PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA

 

 


 

 

 

MANOSCRITTI CLANDESTINI DEL SETTECENTO

 

 

a cura di Gianluca Mori

 

Clandestine E-Texts ha sede nel server dell'Università di Torino-Vercelli -- Marzo 1998

 

 


 

INDICE

·         Réflexions sur l'existence de l'âme et sur l'existence de dieu. 5

·         Essais sur la recherche de la vérité. 11

·         Origine des etres et especes, 53

·         Sentimens des philosophes sur la nature de l'âme. 56

·         Infaillibilité du jugement humain, sa dignité, son excellence. 73

·         Traité de la liberté. 97

·         Extrait d'un livre intitulé: discours sur les miracles de jésus traduit de l'anglais. 111

·         Lettre sur les difficultés de l'étude de l'ecriture. 151

·         Difficultés sur la religion. 183

·         Sermon des cinquante. 214

·         Traité des trois imposteurs. 232

·         Le philosophe. 273

 

                                                                


                                              

                                              

 

 

 

 

I manoscritti filosofici clandestini sono uno dei fenomeni più interessanti del primo Illuminismo. Moltissimi testi di questo genere sono stati scoperti e studiati a partire dai lavori pionieristici di Gustave Lanson (1912) e Ira O. Wade (1938).

I manoscritti più noti e diffusi sono il Traité des trois imposteurs, il Mémoire di Jean Meslier, l'Examen de la religion di Du Marsais e la Lettre de Thrasybule à Leucippe di Fréret. L'ispirazione filosofica di questi testi non è sempre la stessa. In comune, hanno soprattutto una tendenza radicalmente anticristiana, che li conduce talora a posizioni di tipo deistico (Examen de la religion) o ateo (Mémoire di Meslier, Lettre de Thrasybule à Leucippe di Fréret). Alcune edizioni critiche sono già disponibili, e una collana interamente dedicata ai testi filosofici clandestini è diretta da Antony McKenna presso la Voltaire Foundation di Oxford. In questa pagina web mettiamo a disposizione del pubblico una scelta limitata ma rappresentativa di testi, sperando nel futuro di poter aumentare l'estensione e la qualità del nostro corpus elettronico.

 

 

 

 

Testi clandestini (alcuni in indice)


Le Philosophe

di César Chesneau Du Marsais. Composto verso il 1720, questo testo è talora considerato, a torto o a ragione, come il manifesto dell'Illuminismo. Fu stampato per la prima volta all'interno di una raccolta di testi clandestini (le Nouvelles libertés de penser ), nel 1743. Una versione ridotta fu inserita nella Encyclopédie di Diderot e d'Alembert. L'attribuzione à Du Marsais è largamente accettata dagli specialisti.

 

Traité des trois imposteurs

Autore ignoto. Il Traité des trois imposteurs è uno dei manoscritti filosofici clandestini più famosi. Fu edito per la prima volta nel 1719 sotto il titolo di L'Esprit de Spinosa. L'edizione da cui è tratta la presente versione elettronica è piuttosto tarda (1768). Un'edizione critica (a cura di Fr. Charles-Daubert) di alcune versioni manoscritte e a stampa è annunciata dalla Voltaire Foundation, Oxford.

 

Lettre de Thrasybule à Leucippe (a cura di S. Landucci)

di Nicolas Fréret. Forse il miglior esempio di testo filosofico clandestino. Questo scritto ateo fu composto attorno al 1720 dal famoso storico Nicolas Fréret, e pubblicato postumo sotto il suo nome nel 1765. L'attribuzione a Fréret è stata confermata da Sergio Landucci, la cui edizione critica si fonda sull'insieme della tradizione manoscritta. Per maggiori dettagli, e per l'esaustiva introduzione di Landucci, cfr. N. Fréret, Lettre de Thrasybule à Leucippe, Firenze, L.S. Olschki, 1986.

 

Sermon des cinquante (a cura di J.P. Lee)

di Voltaire. Testo tratto dal Recueil nécessaire avec l'Evangile de la raison (1776). Si tratta dell'ultima edizione uscita prima della morte di Voltaire, e contiene la versione più completa del Sermon, comprendente molti brani assenti dalle edizioni Kehl/Moland/Pléiade. Questa versione costituirà il testo base per l'edizione critica attualmente in preparazione a cura di J. Patrick Lee per l'edizione completa delle opere di Voltaire (Oxford, The Voltaire Foundation).

 

Difficultés sur la religion - Cahier I (a cura di Fr. Deloffre e François Moureau)

di Robert Challe. L'attribuzione a Challe è stata proposta negli anni Settanta da F. Mars, e poi confermata qualche anno dopo da F. Deloffre, con un'ampia gamma di argomenti. Questa versione è tratta dal miglior manoscritto attualmente disponibile, e contiene il primo "Cahier", che introduce i temi principali del deismo di Challe. Una versione largamente ridotta delle Difficultés fu pubblicata da d'Holbach e Naigeon nel 1768 con il titolo di "Le militaire philosophe".

 

Lettre sur les difficultés de l'étude de l'Ecriture (a cura di A. McKenna)

di Francis Hare. Pubblichiamo qui la traduzione francese della lettera pubblicata nel 1714 da Francis Hare, vescovo di Chichester, con il titoloThe Difficulties and Discouragements which attend the Study of Scripture. Il testo inglese riflette un momento importante nel dibattito politico e teologico tra i latitudinari in Inghilterra. La traduzione francese costituisce un eccellente esempio di "transfert culturale": l'opera di Hare poteva infatti essere letta in Francia come una presa d'atto dell'impassse in cui si erano arenate le controversie tra protestanti e cattolici, impasse che favoriva senza dubbio la nascita del libero pensiero.

 

Extrait du Discours sur les miracles (a cura di William Trapnell)

di Emilie du Châtelet (?) Il manoscritto "Voltaire 8o 221" della biblioteca nazionale di San Pietroburgo contiene quasta versione francese parziale dei Six Discourses on the Miracles of Our Savior (1727-1729) di Th. Woolston, con un commento del traduttore (probabilmente la marchesa E. Du Châtelet).

 

Traité de la liberté

di Fontenelle. E' il testo clandestino più celebre di Fontenelle. Pubblicato per la prima volta nelle Nouvelles libertés de penser (1743), e poi più volte ristampato in molte edizioni postume delle opere fontenelliane.

 

Infaillibilité du jugement humain (a cura di A. McKenna)

di William Lyons. Un'esaltazione della tolleranza religiosa, opera di un rappresentante dell'ala radicale del protestantesimo inglese. Si tratta della traduzione francese di W. Lyons, The Infallibility, dignity and excellency of humane judgement; being a new art of reasoning and discovering truth (London 1719).

 

Sentimens des philosophes sur la nature de l'âme

di Benoit de Maillet. Anche i Sentimens vennero pubblicati nelle Nouvelles libertés de penser del 1743, e poi nel Recueil philosophique, fatto stampare da Naigeon nel 1771. L'attribuzione a Benoît de Maillet è stata proposta recentemente da Gianluca Mori, nel numero 4 della Lettre Clandestine.

 

Histoire de Caléjava (Livre VI)

di Claude Gilbert. L'Histoire de Caléjava non ha mai circolato in forma manoscritta. Il testo venne infatti pubblicato precocemente, nel 1700, anche se l'edizione venne distrutta interamente, eccetto pochi esemplari, uno dei quali si trova attualmente alla Bibliothèque Nationale di Parigi.

 

Origine des êtres et espèces

di Henri de Boulainviller. Questo breve trattato (1705-1710 ?) si trova all'interno degli Extraits de lecture de Boulainviller. Contiene un'audace ipotesi sur l'origine della vita sulla terra.

 

Essais sur la recherche de la vérité (a cura di Sergio Landucci)

Autore ignoto. Uno dei primi trattati atei, redatto verso il 1730 da un pensatore sconosciuto che si ingegna di confutare i più comuni argomenti dei teologi cristiani in favore dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. Inedito fino al 1984.

 

Réflexions sur l'existence de l'âme et de Dieu

Autore ignoto. Un altro testo incluso nelle Nouvelles libertés de penser (1743). E' talvolta attribuito a Du Marsais.

 

In preparazione

· De la raison (d'Holbach)

· Pantheisticon (Toland - trad. francese a cura di A. Mothu)

· Examen de la religion (Du Marsais), chap. I-III

· Lettre d'Hyppocrate à Damagète

 

 

 



 

 

 

Réflexions sur l'existence de l'âme et sur l'existence de Dieu

[Author unknown]

From [An.] Nouvelles libertés de penser, Amsterdam 1743

 

Les préjugés que l'éducation de notre enfance nous fait prendre sur la religion, sont ceux dont nous nous défaisons plus difficilement. Il en reste toujours quelque trace, souvent même après nous en être entièrement éloignés: laissez d'être livrés à nous-mêmes, un ascendant plus fort que nous nous entraîne et nous y fait revenir. Nous changeons de mode et de langage, il est mille choses sur lesquelles, insensiblement, nous nous accoutumons à penser autrement que dans l'enfance. Notre raison se porte volontiers à prendre ces nouvelles formes, mais les idées qu'elle s'est faites sur la religion sont d'une espèce respectable pour elle, rarement ose-t-elle les examiner, et l'impression que ces préjugés ont fait sur l'homme encore enfant ne perit communément qu'avec lui. On ne doit pas s'en étonner, l'importance de la matière que ces préjugés décident et l'exemple de tous les hommes que nous voyons en être réellement persuadés, sont des raisons plus que suffisantes pour les graver dans notre coeur de manière qu'il soit difficile de les effacer.

L'amour propre est de tous les âges, il naît avec nous; à tout âge on espère et l'on craint, on veut se conserver avant de se connoître. Il n'est pas étonnant que des préjugés qui font nos craintes et nos espérances fassent une impression profonde dans un coeur tout neuf, ouvert pour recevoir les premières qu'on voudra lui donner. Agités par l'espérance et la crainte, nous ne sommes pas assez éclairés pour guider ces deux passions, et nous nous en rapportons là-dessus à ceux qui sont plus sages, à qui nous voyons pratiquer les leçons qu'ils nous donnent, et mettre par là le dernier sceau à leur ouvrage. D'ailleurs, quand nous pouvons nous débarasser des chaînes de ces préjugés pour nous livrer à notre raison, l'épaisse obscurité qui nous environne nous fait retourner à ces principes que nous avons quittés. La raison nous en avoit montré le ridicule, mais l'homme veut savoir qui il est et ne veut pas douter. Et dans ce désir déreglé de se connoître, il imagine au lieu de raisonner: les préjugés reviennent, aucune contradiction l'embarrasse, il croit voir la lumière, parce qu'il sort de l'obscurité pour rentrer dans les ténèbres.

De tous les êtres qui existent, aucun n'a un rapport plus intime avec l'homme que l'homme même. S'il veut savoir son origine, c'est lui qu'il doit interroger; il s'est apris qu'il étoit, et lui seul doit apprendre ce qu'il est, sans aller chercher dans des sources étrangères une vérité dont le principe ne sauroit être que dans son coeur. Croyons après cela que tout ce qui regarde notre être sera toujours pour nous une énigme insoluble. La nature nous a donné la faculté de raisonner; raisonner, c'est tirer des conséquences des principes. Mais la nature ne nous a pas instruits des principes. On y a remédié, on en a fait, et pour vouloir pénétrer trop avant on s'est égaré. L'esprit, trop foible pour les idées qu'il vouloit embrasser, n'en a conçu qu'une très petite partie; cependant, il a cru avoir tout vu, et qui pis est il a raisonné en conséquence. De là les contradictions qui se sont rencontrées dans toutes les suppositions que l'on a voulu établir, et de là ces disputes éternelles où chacun est forcé de succomber tour à tour comme si la vérité ne fixoit pas la victoire au parti qui la soutient.

Ne cherchons point à trop savoir, et contentons-nous du peu de lumières que la nature nous a données. N'allons pas plus loin voir l'illusion de tous les systèmes, et en démêler les contradictions. Après cela, du seul principe qui nous soit connu, on n'a qu'à tirer quelques conséquences claires et nettes, et à se former de toutes ces idées une règle pour la conduite morale. Voilà, je crois, tout ce que l'homme peut prétendre. C'est peut-être trop peu pour sa vanité, mais c'est assez pour mettre l'amour propre en repos.

Toutes les religions partent de deux principes, savoir, la distinction de deux substances, l'une matérielle, l'autre spirituelle, et l'existence d'un Dieu. Je commencerai par examiner le premier de ces deux principes.

Quelle idée nous donne-t-on de l'âme? C'est, dit-on, un être qui pense, rien de plus. Le corps est une portion de la matière, et l'assemblage de ces deux êtres forme ce que nous appellons un homme. Ainsi, l'homme réunit en lui la faculté de l'intelligence et les propriétés de la matière comme étendue divisible, susceptible de toutes les formes. Est-ce à dire qu'elle soit bornée à ces seules qualités, parce que ce sont les seules qu'elle nous laisse appercevoir? Tous les jours elle nous découvre des propriétés jusqu'alors inconnues; elle acquiert, pour ainsi dire, de nouvelles qualités, et paroît à nos yeux sous des formes dont nous ne la croyions pas susceptible. L'intelligence répugne-t-elle à l'étendue? Et si nos vues sont bornées, pouvons-nous en faire un titre pour borner ses propriétés?

Il est un axiome convenu, c'est qu'il ne faut pas multiplier les êtres sans nécessité. Si l'on conçoit que les opérations attribuées à l'esprit peuvent être l'ouvrage de la matière agissant par des ressorts inconnus, pourquoi imaginer un être inutile, et qui dès lors ne résout aucune difficulté? Il est aisé de voir que les propriétés de la matière n'excluent point l'intelligence. Mais on n'imagine point comment un être qui n'a d'autres propriétés que l'intelligence pourra en faire usage. En effet, cette substance, qui n'aura aucune analogie à la matière, comment pourra-t-elle l'appercevoir? Pour voir les choses, il faut qu'elles fassent une impression sur nous, qu'il y ait quelque rapport entre elles et nous; or, quel seroit ce rapport? Il ne pourroit venir que de l'intelligence, et c'est supposer ce qui est en question.

D'ailleurs, quelle seroit l'union de ces deux substances? Quel noeud les assembleroit? Comment le corps, averti des sentimens de l'âme, lui communiqueroit-il à son tour les impressions qu'il reçoit? Cependant, ce n'est qu'à l'occasion de ces impressions que l'âme fait usage de son intelligence. Pour que l'âme eût des idées, il devroit suffire qu'il fût des objets perceptibles, et qu'elle fût en état de les appercevoir. Pourquoi donc faut-il qu'elle soit avertie par des organes matérielles de ce qui se présente à la vue?

Qu'est-ce que l'intelligence? C'est, en suivant les notions générales, la faculté de comprendre, c'est appercevoir les choses, et les appercevoir telles qu'elles sont. L'intelligence ainsi définie ne paroît pas susceptible de dégrés, puisqu'elle nous fait précisément appercevoir la vérité, et que la vérité est une. Elle devroit donc être de la même nature dans tous les hommes; pourquoi la voyons-nous si différente? Elle ne devroit pas être sujette à l'erreur; pourquoi errons-nous si souvent?

Nos erreurs viennent surtout d'un rapport que nous voyons entre deux idées, et qui n'y est pas. Par exemple, lors que nous disons cette femme est belle, et que cependant elle est laide, notre erreur vient du rapport que nous voyons entre l'idée de cette femme et l'idée de la béauté. Or ce rapport est une idée, il devroit donc être une opération de l'intelligence. Mais l'intelligence voit les choses telles comme elles sont, elle ne peut apercevoir dans les objets que ce qui est. Cependant, pour avoir vu ce rapport, il faudroit qu'elle eût aperçu, ou dans l'idée de la femme, ou dans celle de la béauté, quelque chose qui n'est point, ce qui ne se peut, parce que dès lors elle cesseroit d'être l'intelligence.

Je sais que l'on peut me répondre que l'âme, unie au corps, il y est gênée et comme dans une prison; que cette gêne est la source de ses erreurs, qui ne proviennent pas d'elle, mais des organes matérielles, et que ces organes matérielles étant différens dans tous les hommes, l'intelligence qui est partout la même en effet, parôit par là aussi différente chez chacun d'eux, que réellement leurs organes respectifs sont différens.

