|     La Repubblica 27-4-2008   Lo
  specchio d'Italia è sempre più rotto. La nazione è
  più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente di una minoranza e la
  speranza di recuperarne l'unità è diventato un pallido miraggio.
  La secessione del Nord è un altro segnale di indebolimento del paese e
  la conseguenza più vistosa è l'affondamento di Alitalia di EUGENIO SCALFARI
 Ho ascoltato venerdì sera Alemanno e Rutelli a "Matrix" come
  li avevo ascoltati pochi giorni prima da "Ballarò".
  Più o meno ripetevano le stesse cose come in tanti altri comizi e
  trasmissioni. Del resto sarebbe ingeneroso pretendere che ogni sera cambino
  battute e repertorio, accade anche in teatro, se vai a
  vedere una commedia, una tragedia, un "musical", il copione
  è quello, non può subire variazioni di rilievo.
 Alemanno ha battuto e ribattuto sull'insicurezza e la paura della gente e ce
  l'ha messa tutta per farla aumentare.
 
 Rutelli ha denunciato quella tecnica allarmistica e ha descritto i modi per
  risolvere un problema che affligge le metropoli di tutto il mondo da New York
  a Parigi, da Londra a Rio, da Amburgo a Canton, a Shanghai, a Mosca, a
  Washington e naturalmente a Milano e a Roma.
 
 Ma venerdì sera Alemanno ad un certo punto un'improvvisazione l'ha
  fatta: ha detto che in sedici anni di centrosinistra al Campidoglio, Rutelli
  prima e Veltroni poi non sono riusciti a cambiare il volto della città
  come invece hanno fatto i francesi a Parigi e i tedeschi a Berlino. "Berlino - ha detto Alemanno - era ancora pochi anni fa una
  città di rovine, oggi è splendidamente risorta diventando una
  grande metropoli moderna. Perché voi non siete
  riusciti a cambiare Roma?".
 
 Rutelli gli ha risposto mostrando fotografie di lavori importanti che sia lui
  sia Veltroni hanno promosso, il piano regolatore che hanno varato, le
  brutture che hanno eliminato, ma il suo contraddittore continuava a scuotere
  la testa e a denunciare l'assenza d'una nuova identità della nostra
  "caput mundi".
 
 
 
 Per fortuna, dico io, che Roma non
  è stata cambiata. Per fortuna. E come poteva esserlo? 
 A Roma convivono almeno cinque diverse metropoli: quella dei ruderi e delle
  rovine dell'impero di Cesare e di Adriano, quella rinascimentale e papalina,
  quella barocca, quella dei quartieri piemontesi del nuovo regno, quella moderna
  da Piacentini all'"Ara Pacis" di Meier. Queste
  città si sono aggiunte e intrecciate l'una con l'altra.
 
 Certo hanno creato problemi: di traffico, di adattabilità, di
  struttura urbanistica, ma hanno creato e mantenuto un esempio irripetibile di
  storia, di estetica, di multipresenza che non ha
  eguali nel mondo, dai Fori Imperiali all'Auditorium, lungo venti secoli di
  continua evoluzione.
 
 Ad Alemanno non piace? Vorrebbe metterci le mani? In nome del cemento
  palazzinaro?
 
 * * *
 
 Oggi e domani si concluderà questa lunghissima gara elettorale con gli
  ultimi ballottaggi. Sei milioni di elettori ancora alle urne, ma il senso e
  il risultato politico ci sono già stati due settimane fa: Berlusconi
  ha vinto, la Lega soprattutto tiene in mano la partita e ha posto il suo
  sigillo sui prossimi cinque anni.
 Molti hanno scritto e detto che dalle urne del 14 aprile è uscito un
  elemento apprezzabile di maggiore semplificazione parlamentare e di
  più solida stabilità. Lo specchio rotto è stato almeno
  in parte ricomposto e ne emerge una visione del paese che può piacere
  ad alcuni e dispiacere ad altri ma è comunque percepibile e meno
  magmatica di prima.
 
 L'ho detto anch'io ma sono bastati quindici giorni per smentire quest'unica e
  timida speranza: lo specchio in cui il paese dovrebbe riflettersi è
  più frammentato e sconnesso di prima, la riduzione da trenta a quattro
  o cinque partiti è una chimera, la nazione italiana è
  più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente d'una minoranza e la
  speranza di recuperarne l'unità è diventata un pallido e
  lontano miraggio.
 
 Lo si vede da molti segnali: la secessione del Nord ne è il dato
  più appariscente, l'affondamento dell'Alitalia ne è la
  conseguenza più vistosa, la regressione missina del centrodestra ne
  rappresenta l'inevitabile contraccolpo cui fa da controcanto il sussulto identitario dell'estrema sinistra.
 
 Le rauche invettive di Beppe Grillo completano il quadro d'una società
  che sembra avere smarrito ogni bussola, ogni orientamento, ogni immagine di
  sé, ogni memoria del suo passato ed ogni progettualità del suo futuro.
  Si va avanti alla giornata senza timone e senza stelle.
 
