e freddo, che sono contrarie, ma dalla molta o poca
materia in proporzione alla quantità; ora il molto e 'l poco dicono
solamente una opposizione relativa, che è la minor che sia, e non ha che
fare con la generazione e corruzione.
SAGR. Talché a voler che il denso e 'l raro, che
tra gli elementi deve esser cagione di gravità e leggerezza, le quali
possan esser cause di moti contrari sursum et deorsum, da i quali
dependano poi le contrarietà per la generazione e corruzione, […], non
basta che sieno di quei densi e rari che sotto la medesima quantità, o
vogliam dir mole, contengono molta o poca materia, ma è necessario che
e' siano densi e rari mercè delle prime qualità, freddo e caldo;
altramente, non si farebbe niente. Ma, se questo è, Aristotile ci ha
ingannati, perché doveva dircelo da principio, e lasciare scritto che son
generabili e corruttibili quei corpi semplici che son mobili di movimenti
semplici in su e in giú, dependenti da leggerezza e gravità, causate da
rarità e densità, fatta da molta e poca materia, mercé del caldo
e del freddo, e non si fermare sul semplice moto sursum et deorsum;
perché io vi assicuro che quanto al fare i corpi gravi e leggieri, onde e' sien
poi mobili di movimenti contrari, qualsivoglia densità e rarità
basta, venga ella per caldo e freddo o per quel che piú vi piace, perché il
caldo e 'l freddo non hanno che far niente in questa operazione, e voi vedrete
che un ferro infocato, che pur si può chiamar caldo, pesa il medesimo e
si muove nel medesimo modo che freddo. Ma lasciato ancor questo, che sapete voi
che il denso e 'l raro celeste non dependano dal freddo e dal caldo?
SIMP. Sollo, perché tali qualità non sono
tra i corpi celesti, li quali non son caldi né freddi.
SALV. Io veggo che noi torniamo di nuovo a
ingolfarci in un pelago infinito da non ne uscir mai, perché questo è un
navigar senza bussola, senza stelle, senza remi, senza timone, onde convien per
necessità o passare di scoglio in scoglio o dare in secco o navigar
sempre per perduti. Però, se conforme al vostro consiglio noi vogliamo
tendere avanti nella nostra principal materia, bisogna che, lasciata per ora
questa general considerazione, se il moto retto sia necessario in natura e convenga
ad alcuni corpi, venghiamo alle dimostrazioni, osservazioni ed esperienze
particolari, proponendo prima tutte quelle che da Aristotile da Tolomeo e da
altri sono state sin qui addotte per prova della stabilità della Terra,
cercando secondariamente di solverle, e portando in ultimo quelle per le quali
altri possa restar persuaso che la Terra sia, non men che la Luna o altro
pianeta, da connumerarsi tra i corpi naturali mobili circolarmente.
SAGR. Io tanto piú volentieri mi atterrò a
questo, quanto io resto assai piú sodisfatto del vostro discorso architettonico
e generale che di quello d'Aristotile, perché il vostro senza intoppo veruno mi
quieta, e l'altro ad ogni passo mi attraversa qualche inciampo; e non so come
il signor Simplicio non sia restato subito persuaso dalla ragione arrecata da
voi per prova che il moto per linea retta non può aver luogo in natura,
tuttavoltaché si supponga che le parti dell'universo sieno disposte in ottima
costituzione e perfettamente ordinate.
SALV. Fermate, di grazia, signor Sagredo, ché pur
ora mi sovviene il modo di poter dar sodisfazione anco al signor Simplicio,
tuttavolta però che e' non voglia restar talmente legato ad ogni detto
d'Aristotile, che egli abbia per sacrilegio il discostarsene da alcuno. E' non è
dubbio che per mantener l'ottima disposizione e l'ordine perfetto delle parti
dell'universo, quanto alla local situazione, non ci è altro che il
movimento circolare e la quiete; ma quanto al moto per linea retta, non veggo,
che possa servire ad altro che al ridurre nella sua natural costituzione
qualche particella di alcuno de' corpi integrali che per qualche accidente
fusse stata rimossa e separata dal suo tutto, come di sopra dicemmo.
Consideriamo ora tutto il globo terrestre e veggiamo quel che può esser
di lui, tuttavoltaché ed esso e gli altri corpi mondani si devano conservare
nell'ottima e natural disposizione. Egli è necessario dire, o che egli
resti e si conservi perpetuamente immobile nel luogo suo, o che, restando pur
sempre nell'istesso luogo, si rivolga in se stesso, o che vadia intorno ad un
centro, movendosi per la circonferenza di un cerchio: de i quali accidenti, ed
Aristotile e Tolomeo e tutti i lor seguaci dicon pure che egli ha osservato
sempre, ed è per mantenere in eterno, il primo, cioè una perpetua
quiete nel medesimo luogo. Or, perché dunque in buon'ora non si dev'egli dire
che sua naturale affezione è il restare immobile, piú tosto che far suo
naturale il moto all'ingiú, del qual moto egli già mai non si è
mosso ned è per muoversi? E quanto al movimento per linea retta, lascisi
che la natura se ne serva per ridur al suo tutto le particelle della terra,
dell'acqua, dell'aria, e del fuoco, e di ogni altro corpo integrale mondano,
quando alcuna di loro, per qualche caso, se ne trovasse separata, e però
in luogo disordinato trasposta; se pure anco per far questa restituzione non si
trovasse che qualche moto circolare fusse piú accomodato. Parmi che questa
primaria posizione risponda molto meglio, dico anco in via d'Aristotile
medesimo, a tutte le altre conseguenze, che l'attribuire come intrinseco e
natural principio de gli elementi i movimenti retti. Il che è manifesto:
perché s'io domanderò al Peripatetico, se, tenendo egli che i corpi
celesti sieno incorruttibili ed eterni, ei crede che 'l globo terrestre non sia
tale, ma corruttibile e mortale, sí che egli abbia a venir tempo che,
continuando suo essere e sue operazioni il Sole e la Luna e le altre stelle, la
Terra non si ritrovi piú al mondo, ma sia con tutto il resto de gli elementi
destrutta e andata in niente, son sicuro che egli risponderà di no;
adunque la corruzione e generazione è nelle parti, e non nel tutto, e
nelle parti ben minime e superficiali, le quali son come insensibili in
comparazion di tutta la mole: e perché Aristotile argumenta la generazione e
corruzione dalla contrarietà de' movimenti retti, lascinsi tali
movimenti alle parti, che sole si alterano e corrompono, ed all'intero globo e
sfera de gli elementi attribuiscasi o il moto circolare o una perpetua
consistenza nel proprio luogo, affezioni che sole sono atte alla perpetuazione
ed al mantenimento dell'ordine perfetto. Questo che si dice della terra,
può dirsi con simil ragion del fuoco e della maggior parte dell'aria; a
i quali elementi si son ridotti i Peripatetici ad assegnare per loro intrinseco
e natural moto uno del quale mai non si sono mossi né sono per muoversi, e
chiamar fuor della natura loro quel movimento del quale si muovono, si son
mossi, e son per muoversi perpetuamente. Questo dico, perché assegnano all'aria
ed al fuoco il moto all'insú, del quale già mai si è mosso alcuno
de i detti elementi, ma solo qualche lor particella, e questa non per altro che
per ridursi alla perfetta costituzione, mentre si trovava fuori del luogo suo
naturale; ed all'incontro chiamano a lor preternaturale il moto circolare, del
quale incessabilmente si muovono, scordatisi in certo modo di quello che piú
volte ha detto Aristotile, che nessun violento può durar lungo tempo.
SIMP. A tutte queste cose abbiamo noi le risposte
accomodatissime, le quali per ora lascerò da parte per venire alle
ragioni piú particolari ed esperienze sensate, le quali finalmente devono
anteporsi, come ben dice Aristotile, a quanto possa esserci somministrato
dall'umano discorso.
SAGR. Servanci dunque le cose dette sin qui per
averci messo in considerazione qual de' due generali discorsi abbia piú del
probabile: dico quello di Aristotile, per persuaderci, la natura de i corpi
sullunari esser generabile e corruttibile, etc., e però diversissima
dall'essenza de i corpi celesti, per esser loro impassibili, ingenerabili,
incorruttibili, etc., tirato dalla diversità de i movimenti semplici; o
pur questo del signor Salviati, che, supponendo le parti integrali del mondo
essere disposte in ottima costituzione, esclude per necessaria conseguenza da i
corpi semplici naturali i movimenti retti, come di niuno uso in natura, e stima
la Terra esser essa ancora uno de i corpi celesti, adornato di tutte le
prerogative che a quelli convengono: il qual discorso sin qui a me consuona assai
piú che quell'altro. Sia dunque contento il signor Simplicio produr tutte le
particolari ragioni, esperienze ed osservazioni, tanto naturali quanto
astronomiche, per le quali altri possa restar persuaso, la Terra esser diversa
da i corpi celesti, immobile, collocata nel centro del mondo, e se altro vi
è che l'escluda dall'esser essa ancora mobile come un pianeta, come
Giove o la Luna, etc.: ed il signor Salviati per sua cortesia si
contenterà di rispondere a parte a parte.
SIMP. Eccovi, per la prima, due potentissime
dimostrazioni per prova che la Terra è differentissima da i corpi
celesti. Prima, i corpi che sono generabili, corruttibili, alterabili, etc.,
son diversissimi da quelli che sono ingenerabili incorruttibili, inalterabili,
etc.: la Terra è generabile, corruttibile, alterabile, etc., e i corpi
celesti ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, etc.: adunque la Terra
è diversissima da i corpi celesti.
SAGR Per il primo argomento, voi riconducete in
tavola quello che ci è stato tutt'oggi ed a pena si è levato pur
ora.
SIMP. Piano, Signore; sentite il resto, e vedrete
quanto e' sia differente da quello. Nell'altro si provò la minore a
priori, ed ora ve la voglio provare a posteriori; guardate se questo
è essere il medesimo. Provo dunque la minore, essendo la maggiore
manifestissima. La sensata esperienza ci mostra come in Terra si fanno continue
generazioni, corruzioni, alterazioni, etc., delle quali né per senso nostro, né
per tradizioni o memorie de' nostri antichi, se n'è veduta veruna in
cielo; adunque il cielo è inalterabile etc., e la Terra alterabile etc.,
e però diversa dal cielo. Il secondo argomento cavo io da un principale
ed essenziale accidente; ed è questo. Quel corpo che è per sua
natura oscuro e privo di luce, è diverso da i corpi luminosi e
risplendenti: la Terra è tenebrosa e senza luce; ed i corpi celesti
splendidi e pieni di luce: adunque etc. Rispondasi a questi, per non far troppo
cumulo, e poi ne addurrò altri.
SALV. Quanto al primo, la forza del quale voi
cavate dall'esperienza, desidero che voi piú distintamente mi produciate le
alterazioni che voi vedete farsi nella Terra e non in cielo, per le quali voi
chiamate la Terra alterabile ed il cielo no.
SIMP. Veggo in Terra continuamente generarsi e
corrompersi erbe, piante, animali, suscitarsi venti, pioggie, tempeste,
procelle, ed in somma esser questo aspetto della Terra in una perpetua
metamorfosi; niuna delle quali mutazioni si scorge ne' corpi celesti, la
costituzione e figurazione de' quali è puntualissimamente conforme a
quelle di tutte le memorie, senza esservisi generato cosa alcuna di nuovo, né
corrotto delle antiche.
SALV. Ma, come voi vi abbiate a quietare su queste
visibili, o, per dir meglio, vedute, esperienze, è forza che voi
reputiate la China e l'America esser corpi celesti, perché sicuramente in essi
non avete vedute mai queste alterazioni che voi vedete qui in Italia, e che
però, quanto alla vostra apprensione, e' sieno inalterabili.
SIMP. Ancorché io non abbia vedute queste
alterazioni sensatamente in quei luoghi, ce ne son però le relazioni
sicure: oltre che, cum eadem sit ratio totius et partium, essendo quei
paesi parti della Terra come i nostri, è forza che e' sieno alterabili
come questi.
SALV. E perché non l'avete voi, senza ridurvi a
dover credere all'altrui relazioni, osservate e viste da per voi con i vostri
occhi propri?
SIMP. Perché quei paesi, oltre al non esser esposti
a gli occhi nostri, son tanto remoti che la vista nostra non potrebbe arrivare
a comprenderci simili mutazioni.
SALV. Or vedete come da per voi medesimo avete
casualmente scoperta la fallacia del vostro argomento. Imperocché se voi dite
che le alterazioni, che si veggono in Terra appresso di noi, non le potreste,
per la troppa distanza, scorger fatte in America, molto meno le potreste vedere
nella Luna, tante centinaia di volte piú lontana: e se voi credete le
alterazioni messicane a gli avvisi venuti di là, quai rapporti vi son
venuti dalla Luna a significarvi che in lei non vi è alterazione?
Adunque dal non veder voi le alterazioni in cielo, dove, quando vi fussero, non
potreste vederle per la troppa distanza, e dal non ne aver relazione, mentre
che aver non si possa, non potete arguir che elle non vi sieno, come dal
vederle e intenderle in Terra bene arguite che le ci sono.
SIMP. Io vi troverò delle mutazioni seguite
in Terra cosí grandi, che se di tali se ne facessero nella Luna, benissimo
potrebbero esser osservate di qua giú. Noi aviamo, per antichissime memorie,
che già, allo stretto di Gibilterra, Abile e Calpe erano continuati
insieme, con altre minori montagne le quali tenevano l'Oceano rispinto; ma
essendosi, qual se ne fusse la causa, separati i detti monti, ed aperto l'adito
all'acque marine, queste scorsero talmente in dentro, che ne formarono tutto il
mare Mediterraneo: del quale se noi considereremo la grandezza, e la
diversità dell'aspetto che devon fare tra di loro la superficie
dell'acqua e quella della terra, vedute di lontano, non ha dubbio che una tale
mutazione poteva benissimo esser compresa da chi fusse stato nella Luna, sí
come da noi abitatori della Terra simili alterazioni dovrebbero scorgersi nella
Luna: ma non ci è memoria che mai si sia veduta cosa tale: adunque non
ci resta attacco da poter dire che alcuno de i corpi celesti sia alterabile
etc.
SALV. Che mutazioni cosí vaste sieno seguite nella
Luna, io non ardirei di dirlo; ma non sono anco sicuro che non ve ne possano
esser seguite: e perché una simil mutazione non potrebbe rappresentarci altro
che qualche variazione tra le parti piú chiare e le piú oscure di essa Luna, io
non so che ci sieno stati in Terra selinografi curiosi, che per lunghissima
serie di anni ci abbiano tenuti provvisti di selinografie cosí esatte, che ci
possano render sicuri, nissuna tal mutazione esser già mai seguita nella
faccia della Luna; della figurazione della quale non trovo piú minuta
descrizione, che il dire alcuno che la rappresenta un volto umano, altri che
l'è simile a un ceffo di leone, ed altri che l'è Caino con un
fascio di pruni in spalla. Adunque il dire «Il cielo è inalterabile,
perché nella Luna o in altro corpo celeste non si veggono le alterazioni che si
scorgono in Terra» non ha forza di concluder cosa alcuna.
SAGR. Ed a me resta non so che altro scrupolo in
questo primo argomento del signor Simplicio, il quale desidero che mi sia
levato. Però io gli domando se la Terra avanti l'innondazione
mediterranea era generabile e corruttibile, o pur cominciò allora ad
esser tale.
SIMP. Era senza dubbio generabile e corruttibile
ancora avanti; ma quella fu una mutazione tanto vasta, che anche nella Luna si
sarebbe potuta osservare
SAGR. Oh, se la Terra fu, pure avanti tale
alluvione, generabile e corruttibile, perché non può esser tale la Luna
parimente senza una simile mutazione? perché è necessario nella Luna
quello che non importava nulla nella Terra?
SALV. Argutissima instanza. Ma io vo dubitando che
il signor Simplicio alteri un poco l'intelligenza de i testi d'Aristotile e de
gli altri Peripatetici, li quali dicano di tenere il cielo inalterabile, perché
in esso non si è veduto generare né corromper mai alcuna stella, che
forse è del cielo parte minore che una città della Terra, e pur
innumerabili di queste si son destrutte in modo che né anco i vestigii ci son
rimasti.
SAGR. Io certo stimava altramente, e credeva che il
signor Simplicio dissimulasse questa esposizione di testo per non gravare il
Maestro ed i suoi condiscepoli di una nota assai piú deforme dell'altra. E qual
vanità è il dire: «La parte celeste è inalterabile, perché
in essa non si generano e corrompono stelle»? ci è forse alcuno che
abbia veduto corrompersi un globo terrestre e rigenerarsene un altro? e non
è egli ricevuto da tutti i filosofi, che pochissime stelle sieno in
cielo minori della Terra, ma bene assaissime molto e molto maggiori? Il
corrompersi dunque una stella in cielo non è minor cosa che destruggersi
tutto il globo terrestre: però, quando per poter con verità
introdur nell'universo la generazione e corruzione sia necessario che si
corrompano e rigenerino corpi cosí vasti come una stella, toglietelo pur via
del tutto, perché vi assicuro che mai non si vedrà corrompere il globo
terrestre o altro corpo integrale del mondo, sí che, essendocisi veduto per
molti secoli decorsi, ei si dissolva in maniera, che di sé non lasci vestigio
alcuno.
SALV. Ma per dar soprabbondante soddisfazione al
signor Simplicio e torlo, se è possibile, di errore, dico che noi aviamo
nel nostro secolo accidenti ed osservazioni nuove e tali, ch'io non dubito
punto che se Aristotile fusse all'età nostra, muterebbe oppinione. Il
che manifestamente si raccoglie dal suo stesso modo di filosofare: imperocché
mentre egli scrive di stimare i cieli inalterabili etc., perché nissuna cosa
nuova si è veduta generarvisi o dissolversi delle vecchie, viene
implicitamente a lasciarsi intendere che quando egli avesse veduto uno di tali
accidenti, averebbe stimato il contrario ed anteposto, come conviene, la
sensata esperienza al natural discorso, perché quando e' non avesse voluto fare
stima de' sensi, non avrebbe, almeno dal non si vedere sensatamente mutazione
alcuna, argumentata l'immutabilità.
SIMP. Aristotile fece il principal suo fondamento
sul discorso a priori, mostrando la necessità
dell'inalterabilità del cielo per i suoi principii naturali, manifesti e
chiari; e la medesima stabilí doppo a posteriori, per il senso e per le
tradizioni de gli antichi.
SALV. Cotesto, che voi dite, è il metodo col
quale egli ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e' sia quello
col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch'e' proccurasse
prima, per via de' sensi, dell'esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi
quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi
da poterla dimostrare, perché cosí si fa per lo piú nelle scienze dimostrative:
e questo avviene perché, quando la conclusione è vera, servendosi del
metodo resolutivo, agevolmente si incontra qualche proposizione già
dimostrata, o si arriva a qualche principio per sé noto; ma se la conclusione
sia falsa, si può procedere in infinito senza incontrar mai
verità alcuna conosciuta, se già altri non incontrasse alcun
impossibile o assurdo manifesto. E non abbiate dubbio che Pitagora gran tempo
avanti che e' ritrovasse la dimostrazione per la quale fece l'ecatumbe, si era
assicurato che 'l quadrato del lato opposto all'angolo retto nel triangolo
rettangolo era eguale a i quadrati de gli altri due lati; e la certezza della
conclusione aiuta non poco al ritrovamento della dimostrazione, intendendo
sempre nelle scienze demostrative. Ma fusse il progresso di Aristotile in
qualsivoglia modo, sí che il discorso a priori precedesse il senso a
posteriori, o per l'opposito, assai è che il medesimo Aristotile
antepone (come piú volte s'è detto) l'esperienze sensate a tutti i
discorsi; oltre che, quanto a i discorsi a priori, già si
è esaminato quanta sia la forza loro. Or, tornando alla materia, dico
che le cose scoperte ne i cieli a i tempi nostri sono e sono state tali, che
posson dare intera soddisfazione a tutti i filosofi: imperocché e ne i corpi
particolari e nell'universale espansione del cielo si son visti e si veggono
tuttavia accidenti simili a quelli che tra di noi chiamiamo generazioni e
corruzioni, essendo che da astronomi eccellenti sono state osservate molte
comete generate e disfatte in parti piú alte dell'orbe lunare, oltre alle due
stelle nuove dell'anno 1572 e del 1604, senza veruna contradizione altissime
sopra tutti i pianeti; ed in faccia dell'istesso Sole si veggono, mercé del
telescopio, produrre e dissolvere materie dense ed oscure in sembianza molto
simili alle nugole intorno alla Terra, e molte di queste sono cosí vaste, che
superano di gran lunga non solo il sino Mediterraneo, ma tutta l'Affrica e
l'Asia ancora. Ora, quando Aristotile vedesse queste cose, che credete voi,
signor Simplicio, ch'e' dicesse e facesse?.
SIMP. Io non so quello che si facesse né dicesse
Aristotile, che era padrone delle scienze, ma so bene in parte quello che fanno
e dicono, e che conviene che facciano e dicano i suoi seguaci, per non rimaner
senza guida senza scorta e senza capo nella filosofia. Quanto alle comete, non
son eglino restati convinti quei moderni astronomi, che le volevano far
celesti, dall'Antiticone, e convinti con le loro medesime armi, dico per
via di paralassi e di calcoli rigirati in cento modi, concludendo finalmente a
favor d'Aristotile che tutte sono elementari? e spiantato questo, che era
quanto fondamento avevano i seguaci delle novità, che altro piú resta
loro per sostenersi in piedi?
SALV. Con flemma, signor Simplicio. Cotesto moderno
autore che cosa dice egli delle stelle nuove del 72 e del 604 e delle macchie
solari? perché quanto alle comete, io, quant'a me, poca difficultà farei
nel porle generate sotto o sopra la Luna, né ho mai fatto gran fondamento sopra
la loquacità di Ticone, né sento repugnanza alcuna nel poter credere che
la materia loro sia elementare, e che le possano sublimarsi quanto piace loro,
senza trovare ostacoli nell'impenetrabilità del cielo peripatetico, il
quale io stimo piú tenue piú cedente e piú sottile assai della nostra aria; e
quanto a i calcoli delle paralassi, prima il dubbio se le comete sian soggette
a tale accidente, e poi l'incostanza delle osservazioni sopra le quali son
fatti i computi, mi rendono egualmente sospette queste opinioni e quelle, e
massime che mi pare che l'Antiticone talvolta accomodi a suo modo, o
metta per fallaci, quelle osservazioni che repugnano al suo disegno.
SIMP. Quanto alle stelle nuove, l'Antiticone
se ne sbriga benissimo in quattro parole, dicendo che tali moderne stelle nuove
non son parti certe de i corpi celesti, e che bisogna che gli avversari, se
voglion provare lassú esser alterazione e generazione, dimostrino mutazioni
fatte nelle stelle descritte già tanto tempo, delle quali nissuno dubita
che sieno cose celesti, il che non possono far mai in veruna maniera. Circa poi
alle materie che alcuni dicono generarsi e dissolversi in faccia del Sole, ei
non ne fa menzione alcuna; ond'io argomento ch'e' l'abbia per una favola, o per
illusioni del cannocchiale, o al piú per affezioncelle fatte per aria, ed in
somma per ogni altra cosa che per materie celesti.
SALV. Ma voi, signor Simplicio, che cosa vi sete
immaginato di rispondere all'opposizione di queste macchie importune, venute a
intorbidare il cielo, e piú la peripatetica filosofia? egli è forza che,
come intrepido difensor di quella, vi abbiate trovato ripiego e soluzione,
della quale non dovete defraudarci.
SIMP. Io ho intese diverse opinioni, intorno a
questo particolare. «Chi dice che le sono stelle, che ne' loro proprii orbi, a
guisa di Venere e di Mercurio, si volgono intorno al Sole, e nel passargli
sotto si mostrano a noi oscure, e per esser moltissime, spesso accade che parte
di loro si aggreghino insieme e che poi si separino; altri le credono esser
impressioni per aria; altri, illusioni de' cristalli; ed altri, altre cose. Ma
io inclino assai a credere, anzi tengo per fermo, che le sieno un aggregato di
molti e vari corpi opachi, quasi casualmente concorrenti tra di loro: e
però veggiamo spesso che in una macchia si posson numerare dieci e piú
di tali corpicelli minuti, che sono di figure irregolari e ci si rappresentano
come fiocchi di neve o di lana o di mosche volanti; variano sito tra di loro,
ed or si disgregano ed ora si congregano, e massimamente sotto il Sole, intorno
al quale, come intorno a suo centro, si vanno movendo. Ma non però
è di necessità dire che le si generino e si corrompano, ma che
alcune volte si occultano doppo il corpo del Sole, ed altre volte, benché
allontanate da quello, non si veggono per la vicinanza della smisurata luce del
Sole: imperocché nell'orbe eccentrico del Sole vi è costituita una quasi
cipolla composta di molte grossezze, una dentro all'altra, ciascheduna delle
quali, essendo tempestata di alcune piccole macchie, si muove; e benché il
movimento loro da principio sia parso inconstante ed irregolare, nulla dimeno
si dice essersi ultimamente osservato che dentro a tempi determinati ritornano
le medesime macchie per l'appunto». Questo pare a me il piú accomodato ripiego
che sin qui si sia ritrovato per render ragione di cotale apparenza, ed insieme
mantenere la incorruttibilità ed ingenerabilità del cielo; e
quando questo non bastasse, non mancheranno ingegni piú elevati che ne
troveranno de gli altri migliori.
SALV. Se questo di che si disputa fusse qualche
punto di legge o di altri studi umani, ne i quali non è né verità
né falsità, si potrebbe confidare assai nella sottigliezza dell'ingegno
e nella prontezza del dire e nella maggior pratica ne gli scrittori, e sperare
che quello che eccedesse in queste cose, fusse per far apparire e giudicar la
ragion sua superiore; ma nelle scienze naturali, le conclusioni delle quali son
vere e necessarie né vi ha che far nulla l'arbitrio umano, bisogna guardarsi di
non si porre alla difesa del falso, perché mille Demosteni e mille Aristoteli
resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che abbia auto ventura di
apprendersi al vero. Però, signor Simplicio, toglietevi pur giú dal pensiero
e dalla speranza che voi avete, che possano esser uomini tanto piú dotti,
eruditi e versati ne i libri, che non siamo noi altri, che al dispetto della
natura sieno per far divenir vero quello che è falso. E già che
tra tutte le opinioni che sono state prodotte sin qui intorno all'essenza di
queste macchie solari, questa esplicata pur ora da voi vi par la vera, resta
(se questo è) che l'altre tutte sien false; ed io, per liberarvi ancora
da questa, che pure è falsissima chimera, lasciando mill'altre
improbabilità che vi sono, due sole esperienze vi arreco in contrario.
L'una è, che molte di tali macchie si veggono nascere nel mezo del disco
solare, e molte parimente dissolversi e svanire pur lontane dalla circonferenza
del Sole; argumento necessario che le si generano e si dissolvono: ché se senza
generarsi e corrompersi comparissero quivi per solo movimento locale, tutte si
vedrebbero entrare e uscire per la estrema circonferenza. L'altra osservazione
a quelli che non son costituiti nell'infimo grado d'ignoranza di prospettiva,
dalla mutazione dell'apparenti figure, e dall'apparente mutazion di
velocità di moto, si conclude necessariamente che le macchie son
contigue al corpo solare, e che, toccando la sua superficie, con essa o sopra
di essa si muovono, e che in cerchi da quello remoti in verun modo non si
raggirano. Concludelo il moto, che verso la circonferenza del disco solare
apparisce tardissimo, e verso il mezo piú veloce; concludonlo le figure delle
macchie, le quali verso la circonferenza appariscono strettissime in
comparazione di quello che si mostrano nelle parti di mezo, e questo perché
nelle parti di mezo si veggono in maestà e quali elle veramente sono, e
verso la circonferenza, mediante lo sfuggimento della superficie globosa, si
mostrano in iscorcio: e l'una e l'altra diminuzione, di figura e di moto, a chi
diligentemente l'ha sapute osservare e calculare, risponde precisamente a
quello che apparir deve quando le macchie sien contigue al Sole, e discorda
inescusabilmente dal muoversi in cerchi remoti, benché per piccoli intervalli,
dal corpo solare; come diffusamente è stato dimostrato dall'amico nostro
nelle Lettere delle Macchie Solari al signor Marco Velseri. Raccogliesi
dalla medesima mutazion di figura che nissuna di esse è stella o altro
corpo di figura sferica; imperocché tra tutte le figure sola la sfera non si
vede mai in iscorcio, né può rappresentarsi mai se non perfettamente
rotonda; e cosí quando alcuna delle macchie particolari fusse un corpo rotondo,
quali si stimano esser tutte le stelle, della medesima rotondità si
mostrerebbe tanto nel mezo del disco solare quanto verso l'estremità;
dove che lo scorciare tanto e mostrarsi cosí sottili verso tale
estremità, ed all'incontro spaziose e larghe verso il mezo, ci rende
sicuri quelle esser falde di poca profondità o grossezza rispetto alla
lunghezza e larghezza loro. Che poi si sia osservato ultimamente che le macchie
doppo suoi determinati periodi ritornino le medesime per l'appunto, non lo
crediate, signor Simplicio, e chi ve l'ha detto vi vuole ingannare; e che
ciò sia, guardate che ei vi ha taciuto quelle che si generano e quelle
che si dissolvono nella faccia del Sole, lontano dalla circonferenza; né vi ha
anco detto parola di quello scorciare, che è argomento necessario dell'esser
contigue al Sole. Quello che ci è del ritorno delle medesime macchie,
non è altro che quel che pur si legge nelle sopraddette Lettere,
cioè che alcune di esse può esser talvolta che siano di cosí
lunga durata, che non si disfacciano per una sola conversione intorno al Sole,
la quale si spedisce in meno di un mese.
SIMP. Io, per dire il vero, non ho fatto né sí
lunghe né sí diligenti osservazioni, che mi possano bastare a esser ben padrone
del quod est di questa materia; ma voglio in ogni modo farle, e poi
provarmi io ancora se mi sucedesse concordare quel che ci porge l'esperienza
con quel che ci dimostra Aristotile, perché chiara cosa è che due veri
non si posson contrariare.
SALV. Tuttavolta che voi vogliate accordar quel che
vi mostrerà il senso con le piú salde dottrine d'Aristotile, non ci
averete una fatica al mondo. E che ciò sia vero, Aristotile non dic'egli
che delle cose del cielo, mediante la gran lontananza, non se ne può
molto resolutamente trattare?
SIMP. Dicelo apertamente.
SALV. Il medesimo non afferm'egli che quello che
l'esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso,
ancorché ne paresse assai ben fondato? e questo non lo dic'egli resolutamente e
senza punto titubare?
SIMP. Dicelo.
SALV. Adunque di queste due proposizioni, che sono
ambedue dottrina d'Aristotile, questa seconda, che dice che bisogna anteporre
il senso al discorso, è dottrina molto piú ferma e risoluta che l'altra,
che stima il cielo inalterabile; e però piú aristotelicamente filosoferete
dicendo: «Il cielo è alterabile, perché cosí mi mostra il senso», che se
direte: «Il cielo è inalterabile, perché cosí persuade il discorso ad
Aristotile». Aggiugnete che noi possiamo molto meglio di Aristotile discorrer
delle cose del cielo, perché, confessando egli cotal cognizione esser a lui
difficile per la lontananza da i sensi, viene a concedere che quello a chi i
sensi meglio lo potessero rappresentare, con sicureza maggiore potrebbe intorno
ad esso filosofare: ora noi, mercé del telescopio, ce lo siam fatto vicino
trenta e quaranta volte piú che vicino non era ad Aristotile, sí che possiamo
scorgere in esso cento cose che egli non potette vedere, e tra le altre queste
macchie nel Sole, che assolutamente ad esso furono invisibili: adunque del
cielo e del Sole piú sicuramente possiamo noi trattare che Aristotile.
SAGR. Io sono nel cuore al signor Simplicio, e
veggo che e' si sente muovere assai dalla forza di queste pur troppo
concludenti ragioni; ma, dall'altra banda, il vedere la grande autorità
che si è acquistata Aristotile appresso l'universale, il considerare il
numero de gli interpreti famosi che si sono affaticati per esplicare i suoi
sensi, il vedere altre scienze, tanto utili e necessarie al publico, fondar
gran parte della stima e reputazion loro sopra il credito d'Aristotile, lo
confonde e spaventa assai; e me lo par sentir dire: «E a chi si ha da ricorrere
per definire le nostre controversie, levato che fusse di seggio Aristotile?
qual altro autore si ha da seguitare nelle scuole, nelle accademie, nelli
studi? qual filosofo ha scritto tutte le parti della natural filosofia, e tanto
ordinatamente, senza lasciar indietro pur una particolar conclusione? adunque
si deve desolar quella fabbrica, sotto la quale si ricuoprono tanti viatori? si
deve destrugger quell'asilo, quel Pritaneo, dove tanto agiatamente si
ricoverano tanti studiosi, dove, senza esporsi all'ingiurie dell'aria, col solo
rivoltar poche carte, si acquistano tutte le cognizioni della natura? si ha da
spiantar quel propugnacolo, dove contro ad ogni nimico assalto in sicurezza si
dimora?» Io gli compatisco, non meno che a quel signore che, con gran tempo,
con spesa immensa, con l'opera di cento e cento artefici, fabbricò
nobilissimo palazzo, e poi lo vegga, per esser stato mal fondato, minacciar
rovina, e che, per non vedere con tanto cordoglio disfatte le mura di tante
vaghe pitture adornate, cadute le colonne sostegni delle superbe logge, caduti
i palchi dorati, rovinati gli stipiti, i frontespizi e le cornici marmoree con
tanta spesa condotte, cerchi con catene, puntelli, contrafforti, barbacani e
sorgozzoni di riparare alla rovina.
SALV. Eh non tema già il signor Simplicio di
simil cadute; io con sua assai minore spesa torrei ad assicurarlo del danno.
Non ci è pericolo che una moltitudine sí grande di filosofi accorti e
sagaci si lasci sopraffare da uno o dua, che faccino un poco di strepito; anzi
non pure col voltargli contro le punte delle lor penne, ma col solo silenzio,
gli metteranno in disprezzo e derisione appresso l'universale. Vanissimo
è il pensiero di chi credesse introdur nuova filosofia col reprovar
questo o quello autore: bisogna prima imparare a rifar i cervelli degli uomini,
e rendergli atti a distinguere il vero dal falso, cosa che solo Dio la
può fare. Ma d'un ragionamento in un altro dove siamo noi trascorsi? io
non saprei ritornare in su la traccia, senza la scorta della vostra memoria.
SIMP. Me ne ricordo io benissimo. Eramo intorno
alle risposte dell'Antiticone all'obbiezioni contro
all'immutabilità del cielo, tra le quali voi inseriste questa delle
macchie solari, non toccata da lui; e credo che voi voleste considerar la sua
risposta all'instanza delle stelle nuove.
SALV. Or mi sovviene il restante; e seguitando la
materia, parmi che nella risposta dell'Antiticone sieno alcune cose
degne di riprensione. E prima, se le due stelle nuove, le quali e' non
può far di manco di non por nelle parti altissime del cielo, e che
furono di lunga durata e finalmente svanirono, non gli danno fastidio nel
mantener l'inalterabilità del cielo, per non esser loro parti certe di
quello né mutazioni fatte nelle stelle antiche, a che proposito mettersi con
tanta ansietà ed affanno contro le comete, per bandirle in ogni maniera
dalle regioni celesti? non bastav'egli il poter dir di loro quel medesimo che
delle stelle nuove? cioè che per non esser parti certe del cielo né
mutazioni fatte in alcuna delle sue stelle, nessun progiudizio portano né al
cielo né alla dottrina d'Aristotile? Secondariamente, io non resto ben capace
dell'interno dell'animo suo, mentre che e' confessa che le alterazioni che si
facessero nelle stelle sarebber destruttrici delle prerogative del cielo,
cioè dell'incorruttibilità etc., e questo, perché le stelle son
cose celesti, come per il concorde consenso di tutti è manifesto; ed
all'incontro, niente lo perturba, quando le medesime alterazioni si facessero
fuori delle stelle, nel resto della celeste espansione. Stim'egli forse che il
cielo non sia cosa celeste? io per me credeva che le stelle si chiamassero cose
celesti mediante l'esser nel cielo o l'esser fatte della materia del cielo, e
che però il cielo fusse piú celeste di loro, in quella guisa che non si
può dire alcuna cosa esser piú terrestre o piú ignea della terra o del
fuoco stesso. Il non aver poi fatto menzione delle macchie solari, delle quali
è stato dimostrato concludentemente prodursi e dissolversi ed esser
prossime al corpo solare e con esso o intorno ad esso raggirarsi, mi dà
grand'indizio che possa esser che questo autore scriva piú tosto a compiacenza
di altri che a soddisfazion propria; e questo dico, perché, dimostrandosi egli
intelligente delle matematiche, è impossibile ch'ei non resti persuaso
dalle dimostrazioni, che tali materie sono necessariamente contigue al corpo
solare, e sono generazioni e corruzioni tanto grandi, che nissuna cosí grande
se ne fa mai in Terra: e se tali e tante e sí frequenti se ne fanno
nell'istesso globo del Sole, che ragionevolmente può stimarsi delle piú
nobili parti del cielo, qual ragione resterà potente a dissuaderci che altre
ne possano accadere ne gli altri globi?
SAGR. Io non posso senza grande ammirazione, e
dirò gran repugnanza al mio intelletto, sentir attribuir per gran
nobiltà e perfezione a i corpi naturali ed integranti dell'universo
questo esser impassibile, immutabile, inalterabile etc., ed all'incontro stimar
grande imperfezione l'esser alterabile, generabile, mutabile, etc.: io per me
reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sí diverse
alterazioni, mutazioni, generazioni, etc., che in lei incessabilmente si fanno;
e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta
solitudine d'arena o una massa di diaspro, o che al tempo del diluvio
diacciandosi l'acque che la coprivano fusse restata un globo immenso di
cristallo, dove mai non nascesse né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io
la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio e, per dirla in breve,
superfluo e come se non fusse in natura, e quella stessa differenza ci farei
che è tra l'animal vivo e il morto; ed il medesimo dico della Luna, di
Giove e di tutti gli altri globi mondani. Ma quanto piú m'interno in considerar
la vanità de i discorsi popolari, tanto piú gli trovo leggieri e stolti.
E qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella che chiama cose
preziose le gemme, l'argento e l'oro, e vilissime la terra e il fango? e come
non sovviene a questi tali, che quando fusse tanta scarsità della terra
quanta è delle gioie o de i metalli piú pregiati, non sarebbe principe
alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro
carrate di oro per aver solamente tanta terra quanta bastasse per piantare in
un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo
nascere, crescere e produrre sí belle frondi, fiori cosí odorosi e sí gentil
frutti? È, dunque, la penuria e l'abbondanza quella che mette in prezzo
ed avvilisce le cose appresso il volgo, il quale dirà poi quello essere
un bellissimo diamante, perché assimiglia l'acqua pura, e poi non lo cambierebbe
con dieci botti d'acqua. Questi che esaltano tanto l'incorruttibilità,
l'inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il
desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non
considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a
venire al mondo. Questi meriterebbero d'incontrarsi in un capo di Medusa, che
gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar piú perfetti
che non sono.
SALV. E forse anco una tal metamorfosi non sarebbe se
non con qualche lor vantaggio; ché meglio credo io che sia il non discorrere,
che discorrere a rovescio.
SIMP. E' non è dubbio alcuno che la Terra
è molto piú perfetta essendo, come ella è, alterabile, mutabile,
etc., che se la fusse una massa di pietra, quando ben anco fusse un intero
diamante, durissimo ed impassibile. Ma quanto queste condizioni arrecano di
nobiltà alla Terra, altrettanto renderebbero i corpi celesti piú
imperfetti, ne i quali esse sarebbero superflue, essendo che i corpi celesti,
cioè il Sole, la Luna e l'altre stelle, che non sono ordinati ad altro
uso che al servizio della Terra, non hanno bisogno d'altro per conseguire il
lor fine, che del moto e del lume.
SAGR. Adunque la natura ha prodotti ed indrizzati
tanti vastissimi, perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili,
immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile,
caduca e mortale? al servizio di quello che voi chiamate la feccia del mondo,
la sentina di tutte le immondizie? e a che proposito far i corpi celesti
immortali etc., per servire a uno caduco etc.? Tolto via questo uso di servire
alla Terra, l'innumerabile schiera di tutti i corpi celesti resta del tutto
inutile e superflua, già che non hanno, né possono avere, alcuna
scambievole operazione fra di loro, poiché tutti sono inalterabili, immutabili,
impassibili: ché se, verbigrazia, la Luna è impassibile, che volete che
il Sole o altra stella operi in lei? sarà senz'alcun dubbio operazione
minore assai che quella di chi con la vista o col pensiero volesse liquefare
una gran massa d'oro. In oltre, a me pare che mentre che i corpi celesti
concorrano alle generazioni ed alterazioni della Terra, sia forza che essi
ancora sieno alterabili; altramente non so intendere che l'applicazione della Luna
o del Sole alla Terra per far le generazioni fusse altro che mettere a canto
alla sposa una statua di marmo, e da tal congiugnimento stare attendendo prole.
SIMP. La corruttibilità, l'alterazione, la
mutazione etc. non son nell'intero globo terrestre, il quale quanto alla sua
integrità è non meno eterno che il Sole o la Luna, ma è
generabile e corruttibile quanto alle sue parti esterne; ma è ben vero
che in esse la generazione e corruzione son perpetue, e come tali ricercano l'operazioni
celesti eterne; e però è necessario che i corpi celesti sieno
eterni.
SAGR. Tutto cammina bene; ma se all'eternità
dell'intero globo terrestre non è punto progiudiziale la
corruttibilità delle parti superficiali, anzi questo esser generabile,
corruttibile, alterabile etc. gli arreca grand'ornamento e perfezione, perché
non potete e dovete voi ammetter alterazioni, generazioni etc. parimente nelle
parti esterne de i globi celesti, aggiugnendo loro ornamento, senza diminuirgli
perfezione o levargli l'azioni, anzi accrescendogliele, col far che non solo
sopra la Terra, ma che scambievolmente fra di loro tutti operino, e la Terra
ancora verso di loro?
SIMP. Questo non può essere, perché le
generazioni, mutazioni etc. che si facesser, verbigrazia, nella Luna, sarebber
inutili e vane, et natura nihil frustra facit.
SAGR. E perché sarebbero elleno inutili e vane?
SIMP. Perché noi chiaramente veggiamo e tocchiamo
con mano, che tutte le generazioni, mutazioni, etc., che si fanno in Terra,
tutte, o mediatamente o immediatamente, sono indrizzate all'uso, al comodo ed
al benefizio dell'uomo; per comodo de gli uomini nascono i cavalli, per
nutrimento de' cavalli produce la Terra il fieno, e le nugole l'adacquano; per
comodo e nutrimento de gli uomini nascono le erbe, le biade, i frutti, le
fiere, gli uccelli, i pesci; ed in somma, se noi anderemo diligentemente
esaminando e risolvendo tutte queste cose, troveremo, il fine al quale tutte
sono indrizzate esser il bisogno, l'utile, il comodo e il diletto de gli
uomini. Or di quale uso potrebber esser mai al genere umano le generazioni che
si facessero nella Luna o in altro pianeta? se già voi non voleste dire
che nella Luna ancora fussero uomini, che godesser de' suoi frutti; pensiero, o
favoloso, o empio.
SAGR. Che nella Luna o in altro pianeta si generino
o erbe o piante o animali simili a i nostri, o vi si facciano pioggie, venti,
tuoni, come intorno alla Terra, io non lo so e non lo credo, e molto meno che
ella sia abitata da uomini: ma non intendo già come tuttavolta che non
vi si generino cose simili alle nostre, si deva di necessità concludere
che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose che si
mutino, si generino e si dissolvano, non solamente diverse dalle nostre, ma
lontanissime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi
inescogitabili. E sí come io son sicuro che a uno nato e nutrito in una selva
immensa, tra fiere ed uccelli, e che non avesse cognizione alcuna dell'elemento
dell'acqua, mai non gli potrebbe cadere nell'immaginazione essere in natura un
altro mondo diverso dalla Terra, pieno di animali li quali senza gambe e senza
ale velocemente camminano, e non sopra la superficie solamente, come le fiere
sopra la terra, ma per entro tutta la profondità, e non solamente
camminano, ma dovunque piace loro immobilmente si fermano, cosa che non posson
fare gli uccelli per aria, e che quivi di piú abitano ancora uomini, e vi
fabbricano palazzi e città, ed hanno tanta comodità nel
viaggiare, che senza niuna fatica vanno con tutta la famiglia e con la casa e con
le città intere in lontanissimi paesi; sí come, dico, io son sicuro che
un tale, ancorché di perspicacissima immaginazione, non si potrebbe già
mai figurare i pesci, l'oceano, le navi, le flotte e le armate di mare; cosí e
molto piú, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota da
noi e di materia per avventura molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si
facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d'ogni nostra
immaginazione, come quelle che non abbiano similitudine alcuna con le nostre, e
perciò del tutto inescogitabili, avvengaché quello che noi ci
immaginiamo bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto
di cose o di parti delle cose altra volta vedute; ché tali sono le sfingi, le
sirene, le chimere, i centauri, etc.
SALV. Io son molte volte andato fantasticando sopra
queste cose, e finalmente mi pare di poter ritrovar bene alcune delle cose che
non sieno né possan esser nella Luna, ma non già veruna di quelle che io
creda che vi sieno e possano essere, se non con una larghissima
generalità, cioè cose che l'adornino, operando e movendo e
vivendo e, forse con modo diversissimo dal nostro, veggendo ed ammirando la
grandezza e bellezza del mondo e del suo Facitore e Rettore, e con encomii
continui cantando la Sua gloria, ed in somma (che è quello che io
intendo) facendo quello tanto frequentemente da gli scrittor sacri affermato,
cioè una perpetua occupazione di tutte le creature in laudare Iddio.
SAGR. Queste sono delle cose che,
generalissimamente parlando, vi possono essere; ma io sentirei volentieri
ricordar di quelle che ella crede che non vi sieno né possano essere, le quali
è forza che piú particolarmente si possano nominare.
SALV. Avvertite, signor Sagredo, che questa
sarà la terza volta che noi cosí di passo in passo, non ce n'accorgendo,
ci saremo deviati dal nostro principale instituto, e che tardi verremo a capo
de' nostri ragionamenti, facendo digressioni; però se vogliamo differir
questo discorso tra gli altri che siam convenuti rimettere ad una particolar
sessione, sarà forse ben fatto.
SAGR. Di grazia, già che siamo nella Luna,
spediamoci dalle cose che appartengono a lei, per non avere a fare un'altra
volta un sí lungo cammino.
SALV. Sia come vi piace. E per cominciar dalle cose
piú generali, io credo che il globo lunare sia differente assai dal terrestre,
ancorché in alcune cose si veggano delle conformità: dirò le
conformità, e poi le diversità. Conforme è sicuramente la
Luna alla Terra nella figura, la quale indubitabilmente è sferica, come
di necessità si conclude dal vedersi il suo disco perfettamente
circolare, e dalla maniera del ricevere il lume del Sole, dal quale, se la
superficie sua fusse piana, verrebbe tutta nell'istesso tempo vestita, e
parimente poi tutta, pur in un istesso momento, spogliata di luce, e non prima
le parti che riguardano verso il Sole e successivamente le seguenti, sí che
giunta all'opposizione, e non prima, resta tutto l'apparente disco illustrato;
di che, all'incontro, accaderebbe tutto l'opposito, quando la sua visibil
superficie fusse concava, cioè la illuminazione comincierebbe dalle
parti avverse al Sole. Secondariamente, ella è, come la Terra, per se
stessa oscura ed opaca, per la quale opacità è atta a ricevere ed
a ripercuotere il lume del Sole, il che, quando ella non fusse tale, far non
potrebbe. Terzo, io tengo la sua materia densissima e solidissima non meno
della Terra; di che mi è argomento assai chiaro l'esser la sua
superficie per la maggior parte ineguale, per le molte eminenze e cavità
che vi si scorgono mercé del telescopio: delle quali eminenze ve ne son molte
in tutto e per tutto simili alle nostre piú aspre e scoscese montagne, e vi se
ne scorgono alcune tirate e continuazioni lunghe di centinaia di miglia; altre
sono in gruppi piú raccolti, e sonvi ancora molti scogli staccati e solitari,
ripidi assai e dirupati; ma quello di che vi è maggior frequenza, sono
alcuni argini (userò questo nome, per non me ne sovvenir altro che piú
gli rappresenti) assai rilevati, li quali racchiudono e circondano pianure di
diverse grandezze, e formano varie figure, ma la maggior parte circolari, molte
delle quali hanno nel mezo un monte rilevato assai, ed alcune poche son ripiene
di materia alquanto oscura, cioè simile a quella delle gran macchie che
si veggon con l'occhio libero, e queste sono delle maggiori piazze; il numero
poi delle minori e minori è grandissimo, e pur quasi tutte circolari.
Quarto, sí come la superficie del nostro globo è distinta in due massime
parti, cioè nella terrestre e nell'acquatica, cosí nel disco lunare
veggiamo una distinzion magna di alcuni gran campi piú risplendenti e di altri
meno; all'aspetto de i quali credo che sarebbe quello della Terra assai
simigliante, a chi dalla Luna o da altra simile lontananza la potesse vedere
illustrata dal Sole, ed apparirebbe la superficie del mare piú oscura, e piú
chiara quella della terra. Quinto, sí come noi dalla Terra veggiamo la Luna or
tutta luminosa, or meza, or piú, or meno, talor falcata, e talvolta ci resta
del tutto invisibile, cioè quando è sotto i raggi solari, sí che
la parte che riguarda la Terra resta tenebrosa; cosí appunto si vedrebbe dalla
Luna, coll'istesso periodo a capello e sotto le medesime mutazioni di figure,
l'illuminazione fatta dal Sole sopra la faccia della Terra. Sesto…
SAGR. Piano un poco, signor Salviati. Che
l'illuminazione della Terra, quanto alle diverse figure, si rappresentasse, a
chi fusse nella Luna, simile in tutto a quello che noi scorgiamo nella Luna,
l'intendo io benissimo; ma non resto già capace, come ella si mostrasse
fatta coll'istesso periodo, avvenga che quello che fa l'illuminazion del Sole
nella superficie lunare in un mese, lo fa nella terrestre in ventiquattr'ore.
SALV. È vero che l'effetto del Sole, circa
l'illuminar questi due corpi e ricercar col suo splendore tutta la lor
superficie, si spedisce nella Terra in un giorno naturale, e nella Luna in un
mese; ma non da questo solo depende la variazione delle figure, sotto le quali
dalla Luna si vedrebbero le parti illuminate della terrestre superficie, ma da
i diversi aspetti che la Luna va mutando col Sole: sì che quando,
verbigrazia, la Luna seguitasse puntualmente il moto del Sole, e stesse per
caso sempre linearmente tra esso e la Terra in quell'aspetto che noi diciamo di
congiunzione, vedendo ella sempre il medesimo emisferio della Terra che
vedrebbe il Sole, lo vedrebbe perpetuamente tutto lucido; come, per l'opposito,
quando ella restasse sempre all'opposizione del Sole, non vedrebbe mai la
Terra, della quale sarebbe continuamente volta verso la Luna la parte
tenebrosa, e perciò invisibile; ma quando la Luna è alla
quadratura del Sole, dell'emisfero terrestre esposto alla vista della Luna
quella metà che è verso il Sole è luminosa, e l'altra
verso l'opposto del Sole è oscura, e però la parte della Terra
illuminata si rappresenterebbe alla Luna sotto figura di mezo cerchio.
SAGR. Resto capacissimo del tutto; ed intendo
già benissimo che partendosi la Luna dall'opposizione del Sole, di dove
ella non vedeva niente dell'illuminato della terrestre superficie, e venendo di
giorno in giorno verso il Sole, incomincia a poco a poco a scoprir qualche
particella della faccia della Terra illuminata, e questa vede ella in figura di
sottil falce, per esser la Terra rotonda; ed acquistando pur la Luna col suo
movimento di dí in dí maggior vicinità al Sole, viene scoprendo piú e
piú sempre dell'emisfero terrestre illuminato, sí che alla quadratura ne
scuopre la metà giusto, sí come noi di lei veggiamo altrettanto;
continuando poi di venir verso la congiunzione, scuopre successivamente parte
maggiore della superficie illuminata, e finalmente nella congiunzione vede
l'intero emisferio tutto luminoso. Ed in somma comprendo benissimo che quello
che accade a gli abitatori della Terra, nel veder le varietà della Luna,
accaderebbe a chi fusse nella Luna nel veder la Terra, ma con ordine contrario:
cioè che quando la Luna è a noi piena ed all'opposizion del Sole,
a loro la Terra sarebbe alla congiunzion col Sole e del tutto oscura ed
invisibile; all'incontro, quello stato che a noi è congiunzion della
Luna col Sole, e però Luna silente e non veduta, là sarebbe
opposizion della Terra al Sole, e per cosí dire Terra piena, cioè tutta
luminosa; e finalmente quanta parte a noi, di tempo in tempo, si mostra della
superficie lunare illuminata, tanto dalla Luna si vedrebbe esser nell'istesso
tempo la parte della Terra oscura, e quanto a noi resta della Luna privo di
lume, tanto alla Luna è l'illuminato della Terra; sí che solo nelle
quadrature questi veggono mezo cerchio della Luna luminoso, e quelli
altrettanto della Terra. In una cosa mi par che differiscano queste scambievoli
operazioni: ed è che, dato e non concesso che nella Luna fusse chi di
là potesse rimirar la Terra, vedrebbe ogni giorno tutta la superficie
terrestre, mediante il moto di essa Luna intorno alla Terra in ventiquattro o
venticinque ore; ma noi non veggiamo mai altro che la metà della Luna,
poiché ella non si rivolge in se stessa, come bisognerebbe per potercisi tutta
mostrare.
SALV. Purché questo non accaggia per il contrario,
cioè che il rigirarsi ella in se stessa sia cagione che noi non veggiamo
mai l'altra metà; ché cosí sarebbe necessario che fusse, quando ella
avesse l'epiciclo. Ma dove lasciate voi un'altra differenza, in contraccambio
di questa avvertita da voi?
SAGR. E qual è? ché altra per ora non mi
vien in mente.
SALV. È che, se la Terra (come bene avete
notato) non vede altro che la metà della Luna, dove che dalla Luna vien
vista tutta la Terra, all'incontro tutta la Terra vede la Luna, ma della Luna
solo la metà vede la Terra; perché gli abitatori, per cosí dire,
dell'emisfero superiore della Luna, che a noi è invisibile, son privi
della vista della Terra, e questi son forse gli antictoni. Ma qui mi sovvien
ora d'un particolare accidente, nuovamente osservato dal nostro Accademico
nella Luna, per il quale si raccolgono due conseguenze necessarie: l'una
è, che noi veggiamo qualche cosa di piú della metà della Luna, e
l'altra è, che il moto della Luna ha giustamente relazione al centro della
Terra: e l'accidente e l'osservazione è tale. Quando la Luna abbia una
corrispondenza e natural simpatia con la Terra, verso la quale con una tal sua
determinata parte ella riguardi, è necessario che la linea retta che
congiugne i lor centri passi sempre per l'istesso punto della superficie della
Luna, tal che quello che dal centro della Terra la rimirasse, vedrebbe sempre
l'istesso disco della Luna, puntualmente terminato da una medesima
circonferenza: ma di uno costituito sopra la superficie terrestre, il raggio
che dall'occhio suo andasse sino al centro del globo lunare non passerebbe per
l'istesso punto della superficie di quella per il quale passa la linea tirata
dal centro della Terra a quel della Luna, se non quando ella gli fusse
verticale; ma posta la Luna in oriente o in occidente, il punto dell'incidenza
del raggio visuale resta superiore a quel della linea che congiugne i centri, e
però si scuopre qualche parte dell'emisferio lunare verso la
circonferenza di sopra, e si nasconde altrettanto dalla parte di sotto; si scuopre,
dico, e si nasconde rispetto all'emisfero che si vedrebbe dal vero centro della
Terra: e perché la parte della circonferenza della Luna che è superiore
nel nascere, è inferiore nel tramontare, però assai notabile dovrà
farsi la differenza dell'aspetto di esse parti superiore e inferiore,
scoprendosi ora, ed ora ascondendosi, delle macchie o altre cose notabili di
esse parti. Una simil variazione dovrebbe scorgersi ancora verso
l'estremità boreale ed australe del medesimo disco, secondo che la Luna si
trova in questo o in quel ventre del suo dragone; perché, quando ella è
settentrionale, alcuna delle sue parti verso settentrione ci si nasconde, e si
scuopre delle australi, e per l'opposito. Ora, che queste conseguenze si
verifichino in fatto, il telescopio ce ne rende certi. Imperocché sono nella
Luna due macchie particolari, una delle quali, quando la Luna è nel
meridiano, guarda verso maestro, e l'altra gli è quasi diametralmente
opposta, e la prima è visibile anco senza il telescopio, ma non
già l'altra: è la maestrale una macchietta ovata, divisa
dall'altre grandissime; l'opposta è minore, e parimente separata dalle
grandissime, e situata in campo assai chiaro: in amendue queste si osservano
molto manifestamente le variazioni già dette, e veggonsi contrariamente
l'una dall'altra, ora vicine al limbo del disco lunare, ed ora allontanate, con
differenza tale, che l'intervallo tra la maestrale e la circonferenza del disco
è piú che il doppio maggiore una volta che l'altra; e quanto all'altra macchia
(perché l'è piú vicina alla circonferenza), tal mutazione importa piú
che il triplo da una volta all'altra. Di qui è manifesto, la Luna, come
allettata da virtú magnetica, constantemente riguardare con una sua faccia il
globo terrestre, né da quello divertir mai.
SAGR. E quando si ha a por termine alle nuove
osservazioni e scoprimenti di questo ammirabile strumento?
SALV. Se i progressi di questa son per andar
secondo quelli di altre invenzioni grandi, è da sperare che col
progresso del tempo si sia per arrivar a veder cose a noi per ora
inimmaginabili. Ma tornando al nostro primo discorso, dico, per la sesta
congruenza tra la Luna e la Terra, che, sí come la Luna gran parte del tempo
supplisce al mancamento del lume del Sole e ci rende, con la reflessione del
suo, le notti assai chiare, cosí la Terra ad essa in ricompensa rende, quando
ella n'è piú bisognosa, col refletterle i raggi solari, una molto
gagliarda illuminazione, e tanto, per mio parere, maggior di quella che a noi
vien da lei, quanto la superficie della Terra è piú grande di quella
della Luna.
SAGR. Non piú, non piú, signor Salviati; lasciatemi
il gusto di mostrarvi come a questo primo cenno ho penetrato la causa di un
accidente al quale mille volte ho pensato, né mai l'ho potuto penetrare. Voi
volete dire che certa luce abbagliata che si vede nella Luna, massimamente
quando l'è falcata, viene dal reflesso del lume del Sole nella
superficie della terra e del mare: e piú si vede tal lume chiaro, quanto la
falce è piú sottile, perché allora maggiore è la parte luminosa
della Terra che dalla Luna è veduta, conforme a quello che poco fa si
concluse, cioè che sempre tanta è la parte luminosa della Terra
che si mostra alla Luna, quanta l'oscura della Luna che guarda verso la Terra;
onde quando la Luna è sottilmente falcata, ed in conseguenza grande
è la sua parte tenebrosa, grande è la parte illuminata della
Terra, veduta dalla Luna, e tanto piú potente la reflession del lume.
SALV. Questo è puntualmente quello ch'io
voleva dire. In somma, gran dolcezza è il parlar con persone giudiziose
e di buona apprensiva, e massime quando altri va passeggiando e discorrendo tra
i veri. Io mi son piú volte incontrato in cervelli tanto duri, che, per mille
volte che io abbia loro replicato questo che voi avete subito per voi medesimo
penetrato, mai non è stato possibile che e' l'apprendano.
SIMP. Se voi volete dire di non averlo potuto
persuadere loro sí che e' l'intendino, io molto me ne maraviglio, e son sicuro
che non l'intendendo dalla vostra esplicazione, non l'intenderanno forse per
quella di altri, parendomi la vostra espressiva molto chiara; ma se voi
intendete di non gli aver persuasi sí che e' lo credano, di questo non mi
maraviglio punto, perché io stesso confesso di esser un di quelli che intendono
i vostri discorsi, ma non vi si quietano, anzi mi restano, in questa e in parte
dell'altre sei congruenze, molte difficultà, le quali promoverò
quando avrete finito di raccontarle tutte.
SALV. Il desiderio che ho di ritrovar qualche
verità, nel quale acquisto assai mi possono aiutare le obbiezioni di
uomini intelligenti, qual sete voi, mi farà esser brevissimo nello
spedirmi da quel che ci resta. Sia dunque la settima congruenza il rispondersi
reciprocamente non meno alle offese che a i favori: onde la Luna, che bene spesso
nel colmo della sua illuminazione, per l'interposizion della Terra tra sé e il
Sole, vien privata di luce ed ecclissata, cosí essa ancora, per suo riscatto,
si interpone tra la Terra e il Sole, e con l'ombra sua oscura la Terra; e se
ben la vendetta non è pari all'offesa, perché bene spesso la Luna
rimane, ed anco per assai lungo tempo, immersa totalmente nell'ombra della
Terra, ma non già mai tutta la Terra, né per lungo spazio di tempo,
resta oscurata dalla Luna, tuttavia, avendosi riguardo alla picciolezza del
corpo di questa in comparazion della grandezza di quello, non si può dir
se non che il valore, in un certo modo, dell'animo sia grandissimo. Questo
è quanto alle congruenze. Seguirebbe ora il discorrer circa le disparità;
ma perché il signor Simplicio ci vuol favorire de i dubbi contro di quelle,
sarà bene sentirgli e ponderargli, prima che passare avanti.
SAGR. Sí, perché è credibile che il signor
Simplicio non sia per aver repugnanze intorno alle disparità e
differenze tra la Terra e la Luna, già che egli stima le lor sustanze
diversissime.
SIMP. Delle congruenze recitate da voi nel far
parallelo tra la Terra e la Luna, non sento di poter ammetter senza repugnanza
se non la prima e due altre. Ammetto la prima, cioè la figura sferica,
se bene anco in questa vi è non so che, stimando io quella della Luna
esser pulitissima e tersa come uno specchio, dove che questa della Terra
tocchiamo con mano esser scabrosissima ed aspra, ma questa, attenente
all'inegualità della superficie, va considerata in un'altra delle
congruenze arrecate da voi; però mi riserbo a dirne quanto mi occorre
nella considerazione di quella. Che la Luna sia poi, come voi dite nella
seconda congruenza, opaca ed oscura per se stessa, come la Terra, io non
ammetto se non il primo attributo della opacità, del che mi assicurano
gli eclissi solari; ché quando la Luna fusse trasparente, l'aria nella totale
oscurazione del Sole non resterebbe cosí tenebrosa come ella resta, ma per la
trasparenza del corpo lunare trapasserebbe una luce refratta, come veggiamo
farsi per le piú dense nugole. Ma quanto all'oscurità, io non credo che
la Luna sia del tutto priva di luce, come la Terra, anzi quella chiarezza che
si scorge nel resto del suo disco, oltre alle sottili corna illustrate dal Sole,
reputo che sia suo proprio e natural lume, e non un reflesso della Terra, la
quale io stimo impotente, per la sua somma asprezza ed oscurità, a
reflettere i raggi del Sole. Nel terzo parallelo convengo con voi in una parte,
e nell'altra dissento; convengo nel giudicar il corpo della Luna solidissimo e
duro, come la Terra, anzi piú assai, perché se da Aristotile noi caviamo che il
cielo sia di durezza impenetrabile, e le stelle parti piú dense del cielo,
è ben necessario che le siano saldissime ed impenetrabilissime.
SAGR. Che bella materia sarebbe quella del cielo
per fabbricar palazzi, chi ne potesse avere, cosí dura e tanto trasparente!
SALV. Anzi pessima, perché sendo, per la somma
trasparenza, del tutto invisibile, non si potrebbe, senza gran pericolo di urtar
negli stipiti e spezzarsi il capo, camminar per le stanze.
SAGR. Cotesto pericolo non si correrebbe egli, se
è vero, come dicono alcuni Peripatetici, che la sia intangibile; e se la
non si può toccare, molto meno si potrebbe urtare.
SALV. Di niuno sollevamento sarebbe cotesto;
conciosiaché, se ben la materia celeste non può esser toccata, perché
manca delle tangibili qualità, può ben ella toccare i corpi
elementari; e per offenderci, tanto è che ella urti in noi, ed ancor peggio,
che se noi urtassimo in lei. Ma lasciamo star questi palazzi o per dir meglio
castelli in aria, e non impediamo il signor Simplicio.
SIMP. La quistione che voi avete cosí
incidentemente promossa, è delle difficili che si trattino in filosofia,
ed io ci ho intorno di bellissimi pensieri di un gran cattedrante di Padova; ma
non è tempo di entrarvi adesso. Però, tornando al nostro
proposito, replico che stimo la Luna solidissima piú della Terra, ma non
l'argomento già, come fate voi, dalla asprezza e scabrosità della
sua superficie, anzi dal contrario, cioè dall'essere atta a ricevere
(come veggiamo tra noi nelle gemme piú dure) un pulimento e lustro superiore a
qual si sia specchio piú terso; ché tale è necessario che sia la sua
superficie, per poterci fare sí viva reflessione de' raggi del Sole. Quelle
apparenze poi che voi dite, di monti, di scogli, di argini, di valli, etc., son
tutte illusioni; ed io mi sono ritrovato a sentire in publiche dispute sostener
gagliardamente, contro a questi introduttori di novità, che tali apparenze
non da altro provengono che da parti inegualmente opache e perspicue, delle
quali interiormente ed esteriormente è composta la Luna, come spesso
veggiamo accadere nel cristallo, nell'ambra ed in molte pietre preziose
perfettamente lustrate, dove, per la opacità di alcune parti e per la
trasparenza di altre, appariscono in quelle varie concavità e
prominenze. Nella quarta congruenza concedo che la superficie del globo
terrestre, veduto di lontano, farebbe due diverse apparenze, cioè una
piú chiara e l'altra piú oscura, ma stimo che tali diversità
accaderebbono al contrario di quel che dite voi; cioè credo che la
superficie dell'acqua apparirebbe lucida, perché è liscia e trasparente,
e quella della terra resterebbe oscura per la sua opacità e
scabrosità, male accomodata a riverberare il lume del Sole. Circa il
quinto riscontro, lo ammetto tutto, e resto capace che quando la Terra
risplendesse come la Luna si mostrerebbe, a chi di lassú la rimirasse, sotto
figure conformi a quelle che noi veggiamo nella Luna; comprendo anco come il
periodo della sua illuminazione e variazione di figure sarebbe di un mese,
benché il Sole la ricerchi tutta in ventiquattr'ore; e finalmente non ho
difficultà nell'ammettere che la metà sola della Luna vede tutta
la Terra, e che tutta la Terra vede solo la metà della Luna. Nel sesto,
reputo falsissimo che la Luna possa ricever lume dalla Terra, che è
oscurissima, opaca ed inettissima a reflettere il lume del Sole, come ben lo
reflette la Luna a noi; e, come ho detto, stimo che quel lume che si vede nel
resto della faccia della Luna, oltre alle corna splendidissime per
l'illuminazion del Sole, sia proprio e naturale della Luna, e gran cosa ci
vorrebbe a farmi credere altrimenti. Il settimo, de gli eclissi scambievoli, si
può anco ammettere, se ben propriamente si costuma chiamare eclisse del
Sole questo che voi volete chiamare eclisse della Terra. E questo è
quanto per ora mi occorre dirvi in contradizione alle sette congruenze; alle
quali instanze se vi piacerà di replicare alcuna cosa,
l'ascolterò volentieri.
SALV. Se io ho bene appreso quanto avete risposto,
parmi che tra voi e noi restino ancora controverse alcune condizioni, le quali
io faceva comuni alla Luna ed alla Terra; e son queste. Voi stimate la Luna
tersa e liscia com'uno specchio, e, come tale, atta a refletterci il lume del
Sole, ed all'incontro la Terra, per la sua asprezza, non potente a far simile
reflessione. Concedete la Luna solida e dura, e ciò argumentate
dall'esser ella pulita e tersa, e non dall'esser montuosa; e dell'apparir
montuosa ne assegnate per causa l'essere di parti piú o meno opache e
perspicue. E finalmente stimate, quella luce secondaria esser propria della
Luna, e non per reflession della Terra; se ben par che al mare, per esser di
superficie pulita, voi non neghiate qualche riflessione. Quanto al torvi di
errore, che la reflession della Luna non si faccia come da uno specchio, ci ho
poca speranza, mentre veggo che quello che in tal proposito si legge nel Saggiatore
e nelle Lettere Solari del nostro amico comune non ha profittato nulla
nel vostro concetto, se però voi avete attentamente letto quanto vi
è scritto in tal materia.
SIMP. Io l'ho trascorso cosí, superficialmente,
conforme al poco tempo che mi vien lasciato ozioso da studi piú sodi:
però, se col replicare alcune di quelle ragioni o coll'addurne altre voi
pensate risolvermi le difficultà, le ascolterò piú attentamente.
SALV. Io dirò quello che mi viene in mente
al presente e potrebb'essere che fusse una mistione di concetti miei propri e
di quelli che già lessi ne i detti libri, da i quali mi sovvien bene
ch'io restai interamente persuaso, ancorché le conclusioni nel primo aspetto mi
paresser gran paradossi. Noi cerchiamo, signor Simplicio, se per fare una
reflession di lume simile a quello che ci vien dalla Luna, sia necessario che
la superficie da cui vien la reflessione sia cosí tersa e liscia come di uno
specchio, o pur sia piú accomodata una superficie non tersa e non liscia, ma
aspra e mal pulita. Ora, quando a noi venisser due reflessioni, una piú lucida
e l'altra meno, da due superficie opposteci, io vi domando, qual delle due
superficie voi credete che si rappresentasse a gli occhi nostri piú chiara e
qual piú oscura.
SIMP. Credo senza dubbio che quella che piú
vivamente mi reflettesse il lume, mi si mostrerebbe in aspetto piú chiara, e
l'altra piú oscura.
SALV. Pigliate ora in cortesia quello specchio che
è attaccato a quel muro, ed usciamo qua nella corte. Venite, signor
Sagredo. Attaccate lo specchio là a quel muro, dove batte il sole; discostiamoci
e ritiriamoci qua all'ombra. Ecco là due superficie percosse dal sole,
cioè il muro e lo specchio. Ditemi ora qual vi si rappresenta piú
chiara: quella del muro o quella dello specchio? voi non rispondete?
SAGR. Io lascio rispondere al signor Simplicio, che
ha la difficultà; ché io, quanto a me, da questo poco principio di
esperienza son persuaso che bisogni per necessità che la Luna sia di
superficie molto mal pulita.
SALV. Dite, signor Simplicio: se voi aveste a
ritrar quel muro, con quello specchio attaccatovi, dove adoprereste voi colori
piú oscuri, nel dipignere il muro o pur nel dipigner lo specchio?
SIMP. Assai piú scuri nel dipigner lo specchio.
SALV. Or se dalla superficie che si rappresenta piú
chiara vien la reflession del lume piú potente, piú vivamente ci
refletterà i raggi del Sole il muro che lo specchio.
SIMP. Benissimo, signor mio; avete voi migliori
esperienze di queste? Voi ci avete posti in luogo dove non batte il reverbero
dello specchio; ma venite meco un poco piú in qua: no, venite pure.
SAGR. Cercate voi forse il luogo della reflessione
che fa lo specchio?
SIMP. Signor sí.
SAGR. Oh vedetela là nel muro opposto,
grande giusto quanto lo specchio, e chiara poco meno che se vi battesse il Sole
direttamente.
SIMP. Venite dunque qua, e guardate di lì la
superficie dello specchio, e sappiatemi dire se l'è piú scura di quella
del muro.
SAGR. Guardatela pur voi, ché io per ancora non
voglio acceccare; e so benissimo, senza guardarla, che la si mostra vivace e
chiara quanto il Sole istesso, o poco meno
SIMP. Che dite voi dunque che la reflession di uno
specchio sia men potente di quella di un muro? io veggo che in questo muro
opposto, dove arriva il reflesso dell'altra parete illuminata insieme con quel
dello specchio, questo dello specchio è assai piú chiaro; e veggio
parimente che di qui lo specchio medesimo mi apparisce piú chiaro assai che il
muro.
SALV. Voi con la vostra accortezza mi avete
prevenuto, perché di questa medesima osservazione avevo bisogno per dichiarar
quel che resta. Voi vedete dunque la differenza che cade tra le due
reflessioni, fatte dalle due superficie del muro e dello specchio, percosse
nell'istesso modo per l'appunto da i raggi solari; e vedete come la reflession
che vien dal muro si diffonde verso tutte le parti opposteli, ma quella dello
specchio va verso una parte sola, non punto maggiore dello specchio medesimo;
vedete parimente come la superficie del muro, riguardata da qualsivoglia luogo,
si mostra chiara sempre egualmente a se stessa, e per tutto assai piú chiara
che quella dello specchio, eccettuatone quel piccolo luogo solamente dove batte
il reflesso dello specchio, ché di lí apparisce lo specchio molto piú chiaro
del muro. Da queste cosí sensate e palpabili esperienze mi par che molto
speditamente si possa venire in cognizione, se la reflessione che ci vien dalla
Luna venga come da uno specchio, o pur come da un muro, cioè se da una
superficie liscia o pure aspra.
SAGR. Se io fussi nella Luna stessa, non credo che
io potessi con mano toccar piú chiaramente l'asprezza della sua superficie di
quel ch'io me la scorga ora con l'apprensione del discorso. La Luna, veduta in
qualsivoglia positura, rispetto al Sole e a noi, ci mostra la sua superficie
tocca dal Sole sempre egualmente chiara; effetto che risponde a capello a quel
del muro, che, riguardato da qualsivoglia luogo, apparisce egualmente chiaro, e
discorda dallo specchio, che da un luogo solo si mostra luminoso e da tutti gli
altri oscuro. In oltre, la luce che mi vien dalla reflession del muro è
tollerabile e debile, in comparazion di quella dello specchio gagliardissima ed
offensiva alla vista poco meno della primaria e diretta del Sole: e cosí con
suavità riguardiamo la faccia della Luna; che quando ella fusse come uno
specchio, mostrandocisi anco, per la vicinità, grande quanto l'istesso
Sole, sarebbe il suo fulgore assolutamente intollerabile, e ci parrebbe di
riguardare quasi un altro Sole.
SALV. Non attribuite di grazia, signor Sagredo,
alla mia dimostrazione piú di quello che le si perviene. Io voglio muovervi
contro un'instanza, che non so quanto sia di agevole scioglimento. Voi portate
per gran diversità tra la Luna e lo specchio, che ella rimandi la
reflessione verso tutte le parti egualmente, come fa il muro, dove che lo
specchio la manda in un luogo solo determinato; e di qui concludete, la Luna
esser simile al muro, e non allo specchio. Ma io vi dico che quello specchio
manda la reflessione in un luogo solo, perché la sua superficie è piana,
e dovendo i raggi reflessi partirsi ad angoli eguali a quelli de' raggi
incidenti, è forza che da una superficie piana si partano unitamente
verso il medesimo luogo; ma essendo che la superficie della Luna è non
piana, ma sferica, ed i raggi incidenti sopra una tal superficie trovano da
reflettersi ad angoli eguali a quelli dell'incidenza verso tutte le parti,
mediante la infinità delle inclinazioni che compongono la superficie
sferica, adunque la Luna può mandar la reflessione per tutto, e non
è necessitata a mandarla in un luogo solo, come quello specchio che
è piano.
SIMP. Questa è appunto una delle obbiezioni
che io volevo fargli contro.
SAGR. Se questa è una, è forza che
voi ne abbiate delle altre; però ditele, ché quanto a questa prima mi
par che ella sia per riuscire piú contro di voi che in favore.
SIMP. Voi avete pronunziato come cosa manifesta,
che la reflession fatta da quel muro sia cosí chiara ed illuminante come quella
che ci vien dalla Luna, ed io la stimo come nulla in comparazion di quella:
imperocché «in questo negozio dell'illuminazione bisogna aver riguardo e
distinguere la sfera di attività; e chi dubita che i corpi celesti
abbiano maggiore sfera di attività che questi nostri elementari, caduchi
e mortali? e quel muro, finalmente, che è egli altro che un poco di
terra, oscura ed inetta all'illuminare?»