J'ai peine à concevoir comment un être, tel qu'on suppose l'âme, pourroit être susceptible d'ubication et pourroit exister respectivement à telles et telles portions de matière. Je conçois encore moins comment elle pourroit y être gênée, et comment cette gêne la conduiroit à l'erreur. Que l'âme ait une idée fausse, le vice de cette idée doit être ou dans l'objet aperçu ou dans l'âme qui l'aperçoit. Les organes ne peuvent certainement pas mettre ce vice dans l'objet aperçu; il reste donc à examiner s'ils peuvent le mettre dans l'âme. Ils ne pourroient le faire qu'en agissant sur elle. Et quelle seroit cette action? L'action de la matière est le mouvement, et l'impression qu'elle peut faire sur un autre objet, est de lui communiquer ce mouvement. Or l'âme n'est point susceptible de mouvement, et d'ailleurs j'ai déjà prouvé par la définition de l'intelligence qu'elle est incapable d'erreur, et qu'une idée fausse ne sauroit être son ouvrage, puisque dès lors elle cesse d'être intelligence.

Ainsi, en supposant une substance intellectuelle unie à un corps matériel, l'anéantissement de l'intelligence résulteroit de cette union. Il faut donc attribuer à la seule matière les opérations que communément nous attribuons à une substance spirituelle, puisque cette substance en est incapable. Venons à présent à ce qui regarde l'existence d'un Dieu.

J'ai donné, au commencement de ces réflexions, des raisons assez plausibles de l'attachement que l'on avoit pour les préjugés de religion. L'existence d'un Dieu est le plus grand et le plus enraciné de ces préjugés, et je crois avoir découvert sa source. La matière a toujours été présente à nos yeux, et nous avons été toujours trop curieux pour ne pas chercher à la connoître. L'amour propre souffroit trop à nous ignorer nous-mêmes, qui sommes toujours avec nous, et qui par là étions convaincus à tous momens du peu d'étendue de nos lumières, nous nous sommes imaginés un Dieu créateur, principe de toutes choses. Il est bien vrai que nous ne comprenons pas mieux son origine que nous ne comprenons la nôtre. Mais il est plus éloigné de nous, nous ne sommes pas obligés d'être toujours avec lui comme nous sommes avec nous, et la vanité se sauve par là.

Tous les hommes se sont accordés sur le fond de cette idée, parce que le principe en est le même chez tous les hommes. Et comme on n'a rien découvert dans la nature qui lui fût analogue, on a décidé que c'étoit une lumière naturelle, on s'est fait une habitude de croire sans examiner. Cependant, comme si la nature étoit différente chez les hommes, cette idée a varié chez les différentes nations. L'imagination s'est jouée sur cette idée si respectable, sans s'apercevoir qu'elle se jouoit, et chaque peuple a cru être instruit par la nature, lorsqu'il prêtoit à son Dieu les propriétés de la matière, qui étoit toujours sous ses yeux, et les mouvemens de son coeur, qu'il éprouvoit à tout moment.

Examinons l'idée générale que l'on nous a donné de ce Dieu: c'est le maître absolu de toutes choses, c'est lui qu'avec rien a fait le ciel et la terre; un être infini et qui réunit dans un degré infini toutes les perfections, qui a fait les hommes, leur a prescrit des loix et leur a promis des peines et des récompenses.

Quelles contradictions n'implique pas cette idée! Premièrement: quand il seroit vrai qu'il fût Dieu, notre créateur et notre maître, pourquoi nous puniroit-il de l'infraction faite à ses loix? Pourquoi les prescriveroit-il? Si l'observation de ces loix est utile, ce Dieu raisonnable devoit nois donner les moyens de les observer, et nous ôter ceux de les enfreindre; si elle est inutile, ce Dieu juste ne devoit pas les prescrire.

On voit, suivant cette idée, un être sage agir sans motifs. Après avoir, pour ainsi dire, été renfermé en lui-même pendant une éternité, il s'avise d'en sortir, et pourquoi? Pour exercer [*] des ouvrages finis, indignes de lui et qui lui sont inutiles. C'est être <qui est> l'intelligence et la sagesse même ne sait pas ce qui lui est utile, ou ignore que sa puissance ne doit pas éclater en vain. Mais, dira-t-on, c'est pour sa gloire qu'il a fait ses ouvrages. On seroit fort embarrassé de dire ce que seroit la gloire de Dieu par rapport aux hommes; est-ce d'en être estimé, ou de faire éclater sa puissance en créant l'univers? Lui qui eût pu faire ou produire des ouvrages infiniment plus parfaits. Mais je veux pour un moment que ce motif soit valable; il l'auroit donc été de tout temps, la raison pour laquelle Dieu auroit créé l'univers étant aussi ancienne que lui, l'univers devroit être de même date.

Je vais plus avant. Créer, c'est faire qu'un être existe, qui n'existoit pas auparavant; créer la matière c'étoit, pour ainsi dire, la substituer au néant. Pour que Dieu créât la matière, il falloit qu'il la connût, et comment connoître ce qui n'est point? Connoître quelque chose, c'est en apercevoir les propriétés; le néant en a-t-il? Cependant, avant la création Dieu seul existoit, et le néant. Etre est la source de toutes les propriétés, puisqu'il faut être avant d'être quelque chose. La matière, qui n'existoit point, ne pouvoit donc pas être connue, et les idées de Dieu devoient se borner à lui-même, qui seul existoit.

Il est aisé de conclure de ces observations que l'homme ne devant son existence à personne, est indépendant, mais il ne peut subsister seul, et la foiblesse de sa nature l'a obligé de renoncer à cet état d'indépendance. Il a fallu qu'il chercheât d'autres hommes, et qu'il contractât en recevant leur secours l'obligation de leur en donner de réciproques. C'est par cette espèce de trafic de secours que subsiste la société; elle est le fondement des loix qui ne sont toutes que des commentaires particuliers sur ce principe général. L'observation des loix dépend donc de ce seul principe, qu'il faut tenir les engagemens que l'on a contractés, et ce principe a sa source dans notre coeur: l'amour propre ne nous permet de tromper personne, il sent une honte secrette à manquer, c'est s'abaisser au dessous de celui qu'on trompe. En raisonnant sur ces principes, on verra que l'amour propre est toujours honnête homme quand il veut s'écouter.

Ce n'est pas que cette morale ne fût dangereuse en général, elle n'est bonne à prêcher qu'aux honnêtes gens, et le peuple ne seroit pas arrêté par ce sentiment délicat d'amour propre. Mais est-ce la faute de la morale?





 

 

Essais sur la recherche de la vérité

[Anonymous]



Critical edition by Sergio Landucci

For a full account of manuscript sources, see the printed edition: Studi Settecenteschi, 6, 1984, pp. 23-82. Electronic version by Gianluca Mori.

Sergio Landucci © 1984-1996


Préface

Tous les hommes ont une pente naturelle qui les porte à la recherche de la vérité. Mais ils ont peu de moyens pour y parvenir, et à peine même connoissent­ils pour tels ceux qu'ils ont. L'homme naît ignorant et privé de toutes connaissances. Il n'a, pour en acquérir, que ses sens. Aussi ce sont eux qu'il consulte d'abord, et qu'il croit aveuglément. Par cette sorte d'étude, et par l'examen qu'il en fait, il pénètre un peu plus avant qu'il n'avoit fait par la première appréhension. Mais, si par ce moyen il découvre quelques vérités, ce n'est que très imparfaitement, et il y en a une infinité qui luy échapent, de façon qu'il ne retire de cette recherche qu'un essai de vérités qui luy en donne seulement le goût et le désir, sans pouvoir, à beaucoup près, se rassasier. C'est ce qui engage l'homme à faire ses efforts pour pousser ses connaissances plus loin. Il sent que dans toutes ses recherches il n'a de satisfaction qu'à proportion qu'il approche de la vérité, parce que ce n'est qu'à ce point fixe et invariable qu'il est tranquile, reconnaissant que jusques­là il n'a été que d'erreurs en erreurs. Ainsi, donc, plus il trouvera de vérités, plus il sera content, perdant insensiblement cette habitude humiliante où il étoit de se tromper sur tout.

Mais, dans le choix des vérités, il en est d'infiniment plus intéressantes les unes que les autres. Ce sont donc celles­là qui méritent nos premiers soins; et, comme ce sont aussi celles qui sont les plus cachées, nous devons faire tous nos efforts pour les découvrir. Il s'agit d'examiner d'abord quelles elles sont, et les degrés d'intérest que nous y devons prendre. La connoissance de la Divinité est ce qui semble nous frapper d'abord; mais j'ose avancer que, si cette idée se présente à nous comme la première, c'est que l'habitude et l'éducation nous y ont si fort accoutumés qu'elle nous est devenue comme naturelle; et il me semble que celle qui devroit s'offrir la première, et qui est la plus à notre portée, est celle de l'examen de notre nature; car il est vraisemblable que nous devons commencer par tâcher à nous connoître, cette recherche étant plus proche de nous, plus facile, plus intéressante, et pouvant plus aisément et plus sûrement nous conduire aux autres.

Voici donc le plan que je crois que l'homme doit se proposer, et l'ordre qu'il doit suivre dans la recherche des vérités. Comme ses pensées sont le motif de ses actions, il commencera par examiner sa volonté, ses désirs, ses passions, et tâchera de découvrir s'il est maître absolu de penser et de vouloir sans consulter autre chose que luy-même. En second lieu, il examinera la nature de son âme; il en jugera par ses usages, ses propriétés, ses vices, ses actions, enfin par tout ce qui pourra luy tomber sous les sens. Après s'être rendu compte à luy-même de son essence aussi parfaitement qu'il luy aura été possible, il continuera sa recherche dans ce qui est hors de soy; et, comme l'inspection de l'univers est ce qui le frappe le plus sensiblement, il en examinera avec soin l'ordre et l'harmonie, il tâchera d'en découvrir les causes et de pénétrer le dessein de l'Auteur. Alors, suivant ce qu'il aura reconnu, il se portera à la connaissance du premier; il jugera de sa providence par ses desseins, de sa puissance par ses moyens, enfin de sa nature par son ouvrage. C'est ainsi qu'il parviendra à le connaître autant qu'il nous est possible de connoître quelque chose de si éloigné de nous et de si peu proportionné à toutes nos facultés.

Voilà l'ordre que je me suis proposé dans cette recherche, comme celuy qui nous peut guider le plus sûrement; puisque nous commençons par les vérités les plus proches de nous et les plus à notre portée, et que ce n'est que par elles, et comme par degrés, que nous nous élevons à celles qui sont par elles­mêmes trop au­dessus de nous. Si je suis assés heureux dans mes recherches pour découvrir les premières vérités, j'en saisiray avec ardeur toutes les conséquences, persuadé que la vérité est une et qu'elle ne peut jamais conduire dans l'erreur. Je n'ai pas besoin de dire ici qu'il faut rejetter la crainte, les préjugés, les passions, et tout ce qui pourroit nous voiler la vérité. C'est mon premier principe, étant convaincu qu'on ne peut s'égarer tant qu'on n'aura que la vérité pour but, et qu'on ne peut manquer de la reconnoître pour telle dès qu'on l'a une fois découverte.

J'ay donc divisé ce petit traitté en quatre parties, ou chapitres. Dans les deux premiers, j'examineray ce qui concerne la nature humaine, quelle est sa volonté, libre ou déterminée, et l'essence de son âme; dans les deux autres, je sortiray de l'homme, et, commençant par l'examen de l'univers, que nous jugeons être le plus parfait ouvrage de la Divinité, je finiray par les idées que mon examen m'aura données du souverain Estre.


Chapitre premier

Du libre arbitre

Cette question a été si souvent agitée, et par de si habiles gens qu'il semble qu'il ne reste plus rien à dire sur cette matière. Cependant, comme ce que nous avons de plus recherché sur ce point a pour auteurs des théologiens qui, regardant cette proposition seulement comme accessoire à leur sistème, ne l'ont traitée que conformément a leurs idées et n'ont soutenu le pour et le contre qu'autant qu'il pouvoit aider ou nuire à leurs opinions, il nous reste à la traiter en philosophes et, en connaissant toute l'importance, à la considérer par elle­même et comme notre unique objet; puisque, outre que c'est celle que nous avons établie pour la baze de toutes les vérités que nous cherchons, on peut encore assurer avec vérité que c'est, de toutes les questions de philosophie, celle dont on peut tirer le plus de conséquences, et les plus essentielles pour la conduite de la vie.

La première idée qui se présente à l'homme, lorsqu'il se consulte luy­même sur la liberté de sa volonté, est de croire qu'il est le maître absolu de penser ce qu'il veut. C'est, dit­il, ma seule volonté qui engage mon âme à s'appliquer aux objets qu'elle luy présente; c'est elle qui par ce moyen détermine toutes mes actions, et force mon corps de suivre les impressions de l'âme et d'exécuter tout ce qui me plaît. Ces considérations suffisent à plusieurs personnes qui, sans pousser les choses plus avant, se tiennent fortement attachées à l'idée de liberté, qui est si flatteuse et s'accommode si parfaitement avec l'amour propre naturel à tous les hommes. D'autres, à qui ces raisons ne paroissent pas assés fortes, sont déterminées par le motif de la religion, qui est absolument décisive sur ce point; quoique les subtilités de l'Ecole l'ayent amenée au point de ne pas s'opposer directement au sentiment contraire, et qu'on ait trouvé le moyen de faire croire qu'elle n'est point intéressée dans cette question et qu'elle se peut accommoder avec l'une et l'autre manière de penser. Examinons en peu de mots ces moyens de conciliation, et voyons si cette question ne nous donnera pas des éclaircissements importants sur la religion.

Il n'y a point de milieu; il faut, de deux choses, l'une: ou que nous ayons notre libre arbitre et que nous soyons maîtres absolus de nos volontés, de nos pensées et de nos actions, ou que nous soyons forcés et contraints par quelque agent indépendant de nous à ne vouloir et n'exécuter que ce qu'il ordonne. Toutes les modifications qu'on peut imaginer dans cette alternative sont autant de défaites frivoles, qui n'ont pour fondement que des termes obscurs et des raisonnements captieux, qui portent un voile impénétrable sur la question du monde la plus claire en elle­même. Car, de dire, par exemple, que Dieu nous laisse les maîtres de nos actions et que nous pouvons par notre propre volonté nous déterminer à faire usage de sa Grâce et, de suffisante qu'elle est, la rendre efficace, ou la rejetter et nous opposer à ses effects, quoiqu'en nous la donnant il ait bien prévu l'usage que nous en ferions, c'est, de toutes les contrariétés, la plus absurde; puisque, en avouant que Dieu a prévu l'usage que nous en ferions, il faut en même tems avouer ou que cette prévision de Dieu est un ordre irrévocable, qui alors ne laisse plus à l'homme la liberté de recevoir ou de rejetter la Grâce, ou que Dieu attend la décision de l'homme et qu'il se soit déterminé sur l'usage qu'il veut faire de la Grâce, avant que de prévoir ce qui en arrivera. Il est bien vrai que par cette défaite on a changé les termes de la question; mais elle reste toujours la même. Car présentement il s'agira de sçavoir si cette prévision de Dieu, qui est un attribut qu'on ne luy peut pas nier, est un ordre irrévocable, ou si la volonté de l'homme la peut faire changer selon le bon ou le mauvais usage qu'il fera de la Grâce; ce qui est précisément la même chose que la première question, si ce n'est qu'elle est un peu moins claire qu'elle n'étoit et qu'à la faveur de ces obscurités on peut établir de faux principes, desquels on tire dans la suite des conséquences éblouissantes et favorables au parti qu'on avoit embrassé avant que d'avoir consulté aucun raisonnement, mais seulement des principes qu'on s'est formés ou des intérests particuliers.

