|     Il Corriere della
  Sera 13-3-2008   Saviano: dico
  no alla politica  che
  non parla più di mafia. Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan» «Mi volevano dal Pd ad An. Ma
  non posso essere di parte»   Di Marco
  Imarisio   ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce
  anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre
  più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della
  presentazione di Gomorra ad Helsinki, con lo
  speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono
  lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a
  ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I
  suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di
  Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale
  braccato. 
 Quella di Saviano è una storia di
  paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo
  del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha
  perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere
  il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa»
  sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua
  madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse
  qualcuno disposto a condividere la sua ossessione.
 
 Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo
  della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra, blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può
  parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale
  non ci si può permettere di essere partigiani. La mia
  responsabilità è la parola ». Chi
  è stato il più insistente? «Quando
  Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a
  lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi
  punti della sua agenda». Promessa mantenuta? «Non mi
  sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia
  è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a
  destra». Altri pretendenti? «Fausto Bertinotti mi ha
  fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado
  Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione
  alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing,
  e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli
  affaristi collusi con la mafia». Avanti con l'elenco delle avances. «Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di
  apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse».
  Destra, sinistra, centro. «Io sono cresciuto in una
  terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei
  tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che
  aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo
  trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare».
 
 A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo. «Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche
  il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni». Il più
  grande? «L'intellighenzia di sinistra dà
  sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra
  parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità
  organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia
  sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd
  riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così
  potrà davvero vincere». Dove vuole arrivare? «Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio,
  di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di
  scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si
  perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta
  corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di
  questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto.
  E alzare la voce, denunciare». E invece? «Il grande silenzio. La mafia è la più
  grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello
  della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale.
  Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione,
  qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan».
 
 Si è chiesto il perché? «È un
  tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia,
  molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben
  circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno
  è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda
  anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto
  esotico, lontano, noioso». «Non valete niente». Era il 23 settembre 2006
  quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe? «A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo
  rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia
  vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con
  altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho
  perso tutto». Quando ha scritto Gomorra, cosa si
  aspettava? «Confesso l'ambizione. Volevo fare un
  libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò.
  I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie,
  colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia
  per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano
  ad essere pericoloso, ma Gomorra
  e i suoi lettori».
 
 Il disinteresse della politica rende più difficile la sua
  situazione? «Acuisce la solitudine, questo
  sì. Gomorra ha fatto sì che la
  letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo
  per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo
  paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il
  silenzio che ci distrugge». Se pensa al suo futuro,
  cosa immagina? «Spero di
  riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di
  aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un
  sogno». E la realtà? «Me
  la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la
  diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto
  assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza
  che ho».
 13 marzo 2008
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