SAGR. E qui ancora credo che voi vi inganniate di
assai. Ma vengo alla prima instanza mossa dal signor Salviati: e considero che
per far che un oggetto ci apparisca luminoso, non basta che sopra esso caschino
i raggi del corpo illuminante, ma ci bisogna che i raggi reflessi vengano
all'occhio nostro; come apertamente si vede nell'esempio di quello specchio,
sopra il quale non ha dubbio che vengono i raggi luminosi del Sole, con tutto
ciò ei non ci si mostra chiaro ed illustrato se non quando noi mettiamo
l'occhio in quel luogo particulare dove va la reflessione. Consideriamo adesso
quel che accaderebbe quando lo specchio fusse di superficie sferica: ché
senz'altro noi troveremo che della reflessione che si fa da tutta la superficie
illuminata, piccolissima parte è quella che perviene all'occhio di un
particolar riguardante, per esser una minimissima particella di tutta la
superficie sferica quella l'inclinazion della quale ripercuote il raggio al
luogo particolare dell'occhio; onde minima convien che sia la parte della
superficie sferica che all'occhio si mostra splendente, rappresentandosi tutto
il rimanente oscuro. Quando dunque la Luna fusse tersa come uno specchio,
piccolissima parte si mostrerebbe a gli occhi di un particulare illustrata dal
Sole, ancorché tutto un emisferio fusse esposto a' raggi solari, ed il resto
rimarrebbe all'occhio del riguardante come non illuminato e perciò
invisibile, e finalmente invisibile ancora del tutto la Luna, avvenga che quella
particella onde venisse la riflessione, per la sua piccolezza e gran lontananza
si perderebbe; e sí come all'occhio ella resterebbe invisibile, cosí la sua
illuminazione resterebbe nulla, ché bene è impossibile che un corpo
luminoso togliesse via le nostre tenebre col suo splendore e che noi non lo
vedessimo.
SALV. Fermate in grazia, signor Sagredo, perché io
veggo alcuni movimenti nel viso e nella persona del signor Simplicio, che mi
sono indizi ch'ei non resti o ben capace o soddisfatto di questo che voi con
somma evidenza ed assoluta verità avete detto; e pur ora mi è
sovvenuto di potergli con altra esperienza rimuovere ogni scrupolo. Io ho
veduto in una camera di sopra un grande specchio sferico: facciamolo portar
qua, e mentre che si conduce, torni il signor Simplicio a considerare quanta
è grande la chiarezza che vien nella parete qui sotto la loggia dal
reflesso dello specchio piano.
SIMP. Io veggo che l'è chiara poco meno che
se vi percotesse direttamente il Sole.
SALV. Cosí è veramente. Or ditemi: se,
levando via quel piccolo specchio piano, metteremo nell'istesso luogo quel
grande sferico, qual effetto credete voi che sia per far la sua reflessione
nella medesima parete?
SIMP Credo che gli arrecherà lume molto
maggiore e molto più amplo.
SALV. Ma se l'illuminazione sarà nulla, o
cosí piccola che appena ve ne accorgiate, che direte allora?
SIMP. Quando avrò visto l'effetto,
penserò alla risposta.
SALV. Ecco lo specchio, il quale voglio che sia
posto accanto all'altro. Ma prima andiamo là vicino al reflesso di quel
piano, e rimirate attentamente la sua chiarezza: vedete come è chiaro
qui dove e' batte, e come distintamente si veggono tutte queste minuzie del
muro.
SIMP. Ho visto e osservato benissimo: fate metter
l'altro specchio a canto al primo.
SALV. Eccolo là. Vi fu messo subito che
cominciaste a guardare le minuzie, e non ve ne sete accorto, sí grande è
stato l'accrescimento del lume nel resto della parete. Or tolgasi via lo
specchio piano. Eccovi levata via ogni reflessione, ancorché vi sia rimasto il
grande specchio convesso. Rimuovasi questo ancora, e poi vi si riponga quanto
vi piace: voi non vedrete mutazione alcuna di luce in tutto il muro. Eccovi
dunque mostrato al senso come la reflessione del Sole fatta in ispecchio
sferico convesso non illumina sensibilmente i luoghi circonvicini. Ora che
risponderete voi a questa esperienza?
SIMP. Io ho paura che qui non entri qualche giuoco
di mano. Io veggo pure, nel riguardar quello specchio, uscire un grande
splendore, che quasi mi toglie la vista, e, quel che piú importa, ve lo veggo
sempre da qualsivoglia luogo ch'io lo rimiri, e veggolo andar mutando sito
sopra la superficie dello specchio, secondo ch'io mi pongo a rimirarlo in
questo o in quel luogo: argomento necessario, che il lume si reflette vivo
assai verso tutte le bande, ed in conseguenza cosí potente sopra tutta quella
parete come sopra il mio occhio.
SALV. Or vedete quanto bisogni andar cauto e
riservato nel prestare assenso a quello che il solo discorso ci rappresenta.
Non ha dubbio che questo che voi dite ha assai dell'apparente; tuttavia potete
vedere come la sensata esperienza mostra in contrario.
SIMP. Come dunque cammina questo negozio?
SALV. Io vi dirò quel che ne sento, che non
so quanto vi sia per appagare. E prima, quello splendore cosí vivo che voi
vedete sopra lo specchio, e che vi par che ne occupi assai buona parte, non
è cosí grande a gran pezzo, anzi è piccolo assai assai; ma la sua
vivezza cagiona nell'occhio vostro, mediante la reflessione fatta nell'umido de
gli orli delle palpebre, la quale si distende sopra la pupilla, una
irradiazione avventizia, simile a quel capillizio che ci par di vedere intorno
alla fiammella di una candela posta alquanto lontana, o vogliate assimigliarla
allo splendore avventizio di una stella; che se voi paragonerete il piccolo
corpicello, verbigrazia, della Canicola, veduto di giorno col telescopio,
quando si vede senza irradiazione, col medesimo veduto di notte coll'occhio
libero, voi fuor di ogni dubbio comprenderete che l'irraggiato si mostra piú di
mille volte maggiore del nudo e real corpicello: ed un simile o maggior
ricrescimento fa l'immagine del Sole che voi vedete in quello specchio; dico
maggiore, per esser ella piú viva della stella, come è manifesto dal
potersi rimirar la stella con assai minor offesa alla vista, che questa
reflession dello specchio. Il reverbero dunque, che si ha da participare sopra
tutta questa parete, viene da piccola parte di quello specchio; e quello che
pur ora veniva da tutto lo specchio piano, si participava e ristrigneva a
piccolissima parte della medesima parete: qual meraviglia è dunque che
la reflessione prima illumini molto vivamente, e che quest'altra resti quasi
impercettibile?
SIMP. Io mi trovo piú inviluppato che mai, e mi
sopraggiugne l'altra difficultà, come possa essere che quel muro,
essendo di materia cosí oscura e di superficie cosí mal pulita, abbia a
ripercuoter lume piú potente e vivace
che uno specchio ben terso e pulito.
SALV. Piú vivace no, ma ben piú universale, ché,
quanto alla vivezza, voi vedete che la reflessione di quello specchietto piano,
dove ella ferisce là sotto la loggia, illumina gagliardamente, ed il
restante della parete, che riceve la reflession del muro, dove è
attaccato lo specchio, non è a gran segno illuminato come la piccola
parte dove arriva il reflesso dello specchio. E se voi desiderate intender
l'intero di questo negozio, considerate come l'esser la superficie di quel muro
aspra, è l'istesso che l'esser composta di innumerabili superficie
piccolissime, disposte secondo innumerabili diversità di inclinazioni,
tra le quali di necessità accade che ne sieno molte disposte a mandare i
raggi, reflessi da loro, in un tal luogo, molte altre in altro; ed in somma non
è luogo alcuno al quale non arrivino moltissimi raggi reflessi da
moltissime superficiette sparse per tutta l'intera superficie del corpo
scabroso, sopra il quale cascano i raggi luminosi: dal che segue di
necessità che sopra qualsivoglia parte di qualunque superficie opposta a
quella che riceve i raggi primarii incidenti, pervengano raggi reflessi, ed in
conseguenza l'illuminazione. Seguene ancora, che il medesimo corpo sul quale
vengono i raggi illuminanti, rimirato da qualsivoglia luogo, si mostri tutto
illuminato e chiaro: e però la Luna, per esser di superficie aspra e non
tersa, rimanda la luce del Sole verso tutte le bande, ed a tutti i riguardanti
si mostra egualmente lucida. Che se la superficie sua, essendo sferica, fusse
ancora liscia come uno specchio, resterebbe del tutto invisibile, atteso che
quella piccolissima parte dalla quale potesse venir reflessa l'immagine del
Sole, all'occhio di un particolare, per la gran lontananza, resterebbe
invisibile, come già abbiam detto.
SIMP. Resto assai ben capace del vostro discorso;
tuttavia mi par di poter risolverlo con pochissima fatica, e mantener benissimo
che la Luna sia rotonda e pulitissima e che refletta il lume del Sole a noi al
modo di uno specchio: né perciò l'immagine del Sole si deve veder nel
suo mezo; avvengaché «non per le spezie dell'istesso Sole possa vedersi in sí
gran distanza la piccola figura del Sole, ma sia compresa da noi per il lume
prodotto dal Sole l'illuminazione di tutto il corpo lunare. Una tal cosa
possiamo noi vedere in una piastra dorata e ben brunita, che, percossa da un
corpo luminoso, si mostra, a chi la guarda da lontano, tutta risplendente; e
solo da vicino si scorge nel mezo di essa la piccola immagine del corpo
luminoso».
SALV. Confessando ingenuamente la mia
incapacità, dico che non intendo di questo vostro discorso altro che di
quella piastra dorata; e se voi mi concedete il parlar liberamente, ho grande
opinione che voi ancora non l'intendiate, ma abbiate imparate a mente quelle
parole scritte da qualcuno per desiderio di contraddire e mostrarsi piú
intelligente dell'avversario, mostrarsi, però, a quelli che, per apparir
eglino ancora intelligenti, applaudono a quello che e' non intendono, e maggior
concetto si formano delle persone secondo che da loro son manco intese; e pur
che lo scrittore stesso non sia (come molti ce ne sono) di quelli che scrivono
quel che non intendono, e che però non s'intende quel che essi scrivono.
Però, lasciando il resto, vi rispondo quanto alla piastra dorata, che
quando ella sia piana e non molto grande, potrà apparir da lontano tutta
risplendente, mentre sia ferita da un lume gagliardo, ma però si
vedrà tale quando l'occhio sia in una linea determinata, cioè in
quella de i raggi reflessi; e vedrassi piú fiammeggiante che se fusse,
verbigrazia, d'argento, mediante l'esser colorata ed atta, per la somma
densità del metallo, a ricevere brunimento perfettissimo: e quando la
sua superficie, essendo benissimo lustrata, non fusse poi esattamente piana, ma
avesse varie inclinazioni, allora anco da piú luoghi si vedrebbe il suo
splendore, cioè da tanti a quanti pervenissero le varie reflessioni
fatte dalle diverse superficie; che però si lavorano i diamanti a molte
facce, acciò il lor dilettevol fulgore si scorga da molti luoghi: ma
quando la piastra fusse molto grande, non però da lontano, ancorché ella
fusse tutta piana, si vedrebbe tutta risplendente. E per meglio dichiararmi,
intendasi una piastra dorata piana e grandissima esposta al Sole: mostrerassi a
un occhio lontano l'immagine del Sole occupare una parte di tal piastra
solamente, cioè quella donde viene la reflessione de i raggi solari
incidenti; ma è vero che per la vivacità del lume tal immagine
apparirà inghirlandata di molti raggi, e però sembrerà
occupare maggior parte assai della piastra che veramente ella non
occuperà. E che ciò sia vero, notato il luogo particolare della
piastra donde viene la reflessione, e figurato parimente quanto grande mi si
rappresenta lo spazio risplendente, cuoprasi di esso spazio la maggior parte,
lasciando solamente scoperto intorno al mezo: non però si diminuirà
punto la grandezza dell'apparente splendore a quello che di lontano lo rimira,
anzi si vedrà egli largamente sparso sopra il panno o altro con che si
ricoperse. Se dunque alcuno col vedere una piccola piastra dorata da lontano
tutta risplendente, si sarà immaginato che l'istesso dovesse accadere
anco di piastre grandi quanto la Luna, si è ingannato non meno che se
credesse, la Luna non esser maggiore di un fondo di tino. Quando poi la piastra
fusse di superficie sferica, vedrebbesi in una sola sua particella il reflesso
gagliardo, ma ben, mediante la vivezza, si mostrerebbe inghirlandato di molti
raggi assai vibranti: il resto della palla si vedrebbe come colorato, e questo
anco solamente quando e' non fusse in sommo grado pulito; ché quando e' fusse
brunito perfettamente, apparirebbe oscuro. Esempio di questo aviamo
giornalmente avanti gli occhi ne i vasi d'argento, li quali, mentre sono
solamente bolliti nel bianchimento, son tutti candidi come la neve, né punto
rendono l'immagini; ma se in alcuna parte si bruniscono, in quella subito
diventano oscuri, e di lí rendono l'immagini come specchi: e quel divenire
oscuro non procede da altro che dall'essersi spianata una finissima grana che
faceva la superficie dell'argento scabrosa, e però tale che rifletteva
il lume verso tutte le parti, per lo che da tutti i luoghi si mostrava
egualmente illuminata; quando poi, col brunirla, si spianano esquisitamente
quelle minime inegualità, sí che la reflessione de i raggi incidenti si
drizza tutta in luogo determinato, allora da quel tal luogo si mostra la parte
brunita assai piú chiara e lucida del restante, che è solamente
bianchito, ma da tutti gli altri luoghi si vede molto oscura. È noto che
la diversità delle vedute, nel rimirar superficie brunite, cagiona
differenze tali di apparenze, che per imitare e rappresentare in pittura,
verbigrazia, una corazza brunita, bisogna accoppiare neri schietti e bianchi,
l'uno a canto all'altro, in parti di essa arme dove il lume cade egualmente.
SAGR. Adunque, quando questi Signori filosofi si
contentassero di conceder che la Luna, Venere e gli altri pianeti fussero di
superficie non cosí lustra e tersa come uno specchio, ma un capello manco,
cioè quale è una piastra di argento bianchita solamente, ma non
brunita, questo basterebbe a poterla far visibile ed accomodata a ripercuoterci
il lume del Sole?
SALV. Basterebbe in parte; ma non renderebbe un
lume cosí potente, come fa essendo montuosa ed in somma piena di eminenze e
cavità grandi Ma questi Signori filosofi non la concederanno mai pulita
meno di uno specchio, ma bene assai piú, se piú si può immaginare,
perché stimando eglino che a' corpi perfettissimi si convengano figure
perfettissime, bisogna che la sfericità di quei globi celesti sia
assolutissima; oltre che, quando e' mi concedessero qualche inegualità,
ancorché minima, io me ne prenderei senza scrupolo alcuno altra assai maggiore,
perché consistendo tal perfezione in indivisibili, tanto la guasta un capello
quanto una montagna.
SAGR. Qui mi nascono due dubbi: l'uno è
l'intendere, perché la maggior inegualità di superficie abbia a far piú
potente reflession di lume; l'altro è, perché questi Signori
Peripatetici voglian questa esatta figura.
SALV. Al primo risponderò io, ed al signor
Simplicio lascerò la cura di rispondere al secondo. Devesi dunque
avvertire che le medesime superficie vengono dal medesimo lume piú e meno
illuminate, secondoché i raggi illuminanti vi cascano sopra piú o meno
obliquamente, sí che la massima illuminazione è dove i raggi son
perpendicolari. Ed ecco ch'io ve lo mostro al senso. Io piego questo foglio
tanto che una parte faccia angolo sopra l'altra; ed esponendole alla reflession
del lume di quel muro opposto, vedete come questa faccia, che riceve i raggi
obliquamente, è manco chiara di quest'altra, dove la reflessione viene
ad angoli retti; e notate come secondo che io gli vo ricevendo piú e piú
obliquamente, l'illuminazione si fa piú debole.
SAGR. Veggo l'effetto, ma non comprendo la causa.
SALV. Se voi ci pensaste un centesimo d'ora, la
trovereste; ma per non consumare il tempo, eccovene un poco di dimostrazione in
questa figura.
SAGR. La sola vista della figura mi ha chiarito il
tutto, però seguite.
SIMP. Dite in grazia il resto a me, che non sono di
sí veloce apprensiva.
SALV. Fate conto che tutte le linee parallele che
voi vedete partirsi da i termini A, B, sieno i raggi che sopra la linea C D
vengono ad angoli retti: inclinate ora la medesima C D, sí che penda come D O:
non vedete voi che buona parte di quei raggi che ferivano la C D, passano senza
toccar la D O?
Adunque se la D O è illuminata da manco raggi, è ben
ragionevole che il lume ricevuto da lei sia piú debole. Torniamo ora alla Luna,
la quale, essendo di figura sferica, quando la sua superficie fusse pulita
quanto questa carta, le parti del suo emisferio illuminato dal Sole che sono
verso l'estremità, riceverebbero minor lume assaissimo che le parti di
mezo, cadendo sopra quelle i raggi obliquissimi, e sopra queste ad angoli
retti; per lo che nel plenilunio, quando noi veggiamo quasi tutto l'emisferio
illuminato, le parti verso il mezo ci si dovrebbero mostrare piú risplendenti,
che l'altre verso la circonferenza: il che non si vede. Figuratevi ora la
faccia della Luna piena di montagne ben alte: non vedete voi come le piagge e i
dorsi loro, elevandosi sopra la convessità della perfetta superficie
sferica, vengono esposti alla vista del Sole, ed accomodati a ricevere i raggi,
assai meno obliquamente, e perciò a mostrarsi illuminati quanto il
resto?
SAGR. Tutto bene: ma se vi sono tali montagne,
è vero che il Sole le ferirà assai piú direttamente che non
farebbe l'inclinazione di una superficie pulita, ma è anco vero che tra
esse montagne resterebbero tutte le valli oscure, mediante l'ombre grandissime
che in quel tempo verrebber da i monti; dove che le parti di mezo, benché piene
di valli e monti, mediante l'avere il Sole elevato, rimarrebbero senz'ombre, e
però piú lucide assai che le parti estreme, sparse non men di ombre che
di lume: e pur tuttavia non si vede tal differenza.
SIMP. Una simil difficultà mi si andava
avvolgendo per la fantasia.
SALV. Quanto è piú pronto il signor
Simplicio a penetrar le difficultà che favoriscono le opinioni
d'Aristotile, che le soluzioni! Ma io ho qualche sospetto che a bello studio e'
voglia anco talvolta tacerle; e nel presente particulare, avendo da per sé
potuto veder l'obbiezione, che pure è assai ingegnosa, non posso credere
che e' non abbia ancora avvertita la risposta, ond'io voglio tentar di
cavargliela (come si dice) di bocca. Però ditemi, signor Simplicio:
credete voi che possa essere ombra dove feriscono i raggi del Sole?
SIMP. Credo, anzi son sicuro, che no, perché
essendo egli il massimo luminare, che scaccia con i suoi raggi le tenebre,
è impossibile che dove egli arriva resti tenebroso; e poi aviamo la
definizione che tenebræ sunt privatio luminis.
SALV. Adunque il Sole, rimirando la Terra o la Luna
o altro corpo opaco, non vede mai alcuna delle sue parti ombrose, non avendo altri
occhi da vedere che i suoi raggi apportatori del lume; ed in conseguenza uno
che fusse nel Sole, non vedrebbe mai niente di adombrato, imperocché i raggi
suoi visivi andrebbero sempre in compagnia de i solari illuminanti.
SIMP. Questo è verissimo, senza
contradizione alcuna.
SALV. Ma quando la Luna è all'opposizion del
Sole, qual differenza è tra il viaggio che fanno i raggi della vostra
vista, e quello che fanno i raggi del Sole?
SIMP. Ora ho inteso; voi volete dire che caminando
i raggi della vista e quelli del Sole per le medesime linee, noi non possiamo
scoprir alcuna delle valli ombrose della Luna. Di grazia, toglietevi giú di
questa opinione, ch'io sia simulatore o dissimulatore; e vi giuro da gentiluomo
che non avevo penetrata cotal risposta, né forse l'avrei ritrovata senza
l'aiuto vostro o senza lungo pensarvi.
SAGR. La soluzione che fra tutti due avete addotta
circa quest'ultima difficultà, ha veramente soddisfatto a me ancora; ma
nel medesimo tempo questa considerazione del camminare i raggi della vista con
quelli del Sole, mi ha destato un altro scrupolo circa l'altra parte: ma non so
se io lo saprò spiegare, perché, essendomi nato di presente, non l'ho
per ancora ordinato a modo mio; ma vedremo fra tutti di ridurlo a chiarezza. E'
non è dubbio alcuno che le parti verso la circonferenza dell'emisferio
pulito, ma non brunito, che sia illuminato dal Sole, ricevendo i raggi
obliquamente, ne ricevono assai meno che le parti di mezo, le quali
direttamente gli ricevono; e può essere che una striscia larga,
verbigrazia, venti gradi, che sia verso l'estremità dell'emisferio, non
riceva piú raggi che un'altra verso le parti di mezo, larga non piú di quattro
gradi; onde quella veramente sarà assai piú oscura di questa, e tale
apparirà a chiunque le rimirasse amendue in faccia o vogliam dire in
maestà. Ma quando l'occhio del riguardante fusse costituito in luogo
tale che la larghezza de i venti gradi della striscia oscura se gli
rappresentasse non piú lunga d'una di quattro gradi posta sul mezo dell'emisferio,
io non ho per impossibile che se gli potesse mostrare egualmente chiara e
luminosa come l'altra, perché finalmente dentro a due angoli eguali,
cioè di quattro gradi l'uno, vengono all'occhio le reflessioni di due
eguali moltitudini di raggi, di quelli, cioè, che si reflettono dalla
striscia di mezo, larga gradi quattro, e de i reflessi dall'altra di venti
gradi, ma veduta in iscorcio sotto la quantità di gradi quattro: ed un
sito tale otterrà l'occhio, quando e' sia collocato tra 'l detto
emisfero e 'l corpo che l'illumina, perché allora la vista e i raggi vanno per
le medesime linee. Par dunque che non sia impossibile che la Luna possa esser
di superficie assai bene eguale, e che non dimeno nel plenilunio si mostri non
men luminosa nell'estremità che nelle parti di mezo.
SALV. La dubitazione è ingegnosa e degna
d'esser considerata: e comeché ella vi è nata pur ora improvisamente, io
parimente risponderò quello che improvisamente mi cade in mente, e forse
potrebb'essere che col pensarvi piú mi sovvenisse miglior risposta. Ma prima
che io produca altro in mezo, sarà bene che noi ci assicuriamo con
l'esperienza se la vostra opposizione risponde cosí in fatto, come par che
concluda in apparenza. E però, ripigliando la medesima carta, inclinandone,
col piegarla, una piccola parte sopra il rimanente, proviamo se esponendola al
lume, sí che sopra la minor parte caschino i raggi del lume direttamente, e
sopra l'altra obliquamente, questa che riceve i raggi diretti si mostri piú
chiara; ed ecco già l'esperienza manifesta, che l'è notabilmente
piú luminosa. Ora, quando la vostra opposizione sia concludente,
bisognerà che, abbassando noi l'occhio tanto che, rimirando l'altra
maggior parte, meno illuminata, in iscorcio, ella ci apparisca non piú larga dell'altra
piú illuminata, e che in conseguenza non sia veduta sotto maggior angolo che
quella, bisognerà, dico, che il suo lume si accresca sí, che ci sembri
cosí lucida come l'altra. Ecco che io la guardo, e la veggo sí obliquamente che
la mi apparisce piú stretta dell'altra; ma con tutto ciò la sua
oscurità non mi si rischiara punto. Guardate ora se l'istesso accade a
voi.
SAGR. Ho visto, né, perché io abbassi l'occhio,
veggo punto illuminarsi o rischiararsi davvantaggio la detta superficie; anzi
mi par piú tosto che ella si imbrunisca.
SALV. Siamo dunque sin ora sicuri dell'inefficacia
dell'opposizione. Quanto poi alla soluzione, credo che, per esser la superficie
di questa carta poco meno che tersa, pochi sieno i raggi che si reflettano
verso gl'incidenti, in comparazione della moltitudine che si reflette verso le
parti opposte, e che di quei pochi se ne perdano sempre piú quanto piú si
accostano i raggi visivi a essi raggi luminosi incidenti; e perché non i raggi
incidenti, ma quelli che si reffettono all'occhio, fanno apparir l'oggetto
luminoso, però nell'abbassar l'occhio, piú è quello che si perde
che quello che si acquista, come anco voi stesso dite apparirvi nel vedere il
foglio più oscuro.
SAGR. Io dell'esperienza e della ragione mi appago.
Resta ora che 'l signor Simplicio risponda all'altro mio quesito, dichiarandomi
quali cose muovano i Peripatetici a voler questa rotondità ne i corpi
celesti tanto esatta.
SIMP. L'essere i corpi celesti ingenerabili,
incorruttibili, inalterabili, impassibili, immortali, etc., fa che e' sieno
assolutamente perfetti; e l'essere assolutamente perfetti si tira in
conseguenza che in loro sia ogni genere di perfezione, e però che la
figura ancora sia perfetta, cioè sferica, e assolutamente e
perfettamente sferica, e non aspera ed irregolare.
SALV. E questa incorruttibilità da che la
cavate voi?
SIMP. Dal mancar di contrari immediatamente, e
mediatamente dal moto semplice circolare.
SALV. Talché, per quanto io raccolgo dal vostro
discorso, nel costituir l'essenza de i corpi celesti incorruttibile,
inalterabile etc., non v'entra come causa o requisito necessario, la
rotondità; che quando questa cagionasse l'inalterabilità, noi
potremo ad arbitrio nostro far incorruttibile il legno, la cera, ed altre
materie elementari, col ridurle in figura sferica.
SIMP. E non è egli manifesto che una palla
di legno meglio e piú lungo tempo si conserverà che una guglia o altra
forma angolare, fatta di altrettanto del medesimo legno?
SALV. Cotesto è verissimo, ma non
però di corruttibile diverrà ella incorruttibile; anzi
resterà pur corruttibile, ma ben di piú lunga durata. Però
è da notarsi che il corruttibile è capace di piú e di meno tale,
potendo noi dire: «Questo è men corruttibile di quello», come, per
esempio, il diaspro è men corruttibile della pietra serena; ma
l'incorruttibile non riceve il piú e 'l meno, sí che si possa dire: «Questo
è piú incorruttibile di quell'altro», se amendue sono incorruttibili ed
eterni. La diversità dunque di figura non può operare se non
nelle materie che son capaci del piú o del meno durare; ma nelle eterne, che
non posson essere se non egualmente eterne, cessa l'operazione della figura. E
per tanto, già che la materia celeste non per la figura è
incorruttibile, ma per altro, non occorre esser cosí ansioso di questa perfetta
sfericità, perché, quando la materia sarà incorruttibile, abbia
pur che figura si voglia, ella sarà sempre tale.
SAGR. Ma io vo considerando qualche cosa di piú, e
dico che, conceduto che la figura sferica avesse facultà di conferire
l'incorruttibilità, tutti i corpi, di qualsivoglia figura, sarebbero
eterni e incorruttibili. Imperocché essendo il corpo rotondo incorruttibile, la
corruttibilità verrebbe a consistere in quelle parti che alterano la
perfetta rotondità: come, per esempio, in un dado vi è dentro una
palla perfettamente rotonda, e come tale incorruttibile; resta dunque che
corruttibili sieno quelli angoli che ricuoprono ed ascondono la
rotondità; al piú dunque che potesse accadere, sarebbe che tali angoli e
(per cosí dire) escrescenze si corrompessero. Ma se piú internamente andremo
considerando, in quelle parti ancora verso gli angoli vi son dentro altre
minori palle della medesima materia, e però esse ancora, per esser
rotonde, incorruttibili; e cosí ne' residui che circondano queste otto minori
sferette, vi se ne possono intendere altre; talché finalmente, risolvendo tutto
il dado in palle innumerabili, bisognerà confessarlo incorruttibile. E
questo medesimo discorso ed una simile resoluzione si può far di tutte
le altre figure.
SALV. Il progresso cammina benissimo: sí che
quando, verbigrazia, un cristallo sferico avesse dalla figura l'esser
incorruttibile, cioè la facultà di resistere a tutte le
alterazioni interne ed esterne, non si vede che l'aggiugnerli altro cristallo e
ridurlo, verbigrazia, in cubo l'avesse ad alterar dentro, né anco di fuori, sí
che ne divenisse meno atto a resistere al nuovo ambiente, fatto dell'istessa
materia, che non era all'altro di materia diversa, e massime se è vero
che la corruzione si faccia da i contrari, come dice Aristotile; e di qual cosa
si può circondare quella palla di cristallo, che gli sia manco contraria
del cristallo medesimo? Ma noi non ci accorgiamo del fuggir dell'ore, e tardi
verremo a capo de' nostri ragionamenti, se sopra ogni particulare si hanno da
fare sí lunghi discorsi; oltre che la memoria si confonde talmente nella
multiplicità delle cose, che difficilmente posso ricordarmi delle
proposizioni che ordinatamente aveva proposte il signor Simplicio da
considerarsi.
SIMP. Io me ne ricordo benissimo; e circa questo
particulare della montuosità della Luna, resta ancora in piede la causa
che io addussi di tale apparenza, potendosi benissimo salvare con dir ch'ella
sia un'illusione procedente dall'esser le parti della Luna inegualmente opache
e perspicue.
SAGR. Poco fa, quando il signor Simplicio
attribuiva le apparenti inegualità della Luna, conforme all'opinione di
certo Peripatetico amico suo, alle parti di essa Luna diversamente opache e
perspicue, conforme a che simili illusioni si veggono in cristalli e gemme di
piú sorti, mi sovvenne una materia molto piú accomodata per rappresentar cotali
effetti, e tale che credo certo che quel filosofo la pagherebbe qualsivoglia
prezo; e queste sono le madreperle, le quali si lavorano in varie figure, e
benché ridotte ad una estrema liscezza, sembrano all'occhio tanto variamente in
diverse parti cave e colme, che appena al tatto stesso si può dar fede della
loro egualità.
SALV. Bellissimo è veramente questo
pensiero; e quel che non è stato fatto sin ora, potrebbe esser fatto
un'altra volta, e se sono state prodotte altre gemme e cristalli, che non han
che fare con l'illusioni delle madreperle, saran ben prodotte queste ancora.
Intanto, per non tagliar l'occasione ad alcuno, tacerò la risposta che
ci andrebbe, e solo procurerò per ora di sodisfare alle obbiezioni
portate dal signor Simplicio. Dico per tanto che questa vostra è una ragion
troppo generale, e come voi non l'applicate a tutte le apparenze ad una ad una
che si veggono nella Luna, e per le quali io ed altri si son mossi a tenerla
montuosa, non credo che voi siate per trovare chi si soddisfaccia di tal
dottrina; né credo che voi stesso né l'autor medesimo trovi in essa maggior
quiete, che in qualsivoglia altra cosa remota dal proposito. Delle molte e
molte apparenze varie che si scorgono di sera in sera in un corso lunare, voi
pur una sola non ne potrete imitare col fabbricare una palla a vostro arbitrio
di parti piú e meno opache e perspicue e che sia di superficie pulita; dove
che, all'incontro, di qualsivoglia materia solida e non trasparente si
fabbricheranno palle le quali, solo con eminenze e cavità e col ricevere
variamente l'illuminazione, rappresenteranno l'istesse viste e mutazioni a
capello, che d'ora in ora si scorgono nella Luna. In esse vedrete i dorsi
dell'eminenze esposte al lume del Sole chiari assai, e doppo di loro le
proiezioni dell'ombre oscurissime; vedrete le maggiori e minori, secondo che
esse eminenze si troveranno piú o meno distanti dal confine che distingue la
parte della Luna illuminata dalla tenebrosa; vedrete l'istesso termine e
confine, non egualmente disteso, qual sarebbe se la palla fusse pulita, ma
anfrattuoso e merlato; vedrete, oltre al detto termine, nella parte tenebrosa,
molte sommità illuminate e staccate dal resto già luminoso;
vedrete l'ombre sopradette, secondoché l'illuminazione si va alzando, andarsi
elleno diminuendo, sinché del tutto svaniscono, né piú vedersene alcuna quando
tutto l'emisferio sia illuminato; all'incontro poi, nel passare il lume verso
l'altro emisfero lunare, riconoscerete l'istesse eminenze osservate prima, e
vedrete le proiezioni dell'ombre loro farsi al contrario ed andar crescendo: delle
quali cose torno a replicarvi che voi pur una non potrete rappresentarmi col
vostro opaco e perspicuo.
SAGR. Anzi pur se ne imiterà una,
cioè quella del plenilunio, quando, per esser il tutto illuminato, non
si scorge piú né ombre né altro che dalle eminenze e cavità riceva
alcuna variazione. Ma di grazia, signor Salviati, non perdete piú tempo in
questo particolare, perché uno che avesse avuto pazienza di far l'osservazioni
di una o due lunazioni e non restasse capace di questa sensatissima verità,
si potrebbe ben sentenziare per privo del tutto di giudizio; e con simili, a
che consumar tempo e parole indarno?
SIMP. Io veramente non ho fatte tali osservazioni,
perché non ho avuta questa curiosità, né meno strumento atto a poterle
fare; ma voglio per ogni modo farle: e intanto possiamo lasciar questa
questione in pendente e passare a quel punto che segue, producendo i motivi per
i quali voi stimate che la Terra possa reflettere il lume del Sole non men
gagliardamente che la Luna, perché a me par ella tanto oscura ed opaca, che un
tale effetto mi si rappresenta del tutto impossibile.
SALV. La causa per la quale voi reputate la Terra
inetta all'illuminazione non è altramente cotesta, signor Simplicio. E
non sarebbe bella cosa che io penetrassi i vostri discorsi meglio che voi
medesimo?
SIMP. Se io mi discorra bene o male, potrebb'esser
che voi meglio di me lo conosceste; ma, o bene o mal ch'io mi discorra, che voi
possiate meglio di me penetrar il mio discorso, questo non crederò io
mai.
SALV. Anzi vel farò io creder pur ora.
Ditemi un poco: quando la Luna è presso che piena, sí che ella si
può veder di giorno ed anco a meza notte, quando vi par ella piú
splendente, il giorno o la notte?
SIMP. La notte, senza comparazione, e parmi che la
Luna imiti quella colonna di nugole e di fuoco che fu scorta a i figliuoli di
Isdraele, che alla presenza del Sole si mostrava come una nugoletta, ma la
notte poi era splendidissima. Cosí ho io osservato alcune volte di giorno tra
certe nugolette la Luna non altramente che una di esse biancheggiante; ma la
notte poi si mostra splendentissima.
SALV. Talché quando voi non vi foste mai abbattuto
a veder la Luna se non di giorno, voi non l'avreste giudicata piú splendida di
una di quelle nugolette.
SIMP. Cosí credo fermamente.
SALV. Ditemi ora: credete voi che la Luna sia
realmente piú lucente la notte che 'l giorno, o pur che per qualche accidente
ella si mostri tale?
SIMP. Credo che realmente ella risplenda in se
stessa tanto di giorno quanto di notte, ma che 'l suo lume si mostri maggiore
di notte perché noi la vediamo nel campo oscuro del cielo; ed il giorno, per
esser tutto l'ambiente assai chiaro, sí che ella di poco lo avanza di luce, ci
si rappresenta assai men lucida.
SALV. Or ditemi; avete voi veduto mai in su la meza
notte il globo terrestre illuminato dal Sole?
SIMP. Questa mi pare una domanda da non farsi se
non per burla, o vero a qualche persona conosciuta per insensata affatto.
SALV. No, no, io v'ho per uomo sensatissimo, e fo
la domanda sul saldo: e però rispondete pure, e poi se vi parrà
che io parli a sproposito, mi contento d'esser io l'insensato; ché bene
è piú sciocco quello che interroga scioccamente, che quello a chi si fa
interrogazione.
SIMP. Se dunque voi non mi avete per semplice
affatto, fate conto ch'io v'abbia risposto, e detto che è impossibile
che uno che sia in Terra, come siamo noi, vegga di notte quella parte della
Terra dove è giorno, cioè che è percossa dal Sole.
SALV. Adunque non vi è toccato mai a veder
la Terra illuminata se non di giorno; ma la Luna la vedete anco nella piú
profonda notte risplendere in cielo: e questa, signor Simplicio, è la
cagione che vi fa credere che la Terra non risplenda come la Luna; che se voi
poteste veder la Terra illuminata mentreché voi fuste in luogo tenebroso come la
nostra notte, la vedreste splendida piú che la Luna. Ora, se voi volete che la
comparazione proceda bene, bisogna far parallelo del lume della Terra con quel
della Luna veduta di giorno, e non con la Luna notturna, poiché non ci tocca a
veder la Terra illuminata se non di giorno. Non sta cosí?
SIMP. Cosí è dovere.
SALV. E perché voi medesimo avete già
confessato d'aver veduta la Luna di giorno tra nugolette biancheggianti e
similissima, quanto all'aspetto, ad una di esse, già primamente venite a
confessare che quelle nugolette, che pur son materie elementari, son atte a
ricever l'illuminazione quanto la Luna, ed ancor piú, se voi vi ridurrete in
fantasia d'aver vedute talvolta alcune nugole grandissime, e candidissime come
la neve; e non si può dubitare che se una tale si potesse conservar cosí
luminosa nella piú profonda notte, ella illuminerebbe i luoghi circonvicini piú
che cento Lune. Quando dunque noi fussimo sicuri che la Terra si illuminasse
dal Sole al pari di una di quelle nugolette, non resterebbe dubbio che ella
fusse non meno risplendente della Luna. Ma di questo cessa ogni dubbio, mentre
noi veggiamo le medesime nugole, nell'assenza del Sole, restar la notte cosí
oscure come la Terra; e, quel che è piú, non è alcuno di noi al
quale non sia accaduto di veder piú volte alcune tali nugole basse e lontane, e
stare in dubbio se le fussero nugole o montagne: segno evidente, le montagne
non esser men luminose di quelle nugole.
SAGR. Ma che piú altri discorsi? Eccovi là
su la Luna, che è piú di meza; eccovi là quel muro alto, dove
batte il Sole; ritiratevi in qua, sí che la Luna si vegga accanto al muro;
guardate ora: che vi par piú chiaro? non vedete voi che se vantaggio vi
è, l'ha il muro? Il Sole percuote in quella parete; di lí si reverbera
nelle pareti della sala; da quelle si reflette in quella camera, sí che in essa
arriva con la terza riflessione: e ad ogni modo son sicuro che vi è piú
lume, che se direttamente vi arrivasse il lume della Luna.
SIMP. Oh questo non credo io, perché quel della
Luna, e massime quando ell'è piena, è un grande illuminare.
SAGR. Par grande per l'oscurità de i luoghi
circonvicini ombrosi, ma assolutamente non è molto, ed è minore
che quel del crepuscolo di mez'ora doppo il tramontar del Sole; il che è
manifesto, perché non prima che allora vedrete cominciare a distinguersi in
Terra le ombre de i corpi illuminati dalla Luna. Se poi quella terza
reflessione in quella camera illumini piú che la prima della Luna, si
potrà conoscere andando là, col legger quivi un libro, e provar
poi stasera al lume della Luna se si legge piú agevolmente o meno, che credo
senz'altro che si leggerà meno.