Revenons donc à notre alternative, qu'on peut regarder comme un de ces axiomes incontestables; et, puisque nous ne pouvons tirer de la religion aucuns éclaircissements sur cette matière, examinons­la par elle­même, et voyons si elle ne nous pourroit pas donner des lumières sur la liberté; car nous nous sommes proposé de tout sacrifier à la vérité sitôt que nous la connoîtrions. Or, on ne peut nier que ce ne soit une vérité qui n'a besoin d'aucune preuve, que de dire que l'homme a son libre arbitre ou qu'il ne l'a point: l'un ou l'autre est certain. Voyons donc quelles conséquences suivent nécessairement de l'un ou de l'autre, et servons­nous­en pour nous déterminer en faveur de celuy, de ces deux sentiments, dont nous les jugerons plus conformes à la vérité.

Si la volonté de l'homme est libre et dépend de luy uniquement il s'ensuit nécessairement qu'il devient le maître de déterminer les actions de Dieu, et l'on peut dire que cette expression n'est point trop forte. Car, en suposant un Dieu qui possède éminament toutes les perfections, un de ses principaux attributs est sans doute une justice infinie, qui doit punir ou récompenser et rendre à chacun selon ses oeuvres, comme toutes les religions l'enseignent et comme Jésus­Christ le dit luy­même en plusieurs endroits de l'Evangile. C'est donc cette justice parfaite qui laisse à l'homme la liberté de déterminer ses volontés en maître absolu, pour pouvoir mériter les récompenses ou les peines éternelles. Mais, en établissant la justice de Dieu, nous ruinons sans y faire attention son immutabilité, attribut qui luy est aussi essentiel que la justice et l'éternité, et nous n'en faisons plus, pour ainsi dire, qu'une machine mobile et variable à chaque événement, puisque sa décision sur mon sort attend l'usage que je feray de sa Grâce et que je pois chaque jour de ma vie le faire changer de résolution par mes pénitences ou par mes crimes. Ce sentiment n'offense pas moins la prévision de Dieu que son immutabilité, car il faut aussi luy refuser cet attribut, qui nous oteroit encore la liberté de nos volontes; pu¦sque, Dieu étant incapable de se tromper, s'il avoit prévu 1'usage que je ferois de sa Grâce, cette prévision deviendroit un ordre irrévocable, que je ne pourrois plus faire changer, et par conséquent je ne serois plus le maître de mes volontés, puisqu'il faudroit toujours en revenir à ce que Dieu auroit prévu, et cette contrainte s'étendroit sur toutes les volontés et les actions de ma vie, car elles doivent toutes avoir été également prévues de Dieu, sans quoy je mettrois des bornes a sa prévision et je détruirois son immutabilité.

Il est certain par ce raisonnement, dont les conséquences sont incontestables, que le sentiment de liberté est incompatible avec l'idée que toutes les religions nous ordonnent d'avoir de Dieu, et même avec celle que pourroit se former un déiste, puisqu'elle le prive nécessairement de ses deux principaux attributs et qu'elle en fait un muable, irrésolu et aveugle, qui attend les volontés de l'homme, sa créature, pour se déterminer à agir conformément à ses mérites, en le récompensant ou le punissant éternellement.

Il s'agit maintenant de voir si le sentiment opposé s'accorde mieux avec l'idée que la religion nous donne de la Divinité, ou avec quelqu'autre que nous puissions raisonnablement nous en former.

S'il est vrai que Dieu ait prévu de toute éternité ce qui a dû arriver dans la suite des tems, on peut dire aussi que c'est luy qui l'a ordonné; car nul autre que luy ne pouvoit faire cette disposition, et il n'est pas vraisemblable qu'il eut laissé agir le hazard dans l'ordre des événements et qu'il se soit contenté de les prévoir. Ainsi, on doit regarder la prévision de Dieu comme étant la même chose que les décrets de sa providence, et par conséquent il faut convenir qu'il est auteur et créateur de tout ce qui arrive dans le monde. Ce sentiment est sans doute plus conforme à la raison que celuy de la liberté, et donne une plus grande idée de la Divinité; mais on aura bien de la peine à le faire accorder avec quelque religion que ce soit. Car qui dit religion dit un culte que nous rendons à la Divinité, non seulement pour la louer et la glorifier, mais encore pour la prier, la fléchir et en obtenir le pardon de nos fautes ou l'augmentation de ses grâces; mais ces derniers motifs sont absolument inutiles, s'il est vrai que Dieu soit immuable et que de toute éternité il ait décidé le sort de chaque homme, étant luy­même auteur de ses crimes et de son endurcissement ou de son repentir. Or, il est certain que, si les hommes n'avoient point d'autres motifs dans leur religion que celuy de louer ou de glorifier Dieu, il leur resteroit bien peu d'attachement pour la religion, ou, pour mieux dire, il n'y en auroit aucune dans le monde, puisqu'il suffiroit que chacun attendit tranquillement les ordres de la Providence sur son sort, sans faire d'inutiles efforts pour mériter de nouvelles récompenses et sans craindre de nouveaux tourments.

Mais on m'objectera que c'est Dieu luy­même qui a établi le culte, qu'il l'a changé et perfectionné, qu'il a ordonné la prière, qu'il a même donné des exemples de sa miséricorde et par conséquent de l'effect que font sur luy les prières et les bonnes oeuvres. J'avoue que telle est la religion chrétienne et qu'elle nous offre ces exemples comme des oracles surs et incontestables; mais, quand même la vérité en seroit aussi incontestable et aussi évidente qu'elle le peut être dans un événement historique, cela n'empêcheroit pas qu'on ne dut comparer cette évidence avec celle qui résulte du principe que nous avons avancé. Il est bon de le remettre un moment sous les yeux. Nous avons établi comme un principe certain et incontestable le dilemme: l'homme a son libre arbitre ou il ne l'a point. Nous avons démontré que le premier sentiment est également contraire à la religion et au bor sens. Nous trouvons à la vérité que le second est aussi contraire a la religion; mais nous ne sçavons point encore s'il est contraire à la raison. Cela étant, si nous pouvons démontrer que ce dernier sentiment est conforme à l'idée la plus simple et la plus raisonnable que nous puissions nous former de la nature des choses, il faudra nécessairement conclure que la faute en est à la religion, puisqu'elle est absolument et également incompatible avec l'une et l'autre façon de penser, dont on ne peut pourtant pas nier qu'il y en ait une de vraye.

C'est ici qu'il se faut examiner soy­même bien sérieusement, et se dégager entièrement de tous les préjugés, qui ne sont que trop enracinés en nous par le soin continnel que nous prenons de nous tromper nous­mêmes dans tout ce qui regarde notre propre nature. Nous sommes éblouis par des façons de parler qui, par la longue habitude, sont devenues des façons de penser, que nous appellons naturelles, que nous croyons innées et formées en nous par l'Être supreme. Nous disons à tout moment, et nous croyons avec certitude ne nous point tromper:-ne suis­je pas le maître de penser ce qu'il me plait? Qui m'en empêchera? Qui me détournera des idées que je cherche avec empressement? Qui me présentera celles que je veux éviter? Ma volonté n'est­elle pas libre, indépendante? Qui, hors moy, pourroit en disposer?-. Ce sont là ces idées trompeuses qui nous flattent dans la prospérité, qui nous consolent dans l'adversité, mais qui n'ont de fondement que dans notre imagination. Cette liberté nous touche même au point que, non contents de l'avantage que nous comptons en retirer, nous nous prévalons encore de ce que nous nous en croyons seuls possesseurs et de ce que les autres animaux, à ce qui nous semble, se conduisent par des motifs dont nous découvrons la mécanique, au lieu que c'est à nous seuls qu'est réservé l'avantage d'exercer notre volonté souverainement et indépendament de tous motifs étrangers.

Voilà quelles sont ces idées naturelles auxquelles nous croyons que c'est un crime de résister; et, bien loin de chercher à nous affermir par le raisonnement si elles sont vraies, nous les jugeons au­dessus de la raison, et nous croyons être dans une erreur grossière et criminelle s'il se présente quelque chose qui puisse nous faire douter un moment de leur vérité. Cependant il me semble que, par l'attachement même que nous avons pour elles, nous devrions tâcher de nous en convaincre par leur propre vérité; puisqu'elle n'en sera que plus incontestable, si nous ajoutons, à ce que nous appellons la voix de la nature, des preuves sûres et conséquentes de quelque principe dont on puisse démontrer la vérité. Ainsi nous devons travailler à examiner ces idées, pour nous y conformer, si elles sont vrayes, ou tâcher de les effacer, si elles n'ont d'autre fondement qu'une habitude formée dès l'enfance. N'écoutons donc plus ces idées innées ny ces témolgnages intérieurs, et éloignons­nous, pour ainsi dire, de nous­mêmes, pour nous découvrir plus parfaitement jusque dans nos démarches qui paroissent les plus simples; et commençons par définir exactement ce que nous entendons par le mot de volonté.

Nous ne pouvons disconvenir que, lorsque nous pensons à prendre une résolution et que nous formons cet acte de l'âme que nous appellons volonté, nous n'y soyons excités par quelque motif, soit qu'il vienne de nous ou qu'il soit occasionné par quelques circonstances étrangères et indépendantes de nous. Il faut pourtant avouer que sur plusieurs événements nous nous trouvons en état de pouvoir faire choix d'un parti, entre plusieurs qui se présentent et qui sont souvent si parells, pour les suites qu'ils doivent avoir naturellement, qu'il nous semble que nous sommes absolument maîtres de choisir celuy que nous voudrons. Nous en prenons un, enfin, ne pouvant rester plus longtems dans l'incertitude, et nous nous déterminons par celuy que nous croyons le meilleur. Mais peut­on nommer cette décision l'acte d'une volonté libre? Peut­on dire que, sans égards pour quelque motif que ce soit, nous avons fait ce choix en souverains maîtres? ou plustôt n'est­ce point quelque idée d'avantage ou de plaisir qui nous a fait pencher de ce côté, ou même ne serions­nous pas, sans y penser, esclaves volonta¦res d une pass¦on tirannique qui nous conduit avec d'autant plus de sûreté que nous croyons n'obéir qu'à notre raison?

Qu'on ne m'objecte point que c'est avilir la nature humaine, que la contraindre ainsi dans toutes ses volontés et ses actions; car il est évident que c'est bien plus l'humilier, que de penser que l'homme se conduit aveuglément et sans consulter la raison ny les bienséances et que toutes ses actions ne sont, pour ainsi dire, qu'autant de témoignages de sa liberté, étant, lorsqu'il le veut, insensible à la raison et à la justice, sans avoir d'ailleurs aucun motif à y opposer. Cette idée me paroit absolument monstrueuse, et feroit de l'homme le plus déraisonnable de tous les etres, puisque ce seroit le mettre au­dessous des animaux, à qui on ne voit rien faire sans quelque motif, souvent très raisonnable et toujours conforme à leurs besoins.

Mais il est inutile de s'étendre sur les ridicules conséquences de ce principe. Il vaut mieux en démontrer l'impossibilité et la fausseté; et, pour cela, je ne veux que le témoignage de ce qui se passe en nous, mais poussé plus loin qu'on a coutume de le faire. Lors, par exemple, que nous avons pris un parti dans une affaire sur laquelle nous avons été quelque tems à délibérer, rendons­nous compte à nous-mêmes des raisons qui nous ont déterminés, et ensuite examinons ces raisons. Nous trouverons qu'elles étoient plus fortes que celles de tous les autres partis qu'on pouvoit prendre; ou, si nous découvrons que nous avons fait un mauvais choix, nous reconnoîtrons en même tems que nous ne sommes tombés dans l'erreur que parce que les raisons qui auroient du nous déterminer d'un autre côté nous ont paru les plus foibles, soit parce que nous ne les connaissions pas toutes soit parce que nous étions alors offusqués de passions ou d'intérests qui nous ont empêchés d'en sentir toute la force. Souvent même, après être sortis de notre erreur, nous sommes étonnés d'avoir été trompés par de si fausses apparences et des pièges aussi grossiers; et peut­être, alors que nous faisons ces réflexions, nous nous trompons encore et nous n'avons fait que changer d'erreur; peut­être trouverons­nous, après nous être détrompés, que la seconde est encore plus grossière que la première.

Voilà cependant de ces occasions où semble triompher notre liberté, où nous croyons ne nous déterminer que par nous­mêmes, et que nous saisissons avec empressement, parce qu'elles flattent notre orgueil et que, du premier abord, elles nous présentent une idée de liberté. Mais, si nous cherchons sincèrement la vérité et que nous voulons réellement nous instruire, sans égard pour de fausses idées qui nous trompent au point de nous faire souhaiter et rechercher par toutes sortes de mauvaises raisons ce que nous refuserions, s'il étoit en notre pouvoir de nous le procurer et que nous en connussions tous les inconvénients aussi parfaitement que nous croyons en voir les avantages; si, dis­je, nous nous examinons sérieusement, nous ne pourrons nous dispenser d'avouer que ces occasions, où il semble que notre liberté paroît si visiblement, sont très rares, en comparaison de toutes celles où nous nous sentons entrainés, et quelquefois forcés malgré nous, à agir suivant les circonstances qui nous environnent ou selon nos propres passions. Car, sans parler de ces passions impétuenses, comme la colère, l'amour, l'yvresse, qui nous jettent dans des égarements dont nous avons honte lorsqu'un état plus tranquille et plus raisonnable leur a succédé, pouvons­nous nier que, dans nos actions ordinaires, des passions plus donces n'agissent en nous? Et, si leurs effects sont plus simples, c'est que les causes sont plus foibles. Et ne voyons-nous pas que toutes nos actions sont proportionnées à la force et à la différence de nos tempéraments, de nos habitudes, de nos préjugés? Et surtout pouvons­nous ne pas avouer que, lorsque nos passions sont assoupies et que nous semblons n'agir que conformément à la raison, l'objet qui nous mène est l'idée et le désir du bonheur, et que nous ne cherchons ou n'évitons les choses qu'autant que nous en craignons ou que nous en espérons des peines ou des plaisirs?

C'est là la source de nos errcurs; et, par une fatalité qu'on ne sçauroit trop déplorer, cette recherche du bonheur nous trompe presque toujours, et, aveuglés que nous sommes par le désir d'être heureux, nous n'envisageons les choses qui nous manquent que par leur beau côté. Aussi, dès que nous les possédons, nous reconnaissons presque toujours que nous nous sommes trompés, et que trop d'empressement nous a caché les défauts de ce qui nous paroissoit si désirable. Il est certain que, si notre volonté étoit libre, elle ne tendroit qu'à découvrir la vérité, et que, sans nous flatter, nous examinerions en toutes choses ce qui est réellement plus ou moins avantageux; mais que nous sommes éloignés de cet état, et combien s'en faut­il que nous n'approchions de cette juste estimation des choses qui en détermine infailliblement le prix et qui seule est capable de nous en donner des idées conformes à la vérité!

Nous avons dans la géométrie un exemple de ces vérités essentielles et infaillibles; et, par le plaisir que nous y trouvons, nous pouvons juger quels efforts nous ferions pour trouver sur tout le reste de pareilles vérités, si nous étions libres et qu'il nous fût possible de les rechercher à travers ce nuage de passions et d'habitudes dont nous sommes environnés et aveuglés au point que, dans toutes les actions qui nous intéressent, nous n'avons point d'autres guides que ces fantômes, quoique nous ayons éprouvé mille fois qu'ils nous trompent toujours. Ce n'est que dans les choses absolument détachées de tous nos intérests et de toutes nos passions que nous découvrons la vérité; et elle ne manque pas de nous échaper sitôt que nous voulons les raporter à nos intérests. Nos erreurs reviennent dans le moment; et ce n'est plus la vérité que nous cherchons, c'est notre avantage, c'est notre bonheur; enfin, nous nous retrouvons trompés misérablement; et, si nous voulons remonter à la scurce de notre erreur, nous trouverons que nous y sommes entrés dès que nous avons cessé d'avoir pour but unique la recherche de la vérité ou que nous voulons accorder avec elle des choses qui ne nous ont paru en aprocher que parce qu'elles flattoient nos désirs.

