|     La Repubblica 25-7-2008   Rischio-Italia sui
  mercati. Gli
  operatori internazionali non si fidano di un Paese che non sembra in grado di
  risolvere i suoi problemi   DI
  MASSIMO GIANNINI   I CITTADINI tedeschi sono preoccupati. L'indice Ifo
  sulla fiducia delle imprese è crollato ai livelli più bassi
  dall'11 settembre, e la cancelliera Angela Merkel li ha informati che la
  Germania non riuscirà ad evitare la "tempesta perfetta" che
  sta sconvolgendo l'economia finanziaria, e che nel 2009 produrrà i
  suoi effetti negativi sull'economia reale: la crescita di quest'anno non
  raggiungerà l'obiettivo del 2,2%. 
 Cosa dovrebbero dire i cittadini italiani, che di fronte al "disaster
  capitalism" celebrato da Naomi Klein si ritrovano con un indice Isae
  sulla fiducia delle imprese già ai livelli peggiori dal 2001 e con un
  Prodotto lordo a crescita zero? La manovra approvata dalla Camera non
  può confortarli. Dispone la "quantità" del
  risanamento, ma non propone la "qualità" dello sviluppo.
 
 C'è un "caso Europa", che ormai non si può più
  sottovalutare. Lehman Brothers parla per la prima volta di rischio-recessione
  nell'Eurozona. Ma da qualche settimana sui mercati c'è anche un
  "caso Italia", che ormai non si può più nascondere.
 
 Il Bollettino economico della Banca d'Italia aveva registrato, tra l'inizio
  di aprile e i primi giorni di luglio, una riduzione del premio di rischio sui
  titoli italiani. Il differenziale di rendimento tra le obbligazioni emesse da
  società non finanziarie con elevato merito di credito e i titoli di
  Stato era sceso di 0,3 punti percentuali, un calo addirittura maggiore di
  quello registrato dagli emittenti di altri Peasi europei. Ma nelle ultime due
  settimane lo spread tra i nostri Bpt decennali e i Bund tedeschi ha ripreso
  impercettibilmente ma inesorabilmente a crescere, tra i 50 e i 60 punti base.
 
 In un mercato già di per sé volatile, gli operatori internazionali non
  si fidano di un Paese che non sembra in grado di risolvere i suoi problemi,
  endemici e sistemici, già ricordati da Mario Draghi nella sua
  audizione in Parlamento il 2 luglio scorso: indebitamento strutturale in
  aumento (più 0,6% al netto delle una tantum), spesa corrente in
  tensione (per la prima volta oltre il 40% del Pil), produttività in caduta
  libera (nel privato e soprattutto nel pubblico impiego), costo del lavoro per
  unità di prodotto in ascesa costante (più 4,5% tra inizio 2007
  e primo trimestre 2008).
 
 Ma c'è un altro termometro, che riflette con inquietudine crescente il
  grafico della "febbre italiana" di queste settimane. È il
  prezzo dei "Credit default swap", cioè le polizze di
  assicurazione sottoscritte dagli investitori che vogliono ricoprirsi dai
  rischi di insolvenza sui titoli obbligazionari emessi da un Paese.
 
 Nel mese di luglio, sui mercati, il costo dei "Cds" nell'Eurozona
  è schizzato alle stelle per tutti i bond messi in circolazione dagli
  Stati con i tassi di crescita più bassi, le finanze pubbliche
  più critiche e i sistemi bancari più esposti. Dal 5 giugno
  scorso, giorno dell'allarme inflazione lanciato dal presidente della Banca
  centrale europea Trichet, assicurare un pacchetto di titoli di debito
  italiani del valore di 10 milioni di euro costa 15 mila euro in più.
 
 Peggio dell'Italia, tra i 15 di Eurolandia, va solo la Grecia, con un
  "rincaro" di 16 mila euro, mentre vanno un po' meglio il Portogallo
  (più 14 mila euro), la Spagna (più 13 mila euro) e l'Irlanda
  (più 10 mila euro). A reggere l'urto restano solo la Germania (con un
  aumento di mille euro) e in parte la Francia (più 3 mila euro).
 
 Cosa significa tutto questo? Il nostro Paese, suo malgrado, è tornato
  ad essere un sorvegliato speciale in Europa. È l'anello debole di una
  catena che non si può più spezzare (è irrealistica
  l'ipotesi che l'Italia esca dal sistema monetario europeo) ma che ci
  può soffocare (ogni aumento dei tassi di interesse deciso dalla banca
  centrale aumenta il costo già esponenziale del nostro debito
  pubblico).
 
 L'euro ci ha salvato, come ripete Lorenzo Bini Smaghi: "Se non fossimo
  nella moneta unica - secondo il membro italiano del board della Bce - oggi ci
  ritroveremmo nel baratro in cui cademmo nel 1992". Ma l'ombrello
  dell'euro non può bastare. Per questo la manovra economica triennale
  che da oggi passa all'esame del Senato è palesemente deficitaria, come
  denunciato dal governatore di Via Nazionale. Nel primo anno ruota tutta
  intorno agli aumenti delle entrate, e nei due anni successivi si affida a un
  piano di riduzione delle spese quasi interamente affidato al conto capitale
  (cioè agli investimenti), agli enti locali (che saranno costretti a
  ridurre il perimetro del Welfare) e ai ministeri (che di perdere il
  "portafoglio" non ne vogliono sapere).
 
 La nave europea non va. E noi siamo, ancora una volta, la zavorra. Lo dice
  oggi il Fondo monetario, che ha appena rivisto il suo outlook. Lo dirà
  il 7 agosto la stessa Bce, nell'ultimo consiglio prima delle vacanze.
  L'"allerta" sull'Italia e sull'impennata dei premi sui suoi
  "Credit default swap" non è un complotto delle tecnocrazie
  senza popolo. È nei fatti: lo ha lanciato il Financial Times tre
  giorni fa. Il "warning" della bibbia del capitalismo finanziario
  internazionale è caduto nell'indifferenza generale.
 
 Si capisce che nel governo nessuno raccolga questi segnali. Berlusconi
  considera la magistratura "un cancro da estirpare", e ovviamente
  è troppo preso dalla sua rituale "caccia alle toghe".
  Tremonti giudica la speculazione "una peste del XXI secolo", e
  naturalmente è troppo impegnato nella sua virtuale "caccia agli
  untori". Ma i mercati globali sanno valutare i pericoli. Le istituzioni
  finanziarie sanno giudicare le politiche. Sarà banale, ma mai come
  stavolta si può dire che chi semina vento raccoglierà tempesta.
 (25 luglio 2008)
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