SALV. Ora, signor Simplicio (se però voi
sete stato appagato), potete comprender come voi medesimo sapevi veramente che
la Terra risplendeva non meno che la Luna, e che il ricordarvi solamente alcune
cose sapute da per voi, e non insegnate da me, ve n'ha reso certo: perché io
non vi ho insegnato che la Luna si mostra piú risplendente la notte che 'l
giorno, ma già lo sapevi da per voi, come anco sapevi che tanto si
mostra chiara una nugoletta quanto la Luna; sapevi parimente che l'illuminazion
della Terra non si vede di notte, ed in somma sapevi il tutto, senza saper di
saperlo. Di qui non doverà di ragione esservi difficile il conceder che
la reflessione della Terra possa illuminar la parte tenebrosa della Luna, con
luce non minor di quella con la quale la Luna illustra le tenebre della notte,
anzi tanto piú, quanto che la Terra è quaranta volte maggior della Luna.
SIMP. Veramente io credeva che quel lume secondario
fosse proprio della Luna.
SALV. E questo ancora sapete da per voi, e non
v'accorgete di saperlo. Ditemi: non avete voi per voi stesso saputo che la Luna
si mostra piú luminosa assai la notte che il giorno, rispetto
all'oscurità del campo ambiente? ed in conseguenza non venite voi a
sapere in genere, che ogni corpo lucido si mostra piú chiaro quanto l'ambiente
è piú oscuro?
SIMP. Questo so io benissimo.
SALV. Quando la Luna è falcata e vi mostra
assai chiaro quel lume secondario, non è ella sempre vicina al Sole, ed
in conseguenza nel lume del crepusculo?
SIMP. Èvvi; e molte volte ho desiderato che
l'aria si facesse piú fosca per poter veder quel tal lume piú chiaro, ma
l'è tramontata avanti notte oscura.
SALV. Voi dunque sapete benissimo che nella
profonda notte quel lume apparirebbe piú?
SIMP. Signor sí, ed ancor piú se si potesse tor via
il gran lume delle corna tocche dal Sole, la presenza del quale offusca assai
l'altro minore.
SALV. Oh non accad'egli talvolta di poter vedere
dentro ad oscurissima notte tutto il disco della Luna, senza punto essere
illuminato dal Sole?
SIMP. Io non so che questo avvenga mai, se non ne
gli eclissi totali della Luna.
SALV. Adunque allora dovrebbe questa sua luce
mostrarsi vivissima, essendo in un campo oscurissimo e non offuscata dalla
chiarezza delle corna luminose: ma voi in quello stato come l'avete veduta
lucida?
SIMP. Holla veduta talvolta del color del rame ed
un poco albicante; ma altre volte è rimasta tanto oscura, che l'ho del
tutto persa di vista.
SALV. Come dunque può esser sua propria
quella luce, che voi cosí chiara vedete nell'albor del crepuscolo, non ostante
l'impedimento dello splendor grande e contiguo delle corna, e che poi nella piú
oscura notte, rimossa ogni altra luce, non apparisce punto?
SIMP. Intendo esserci stato chi ha creduto cotal
lume venirle participato dall'altre stelle, ed in particolare da Venere, sua
vicina.
SALV. E cotesta parimente è una
vanità, perché nel tempo della sua totale oscurazione dovrebbe pur
mostrarsi piú lucida che mai, ché non si può dire che l'ombra della
Terra gli asconda la vista di Venere né dell'altre stelle; ma ben ne riman ella
del tutto priva allora, perché l'emisferio terrestre che in quel tempo riguarda
verso la Luna, è quello dove è notte, cioè un'intera
privazion del lume del Sole. E se voi diligentemente andrete osservando,
vedrete sensatamente che, sí come la Luna, quando è sottilmente falcata,
pochissimo illumina la Terra, e secondoché in lei vien crescendo la parte
illuminata dal Sole, cresce parimente lo splendore a noi, che da quella vienci
reflesso; cosí la Luna, mentre è sottilmente falcata e che, per esser
tra 'l Sole e la Terra, scuopre grandissima parte dell'emisferio terreno
illuminato, si mostra assai chiara, e discostandosi dal Sole e venendo verso la
quadratura, si vede tal lume andar languendo, ed oltre la quadratura si vede
assai debile, perché sempre va perdendo della vista della parte luminosa della
Terra: e pur dovrebbe accadere il contrario quando tal lume fusse suo o
comunicatole dalle stelle, perché allora la possiamo vedere nella profonda
notte e nell'ambiente molto tenebroso.
SIMP. Fermate, di grazia, che pur ora mi sovviene
aver letto in un libretto moderno di conclusioni, pieno di molte novità,
«che questo lume secondario non è cagionato dalle stelle né è
proprio della Luna e men di tutti comunicatogli dalla Terra, ma che deriva
dalla medesima illuminazion del Sole, la quale, per esser la sustanza del globo
lunare alquanto trasparente, penetra per tutto il suo corpo, ma piú vivamente
illumina la superficie dell'emisfero esposto a i raggi del Sole, e la
profondità, imbevendo e, per cosí dire, inzuppandosi di tal luce a guisa
di una nugola o di un cristallo, la trasmette e si rende visibilmente lucida. E
questo (se ben mi ricorda) prova egli con l'autorità, con l'esperienza e
con la ragione, adducendo Cleomede, Vitellione, Macrobio e qualch'altro autor
moderno, e soggiugnendo, vedersi per esperienza ch'ella si mostra molto lucida
ne i giorni prossimi alla congiunzione, cioè quando è falcata, e
massimamente risplende intorno al suo limbo; e di piú scrive che negli eclissi
solari, quando ella è sotto il disco del Sole, si vede tralucere, e
massime intorno all'estremo cerchio. Quanto poi alle ragioni, parmi ch'e' dica
che non potendo ciò derivare né dalla Terra né dalle stelle né da se
stessa, resta necessariamente ch'e' venga dal Sole; oltreché, fatta questa
supposizione, benissimo si rendono accomodate ragioni di tutti i particulari
che accascano. Imperocché del mostrarsi tal luce secondaria piú vivace intorno
all'estremo limbo, ne è cagione la brevità dello spazio da esser
penetrato da i raggi del Sole, essendoché delle linee che traversano un
cerchio, la massima è quella che passa per il centro, e delle altre le
piú lontane da questa son sempre minori delle piú vicine. Dal medesimo
principio dice egli derivare che tal lume poco diminuisce. E finalmente, per
questa via si assegna la causa onde avvenga che quel cerchio piú lucido intorno
all'estremo margine della Luna si scorga nell'eclisse solare in quella parte
che sta sotto il disco del Sole, ma non in quella che è fuor del disco;
provenendo ciò, perché i raggi del Sole trapassano a dirittura al nostro
occhio per le parti della Luna sottoposte, ma per le parti che son fuori,
cascano fuori dell'occhio».
SALV. Se questo filosofo fusse stato il primo
autore di tale opinione, io non mi maraviglierei che e' vi fusse talmente
affezionato, che e' l'avesse ricevuta per vera; ma ricevendola da altri, non
saprei addur ragione bastante per iscusarlo dal non aver comprese le sue
fallacie, e massime doppo l'aver egli sentita la vera causa di tale effetto, ed
aver potuto con mille esperienze e manifesti riscontri assicurarsi, ciò
dal reflesso della Terra, e non da altro, procedere; e quanto questa cognizione
fa desiderar qualche cosa nell'accorgimento di questo autore e di tutti gli
altri che non le prestano l'assenso, tanto il non l'avere intesa e non esser
loro sovvenuta mi rende scusabili quei piú antichi, i quali son ben sicuro che
se adesso l'intendessero, senza una minima repugnanza l'ammetterebbero. E se io
vi devo schiettamente dire il mio concetto, non posso creder che quest'autor
moderno internamente non la creda, ma dubito che il non potersen'egli fare il primo
autore, lo stimoli un poco a tentare di supprimerla o smaccarla almanco
appresso a i semplici, il numero de i quali sappiamo esser grandissimo; e molti
sono che godono assai piú dell'applauso numeroso del popolo, che dell'assenso
de i pochi non vulgari.
SAGR. Fermate un poco, signor Salviati, ché mi par
di vedere che voi non andiate drittamente al vero punto nel vostro parlare;
perché questi, che tendono le pareti al comune, si sanno anco fare autori
dell'invenzioni di altri, purché non sieno tanto antiche e fatte pubbliche per
le cattedre e per le piazze, che sieno piú che notorie a tutti.
SALV. Oh io son piú cattivo di voi. Che dite voi di
pubbliche o di notorie? non è egli l'istesso l'esser l'opinioni e
l'invenzioni nuove a gli uomini, che l'esser gli uomini nuovi a loro? se voi vi
contentaste della stima de' principianti nelle scienze, che vengon su di tempo
in tempo, potreste farvi anco inventore sin dell'alfabeto, e cosí rendervi ad
essi ammirando; e se ben poi col progresso del tempo si scoprisse la vostra
sagacità, ciò poco pregiudica al vostro fine, perché altri
sottentrano a mantenere il numero de i fautori. Ma torniamo a mostrare al
signor Simplicio la inefficacia de i discorsi del suo moderno autore, ne i
quali ci sono falsità e cose non concludenti ed inopinabili. E prima,
è falso che questa luce secondaria sia piú chiara intorno all'estremo
margine che nelle parti di mezo, sí che si formi quasi un anello o cerchio piú
risplendente del resto del campo. Ben è vero che guardando la Luna posta
nel crepuscolo, si mostra, nel primo apparire, un tal cerchio, ma con inganno
che nasce dalla diversità de i confini con i quali termina il disco
lunare, sparso di questa luce secondaria: imperocché dalla parte verso il Sole
confina con le corna lucidissime della Luna, e dall'altra ha per termine
confinante il campo oscuro del crepuscolo, la relazion del quale ci fa parere
piú chiaro l'albore del disco lunare, il quale nella parte opposta viene
offuscato dallo splendor maggiore delle corna. Che se l'autor moderno avesse
provato a farsi ostacolo tra l'occhio e lo splendor primario col tetto di
qualche casa o con altro tramezzo, sí che visibile restasse solamente la piazza
della Luna fuori delle corna, l'avrebbe veduta tutta egualmente luminosa.
SIMP. Mi par pur ricordare che egli scriva
d'essersi servito di un simile artifizio per nascondersi la falce lucida.
SALV. Oh come questo è, la sua, che io
stimava inavvertenza, diventa bugia; la quale pizzica anco di temerità,
poiché ciascheduno ne può far frequentemente la riprova. Che poi
nell'eclisse del Sole si vegga il disco della Luna in altro modo che per
privazione, io ne dubito assai, e massime quando l'eclisse non sia totale, come
necessariamente bisogna che siano state le osservate dall'autore; ma quando anco
e' si scorgesse come lucido, questo non contraria, anzi favorisce l'opinion
nostra, avvengaché allora si oppone alla Luna tutto l'emisferio terrestre
illuminato dal Sole, ché se bene l'ombra della Luna ne oscura una parte, questa
è pochissima in comparazione di quella che rimane illuminata. Quello che
aggiugne di piú, che in questo caso la parte del margine che soggiace al Sole
si mostri assai lucida, ma non cosí quella che resta fuori, e ciò
derivare dal venirci direttamente per quella parte i raggi solari all'occhio,
ma non per questa, è bene una di quelle favole che manifestano le altre
finzioni di colui che le racconta; perché, se per farci visibile di luce
secondaria il disco lunare bisogna che i raggi del Sole vengano direttamente al
nostro occhio, non vede il poverino che noi mai non vedremmo tal luce
secondaria se non nell'eclisse del Sole? E se l'esser una parte della Luna
remota dal disco solare solamente manco assai di mezo grado può deviare
i raggi del Sole, sí che non arrivino al nostro occhio, che sarà quando
ella se ne trovi lontana venti e trenta, quale ella ne è nella sua prima
apparizione? e come verranno i raggi del Sole, che hanno a trapassar per il
corpo della Luna, a trovar l'occhio nostro? Quest'uomo si va di mano in mano
figurando le cose quali bisognerebbe ch'elle fussero per servire al suo
proposito, e non va accomodando i suoi propositi di mano in mano alle cose
quali elle sono. Ecco: per far che lo splendor del Sole possa penetrar la
sustanza della Luna, ei la fa in parte diafana, quale è, verbigrazia, la
trasparenza di una nugola o di un cristallo; ma non so poi quello ch'ei si
giudicasse, circa una tal trasparenza, quando i raggi solari avessero a
penetrare una profondità di nugola di piú di dua mila miglia. Ma ammettasi
che egli arditamente rispondesse, ciò potere esser benissimo ne i corpi
celesti, che sono altre faccende che questi nostri elementari, impuri e
fecciosi, e convinchiamo l'error suo con mezi che non ammettono risposta, o per
dir meglio, sutterfugii. Quando ei voglia mantenere che la sustanza della Luna
sia diafana, bisogna ch'ei dica che ella è tale mentreché i raggi del
Sole abbiano a penetrar tutta la sua profondità, cioè ne abbiano
a penetrar piú di dua mila miglia, ma che opponendosigliene solo un miglio ed
anco meno, non la penetreranno piú che e' si penetrino una delle nostre
montagne.
SAGR. Voi mi fate sovvenire di uno che mi voleva
vendere un segreto di poter parlare, per via di certa simpatia di aghi
calamitati, a uno che fusse stato lontano due o tre mila miglia; e dicendogli
io che volentieri l'avrei comprato, ma che volevo vederne l'esperienza, e che
mi bastava farla stando io in una delle mie camere ed egli in un'altra, mi
rispose che in sí piccola distanza non si poteva veder ben l'operazione: onde
io lo licenziai, con dire che non mi sentivo per allora di andare nel Cairo o
in Moscovia per veder tale esperienza; ma se pure voleva andare esso, che io
arei fatto l'altra parte, restando in Venezia. Ma sentiamo come va la
conseguenza dell'autore, e come bisogni ch'egli ammetta, la materia della Luna
esser permeabilissima da i raggi solari nella profondità di dua mila
miglia, ma opacissima piú di una montagna delle nostre nella grossezza di un
miglio solo.
SALV. L'istesse montagne appunto della Luna ce ne
fanno testimonianza, le quali, ferite da una parte dal Sole, gettano
dall'opposta ombre negrissime, terminate e taglienti piú assai dell'ombre delle
nostre; che quando elle fussero diafane, mai non avremmo potuto conoscere
asprezza veruna nella superficie della Luna, né veder quelle cuspidi luminose
staccate dal termine che distingue la parte illuminata dalla tenebrosa; anzi né
meno vedremmo noi questo medesimo termine cosí distinto, se fusse vero che 'l
lume del Sole penetrasse la profondità della Luna; anzi, per il detto
medesimo dell'autore, bisognerebbe vedere il passaggio e confine tra la parte
vista e la non vista dal Sole assai confuso e misto di luce e tenebre, ché bene
è necessario che quella materia che dà il transito a i raggi
solari nella profondità di dua mila miglia, sia tanto trasparente che
pochissimo gli contrasti nella centesima o minor parte di tal grossezza:
tuttavia il termine che separa la parte illuminata dalla oscura è
tagliente e cosí distinto quanto è distinto il bianco dal nero, e
massime dove il taglio passa sopra la parte della Luna naturalmente piú chiara
e piú aspra; ma dove sega le macchie antiche, le quali sono pianure, per andare
elle sfericamente inclinandosi, sí che ricevono i raggi del Sole obliquissimi,
quivi il termine non è cosí tagliente, mediante la illuminazione piú
languida. Quello finalmente ch'ei dice del non si diminuire ed abbacinare la
luce secondaria secondo che la Luna va crescendo, ma conservarsi continuamente
della medesima efficacia, è falsissimo; anzi, poco si vede nella
quadratura, quando, per l'opposito, ella dovrebbe vedersi piú viva, potendosi
vedere fuor del crepuscolo, nella notte piú profonda. Concludiamo per tanto,
esser la reflession della Terra potentissima nella Luna; e, quello di che
dovrete far maggiore stima, cavatene un'altra congruenza bellissima:
cioè, che se è vero che i pianeti operino sopra la Terra col moto
e col lume, forse la Terra non meno sarà potente a operar reciprocamente
in loro col medesimo lume e per avventura col moto ancora; e quando anco ella
non si movesse, pur gli può restare la medesima operazione, perché
già, come si è veduto, l'azione del lume è la medesima
appunto, cioè del lume del Sole reflesso, e 'l moto non fa altro che la
variazione de gli aspetti, la quale segue nel modo medesimo facendo muover la
Terra e star fermo il Sole, che se si faccia per l'opposito.
SIMP. Non si troverà alcuno de i filosofi
che abbia detto che questi corpi inferiori operino ne i celesti, ed Aristotile
dice chiaro il contrario.
SALV. Aristotile e gli altri che non han saputo che
la Terra e la Luna si illuminino scambievolmente, son degni di scusa; ma
sarebber ben degni di riprensione se, mentre vogliono che noi concediamo e
crediamo a loro che la Luna operi in Terra col lume, e' volessin poi a noi, che
gli aviamo insegnato che la Terra illumina la Luna, negare l'azione della Terra
nella Luna.
SIMP. In somma io sento in me un'estrema repugnanza
nel potere ammettere questa società che voi vorreste persuadermi tra la
Terra e la Luna, ponendola, come si dice, in ischiera con le stelle; ché,
quando altro non ci fusse, la gran separazione e lontananza tra essa e i corpi
celesti mi par che necessariamente concluda una grandissima dissimilitudine tra
di loro.
SALV. Vedete, signor Simplicio, quanto può
un inveterato affetto ed una radicata opinione; poiché è tanto
gagliarda, che vi fa parer favorevoli quelle cose medesime che voi stesso
producete contro di voi. Che se la separazione e lontananza sono accidenti
validi per persuadervi una gran diversità di nature, convien che per
l'opposito la vicinanza e contiguità importino similitudine: ma quanto
è piú vicina la Luna alla Terra che a qualsivoglia altro de i globi
celesti? Confessate dunque, per la vostra medesima concessione (ed averete anco
altri filosofi per compagni), grandissima affinità esser tra la Terra e
la Luna. Or seguitiamo avanti, e proponete se altro ci resta da considerare
circa le difficultà che voi moveste contro le congruenze tra questi due
corpi.
SIMP. Ci resterebbe non so che in proposito della
solidità della Luna, la quale io argumentava dall'esser ella sommamente
pulita e liscia, e voi dall'esser montuosa. Un'altra difficultà mi
nasceva per il credere io che la reflession del mare dovesse esser, per
l'egualità della sua superficie, piú gagliarda che quella della Terra,
la cui superficie è tanto scabrosa ed opaca.
SALV. Quanto al primo dubbio, dico che, sí come
nelle parti della Terra, che tutte per la lor gravità conspirano ad
approssimarsi quanto piú possono al centro, alcune tuttavia ne rimangono piú
remote che l'altre, cioè le montagne piú delle pianure, e questo per la
lor solidità e durezza (ché se fusser di materia fluida si
spianerebbero), cosí il veder noi alcune parti della Luna restare elevate sopra
la sfericità delle parti piú basse arguisce la loro durezza, perché
è credibile che la materia della Luna si figuri in forma sferica per la
concorde conspirazione di tutte le sue parti al medesimo centro. Circa l'altro
dubbio, parmi che per le cose che aviamo considerate accader negli specchi,
possiamo intender benissimo che la reflession del lume che vien dal mare sia
inferiore assai a quella che vien dalla terra, intendendo però della
reflessione universale; perché quanto alla particolare che la superficie
dell'acqua quieta manda in un luogo determinato, non ha dubbio che chi si
constituirà in tal luogo, vedrà nell'acqua un reflesso
potentissimo, ma da tutti gli altri luoghi si vedrà la superficie
dell'acqua piú oscura di quella della terra. E per mostrarlo al senso, andiamo
qua in sala e versiamo un poco di acqua sul pavimento: ditemi ora, non si
mostr'egli questo mattone bagnato piú oscuro assai degli altri asciutti? Certo
sí, e tale si mostrerà egli rimirato da qualsivoglia luogo, eccettuatone
un solo, e questo è quello dove arriva il reflesso del lume che entra
per quella finestra: tiratevi adunque indietro pian piano.
SIMP. Di qui veggo io la parte bagnata piú lucida
del resto del pavimento, e veggo che ciò avviene perché il reflesso del
lume, che entra per la finestra, viene verso di me.
SALV. Quel bagnare non ha fatto altro che riempier
quelle piccole cavità che sono nel mattone e ridur la sua superficie a
un piano esquisito, onde poi i raggi reflessi vanno uniti verso un medesimo
luogo: ma il resto del pavimento asciutto ha la sua asprezza, cioè una
innumerabil varietà di inclinazioni nelle sue minime particelle, onde le
reflessioni del lume vanno verso tutte le parti, ma piú debili che se andasser
tutte unite insieme; e però poco o niente si varia il suo aspetto per
riguardarlo da diverse bande, ma da tutti i luoghi si mostra l'istesso, ma ben
men chiaro assai che quella reflession della parte bagnata. Concludo per tanto
che la superficie del mare, veduta dalla Luna, sí come apparirebbe egualissima
(trattone le isole e gli scogli), cosí apparirebbe men chiara che quella della
terra, montuosa e ineguale. E se non fusse ch'io non vorrei parer, come si
dice, di volerne troppo, vi direi d'aver osservato nella Luna quel lume
secondario, ch'io dico venirle dalla reflession del globo terrestre, esser
notabilmente piú chiaro due o tre giorni avanti la congiunzione che doppo,
cioè quando noi la veggiamo avanti l'alba in oriente che quando si vede
la sera, doppo il tramontar del Sole, in occidente; della qual differenza ne
è causa che l'emisferio terrestre che si oppone alla Luna orientale ha
poco mare ed assaissima terra, avendo tutta l'Asia, doveché, quando ella
è in occidente, riguarda grandissimi mari, cioè tutto l'Oceano
Atlantico sino alle Americhe: argomento assai probabile del mostrarsi meno splendida
la superficie dell'acqua che quella della terra.
SIMP. [Adunque, per vostro credere, ella farebbe un
aspetto simile a quello che noi veggiamo nella Luna, delle 2 parti massime.] Ma
credete voi forse che quelle gran macchie che si veggono nella faccia della
Luna siano mari, e il resto piú chiaro terra, o cosa tale?
SALV. Questo che voi domandate è il
principio delle incongruenze ch'io stimo esser tra la Luna e la Terra, dalle
quali sarà tempo che noi ci sbrighiamo, ché pur troppo siamo dimorati in
questa Luna. Dico dunque che quando in natura non fusse altro che un modo solo
per far apparir due superficie, illustrate dal Sole, una piú chiara dell'altra,
e che questo fosse per esser una di terra e l'altra di acqua, bisognerebbe
necessariamente dire che la superficie della Luna fosse parte terrea e parte
aquea; ma perché vi sono piú modi conosciuti da noi, che posson cagionare il
medesimo effetto, ed altri per avventura ne posson essere incogniti a noi,
però io non ardirei di affermare, questo piú che quello esser nella
Luna. Già si è veduto di sopra come una piastra d'argento
bianchito, col toccarlo col brunitoio, di candido si rappresenta oscuro; la
parte umida della Terra si mostra piú oscura della arida; ne i dorsi delle
montagne, le parti silvose appariscono assai piú fosche delle nude e sterili;
ciò accade, perché tra le piante casca gran quantità di ombra, ed
i luoghi aprici son tutti illuminati dal Sole; e questa mistione di ombre opera
tanto, che voi vedete ne i velluti a opera il color della seta tagliata
mostrarsi molto piú oscuro che quel della non tagliata, mediante le ombre
disseminate tra pelo e pelo, ed il velluto piano parimente assai piú fosco che
un ermisino fatto della medesima seta; sí che quando nella Luna fossero cose
che imitassero grandissime selve, l'aspetto loro potrebbe rappresentarci le
macchie che noi veggiamo; una tal differenza farebbero s'elle fusser mari; e
finalmente non repugna che potesse esser che quelle macchie fosser realmente di
color piú oscuro del rimanente, ché in questa guisa la neve fa comparir le
montagne piú chiare. Quello che si vede manifestamente nella Luna è che
le parti piú oscure son tutte pianure, con pochi scogli e argini dentrovi, ma
pur ve ne son alcuni: il restante piú chiaro è tutto pieno di scogli,
montagne, arginetti rotondi e di altre figure; ed in particolare intorno alle
macchie sono grandissime tirate di montagne. Dell'esser le macchie superficie
piane, ce ne assicura il veder come il termine che distingue la parte
illuminata dall'oscura, nel traversar le macchie fa il taglio eguale, ma nelle
parti chiare si mostra per tutto anfrattuoso e merlato. Ma non so già se
questa egualità di superficie possa esser bastante per sé sola a far
apparir l'oscurità, e credo piú tosto di no. Reputo, oltre a questo, la
Luna differentissima dalla Terra, perché, se bene io mi immagino che quelli non
sien paesi oziosi e morti, non affermo però che vi sieno movimenti e
vita, e molto meno che vi si generino piante, animali o altre cose simili alle
nostre, ma, se pur ve n'è, fussero diversissime, e remote da ogni nostra
immaginazione: e muovomi a cosí credere, perché, primamente, stimo che la
materia del globo lunare non sia di terra e di acqua, e questo solo basta a
tòr via le generazioni e alterazioni simili alle nostre; ma, posto anco
che lassú fosse acqua e terra, ad ogni modo non vi nascerebbero piante ed
animali simili a i nostri, e questo per due ragioni principali. La prima
è, che per le nostre generazioni son tanto necessarii gli aspetti
variabili del Sole, che senza essi il tutto mancherebbe: ora le abitudini del
Sole verso la Terra son molto differenti da quelle verso la Luna Noi, quanto
all'illuminazion diurna, abbiamo nella maggior parte della Terra ogni
ventiquattr'ore parte di giorno e parte di notte, il quale effetto nella Luna
si fa in un mese; e quello abbassamento ed alzamento annuo per il quale il Sole
ci apporta le diverse stagioni e la disegualità de i giorni e delle
notti, nella Luna si finisce pur in un mese; e dove il Sole a noi si alza ed
abbassa tanto, che dalla massima alla minima altezza vi corre circa
quarantasette gradi di differenza, cioè quanta è la distanza
dall'uno all'altro tropico, nella Luna non importa altro che gradi dieci o poco
piú, ché tanto importano le massime latitudini del dragone di qua e di là dall'eclittica.
Considerisi ora qual sarebbe l'azion del Sole dentro alla zona torrida quando
e' durasse quindici giorni continui a ferirla con i suoi raggi, che senz'altro
s'intenderà che tutte le piante e le erbe e gli animali si dispergerebbero;
e se pur vi si facessero generazioni, sarebber di erbe, piante ed animali
diversissimi da i presenti. Secondariamente, io tengo per fermo che nella Luna
non siano piogge, perché quando in qualche parte vi si congregassero nugole,
come intorno alla Terra, ci verrebbero ad ascondere alcuna di quelle cose che
noi col telescopio veggiamo nella Luna, ed in somma in qualche particella ci
varierebber la vista; effetto che io per lunghe e diligenti osservazioni non ho
veduto mai, ma sempre vi ho scorto una uniforme serenità purissima.
SAGR. A questo si potrebbe rispondere, o che vi
fossero grandissime rugiade, o che vi piovesse ne i tempi della lor notte,
cioè quando il Sole non la illumina.
SALV. Se per altri riscontri noi avessimo indizii
che in essa si facesser generazioni simili alle nostre, e solo ci mancasse il
concorso delle piogge, potremmo trovarci questo o altro temperamento che
supplisse in vece di quelle, come accade nell'Egitto dell'inondazione del Nilo;
ma non incontrando accidente alcuno che concordi co i nostri, de' molti che si
ricercherebbero per produrvi gli effetti simili, non occorre affaticarsi per
introdurne un solo, e quello anco non perché se n'abbia sicura osservazione, ma
per una semplice non repugnanza. Oltre che, quando mi fosse domandato quello
che la prima apprensione ed il puro naturale discorso mi detta circa il
prodursi là cose simili o pur differenti dalle nostre, io direi sempre,
differentissime ed a noi del tutto inimmaginabili, che cosí mi pare che
ricerchi la ricchezza della natura e l'onnipotenza del Creatore e Governatore.
SAGR. Estrema temerità mi è parsa
sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di
quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all'incontro, e' non è
effetto alcuno in natura, per minimo che e' sia, all'intera cognizion del quale
possano arrivare i piú specolativi ingegni. Questa cosí vana prosunzione
d'intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere
inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a
intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è
fatto il sapere, conoscerebbe come dell'infinità dell'altre conclusioni
niuna ne intende.
SALV. Concludentissimo è il vostro discorso;
in confermazion del quale abbiamo l'esperienza di quelli che intendono o hanno
inteso qualche cosa, i quali quanto piú sono sapienti, tanto piú conoscono e
liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per
tale sentenziato da gli oracoli, diceva apertamente conoscer di non saper
nulla.
SIMP. Convien dunque dire, o che l'oracolo, o
l'istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo, e
dicendo questo di conoscersi ignorantissimo.
SALV. Non ne seguita né l'uno né l'altro, essendo
che amendue i pronunziati posson esser veri. Giudica l'oracolo sapientissimo
Socrate sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si
conosce Socrate non saper nulla in relazione alla sapienza assoluta, che
è infinita; e perché dell'infinito tal parte n'è il molto che 'l
poco e che il niente (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto
è l'accumular migliaia, quanto decine e quanto zeri), però ben
conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all'infinita, che gli
mancava. Ma perché pur tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non
egualmente compartito a tutti, potette Socrate averne maggior parte de gli
altri, e perciò verificarsi il responso dell'oracolo.
SAGR. Parmi di intender benissimo questo punto. Tra
gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare, ma non
egualmente participata da tutti: e non è dubbio che la potenza d'un
imperadore è maggiore assai che quella d'una persona privata; ma e
questa e quella è nulla in comparazione dell'onnipotenza divina. Tra gli
uomini vi sono alcuni che intendon meglio l'agricoltura che molti altri; ma il
saper piantar un sermento di vite in una fossa, che ha da far col saperlo far
barbicare, attrarre il nutrimento, da quello scierre questa parte buona per
farne le foglie, quest'altra per formarne i viticci, quella per i grappoli,
quell'altra per l'uva, ed un'altra per i fiocini, che son poi l'opere della
sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle
innumerabili che fa la natura, ed in essa sola si conosce un'infinita sapienza,
talché si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito.
SALV. Eccone un altro esempio. Non direm noi che 'l
sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato l'ingegno del
Buonarruoti assai assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa
opera non è altro che imitare una sola attitudine e disposizion di
membra esteriore e superficiale d'un uomo immobile; e però che cosa
è in comparazione d'un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra
esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i
tanti e sí diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze
dell'anima, e finalmente dell'intendere? non possiamo noi dire, e con ragione,
la fabbrica d'una statua cedere d'infinito intervallo alla formazion d'un uomo
vivo, anzi anco alla formazion d'un vilissimo verme?
SAGR. E qual differenza crediamo che fusse tra la
colomba d'Archita ed una della natura?
SIMP. O io non sono un di quegli uomini che
intendano, o 'n questo vostro discorso è una manifesta contradizione.
Voi tra i maggiori encomii, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite
all'uomo, fatto dalla natura, questo dell'intendere; e poco fa dicevi con Socrate
che 'l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco
la natura abbia inteso il modo di fare un intelletto che intenda.
SALV. Molto acutamente opponete; e per rispondere
all'obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che
l'intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o
vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla
moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l'intender umano è
come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille
rispetto all'infinità è come un zero; ma pigliando l'intendere intensive,
in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente,
alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune cosí
perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n'abbia l'intessa
natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e
l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni
di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano
credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché
arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa
esser sicurezza maggiore.
SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed
ardito.
SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da
ogni ombra di temerità o d'ardire e che punto non detraggono di
maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua
onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma
dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da
voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio
dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le
dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza
divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le
infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è
sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con
passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice
intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d'alcune passioni
del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle piú semplici e quella
pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un'altra, e da questa
alla terza, e poi alla quarta, etc., l'intelletto divino con la semplice
apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la
infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente
si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per
esser infinite, forse sono una sola nell'essenza loro e nella mente divina. Il
che né anco all'intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da
profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e
chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente
dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo
velocemente trascorrere: perché in somma, che altro è l'esser nel
triangolo il quadrato opposto all'angolo retto eguale a gli altri due che gli
sono intorno, se non l'esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le
parallele, tra loro eguali? e questo non è egli finalmente il medesimo
che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano,
ma si racchiuggono dentro al medesimo termine? Or questi passaggi, che
l'intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l'intelletto
divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l'istesso che
dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l'intender nostro, e
quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d'infinito
intervallo superato dal divino; ma non però l'avvilisco tanto, ch'io lo
reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto
maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo
chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle
piú eccellenti.
SAGR. Io son molte volte andato meco medesimo
considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia
l'acutezza dell'ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto
maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sí nelle arti come nelle
lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi
promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle
già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi
reputo poco meno che infelice. S'io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico
a me medesimo: «E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e
scoprire sí bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere
sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli
oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?» S'io guardo
quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl'intervalli musici, nello
stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile
dell'udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti
e sí diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia
riempie chi attentamente considera l'invenzion de' concetti e la spiegatura
loro? Che diremo dell'architettura? che dell'arte navigatoria? Ma sopra tutte
le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che
s'immaginò di trovar modo di comunicare i suoi piú reconditi pensieri a
qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo
e di tempo? parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non
sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual
facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta.
Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de'
nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore piú calde, il
signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri
freschi in barca; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i
discorsi cominciati, etc.
GIORNATA SECONDA
SALV. Le diversioni di ieri, che ci torsero dal
dritto filo de' nostri principali discorsi, furon tante e tali, ch'io non so se
potrò senza l'aiuto vostro rimettermi su la traccia, per poter procedere
avanti.
SAGR. Io non mi meraviglio che voi, che avete
ripiena e ingombrata la fantasia tanto delle cose dette quanto di quelle che
restan da dirsi, vi troviate in qualche confusione; ma io, che per esser
semplice ascoltatore, altro non ritengo che le cose udite, potrò per
avventura, col ricordarle sommariamente, rimettere il ragionamento su 'l suo
filo. Per quello dunque che mi è restato in mente, fu la somma de i
discorsi di ieri l'andar esaminando da i fondamenti loro, qual delle due
opinioni sia piú probabile e ragionevole: quella che tiene, la sustanza de i
corpi celesti esser ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, impassibile, ed
in somma esente da ogni mutazione, fuor che dalla locale, e però essere
una quinta essenza diversissima da questa de i nostri corpi elementari,
generabili, corruttibili, alterabili, etc.; o pur l'altra che, levando tal
difformità di parti dal mondo, reputa la Terra goder delle medesime
perfezioni che gli altri corpi integranti dell'universo, ed esser in somma un
globo mobile e vagante non men che la Luna, Giove, Venere o altro pianeta.
Fecersi in ultimo molti paralleli particolari tra essa Terra e la Luna, e piú
con la Luna che con altro pianeta forse per aver noi di quella maggiore e piú
sensata notizia, mediante la sua minor lontananza. Ed avendo finalmente
concluso, questa seconda opinione aver piú del verisimile dell'altra, parmi che
'l progresso ne tirasse a cominciare a esaminare se la Terra si deva stimare
immobile, come da i piú è stato sin qui creduto, o pur mobile, come
alcuni antichi filosofi credettero ed altri da non molto tempo in qua stimano,
e se mobile, qual possa essere il suo movimento.
SALV. Già comprendo e riconosco il segno del
nostro cammino; ma innanzi che si cominci a procedere piú oltre, devo dirvi non
so che sopra queste ultime parole che avete detto, dell'essersi concluso la
opinione che tien la Terra dotata delle medesime condizioni de i corpi celesti
esser piú verisimile della contraria: imperocché questo non ho io concluso, sí
come non son né anco per concludere verun'altra delle proposizioni controverse;
ma solo ho auta intenzione di produrre, tanto per l'una quanto per l'altra
parte, quelle ragioni e risposte, instanze e soluzioni, che ad altri sin qui
sono sovvenute, con qualche altra ancora che a me, nel lungamente pensarvi,
è cascata in mente, lasciando poi la decisione all'altrui giudizio.
SAGR. Io mi era lasciato trasportare dal mio
proprio sentimento, e credendo che in altri dovesse esser quel che io sentiva
in me, feci universale quella conclusione che doveva far particolare; e
veramente ho errato, e massime non sapendo il concetto del signor Simplicio qui
presente.
SIMP. Io vi confesso che tutta questa notte sono
andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e
gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai piú
dall'autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare… Voi scotete
la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande
esorbitanza.
SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch'io
scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto
sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti
anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora
nominare.
SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò
forse il signor Simplicio non continuasse di creder d'avervi esso mosse le
risa.
SAGR. Son
contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia,
dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal
volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto
che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava
ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa
controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista
come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i
nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il
corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi
ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la
presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato
il tutto, gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine de i
nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere
stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa
talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotile non fusse in
contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per
forza confessarla per vera».
SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che
questa disputa dell'origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa
come forse alcuno si persuade.
SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano
di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la
stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata
esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d'Aristotile, ma la sola
autorità ed il puro ipse dixit.
SIMP. Aristotile non si è acquistata sí
grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della
profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente
intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne' suoi libri, che se ne sia formata
un'idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla
mente; perché e' non ha scritto per il volgo, né si è obligato a
infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del
perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par
che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tutta quella grande
idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un
altro remotissimo; ch'e' non è dubbio che chi averà questa
pratica, saprà cavar da' suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile,
perché in essi è ogni cosa.
SAGR. Ma, signor Simplicio mio, come l'esser le
cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi
crediate con l'accozzamento e con la combinazione di varie particelle trarne il
sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi
d'Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone
centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti
della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto
assai piú breve d'Aristotile e d'Ovidio, nel quale si contengono tutte le
scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una
perfettissima idea: e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che
quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con
quelle consonanti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a
tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di
tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori
diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l'accozzare un poco di
questo con un poco di quello e di quell'altro, figurando uomini, piante,
fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili,
senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né
sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o
parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che con essi si
possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia, penne,
queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi.
SALV. E' son vivi e sani alcuni gentil uomini che
furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio famoso, nel sentir
circoscrivere il telescopio, da sé non ancor veduto, disse che l'invenzione era
presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo dove
si rende la ragione onde avvenga che dal fondo d'un pozzo molto cupo si possano
di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: «Eccovi il pozzo,
che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta
l'invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista nel passare
i raggi per il diafano piú denso e oscuro».
SAGR. Questo è un modo di contener tutti gli
scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima,
anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire: o vogliam
dire che e' sia simile alle profezie di Giovacchino o a' responsi degli oracoli
de' gentili, che non s'intendono se non doppo gli eventi delle cose
profetizate.