Qu'il me soit permis de reprendre ce que je disois il n'y a qu'un moment, qu'une des preuves contre notre liberté est que nous ne recherchons presque jamais sincèrement la vérité, qui sans doute est l'objet le plus souhaitable que nous puissions imaginer et le seul capable de nous rendre heureux en remplissant tous nos désirs. Car, s'il est vray, comme tous les géomètres ne sçauroient en disconvenir, qu'on ressente un plaisir sensible à la démonstration des vérités aussi indifférentes que le sont les raports et les mesures des lignes et des courbes, etc., à combien plus forte raison devrions­nous être touchés de la recherche des vérités qui nous intéresseroient particulièrement, si nous n'étions empêchés de les connoître, et même de les souhaiter, par nos passions? Or, si cet obstacle est réel et insurmontable, comme nous l'éprouvons à tous moments, pouvons­nous dire autre chose sinon que nous sommes conduits dans toutes nos volontés par ce que nous jugeons propre soit à flatter nos désirs soit à nous procurer quelque avantage?

Voilà en général ce que l'on peut dire sur le motif de notre volonté, qui, comme nous voyons, est touiours déterminée par nos préjugés, nos passions, nos intérests et nos habitudes. Il ne faut plus qu'un moment de réflexion, pour nous convaincre que ces motifs de notre volonté nous sont absolument étrangers et ne dépendent de nous en aucune façon. Notre tempérament et nos habitudes forment en nous un penchant plus ou moins violent pour telles ou telles passions. Ces passions déterminent nos intérests et nous font regarder comme avantageux et désirable ce qui les flatte en quelque manière, sans qu'il soit en nous de pouvoir examiner si nous ne sommes point trompés par des apparences spécieuses. Enfin, nos préjugés sont le dernier et le plus trompeur de tous les fondements sur lesquels nous établissons nos désirs. Pour avoir une idée de la façon dont ils nous font tomber dans l'erreur, il suffit de considérer combien de différents effects font les mêmes objets presque sur tous les hommes, et que l'un a souvent de l'horreur pour ce qui est indifférent, ou quelquefois même fait plaisir, à un autre. L'objet est cependant le même, pour l'un et pour l'autre; et devroit produire en eux le même effect, si des préjugés trompeurs ne fascinoient les yeux de l'un et de l'autre jusqu'à faire trouver à l'un des appas dans ce qui est odieux à l'autre. Pouvons­nous dire que ces préjugés dépendent de nous, et ne sont­ce pas ceux qui sont chargés de notre éducation et ceux qui nous environnent dans un âge où nous sommes susceptibles de toutes sortes d'impressions, qui les forment en nous? Et, lorsqu'une fois ils y sont établis, nos sens n'appercoivent plus que par eux. Ce sont eux qui, comme autant de verres trompeurs, changent à nos yeux tous les objets et nous les présentent sous des formes toutes différentes de ce qu'ils sont en effect. Voilà la véritable source de nos erreurs, voilà ce qui nous fait désirer avec tant d'ardeur des choses que nous croyons avantageuses et que nous méprisons dès que la possession nous a fait connoître leur juste prix.

Je ne crois pas que personne puisse disconvenir de ces obstacles à leur liberté. Cependant ce n'est pas encore tout. Nous avons seulement fait voir l'esclavage de notre volonté; et nous serions encore plus humiliés, si nous faisions attention que les circonstances où le hazard nous met décident encore plus souverainement de nos actions. Car il est certain que nous n'osons, sans blesser la raison, former des projets éloignés, à un certain point, de l'état où le sort nous a mis, de l'âge que nous avons, du lieu où nous sommes, des gens avec qui nous vivons, de la fortune à laquelle nous sommes accoutumés. Enfin, nous croyons suivre notre volonté et nous conformer à la raison, lorsque nous ne nous proposons que des idées convenables à toutes ces circonstances; et nous ne songeons pas que ce sont ces mêmes circonstances, absolument indépendantes de nous, qui déterminent nos pensées, nos projets, nos actions. Nous refusons de connoître et de sentir cet enchaînement, cet ordre, cette liaison nécessaire dans tous les événements, qui les rend tous dépendants les uns des autres et les fait arriver successivement dans un ordre précis et infaillible, qui ne dépend point de nous, mais d'un principe fixe et immuable. C'est cette nécessité inflexible, et qu'on peut appeller esclave d'elle­même, qui conduit nos actions, qui forme nos volontés, et qui, produisant en nous les dispositions qui nous font penser d'une façon ou d'autre, nous fait agir conformément à ce que nous avons cru vouloir librement et de notre propre mouvement. C'est elle qui forme le tempérament qui produit nos passions, les habitudes qui causent nos préjugés, et surtout le désir ardent d'une félicité imaginaire, qui, joint aux deux premiers motifs, est la cause nécessaire de nos volontés et de nos actions

Je crois la vérité de ce raisonnement si sensible qu'elle n'a pas besoin de preuves plus détaillées et qu'on le peut regarder comme un principe sur, qui pourra peut­être nous conduire à d'autres vérités aussi importantes. Suivons donc le plan que nous nous sommes proposé, et examinons avec la même sincérité la nature de notre âme. C'est elle sur qui nos volontés agissent, et qui, conformément aux impressions qu'elle recoit, agit sur notre corps et détermine nos actions. Cet examen achèvera de nous découvrir l'homme et nous le fera connoître tout entier. C'est à quoy nous allons travailler dans le chapitre suivant.


Chapitre second

De l'âme

La connaissance de la nature de notre âme est sans doute celle qui nous doit intéresser le plus particulièrement. Tous les philosophes en ont parlé différament, et l'on n'auroit jamais fait si l'on vouloit entreprendre de raporter toutes leurs opinions. Il leur eut été honteux d'avouer leur ignorance sur cette matière; il falloit des définitions à ceux qu'ils enseignoient. C'est ce qui a produit ce chaos d'idées différentes que chacun soutenoit par toutes les raisons que pouvoit suggérer l'obstination et l'amour propre; si toutesfois on peut appeller raison, en matière de philosophie, tout ce qui s'est dit sur l'âme, car on est toujours convenu des mêmes faits et les sentiments n'ont différé que par les conséquences que chacun en a tirées.

On a voulu même séparer absolument notre âme de celle des autres animaux, et plusieurs sont convenus que les bestes sont des automates que des ressorts matériels font mouvoir, et dont ces mêmes ressorts causent les actions, les désirs, la crainte et toutes les passions. Mais, lorsqu'ils ont voulu raporter à ces mêmes principes les opérations de l'âme de l'homme, ils ont trouvé pour obstacle une objection reçue comme un axiome incontestable et qui n'avoit besoin d'aucune preuve. Ce principe si certain est que la matière ne peut penser. Un sentiment si universellement reçu les a arrestés et les a déterminés à nier toute espèce de conformité entre notre âme et celle des betes. Quelques­uns, ayant examiné attentivement les actions des animaux, y ont trouvé tant de raports avec les nôtres qu'ils n'ont point hésité d'assurer qu'ils avoient une âme immortelle, immatérielle et de même nature que la nôtre, et que, si ces opérations n'étoient pas aussi parfaites, ce défaut ne venoit que de la grossiereté de leurs organes. La religion nous ordonne sur cette matière un sentiment encore différent de ceux­là; mais on ne peut s'empêcher d'y trouver de l'injustice. Car, quoiqu'il paroisse une différence bien considérable entre les opérations de l'âme des bestes et celles de l'âme humaine, peut­être n'y en a­t­il que très peu, et nous ne pouvons être assurés de celle qui y est par l'impossibilité où nous sommes de nous communiquer avec elles; mais, quand même nous la suposerions au point où nous la croyons, pouvons­nous raisonnablement conclure que la nôtre est immatérielle et une portion de la Divinité, et que la leur est matérielle et de même nature que leur corps, n'ayant d'autres raisons de porter un tel jugement sinon parce que nous avons une faculté que nous appellons pensée et que nous ignorons si les autres animaux en sont doués? Car, pour tous les mouvements du corps et les autres actions extérieures, nous les trouvons en eux comme en nous.

Pour entrer en quelque éclaircissement sur cette matière, tâchons de donner une deffinition exacte de ce que nous appellons pensée, et nous verrons s'il est possible qu'il se trouve dans les animaux des facultés qui produisent le même effect.

Nous ne pensons que sur ce que nous avons connu par les sens: nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu. Le raport des sens est donc le premier fondement de nos pensées. Ce raport actuel ne pourroit nous faire penser qu'à l'objet présent, s'il ne nous restoit un souvenir des choses que nous avons connues, qu'on appelle mémoire, et qui est le second principe de nos pensées. En troisième lieu, la comparaison et, pour ainsi dire, le raprochement des choses passées avec l'objet présent forment ce que l'on appelle le jugement, qui suit nécessairement des deux premières sensations et qui est le principe le plus prochain et le plus ordinaire de toutes nos pensées. Je crois qu'on ne peut disconvenir que ce ne soit là une analise exacte de la pensée. Je la regarde donc comme le résultat de ces trois sensations: raport des sens, mémoire et jugement. Qu'on ne me dise point qu'il y a des pensées naturelles et innées. Ce sentiment n'a presque plus de partisans; et, si l'on veut s'en convaincre par soy­même, il suffit d'examiner avec attention les pensées qui paroissent neuves: on trouvera qu'elles n'en ont que l'apparence et qu'elles n'ont cet air de nouveauté que parce qu'elles sont composées de l'assemblage de plusieurs choses qu'on a scues en divers tems et en divers lieux.

Tenons­nous donc à la définition que nous avons donnée de la pensée, et nous allons voir que ces trois sensations qui la composent se trouvent aussi parfaitement dans les animaux que dans l'homme. Premièrement, nous ne pouvons disconvenir qu'ils n'ayent le raport des sens, et plusieurs même plus parfaitement que nous: l'odorat du chien, la vue de l'algle et l'ouie de la taupe sont assurément formés par des organes plus parfaits que les nôtres; ainsi nous n'avons dans ce premier principe aucun avantage sur eux. En second lieu, nous voyons dans presque tous les animaux des effects de mémoire surprenants et qui les rendent capables d'être disciplinés par les hommes, malgré la prodigieuse différence qu'il y a entre leurs habitudes et les nôtres. Enfin, peut­on ne pas reconnoître en eux un jugement, lorsqu'un chien, ayant été battu pour une faute qu'il a faite à la chasse, s'en corrige et n'y retombe plus? Car la seule mémoire des coups qu'il a reçus ne suffiroit pas, s'il ne faisoit en même tems ce raisonnement: -j'ay été battu pour telle action, je le seray encore si je la fais une seconde fois-. Je ne parle point d'une infinité d'autres actions d'animaux qui dénotent un jugement sûr, car cet exemple, tout simple qu'il est, suffit pour nous convaincre qu'ils ont un jugement et un raisonnement pareil au nôtre. Ces trois fondements de la pensée existant chés eux comme chés les hommes, quelle injustice n'y a­t­il point, de vouloir qu en eux l'effect qui en résulte soit différent de celuy qui en résulte en nous, ou, pour mieux dire, que ces principes, étant les mêmes dans les uns et dans les autres, ne forment rien en eux et en nous forment la pensée et la raison, sur lesquelles nous établissons l'empire que nous nous sommes imaginé avoir sur les autres animaux!

Mais, me dira­t­on, si les facultés de leur âme sont si pareilles à celles de la nôtre, comment se peut­il faire que nous ne puissions en aucune manière les entendre ny communiquer avec eux? Je répond que je trouve la même difficulté de communiquer avec quelqu'un dont je ne connois pas la langue; et que, si nous n'avions des moyens fixes et généraux pour tous les hommes, comme sont les besoins de la vie qui sont communs à tout le geure humain, nous serions dans l'impossibilité de parvenir à nous entendre sur quoi que ce soit; mais, comme les besoins sont en très grand nombre, tant ceux qui sont de la nature que ceux que l'usage a établis parmi tous les hommes, il arrive que nous trouvons moyen par quelqu'un d'eux de nous faire entendre. Mais il s'en faut bien que nous ne trouvions chés les animaux ces mêmes moyens fixes et ces besoins pareils aux nôtres. Ainsi il arrive que nous ne pouvons ny les entendre ny nous faire entendre d'eux que dans les choses qui regardent les besoins qu'ils ont communs avec nous, tels que la soif, la faim, le sommeil, etc. Avouons donc notre usurpation et notre injustice, de vouloir attribuer à nous seuls un avantage que nous refusons à des êtres en qui nous trouvons toutes les marques de cet avantage qui peuvent nous être sensibles, et rendons-nous à la vérité en convenant de bonne foy que leur âme est absolument de la même nature que la nôtre et a les mêmes facultés et les mêmes avantages. |

Il s'agit maintenant d'examiner quels ils sont et quelles sont les qualités essentielles de l'âme des hommes ou des bestes, que je regarderay doresnavant comme une même chose. Pour parvenir à cette connaissance, il faut commencer par examiner si on la peut regarder comme matérielle ou si elle est purement spirituelle.

Tous les philosophes ont agité cette importante question, et plusieurs ont pensé que l'âme étoit matérielle et formée par les parties du sang les plus subtiles. Mais, comme il ne suffit pas de la vraisemblance pour décider sur un sujet de cette conséquence, et que d'ailleurs, non seulement la religion chrétienne, mais encore toutes les autres ordonnent un sentiment contraire, il est nécessaire d'aprofondir les raisons de l'une et de l'autre façon de penser, pour ne nous rendre qu'à la vérité, comme on doit faire dans toutes les matières de philosophie et comme nous nous le sommes particulièrement proposé dans ce traité.

Le plus fort argument qu'on objecte à la matérialité de l'âme est que, quelques modifications qu'on imagine dans la matière et quelque arrangement qu'on y suppose, on ne parviendra jamais à se convaincre soy­même que cette disposition et cet arrangement puissent luy donner la faculté de penser. Cet argument est fort, sans doute, mais il est encore plus séduisant; car c'est faire une comparaison du principe dans son état le plus simple à l'effect dans son état le plus composé. Simplifions un peu ce terme de pensée, si imposant; et convenons, premièrement, qu'une pensée la plus commune a le même principe que les idées les plus relevées de la métaphisique; suivons ensuite la définition que nous venons de donner de la pensée, et examinons si, dans ces trois sensations que nous avons reconnues pour ses principes, il se trouve quelque chose qui demande qu'on admette de l'immatérialité dans quelqu'une d'elles.

Il n'est aucun philosophe qui n'ait donné une explication mécanique et très vraisemblable des organes des sens; mais, quant à leur action sur l'âme, ils y ont été fort embarassés, lorsqu'ils ont voulu regarder l'âme comme immatérielle; car comment est­il possible que quelque chose de corporel, comme les organes, agisse sur un être qui n'a point de corps? D'un autre côté, ils ont trouvé dans le sentiment contraire l'ancien préjugé que la matière est incapable de sentir; de façon que plusieurs ont été arrestés par l'un et l'autre de ces obstacles. On sçait jusqu'où ceux qui ont voulu éviter ces deux écueils ont poussé le rid¦cule, en assurant que le sentiment des bestes n'est pas le même que le nôtre, ou plustôt qu'elles n'en avoient aucun, mais qu'elles étoient poussées machinalement à fuir le mal et chercher le bien, sans aucune douleur ny plaisir. Il seroit aussi raisonnable de dire que les hommes n'ont point ces sensations; mais, pour ne pas donner dans un paradoxe de cette nature, nous conviendrons que les organes des sens agissent réellement sur les esprits animaux, et que leur action consiste à les pousser dans de petits canaux, plustôt que dans d'autres, selon que l'organe a été ému par l'objet et qu'il leur transmet cette émotion. On explique facilement par ce moyen la douleur qui vient de la trop forte sensation, qui chasse trop d'esprits animaux dans des canaux délicats et par ce moyen les offense et les blesse, ce qui forme la sensation à laquelle nous avons donné le nom de douleur. Le plaisir naîtra d'une impulsion de ces mêmes esprits justement proportionnée à la grandeur des petits tuyaux et qui, les affectant uniformément, cause en eux l'effect auquel nous avons donné le nom de plaisir. Si cette même impulsion d'esprits est beaucoup moindre, il en résultera ce qu'on peut appeller l'imperceptibilité dans les sens, qui arrive lorsque, n'y ayant qu'une très petite quantité d'esprits qui soient poussés dans des tuyaux capables d'en contenir beaucoup davantage, ils ne font quasi aucuns effects, ne causant ny plaisir par l'emplissement exact ny douleur par l'introduction violente, et par conséquent aucune des différentes sensations formées par les modifications de ces deux extrêmes. On peut donc regarder le raport des sens comme matériel, ou, ce qui est la même chose, comme une action mécanique des organes des sens sur les esprits animaux, que je ne regarde que comme les parties du sang et des liqueurs les plus subtiles et l'essence, très rectifiée et épurée, de toutes les différentes matières qui composent le corps humain.