 * * *
 
 Berlusconi - non il governo Prodi che non c'è più - ha buttato nella fornace Alitalia 300 milioni presi dalle casse
  pubbliche per guadagnare tre o quattro mesi di tempo.
 
 In attesa di chi e di che cosa? Alitalia non può esser rimessa in
  piedi da sola. Non è una questione di soldi ma di
  imprenditorialità e di dimensioni. Non esiste neppure una remota
  probabilità di una compagnia aerea italiana che abbia da sola un ruolo
  internazionale.
 
 Aeroflot è una compagnia regionale e statale ancor più piccola
  del rottame Alitalia. Lufthansa pone condizioni ancora più severe di
  quelle di Air France.
 
 Gli italiani chiamati da Berlusconi a contribuire alla cordata patriottica si
  riducono a Ligresti e forse a Tronchetti Provera. Se tra tutti e due
  metteranno insieme 150 milioni sarà un miracolo. Le banche tireranno
  fuori un finanziamento solo se ci sarà un piano industriale.
 
 Bruxelles non accetterà mai un aiuto di Stato per rianimare un
  moribondo, l'ha già concesso una volta e non è servito a
  niente. Londra, Berlino, Parigi son lì a vigilare perché una
  violazione delle regole europee in un settore strategico come l'aeronautica
  non avvenga.
 Tutta questa incredibile storia è la degna inaugurazione del Berlusconi-ter. Bossi se ne frega, il Nord secessionista
  vola benissimo con i suoi aeroporti padani.
 
 Da lui Berlusconi non avrà nessun aiuto per Alitalia ladrona.
 
 * * *
 
 Ho letto con interesse l'intervista alla "Stampa" di Veronica Lario in Berlusconi. Abbiamo scoperto che la signora
  è leghista nell'animo anche se il 14 aprile
  ha votato, come era logico, per il marito. Abbiamo anche appreso che il
  figlio Luigi se ne infischia della politica, si occupa di finanza e gli
  basta. La politica è solo imbroglio. Valeva la pena, signora
  Berlusconi, di mandarlo alla scuola steineriana? Che
  la politica fosse solo imbroglio poteva tranquillamente impararlo in
  famiglia, gli esempi domestici erano ampiamente sufficienti. Almeno,
  così ci sembra ed è lei stessa che più d'una volta ce
  l'ha fatto capire.
 
 * * *
 
 La signora Marcegaglia, nuovo presidente di Confindustra,
  si è già guadagnata diversi Oscar: è donna, è
  tosta, anzi virile, ha le idee chiare in tema di rapporti con i sindacati con
  il governo e soprattutto con i suoi associati.
 
 Non mi ha affatto scandalizzato la sua colazione a Palazzo Grazioli con il
  futuro presidente del Consiglio insieme a Luca Montezemolo officiato per un
  ministero. Perché no? Non c'è niente di male che un industriale
  diventi ministro, in Usa accade spesso ed anche in Europa. L'ipotesi non
  piacerebbe affatto ai colonnelli di Forza Italia e di An. A Bossi invece,
  anche su questo terreno, non gliene importa niente: lui i suoi ministri li
  avrà e nessuno glieli può levare.
 
 C'è una sola cosa che non mi è piaciuta della Marcegaglia: ha
  dichiarato che la Confindustria non si occuperà più di legge
  elettorale né di altre questioni istituzionali, ma soltanto della sua
  missione di sindacato degli industriali.
 
 Mi sbaglierò, ma è una dichiarazione grave per chi, come me, ha
  sperato che prima o poi gli imprenditori italiani diventassero una borghesia.
 
 Diventare borghesia significa avere un'idea di Paese entro la quale collocare
  i propri legittimi interessi di azienda e di categoria.
 
 Bossi ha una sua idea di Paese nord e di tutto il resto si disinteressa. Ma
  gli industriali italiani non sono solo al Nord. La Confindustria di
  Montezemolo sembrò avere una sua idea di Paese e si interessò
  di legge elettorale e di altre questioni istituzionali.
 
 La signora Marcegaglia cambia rotta? Vuol dire che non ha un'idea di Paese o
  quanto meno non ce l'ha come presidente di Confindustria. Non crede che sia
  una questione riguardante la rappresentanza degli industriali.
 
 Il suo dirimpettaio Bonanni, segretario della Cisl,
  la pensa allo stesso modo. Quelli della Fiom anche. Epifani sembra di no, lui
  un'idea di Paese ce l'ha come tutti i suoi predecessori da Di Vittorio a Trentin a Lama e a Cofferati. Ma anche la Cgil sta diventando
  una minoranza, la sua gente nel Nord le preferisce Maroni e Calderoli.
 
 Ecco perché dico che lo specchio è più rotto di prima.
 
 (27 aprile 2008)
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