SALV. E dove lasciate voi le predizioni de'
genetliaci, che tanto chiaramente doppo l'esito si veggono nel tema o vogliam
dire nella figura celeste?
SAGR. In questa guisa trovano gli alchimisti,
guidati dall'umor melanconico, tutti i più elevati ingegni del mondo non
aver veramente scritto mai d'altro che del modo di far l'oro, ma, per dirlo
senza palesarlo al volgo, esser andati ghiribizando chi questa e chi
quell'altra maniera di adombrarlo sotto varie coperte: e piacevolissima cosa
è il sentire i comenti loro sopra i poeti antichi, ritrovando i misteri
importantissimi che sotto le favole loro si nascondono, e quello che importino
gli amori della Luna, e 'l suo scendere in Terra per Endimione, l'ira sua
contro Atteone, e quando Giove si converte in pioggia d'oro, e quando in fiamme
ardenti, e quanti gran segreti dell'arte sieno in quel Mercurio interprete, in
quei ratti di Plutone, in quei rami d'oro.
SIMP. Io credo, e in parte so, che non mancano al
mondo de' cervelli molto stravaganti, le vanità de' quali non dovrebbero
ridondare in pregiudizio d'Aristotile, del quale mi par che voi parliate
talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e 'l gran nome
che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe
bastar a renderlo riguardevole appresso di tutti i letterati.
SALV. Il fatto non cammina cosí, signor Simplicio:
sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi, che danno occasione, o, per dir
meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo
applaudere alle loro leggereze. E voi, ditemi in grazia, sete cosí semplice che
non intendiate che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor
che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto piú alterato contro di
lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano?
Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte
in cielo, e' non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per
accostarsi alle piú sensate dottrine, discacciando da sé quei cosí poveretti di
cervello che troppo pusillanimamente s'inducono a voler sostenere ogni suo
detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo
figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di
barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore
stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle
esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data
l'autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpata o presa; e
perché è piú facile il coprirsi sotto lo scudo d'un altro che 'l
comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d'allontanarsi un sol passo,
e piú tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono
impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura.
SAGR. Questi tali mi fanno sovvenire di quello
scultore, che avendo ridotto un gran pezzo di marmo all'immagine non so se d'un
Ercole o di un Giove fulminante, e datogli con mirabile artifizio tanta
vivacità e fierezza che moveva spavento a chiunque lo rimirava, esso
ancora cominciò ad averne paura, se ben tutto lo spirito e la movenza
era opera delle sue mani; e 'l terrore era tale, che piú non si sarebbe ardito
di affrontarlo con le subbie e 'l mazzuolo.
SALV. Io mi son piú volte maravigliato come possa
esser che questi puntuali mantenitori d'ogni detto d'Aristotile non si
accorgano di quanto gran progiudizio e' sieno alla reputazione ed al credito di
quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene detraggano;
perché, mentre io gli veggo ostinati in voler sostener proposizioni le quali io
tocchi con mano esser manifestamente false, ed in volermi persuadere che cosí
far convenga al vero filosofo e che cosí farebbe Aristotile medesimo, molto si
diminuisce in me l'opinione che egli abbia rettamente filosofato intorno ad
altre conclusioni a me piú recondite: ché quando io gli vedessi cedere e mutare
opinione per le verità manifeste, io crederei che in quelle dove e'
persistessero, potessero avere salde dimostrazioni, da me non intese o sentite.
SAGR. O vero, quando gli paresse di metter troppo
della lor reputazione e di quella d'Aristotile nel confessar di non aver saputa
questa o quella conclusione ritrovata da un altro, non sarebb'ei manco male il
ritrovarla tra i suoi testi con l'accozzarne diversi, conforme alla prattica
significataci dal signor Simplicio? perché se vi è ogni scibile,
è ben anco forza che vi si possa ritrovare.
SALV. Signor Sagredo, non vi fate beffe di questo
avvedimento, che mi par che lo proponghiate burlando; perché non è gran
tempo che avendo un filosofo di gran nome composto un libro dell'anima, nel
quale, in riferir l'opinione d'Aristotile circa l'esser o non essere immortale,
adduceva molti testi, non già de i citati da Alessandro, perché in
quelli diceva che Aristotile non trattava né anco di tal materia, non che
determinasse cosa veruna attenente a ciò, ma altri da sé ritrovati in
altri luoghi reconditi, che piegavano al senso pernizioso, e venendo avvisato
che egli avrebbe avute delle difficultà nel farlo licenziare, riscrisse
all'amico che non però restasse di procurarne la spedizione, perché
quando non se gli intraversasse altro ostacolo, non aveva difficultà
niuna circa il mutare la dottrina d'Aristotile, e con altre esposizioni e con
altri testi sostener l'opinion contraria, pur conforme alla mente d'Aristotile.
SAGR. O questo dottor sí, che mi può
comandare, che non si vuol lasciar infinocchiar da Aristotile, ma vuol esso
menar lui per il naso e farlo dire a suo modo! Vedete quanto importa il saper
pigliar il tempo opportuno! Ei non si deve ridurre a negoziar con Ercole mentre
è imbizarrito e su le furie, ma quando sta favoleggiando tra le meonie
ancelle. Ah viltà inaudita d'ingegni servili! farsi spontaneamente
mancipio, accettar per inviolabili decreti, obligarsi a chiamarsi persuaso e
convinto da argomenti che sono tanto efficaci e chiaramente concludenti, che
gli stessi non sanno risolversi s'e' sien pure scritti in quel proposito e se
e' servano per provar quella tal conclusione! Ma dichiamo la pazzia maggiore:
che tra lor medesimi sono ancor dubbi, se l'istesso autore abbia tenuto la
parte affermativa o la negativa. È egli questo un far loro oracolo una
statua di legno, ed a quella correr per i responsi, quella temere, quella
riverire, quella adorare?
SIMP. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da
essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore
SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi
incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno
bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma
chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per
iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi
laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in
preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza
cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è
un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri
non si applica piú a cercar d'intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual
cosa è piú vergognosa che 'l sentir nelle publiche dispute, mentre si
tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene
spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca
all'avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare,
deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché
non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di
filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago
infinito, del quale in tutt'oggi non si uscirebbe. Però, signor
Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di
Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri
hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. E perché
nel discorso di ieri si cavò dalle tenebre e si espose al cielo aperto
la Terra, mostrando che 'l volerla connumerare tra quelli che noi chiamiamo
corpi celesti non era proposizione talmente convinta e prostrata che non gli
restasse qualche spirito vitale, séguita che noi andiamo esaminando quello che
abbia di probabile il tenerla fissa e del tutto immobile, intendendo quanto al
suo intero globo, e quanto possa avere di verisimilitudine il farla mobile di
alcun movimento, e di quale: e perché in tal quistione io sono ambiguo, ed il
signor Simplicio risoluto, insieme con Aristotile, per la parte
dell'immobilità, egli di passo in passo andrà portando i motivi
per la loro opinione, ed io le risposte e gli argomenti per la parte contraria,
ed il signor Sagredo dirà i moti dell'animo suo ed in qual parte e' si
sentirà tirare
SAGR. Io son molto contento, con questo però
che a me ancora resti libertà di produrre quel che mi dettasse talora il
discorso semplice naturale.
SALV. Anzi di cotesto io in particolare ve ne
supplico; perché delle considerazioni piú facili e, per cosí dire, materiali,
credo che poche ne sieno state lasciate indietro da gli scrittori, talché
solamente qualcuna delle piú sottili e recondite può desiderarsi e
mancare; e per investigar queste, qual altra sottigliezza può esser piú
atta di quella dell'ingegno del signor Sagredo, acutissimo e perspicacissimo?
SAGR. Io son tutto quel che piace al signor
Salviati, ma di grazia non mettiam mano in un'altra sorte di diversioni di
cerimonie, perché ora son filosofo, e sono in scuola e non al Broio.
SALV. Sia dunque il principio della nostra
contemplazione il considerare che qualunque moto venga attribuito alla Terra,
è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza
partecipi del medesimo, ei resti del tutto impercettibile e come s'e' non
fusse, mentre che noi riguardiamo solamente alle cose terrestri; ma è
bene, all'incontro, altrettanto necessario che il medesimo movimento ci si
rappresenti comunissimo di tutti gli altri corpi ed oggetti visibili che,
essendo separati dalla Terra, mancano di quello. A tal che il vero metodo per
investigare se moto alcuno si può attribuire alla Terra, e, potendosi,
quale e' sia, è il considerare ed osservare se ne i corpi separati dalla
Terra si scorge apparenza alcuna di movimento, il quale egualmente competa a
tutti; perché un moto che solamente si scorgesse, verbigrazia, nella Luna, e
che non avesse che far niente con Venere o con Giove né con altre stelle, non
potrebbe in veruna maniera esser della Terra, né di altri che della Luna. Ora,
ci è un moto generalissimo e massimo sopra tutti, ed è quello per
il quale il Sole, la Luna, gli altri pianeti e le stelle fisse, ed in somma
l'universo tutto, trattane la sola Terra, ci appariscono unitamente muoversi da
oriente verso occidente dentro allo spazio di venti quattr'ore, e questo, in
quanto a questa prima apparenza, non ha repugnanza di potere esser tanto della
Terra sola, quanto di tutto il resto del mondo, trattone la Terra; imperocché
le medesime apparenze si vedrebbero tanto nell'una posizione quanto nell'altra.
Quindi è che Aristotile e Tolomeo, come quelli che avevano penetrata
questa considerazione, nel voler provare la Terra esser immobile, non
argumentano contro ad altro movimento che a questo diurno; salvo però
che Aristotile tocca un non so che contro ad un altro moto attribuitogli da un
antico, del quale parleremo a suo luogo.
SAGR. Io resto molto ben capace della
necessità con la quale conclude il vostro discorso, ma mi nasce un
dubbio, del quale non so liberarmi: e questo è, che attribuendo il
Copernico alla Terra un altro movimento oltre al diurno, il quale, per la
regola pur ora dichiarata, dovrebbe restare a noi, quanto all'apparenza,
impercettibile nella Terra, ma visibile in tutto il resto del mondo, parmi di
poter necessariamente concludere, o che egli abbia manifestamente errato
nell'assegnare alla Terra un moto del quale non apparisca in cielo la sua
general corrispondenza, o vero che, se la rispondenza vi è, altrettanto
sia stato manchevole Tolomeo a non reprovar questo, sí come reprovò
l'altro.
SALV. Molto ragionevolmente avete dubitato; e
quando verremo a trattare dell'altro movimento, vedrete di quanto intervallo
abbia il Copernico superato di accortezza e perspicacità d'ingegno Tolomeo,
mentre egli ha veduto quello che esso non vedde, dico la mirabil corrispondenza
con la quale tal movimento si reflette in tutto il resto de i corpi celesti. Ma
per ora sospendiamo questa parte e torniamo alla prima considerazione; intorno
alla quale andrò proponendo, cominciandomi dalle cose piú generali,
quelle ragioni che par che favoriscano la mobilità della Terra, per
sentir poi dal signor Simplicio le repugnanti. E prima, se noi considereremo
solamente la mole immensa della sfera stellata, in comparazione della
piccolezza del globo terrestre, contenuto da quella per tanti milioni di volte,
e piú penseremo alla velocità del moto che deve in un giorno e in una
notte fare una intera conversione, io non mi posso persuadere che trovar si
potesse alcuno che avesse per cosa piú ragionevole e credibile che la sfera
celeste fusse quella che desse la volta, ed il globo terrestre restasse fermo.
SAGR. Se per tutta l'università degli
effetti che possono aver in natura dependenza da movimenti tali, seguissero indifferentemente
tutte le medesime conseguenze a capello tanto dall'una posizione quanto
dall'altra, io, quanto alla mia prima e generale apprensione, stimerei che
colui che reputasse piú ragionevole il far muover tutto l'universo, per ritener
ferma la Terra, fusse piú irragionevole di quello che, sendo salito in cima
della vostra Cupola non per altro che per dare una vista alla città ed
al suo contado, domandasse che se gli facesse girare intorno tutto il paese,
acciò non avesse egli ad aver la fatica di volger la testa: e ben
vorrebbero esser molte e grandi le comodità che si traesser da quella
posizione e non da questa, che pareggiassero nel mio concetto e superasser
questo assurdo, sí che mi rendesser piú credibile quella che questa. Ma forse Aristotile,
Tolomeo e il signor Simplicio ci devono trovare i lor vantaggi, li quali
sarà bene che sien proposti a noi ancora, se vi sono, o mi sia
dichiarato come e' non vi sieno né possano essere.
SALV. Io sí come, per molto che ci abbia pensato,
non ho potuto trovar diversità alcuna, cosí mi par d'aver trovato che
diversità alcuna non vi possa essere; onde io stimo il piú cercarla
esser in vano. Però notate: il moto in tanto è moto, e come moto
opera, in quanto ha relazione a cose che di esso mancano; ma tra le cose che
tutte ne participano egualmente, niente opera ed è come s'e' non fusse:
e cosí le mercanzie delle quali è carica la nave, in tanto si muovono,
in quanto, lasciando Venezia, passano per Corfú, per Candia, per Cipro, e vanno
in Aleppo, li quali Venezia, Corfú, Candia etc. restano, né si muovono con la
nave; ma per le balle, casse ed altri colli, de' quali è carica e
stivata la nave, e rispetto alla nave medesima, il moto da Venezia in Soría
è come nullo, e niente altera la relazione che è tra di loro, e
questo, perché è comune a tutti ed egualmente da tutti è
participato; e quando delle robe che sono in nave una balla si sia discostata
da una cassa un sol dito, questo solo sarà stato per lei movimento
maggiore, in relazione alla cassa, che 'l viaggio di dua mila miglia fatto da
loro di conserva.
SIMP. Questa è dottrina buona, soda e tutta
peripatetica.
SALV. Io l'ho per piú antica; e dubito che
Aristotile, nel pigliarla da qualche buona scuola, non la penetrasse
interamente, e che però, avendola scritta alterata, sia stato causa di
confusione, mediante quelli che voglion sostenere ogni suo detto: e quando egli
scrisse che tutto quel che si muove, si muove sopra qualche cosa immobile,
dubito che equivocasse dal dire che tutto quel che si muove, si muove rispetto
a qualche cosa immobile, la qual proposizione non patisce difficultà
veruna, e l'altra ne ha molte.
SAGR. Di grazia, non rompiamo il filo, e seguite
avanti il discorso incominciato.
SALV. Essendo dunque manifesto che il moto il quale
sia comune a molti mobili, è ozioso e come nullo in quanto alla
relazione di essi mobili tra di loro, poiché tra di essi niente si muta, e
solamente è operativo nella relazione che hanno essi mobili con altri
che manchino di quel moto, tra i quali si muta abitudine; ed avendo noi diviso
l'universo in due parti, una delle quali è necessariamente mobile, e
l'altra immobile; per tutto quello che possa depender da cotal movimento, tanto
è far muover la Terra sola quanto tutto 'l resto del mondo, poiché
l'operazione di tal moto non è in altro che nella relazione che cade tra
i corpi celesti e la Terra, la qual sola relazione è quella che si muta.
Ora, se per conseguire il medesimo effetto ad unguem tanto fa se la sola
Terra si muova, cessando tutto il resto dell'universo, che se, restando ferma
la Terra sola, tutto l'universo si muova di un istesso moto, chi vorrà
credere che la natura (che pur, per comun consenso, non opera con l'intervento
di molte cose quel che si può fare col mezo di poche) abbia eletto di far
muovere un numero immenso di corpi vastissimi, e con una velocità
inestimabile, per conseguir quello che col movimento mediocre di un solo
intorno al suo proprio centro poteva ottenersi?
SIMP. Io non bene intendo come questo grandissimo
moto sia come nullo per il Sole, per la Luna, per gli altri pianeti e per
l'innumerabile schiera delle stelle fisse. E come direte voi esser nulla il
passare il Sole da un meridiano all'altro, alzarsi sopra questo orizonte,
abbassarsi sotto quello, arrecare ora il giorno ora la notte, simili variazioni
far la Luna e gli altri pianeti e le stelle fisse ancora?
SALV. Tutte coteste variazioni raccontate da voi
non son nulla, se non in relazion alla Terra. E che ciò sia vero,
rimovete con l'immaginazione la Terra: non resta piú al mondo né nascere né
tramontar di Sole o di Luna, né orizonti né meridiani, né giorni né notti, né
in somma per tal movimento nasce mai mutazione alcuna tra la Luna e 'l Sole o
altre qualsivoglino stelle, sian fisse o erranti; ma tutte le mutazioni hanno
relazione alla Terra; le quali tutte in somma non importano poi altro che 'l
mostrare il Sole ora alla Cina, poi alla Persia, dopo all'Egitto, alla Grecia,
alla Francia, alla Spagna, all'America etc., e far l'istesso della Luna e del
resto de i corpi celesti, la qual fattura segue puntualmente nel modo medesimo
se, senza imbrigar sí gran parte dell'universo, si faccia rigirare in se stesso
il globo terrestre. Ma raddoppiamo la difficoltà con un'altra
grandissima: la quale è, che quando si attribuisca questo gran moto al cielo,
bisogna di necessità farlo contrario a i moti particolari di tutti gli
orbi de i pianeti, de i quali ciascheduno senza controversia ha il movimento
suo proprio da occidente verso oriente, e questo assai piacevole e moderato, e
convien poi fargli rapire in contrario, cioè da oriente in occidente, da
questo rapidissimo moto diurno; dove che, facendosi muover la Terra in se
stessa, si leva la contrarietà de' moti, ed il solo movimento da
occidente in oriente si accomoda a tutte le apparenze e sodisfà a tutte
compiutamente.
SIMP. Quanto alla contrarietà de i moti,
importerebbe poco, perché Aristotile dimostra che i moti circolari non son
contrarii fra di loro, e che la loro non si può chiamar vera
contrarietà.
SALV. Lo dimostra Aristotile, o pur lo dice
solamente perché cosí compliva a certo suo disegno? Se contrarii son quelli,
come egli stesso afferma, che scambievolmente si destruggono, io non so vedere
come due mobili che s'incontrino sopra una linea circolare, si abbiano a
offender meno che incontrandosi sopra una linea retta.
SAGR. Di grazia, fermate un poco. Ditemi, signor
Simplicio, quando due cavalieri si incontrano giostrando a campo aperto, o pure
quando due squadre intere o due armate in mare si vanno ad investire e si
rompono e si sommergono, chiameresti voi cotali incontri contrarii tra di loro?
SIMP. Diciamoli contrarii.
SAGR. Come dunque ne i moti circolari non è
contrarietà? Questi, essendo fatti sopra la superficie della terra o
dell'acqua, che sono, come voi sapete, sferiche, vengono ad esser circolari.
Sapete voi, signor Simplicio, quali sono i moti circolari che non son tra loro
contrarii? son quelli di due cerchi che si toccano per di fuora, che, girandone
uno, fa naturalmente muover l'altro diversamente; ma se uno sarà dentro
all'altro, è impossibil che i moti loro fatti in diverse parti non si
contrastino l'un l'altro.
SALV. Ma contrarii o non contrarii, queste sono
altercazioni di parole; ed io so che in fatti molto piú semplice e natural cosa
è il poter salvare il tutto con un movimento solo, che l'introdurne due,
se non volete chiamarli contrarii, ditegli opposti: né io vi porgo questa
introduzione per impossibile, né pretendo di trar da essa una dimostrazione
necessaria, ma solo una maggior probabilità. Si rinterza l'inverisimile
col disordinare sproporzionatissimamente l'ordine che noi veggiamo sicuramente
esser tra quei corpi celesti la circolazion de' quali non è dubbia, ma
certissima. E l'ordine è, che secondo che un orbe è maggiore,
finisce il suo rivolgimento in tempo piú lungo, ed i minori in piú breve: e
cosí Saturno, descrivendo un cerchio maggior di tutti gli altri pianeti, lo
complisce in trent'anni; Giove si rivolge nel suo minore in anni dodici, Marte
in dua; la Luna passa il suo, tanto piú piccolo, in un sol mese; e non men
sensibilmente vediamo, delle Stelle Medicee la piú vicina a Giove far il suo
rivolgimento in brevissimo tempo, cioè in ore quarantadua in circa, la
seguente in tre giorni e mezo, la terza in giorni sette, e la piú remota in
sedici: e questo tenore assai concorde non punto verrà alterato mentre
si faccia che il movimento delle ventiquattr'ore sia del globo terrestre in se
stesso; che, quando si voglia ritener la Terra immobile, è necessario,
dopo l'esser passati dal periodo brevissimo della Luna a gli altri
conseguentemente maggiori, fino a quel di Marte in due anni, e di lí a quel
della maggiore sfera di Giove in anni dodici, e da questa all'altra maggiore di
Saturno, il cui periodo è di trent'anni, è necessario, dico,
trapassare ad un'altra sfera incomparabilmente maggiore, e farla finire
un'intera revoluzione in vintiquattr'ore. E questo poi è il minimo
disordinamento che si possa introdurre; perché se altri volesse dalla sfera di
Saturno passare alla stellata, e farla tanto piú grande di quella di Saturno,
quanto a proporzione converrebbe rispetto al suo movimento tardissimo di molte
migliaia d'anni, bisognerebbe con molto piú sproporzionato salto trapassar da
questa ad un'altra maggiore, e farla convertibile in ventiquattr'ore. Ma
dandosi la mobilità alla Terra, l'ordine de' periodi vien benissimo
osservato, e dalla sfera pigrissima di Saturno si trapassa alle stelle fisse,
del tutto immobili, e viensi a sfuggire una quarta difficoltà, la qual
bisogna necessariamente ammettere quando la sfera stellata si faccia mobile; e
questa è la disparità immensa tra i moti di esse stelle, delle
quali altre verranno a muoversi velocissimamente in cerchi vastissimi, altre
lentissimamente in cerchi piccolissimi, secondo che queste e quelle si
troveranno piú o meno vicine a i poli; che pure ha dell'inconveniente, sí
perché noi veggiamo quelle, del moto delle quali non si dubita, muoversi tutte
in cerchi massimi, sí ancora perché pare con non buona determinazione fatto il
constituir corpi, che s'abbiano a muover circolarmente, in distanze immense dal
centro, e fargli poi muovere in cerchi piccolissimi. E non pure le grandezze de
i cerchi ed in conseguenza le velocità de i moti di queste stelle
saranno diversissimi da i cerchi e moti di quell'altre, ma le medesime stelle
andranno variando suoi cerchi e sue velocità (e sarà il quinto
inconveniente), avvengaché quelle che due mil'anni fa erano nell'equinoziale,
ed in conseguenza descrivevano col moto cerchi massimi, trovandosene a i tempi
nostri lontane per molti gradi, bisogna che siano fatte piú tarde di moto e
ridottesi a muoversi in minori cerchi; e non è lontano dal poter accader
che venga tempo nel quale alcuna di loro, che per l'addietro si sia mossa
sempre, si riduca, congiugnendosi col polo, a star ferma, e poi ancora, dopo la
quiete di qualche tempo, torni a muoversi: dove che l'altre stelle, che si
muovono sicuramente, tutte descrivono, come si è detto, il cerchio
massimo dell'orbe loro, ed in quello immutabilmente si mantengono. Accresce
l'inverisimile (e sia il sesto inconveniente), a chi piú saldamente discorre,
l'essere inescogitabile qual deva esser la solidità di quella vastissima
sfera, nella cui profondità sieno cosí tenacemente saldate tante stelle,
che senza punto variar sito tra loro, concordemente vengono con sí gran
disparità di moti portate in volta: o se pure il cielo è fluido,
come assai piú ragionevolmente convien credere, sí che ogni stella per se
stessa per quello vadia vagando, qual legge regolerà i moti loro ed a
che fine, per far che, rimirati dalla Terra, appariscano come fatti da una sola
sfera? A me pare che per conseguir ciò, sia tanto piú agevole ed
accomodata maniera il costituirle immobili che 'l farle vaganti, quanto piú
facilmente si tengono a segno molte pietre murate in una piazza, che le schiere
de' fanciulli che sopra vi corrono. E finalmente, per la settima instanza, se
noi attribuiamo la conversion diurna al cielo altissimo, bisogna farla di tanta
forza e virtú, che seco porti l'innumerabil moltitudine delle stelle fisse,
corpi tutti vastissimi e maggiori assai della Terra, e di piú tutte le sfere de
i pianeti, ancorché e questi e quelle per lor natura si muovano in contrario;
ed oltre a questo è forza concedere che anco l'elemento del fuoco e la maggior
parte dell'aria siano parimente rapiti, e che il solo piccol globo della Terra
resti contumace e renitente a tanta virtú: cosa che a me pare che abbia molto
del difficile, né saprei intender come la Terra, corpo pensile e librato sopra
'l suo centro, indifferente al moto ed alla quiete, posto e circondato da un
ambiente liquido, non dovesse cedere ella ancora ed esser portata in volta. Ma
tali intoppi non troviamo noi nel far muover la Terra, corpo minimo ed
insensibile in comparazione dell'universo, e perciò inabile al fargli
violenza alcuna.
SAGR. Io mi sento raggirar per la fantasia alcuni
concetti, cosí in confuso destatimi da i discorsi fatti; che s'io voglio
potermi con attenzione applicar alle cose da dirsi, è forza ch'io vegga
se mi succedesse meglio ordinargli e trarne quel costrutto che vi è, se
però ve ne sarà alcuno: e per avventura il procedere per
interrogazioni mi aiuterà a piú agevolmente spiegarmi. Però
domando al signor Simplicio, prima, se e' crede che al medesimo corpo semplice
mobile possano naturalmente competere diversi movimenti, o pure che un solo
convenga, che sia il suo proprio e naturale.
SIMP. D'un mobile semplice un solo, e non piú,
può essere il moto che gli convenga naturalmente, e gli altri tutti per
accidente e per participazione; in quel modo che a colui che passeggia per la
nave, suo moto proprio è quello del passeggio, e per participazione
quello che lo conduce in porto, dove egli mai col passeggio non sarebbe
arrivato, se la nave col moto suo non ve l'avesse condotto.
SAGR. Ditemi, secondariamente: quel movimento che
per participazione vien comunicato a qualche mobile, mentre egli per se stesso
si muove di altro moto diverso dal participato, è egli necessario che
risegga in qualche suggetto per se stesso, o pur può esser anco in
natura senz'altro appoggio?
SIMP. Aristotile vi risponde a tutte queste
domande, e vi dice che sí come d'un mobile uno è il moto, cosí di un
moto uno è il mobile, ed in conseguenza che senza l'inerenza del suo
suggetto non può né essere né anco immaginarsi alcun movimento.
SAGR. Io vorrei che voi mi diceste, nel terzo
luogo, se voi credete che la Luna e gli altri pianeti e corpi celesti abbiano
lor movimenti proprii, e quali e' siano.
SIMP. Hannogli, e son quelli secondo i quali e'
vanno scorrendo il zodiaco: la Luna in un mese, il Sole in un anno, Marte in
dua, la sfera stellata in quelle tante migliaia; e questi sono i moti loro
proprii e naturali.
SAGR. Ma quel moto col quale io veggo le stelle
fisse, e con esse tutti i pianeti, andare unitamente da levante a ponente e
ritornare in oriente in ventiquattr'ore, in che modo gli compete?
SIMP. Hannolo per participazione.
SAGR. Questo dunque non risiede in loro; e non
risedendo in loro, né potendo esser senza qualche suggetto nel quale e'
risegga, è forza farlo proprio e naturale di qualche altra sfera.
SIMP. Per questo rispetto hanno ritrovata gli
astronomi ed i filosofi un'altra sfera altissima senza stelle, alla quale
naturalmente compete la conversion diurna, e questa hanno chiamata il primo mobile,
il quale poi rapisce seco tutte le sfere inferiori, contribuendo e participando
loro il movimento suo.
SAGR. Ma quando, senza introdurr'altre sfere
incognite e vastissime, senza altri movimenti o rapimenti participati, col
lasciare a ciascheduna sfera il suo solo e semplice movimento, senza mescolar
movimenti contrarii, ma fargli tutti per il medesimo verso, come è
necessario ch'e' sieno dependendo tutti da un sol principio, tutte le cose
caminano e rispondono con perfettissima armonia, perché rifiutar questo
partito, e dar assenso a quelle cosí strane e laboriose condizioni?
SIMP. Il punto sta in trovar questo modo cosí
semplice e spedito.
SAGR. Il modo mi par bell'e trovato. Fate che la
Terra sia il primo mobile, cioè fatela rivolgere in se stessa in ventiquattr'ore
e per il medesimo verso che tutte le altre sfere, che senza participar tal moto
a nessun altro pianeta o stelle, tutte avranno i lor orti, occasi ed in somma
tutte l'altre apparenze.
SIMP. L'importanza è il poterla muovere
senza mille inconvenienti.
SALV. Tutti gli inconvenienti si torranno via
secondo che voi gli andrete proponendo: e le cose dette sin qui sono solamente
i primi e piú generali motivi per i quali par che si renda non del tutto
improbabile che la diurna conversione sia piú tosto della Terra che di tutto 'l
resto dell'universo; li quali io non vi porto come leggi infrangibili, ma come
motivi che abbiano qualche apparenza. E perché benissimo intendo che una sola
esperienza o concludente dimostrazione che si avesse in contrario, basta a
battere in terra questi ed altri centomila argomenti probabili, però non
bisogna fermarsi qui, ma procedere avanti e sentire quel che risponde il signor
Simplicio, e quali migliori probabilità o piú ferme ragioni egli adduce
in contrario.
SIMP. Io dirò prima alcuna cosa in generale
sopra tutte queste considerazioni insieme, poi verrò a qualche
particolare. Parmi che universalmente voi vi fondiate su la maggior
semplicità e facilità di produrre i medesimi effetti, mentre
stimate che quanto al causargli tanto sia il muover la Terra sola quanto tutto
'l resto del mondo, trattone la Terra, ma quanto all'operazione voi reputate
molto piú facile quella che questa. Al che io vi rispondo che a me ancora par
l'istesso, mentre io riguardo alla forza mia, non pur finita, ma debolissima;
ma rispetto alla virtú del Motore, che è infinita, non è meno
agevole il muover l'universo, che la Terra e che una paglia. E se la virtú
è infinita, perché non se ne deve egli esercitare piú tosto una gran parte
che una minima? Per tanto parmi che il discorso in generale non sia efficace.
SALV. Se io avessi mai detto che l'universo non si
muove per mancamento di virtú del Motore, io avrei errato, e la vostra
correzzione sarebbe oportuna; e vi concedo che a una potenza infinita tanto
è facile il muover centomila, quanto uno. Ma quello che ho detto io non
ha riguardo al Motore, ma solamente a i mobili, ed in essi non solo alla loro
resistenza, la quale non è dubbio esser minore nella Terra che
nell'universo, ma a i molti altri particolari pur ora considerati. Al dir poi
che d'una virtú infinita sia meglio esercitarne una gran parte che una minima,
vi rispondo che dell'infinito una parte non è maggior dell'altra, quando
amendue sien finite; né si può dire che del numero infinito il centomila
sia parte maggiore che 'l due, se ben quello è cinquantamila volte
maggior di questo; e quando per muover l'universo ci voglia una virtú finita,
benché grandissima in comparazione di quella che basterebbe per muover la Terra
sola, non però se n'impiegherebbe maggior parte dell'infinita, né minore
sarebbe che infinita quella che resterebbe oziosa; talché l'applicar per un
effetto particolare un poco piú o un poco meno virtú non importa niente: oltre
che l'operazione di tal virtú non ha per termine e fine il solo movimento
diurno, ma sono al mondo altri movimenti assai che noi sappiamo, e molti altri
piú ve ne posson essere incogniti a noi. Avendo dunque riguardo a i mobili, e
non si dubitando che operazione piú breve e spedita è il muover la Terra
che l'universo, e di piú avendo l'occhio alle tante altre abbreviazioni ed
agevolezze che con questo solo si conseguiscono, un verissimo assioma
d'Aristotile che c'insegna che frustra fit per plura quod potest fieri per
pauciora ci rende piú probabile, il moto diurno esser della Terra sola, che
dell'universo, trattone la Terra.
SIMP. Voi nel referir l'assioma avete lasciato una
clausola che importa il tutto, e massime nel presente proposito. La particola
lasciata è un æque bene; bisogna dunque esaminare se si possa
egualmente bene sodisfare al tutto con questo e con quello assunto.
SALV. Il vedere se l'una e l'altra posizione
sodisfaccia egualmente bene, si comprenderà da gli esami particolari
dell'apparenze alle quali si ha da sodisfare, perché sin ora si è discorso,
e si discorrerà, ex hypothesi, supponendo che quanto al sodisfare
all'apparenze amendue le posizioni sieno egualmente accomodate. La particola
poi, che voi dite essere stata lasciata da me, ho piú tosto sospetto che sia
superfluamente aggiunta da voi: perché il dire «egualmente bene» è una
relazione, la quale necessariamente ricerca due termini almeno, non potendo una
cosa aver relazione a se stessa, e dirsi, verbigrazia, la quiete esser
egualmente buona come la quiete; e perché quando si dice «invano si fa con piú
mezi quello che si può fare con manco mezi», s'intende che quel che si
ha da fare deva esser la medesima cosa, e non due cose differenti, e perché la
medesima cosa non può dirsi egualmente ben fatta come se medesima,
adunque l'aggiunta della particola «egualmente bene» è superflua ed una
relazione che ha un termine solo.
SAGR. Se noi non vogliamo che ci intervenga come
ieri, ritornisi, di grazia, nella materia, ed il signor Simplicio cominci a
produr quelle difficultà che gli paiono contrarianti a questa nuova
disposizione del mondo.
SIMP. La disposizione non è nuova, anzi
antichissima, e che ciò sia vero, Aristotile la confuta, e le sue
confutazioni son queste. «Prima, se la Terra si movesse o in se stessa, stando
nel centro, o in cerchio, essendo fuor del centro, è necessario che
violentemente ella si movesse di tal moto, imperò che e' non è
suo naturale; ché s'e' fusse suo, l'avrebbe ancora ogni sua particella; ma
ognuna di loro si muove per linea retta al centro: essendo dunque violento e preternaturale,
non potrebbe essere sempiterno: ma l'ordine del mondo è sempiterno:
adunque etc. Secondariamente, tutti gli altri mobili di moto circolare par che
restino indietro e si muovano di piú di un moto, trattone però il primo
mobile: per lo che sarebbe necessario che la Terra ancora si movesse di due
moti; e quando ciò fosse, bisognerebbe di necessità che si
facessero mutazioni nelle stelle fisse: il che non si vede, anzi senza
variazione alcuna le medesime stelle nascono sempre da i medesimi luoghi, e ne
i medesimi tramontano. Terzo, il moto delle parti e del tutto è
naturalmente al centro dell'universo, e per questo ancora in esso si sta. Muove
poi la dubitazione se il moto delle parti è per andare naturalmente al
centro dell'universo, o pure al centro della Terra; e conclude, esser suo
instinto proprio di andare al centro dell'universo, e per accidente al centro
della Terra: del qual dubbio si discorse ieri a lungo. Conferma finalmente
l'istesso col quarto argomento preso dall'esperienza de' gravi, li quali,
cadendo da alto a baso, vengono a perpendicolo sopra la superficie della Terra;
e medesimamente i proietti tirati a perpendicolo in alto, a perpendicolo per le
medesime linee ritornano a basso, quanto bene fussero stati tirati in immensa
altezza: argomenti necessariamente concludenti, il moto loro esser al centro
della Terra, che senza punto muoversi gli aspetta e riceve. Accenna poi in
ultimo, esser da gli astronomi prodotte altre ragioni in confermazione
dell'istesse conclusioni, dico dell'esser la Terra nel centro dell'universo ed
immobile; ed una sola ne produce, che è il risponder tutte le apparenze,
che si veggono ne' movimenti delle stelle, alla posizione di essa Terra nel
centro, la qual rispondenza non avrebbe quando ella non vi fusse». Le altre,
prodotte da Tolomeo e da altri astronomi, le potrò arrecare ora, se cosí
vi piace, o dopo che arete detto quanto vi occorre in risposta di queste di
Aristotile.
SALV. Gli argumenti che si producono in questa
materia, son di due generi: altri hanno riguardo a gli accidenti terrestri,
senza relazione alcuna alle stelle, ed altri si cavano dalle apparenze ed
osservazioni delle cose celesti. Gli argomenti d'Aristotile son per lo piú
cavati dalle cose intorno a noi, e lascia gli altri alli astronomi; però
sarà bene, se cosí vi pare, esaminar questi presi dalle esperienze di
Terra, e poi verremo all'altro genere. E perché da Tolomeo, da Ticone e da
altri astronomi e filosofi, oltre a gli argomenti d'Aristotile, presi,
confermati e fortificati da loro, ne son prodotti de gli altri, si potranno
unir tutti insieme, per non aver poi a replicar le medesime o simili risposte
due volte. Però, signor Simplicio, o vogliate referirgli voi, o vogliate
ch'io vi levi questa briga, son per compiacervi.
SIMP. Sarà meglio che voi gli portiate, che,
per averci fatto maggiore studio, gli arete piú in pronto, ed anco in maggior
numero.