La mémoire, étant, pour ainsi dire, la conservation et le renouvellement du raport des sens, ne peut être regardée que comme de là même nature, et par conséquent comme matérielle. Il est même assés facile de concevoir quelle en doit être la mécanique. On ne peut douter que les petits canaux, dans lesquels l'intromission des esprits animaux forme les sensations, ne soient susceptibles de dilatation. Ce principe posé, il arrivera que, lorsque quelques­uns d'entre eux auront reçu plus fréquemment ou avec plus de violence les torrens d'esprits animaux, ils seront dilatés, et par conséquent les esprits, étant libres dans le cerveau et n'ayant aucune détermination par les organes des sens, se porteront avec plus de facilité et en plus grande quantité dans ces canaux élargis que dans les autres, et par ce moyen l'idée formée par l'amuence des esprits en eux se renouvellera et formera l'acte de la mémoire. On expliquera facilement par ce moyen comment on se rapelle plus aisément une idée lorsqu'on tâche de s'en ressouvenir; car alors on ferme autant que l'on peut les organes de ces sens et on en chasse les esprits animaux, qui sont obligés de refluer dans les endroits où ils peuvent trouver place; ainsi ils entrent alors dans ces canaux plus dilatés que les autres. On voit, suivant ce principe, que quelques personnes, ayant des canaux d'une tissure plus forte, ont peu de mémoire, parce qu'ils ne peuvent être que peu dilatés par les esprits animaux et que par conséquent ces mêmes esprits n'y entrent pas en beaucoup plus grande quantité que dans les autres, quelque effort que 1'on fasse pour les y porter quand on cherche à se souvenir de quelque chose. On expliquera de même les souvenirs fâcheux et involontaires des choses odieuses et dont on voudroit chasser l'idée; et de même la manière dont on perd le souvenir d'une chose qui ne nous a touchés que légèrement ou dont il y a longtems que nous avons reçu l'impression, car alors ce tuyau, ou n'ayant reçu qu'une médiocre d¦latation ou ayant eu, pour ainsi dire, le tems de se guérir de cette blessure, se remet dans son état ordinaire, et, ne livrant pas plus de passage que les autres à l'écoulement des esprits, cette idée s'efface absolument et sort de la mémoire. Je pourrois ajouter une infinité de choses et entrer dans un plus grand détail des différentes causes de toutes les propriétés et de tous les défauts de la mémoire; mais nous en avons dit assés pour prouver que cette sensation est toute mécanique et est formée par des agents matériels.

Il suffiroit de dire que le jugement est le résultat du raport des sens et de la mémoire, pour prouver que ses principes sont aussi matériels et son opération aussi mécanique que celle de la mémoire; mais il vaut mieux entrer dans le détail des ressorts qui forment en nous cette sensation, principal fondement de la pensée. On ne peut disconvenir que nous ne soyons dans l'impossibilité de juger de quelque chose que nous n'avons jamais vue précédament et dont nous n'avons point entendu parler; preuve sûre que le raport des sens est la première base du jugement. Mais il est aussi certain que la mémoire y contribue davantage, rassemblant toutes les idées que nous avons eues en divers tems et dont la réunion nous fait juger que l'objet qui se présente à nos sens, et sur lequel nous portons notre jugement, a telle ou telle qualité, par le souvenir que nous avons de celles qu'avoient des objets que nous avons vus autrefois et avec lesquels nous trouvons qu'il a quelque ressemblance, par l'impression pareille qu'il cause sur les fibres de notre cerveau. Quoiqu'il nous paroisse souvent que nous jugeons de plusieurs choses et que nous les trouvons belles ou laides sans en avoir jamais vu de la même espèce, ce n'est qu'une illusion de notre habitude; car, quoiqu'en effect nous n'en ayons point vu une tout entièrement pareille et même que nous n'en ayons jamais entendu parler, nous en avons vu dans d'autres corps toutes les parties separées, et c'est sur le souvenir qu'il nous en reste que nous portons notre jugement. Il y a un seul cas particulier sur lequel tout le monde croit être en droit de juger; c'est sur l'ordre et l'arrangement de l'univers, que chacun juge parfait sans en avoir vu ny aucun autre tout semblable ny des parties separées; mais je me réserve à traitter cette matière dans le chapitre suivant, et j'espère de pouvoir prouver que c'est encore une des erreurs dans lesquelles nous engagent l'éducation et les préjugés.

Pour ne point nous écarter de notre dessein, revenons à la mécanique du jugement, et nous verrons qu'il est produit par la comparaison, de tout ce qui a frappé nos sens et qui a quelque raport à l'objet sur lequel nous tâchons de juger, avec ce qui les frappe actuellement. Car, si les esprits animaux sont chassés par l'objet présent dans des canaux déjà dilatés par une première impression pareille, cette seconde sera sans doute plus forte et rapellera l'idée de ce qui s'est passé à l'occasion de cette impression pareille; et, si ce souvenir se présente comme d'une chose qui nous a fait plaisir, nous jugeons que l'objet présent nous en fera de même, par la conformité qui se trouve entre la manière dont il se présente à nous et celle dont s'est présenté le premier, dont nous avons reçu du contentement. Si, au contraire, nous nous souvenons qu'une impression pareille à celle que nous cause l'objet présent a eu des suites fâcheuses, l'idée s'en renouvelle, et nous la regardons comme présente à l'occasion de tout ce qui nous en rapelle une partie. Ainsi nous jugeons conformément à ce que nous avons scu, et nous agissons conformément à ce que nous avons jugé.

Quoiqu'on puisse regarder le jugement comme la première action du corps et le principe de celles qui paroissent à nos yeux, on peut expliquer très mécaniquement les défauts de jugement qui viennent de la nature ou de quelque accident du corps. Car les uns, ayant eu de certains canaux plus souvent émus que d'autres, saisissent promptement celle de ces idées que leur rapelle celle de l'objet présent, et, s'ils ont plus de vivacité que les autres hommes, ils chassent impétueusement tous leurs esprits animaux dans ces canaux, principes de l'idée que la première appréhension leur a fait juger pareille à l'objet présent Et alors les suites de l'objet ont beau frapper différament leurs organes; ce torrent d'esprits ne peut plus être retenu et entre avec impétuosité dans les canaux qui rapellent les suites de l'impression qu'ils ont eue autrefois, de façon que ce n'est plus l'objet présent qui agit, c'est le passé, auquel ils sont totalement abandonnés. Ce défaut est le principe du faux jugement que l'on porte souvent sur une infinité de choses, et l'expérience nous apprend qu'en effect les gens extrêmement vifs y sont plus sujets que les autres.

Il y a beaucoup d'autres défauts, dans le jugement, qui naissent du vice des organes; mais rien ne prouve plus invinciblement la matérialité de ces principes que de voir le dérangement que n'y aporte que trop souvent un léger accident du corps. Nous nommons ce dérangement folie. Il nait souvent de la crainte, de la joye, de l'espoir, de l'amour; mais aussi quelquesfois il vient d'une maladie du corps, d'un coup à la teste, etc. On voit par là l'étonnante conformité qu'il y a entre le corps et l'âme; car on pourroit regarder les passions que nous venons de nommer comme des affections de l'âme, sans que cela en conclut la matérialité, mais on ne peut douter qu'une maladie ou un coup ne soit un accident de la matière, et nous en voyons résulter les mêmes effects. Cela ne doit­il pas nous convaincre que les passions sont produites par des agents matériels, puisqu'elles causent les mêmes effects qu'une maladie ou un coup? Car il est absolument impossible que deux choses d'une nature aussi différente que le seroient une âme spirituelle et un corps matériel produisent un effect absolument pareil.

Ce n'est pas là la seule preuve que les passions émanent des principes corporels. Nous voyons qu'elles sont causées dans chaque homme par la constitution particulière de son tempérament, que tout le monde fait dépendre absolument du mélange des liqueurs qui causent dans le corps humain et de l'excès des unes ou des autres On ne doit pas oublier un effect encore plus sensible de l'action du corps sur notre âme. C'est celuy que produit le vin, pris en trop grande quantité: les parties subtiles de cette liqueur, que nous nommons esprits ou fumées, s'élevant à la teste, y embarassent le cours des esprits animaux et forment un obstacle à leur passage dans les canaux où ils devroient être portés par l'émotion causée à l'occasion des objets présents, ce qui les fait refluer dans plusieurs autres indifférament et sans aucun choix, formant par ce moyen ce chaos d'idées confuses et interrompues qu'on voit, dans les gens ivres, à proportion ou de la foiblesse de leur tempérament ou de la quantité de vin qu'ils ont pris.

Je finiray par une preuve qui n'est pas moins sensible ny moins ordinaire, et qui nous montre, pour ainsi dire, l'accroissement et le dépérissement de notre âme. On reconnoît les caractères de sa naissance et de sa nouveauté dans un enfant. Ses organes encore informes ne peuvent donner aux esprits animaux qu'un certain nombre de modifications; aussi rien n'est plus borné que ses idées. Mais, à peine avance­t­il en âge, qu'il s'en forme de nouvelles! Chaque objet nouveau en produit et les place dans sa mémoire. Revoit­il quelque chose dont il se souvient d'avoir eu une idée? Son jugement commence. Sa raison se dévelope petit à petit; et ses organes, se perfectionnant toujours, deviennent susceptibles de l'impression d'un plus grand nombre d'objets et forment toujours un plus grand nombre d'idées, jusqu'à ce qu'étant parvenus à leur dernier degré d'accroissement ou de perfection, l'homme demeure avec la quantité de jugement et d'esprit qu'il doit toujours avoir, quoiqu'il soit vrai cependant qu'il puisse acquérir de nouvelles lumières par tout ce que luy peut apprendre une longue expérience. Mais, si nous suivons encore cet homme, nous le verrons bientôt proche de sa chutte. Bientôt ses organes affoiblis ne feront plus sur ses esprits animaux une distinction exacte des objets. Son sang, alors, coulant plus lentement, portera au cerveau une moindre quantité d'esprits, qui par conséquent ne feront que très peu d'impression sur les canaux dans lesquels ils seront chassés. Ainsi la mémoire diminuera; les anciennes impressions, n'étant plus renouvellées ou ne l'étant que très foiblement et par une petite quantité d'esprits, s'effaceront entièrement, et à la présence des objets pareils ne rapelleront plus aucune idée. Ce jugement, alors, et cette ra¦son, s'affoibliront; à chaque pas que le corps fera vers sa destruction, l'esprit recevra de nouvelles atteintes, et suivra de si près tous les accidents du corps que, lorsque ce dernier sera prêt à périr, le premier sera dans un tel état qu'on auroit honte de luy donner le nom d'âme raisonnable et de pur esprit.

Pouvons­nous ne nous point rendre à tant de raisons qui nous démontrent notre bassesse, et se peut­il que l'amour propre nous aveugle au point de nous persuader, contre tout ce que nous voyons et contre toutes les idées de philosophie les plus saines, que notre âme est immatérielle et d'une nature infiniment supérieure à celle de notre corps? Mais je demande, à ceux qui sont dans ce sentiment, comme ils pourront expliquer l'action des organes, de la matérialité desquels nous ne pouvons douter, sur une âme purement spirituelle, et l'action réciproque de cette âme sur les fibres qui font mouvoir le corps. N'est­ce pas dire que le néant peut recevoir les impressions d'un corps et en communiquer de pareilles à un autre corps? Comment expliqueront­ils les effects d'une maladie du corps, ou d'un coup, qui causent un si grand dérangement dans l'âme; ceux du vin, qui en occasionnent un pareil pour le peu de tems que le corps de cette liqueur peut agir sur l'âme, après quoy elle redevient dans son premier état? Enfin, quelle raison pourront­ils donner de l'accroissement sensible des perfections d'une âme spirituelle, et proportionné à celuy du corps, de même que du dépérissement de cette âme à mesure que le corps devient languissant et approche de sa fin? Convenons donc que ces difficultés insurmontables dolvent nous déterminer à croire que notre âme n'a point d'autres principes que notre corps, et que toute la différence qui s'y trouve est que ceux de ce dernier sont beaucoup plus grossiers, au lieu que ceux de l'âme sont les parties des liqueurs les plus pures et les plus subtiles, qui résident dans le cerveau. Je laisse aux anatomistes à décider de l'endroit précisément où elles sont rassemblées; mais je ne puis m'empêcher de trouver fort extraordinaire qu'on ait agité cette même question, de la place que doit occuper l'âme, lors même qu'on la suposoit spirituelle; car il semble que rien n'implique tant de contradiction que de dire que l'âme est spirituelle et de vouloir en même tems qu'elle réside quelque part, et surtout dans un lieu particulier.

Je n'avanceray pas que l'opinion de la matérialité de l'âme est absolument sans difficultés. Il est certain que nous ne pouvons pas donner du sentiment et de la pensée une explication parfaitement exacte. Mais, comme plusieurs expressions manquent dans chaque langue et qu'ordinairement cela vient de ce que la nation à qui certaine langue est particulière n'a pas connu certains usages, de même nous pouvons dire qu'il manque à l'esprit humain des pensées, et que, ne pouvant avoir d'idées que de ce qu'il a sçu, il luy manque des connaissances sur son âme moins par incapacité de les concevoir que parce que, s'étant toujours arresté aux premières notions qu'il en a eues, il s'est rebuté par les difficultés et a mieux aimé connoître à fond les propriétés de son âme que d'en examiner la nature, craignant ou de ne pas trouver de quoy se convaincre sur cette matière ou de reconnoître des vérités trop humiliantes pour son amour propre.

Ayant, à ce qui me semble, suffisament prouvé que l'âme ne peut être autre que matérielle, tant par la probabilité du sentiment en luy-meme que par l'impossibilité d'expliquer, en suivant le sentiment contraire, tout ce que nous voyons arriver tous les jours tant de l'action des organes sur l'âme que de celle de l'âme sur les parties du corps, nous n'avons plus qu'un mot à dire sur son immortalité; car il reste à sçavoir si elle périt avec le corps ou si elle conserve sa même forme et sa même nature en étant séparée. Pour que ce dernier cas arrivât, il faudroit que les parties qui composent l'âme n'eussent pas besoin d'être renouvellées comme toutes les autres parties du corps, c'est­à-dire qu'il faudroit que ce fussent, depuis le moment de la naissance jusqu'à celuy de la mort, toujours les mêmes parties qui composassent l'âme. Car, si elles sont de nature à être dissipées, soit en sortant du corps par transpiration soit en devenant elles­mêmes parties des organes, il est évident que, le corps n'existant plus, le sang ne fournira plus à cette réparation d'esprits, et par conséquent, ceux qui étoient amassés étant dissipés, l'âme doit nécessairement périr. Or, il n'est pas probable de dire que ce sont toujours les mêmes parties qui composent l'âme, puisque nous voyons tous les jours arriver en elle des changements qui n'arriveroient point, sans doute, si elle étoit toujours la même, et qui ne doivent leur origine qu'à celuy qui est occasionné dans le sang par l'âge, le tempérament, la nourriture, les excès, les accidents, etc. Ainsi nous pouvons conclure que l'âme exige, comme le corps, une réparation de ses parties, et par conséquent il ne peut arriver qu'elle subsiste en sa même nature quand cette réparation ne peut plus se faire. Je dis en sa même nature, car il est incontestable que les parties qui l'ont composée, étant matérielles, sont d'essence immortelle; mais, comme ce n'est que dans un certain assemblage de cette matière que consiste l'âme, on peut la regarder comme périe et absolument anéantie lorsque la construction en est détruite; et, quand même elle ne le seroit point et garderoit son arrangement qui la faisoit âme, pourroit­on raisonnablement donner ce nom à un être sur qui rien ne pourroit agir, n'ayant plus d'organes, et qui par conséquent n'auroit plus ny connaissance ny jugement ny raison, seuls caractères qui peuvent faire donner à un composé le nom d'âme?

Je crois que nous avons suffisament établi et prouvé, autant qu'il est possible, ces deux vérités: que notre volonté n'est point libre, mais qu'elle est déterminée par des causes nécessaires et absolument indépendantes de nous, et que notre âme est matérielle comme notre corps et qu'elle peut périr avec luy. Quelqu'un trouvera dans ces principes des conséquences hardies, dangereuses, et les blâmera par quelque endroit que je ne puis deviner; mais, comme je me suis proposé pour but unique la recherche de la vérité, je la recevray avec joye partout où je la trouveray et j'admettray toutes les conséquences qui me paroitront en suivre nécessairement. Suivant cette loy que je me suis faite, cherchons des vérités hors de l'homme, et voyons si l'examen de l'univers ne nous en fournira pas d'aussi importantes. Pour commencer, considérons attentivement, et toujours sans prévention, les causes de tout, et tâchons de démeler s'il y a quelque but proposé et quel il peut être, rien n'étant plus capable que cet examen de nous conduire à la connaissance du premier Être, qui doit être notre soin principal et le dernier but que nous nous sommes proposé.


Chapitre troisième

De l'harmonie de l'univers et des causes finales

Nous avons déjà vu comment la vanité et l'orgueil des hommes leur ont inspiré des sentiments qui leur sont tellement devenus propres que la raison la plus solide et la mieux éclairée a beaucoup de peine à les détruire. J'entreprend ici de combattre celuy de tous qui est le plus enraciné dans le coeur humain. Comme il paroît plus détaché que les autres de l'intérest de l'homme, on a grande peine à le regarder comme préjugé, et presque tous les hommes le croyent fondé uniquement sur la vérité et sur la raison. Il s'en faut bien cependant; et cet exemple doit nous prouver combien nous devons nous deffier de ce que nous prenons pour des vérités incontestables lorsque nous ne nous les sommes pas démontrées philosophiquement. Chacun croit être en état de juger et d'affirmer que rien n'est plus beau et plus parfait que l'ordre et l'harmonie de l'univers.

Combattre cette opinion, c'est, à ce qui semble, renoncer à toutes les lumières de sa raison; aussi n'est­ce pas ce que je veux faire d'abord, mais seulement prouver du mieux qu'il me sera possible que nous avons tort de porter ce jugement et que nous sommes hors d'état de décider sur la beauté et sur la perfection de quelque chose que nous connaissons imparfaitement et qui est si fort au­dessus de toutes les perceptions humaines.

Ce n'est point une recherche exacte de l'univers qui nous a donné ce sentiment, car notre vanité ne va pas assés loin pour nous persuader que nous sommes en état de la faire parfaitement; mais ç'a été l'opinion presque universelle que l'univers est créé pour le besoin des hommes, qui l'a formé en nous. Cette opinion a été entretenue et ordonnée par chaque religion, et cela la fait passer pour incontestable. L'homme, se regardant comme l'être de la nature le plus parfait, n'a pas cru que ce fut orgueil de penser qu'il n'existoit rien qui ne fût ou ne luy dût être de quelque utilité. Quelques philosophes, ayant embrassé cette opinion, ont cherché avec tout le soin possible des usages frivoles auxquels ils ont appliqué plusieurs êtres plus pernicieux mille fois aux hommes qu'ils ne pouvoient leur être utiles. Quelques-uns même ont porté l'extravagance jusqu'à croire que la plus grande partie des choses dont ils n'ont pu nier l'inutilité n'étoient créées que pour servir d'un spectacle agréable et les divertir par une merveilleuse variété. Il est aisé de voir que ce sentiment, porté à un pareil excès, est l'ouvrage d'une prévention opiniâtre et si outrée que je ne m'attacheray pas à le combattre, mon dessein étant seulement de prouver qu'il n'y a dans la disposition de l'univers aucunes vues particulières ou tendantes à pourvoir aux besoins des hommes, et que, quand même il y en auroit, nous sommes dans l'impossibilité de les connoître et par conséquent hors d'état de juger si cet ordre est parfait comme nous nous l'imaginons.

C'est une vérité reconnne de tout le monde que nous ne sçaurions iuger de quoi que ce soit, si nous n'avons connu auparavant quelque chose de pareil à ce sur quoy nous voulons porter un jugement. Si nous n'avons pas vu quelque chose d'entièrement semblable, du moins nous en avons vu dans diverses occasions les parties principales, sans quoy nous sommes dans une incertitude nécessaire et nous ne sçavons qu'en penser. Si par exemple on nous montroit pour la première fois un animal de 1'Amérique dont nous n'eussions aucune connaissance par les relations, pourrions­nous dire s'il est plus ou moins beau que le commun des animaux de son espèce, s'il est plus ou moins grand? Non, sans doute; car nous ne pouvons porter ce jugement qu'après en avoir vu d'autres et avoir examiné les différences qui se trouvent entre celuy­là et le commun des autres. Voilà donc ce qui nous prouve que nous ne devons pas dire que l'ordre qui est dans l'univers est beau, puisque nous n'avons rien à quoy nous le puissions comparer pour juger de sa perfection.

Mais voici ce que l'on peut encore dire, et ce que plusieurs croyent d'une vérité incontestable: l'homme a des besoins sans nombre, il a des incommodités, il a aussi plusieurs facultés, et il trouve dans l'univers de quoy satisfaire tous ses besoins, de quoy remédier à ses incommodités et de quoy employer avantageusement toutes ses facultés; il est donc vray que l'économie de l'univers est ainsi ordonnée pour son utilité. Conséquence très fausse; car, si un poisson trouve dans la mer tout ce qui luy est nécessaire pour la vie, ce n'est pas à dire pour cela que la mer soit créée pour luy. Mais voici un raisonnement plus solide et plus conséquent qu'on peut faire là­dessus, et qui est infiniment plus vraisemblable que le premier: l'univers étant formé et son mouvement uniforme établi par les loix générales de la Providence, l'homme qui y naît règle ses besoins sur ce qu'il y trouve de proportionné à les soulager et ne connoît de facultés en luy que celles qui peuvent être mises en usage par les dispositions actuelles de la matière. Il n'a pas même besoin de sa raison pour cela; accoutumé qu'il est dès l'enfance à de certains besoins, à de certaines facultés, il ne va pas songer à s'exempter des uns et à augmenter les autres; il s'en contente, par l'impossibilité où il est de changer, et se dédommage en pensant que cela ne pouvoit pas être autrement et qu'il trouve dans l'univers de quoy remédier amplement à ce qui luy manque. Il est tellement imbu de ce préjugé qu'il ne voit pas l'inutilité d'une infinité de choses qui l'environnent et qu'il s'accuse luy­même d'ignorance de ne pas sçavoir leur usage.

Mais, pour examiner cette question plus méthodiquement, faisons une espèce de parallèle des deux sentiments opposés, et voyons, après en avoir fait une comparaison exacte, lequel des deux semble le plus approcher de la vérité. Je supose que deux hommes, également éclairés et instruits dans la pluspart des sciences, veulent s'éclaircir sans prévention sur cette question.

Celuy qui regarde l'univers comme créé en faveur de l'homme fondera son opinion sur tout ce qu'il y voit de proportionné aux besoins du genre humain. Il voit avec admiration le cours réglé des astres, le Soleil qui demeure toujours à une juste distance de la Terre, sans quoy les hommes périroient par un chaud ou par un froid excessif; il le voit avancer pendant six mois vers l'un des pôles et, revenant aussitôt pendant les six autres, diviser l'année en quatre saisons, dont chacune semble avoir son utilité particulière. Il ne peut pas douter que tout cela ne soit fait à dessein. Il place le Soleil au centre de notre tourbillon, et admire avec quelle égalité la lumière bienfaisante se répand sur les planettes qui l'environnent; il voit que la Terre, en étant plus proche que Jupiter, n'a qu'une Lune, qui, par la lumière qu'elle recoit du Soleil, semble réparer le tort que nous fait l'absence de cet astre; il admire les quatre satellites de Jupiter et les six de Saturne qui dédommagent ces deux planettes du froid et des ténèbres que leur causeroit la prodigieuse distance à laquelle ils sont du Solell. Un si bel ordre semble n'avoir pour but que la conservation et l'utilité de chaque estre en particulier.

Si nous descendons sur la Terre et que nous nous attachons à considérer la construction du corps humain, nous n'aurons pas moins de sujets d'admiration. Nous y trouverons l'abrégé de la mécanique la plus parfaite qu'on puisse imaginer: des os d'une consistence solide, afin qu'ils puissent soutenir la masse du corps; des muscles et des nerfs, qui sont autant de cordes, de poulies et de leviers; des esprits animaux, d'une telle fluidité qu'ils sont chassés avec impétuosité par la seule volonté dans les canaux des muscles et que, les gonflant, ils les racourcissent, et font mouvoir par ce moyen celuy des membres vers lequel l'âme les envoye. Il admire les organes des sens; celuy de la vue, par exemple, cet oeil composé d'humeurs transparentes afin que les rayons de lumière, s'y brisant, se réunissent sur la rétiné et peignent les objets sur ce merveilleux tissu de petites fibres si mobiles qu'elles sont ébranlées par la matière subtile, inaplicable à tous les autres corps, et que cet ébranlement se communique à la substance du cerveau, où il émeut l'âme de la même façon que l'organe l'a été à la présence de l'objet. Il trouve dans tous les autres sens de nouveaux sujets d'admiration. S'il consulte la phisique, il reconnaitra la nécessité de la pesanteur de l'air, qui cause l'accroissement des végétaux, comprimant le suc de la terre et le forcant à monter dans les pores des plantes. S'il considère la matière subtile, il voit que sans elle l'univers ne seroit qu'un sejour ténébreux, que la fluidité des liqueurs, et surtout celle de notre sang, si nécessaire à la vie, seroit arrestée. Il regarde le flux et le reflux de l'océan, le vent qui règne sur la Méditerranée et le sel des eaux de l'une et de l'autre mer, comme nécessaires pour en empêcher la corruption, d'où il s'ensuivroit une contagion universelle. Ce n'est pas tout: comme le corps est sujet à un grand nombre d'infirmités, la nature auroit péché sans doute de n'y aporter aucun remède; mais, loin de là, la botanique et la chimie nous en fournissent abondament. Il y a peu de maladies qui ne trouvent leur guérison dans quelque plante. Les vallérianacées, les narcotiques et tant d'autres, ont­elles une vertu pareille pour demeurer inutiles? Quels remèdes ne trouve­t­on pas dans le mercure et l'antimoine quand par la chimie on les a ouvers et préparés?

Toutes ces considérations le déterminent à penser que tout ce qui existe est créé pour l'utilité réciproque des etres qui composent la nature, qu'une puissance sans bornes a pourvu au besoin des hommes et par une prudence infinie a rendu tous les etres nécessaires les uns aux autres. On voit que ce sentiment établit l'existence d'un Être éternel, tout­puissant, doué de sagesse, de prudence, et même de bonté, dans une proportion infinie. Je dis même de bonté, puisque tout ce soin n'a pour but que la conservation et l'utilité de la nature, ce qui sans doute est une preuve de sa bonté.

Voyons maintenant comment pourra répondre, à des admirations qui semblent si bien fondées, celuy qui n'admet aucunes vues particulières dans la Providence. Il convient de tous les faits qu'a remarqués son antagoniste. Il tombe d'accord de la régularité des astres et des utilités que les hommes en retirent; mais, loin de croire que cet avantage des hommes soit la cause finale et le but d'un mouvement si prodigieux, il remonte à la cause phisique, et, à chaque pas qu'il fait dans la connaissance des premiers principes des choses, son admiration pour leurs effects diminue. Car il ne dit pas: voici comme il falloit s'y prendre, et les ressorts qu'il a fallu imaginer, pour que les choses arrivassent comme elles sont aujourd'huy; mais il fait ce raisonnement: les choses sont comme nous les voyons parce que leurs principes sont de telle nature qu'ils ne peuvent produire d'autres effects. Si j'osois hazarder une comparaison, un peu basse à la vérité, mais qui me paroît assés juste, je me ferois peut­être mieux entendre. Je supose qu'un petit animal capable de raisonnement examinat avec attention la chutte des grains de sable à travers le trou d'une clepsidre, et qu'il se fût mis dans la teste que cet ordre de l'écoulement des petits grains entre eux, qu'il voit, est absolument nécessaire et ne peut être changé. Il admireroit sans doute qu'on les eût taillés tous de façon que les uns passassent devant les autres par le moyen des petits angles et des autres différences qu'il y remarqueroit sensiblement; mais si, au lieu d'être prévenu que cet ordre ne peut être autrement, il fait attention que le hazard seul peut donner à ces grains les différentes formes qu'ils ont, et que, les ayant une fois, il est impossible que cet écoulement ne se fasse dans l'ordre qu'il voit, son admiration cesseroit sur le champ. Et voilà précisément ce qui doit nous arriver, lorsque, ayant fait un raisonnement pareil, nous avons reconnu que ces choses jusques­là si admirables sont des suites naturelles et nécessaires de l'arrangement et de la situation dans laquelle le hazard a mis l'univers. Lorsque j'attribue au hazard cet arrangement, il est bon d'expliquer que je n'entend pas parler de cet ordre merveilleux de la nature, que la prévention où nous sommes nous fait admirer, en le raportant aux utilités que nous en retirons; mais je remonte aux principes du tout, et je dis que ce premier arrangement est d'une telle simplicité que ce n'est point trop donner au hazard que de l'en croire le principe, et que, si par supposition ce même hazard aveugle eût disposé les principes des choses d'une façon toute différente de celle qui existe, nous aurions trouvé dans ce nouvel arrangement des utilités que nous aurions appliquées à nos besoins tout aussi avantageusement et avec autant d'admiration que nous faisons cette présente disposition de l'univers.

Voyons maintenant si nous pourrons nous accommoder du détail qu'a fait le philosophe déiste, et si nous pourrons l'expliquer suivant nos principes. Ayant reconnu que le Soleil est composé d'une matière très subtile et capable d'un mouvement très rapide, nous ne serons point étonnés que le mouvement que fait sur luy­même un globe d'une si grande étendue cause un ébranlement dans toute la sphère fluide qui l'environne. On voit même que par ce mouvement circulaire il doit entrainer tous les corps qui se rencontrent dans la sphère de son activité, et que ces corps, par les loix de la mécanique, doivent rester toujours à la même distance du principe de leur mouvement, et par conséquent y décrire continuellement des orbes, à l'endroit où la proportion qui se trouve entre leurs volumes et leurs pesanteurs les a placés nécessairement. Ainsi nous verrons sans admiration que, conformément à ces principes, les planètes les plus petites sont les plus proches du Soleil, et qu'ainsi, parcourant un plus petit cercle, elles font leur tour en moins de tems. Il ne faut point aller s'imaginer que la Lune soit donnée à la Terre pour l'éclairer au défaut du Soleil, mais penser que ce corps, petit et léger en comparaison de la Terre, se trouve entrainé par son tourbillon, comme les quatre satellites de Jupiter et les six de Saturne le sont facilement par le tourbillon très étendu de ces deux planètes. Et si Mercure et Vénus n'ont point de ces satellites, ce n'est pas à cause de l'inutilité dont ils leur seroient, étant si proches du principe de la lumière, d'autant plus que Mars, qui en est plus élolgné que la Terre, n'a aucun de ces secours; mais la vraye raison est que ces planètes n'ont pu, à cause de leur petitesse, en entrainer d'autres dans leurs tourbillons. D'ailleurs, ces planètes, pour être plus proches du Solell, n'en ont pas moins dans un de leurs hémisphères une nuit qui doit être fort obscure, puisqu'elles ne sont éclairées que par les mêmes étolies que nous voyons, dont même elles sont encore plus éloignées que nous. Si l'on aime mieux le sistème de Neuton que celuy de Descartes, qu'on suit dans cette explication, il n'y aura pas de plus grandes diflicultés.