SALV. Per la piú gagliarda ragione si produce da
tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a basso vengono per una
linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato
irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la
conversion diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse
cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo che 'l
sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso
oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere in terra lontano dalla
radice della torre. Il quale effetto confermano con un'altra esperienza,
cioè col lasciar cadere una palla di piombo dalla cima dell'albero di
una nave che stia ferma, notando il segno dove ella batte, che è vicino
al piè dell'albero; ma se dal medesimo luogo si lascerà cadere la
medesima palla quando la nave cammini, la sua percossa sarà lontana
dall'altra per tanto spazio quanto la nave sarà scorsa innanzi nel tempo
della caduta del piombo, e questo non per altro se non perché il movimento
naturale della palla posta in sua libertà è per linea retta verso
'l centro della Terra. Fortificasi tal argomento con l'esperienza d'un proietto
tirato in alto per grandissima distanza, qual sarebbe una palla cacciata da una
artiglieria drizzata a perpendicolo sopra l'orizonte, la quale nella salita e
nel ritorno consuma tanto tempo, che nel nostro parallelo l'artiglieria e noi
insieme saremmo per molte miglia portati dalla Terra verso levante, talché la
palla, cadendo, non potrebbe mai tornare appresso al pezzo, ma tanto lontana
verso occidente quanto la Terra fosse scorsa avanti. Aggiungono di piú la terza
e molto efficace esperienza, che è: tirandosi con una colubrina una
palla di volata verso levante, e poi un'altra con egual carica ed alla medesima
elevazione verso ponente, il tiro verso ponente riuscirebbe estremamente
maggiore dell'altro verso levante; imperocché mentre la palla va verso
occidente, e l'artiglieria, portata dalla Terra, verso oriente, la palla
verrebbe a percuotere in terra lontana dall'artiglieria tanto spazio quanto
è l'aggregato de' due viaggi, uno fatto da sé verso occidente, e l'altro
dal pezzo, portato dalla Terra, verso levante; e per l'opposito, del viaggio
fatto dalla palla tirata verso levante bisognerebbe detrarne quello che avesse
fatto l'artiglieria seguendola: posto dunque, per esempio, che 'l viaggio della
palla per se stesso fosse cinque miglia, e che la Terra in quel tal parallelo
nel tempo della volata della palla scorresse tre miglia, nel tiro di ponente la
palla cadrebbe in terra otto miglia lontana dal pezzo, cioè le sue
cinque verso ponente e le tre del pezzo verso levante; ma il tiro d'oriente non
riuscirebbe piú lungo di due miglia, ché tanto resta detratto dalle cinque del
tiro le tre del moto del pezzo verso la medesima parte: ma l'esperienza mostra
i tiri essere eguali; adunque l'artiglieria sta immobile, e per conseguenza la
Terra ancora. Ma non meno di questi, i tiri altresí verso mezo giorno o verso
tramontana confermano la stabilità della Terra: imperocché mai non si
correbbe nel segno che altri avesse tolto di mira, ma sempre sarebbero i tiri costieri
verso ponente, per lo scorrere che farebbe il bersaglio, portato dalla Terra,
verso levante, mentre la palla è per aria. E non solo i tiri per le
linee meridiane, ma né anco i fatti verso oriente o verso occidente
riuscirebber giusti, ma gli orientali riuscirebbero alti, e gli occidentali
bassi, tuttavolta che si tirasse di punto in bianco; perché sendo il viaggio
della palla in amendue i tiri fatto per la tangente, cioè per una linea
parallela all'orizonte, ed essendo che al moto diurno, quando sia della Terra,
l'orizonte si va sempre abbassando verso levante ed alzandosi da ponente (che
però ci appariscono le stelle orientali alzarsi, e le occidentali
abbassarsi), adunque il bersaglio orientale s'andrebbe abbassando sotto il
tiro, onde il tiro riuscirebbe alto, e l'alzamento del bersaglio occidentale
renderebbe basso il tiro verso occidente. Talché mai non si potrebbe verso
nissuna parte tirar giusto: e perché l'esperienza è in contrario,
è forza dire che la Terra sta immobile.
SIMP. Oh queste son ben ragioni, alle quali
è impossibile trovar risposta che vaglia.
SALV. Vi giungono forse nuove?
SIMP. Veramente sí. Ed ora veggo con quante belle
esperienze la natura ci è voluta esser cortese per aiutarci a venire in
cognizione del vero. Oh come bene una verità si accorda con l'altra, e
tutte conspirano al rendersi inespugnabili!
SAGR. Che peccato che l'artiglierie non fussero al
tempo di Aristotile! Avrebbe ben egli con esse espugnata l'ignoranza, e parlato
senza punto titubare delle cose del mondo.
SALV. Ho avuto molto caro che queste ragioni vi
sien giunte nuove, acciò che voi non restiate nell'opinione della
maggior parte de i Peripatetici, che credono che se alcuno si parte dalla
dottrina d'Aristotile, ciò avvenga da non avere intese né penetrate ben le
sue dimostrazioni. Ma voi sentirete sicuramente dell'altre novità, e
sentirete da questi seguaci del nuovo sistema produr contro a se stessi
osservazioni, esperienze e ragioni di forza assai maggiore che le prodotte da
Aristotile e Tolomeo o da altri oppugnatori delle medesime conclusioni, e cosí
verrete a certificarvi che non per ignoranza o inesperienza si sono indotti a
seguir tale opinione.
SAGR. Egli è forza che con questa occasione
io vi racconti alcuni accidenti occorsimi da poi in qua ch'io cominciai a
sentir parlare di questa opinione. Essendo assai giovanetto, che appena avevo
finito il corso della filosofia, tralasciato poi per essermi applicato ad altre
occupazioni, occorse che certo oltramontano di Rostochio, e credo che 'l suo
nome fosse Cristiano Vurstisio, seguace dell'opinione del Copernico,
capitò in queste bande, ed in una Accademia fece dua o ver tre lezzioni
in questa materia, con concorso di uditori, e credo piú per la novità
del suggetto che per altro: io però non v'intervenni, avendo fatta una
fissa impressione che tale opinione non potesse essere altro che una solenne
pazzia. Interrogati poi alcuni che vi erano stati, sentii tutti burlarsene,
eccettuatone uno che mi disse che 'l negozio non era ridicolo del tutto; e
perché questo era reputato da me per uomo intelligente assai e molto
circospetto, pentitomi di non vi essere andato, cominciai da quel tempo in qua,
secondo che m'incontravo in alcuno che tenesse l'opinione Copernicana, a
domandarlo se egli era stato sempre dell'istesso parere; né per molti ch'io
n'abbia interrogati, ho trovato pur un solo che non m'abbia detto d'essere
stato lungo tempo dell'opinion contraria, ma esser passato in questa mosso
dalla forza delle ragioni che la persuadono: esaminatigli poi ad uno ad uno, per
veder quanto bene e' possedesser le ragioni dell'altra parte, gli ho trovati
tutti averle prontissime, tal che non ho potuto veramente dire che per
ignoranza o per vanità o per far, come si dice, il bello spirito si
sieno gettati in questa opinione. All'incontro, di quanti io abbia interrogati
de i Peripatetici e Tolemaici (che per curiosità ne ho interrogati
molti), quale studio abbiano fatto nel libro del Copernico, ho trovato
pochissimi che appena l'abbiano veduto, ma di quelli ch'io creda che l'abbiano
inteso, nessuno: e de i seguaci pur della dottrina peripatetica ho cercato
d'intendere se mai alcuno di loro ha tenuto l'altra opinione, e parimente non
ne ho trovato alcuno. Là onde, considerando io come nessun è che
segua l'opinion del Copernico, che non sia stato prima della contraria e che
non sia benissimo informato delle ragioni di Aristotile e di Tolomeo, e che
all'incontro nissuno è de' seguaci di Tolomeo e d'Aristotile, che sia
stato per addietro dell'opinione del Copernico e quella abbia lasciata per
venire in quella d'Aristotile, considerando, dico, queste cose, cominciai a
credere che uno che lascia un'opinione imbevuta col latte e seguita da
infiniti, per venire in un'altra da pochissimi seguita, e negata da tutte le
scuole e che veramente sembra un paradosso grandissimo, bisognasse per
necessità che fusse mosso, per non dir forzato, da ragioni piú efficaci.
Per questo son io divenuto curiosissimo di toccar, come si dice, il fondo di
questo negozio, e reputo a mia gran ventura l'incontro di amendue voi, da i
quali io possa senza veruna fatica sentir tutto quel ch'è stato detto, e
forse che si può dire, in questa materia, sicuro di dover esser, in
virtú de' vostri ragionamenti, cavato di dubbio e posto in istato di certezza.
SIMP. Ma purché l'opinione e la speranza non vi
vadia fallita, e che in ultimo non vi troviate piú confuso che prima.
SAGR. Mi par d'esser sicuro che cotesto non possa
intervenire in veruna maniera.
SIMP. E perché no? Io son buon testimonio a me
medesimo, che quanto piú si va avanti, piú mi confondo.
SAGR. Cotesto è indizio che quelle ragioni
che sin qui vi erano parse concludenti, e vi tenevano sicuro della
verità della vostra opinione, cominciano a mutare aspetto nella vostra
mente ed a lasciarvi pian piano, se non passare, almeno inclinare verso la
contraria. Ma io, che sono, e sono stato sin ora, indifferente, confido
grandemente d'avermi a ridurre in quiete e in sicurezza; e voi stesso non me lo
negherete, se volete sentir qual cosa mi persuada a cosí sperare.
SIMP. La sentirò volentieri, e non men grato
mi sarebbe che in me operasse il medesimo effetto.
SAGR. Favoritemi dunque di rispondere alle mie
interrogazioni. E prima, ditemi, signor Simplicio: non è la conclusione
della quale noi cerchiamo la cognizione, se si deva tener, con Aristotile e
Tolomeo, che stando ferma la Terra sola nel centro dell'universo, i corpi
celesti si muovano tutti; o pur se, stando ferma la sfera stellata ed il Sole
nel centro, la Terra ne sia fuori, e siano suoi quei movimenti che ci
appariscono esser del Sole e delle stelle fisse?
SIMP. Queste son le conclusioni delle quali si
disputa.
SAGR. Queste due conclusioni non son ellen tali,
che per necessità bisogna che una sia vera e l'altra falsa?
SIMP. Cosí è: noi siamo in un dilemma, una
parte del quale bisogna per necessità che sia vera, e l'altra falsa;
perché tra 'l moto e la quiete, che son contradittorii, non si dà un
terzo, sí che si possa dire: «La Terra non si muove, e non sta ferma; il Sole e
le stelle non si muovono, né stanno ferme».
SAGR. La Terra, il Sole e le stelle che cosa sono
in natura? son cose minime, o pur considerabili?
SIMP. Son corpi principalissimi, nobilissimi,
integranti dell'universo, vastissimi, considerabilissimi.
SAGR. E 'l moto e la quiete quali accidenti sono in
natura?
SIMP. Tanto grandi e principali, che la natura
stessa per quelli si definisce.
SAGR. Talché il muoversi eternamente e l'esser del
tutto immobile sono due condizioni molto considerabili in natura ed indicanti
grandissima diversità, e massime attribuite a corpi principalissimi
dell'universo, in conseguenza delle quali non posson venire se non eventi
dissimilissimi.
SIMP. Cosí è sicuramente.
SAGR. Or rispondetemi ad un altro punto. Credete
voi che in dialettica, in rettorica, in fisica, in metafisica, in matematica, e
finalmente nell'università de' discorsi, sieno argomenti potenti a
persuadere e dimostrare altrui non meno le conclusioni false che le vere?
SIMP. Signor no; anzi tengo per fermo e son sicuro
che per la prova di una conclusion vera e necessaria sieno in natura non solo
una ma molte dimostrazioni potissime, e che intorno ad essa si possa discorrere
e rigirarsi con mille e mille riscontri, senza intoppar mai in veruna
repugnanza, e che quanto piú qualche sofista volesse intorbidarla, tanto piú
chiara si farebbe sempre la sua certezza; e che, all'opposito, per far apparir
vera una proposizion falsa e per persuaderla non si possa produrre altro che
fallacie, sofismi, paralogismi, equivocazioni e discorsi vani, inconsistenti e
pieni di repugnanze e contradizioni.
SAGR. Ora, se il moto eterno e la quiete eterna
sono accidenti tanto principali in natura, e tanto diversi che da essi non
posson dependere se non diversissime conseguenze, e massime applicati al Sole
ed alla Terra, corpi tanto vasti ed insigni nell'universo, ed essendo di piú
impossibile che l'una delle due proposizioni contradittorie non sia vera e
l'altra falsa, e non si potendo per prove della falsa produrr'altro che
fallacie, ed essendo la vera persuasibile per ogni genere di ragioni concludenti
e demostrative; come volete che quello di voi che si sarà appreso a
sostener la proposizion vera non mi abbia a persuadere? Bisognerebbe bene ch'io
fussi d'ingegno stupido, di giudizio stravolto, e stolido di mente e
d'intelletto, e cieco di discorso, ch'io non avessi a discernere la luce dalle
tenebre, le gemme da i carboni, il vero dal falso.
SIMP. Io vi dico, e vi ho detto altre volte, che il
maggior maestro per insegnare a conoscere i sofismi e paralogismi ed altre
fallacie è stato Aristotile, il quale in questa parte non si può
mai esser ingannato.
SAGR. Voi l'avete pur con Aristotile, che non
può parlare; ed io vi dico che se Aristotile fosse qui, e' rimarrebbe da
noi persuaso, o sciorrebbe le nostre ragioni e con altre migliori persuaderebbe
noi. Ma che? voi medesimo nel sentir recitar l'esperienze dell'artiglierie, non
l'avete voi conosciute ed ammirate e confessate piú concludenti di quelle
d'Aristotile? con tutto ciò non sento che 'l signor Salviati, il quale
le ha prodotte e sicuramente esaminate e scandagliate puntualissimamente,
confessi d'esser persuaso da quelle, né meno da altre di maggiore efficacia
ancora, che egli accenna d'esser per farci sentire. E non so con che fondamento
voi vogliate riprender la natura, come quella che per la molta età sia
imbarbogita ed abbia dimenticato a produrre ingegni specolativi, né sappia
farne piú se non di quelli che, facendosi mancipii d'Aristotile, abbiano a
intender col suo cervello e sentir co i suoi sensi. Ma sentiamo il rimanente
delle ragioni favorevoli alla sua opinione, per venir poi al lor cimento,
coppellandole e ponderandole con la bilancia del saggiatore.
SALV. Prima che proceder piú oltre, devo dire al
signor Sagredo che in questi nostri discorsi fo da copernichista, e lo imito
quasi sua maschera; ma quello che internamente abbiano in me operato le ragioni
che par ch'io produca in suo favore, non voglio che voi lo giudichiate dal mio
parlare mentre siamo nel fervor della rappresentazione della favola, ma dopo
che avrò deposto l'abito, che forse mi troverete diverso da quello che
mi vedete in scena. Ora seguitiamo avanti. Produce Tolomeo ed i suoi seguaci
un'altra esperienza, simile a quella de i proietti, ed è delle cose che,
separate dalla Terra, lungamente si trattengono per aria, quali sono le nugole
e gli uccelli volanti; e come che di quelle non si può dir che sieno
portate dalla Terra, non essendo a lei aderenti, non par possibile ch'elle
possin seguire la velocità di quella, anzi dovrebbe parere a noi che
tutte velocissimamente si movessero verso occidente; e se noi, portati dalla
Terra, passiamo il nostro parallelo in vintiquattr'ore, che pure è
almeno sedici mila miglia, come potranno gli uccelli tener dietro a un tanto
corso? dove, all'incontro, senza veruna sensibil differenza gli vediamo volar
tanto verso levante quanto verso occidente e verso qualsivoglia parte. Oltre a
ciò, se mentre corriamo a cavallo sentiamo assai gagliardamente ferirci
il volto dall'aria, qual vento dovremmo noi perpetuamente sentir dall'oriente,
portati con sí rapido corso incontro all'aria? e pur nulla di tale effetto si
sente. Ècci un'altra molto ingegnosa ragione, presa da certa esperienza,
ed è tale. Il moto circolare ha facoltà di estrudere, dissipare e
scacciar dal suo centro le parti del corpo che si muove, qualunque volta o 'l
moto non sia assai tardo o esse parti non sian molto saldamente attaccate
insieme; che per ciò, quando, verbigrazia, noi facessimo
velocissimamente girare una di quelle gran ruote dentro le quali caminando uno
o dua uomini muovono grandissimi pesi, come la massa delle gran pietre del
mangano, o barche cariche che d'un'acqua in un'altra si traghettano
strascinandole per terra, quando le parti di essa ruota rapidamente girata non
fossero piú che saldamente conteste, si dissiperebbero tutte, né, per molto che
tenacemente fossero sopra la sua esterior superficie attaccati sassi o altre
materie gravi, potrebbero resistere all'impeto, che con gran violenza le
scaglierebbe in diverse parti lontane dalla ruota, ed in conseguenza dal suo
centro. Quando dunque la Terra si movesse con tanto e tanto maggior
velocità, qual gravità, qual tenacità di calcine o di
smalti, riterrebbe i sassi, le fabbriche e le città intere, che da sí
precipitosa vertigine non fusser lanciate verso 'l cielo? e gli uomini e le
fiere, che niente sono attaccati alla Terra, come resisterebbero a un tanto
impeto? dove che, all'opposito, e queste ed assai minori resistenze, di
sassetti, di rena, di foglie, vediamo quietissimamente riposarsi in Terra, e
sopra quella ridursi cadendo, ancorché con lentissimo moto. Eccovi, signor
Simplicio, le ragioni potissime, prese, per cosí dire, dalle cose terrestri:
restano quelle dell'altro genere, cioè quelle che hanno relazione
all'apparenze celesti, le quali ragioni tendon veramente piú a dimostrar
l'esser la Terra nel centro dell'universo, ed a spogliarla in conseguenza del
movimento annuo intorno ad esso, attribuitogli dal Copernico; le quali, come di
materia alquanto differente, si potranno produr dopo che averemo esaminata la
forza di queste sin qui proposte.
SAGR. Che dite, signor Simplicio? parv'egli che 'l
signor Salviati possegga e sappia esplicare le ragioni tolemaiche e aristoteliche?
credete voi che nissuno peripatetico sia altrettanto posseditore delle
dimostrazioni copernicane?
SIMP. Se non fusse il gran concetto che per i
discorsi avuti sin qui mi son formato della saldezza di dottrina del signor
Salviati e dell'acutezza d'ingegno del signor Sagredo, io, con lor buona
grazia, mi vorrei partire senza piú sentir altro, parendomi impossibil cosa che
contradir si possa a sí palpabili esperienze, e vorrei senza sentir altro
restar nella mia opinione antica, perché mi par che quando bene ella fusse
falsa, l'essere appoggiata su tanto verisimili ragioni la renderebbe scusabile:
e se queste son fallacie, quali vere dimostrazioni furon mai cosí belle?
SAGR. È pur bene che noi sentiamo le
risposte del signor Salviati: le quali se saranno vere, è forza che
sieno ancora piú belle e infinitarnente piú belle, e che quelle sien brutte
anzi bruttissime, se è vera la proposizion metafisicale che 'l vero e 'l
bello sono una cosa medesima, come ancora il falso e 'l brutto. Però,
signor Salviati, non perdiamo piú tempo.
SALV. Fu, se ben mi ricorda, il primo argomento
prodotto dal signor Simplicio questo: La Terra non si può muover
circolarmente, perché tal moto gli sarebbe violento, e però non
perpetuo: dell'esser poi violento la ragione era, perché quando fosse naturale,
le parti sue ancora si moverebbero naturalmente in giro, il che è
impossibile, perché naturale delle parti è il muoversi di moto retto
all'ingiú. Qui rispondo che averei auto caro che Aristotile si fosse meglio
dichiarato, quando disse: «Le parti ancora si moverebber circolarmente»,
imperocché questo muoversi circolarmente può intendersi in due modi: uno
è, che ogni particella separata dal suo tutto si movesse circolarmente
intorno al suo proprio centro, descrivendo i suoi piccoli cerchiettini; l'altro
è, che movendosi tutto 'l globo intorno al suo centro in
ventiquattr'ore, le parti ancora girassero intorno al medesimo centro in
ventiquattr'ore. Il primo sarebbe una impertinenza non minore che se altri
dicesse che di una circonferenza di cerchio ogni parte bisogna che sia un
cerchio, o vero perché la Terra è sferica, ogni parte di Terra bisogna
che sia una palla, perché cosí richiede l'assioma eadem est ratio totius et
partium. Ma s'egli intese nell'altro, cioè che le parti, a imitazion
del tutto, si moverebbero naturalmente intorno al centro di tutto il globo in
ventiquattr'ore, io dico che lo fanno; ed a voi, in vece d'Aristotile,
toccherà a provar che no.
SIMP. Questo è provato da Aristotile nel
medesimo luogo, mentre dice che naturale delle parti è il moto retto al
centro dell'universo, onde il circolare non gli può naturalmente
competere.
SALV. Ma non vedete voi che nelle medesime parole
vi è anco la confutazione di questa risposta?
SIMP. In che modo? e dove?
SALV. Non dic'egli che 'l moto circolare alla Terra
sarebbe violento? e però non eterno? e che questo è assurdo,
perché l'ordine del mondo è eterno?
SIMP. Dicelo.
SALV. Ma se quello che è violento non
può esser eterno, pel converso quello che non può esser eterno
non potrà esser naturale: ma il moto della Terra all'ingiú non
può essere altramente eterno: adunque meno può esser naturale, né
gli potrà esser naturale moto alcuno che non gli sia anco eterno. Ma se
noi faremo la Terra mobile di moto circolare, questo potrà esser eterno
ad essa ed alle parti, e però naturale.
SIMP. Il moto retto è naturalissimo delle
parti della Terra e gli è eterno, né mai accaderà che di moto
retto non si muovano, intendendo però sempre, rimossi gli impedimenti.
SALV. Voi equivocate, signor Simplicio, ed io
voglio pur vedere di liberarvi dall'equivoco. Però ditemi: credete voi
che una nave che dallo stretto di Gibilterra andasse verso Palestina, potesse
eternamente navigare verso quella spiaggia, movendosi sempre con egual corso?
SIMP. Non altramente.
SALV. E perché no?
SIMP. Perché quella navigazione è ristretta
e terminata tra le Colonne e 'l lito di Palestina, ed essendo la distanza
terminata, si passa in tempo finito: se già altri non volesse, col
ritornare in dietro con movimento contrario, tornar poi a replicar il medesimo
viaggio; ma questo sarebbe un moto interrotto, e non continuato.
SALV. Verissima risposta. Ma la navigazione dallo
stretto di Magaglianes per il mar Pacifico, per le Molucche, per il capo di
Buona Speranza, e di lí per il medesimo stretto e di nuovo per il mar Pacifico
etc., credete voi ch'ella si potesse perpetuare?
SIMP. Potrebbesi, perché essendo questa una
circolazione, che ritorna in se stessa, col replicarla infinite volte si
potrebbe perpetuare senza veruno interrompimento.
SALV. Adunque una nave in questo viaggio potrebbe
durare a navigare in eterno.
SIMP. Potrebbe, quando la nave fusse
incorruttibile, ma dissolvendosi la nave, si terminerebbe di necessità
la navigazione.
SALV. Ma nel Mediterraneo, quando anco la nave
fusse incorruttibile, non però potrebbe muoversi perpetuamente verso
Palestina, per esser tal viaggio terminato. Due cose adunque si ricercano,
acciò che un mobile senza intermissione possa muoversi eternamente:
l'una è che il moto possa di sua natura essere interminato e infinito; e
l'altra, che il mobile sia parimente incorruttibile ed eterno.
SIMP. Tutto questo è necessario.
SALV. Adunque già per voi stesso venite ad
aver confessato, esser impossibile che mobile alcuno si muova eternamente di
moto retto, essendo che il moto retto, o vogliatelo in su o vogliatelo in giú,
voi stesso lo fate terminato dalla circonferenza e dal centro: sí che quando
bene il mobile, cioè la Terra, sia eterna, tuttavia, per non essere il
moto retto di sua natura eterno, ma terminatissimo, non può naturalmente
competere alla Terra, anzi, come pure ieri si disse, Aristotile medesimo
è costretto a far il globo della Terra eternamente stabile. Quando poi
voi dite che le parti della Terra sempre si moveranno all'ingiú rimossi gli impedimenti,
equivocate gagliardamente, perché all'incontro bisogna impedirle, contrariarle
e violentarle, se voi volete ch'elle si muovano; perché, cadute ch'elle sono
una volta, bisogna con violenza rigettarle in alto, acciò tornino a
cader la seconda: e quanto a gli impedimenti, questi gli tolgono solamente
l'arrivare al centro; ché quando ci fosse un pozzo che passasse oltre al
centro, non però una zolla di terra si moverebbe oltre a quello, se non
in quanto traportata dall'impeto lo trapassasse, per ritornarvi poi e
finalmente fermarvisi. Quanto dunque al poter sostenere che il movimento per
linea retta convenga o possa convenir naturalmente né alla Terra né ad altro
mobile, mentre l'universo resti nel suo ordine perfetto, toglietevene pur giú
del tutto, e fate pur forza (se voi non le volete concedere il moto circolare)
di mantenerle e difenderle l'immobilità.
SIMP. Quanto all'immobilità, gli argomenti
di Aristotile, e piú gli altri prodotti da voi, mi par che la concludano
necessariamente sin ora, e gran cose ci vorranno, per mio giudizio, a
confutargli.
SALV. Venghiamo dunque al secondo argomento: che
era che quei corpi de i quali noi siam sicuri che circolarmente si muovono,
hanno piú d'un moto, trattone il primo mobile; e però quando la Terra si
movesse circolarmente, dovrebbe muoversi di due moti, dal che ne seguirebbe
mutazione circa gli orti e gli occasi delle stelle fisse; il che non si vede
seguire; adunque etc. La risposta semplicissima e propriissima a questa
instanza è nell'argomento stesso, ed Aristotile medesimo ce la mette in
bocca, e non può essere che voi, signor Simplicio, non l'abbiate veduta.
SIMP. Né l'ho veduta, né ancor la veggo.
SALV. Non può essere, perché ella vi
è troppo chiara.
SIMP. Io voglio, con vostra licenza, dare un'occhiata
al testo.
SAGR. Faremo portare il testo adesso adesso.
SIMP. Io lo porto sempre in tasca. Eccolo qui; e so
per appunto il luogo, che è nel secondo del Cielo, al cap. 14. Eccolo:
testo 97: Præterea, omnia quæ feruntur latione circulari,
subdeficere videntur, ac moveri pluribus una latione, præter primam
sphæram; quare et Terram necessarium est, sive circa medium sive in medio
posita feratur, duabus moveri lationibus: si autem hoc acciderit, necessarium
est fieri mutationes ac conversiones fixorum astrorum: hoc autem non videtur
fieri; sed semper eadem apud eadem loca ipsius et oriuntur et occidunt. Or
qui non veggo io fallacia nissuna, e parmi l'argomento concludentissimo.
SALV. Ed a me questa nuova lettura ha confermata la
fallacia nell'argumentare, e di piú scoperto un'altra falsità.
Però notate. Due posizioni, o vogliam dire due conclusioni, son quelle
che Aristotile vuole impugnare: l'una è di quelli che, collocando la
Terra nel mezo, la facesser muovere in se stessa circa 'l proprio centro:
l'altra è di quelli che, costituendola lontana dal mezo, la facessero
andar con moto circolare intorno ad esso mezo: ed amendue queste posizioni
impugna congiuntamente con l'istesso argomento. Ora io dico che egli erra nell'una
e nell'altra impugnazione, e che l'errore contro la prima posizione è di
uno equivoco o paralogismo, e contro alla seconda è una conseguenza
falsa. Venghiamo alla prima posizione, che costituisce la Terra nel mezo e la
fa mobile in se stessa circa il proprio centro, ed affrontiamola con l'istanza
d'Aristotile, dicendo: Tutti i mobili che si muovono circolarmente, par che
restino indietro, e si muovono di piú d'una lazione, eccettuata la prima sfera
(cioè il primo mobile); adunque la Terra, movendosi circa il proprio
centro, essendo posta nel mezo, bisogna che si muova di due lazioni, e resti in
dietro: ma quando questo fusse, bisognerebbe che si variassero gli orti e gli
occasi delle stelle fisse; il che non si vede fare: adunque la Terra non si muove
etc. Qui è il paralogismo; per iscoprirlo, discorro con Aristotile in
tal modo. Tu di', o Aristotile, che la Terra posta nel mezo non può
muoversi in se stessa, perché sarebbe necessario attribuirle due lazioni:
adunque, quando non fusse necessario attribuirle altro che una lazion sola, tu
non avresti per impossibile che di una tal sola ella si movesse, perché fuor di
proposito ti saresti ristretto a ripor l'impossibilità nella
pluralità delle lazioni, quando anco di una sola ella muover non si
potesse. E perché di tutti i mobili del mondo tu fai che un solo si muova d'una
lazion sola, e tutti gli altri di piú d'una; e questo tal mobile affermi che
è la prima sfera, cioè quello per il quale tutte le stelle fisse
ed erranti ci appariscono muoversi concordemente da levante a ponente; quando
la Terra potesse esser quella prima sfera, che col muoversi d'una lazion sola
facesse apparir le stelle muoversi da levante in ponente, tu non gliela
negheresti: ma chi dice che la Terra posta nel mezo si volge in se stessa, non
gli attribuisce altro moto che quello per il quale tutte le stelle appariscono
muoversi da levante a ponente, e cosí ella viene a esser quella prima sfera che
tu stesso concedi muoversi d'una lazione sola: bisogna dunque, o Aristotile, se
tu vuoi concluder qualcosa, che tu dimostri che la Terra posta nel mezo non
possa muoversi né anco di una sola lazione, o vero che né meno la prima sfera
possa aver un sol movimento; altrimenti tu nel tuo medesimo silogismo commetti
la fallacia e ve la manifesti, negando ed insieme concedendo l'istessa cosa.
Vengo ora alla seconda posizione, che è di quelli che ponendo la Terra
lontana dal mezo, la fanno mobile intorno ad esso, cioè la fanno un
pianeta ed una stella errante; contro alla qual posizione procede l'argomento,
e quanto alla forma è concludente, ma pecca in materia: imperocché,
conceduto che la Terra si muova in cotal guisa, e che si muova di due lazioni,
non però ne segue di necessità che, quando ciò sia,
s'abbiano a far mutazioni ne gli orti e ne gli occasi delle stelle fisse, come
a suo luogo dichiarerò. E qui voglio scusar bene l'error d'Aristotile,
anzi lo voglio lodar d'aver egli arrecato il piú sottile argomento contro alla
posizion del Copernico, che arrecar si possa; e se l'instanza è acuta,
ed in apparenza concludentissima, vedrete tanto piú esser sottile ed ingegnosa
la soluzione, e da non esser ritrovata da ingegno men acuto di quello del
Copernico; e dalla difficultà nell'intenderla potrete argomentare la
difficultà, tanto maggiore, del ritrovarla. Lasciamo in tanto per ora la
risposta in pendente, la quale a suo luogo e tempo intenderete, dopo l'aver
replicata l'instanza medesima d'Aristotele, e di piú fortificata grandemente a
favor suo. Or passiamo all'argomento terzo, pur d'Aristotile, intorno al quale
non fa bisogno replicar altro, essendosegli a bastanza risposto tra ieri e
oggi: imperocché e' replica che 'l moto de' gravi è naturalmente per
linea retta al centro, e cerca poi se al centro della Terra o pur
dell'universo, e conclude che naturalmente al centro dell'universo, ma per
accidente a quel della Terra. Però possiamo passare al quarto, nel quale
converrà che ci trattenghiamo assai, per esser fondato sopra quella
esperienza dalla quale prende poi forza la maggior parte degli argomenti che restano.
Dice dunque Aristotile, argomento certissimo dell'immobilità della Terra
essere il veder noi i proietti in alto a perpendicolo ritornar per l'istessa
linea nel medesimo luogo di dove furon tirati, e questo, quando bene il
movimento fusse altissimo; il che non potrebbe accadere quando la Terra si
movesse, perché nel tempo che 'l proietto si muove in su e 'n giú, separato
dalla Terra, il luogo dove ebbe principio il moto del proietto scorrerebbe,
mercè del rivolgimento della Terra, per lungo tratto verso levante, e
per tanto spazio, nel cadere, il proietto percuoterebbe in Terra lontano dal
detto luogo: sí che qui s'accomoda l'argomento della palla tirata in su
coll'artiglieria, sí ancora l'altro usato da Aristotile e da Tolomeo, del
vedere i gravi cadenti da grandi altezze venir per linea retta e perpendicolare
alla superficie terrestre. Ora, per cominciar a sviluppar questi nodi, domando
al signor Simplicio, quando altri negasse a Tolomeo e ad Aristotile che i gravi
nel cader liberamente da alto venissero per linea retta e perpendicolare,
cioè diretta al centro, con qual mezo lo proverebbero.
SIMP. Col mezo del senso, il quale ci assicura che
quella torre è diritta e perpendicolare, e ci mostra quella pietra nel
cadere venirla radendo, senza piegar pur un capello da questa o da quella
parte, e percuotere al piede giusto sotto 'l luogo donde fu lasciata.
SALV. Ma quando per fortuna il globo terrestre si
movesse in giro, ed in conseguenza portasse seco la torre ancora, e che ad ogni
modo si vedesse la pietra nel cadere venir radendo il filo della torre, qual
bisognerebbe che fusse il suo movimento?
SIMP. Bisognerebbe in questo caso dir piú tosto «i
suoi movimenti», perché uno sarebbe quello col quale verrebbe da alto a basso,
e un altro converrebbe ch'ella n'avesse per seguire il corso della torre.
SALV. Sarebbe dunque il moto suo un composto di
due, cioè di quello col quale ella misura la torre, e dell'altro col
quale ella la segue: dal qual composto ne risulterebbe che 'l sasso
descriverebbe non piú quella semplice linea retta e perpendicolare, ma una
trasversale, e forse non retta.
SIMP. Del non retta non lo so; ma intendo bene che
di necessità sarebbe trasversale, e differente dall'altra retta
perpendicolare, che ella descrisse stando la Terra immobile.
SALV. Adunque dal solamente vedere la pietra
cadente rader la torre, voi non potete sicuramente affermare che ella descriva
una linea retta e perpendicolare, se non supposto prima che la Terra stia
ferma.
SIMP. Cosí è; perché quando la Terra si
movesse, il moto della pietra sarebbe trasversale, e non a perpendicolo.
SALV. Ecco dunque il paralogismo d'Aristotile e di
Tolomeo evidente e chiaro, e scoperto da voi medesimo, nel quale si suppon per
noto quello che s'intende di dimostrare.
SIMP. In che modo? A me si dimostra silogismo in
buona forma, e non una petizion di principio.
SALV. Eccovi in che modo. Ditemi un poco: nella
dimostrazione non si pon egli la conclusione ignota?
SIMP. Ignota, perché altrimenti il dimostrarla
sarebbe superfluo.
SALV. Ma il mezo termine non conviene egli che sia
noto?
SIMP. È necessario, perché altramente
sarebbe un voler provare ignotum per æque ignotum.
SALV. La nostra conclusione da provarsi, e che
è ignota, non è la stabilità della Terra?
SIMP. Cotesta è.
SALV. Il mezo, che deve esser noto, non è la
caduta del sasso retta e perpendicolare?
SIMP. Questo è il mezo.
SALV. Ma non s'è egli poco fa concluso, che
noi non possiamo aver notizia che tal caduta sia retta e perpendicolare, se
prima non ci è noto che la Terra stia ferma? adunque nel vostro
silogismo la certezza del mezo si cava dall'incertezza della conclusione.
Vedete dunque quale e quanto è il paralogismo.
SAGR. Io vorrei, in grazia del signor Simplicio,
difender, se fusse possibile, Aristotile, o almeno restar io meglio capace
della forza della vostra illazione. Voi dite: Il veder rader la torre non basta
per assicurarsi che 'l moto del sasso sia perpendicolare, che è il mezo
termine del silogismo, se non si suppone che la Terra stia ferma, che è
la conclusione da provarsi; perché, quando la torre si movesse insieme con la
Terra, ed il sasso la radesse, il moto del sasso sarebbe trasversale, e non
perpendicolare. Ma io risponderò, che quando la torre si movesse,
sarebbe impossibile che 'l sasso cadesse radendola, e però dal cader
radendo s'inferisce la stabilità della Terra.
SIMP. Cosí è; perché a voler che 'l sasso
venisse radendo la torre, quando ella fusse portata dalla Terra, bisognerebbe
che 'l sasso avesse due moti naturali, cioè 'l retto verso 'l centro e
'l circolare intorno al centro, il che è poi impossibile.
SALV. La difesa dunque d'Aristotile consiste
nell'esser impossibile, o almeno nell'aver egli stimato impossibile, che 'l
sasso potesse muoversi di un moto misto di retto e di circolare; perché quando
e' non avesse avuto per impossibile che la pietra potesse muoversi al centro e
'ntorno al centro unitamente, egli averebbe inteso che poteva accadere che 'l
sasso cadente potesse venir radendo la torre tanto movendosi ella quanto stando
ferma, e in conseguenza si sarebbe accorto che da questo radere non si poteva
inferir niente attenente al moto o alla quiete della Terra. Ma questo non
iscusa altramente Aristotile, non solamente perché doveva dirlo, quando egli
avesse auto tal concetto, essendo un punto tanto principale nel suo argumento,
ma di piú ancora perché non si può dir né che tale effetto sia
impossibile né che Aristotile l'abbia stimato impossibile. Non si può
dire il primo, perché di qui a poco mostrerò ch'egli è non pur
possibile, ma necessario: né meno si può dire il secondo, perché
Aristotile medesimo concede al fuoco l'andare in su naturalmente per linea
retta e 'l muoversi in giro col moto diurno, participato dal cielo a tutto
l'elemento del fuoco ed alla maggior parte dell'aria; se dunque e' non ha per
impossibile mescolare il retto in su col circolare, comunicato al fuoco ed
all'aria dal concavo lunare, assai meno dovrà reputare impossibile il
retto in giú del sasso col circolare, che fusse naturale di tutto 'l globo
terrestre, del quale il sasso è parte.
SIMP. A me non par cotesta cosa, perché quando
l'elemento del fuoco vadia in giro insieme con l'aria, facilissima anzi
necessaria cosa è che una particella di fuoco, che da Terra sormonti in
alto, nel passar per l'aria mobile riceva l'istesso movimento, essendo corpo
cosí tenue e leggiero e agevolissimo ad esser mosso; ma che un sasso gravissimo
o una palla d'artiglieria, che da alto venga a basso e sia già posta in
sua balía, si lasci trasportar né da aria né da altro, ha del tutto dell'inopinabile.
Oltre che ci è l'esperienza tanto propria, della pietra lasciata dalla
cima dell'albero della nave, la qual, mentre la nave sta ferma, casca al
piè dell'albero, ma quando la nave camina, cade tanto lontana dal
medesimo termine, quanto la nave nel tempo della caduta del sasso è
scorsa avanti; che non son poche braccia, quando 'l corso della nave è
veloce.
SALV. Gran disparità è tra 'l caso
della nave e quel della Terra, quando 'l globo terrestre avesse il moto diurno.
Imperocché manifestissima cosa è che il moto della nave, sí come non
è suo naturale, cosí è accidentario di tutte le cose che sono in
essa; onde non è meraviglia che quella pietra, che era ritenuta in cima
dell'albero, lasciata in libertà scenda a basso, senza obligo di seguire
il moto della nave. Ma la conversion diurna si dà per moto proprio e
naturale al globo terrestre, ed in conseguenza a tutte le sue parti, e come
impresso dalla natura è in loro indelebile; e però quel sasso che
è in cima della torre, ha per suo primario instinto l'andare intorno al
centro del suo tutto in ventiquattr'ore, e questo natural talento esercita egli
eternamente, sia pur posto in qualsivoglia stato. E per restar persuaso di
questo, non avete a far altro che mutar un'antiquata impressione fatta nella
vostra mente, e dire: «Sí come, per avere stimato io sin ora che sia
proprietà del globo terrestre lo stare immobile intorno al suo centro,
non ho mai auto difficultà o repugnanza alcuna in apprendere che
qualsivoglia sua particella resti essa ancora naturalmente nella medesima
quiete; cosí è ben dovere che quando naturale instinto fusse del globo
terreno l'andare intorno in ventiquattr'ore, sia d'ogni sua parte ancora
intrinseca e naturale inclinazione non lo star ferma, ma seguire il medesimo
corso»: e cosí senza urtare in veruno inconveniente si potrà concludere,
che per non esser naturale, ma straniero, il moto conferito alla nave dalla
forza de' remi, e per essa a tutte le cose che in lei si ritrovano, sia ben
dovere che quel sasso, separato che e' sia dalla nave, si riduca alla sua
naturalezza e ritorni ad esercitare il puro e semplice suo natural talento.