Enfin, pour suivre le même ordre dont nous nous sommes servis d'abord, nous examinerons la structure du corps humain. Mais, loin d'être dans une admiration continuelle des propriétés renfermées dans cette construction particulière des parties du corps de l'homme, nous penserons avec Epicure que les membres n'ont point été donnés à l'homme tels qu'ils puissent être appliqués à tous les usages imaginables, mais que, les ayant reçus avec les facultés qui dépendent nécessairement de leur forme et de l'essence de leur matière, les hommes n'ont imaginé que les usages auxquels ils les pourroient appliquer; et que, si nous eussions été privés des organes nécessaires aux sens que nous connaissons, nous en aurions eu d'autres, que nous ne pouvons imaginer, qui nous auroient fait connoître les objets par des attributs de la matière, peut­être sans nombre, que nous ignorons absolument, et ces nouveaux sens auroient peut­être été beaucoup plus parfaits que ceux que nous avons. Je me serviray d'une comparaison qui peut rendre plus sensible la vérité de ce que j'avance. Si, par exemple, au lieu des cinq doigts que nous avons à chaque main, la nature nous en eût donnés dix, nous apliquerions ces dix doigts fort utilement à plusieurs usages et nous fairions des ouvrages plus parfaits que ceux que nous faisons; nous serions même très fort persuadés qu'on ne peut s'en passer à moins, et que nous serions inhabiles à tout si nous n'en avions que cinq. De même, si nous n'eussions eu que des moignons au lieu de mains, nous nous en serions servis à des ouvrages qui, comparés à ceux que nous faisons aujourd'huy, seroient misérables, mais que nous ne laisserions pas de trouver aussi beaux que nous trouvons les nôtres, parce que nous n'en connoîtrions pas d'autres et que nous les regarderions comme le plus grand effect de l'adresse humaine. Ainsi nous nous accommoderions de la forme de notre corps et de nos organes, de quelque façon qu'ils eussent été, et même nous l'admirerions, parce que nous ne connaitrions rien de plus parfait.

Pourquoy donc voulons­nous que cette construction particulière que nous avons soit la seule parfaite et la seule admirable en elle-même, puisque nous n'en connaissons pas d'autre et que nous n'en pouvons faire aucune comparaison? Voilà, sans doute, une admiration bien mal fondée, puisqu'elle nait de notre ignorance. C'est cependant là son principe ordinaire. Nous admirons ce que nous ignorons; nous jugeons beau et parfait ce que nous admirons, et ce préjugé s'établit si bien en nous que nous ne pouvons plus le déraciner. Si dans la suite nous parvenons à quelque connaissance de l'ordre de l'univers et que notre admiration diminue par la simplicité et la nécessité que nous y trouvons, le préjugé de la perfection de l'univers, fondé sur notre première ignorance, nous reste, et nous ne raisonnons qu'après avoir posé pour principe la perfection de l'harmonie de l'univers.

Mais revenons à notre sujet et achevons de répondre aux admirations du déiste. Il trouve dans les plantes et dans les minéraux des utilités si manifestes; et c'est précisément en quoy nous devrions accuser la nature d'ingratitude, car elle produit plus abondament des plantes inutiles, ou même pernicienses, que celles qui peuvent soulager nos infirmités, et d'ailleurs, nous ayant refusé une connaissance naturelle pour les distinguer les unes des autres, elle les a mêlées si indifférament qu'on en a vu très souvent arriver de funestes effects, pour parvenir à une connaissance qui est encore si éloignée de sa perfection. La pesanteur de l'air, qu'il trouve si avantageuse et si utile, est de l'essence de sa nature. Il est vray qu 'elle fait végéter les plantes et qu'elle entretient les liqueurs en mouvement; mais il est ridicule de penser que ce soit pour ces usages que l'air a de la pesanteur, puisque nous voyons que cet attribut est indispensablement attaché à toute la matière que nous connaissons. Le flux et le reflux de la mer est causé par le pressement de l'air entre le corps de la Lune et la surface de la mer, et ce n'est point établi, non plus que le sel de ses eaux, pour en empêcher la corruption; puisque des mers entières n'ont point de flux et de reflux et qu'il y a une infinité de lacs qui ne sont point salés, sans qu'il s'ensuive aucune corruption. Enfin, nous ne trouverons rien, dans l'univers, créé pour l'usage anquel nous le faisons servir. La nature a des vues plus étendues. Elle agit par des principes nécessaires; et, si nous trouvons, dans ce qu'elle fait, notre utilité particulière, c'est toujours en interrompant le cours de la nature et en appliquant à nos besoins des choses qui n'étoient pas faites pour nous, comme lorsque nous faisons servir des animaux ou des fruits à notre nourriture, car c'est par la force que nous nous approprions toutes ces choses que la nature n'avoit en aucune façon destinées pour nous.

Si pourtant nous voulons trouver un but et un dessein dans la nature, nous verrons qu'il n'y en a point d'autres que la propagation de l'espèce. Laissés agir naturellement tous les êtres qui sont dans l'univers, vous ne les verrés tendre qu'à la production de leurs semblables. Nous n'en pouvons douter dans les animaux; toutes leurs actions nous le démontrent assés. Il en est de même des végétaux: si nous laissons un fruit sur l'arbre, il tombera et se pourrira, mais son noyaux, ou sa semence, telle qu'elle soit, se conservera ou ne se corrompra qu'en faisant renaitre un arbre pareil à celuy qui l'a produite. Il en est de même de tous les autres végétaux. Si nous croyons les philosophes chimistes, ils nous aprendront que les métaux ont une âme, un ferment, une semence, qui, étant dégagée de sa corporéité et mise dans une matrice convenable, produit un métal semblable à celuy dont elle sort. Enfin, nous verrons la même chose dans toute la nature. Elle ne veut que la production des espèces: c'est le but de tous ses efforts. Nous examinerons dans le chapitre suivant ce que c'est que cette volonté de la nature et de quelle voye elle se sert pour y parvenir.

Cette vérité ne frappe peut­être pas aussi sensiblement que les deux premières, mais c'est qu'elle est plus étrangère à l'esprit humain et qu'elle combat des préjugés plus enracinés que tous les autres. Cependant, lorsqu'on les a surmontés et qu'on s'est rendu cette vérité familière, elle nous desille les yeux, et tout nous la confirme. Quoiqu'elle change toutes les idées que nous avions auparavant, elle s'applique si parfaitement à tout que, plus nous avancons dans la connaissance de l'univers, plus nous nous persuadons que c'est un principe sur et incontestable. Achevons notre projet et voyons ce qu'après toutes ces considérations nous devons penser du premier Être.

 

Chapitre quatrième

Du premier Être

Tout ce que nous venons de voir jusqu'à présent nous prouve suffisament que, s'il est un premier Être, du moins nous n'avons rien à en espérer ny à en craindre, et qu'ainsi, s'il existe, il doit être semblable aux dieux que nous décrit le fameux disciple d'Epicure lorsqu'ils, ne prenant aucun soin des affaires du monde, se contentent d'y avoir établi ou d'y entretenir le mouvement général duquel s'ensuit toute l'harmonie de l'univers.

Mais l'autorité d'Epicure ne nous fait rien ici, et, quoique je l'aye suivi dans une partie des choses que j'ay dites, je l'abandonneray sans regret dans celles qui ne me paraissent pas conformes à la raison ou à la vérité. Son opinion sur l'oisiveté des dieux est de ce nombre. Rien n'est si contradictoire que d'admettre une divinité qui a des attributs infinis et qui n'en met aucun en usage. Je veux croire que la politique obligeoit un philosophe qui enseignoit publiquement à admettre des dieux; mais il me semble en même tems que cette politique étoit bien aisée à contenter, car ces dieux qu'il admettoit n'étoient ny offensés par les crimes ny fléchis par les sacrifices ou par quelque autre culte que ce fut. Ils ne demandoient rien aux hommes, ainsi l'existence d'un premier Être ne leur importoit en aucune façon, et ne pouvoit ny les détourner du crime ny les porter à la vertu. C'étoit là avoner une divinité simplement pour n'être pas athée, puisqu'il n'en pouvoit revenir aucun bien à la société ny pour retenir les désordres du peuple ny pour le porter à la piété. Ne pouvant deviner les raisons qu'avoit Epicure de parler ainsi, et ne m'étant prescrit d'autres règles qu une recherche de la vérité sévère et scrupuleuse, sans égard pour aucune politique, je parleray comme je pense et sans doute comme pensoit Epicure. Pour moy, je regarde la providence comme inséparable de la Divinité, et je ne balanceray point à dire que, s'il n'y a point de providence, il n'y a aucun être qui puisse mériter le nom d'Intelligence souveraine ou de Divinité.

Je crois avoir assés prouvé dans le chapitre précédent que l'ordre établi dans l'univers n'a pas besoin d'une providence particulière pour être entretenu. Rien ne s'y opère qui ne soit simple et nécessaire. Si quelques­unes des opérations qui s'y font nous paroissent merveilleuses, c'est que nous n'en examinons point, ou que nous n'en connoissons pas, les causes. Car nous ne nous avisons pas d'admirer qu'une pierre retombe lorsque nous l'avons jettée en l'air, parce que nous voyons en même tems la cause et l'effect et que la raison et l'expérience nous montrent que cela ne peut arriver autrement. Il en seroit de même du reste des choses qui arrivent dans l'univers, si le principe nous en étoit aussi connu.

Nous regardons l'effect et l'utilité que nous retirons d'une opération de la nature comme ayant eu un principe destiné à cette fin particulière, et que cette fin particulière et ce but de la nature n'est autre chose que notre utilité. Quand une fois nous sommes bien accoutumés à ce sophisme, nous ne regardons plus si cette opération est naturelle et nécessaire, et nous ne songeons plus qu'à admirer tout ce qu'il a fallu agencer pour former ce qui nous semble si proportionné à nos besoins. Rien n'est si difficile que d'éviter un piège qui se présente si souvent et sous tant de formes différentes; mais, puisqu'enfin nous l'avons reconnu, nous l'éviterons plus facilement; et, comme nous avons déjà du inférer de nos jugements qu'une providence particulière n'est nécessaire ny pour entretenir l'univers ny pour l'arranger de sorte qu'il soit tel que nous le voyons, puisque toute autre disposition eut été aussi parfaite, tâchons maintenant de découvrir comme et par quel moyen il existe.

La matière ne peut s'être formée d'elle­même, puisqu'il auroit fallu qu'elle eut été comme créateur avant que d'exister comme créature. Il faut donc se réduire à dire qu'elle a été créée par un autre ou qu'elle est éternelle. Si elle a été créée par un autre, il faut nécessairement que ce soit par un Être éternel, car nous aurions la même difficulté sur la création de cet Être, et ainsi on pourroit remonter de créateur en créateur. Il doit être infini, car il ne peut être borné par la matière, sa créature; et quelle autre chose le pourroit borner? S'il est infini, il est un, car il ne peut y avoir plusieurs infinis. Enfin, il doit être immatériel, puisque la matière ne peut pas créer la matière. Voici donc quels sont nécessairement les attributs d'un Être capable d'avoir créé l'univers: l'éternité, l'infinité, l'unité et l'immatérialité.

Pour examiner par ordre tous ces attributs, commençons par l'éternité. Il est certain que nous n'en pouvons avoir aucun sentiment qui nous la fasse connoître: nous sommes accoutumés à voir naître et périr; tout ce qui nous environne a son commencement et sa fin. Cependant, si nous examinons de plus près et avec plus d'attention qu'on ne fait ordinairement ce qui nous semble périr, nous verrons qu'aucun corps n'est réellement anéanti et qu'il n'y a jamais que la forme qui change. Le bois qu'on brûle se retrouve en pareille quantité dans la fumée et dans les cendres, sans qu'il s'en perde la moindre chose. Le corps de l'homme, privé de vie et jetté dans la terre, s'y corrompt par l'abondance de l'humidité; sa substance se mêle et fait corps avec le suc végétatif de la terre; elle passe dans les plantes qui croissent dans cet endroit, dans les pierres qui s'y forment; cette substance, faisant partie d'une plante, devient l'aliment d'un animal, qui devient à son tour celuy de l'homme. Ainsi la même quantité de matière subsiste toujours; tout l'effort des hommes ne peut en anéantir un grain. Cette vérité est si constante et si universellement reçue que je ne m'y arreteray pas davantage. Ce que j'en ai dit n'est que pour montrer que nous pouvons nous former une idée de l'éternité, ou du moins d'une de ses parties, s'il m'est permis de parler de la sorte. Je m'explique. On peut diviser l'éternité en incréation et immortalité, ou plutôt impérissabilité. Nous ne pouvons imaginer cette première moitié que par la difficulté que nous trouvons à comprendre ce que c'est que créer, tirer du néant, faire quelque chose de rien; car il semble que cela est encore plus difficile à comprendre que l'incréation. Pour l'impérissabilité, elle nous est un peu plus sensible, ou du moins nous nous portons plus facilement à la croire, par l'impossibilité que nous voyons qu'il y a d'anéantir la moindre partie de la matière et parce qu'il ne peut pas entrer dans la teste que quelque chose puisse devenir rien. Quoique, par ce que nous venons de voir nous n'ayons pas d'idée absolue et déterminée de l'éternité, on peut dire cependant que cet attribut, appliqué à quelque nature que ce soit, est plus vraisemblable et plus facile à comprendre que la création et l'anéantissement de cette nature. Ainsi rien n'empêche que nous ne connaissions l'éternité dans le premier Être.

L'infinité ne nous est pas plus sensible par elle­même que l'éternité. Nous avons les mêmes raisons pour n'y rien comprendre: nous ne connaissons rien que de fini; tous les corps sont terminés par d'autres. Il faut pourtant bien que le premier Être soit infini; car quelles bornes luy pourions­nous donner? Nous n'en pouvons pas même imaginer à la matière, que nous regardons comme son ouvrage. Il faut donc convenir, quoique nous ne le puissions comprendre, que Dieu est infini, parce qu'il est également incompréhensíble, et outre cela absurde, de le regarder comme fini.

L'unité est une suite nécessaire de l'infinité. S'il y avoit deux ou plusieurs infinis, ils ne le seroient plus ny les uns ny les autres; car l'un seroit terminé par l'autre dans tous les points d'attouchement. Cette unité n'a pas besoin d'autres preuves, et est de la dernière sensibilité.

L'immatérialité est le dernier attribut que nous avons reconnu pour nécessaire dans le créateur de l'univers. La raison que nous en avons donnée est que l'ouvrier doit être d'une autre nature que son ouvrage. En effect, si nous le regardions comme matériel, ce seroit la matière qui auroit créé la matière, ce qui seroit contradictoire; car, si une partie de la matière avoit besoin d'être créée pour exister, comment se pourroit­il faire qu'une autre partie existât par elle­même et fût éternelle? Il faut donc avouer nécessairement l'immatérialité du Créateur.

Mais il va naître de ce principe un million de difficultés. Car qu'est­ce, premièrement, qu'immatérialité? Nous avons beau dire que, si nous ne le comprenons pas, c'est que cela est hors de notre portée, et que nous ne devons pas douter qu'il n'y ait une infinité de choses qui, pour être incompréhensibles, n'en sont pas moins existantes. Je l'avoue; mais je ne sçais si celle dont il s'agit est de ce nombre. Nous n'avons pas, à beaucoup près, une notion claire de l'extension ny de la divisibilité de la matière à l'infini; cependant nous sommes assurés par la géométrie de la vérité de l'une et de l'autre. La proposition du triangle entre les deux parallèles, dont saint Thomas s'est servi pour démontrer l'extensibilité des anges, en est une preuve sûre; de même que la démonstration des incommensurables en est une de la divisibilité à 1'infini. Voilà de ces cas où nous sommes obligés d'avouer que nos idées ne peuvent aller jusque­là. Mais, avant cet aveu, il faut être assuré de la vérité de ce que nous ne pouvons pas comprendre; car ce seroit une source continuelle d'erreurs, que de croire des choses que nous ne pouvons pas comprendre. Et donc rien ne nous assure qu'il peut exister un Être immatériel.