Aggiugnesi che è necessario che almeno quella parte d'aria che è
inferiore alle maggiori altezze de i monti, venga dall'asprezza della
superficie terrestre rapita e portata in giro, o pure che, come mista di molti
vapori ed esalazioni terrestri, naturalmente séguiti il moto diurno; il che non
avviene dell'aria che è intorno alla nave cacciata da i remi: per lo che
l'argumentare dalla nave alla torre non ha forza d'illazione; perché quel sasso
che vien dalla cima dell'albero, entra in un mezo che non ha il moto della
nave; ma quel che si parte dall'altezza della torre, si trova in un mezo che ha
l'istesso moto che tutto 'l globo terrestre, talché, senz'esser impedito dall'aria,
anzi piú tosto favorito dal moto di lei, può seguire l'universal corso
della Terra.
SIMP. Io non resto capace, che l'aria possa
imprimere in un grandissimo sasso o in una grossa palla di ferro o di piombo,
che passasse, verbigrazia, dugento libre, il moto col quale essa medesima si
muove e che per avventura ella comunica alle piume, alla neve ed altre cose
leggierissime; anzi veggo che un peso di quella sorte, esposto a qualsivoglia
piú impetuoso vento, non vien pur mosso di luogo un sol dito: or pensate se
l'aria lo porterà seco.
SALV. Gran disparità è tra la vostra
esperienza e 'l nostro caso. Voi fate sopraggiugnere il vento a quel sasso
posto in quiete; e noi esponghiamo nell'aria, che già si muove, il
sasso, che pur si muove esso ancora con l'istessa velocità, talché
l'aria non gli ha a conferire un nuovo moto, ma solo mantenerli, o per meglio
dire non impedirli, il già concepito: voi volete cacciar il sasso d'un
moto straniero e fuor della sua natura; e noi, conservarlo nel suo naturale. Se
voi volevi produrre una piú aggiustata esperienza, dovevi dire che si
osservasse, se non con l'occhio della fronte, almeno con quel della mente,
ciò che accaderebbe quando un'aquila portata dall'impeto del vento si
lasciasse cader da gli artigli una pietra; la quale, perché già nel
partirsi dalle branche volava al pari del vento, e dopo partita entra in un
mezo mobile con egual velocità, ho grande opinione che non si vedrebbe
cader giú a perpendicolo, ma che, seguendo 'l corso del vento ed aggiugnendovi
quel della propria gravità, si moverebbe di un moto trasversale.
SIMP. Bisognerebbe poterla fare una tale
esperienza, e poi secondo l'evento giudicare; in tanto l'effetto della nave sin
qui mostra di applaudere all'opinion nostra.
SALV. Ben diceste, sin qui; perché forse di qui a
poco potrebbe mutar sembianza. E per non vi tener, come si dice, piú su le
bacchette, ditemi, signor Simplicio: parv'egli internamente che l'esperienza
della nave quadri cosí bene al proposito nostro, che ragionevolmente si debba
credere che quello che si vede accadere in lei, debba ancora accadere nel globo
terrestre?
SIMP. Sin qui mi è parso di sí; e benché voi
abbiate arrecate alcune piccole disuguaglianze, non mi paion di tal momento che
basti a rimuovermi di parere.
SALV. Anzi desidero che voi ci continuiate, e
tenghiate saldo che l'effetto della Terra abbia a rispondere a quel della nave,
purché quando ciò si scoprisse progiudiziale al vostro bisogno, non vi
venisse umore di mutar pensiero. Voi dite: «Perché, quando la nave sta ferma,
il sasso cade al piè dell'albero, e quando ell'è in moto cade
lontano dal piede adunque, per il converso, dal cadere il sasso al piede si
inferisce la nave star ferma, e dal caderne lontano s'argumenta la nave
muoversi; e perché quello che occorre della nave deve parimente accader della
Terra, però dal cader della pietra al piè della torre si
inferisce di necessità l'immobilità del globo terrestre». Non
è questo il vostro discorso?
SIMP. È per appunto, ridotto in
brevità, che lo rende agevolissimo ad apprendersi.
SALV. Or ditemi: se la pietra lasciata dalla cima
dell'albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse
precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta
ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l'assicurarvi se 'l
vassello sta fermo o pur se cammina?
SIMP. Assolutamente nissuno: in quel modo che, per
esempio, dal batter del polso non si può conoscere se altri dorme o
è desto, poiché il polso batte nell'istesso modo ne' dormienti che ne i
vegghianti.
SALV. Benissimo. Avete voi fatta mai l'esperienza
della nave?
SIMP. Non l'ho fatta; ma ben credo che quelli
autori che la producono, l'abbiano diligentemente osservata: oltre che si
conosce tanto apertamente la causa della disparità, che non lascia luogo
di dubitare.
SALV. Che possa esser che quelli autori la portino
senza averla fatta, voi stesso ne sete buon testimonio, che senza averla fatta
la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede al detto loro: sí come
è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora,
dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l'abbia
fatta; perché chiunque la farà, troverà l'esperienza mostrar
tutto 'l contrario di quel che viene scritto: cioè mostrerà che
la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi
con qualsivoglia velocità. Onde, per esser la medesima ragione della
Terra che della nave, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè
della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della
Terra.
SIMP. Se voi mi rimetteste ad altro mezo che
all'esperienza, io credo bene che le dispute nostre non finirebber per fretta;
perché questa mi pare una cosa tanto remota da ogni uman discorso, che non lasci
minimo luogo alla credulità o alla probabilità.
SALV. E pur l'ha ella lasciato in me.
SIMP. Che dunque voi non n'avete fatte cento, non
che una prova, e l'affermate cosí francamente per sicura? Io ritorno nella mia
incredulità, e nella medesima sicurezza che l'esperienza sia stata fatta
da gli autori principali che se ne servono, e che ella mostri quel che essi
affermano.
SALV. Io senza esperienza son sicuro che l'effetto
seguirà come vi dico, perché cosí è necessario che segua; e piú
v'aggiungo che voi stesso ancora sapete che non può seguire altrimenti,
se ben fingete, o simulate di fingere, di non lo sapere. Ma io son tanto buon
cozzon di cervelli, che ve lo farò confessare a viva forza. Ma il signor
Sagredo sta molto cheto: mi pareva pur di vedervi far non so che moto, per dir
alcuna cosa.
SAGR. Volevo veramente dir non so che; ma la
curiosità che mi ha mossa questo sentir dire di far tal violenza al
signor Simplicio, che palesi la scienza che e' ci vuole occultare, mi ha fatto
deporre ogni altro desiderio: però vi prego ad effettuare il vanto.
SALV. Purché il signor Simplicio si contenti di
rispondere alle mie interrogazioni, io non mancherò.
SIMP. Io risponderò quel che saprò,
sicuro che avrò poca briga, perché delle cose che io tengo false non
credo di poterne saper nulla, essendoché la scienza è de' veri, e non
de' falsi.
SALV. Io non desidero che voi diciate o rispondiate
di saper niente altro che quello che voi sicuramente sapete. Però
ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima come uno specchio e
di materia dura come l'acciaio, e che fusse non parallela all'orizonte, ma
alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente
sferica e di materia grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo, lasciata
in sua libertà che credete voi che ella facesse? non credete voi (sí
come credo io) che ella stesse ferma?
SIMP. Se quella superficie fusse inclinata?
SALV. Sí, ché cosí già ho supposto.
SIMP. Io non credo che ella si fermasse altrimente,
anzi pur son sicuro ch'ella si moverebbe verso il declive spontaneamente.
SALV. Avvertite bene a quel che voi dite, signor
Simplicio, perché io son sicuro ch'ella si fermerebbe in qualunque luogo voi la
posaste.
SIMP. Come voi, signor Salviati, vi servite di
questa sorte di supposizioni, io comincierò a non mi maravigliar che voi
concludiate conclusioni falsissime.
SALV. Avete dunque per sicurissimo ch'ella si
moverebbe verso il declive spontaneamente?
SIMP. Che dubbio?
SALV. E questo lo tenete per fermo, non perché io
ve l'abbia insegnato (perché io cercavo di persuadervi il contrario), ma per
voi stesso e per il vostro giudizio naturale.
SIMP. Ora intendo il vostro artifizio: voi dicevi
cosí per tentarmi e (come si dice dal vulgo) per iscalzarmi, ma non che in
quella guisa credeste veramente.
SALV. Cosí sta. E quanto durerebbe a muoversi
quella palla, e con che velocità? E avvertite che io ho nominata una
palla perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito, per
rimuover tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii: e cosí voglio che voi
astragghiate dall'impedimento dell'aria, mediante la sua resistenza all'essere
aperta, e tutti gli altri ostacoli accidentarii, se altri ve ne potessero
essere.
SIMP. Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla
vostra domanda, rispondo che ella continuerebbe a muoversi in infinito, se
tanto durasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato
continuamente; ché tale è la natura de i mobili gravi, che vires
acquirant eundo: e quanto maggior fusse la declività, maggior
sarebbe la velocità.
SALV. Ma quand'altri volesse che quella palla si
movesse all'insú sopra quella medesima superficie, credete voi che ella vi
andasse?
SIMP. Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con
violenza gettatavi.
SALV. E quando da qualche impeto violentemente
impressole ella fusse spinta, quale e quanto sarebbe il suo moto?
SIMP. Il moto andrebbe sempre languendo e
ritardandosi, per esser contro a natura, e sarebbe piú lungo o piú breve
secondo il maggiore o minore impulso e secondo la maggiore o minore
acclività.
SALV. Parmi dunque sin qui che voi mi abbiate
esplicati gli accidenti d'un mobile sopra due diversi piani; e che nel piano
inclinato il mobile grave spontaneamente descende e va continuamente
accelerandosi, e che a ritenervelo in quiete bisogna usarvi forza; ma sul piano
ascendente ci vuol forza a spignervelo ed anco a fermarvelo, e che 'l moto
impressogli va continuamente scemando, sí che finalmente si annichila. Dite ancora
di piú che nell'un caso e nell'altro nasce diversità dall'esser la
declività o acclività del piano, maggiore o minore; sí che alla
maggiore inclinazione segue maggior velocità, e, per l'opposito, sopra
'l piano acclive il medesimo mobile cacciato dalla medesima forza in maggior
distanza si muove quanto l'elevazione è minore. Ora ditemi quel che
accaderebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fusse né acclive
né declive.
SIMP. Qui bisogna ch'io pensi un poco alla
risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere
inclinazione naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi
può esser resistenza all'esser mosso, talché verrebbe ad essere
indifferente tra la propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che e'
dovrebbe restarvi naturalmente fermo. Ma io sono smemorato, perché non è
molto che 'l signor Sagredo mi fece intender che cosí seguirebbe.
SALV. Cosí credo, quando altri ve lo posasse fermo;
ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe?
SIMP. Seguirebbe il muoversi verso quella parte.
SALV. Ma di che sorte di movimento? di
continuamente accelerato, come ne' piani declivi, o di successivamente
ritardato, come negli acclivi?
SIMP. Io non ci so scorgere causa di accelerazione
né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività.
SALV. Sì. Ma se non vi fusse causa di
ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser di quiete: quanto dunque vorreste
voi che il mobile durasse a muoversi?
SIMP. Tanto quanto durasse la lunghezza di quella
superficie né erta né china.
SALV. Adunque se tale spazio fusse interminato, il
moto in esso sarebbe parimente senza termine, cioè perpetuo?
SIMP. Parmi di sí, quando il mobile fusse di
materia da durare.
SALV. Già questo si è supposto,
mentre si è detto che si rimuovano tutti gl'impedimenti accidentarii ed
esterni, e la fragilità del mobile, in questo fatto, è un degli
impedimenti accidentarii. Ditemi ora: quale stimate voi la cagione del muoversi
quella palla spontaneamente sul piano inclinato, e non, senza violenza, sopra
l'elevato?
SIMP. Perché l'inclinazion de' corpi gravi è
di muoversi verso 'l centro della Terra, e solo per violenza in su verso la
circonferenza; e la superficie inclinata è quella che acquista
vicinità al centro, e l'acclive discostamento.
SALV. Adunque una superficie che dovesse esser non
declive e non acclive, bisognerebbe che in tutte le sue parti fusse egualmente
distante dal centro. Ma di tali superficie ve n'è egli alcuna al mondo?
SIMP. Non ve ne mancano: ècci quella del
nostro globo terrestre, se però ella fusse ben pulita, e non, quale ella
è, scabrosa e montuosa; ma vi è quella dell'acqua, mentre
è placida e tranquilla.
SALV. Adunque una nave che vadia movendosi per la
bonaccia del mare, è un di quei mobili che scorrono per una di quelle
superficie che non sono né declivi né acclivi, e però disposta, quando
le fusser rimossi tutti gli ostacoli accidentarii ed esterni, a muoversi, con
l'impulso concepito una volta, incessabilmente e uniformemente
SIMP. Par che deva esser cosí.
SALV. E quella pietra ch'è su la cima
dell'albero non si muov'ella, portata dalla nave, essa ancora per la
circonferenza d'un cerchio intorno al centro, e per conseguenza d'un moto
indelebile in lei, rimossi gli impedimenti esterni? e questo moto non è
egli cosí veloce come quel della nave?
SIMP. Sin qui tutto cammina bene. Ma il resto?
SALV. Cavatene in buon'ora l'ultima conseguenza da
per voi, se da per voi avete sapute tutte le premesse.
SIMP. Voi volete dir per ultima conclusione, che
movendosi quella pietra d'un moto indelebilmente impressole, non l'è per
lasciare, anzi è per seguire la nave, ed in ultimo per cadere nel
medesimo luogo dove cade quando la nave sta ferma; e cosí dico io ancora che
seguirebbe quando non ci fussero impedimenti esterni, che sturbassero il
movimento della pietra dopo esser posta in libertà: li quali impedimenti
son due; l'uno è l'essere il mobile impotente a romper l'aria col suo
impeto solo, essendogli mancato quello della forza de' remi, del quale era
partecipe, come parte della nave, mentre era su l'albero; l'altro è il
moto novello del cadere a basso, che pur bisogna che sia d'impedimento
all'altro progressivo.
SALV. Quanto all'impedimento dell'aria, io non ve
lo nego; e quando il cadente fusse materia leggiera, come una penna o un fiocco
di lana, il ritardamento sarebbe molto grande; ma in una pietra grave, è
piccolissimo: e voi stesso poco fa avete detto che la forza del piú impetuoso
vento non basta a muover di luogo una grossa pietra; or pensate quel che
farà l'aria quieta incontrata dal sasso, non piú veloce di tutto 'l
navilio. Tuttavia, come ho detto, vi concedo questo piccolo effetto, che
può dependere da tale impedimento; sí come so che voi concederete a me
che quando l'aria si movesse con l'istessa velocità della nave e del
sasso, l'impedimento sarebbe assolutamente nullo. Quanto all'altro, del
sopravegnente moto in giú, prima è manifesto che questi due, dico il
circolare intorno al centro e 'l retto verso 'l centro, non son contrarii né
destruttivi l'un dell'altro né incompatibili, perché, quanto al mobile, ei non
ha repugnanza alcuna a cotal moto: ché già voi stesso avete conceduto,
la repugnanza esser contro al moto che allontana dal centro, e l'inclinazione,
verso il moto che avvicina al centro; onde necessariamente segue che al moto che
non appressa né discosta dal centro, non ha il mobile né repugnanza né
propensione né, in conseguenza, cagione di diminuirsi in lui la facultà
impressagli: e perché la causa motrice non è una sola, che si abbia, per
la nuova operazione, a inlanguidire, ma son due tra loro distinte, delle quali
la gravità attende solo a tirare il mobile al centro, e la virtú
impressa a condurlo intorno al centro, non resta occasione alcuna
d'impedimento.
SIMP. Il discorso veramente è in apparenza
assai probabile, ma in essenza turbato un poco da qualche intoppo mal agevole a
superarsi. Voi in tutto 'l progresso avete fatta una supposizione, che dalla
scuola peripatetica non di leggiero vi sarà conceduta, essendo
contrariissima ad Aristotile: e questa è il prender come cosa notoria e
manifesta che 'l proietto separato dal proiciente continui il moto per virtú
impressagli dall'istesso proiciente, la qual virtú impressa è tanto
esosa nella peripatetica filosofia, quanto il passaggio d'alcuno accidente
d'uno in un altro suggetto: nella qual filosofia si tiene, come credo che vi
sia noto, che 'l proietto sia portato dal mezo, che nel nostro caso viene ad
esser l'aria e però se quel sasso, lasciato dalla cima dell'albero,
dovesse seguire il moto della nave, bisognerebbe attribuire tal effetto
all'aria, e non a virtú impressagli: ma voi supponete che l'aria non séguiti il
moto della nave, ma sia tranquilla. Oltre che colui che lo lascia cadere, non
l'ha a scagliare né dargli impeto col braccio, ma deve semplicemente aprir la
mano e lasciarlo: e cosí, né per virtú impressagli dal proiciente, né per
benefizio dell'aria, potrà il sasso seguire 'l moto della nave, e
però resterà indietro.
SALV. Parmi dunque di ritrar dal vostro parlare,
che non venendo la pietra cacciata dal braccio di colui, la sua non venga
altrimenti ad essere una proiezione.
SIMP. Non si può propriamente chiamar moto
di proiezione.
SALV. Quello dunque che dice Aristotile del moto,
del mobile e del motore de i proietti, non ha che fare nel nostro proposito; e
se non ci ha che fare, perché lo producete?
SIMP. Producolo per amor di quella virtú impressa,
nominata ed introdotta da voi, la quale, non essendo al mondo, non può
operar nulla, perché non entium nullæ sunt operationes; e
però non solo del moto de i proietti, ma di ogn'altro che non sia
naturale, bisogna attribuirne la causa motrice al mezo, del quale non si
è avuta la debita considerazione; e però il detto sin qui resta
inefficace.
SALV. Orsú tutto in buon'ora. Ma ditemi: già
che la vostra instanza si fonda tutta su la nullità della virtú
impressa, quando io vi abbia dimostrato che 'l mezo non ha che fare nella
continuazion del moto de' proietti, dopo che son separati dal proiciente,
lascierete voi in essere la virtú impressa, o pur vi moverete con
qualch'altr'assalto alla sua destruzione?
SIMP. Rimossa l'azione del mezo, non veggo che si
possa ricorrere ad altro che alla facultà impressa dal movente.
SALV. Sarà bene, per levare il piú che sia
possibile le cause dell'andarsene in infinito con le altercazioni, che voi
quanto si può distintamente spianiate qual sia l'operazione del mezo nel
continuar il moto al proietto.
SIMP. Il proiciente ha il sasso in mano; muove con
velocità e forza il braccio, al cui moto si muove non piú il sasso che
l'aria circonvicina, onde il sasso, nell'esser abbandonato dalla mano, si trova
nell'aria che già si muove con impeto, e da quella vien portato: che se
l'aria non operasse, il sasso cadrebbe dalla mano al piede del proiciente.
SALV. E voi sete stato tanto credulo che vi sete
lasciato persuader queste vanità, mentre in voi stesso avevi i sensi da
confutarle e da intenderne il vero? Però ditemi: quella gran pietra e
quella palla d'artiglieria che, posata solamente sopra una tavola, restava
immobile contro a qualsivoglia impetuoso vento, secondo che voi poco fa
affermaste, se fusse stata una palla di sughero o altrettanta bambagia, credete
che il vento l'avesse mossa di luogo?
SIMP. Anzi so certo che l'averebbe portata via, e
tanto piú velocemente, quanto la materia fusse stata piú leggiera; ché per
questo veggiamo noi le nugole esser portate con velocità pari a quella
del vento stesso che le spigne.
SALV. E 'l vento che cosa è?
SIMP. Il vento si definisce, non esser altro che
aria mossa.
SALV. Adunque l'aria mossa molto piú velocemente e
'n maggior distanza traporta le materie leggierissime che le gravissime?
SIMP. Sicuramente.
SALV. Ma quando voi aveste a scagliar col braccio
un sasso, e poi un fiocco di bambagia, chi si moverebbe con piú velocità
e in maggior lontananza?
SIMP. La pietra assaissimo; anzi la bambagia mi
cascherebbe a i piedi.
SALV. Ma se quel che muove il proietto, doppo
l'esser lasciato dalla mano, non è altro che l'aria mossa dal braccio, e
l'aria mossa piú facilmente spigne le materie leggiere che le gravi, come
dunque il proietto di bambagia non va piú lontano e piú veloce di quel di
pietra? bisogna pure che nella pietra resti qualche cosa, oltre al moto
dell'aria. Di piú, se da quella trave pendessero due spaghi lunghi egualmente,
e in capo dell'uno fusse attaccata una palla di piombo, e una di bambagia
nell'altro, ed amendue si allontanassero egualmente dal perpendicolo, e poi si
lasciassero in libertà, non è dubbio che l'una e l'altra si
moverebbe verso 'l perpendicolo, e che spinta dal proprio impeto lo
trapasserebbe per certo intervallo, e poi vi ritornerebbe. Ma qual di questi
due penduli credete voi che durasse piú a muoversi, prima che fermarsi a
piombo?
SIMP. La palla di piombo andrà in qua e 'n
là mille volte, e quella di bambagia dua o tre al piú.
SALV. Talché quell'impeto e quella mobilità,
qualunque se ne sia la causa, piú lungamente si conserva nelle materie gravi
che nelle leggieri. Vengo ora a un altro punto, e vi domando: perché l'aria non
porta via adesso quel cedro ch'è su quella tavola?
SIMP. Perché ella stessa non si muove.
SALV. Bisogna dunque che il proiciente conferisca
il moto all'aria, col quale ella poi muova il proietto. Ma se tal virtú non si
può imprimere, non si potendo far passare un accidente d'un subbietto in
un altro, come può passare dal braccio nell'aria? non è forse
l'aria un subbietto altro dal braccio?
SIMP. Rispondesi che l'aria, per non esser né grave
né leggiera nella sua regione, è disposta a ricevere facilissimamente
ogni impulso ed a conservarlo ancora.
SALV. Ma se i penduli adesso adesso ci hanno
mostrato che il mobile, quanto meno participa di gravità, tanto è
meno atto a conservare il moto, come potrà essere che l'aria, che in
aria non ha punto di gravità, essa sola conservi il moto concepito? Io
credo, e so che voi ancora credete al presente, che non prima si ferma il
braccio, che l'aria attornogli. Entriamo in camera, e con uno sciugatoio agitiamo
quanto piú si possa l'aria, e fermato il panno conducasi una piccola candeletta
accesa nella stanza, o lascivisi andare una foglia d'oro volante; che voi dal
vagar quieto dell'una e dell'altra v'accorgerete dell'aria ridotta
immediatamente a tranquillità. Io potrei addurvi mille esperienze, ma
dove non bastasse una di queste, si potrebbe aver la cura per disperata
affatto.
SAGR. Quando si tira una freccia contr'al vento,
quanto è incredibil cosa che quel filetto d'aria, spinto dalla corda
vadia al dispetto della fortuna accompagnando la freccia! Ma io ancora vorrei
sapere un particolare da Aristotile, per il quale prego il signor Simplicio che
mi favorisca di risposta. Quando col medesimo arco fussero tirate due freccie,
una per punta al modo consueto, e l'altra per traverso, cioè posandola
per lo lungo su la corda, e cosí distesa tirandola, vorrei sapere qual di esse
andrebbe piú lontana. Favoritemi in grazia di risposta, benché forse la dimanda
vi paia piú tosto ridicola che altrimenti; e scusatemi, perché io, che ho, come
voi vedete, anzi del grossetto che no, non arrivo piú in alto con la mia
speculativa.
SIMP. Io non ho veduto mai tirar le freccie per
traverso: tuttavia credo che intraversata non andrebbe né anco la ventesima
parte di quel ch'ella va per punta.
SAGR. E perché io ho creduto l'istesso, quindi
è che mi è nata occasione di metter dubbio tra 'l detto
d'Aristotile e l'esperienza. Perché, quanto all'esperienza, s'io metterò
sopra quella tavola due freccie in tempo che spiri vento gagliardo, una posata
per il filo del vento e l'altra intraversata il vento porterà via
speditamente questa e lascierà star l'altra: ed il medesimo par che
dovesse accadere, quando la dottrina d'Aristotile fusse vera, delle due tirate
con l'arco; imperocché la traversa vien cacciata da una gran quantità
dell'aria mossa dalla corda, cioè da tanta quanta è la sua
lunghezza, dove che l'altra freccia non riceve impulso da piú aria che si sia
il piccolissimo cerchietto della sua grossezza: ed io non so immaginarmi la cagione
di tal diversità, e desidererei di saperla.
SIMP. La causa mi par assai manifesta, ed è
perché la freccia tirata per punta ha a penetrar poca quantità d'aria, e
l'altra ne ha da fender tanta quanta è tutta la sua lunghezza.
SAGR. Adunque le freccie tirate hanno a penetrar
l'aria? Oh se l'aria va con loro, anzi è quella che le conduce, che
penetrazione vi può essere? non vedete voi che a questo modo
bisognerebbe che la freccia si movesse con maggior velocità che l'aria?
e questa maggior velocità, chi la conferisce alla freccia? vorrete voi
dir che l'aria le dia velocità maggiore della sua propria? Intendete
dunque, signor Simplicio, che 'l negozio procede per l'appunto a rovescio di
quel che dice Aristotile, e che tanto è falso che 'l mezo conferisca il moto
al proietto, quanto è vero che egli solo è che gli arreca
impedimento: e inteso questo, intenderete senza trovar difficultà che
quando l'aria si muove veramente, molto meglio porta seco la freccia per
traverso che per lo dritto, perché molta è l'aria che la spigne in
quella postura, e pochissima in questa; ma tirate con l'arco, perché l'aria sta
ferma, la freccia traversa, percotendo in molt'aria, molto viene impedita, e
l'altra per punta facilissimamente supera l'ostacolo della minima quantità
d'aria che se le oppone.
SALV. Quante proposizioni ho io notate in
Aristotile (intendendo sempre nella filosofia naturale), che sono non pur
false, ma false in maniera, che la sua diametralmente contraria è vera,
come accade di questa! Ma seguitando il nostro proposito, credo che il signor
Simplicio resti persuaso che dal veder cader la pietra nel medesimo luogo
sempre, non si possa conietturare circa il moto o la stabilità della
nave; e quando il detto sin qui non gli bastasse, ci è l'esperienza di
mezo, che lo potrà del tutto assicurare: nella quale esperienza, al piú
che e' potesse vedere, sarebbe il rimanere indietro il mobile cadente, quando
e' fusse di materia assai leggiera e che l'aria non seguisse il moto della
nave; ma quando l'aria si movesse con pari velocità, niuna immaginabil
diversità si troverebbe né in questa né in qualsivoglia altra
esperienza, come appresso son per dirvi. Or, quando in questo caso non
apparisca diversità alcuna, che si deve pretender di veder nella pietra
cadente dalla sommità della torre, dove il movimento in giro è
alla pietra non avventizio e accidentario, ma naturale ed eterno, e dove l'aria
segue puntualmente il moto della torre, e la torre quel del globo terrestre?
Avete voi, signor Simplicio, da replicar altro sopra questo particulare?
SIMP. Non altro, se non che non veggio sin qui
provata la mobilità della Terra.
SALV. Né io tampoco ho preteso di provarla, ma solo
di mostrare come dall'esperienza portata da gli avversarii per argomento della
fermezza non si può cavar nulla; sí come credo mostrar dell'altre.
SAGR. Di grazia, signor Salviati, prima che passare
ad altro, concedetemi che io metta in campo certa difficultà che mi si
è raggirata per la fantasia mentre voi stavi con tanta flemma
sminuzolando al signor Simplicio questa esperienza della nave.
SALV. Noi siam qui per discorrere, ed è bene
che ogn'uno muova le difficultà che gli sovvengono, ché questa è
la strada per venir in cognizion del vero. Però dite.
SAGR. Quando sia vero che l'impeto col quale si
muove la nave resti impresso indelebilmente nella pietra, dopo che s'è
separata dall'albero, e sia in oltre vero che questo moto non arrechi
impedimento o ritardamento al moto retto all'ingiú, naturale alla pietra,
è forza che ne segua un effetto meraviglioso in natura. Stia la nave
ferma, e sia il tempo della caduta d'un sasso dalla cima dell'albero due
battute di polso: muovasi poi la nave, e lascisi andar dal medesimo luogo
l'istesso sasso, il quale, per le cose dette, metterà pur il tempo di
due battute ad arrivare a basso, nel qual tempo la nave avrà,
verbigrazia, scorso venti braccia, talché il vero moto della pietra sarà
stato una linea trasversale, assai piú lunga della prima retta e
perpendicolare, che è la sola lunghezza dell'albero: tuttavia la palla l'avrà
passata nel medesimo tempo. Intendasi di nuovo il moto della nave accelerato
assai piú, sí che la pietra nel cadere dovrà passare una trasversale
ancor piú lunga dell'altra; ed insomma, crescendosi la velocità della
nave quanto si voglia, il sasso cadente descriverà le sue trasversali
sempre piú e piú lunghe, e pur tutte le passerà nelle medesime due
battute di polso: ed a questa similitudine, quando in cima di una torre fusse
una colubrina livellata, e con essa si tirassero tiri di punto bianco, cioè
paralleli all'orizonte, per poca o molta carica che si desse al pezzo, sí che
la palla andasse a cadere ora lontana mille braccia, or quattro mila, or sei
mila, or dieci mila etc., tutti questi tiri si spedirebbero in tempi eguali tra
di loro, e ciascheduno eguale al tempo che la palla consumerebbe a venire dalla
bocca del pezzo sino in terra, lasciata, senz'altro impulso, cadere
semplicemente giú a perpendicolo. Or par meravigliosa cosa che nell'istesso
breve tempo della caduta a piombo sino in terra dall'altezza, verbigrazia, di
cento braccia, possa la medesima palla, cacciata dal fuoco, passare or
quattrocento, or mille, or quattromila, ed or diecimila braccia, sí che la
palla in tutti i tiri di punto bianco si trattenga sempre in aria per tempi
eguali.
SALV. La considerazione per la sua novità
è bellissima, e quando l'effetto sia vero, è meraviglioso: e
della sua verità io non ne dubito; e quando non ci fusse l'impedimento
accidentario dell'aria, io tengo per fermo che se nell'uscir la palla del pezzo
si lasciasse cader un'altra dalla medesima altezza giú a piombo, amendue
arriverebbero in terra nel medesimo instante, ancorché quella avesse camminato
diecimila braccia di distanza, e questa cento solamente; intendendo che il
piano della Terra fusse eguale, che per sicurezza si potrebbe tirare sopra
qualche lago. L'impedimento poi che potesse venir dall'aria, sarebbe nel
ritardar il moto velocissimo del tiro. Or, se cosí vi piace, venghiamo alle
soluzioni degli altri argomenti, già che il signor Simplicio resta (per
quanto io mi creda) ben capace della nullità di questo primo, preso da i
cadenti da alto a basso.
SIMP. Io non mi sento rimossi tutti gli scrupoli; e
forse il difetto è mio, per non esser di cosí facile e veloce apprensiva
come il signor Sagredo. E parmi che quando questo moto participato dalla
pietra, mentre era su l'albero della nave, s'avesse, come voi dite, a conservar
indelebilmente in lei, dopo ancora che si trova separata dalla nave,
bisognerebbe che similmente quando alcuno, sendo sopra un cavallo che corresse
velocemente, si lasciasse cader di mano una palla, quella, caduta in terra,
continuasse il suo moto e seguitasse il corso del cavallo senza restargli a
dietro: il quale effetto non credo io che si vegga, se non quando colui ch'è
sul cavallo la gettasse con forza verso la parte del corso; ma senza questo,
credo ch'ella resterà in terra dov'ella percuote.
SALV. Io credo che voi v'inganniate d'assai, e son
sicuro che l'esperienza vi mostrerà il contrario, e che la palla,
arrivata che sia in terra, correrà insieme col cavallo, né gli
resterà indietro se non quanto l'asprezza ed inegualità della
strada l'impedirà: e la ragione mi par pure assai chiara. Imperocché,
quando voi, stando fermo, tiraste per terra la medesima palla, non continuerebbe
ella il moto anco fuor della vostra mano? e per tanto piú lungo intervallo,
quanto la superficie fusse piú eguale, sí che, verbigrazia, sopra il ghiaccio
andrebbe lontanissima?
SIMP. Questo non ha dubbio, quando io gli do impeto
col braccio; ma nell'altro caso si suppone che colui che è sul cavallo
la lasci solamente cadere.
SALV. Cosí voglio io che segua. Ma quando voi la
tirate col braccio, che altro rimane alla palla, uscita che ella vi è di
mano, che il moto concepito dal vostro braccio, il quale, in lei conservato,
continua di condurla innanzi? ora, che importa che quell'impeto sia conferito
alla palla piú dal vostro braccio che dal cavallo? mentre che voi sete a
cavallo, non corre la vostra mano, ed in conseguenza la palla, cosí veloce come
il cavallo stesso? certo sí; adunque, nell'aprir solamente la mano, la palla si
parte col moto già concepito non dal vostro braccio per moto vostro
particolare, ma dal moto dependente dall'istesso cavallo, che vien comunicato a
voi, al braccio, alla mano, e finalmente alla palla. Anzi voglio dirvi di piú,
che se colui nel correre getterà col braccio la palla al contrario del
corso, ella, arrivata che sia in terra, talvolta, ancorché scagliata al
contrario, pur seguiterà il corso del cavallo, e talvolta resterà
ferma in terra, e solamente si muoverà all'opposito del corso, quando il
moto ricevuto dal braccio superasse in velocità quello della carriera.
Ed è una vanità quella di alcuni che dicono, potersi dal
cavaliere lanciare una zagaglia per aria verso la parte del corso, e col
cavallo seguirla e raggiugnerla e finalmente ripigliarla: e dico una
vanità, perché a far che il proietto vi torni in mano, bisogna tirarlo
all'insú, nel modo medesimo che se altri stesse fermo; perché, sia pure il
corso quanto si voglia veloce, purché sia uniforme ed il proietto non sia una
cosa leggierissima, sempre ricaderà in mano al proiciente, e sia pur
gettato in alto quanto si voglia.
SAGR. Da questa dottrina io vengo in cognizione di
alcuni problemi assai curiosi, in materia di questi proietti; il primo de'
quali dovrà parer molto strano al signor Simplicio. E il problema
è questo: ch'io dico che è possibile che lasciata cader
semplicemente la palla da uno che in qualsivoglia modo corra velocemente,
arrivata che ella sia in terra, non solo segua il corso di colui, ma di assai
lo anticipi; il qual problema è connesso con questo, che il mobile
lanciato dal proiciente sopra il piano dell'orizonte, può acquistar
nuova velocità, maggiore assai della conferitagli da esso proiciente. Il
quale effetto ho io piú volte con ammirazione osservato nello stare a veder
costoro che giuocano a tirar con le ruzzole, le quali si veggono, uscite che
son della mano, andar per aria con certa velocità, la qual poi se gli
accresce assai nell'arrivare in terra; e se ruzzolando urtano in qualche
intoppo che le faccia sbalzare in alto, si veggono per aria andar assai
lentamente, e ricadute in terra pur tornano a muoversi con velocità
maggiore: ma quel che è ancora piú stravagante, ho io ancora osservato
che non solamente vanno sempre piú veloci per terra che per aria, ma di due
spazi fatti amendue per terra, tal volta un moto nel secondo spazio è
piú veloce che nel primo. Or che direbbe qui il signor Simplicio?
SIMP. Direi, la prima cosa, di non aver fatta
cotale osservazione; secondariamente, direi di non la credere; direi poi, nel
terzo luogo, che, quando voi me ne accertaste e che demostrativamente me
l'insegnaste, voi fuste un gran demonio.
SAGR. Di quelli però di Socrate, non di quei
dell'Inferno. Ma voi pur tornate su questo insegnare; io vi dico che quando uno
non sa la verità da per sé, è impossibile che altri gliene faccia
sapere; posso bene insegnarvi delle cose che non son né vere né false, ma le
vere, cioè le necessarie, cioè quelle che è impossibile ad
esser altrimenti, ogni mediocre discorso o le sa da sé o è impossibile
che ei le sappia mai: e cosí so che crede anco il signor Salviati. E
però vi dico che de i presenti problemi le ragioni son sapute da voi, ma
forse non avvertite.
SIMP. Lasciamo per ora questa disputa, e
concedetemi ch'io dica che non intendo né so queste cose che si trattano, e
vedete pur di farmi restar capace de' problemi.
SAGR. Questo primo depende da un altro; il quale
è, onde avvenga che, tirando la ruzzola con lo spago, assai piú lontano
ed in conseguenza con maggior forza va, che tirata con la semplice mano.
SIMP. Aristotile ancora fa non so che problemi
intorno a questi proietti.
SALV. Sì, e molto ingegnosi, ed in
particolare quello onde avvenga che le ruzzole tonde vanno meglio che le
quadre.
SAGR. E di questo, signor Simplicio, non vi darebbe
l'animo di sapere la ragione, senza altrui insegnamento?
SIMP. Sì bene, sì bene; ma lasciamo
le beffe.
SAGR. Tanto sapete ancora la ragion di quest'altro.
Ditemi dunque: sapete che una cosa che si muova, quando vien impedita si ferma?
SIMP. Sollo; quando però l'impedimento
è tanto che basti.
SAGR. Sapete voi che maggiore impedimento arreca al
mobile l'avere a muoversi per terra che per aria, essendo la terra scabrosa e
dura, e l'aria molle e cedente?
SIMP. E perché so questo, so che la ruzzola
andrà piú veloce per aria che per terra; talché il mio sapere è
tutto all'opposito di quel che voi stimavi.
SAGR. Adagio, signor Simplicio. Sapete voi che
nelle parti di un mobile che giri intorno al suo centro, si ritrovano movimenti
verso tutte le bande? sí che altre ascendono altre descendono, altre vanno
innanzi, altre all'indietro?
SIMP. Lo so, ed Aristotile me l'ha insegnato.
SAGR. E con qual dimostrazione? ditemela di grazia.
SIMP. Con quella del senso.
SAGR. Adunque Aristotile vi ha fatto vedere quel
che senza lui non avereste veduto? avrebbev'egli prestato mai i suoi occhi? Voi
volevi dire che Aristotile ve l'aveva detto, avvertito, ricordato, e non
insegnato. Quando dunque una ruzzola, senza mutar luogo, gira in se stessa, non
parallela, ma eretta all'orizonte, alcune sue parti ascendono, le opposte
descendono, le superiori vanno per un verso, l'inferiori per il contrario.
Figuratevi ora una ruzzola che, senza mutar luogo, velocemente giri in se stessa
e stia sospesa in aria, e che, in tal guisa girando, sia lasciata cadere in
terra a perpendicolo: credete voi che arrivata che ella sarà in terra,
seguiterà di girare in se stessa senza mutar luogo, come prima?
SIMP. Signor
no.
SAGR. Ma che farà?
SIMP. Correrà per terra velocemente.
SAGR. E verso qual parte?
SIMP. Verso quella dove la porterà la sua
vertigine.
SAGR. Nella sua vertigine ci son delle parti,
cioè le superiori, che si muovono al contrario delle inferiori;
però bisogna dire a quali ella ubidirà: ché quanto alle parti
ascendenti e descendenti, l'une non cederanno all'altre, né 'l tutto
andrà in giú, impedito dalla terra, né in su, per esser grave.
SIMP. Andrà la ruzzola girando per terra
verso quella parte dove tendono le parti sue superiori.
SAGR. E perché non dove tendono le contrarie,
cioè quelle che toccan terra?
SIMP. Perché quelle di terra vengono impedite
dall'asprezza del toccamento, cioè dall'istessa scabrosità della
terra; ma le superiori, che sono nell'aria tenue e cedente, sono impedite
pochissimo o niente, e però la ruzzola andrà per il loro verso.
SAGR. Talché quell'attaccarsi, per cosí dire, le
parti di sotto alla terra, fa ch'elle restano, e solo si spingono avanti le
superiori.
SALV. E però quando la ruzzola cadesse sul
ghiaccio o altra superficie pulitissima, non cosí bene scorrerebbe innanzi, ma
potrebbe per avventura continuar di girare in se stessa, senza acquistar altro
moto progressivo.
SAGR. È facil cosa che cosí seguisse; ma
almeno non cosí speditamente andrebbe ruzzolando, come cadendo su la superficie
alquanto aspra. Ma dicami il signor Simplicio: quando la ruzzola, girando
velocemente in se stessa, vien lasciata cadere, perché non va ella anche per
aria innanzi, come fa poi quando è in terra?
SIMP. Perché, avendo aria di sopra e di sotto, né
queste parti né quelle hanno dove attaccarsi, e non avendo occasione di andar
piú innanzi che indietro, cade a piombo.
SAGR. Talché la sola vertigine in se stessa,
senz'altro impeto, può spigner la ruzzola, arrivata che sia in terra,
assai velocemente. Or venghiamo al resto. Quello spago che il ruzzolante si
lega al braccio, e col quale, avvolto intorno alla ruzzola, e' la tira, che
effetto fa in essa?
SIMP. La costringe a girare in se stessa, per
isvilupparsi dalla corda.
SAGR. Talché quando la ruzzola arriva in terra,
ella vi giugne girando in se stessa, mercé dello spagno. Non ha ella dunque
cagione in se stessa di muoversi più velocemente per terra, che ella non
faceva mentre era per aria?
SIMP. Certo sí: perché per aria non aveva altro
impulso che quel del braccio del proiciente, e se ben aveva ancora la
vertigine, questa (come si è detto) per aria non spigne punto; ma
arrivando in terra, al moto del braccio s'aggiugne la progressione della
vertigine, onde la velocità si raddoppia. E già intendo benissimo
che rimbalzando la ruzzola in alto, la sua velocità scemerà,
perché l'aiuto della circolazione gli manca; e nel ricadere in terra lo viene a
racquistare, e però torna a muoversi piú velocemente che per aria.
Restami solo da intender che in questo secondo moto per terra ella vadia piú
velocemente che nel primo, perchè cosí ella si moverebbe in infinito,
accelerandosi sempre.
SAGR. Io non ho detto assolutamente che questo
secondo moto sia piú veloce del primo, ma che può talvolta accader ch'e'
sia piú veloce.
SIMP. Questo è quello ch'io non capisco e
ch'io vorrei intendere.
SAGR. E questo ancora sapete per voi stesso.
Però ditemi: quando voi vi lasciaste cader la ruzzola di mano senza che
ella girasse in se stessa, che farebbe percotendo in terra?
SIMP. Niente, ma resterebbe quivi.
SAGR. Non potrebb'egli accadere che nel percuotere
in terra ella acquistasse moto? pensateci meglio.
SIMP. Se noi non la lasciassimo cadere su qualche
pietra che avesse pendio, come fanno i fanciulli con le chiose, e che battendo
a sbiescio su la pietra pendente acquistasse movimento in se stessa in giro,
col quale poi ella seguitasse di muoversi progressivamente in terra, non saprei
in qual altra maniera ella potesse far altro che fermarsi dove ella battesse.
SAGR. Ecco pure che in qualche modo ella può
acquistar nuova vertigine. Quando dunque la ruzzola sbalzata in alto ricade in
giú, perché non può ella abbattersi a dare su lo sbiescio di qualche
sasso fitto in terra e che abbia il pendio verso dove è il moto, ed
acquistando, per tal percossa, nuova vertigine, oltre a quella prima dello
spago, raddoppiar il suo moto, e farlo piú veloce che non fu nel suo primo
battere in terra?
SIMP. Ora intendo che ciò può
facilmente seguire. E vo considerando che quando la ruzzola si facesse girare
al contrario, nell'arrivare in terra farebbe contrario effetto, cioè il
moto della vertigine ritarderebbe quel del proiciente.
SAGR. E lo ritarderebbe, e l'impedirebbe tal volta
del tutto, quando la vertigine fusse assai veloce. E di qui nasce la soluzione
di quell'effetto che i giuocatori di palla a corda piú esperti fanno con lor
vantaggio, cioè d'ingannar l'avversario col trinciar (che tale è
il loro termine) la palla, cioè rimetterla con la racchetta obliqua, in
modo che ella acquisti una vertigine in se stessa contraria al moto proietto;
dal che ne séguita che, nell'arrivare in terra, il balzo che, quando la palla
non girasse, andrebbe verso l'avversario, porgendoli il consueto tempo di
poterla rimettere, resta come morto, e la palla si schiaccia in terra, o meno
assai del solito ribalza, e rompe il tempo della rimessa. Per questo anco si
veggono quelli che giuocano con palle di legno a chi piú s'accosta a un segno
determinato, quando giuocano in una strada sassosa e piena d'intoppi, da far
deviar in mille modi la palla né punto andar verso il segno, per isfuggirli
tutti, gettar la palla non ruzzolando per terra, ma di posta per aria, come se
avessero a gettare una piastra piana; ma perché nel gettar la palla ella esce
di mano con qualche vertigine conferitale dalle dita, tuttavoltaché la mano si
tenesse sotto la palla, come comunemente si tiene, onde la palla, nel
percuotere in terra presso al segno, tra 'l moto del proiciente e quel della
vertigine scorrerebbe assai lontana, per far ch'ella si fermi, abbrancano
artifiziosamente la palla, tenendo la mano di sopra e la palla di sotto, alla
quale nello scappar vien conferita dalle dita la vertigine al contrario, per la
quale, nel battere in terra vicino al segno, quivi si ferma o poco piú avanti
scorre. Ma per tornar al principal problema, che è stato causa di far
nascer questi altri, dico che è possibile che uno mosso velocissimamente
si lasci uscir una palla di mano la quale, giunta che sia in terra, non solo séguiti
il moto di colui, ma lo anticipi ancora, movendosi con velocità
maggiore. E per vedere un tal effetto, voglio che il corso sia d'una carretta,
alla quale per banda di fuori sia fermata una tavola pendente, sí che la parte
inferiore resti verso i cavalli e la superiore verso le ruote di dietro. Ora,
se nel maggior corso della carretta alcuno, che vi sia dentro, lascerà
cadere una palla giú per il pendio di quella tavola, ella nel venir giú
ruzzolando acquisterà vertigine in se stessa, la quale, aggiunta al moto
impresso dalla carretta, porterà la palla per terra assai piú
velocemente della carretta: e quando si accomodasse un'altra tavola pendente
all'opposito, si potrebbe temperare il moto della carretta in modo, che la
palla scorsa giú per la tavola, nell'arrivare in terra, restasse immobile, ed
anco talvolta corresse al contrario della carretta. Ma troppo lungamente ci
siam partiti dalla materia; e se il signor Simplicio resta appagato della
soluzione del primo argomento contro alla mobilità della Terra, preso da
i cadenti a perpendicolo, si potrà venire a gli altri.
SALV. Le digressioni fatte sin qui non son talmente
aliene dalla materia che si tratta, che si possan chiamar totalmente separate
da quella; oltreché dependono i ragionamenti da quelle cose che si vanno destando
per la fantasia non a un solo, ma a tre, che anco, di piú, discorriamo per
nostro gusto, né siamo obligati a quella strettezza che sarebbe uno che ex
professo trattasse metodicamente una materia, con intenzione anco di
publicarla. Non voglio che il nostro poema si astringa tanto a quella
unità, che non ci lasci campo aperto per gli episodii, per l'introduzion
de' quali dovrà bastarci ogni piccolo attaccamento, e quasi che noi ci
fussimo radunati a contar favole, quella sia lecito dire a me, che mi farà
sovvenire il sentir la vostra.
SAGR. Questo a me piace grandemente: e già
che noi siamo in questa larghezza, siami lecito, prima che passare piú innanzi,
ricercar da voi, signor Salviati, se mai vi è venuto pensato qual si
possa credere che sia la linea descritta dal mobile grave, naturalmente cadente
dalla cima della torre a basso; e se vi avete fatto sopra reflessione, ditemi
in grazia il vostro pensiero.
SALV. Io ci ho talvolta pensato: e non dubito punto
che quando altri fusse sicuro della natura del moto col quale il grave descende
per condursi al centro del globo terrestre, mescolandolo poi col movimento
comune circolare della conversion diurna, si troverrebbe precisamente qual
sorte di linea sia quella che dal centro della gravità del mobile vien
descritta nella composizion di tali due movimenti.
SAGR. Del semplice movimento verso il centro,
dependente dalla gravità, credo che si possa assolutamente senza errore
credere che sia per linea retta, quale appunto sarebbe quando la Terra fusse
immobile.
SALV. Quanto a questa parte, non solamente possiamo
crederla, ma l'esperienza ce ne rende certi.
SAGR. Ma come ce ne assicura l'esperienza, se noi
non veggiamo mai altro moto che il composto delli due, circolare ed in giú?
SALV. Anzi pur, signor Sagredo, non veggiamo noi
altro che il semplice in giú, avvenga che l'altro circolare, comune alla Terra
alla torre ed a noi, resta impercettibile e come nullo, e solo ci resta
notabile quello della pietra, non participato da noi; e di questo il senso
dimostra che sia per linea retta, venendo sempre parallelo alla stessa torre,
che sopra la superficie terrestre è fabbricata rettamente ed a
perpendicolo.
SAGR. Avete ragione, e ben troppo dappoco mi son
dimostrato, mentre non m'è sovvenuto una cosa sí facile. Ma già
che questo è notissimo, che altro dite voi di desiderare per intender la
natura di questo movimento a basso?
SALV. Non basta intender che sia retto, ma bisogna
sapere se sia uniforme o pure difforme, cioè se mantenga sempre
un'istessa velocità o pur si vadia ritardando o accelerando.
SAGR. Già è chiaro che si va
accelerando continuamente.
SALV. Né questo basta, ma converrebbe sapere
secondo qual proporzione si faccia tal accelerazione: problema, che sin qui non
credo che sia stato saputo da filosofo né da matematico alcuno, ancorché da
filosofi, ed in particolare Peripatetici, sieno stati volumi intieri, e
grandissimi, scritti intorno al moto.
SIMP. I filosofi si occupano sopra gli universali
principalmente; trovano le definizioni ed i piú comuni sintomi, lasciando poi
certe sottigliezze e certi tritumi, che son poi piú tosto curiosità, a i
matematici: ed Aristotile si è contentato di definire eccellentemente
che cosa sia il moto in universale, e del locale mostrare i principali
attributi, cioè che altro è naturale, altro violento, che altro
è semplice, altro è composto, che altro è equabile, altro
accelerato; e dell'accelerato si è contentato di render la ragione dell'accelerazione,
lasciando poi l'investigazione della proporzione di tale accelerazione e di
altri piú particolari accidenti al mecanico o ad altro inferiore artista.
SAGR. Tutto bene, signor Simplicio mio. Ma voi,
signor Salviati, calandovi talvolta dal trono della maestà peripatetica,
avete mai scherzato intorno all'investigazione di questa proporzione
dell'accelerazione del moto de' gravi descendenti?
SALV. Non mi è stato bisogno di pensarvi,
attesoché l'Accademico, nostro comun amico, mi mostrò già un suo
trattato del moto, dove era dimostrato questo, con molti altri accidenti; ma
troppo gran digressione sarebbe se per questo volessimo interromper il presente
discorso, che pure esso ancora è una digressione, e far, come si dice,
una commedia in commedia.
SAGR. Mi contento d'assolvervi da tal narrazione
per al presente, con patto però che questa sia una delle proposizioni
riservata da esaminarsi tra le altre in altra particolar sessione, perché tal
notizia è da me desideratissima: ed intanto torniamo alla linea
descritta dal grave cadente dalla sommità della torre sino alla sua
base.
SALV. Quando il movimento retto verso il centro
della Terra fusse uniforme, essendo anco uniforme il circolare verso oriente,.
si verrebbe a comporre di amendue un moto per una linea spirale, di quelle
definite da Archimede nel libro delle sue spirali, che sono quando un punto si
muove uniformemente sopra una linea retta, mentre essa pur uniformemente si
gira intorno a un de i suoi estremi punti, fisso come centro del suo rivolgimento.
Ma perché il moto retto del grave cadente è continuamente accelerato,
è forza che la linea del composto de i due movimenti si vadia sempre con
maggior proporzione allontanando successivamente dalla circonferenza di quel
cerchio che avrebbe disegnato il centro della gravità della pietra
quando ella fusse restata sempre sopra la torre; e bisogna che questo
allontanamento sul principio sia piccolo, anzi minimo, anzi pur minimissimo,
avvengaché il grave descendente, partendosi dalla quiete, cioè dalla privazion
del moto a basso, ed entrando nel moto retto in giú, è forza che passi
per tutti i gradi di tardità che sono tra la quiete e qualsivoglia
velocità, li quali gradi sono infiniti, sí come già a lungo si
è discorso e concluso.
Stante dunque che tale sia il progresso
dell'accelerazione, ed essendo oltre di ciò vero che il grave
descendente va per terminare nel centro della Terra, bisogna che la linea del
suo moto composto sia tale, che ben si vadia sempre con maggior proporzione
allontanando dalla cima della torre, o, per dir meglio, dalla circonferenza del
cerchio descritto dalla cima della torre per la conversion della Terra, ma che
tali discostamenti sieno minori e minori in infinito, quanto meno e meno il
mobile si trova essersi scostato dal primo termine dove posava. Oltre di
ciò è necessario che questa tal linea del moto composto vadia a
terminar nel centro della Terra. Or, fatti questi due presupposti, venni
già descrivendo intorno al centro A col semidiametro A B il cerchio B I,
rappresentantemi il globo terrestre; e prolungando il semidiametro AB in C,
descrissi l'altezza della torre BC, la quale, portata dalla Terra sopra la
circonferenza B I, descrive con la sua sommità l'arco C D; divisa poi la
linea C A in mezo in E, col centro E, intervallo E C, descrivo il mezo cerchio
C I A, per il quale dico ora che assai probabilmente si può credere che
una pietra, cadendo dalla sommità della torre C, venga movendosi del
moto composto del comune circolare e del suo proprio retto.
Imperocché, segnando nella circonferenza C D alcune parti eguali C
F, F G, G H, H L, e da i punti F, G, H, L tirate verso il centro A linee rette,
le parti di esse intercette fra le due circonferenze C D, B I ci
rappresenteranno sempre la medesima torre C B, trasportata dal globo terrestre
verso D I, nelle quali linee i punti dove esse vengono segate dall'arco del
mezo cerchio C I sono i luoghi dove di tempo in tempo la pietra cadente si
ritrova; li quali punti si vanno sempre con maggior proporzione allontanando
dalla cima della torre, che è quello che fa che il moto retto fatto
lungo la torre ci si mostra sempre piú e piú accelerato. Vedesi ancora come,
mercé della infinita acutezza dell'angolo del contatto delli due cerchi D C, C
I, il discostamento del cadente dalla circonferenza CFD, cioè dalla cima
della torre, è verso il principio piccolissimo, che è quanto a
dire il moto in giú esser lentissimo, e piú e piú tardo in infinito secondo la
vicinità al termine C, cioè allo stato della quiete; e finalmente
s'intende come in ultimo tal moto andrebbe a terminar nel centro della Terra A.
SAGR. Intendo perfettamente il tutto, né posso
credere che 'l mobile cadente descriva col centro della sua gravità
altra linea che una simile.
SALV. Ma piano, signor Sagredo; ché io ho da
portarvi ancora tre mie meditazioncelle, che forse non vi dispiaceranno. La
prima delle quali è, che se noi ben consideriamo, il mobile non si muove
realmente d'altro che di un moto semplice circolare, sí come quando posava
sopra la torre pur si muoveva di un moto semplice e circolare. La seconda
è ancora piú bella: imperocché egli non si muove punto piú o meno che se
fusse restato continuamente su la torre, essendo che a gli archi C F, F G, G H,
etc., che egli avrebbe passati stando sempre su la torre, sono precisamente
eguali gli archi della circonferenza C I rispondenti sotto gli stessi C F, F G,
G H, etc. Dal che ne séguita la terza meraviglia: che il moto vero e reale
della pietra non vien altrimenti accelerato, ma è sempre equabile ed
uniforme, poiché tutti gli archi eguali notati nella circonferenza C D ed i
loro corrispondenti segnati nella circonferenza C I vengono passati in tempi
eguali. Talché noi venghiamo liberi di ricercar nuove cause di accelerazione o
di altri moti, poiché il mobile, tanto stando su la torre quanto scendendone,
sempre si muove nel modo medesimo, cioè circolarmente, con la medesima
velocità e la medesima uniformità. Or ditemi quel che vi pare di
questa mia bizzarria.
SAGR. Dicovi che non potrei a bastanza con parole
esprimer quanto ella mi par maravigliosa: e per quanto al presente mi si
rappresenta all'intelletto, io non credo che il negozio passi altrimenti; e
volesse Dio che tutte le dimostrazioni de' filosofi avesser la metà
della probabilità di questa. Vorrei bene, per mia intera sodisfazione,
sentir la prova come quelli archi sieno eguali.
SALV. La dimostrazion è facilissima.
Intendete esser tirata questa linea I E; ed essendo il semidiametro del cerchio
C D, cioè la linea C A, doppio del semidiametro C E del cerchio C I,
sarà la circonferenza doppia della circonferenza, ed ogn'arco del
maggior cerchio doppio di ogni arco simile del minore, ed in conseguenza la
metà dell'arco del cerchio maggiore eguale all'arco del minore: e perché
l'angolo C E I, fatto nel centro E del minor cerchio e che insiste su l'arco C
I, è doppio dell'angolo C A D, fatto nel centro A del cerchio maggiore,
al quale suttende l'arco C D, adunque l'arco C D è la metà
dell'arco del maggior cerchio simile all'arco C I, e però sono li due
archi C D, C I eguali: e nell'istesso modo si dimostrerrà di tutte le
parti. Ma che il negozio, quanto al moto de i gravi descendenti, proceda cosí
puntualmente, io per ora non lo voglio affermare; ma dirò bene che se la
linea descritta dal cadente non è questa per l'appunto, ella gli
è sommamente prossima.
SAGR. Ma io, signor Salviati, vo pur ora
considerando un'altra cosa mirabile: e questa è, che stanti queste
considerazioni, il moto retto vadia del tutto a monte e che la natura mai non
se ne serva, poiché anco quell'uso che da principio gli si concedette, che fu
di ridurre al suo luogo le parti de i corpi integrali quando fussero dal suo
tutto separate e però in prava disposizione costituite, gli vien levato,
ed assegnato pur al moto circolare.
SALV. Questo seguirebbe necessariamente quando si
fusse concluso, il globo terrestre muoversi circolarmente, cosa che io non
pretendo che sia fatta, ma solamente si è andato sin qui, e si
andrà, considerando la forza delle ragioni che vengono assegnate da i
filosofi per prova dell'immobilità della Terra: delle quali questa
prima, presa da i cadenti a perpendicolo, patisce le difficultà che
avete sentite; le quali non so di quanto momento sieno parse al signor
Simplicio, e però, prima che passare al cimento de gli altri argomenti,
sarebbe bene ch'ei producesse se cosa ha da replicare in contrario.
SIMP. Quanto a questo primo, confesso veramente
aver sentito varie sottigliezze alle quali non avevo pensato, e come che elle
mi giungono nuove, non posso aver le risposte cosí in pronto. Ma questo, preso
da i cadenti a perpendicolo, non l'ho per de i piú gagliardi argomenti per
l'immobilità della Terra, e non so quello che accaderà de i tiri
dell'artiglierie, e massime di quelli contro al moto diurno.
SAGR. Tanto mi desse fastidio il volar de gli
uccelli, quanto mi fanno difficultà le artiglierie e tutte le altre
esperienze arrecate di sopra! Ma questi uccelli, che ad arbitrio loro volano
innanzi e 'n dietro e rigirano in mille modi, e, quel che importa piú, stanno
le ore intere sospesi per aria, questi, dico, mi scompigliano la fantasia, né
so intendere come tra tante girandole e' non ismarriscano il moto della Terra,
o come e' possin tener dietro a una tanta velocità, che finalmente
supera a parecchi e parecchi doppi il lor volo.
SALV. Veramente il dubitar vostro non è
senza ragione, e forse il Copernico stesso non ne dovette trovar scioglimento
di sua intera sodisfazione, e perciò per avventura lo tacque; se ben
anco nell'esaminar l'altre ragioni in contrario fu assai conciso, credo per
altezza d'ingegno, e fondato su maggiori e piú alte contemplazioni, nel modo
che i leoni poco si muovono per l'importuno abbaiar de i picciol cani.
Serberemo dunque l'instanza de gli uccelli in ultimo, e 'n tanto cercheremo di
dar sodisfazione al signor Simplicio nell'altre, col mostrargli, al modo
solito, che egli stesso ha le soluzioni in mano, se bene non se n'accorge. E
facendo principio da i tiri di volata, fatti, col medesimo pezzo polvere e
palla, l'uno verso oriente e l'altro verso occidente, dicami qual cosa sia
quella che lo muove a credere che 'l tiro verso occidente (quando la revoluzion
diurna fusse del globo terrestre) dovrebbe riuscir piú lungo assai che l'altro
verso levante.
SIMP. Muovomi a cosí credere, perché nel tiro verso
levante la palla, mentre che è fuori dell'artiglieria, viene seguita
dall'istessa artiglieria, la quale, portata dalla Terra pur velocemente corre
verso la medesima parte, onde la caduta della palla in terra vien poco lontana
dal pezzo. All'incontro nel tiro occidentale, avanti che la palla percuota in
terra, il pezzo si è ritirato assai verso levante, onde lo spazio tra la
palla e'l pezzo, cioè il tiro, apparirà piú lungo dell'altro
quanto sarà stato il corso dell'artiglieria, cioè della Terra,
ne' tempi che amendue le palle sono state per aria.
SALV. Io vorrei che noi trovassimo qualche modo di
far una esperienza corrispondente al moto di questi proietti, come quella della
nave al moto de i cadenti da alto a basso, e vo pensando la maniera.
SAGR. Credo che prova assai accomodata sarebbe il
pigliare una carrozzetta scoperta, ed accomodare in essa un balestrone da
bolzoni a meza elevazione, acciò il tiro riuscisse il massimo di tutti,
e mentre i cavalli corressero, tirare una volta verso la parte dove si corre, e
poi un'altra verso la contraria, facendo benissimo notare dove si trova la
carrozza in quel momento di tempo che 'l bolzone si ficca in terra, sí nell'uno
come nell'altro tiro; ché cosí potrà vedersi per appunto quanto l'uno riesce
maggior dell'altro.
SIMP. Parmi che tale esperienza sia molto
accomodata; e non ho dubbio che 'l tiro, cioè che lo spazio tra la
freccia e dove si trova la carrozza nel momento che la freccia si ficca in
terra, sarà minore assai quando si tira verso il corso della carrozza,
che quando si tira per l'opposito. Sia, per esempio, il tiro in se stesso
trecento braccia, e 'l corso della carrozza, nel tempo che il bolzone sta per
aria, sia braccia cento: adunque, tirandosi verso il corso, delle trecento
braccia del tiro la carrozzetta ne passa cento, onde nella percossa del bolzone
in terra lo spazio tra esso e la carrozza sarà braccia dugento
solamente; ma all'incontro nell'altro tiro, correndo la carrozza al contrario
del bolzone, quando il bolzone arà passate le sue trecento braccia e la
carrozza le sua cento altre in contrario, la distanza traposta si
troverà esser di braccia quattrocento.
SALV. Sarebbec'egli modo alcuno per far che questi
tiri riuscissero eguali?
SIMP. Io non saprei altro modo che col far star
ferma la carrozza.
SALV. Questo si sa: ma io domando, facendo correr
la carrozza a tutto corso.
SIMP. Chi non ingagliardisse l'arco nel tirar
secondo il corso, e poi l'indebolisse per tirar contro al corso.
SALV. Ecco dunque che pur ci è qualch'altro
rimedio. Ma quanto bisognerebbe ingagliardirlo di piú, e quanto poi
indebolirlo?
SIMP. Nell'esempio nostro, dove aviamo supposto che
l'arco tirasse trecento braccia, bisognerebbe, per il tiro verso il corso,
ingagliardirlo sí che tirasse braccia quattrocento, e per l'altro indebolirlo
tanto che non tirasse piú di dugento, perché cosí l'uno e l'altro tiro
riuscirebbe di braccia trecento in relazione alla carrozza, la quale col suo
corso di cento braccia, che ella sottrarrebbe al tiro delle quattrocento e
l'aggiugnerebbe a quel delle dugento, verrebbe a ridurgli amendue alle
trecento.
SALV. Ma che effetto fa nella freccia la maggior o
minor gagliardia dell'arco?
SIMP. L'arco gagliardo la caccia con maggior
velocità, e 'l piú debole con minore; e l'istessa freccia va tanto piú
lontana una volta che l'altra, con quanta maggior velocità ella esce
della cocca l'una volta che l'altra.
SALV. Talché per far che la freccia tirata tanto
per l'uno quanto per l'altro verso s'allontani egualmente dalla carrozza
corrente, bisogna che se nel primo tiro dell'esempio proposto ella si parte,
verbigrazia, con quattro gradi di velocità, nell'altro tiro ella si
parta con due solamente. Ma se si adopra il medesimo arco, da esso ne riceve
sempre tre gradi.
SIMP. Cosí è; e per questo, tirando con
l'arco medesimo, nel corso della carrozza i tiri non posson riuscire eguali.
SALV. Mi ero scordato di domandar con che
velocità si suppone, pur in questa esperienza particolare, che corra la
carrozza.
SIMP. La velocità della carrozza bisogna
supporla di un grado, in comparazione di quella dell'arco, che è tre.
SALV. Sí, sí, cosí torna il conto giusto. Ma
ditemi: quando la carrozza corre, non si muovono ancora con la medesima
velocità tutte le cose che son nella carrozza?
SIMP. Senza dubbio.
SALV. Adunque il bolzone ancora, e l'arco, e la
corda su la quale è teso.
SIMP. Cosí è.
SALV. Adunque, nello scaricare il bolzone verso il
corso della carrozza l'arco imprime i suoi tre gradi di velocità in un
bolzone che ne ha già un grado, mercé della carrozza che verso quella
parte con tanta velocità lo porta, talché nell'uscir della cocca e' si
trova con quattro gradi di velocità; ed all'incontro, tirando per
l'altro verso, il medesimo arco conferisce i suoi medesimi tre gradi in un
bolzone che si muove in contrario con un grado, talché nel separarsi dalla
corda non gli restano altro che dua soli gradi di velocità. Ma
già voi stesso avete deposto che per fare i tiri eguali bisogna che il
bolzone si parta una volta con quattro gradi e l'altra con due: adunque, senza mutar
arco, l'istesso corso della carrozza è quello che aggiusta le partite, e
l'esperienza è poi quella che le sigilla a coloro che non volessero o
non potessero esser capaci della ragione. Ora applicate questo discorso
all'artiglieria, e troverete che, muovasi la Terra o stia ferma, i tiri fatti
dalla medesima forza hanno a riuscir sempre eguali, verso qualsivoglia parte
indrizzati. L'errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti
gli altri, ha radice in quella fissa e inveterata impressione, che la Terra
stia ferma, della quale non vi potete o sapete spogliare né anco quando volete
filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse; e cosí
nell'altro argomento, non considerando che mentre che la pietra è su la
torre, fa, circa il muoversi o non muoversi, quel che fa il globo terrestre,
perché avete fisso nella mente che la Terra stia ferma, discorrete intorno alla
caduta del sasso sempre come se si partisse dalla quiete, dove che bisogna
dire: Se la Terra sta ferma, il sasso si parte dalla quiete e scende
perpendicolarmente; ma se la Terra si muove, la pietra altresí si muove con
pari velocità, né si parte dalla quiete, ma dal moto eguale a quel della
Terra, col quale mescola il sopravegnente in giú e ne compone un trasversale.
SIMP. Ma, Dio buono, come, se ella si muove
trasversalmente, la veggo io muoversi rettamente e perpendicolarmente? questo
è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve credere al senso,
per qual altra porta si deve entrare a filosofare?
SALV. Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che
tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto
diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile,
è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale
noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre. Voi non sete
il primo che senta gran repugnanza in apprender questo nulla operar il moto tra
le cose delle quali egli è comune.
SAGR. Ora mi sovviene di certo mio fantasticamento,
che mi passò un giorno per l'immaginativa mentre navigava nel viaggio di
Aleppo, dove andava consolo della nostra nazione; e forse potrebb'esser di
qualche aiuto, per esplicar questo nulla operare del moto comune ed esser come
se non fusse per tutti i participanti di quello: e voglio, se cosí piace al
signor Simplicio, discorrer seco quello che allora fantasticava da me solo.
SIMP. La novità delle cose che sento mi fa
curioso, non che tollerante, di ascoltare: però dite pure.
SAGR. Se la punta di una penna da scrivere, che
fusse stata in nave per tutta la mia navigazione da Venezia sino in
Alessandretta, avesse avuto facultà di lasciar visibil segno di tutto il
suo viaggio, che vestigio, che nota, che linea avrebb'ella lasciata?
SIMP. Avrebbe lasciato una linea distesa da Venezia
sin là, non perfettamente diritta o, per dir meglio, distesa in perfetto
arco di cerchio, ma dove piú e dove meno flessuosa, secondo che il vassello
fusse andato or piú or meno fluttuando; ma questo inflettersi in alcuni luoghi
un braccio o due, a destra o a sinistra, in alto o a basso, in una lunghezza di
molte centinaia di miglia piccola alterazione arebbe arrecato all'intero tratto
della linea, sí che a pena sarebbe stato sensibile, e senza error di momento si
sarebbe potuta chiamare una parte d'arco perfetto.
SAGR. Sì che il vero, vero, verissimo moto
di quella punta di penna sarebbe anco stato un arco di cerchio perfetto, quando
il moto del vassello, tolta la fluttuazion dell'onde, fusse stato placido e
tranquillo. E se io avessi tenuta continuamente quella medesima penna in mano,
e solamente l'avessi talvolta mossa un dito o due in qua o in là, qual
alterazione arei io arrecata a quel suo principale e lunghissimo tratto?
SIMP. Minore di quella che arrecherebbe a una linea
retta lunga mille braccia il declinar in varii luoghi dall'assoluta rettitudine
quanto è un occhio di pulce.
SAGR. Quando dunque un pittore nel partirsi dal
porto avesse cominciato a disegnar sopra una carta con quella penna, e
continuato il disegno sino in Alessandretta, avrebbe potuto cavar dal moto di
quella un'intera storia di molte figure perfettamente dintornate e tratteggiate
per mille e mille versi, con paesi, fabbriche, animali ed altre cose, se ben
tutto il vero, reale ed essenzial movimento segnato dalla punta di quella penna
non sarebbe stato altro che una ben lunga ma semplicissima linea; e quanto
all'operazion propria del pittore, l'istesso a capello avrebbe delineato quando
la nave fusse stata ferma. Che poi del moto lunghissimo della penna non resti
altro vestigio che quei tratti segnati su la carta, la cagione ne è
l'essere stato il gran moto da Venezia in Alessandretta comune della carta e
della penna e di tutto quello che era in nave; ma i moti piccolini, innanzi e
'n dietro, a destra ed a sinistra, comunicati dalle dita del pittore alla penna
e non al foglio, per esser proprii di quella, potettero lasciar di sé vestigio
su la carta, che a tali movimenti restava immobile. Cosí parimente è
vero, che movendosi la Terra, il moto della pietra, nel venire a basso,
è stato realmente un lungo tratto di molte centinaia ed anco di molte
migliaia di braccia, e se avesse potuto segnare in un'aria stabile o altra
superficie il tratto del suo corso, averebbe lasciata una lunghissima linea
trasversale; ma quella parte di tutto questo moto che è comune del
sasso, della torre e di noi, ci resta insensibile e come se non fusse, e solo
rimane osservabile quella parte della quale né la torre né noi siamo partecipi,
che è in fine quello con che la pietra, cadendo, misura la torre.
SALV. Sottilissimo pensiero per esplicar questo
punto, assai difficile per esser capito da molti. Or, se il signor Simplicio
non vuol replicar altro, possiamo passare all'altre esperienze, lo scioglimento
delle quali riceverà non poca agevolezza dalle cose dichiarate sin qui.
SIMP. Io non ho che dir altro, ed era mezo astratto
su quel disegno, e sul pensare come quei tratti tirati per tanti versi, di qua,
di là, in su, in giú, innanzi, in dietro, e 'ntrecciati con centomila
ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una
linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun'altra alterazione
che il declinar dal tratto dirittissimo talvolta un pochettino a destra e a
sinistra e il muoversi la punta della penna or piú veloce ed or piú tarda, ma
con minima inegualità: e considero che nel medesimo modo si scriverebbe
una lettera, e che questi scrittori piú leggiadri, che, per mostrar la
scioltezza della mano, senza staccar la penna dal foglio, in un sol tratto segnano
con mille e mille ravvolgimenti una vaga intrecciatura, quando fussero in una
barca che velocemente scorresse, convertirebbero tutto il moto della penna, che
in essenza è una sola linea tirata tutta verso la medesima parte e
pochissimo inflessa o declinante dalla perfetta drittezza, in un ghirigoro: ed
ho gran gusto che il signor Sagredo m'abbia destato questo pensiero.
Però seguitiamo innanzi, ché la speranza di poterne sentir de gli altri
mi terrà piú attento.
SAGR. Quando voi aveste curiosità di sentir
di simili arguzie, che non sovvengono cosí a ognuno, non ce ne mancano, e
massime in questa cosa della navigazione. E non vi parrà un bel pensiero
quello che mi sovvenne pur nella medesima navigazione, quando mi accorsi che
l'albero della nave, senza rompersi o piegarsi, aveva fatto piú viaggio con la
gaggia, cioè con la cima, che col piede? perché la cima, essendo piú
lontana dal centro della Terra che non è il piede, veniva ad aver
descritto un arco di un cerchio maggiore del cerchio per il quale era passato
il piede.
SIMP. E cosí, quand'un uomo cammina, fa piú viaggio
col capo che co i piedi?
SAGR. L'avete da per voi stesso e di vostro ingegno
penetrata benissimo. Ma non interrompiamo il signor Salviati.
SALV. Mi piace di veder che il signor Simplicio si
va addestrando, se però il pensiero è suo, e non l'ha imparato da
certo libretto di conclusioni, dove ne sono parecchi altri non men vaghi e
arguti. Segue che noi parliamo dell'artiglieria eretta a perpendicolo sopra
l'orizonte, cioè del tiro verso il nostro vertice, e finalmente del
ritorno della palla per l'istessa linea sopra l'istesso pezzo, ancorché nella
lunga dimora che ella sta separata dal pezzo, la Terra l'abbia per molte miglia
portato verso levante, e par che per tanto spazio dovrebbe la palla cader
lontana dal pezzo verso occidente; il che non accade; adunque l'artiglieria,
senza essersi mossa, l'ha aspettata. La soluzione è l'istessa che quella
della pietra cadente dalla torre, e tutta la fallacia e l'equivocazione
consiste nel suppor sempre per vero quello che è in quistione; perché
l'avversario ha sempre fermo nel concetto che la palla si parta dalla quiete,
nel venir cacciata dal fuoco fuor del pezzo, e partirsi dallo stato di quiete
non può esser se non supposta la quiete del globo terrestre, che
è poi la conclusione di che si quistioneggia. Replico per tanto che
quelli che fanno la Terra mobile, rispondono che l'artiglieria e la palla che
vi è dentro participano il medesimo moto che ha la Terra, anzi che
questo, insieme con lei, hann'eglino da natura, e che però la palla non
si parte altrimenti dalla quiete, ma congiunta co 'l suo moto intorno al
centro, il quale dalla proiezione in su non le vien né tolto né impedito, ed in
tal guisa, seguitando il moto universale della Terra verso oriente, sopra
l'istesso pezzo di continuo si mantiene, sí nell'alzarsi come nel ritorno: e
l'istesso vedrete voi accadere facendo l'esperienza in nave di una palla tirata
in su a perpendicolo con una balestra, la quale ritorna nell'istesso luogo,
muovasi la nave o stia ferma.
SAGR. Questo sodisfà benissimo al tutto: ma
perché ho veduto che il signor Simplicio prende gusto di certe arguzie da
chiappar (come si dice) il compagno, gli voglio domandare se, supposto per ora
che la Terra stia ferma, e sopra essa l'artiglieria eretta perpendicolarmente e
drizzata al nostro zenit, egli ha difficultà nessuna in intender che
quello è il vero tiro a perpendicolo, e che la palla nel partirsi e nel
ritorno sia per andar per l'istessa linea retta, intendendo sempre rimossi tutti
gli impedimenti esterni ed accidentarii.
SIMP. Io intendo che il fatto deva succeder cosí
per appunto.
SAGR. Ma quando l'artiglieria si piantasse non a
perpendicolo, ma inclinata verso qualche parte, qual dovrebbe essere il moto
della palla? andrebbe ella forse, come nell'altro tiro, per la linea
perpendicolare, e ritornando anco poi per l'istessa?
SIMP. Questo non farebb'ella, ma uscita del pezzo seguiterebbe il suo moto per la linea retta che continu