Je ne vois rien, qui puisse nous avoir fourni cette idée, que ce qui se passe en nous. Voici le raisonnement qui peut seul luy avoir donné 1ieu: Je pense, donc il y a en moy une substance intelligente et immatérielle, car la matière ne peut pas penser. Puis, raportant ce jugement à l'univers, nous disons: il y a, dans l'harmonie que nous voyons, des marques sensibles d'une providence; c'est donc une substance intelligente qui la règle; si c'est une substance intelligente, elle est donc immatérielle. Voilà la conséquence qui nous assure l'immatérialité du premier Être; je ne crois pas qu'on puisse avoir d'autres preuves de cet attribut. Si cela est, nous allons bientôt trouver que ce fondement est si foible qu'il ne mérite pas que nous luy sacrifions notre raisonnement et que nous nous en prenions au défaut de nos idées. Il ne faut pour cela que se servir des raisons que j'ay données pour prouver la matérialité de l'âme, et d'une infinité d'autres qui se peuvent trouver encore. Car, si ce qui nous porte à regarder le premier Être comme une substance immatérielle est la persuasion où nous sommes que la matière ne peut penser ny agir par elle­même, notre conséquence est absolument fausse; et, quand même on voudroit s'obstiner à soutenir la spiritualité de l'âme, cela ne concluroit rien pour celle du premier Être, puisque ce n'est pas par la comparaison avec ce qui se passe en nous que nous devons le juger, mais par les choses que nous regardons comme son ouvrage. Je sçais bien que, si nous accordons que l'âme soit incorporelle et que le premier Être ait créé cette âme, nous ne pouvons refuser à luy-même ce que nous reconnaissons qu'il a donné à sa créature; mais ce n'est pas là la question, car, loin d'avouer et de prendre pour principe qu'il a créé l'univers et par conséquent l'homme, c'est précisément ce que nous voulons éclaircir et ce dont il s'agit.

La matière est créée ou éternelle. Si elle est créée, il faut que ce soit, comme nous venons de le dire, par un Être éternel, infini, immatériel. Je laisse à part les autres attributs qui luy seroient encore nécessaires, et je me contente de faire voir les difficultés qui se trouvent à concilier ceux­cy. Premièrement, il me semble que l'infinité et l'immatérialité sont absolument incompatibles. Car l'infini n'est autre chose que ce qui occupe tous les lieux; or, un lieu ne peut être occupé que par un être matériel: sans cela, il est vuide. Et, d'ailleurs, la matière n'occupe­t­elle pas une place dans l'univers? Comment donc ce premier Être sera­t­il en tous lieux? Je ne m'arresteray point à faire voir que l'éternité ne s'accorde pas mieux avec l'immatérialité, car cela suit assés de ce que nous venons de dire; et je crois qu'il suffira de faire voir avec quelle facilité se lèvent toutes ces difficultés, si, au lieu de vouloir imaginer un premier Être dont nous n'avons aucune preuve ny même aucune idée, nous nous réduisons au sentiment le plus simple et le plus naturel, qui est de ne point admettre d'autre premier être que la matière éternelle et infinie.

Puisque nous avons reconnu que toutes les opérations de l'âme et du corps se peuvent faire par des agens matériels, que la pensée est un sixième sens résultant des cinq autres et qui a pour organe le cerveau, et que l'ordre de l'univers n'a besoin d'aucun secours particulier pour le maintenir tel qu'il est, qu'avons­nous besoin d'imaginer sans aucune nécessité un Être qui ne peut exister sans renfermer tant d'attributs incompatibles? Ne suffit­il pas de dire que nous sommes certains par nous­mêmes de l'existence de la matière, que nous avons des raisons au moins vraisemblables pour la croire éternelle, puisque nous voyons par expérience qu'elle ne peut périr et que nous ne pouvons imaginer qu'elle ait pu être tirée du néant? Cela ne nous doit­il pas suffire pour nous faire soupçonner qu'elle peut être éternelle, et pour nous déterminer à le croire, si nous trouvons moins de difficultés dans cette façon de penser que dans le sentiment contraire? Alors rien ne s'opposera à ce que nous accordions l'éternité à la matière.

L'infinité de la matière nous donnera beaucoup moins de peine. Elle nous est plus sensible, et peut quasi nous être démontrée géométriquement; et, pour ajouter aux preuves de géométrie, dont nous venons de dire un mot, celles qui sont tirées du seul bon sens, pouvons­nous nous imaginer une division assés répétée pour qu'à la plus petite partie on ne puisse pas nous demander s'il n'est pas vray qu'elle ait deux côtés et qu'elle ne puisse être partagée entre les deux? Pouvons­nous enfin la réduire en points indivisibles? Il est tout aussi difficile de nier qu'elle soit étendue à l'infini; car, si elle est bornée, quelles sont les bornes, et qu'y a­t­il au­delà? Ces questions sont pressantes, et on ne peut y répondre. Nous sommes donc obligés de dire que la matière est infinie. Ce principe bien établi suffiroit pour prouver qu'il n'y a point de premier Être, et même qu'il n'y a point en tout d'être, dans la nature, que la seule matière.

Car ce premier Être ne pourroit être infini, si la matière l'étoit aussi; et la matière ne pourroit l'être, s'il y avoit dans le monde autre chose qu'elle et si elle n'étoit pas seule la cause et l'effect de tout ce que nous voyons dans l'univers.

Voici donc les conjectures que j'ose hazarder, et ce que je crois que doit suivre de tout ce que nous avons dit: la matière est une, infinie, éternelle; c'est elle qui, ayant toujours existé, a entretenu et entretient l'univers dans l'état où nous le voyons, sans aucun dessein particulier pour nos usages ny pour nos besoins, mais faisant cependant tout ce qui est nécessaire pour la propagation des espèces; c'est elle qui conduit nos actions par un ordre nécessaire, invariable et dépendant des circonstances qui nous environnent; enfin, c'est elle seule qui existe, et c'est par elle seule qu'elle existe.

On peut faire plusieurs objections contre ce sistème, et même peut­être serviront­elles à l'éclaircir.

Il y a dans l'univers un mouvement qui anime cette matière. Or, quel est ce mouvement, et quel en est le principe? Je répond que, quoiqu'il n'y ait peut­être rien de si ignoré dans la phisique que le mouvement et ses causes, ce qu'on en sçait avec certitude est qu'il est inséparable de la matière et que jamais il ne peut y avoir de mouvement sans matière. Ainsi il peut se faire que le mouvement soit essentiel à la matière et fasse partie de son être. On peut objecter que, si cela étoit, il ne pourroit point y avoir de matière sans mouvement. La conséquence est vraye; mais, premièrement, nous voyons que toutes les formes de la matière, quelque solide qu'elle soit, sont sujettes à destruction, ce qui ne peut arriver sans un mouvement, qui, pour être insensible à nos organes, n'en est pas moins réel. En second lieu, on peut dire que toutes les parties de la matière ont en elles-mêmes une force qui les détermine à se mouvoir toutes également, et que, si quelques­unes paroissent avoir un mouvement très lent, ou même n'en avoir aucun, cela vient de ce que, tâchant à se mouvoir chacune avec le même effort dans des directions opposées, elles se rencontrent et, ne pouvant vaincre l'effort l'une de l'autre, elles demeurent en repos, sans qu'on puisse dire pour cela qu'elles soient privées de mouvement, puisqu'elles ont toujours en elles cette force qui en est le principe et que cette puissance seroit réduite en acte si l'obstacle qui s'y oppose étoit levé. Je ne donne ici qu'une idée en passant d'un sistème très facile à soutenir et qui donne une explication très simple et très naturelle de plusieurs faits difficiles à expliquer dans toutes les autres hipothèses sur le mouvement. En troisième lieu, le mouvement peut être accidentel à une certaine disposition de la matière. De quelque façon que cela soit et quelque parti que l'on prenne, le mouvement doit être éternel comme la matière, et il doit toujours avoir existé dans la même quantité, étant seulement différament modifié et déterminé à tout moment par les accidents particuliers de la matière.

Je sens bien que cette réponse ne lève pas toutes les difficultés et ce n'est pas une démonstration géométrique; mais ce sont là des occasions où l'on doit croire et admettre des choses, quoiqu'on ne les comprenne pas. Car nous sommes assurés de l'existence du mouvement, nous sçavons aussi qu'il ne périt point et qu'il ne diminue dans un sujet qu'en se communiquant à un autre; ainsi rien ne nous empêche de le croire éternel. Ce principe, ou, si l'on veut, cette suposition établie, il n'y a plus de difficultés dans tout le reste de notre sistème. On aura beau, par exemple, chicaner sur l'éternité de la matière. Je demanderay si, la refusant à la matière, il est plus naturel de forger exprès un Être pour luy donner cette éternité, avec une infinité d'autres attributs, pour qu'il puisse créer la matière. On voit que c'est supposer des chimères impossibles, pour vouloir nier une vérité qui se montre aussi sensiblement que nous sommes capables de la sentir. Enfin, je ne vois plus d'objections assés fortes pour empêcher de croire que, la matière existant de toute éternité, son mouvement éternel, touiours pareil et toujours uniforme, la détermine à se porter indifférament de tous côtés; que les accidents particuliers de cette matière chargent la direction de ce même mouvement, et que, comme ils existent nécessairement, ils divisent aussi nécessairement l'action du mouvement et la déterminent suivant des directions diverses, mais toujours dépendantes des dispositions particulières de la matière. Ainsi le mouvement, qui d'abord agit sur la matière, se trouve ensuite modifié et déterminé par elle, de façon que l'action et réaction réciproque de l'un et de l'autre forment cette suite nécessaire et cet ordre immanquable qu'un de nos anciens poètes appelle dira necessitas. C'est cette nécessité inflexible qui produit tous les événements, qui règle nos actions et qui conduit l'univers par les seules loix du mécanisme le plus simple.

J'oubliois une obiection qu'on peut me faire très à propos. C'est que j'ay avoué que la nature sembloit avoir pour but la propagation de l'espèce. Ainsi ce ne seroit pas se conduire par la seule mécanique, puisque la destruction se peut rencontrer indifférament comme la production, dans un arrangement qui n'auroit pas pour but la conservation des espèces.

Je répond à cette objection que ce but et ce désir de la propagation n'est pas une volonté intelligente ny raisonnée, mais c'est que tous les mixtes sont composés de principes différents (je n'entend pas parler des premiers principes, mais de ceux qu'on reconnoît par l'analise qu'on peut faire de tous les corps). Ces principes sont le Flegme, le Souffre, le Sel, la Teste morte et un cinquième, qui est le Mercure ou la Quintessence. Ce Mercure est un mélange des parties les plus subtiles et les plus épurées des quatre autres principes; c'est, pour ainsi dire, un autre mixte pareil à celuy dont il est partie, mais beaucoup plus parfait. C'est ce qui forme l'âme et la vie des animaux et des végétaux. C'est cet Esprit qui abonde dans la semence des corps mixtes et qui, se dévelopant dans une matrice convenable, forme par sa corruption et sa décomposition un nouveau corps pareil à celuy dont il sort. C'est enfin ce ferment actif qui change en sa nature toute la matière qui l'environne et la fait concourir à produire un mixte de sa même espèce. Cette Quintessence, étant enfermée et répandue dans tout le corps qu'elle anime, est dans une activité continuelle, parce que sa grande subtilité la rend infiniment plus propre au mouvement que les autres principes du corps. Cette violente agitation fait qu'elle ne cherche qu'à sortir, et ainsi fait agir les animaux conséquament à ce principe et proportionnément à l'abondance ou à la subtilité de cette semence. C'est ce qui produit en eux ces mouvements et cette pente naturelle d'un sexe pour l'autre, qui leur devient un besoin qu'ils cherchent à soulager, comme les autres, par les moyens les plus efficaces et les plus à leur portée. Il en est de même dans les végétaux. Cet Esprit séminal parcourt la plante et ne s'arrete que lorsqu'il trouve une prison assés forte pour le retenir. Telle est la graine, où il se trouve ordinairement renfermé. Lorsqu'il y est une fois fixé, il y reste jusqu'à ce que cette graine, étant mise dans la terre, vienne à se pourrir et luy donne la liberté d'agir et de reproduire ce que son espèce et sa nature comportent. Nous voyons par là que ce but et cette volonté de la nature n'est qu'une façon de parler, puisqu'elle n'agit pas moins dans cette occasion que dans toutes les autres suivant les loix générales et mécaniques auxquelles elle est nécessairement assujetie.

 



ORIGINE DES ETRES ET ESPECES,

fruit d'une conversation retenue imparfaitement

[by HENRI DE BOULAINVILLER]


Critical édition by G. Mori. For a full account of manuscripts sources see "Rivista di storia della filosofia", 1994, n° 1, p. 169-192


Comme l'on fait usage de la géométrie non seulement pour la mesure des grandeurs et le jugement de leur rapport, mais qu'on l'applique heureusement à des matières phisiques, comme à mesurer les distances des planètes du centre commun, leur pesanteur différente et le temps de leur circulation, on a cru les pouvoir appliquer aux matières métaphisiques, et on le fait avec succez.


Premier principe
Deux grandeurs étant données, si l'une s'accroît jusqu'à l'infiny, et que l'autre diminue proportionnellement, celle-cy sera zéro quand l'autre sera à l'infini.

Cette proposition est démontrée par la progression de l'hiperbole à la parabole et la diminution des asymptotes. On tire de là cette conséquance: qu'estant donnée la connoissance d'un effet phisique résultant, selon la première idée, d'une cause métaphisique, plus la connoissance phisique et mécanique s'augmentera, plus la nécessité de la cause métaphisique diminuera, en sorte que la première estant parfaite, c'est-à-dire entière, la dernière sera comme zéro, c'est-à-dire nulle.


Second principe
Dans la supposition du mouvement, le laps du temps équivaut à l'intelligence.

Un corps solide n'est tel, selon le Père Malbranche, que par la pression de l'ambiant, mais l'espace et la matière estant infinis ne peuvent recevoir de pression d'aucun ambiant, donc la matière est fluide par opposition à la solidité, et elle ne peut estre fluide qu'elle ne soit en mouvement.

On veut aussi qu'elle ait esté homogène dans son principe, mais elle n'a pu le demeurer longtemps, car dès que l'on suppose le mouvement coéternel à la matière, elle a esté agitée, et n'a pu s'agiter sans altération de ses parties, qui en a disposé plusieurs à s'unir, et de là sont néez les masses, qui s'y sont formées des différentes parties, perdant ou acquérant proportionnellement du mouvement.

Or, dès que ces principes sont accordés, il faut revenir au premier, que le laps de temps équivaut à l'intelligence, parce qu'il n'y a aucune disposition de matière qui ne puisse arriver par le simple effet du mouvement durant une durée infinie: nil mere possibile debet concipi; fuit enim, vel est, vel erit quidquid possibile concipitur aut existit. Tout ce qui est dit possible doit estre conçu comme existant, ou ayant existé, ou devant exister.

Ainsy, celuy qui a dit que la projection des caractères d'une imprimerie ne composeroit jamais l'Illiade par hazard, s'est trompé, car on peut exprimer toutes les combinaisons des nombres. On sçait par exemple qu'en 25 coups de jet de deux dez [doit amener sonnez] et ainsy des autres à proportion. Donc il n'y a nulle combinaison qui ne puisse arriver dans un certain temps et, partant, dans l'éternité.

A l'égard des animaux, plantes et autres mixtes, leur accroissement n'est pas ce qui surprend d'ordinaire, mais c'est leur origine. Le germe s'explique comme une concrétion de glaces qui se fait dans les cavernes: la première goutte d'eau est le fondement de tout ce qui s'y accroît; les voûtes , la disposition
du lieu, tout y concourt. Ainsy notre terre, nostre ciel, tout contribue à la formation des espèces. L'uniformité des semences n'a rien de plus singulier, parce que tous les animaux et les plantes engendrent dans les mesmes circonstances; mais, sur tout cela, il est vray de dire que plus la connoissance de la mécanique augmentera, plus la nécessité d'une cause métaphisique diminuera, et quand l'une sera parfaite, l'autre sera zéro, c'est-à-dire nulle.

De ce que l'homme a une âme, le vulgaire a conclu que les bestes en ont une, et Descartes, au contraire, a conclu de ce que les bêtes sont automates que les hommes le sont aussy. Ses sectateurs se sont toutefois attachez à l'écorce de sa doctrine, et ont prétendu d'insister sur ce qu'il a dit des notions différentes du corps et de l'esprit. Mais on luy répond que les propriétez de la matière ne sont pas assez connues, et comme il n'y a nul rapport de la pesanteur d'un corps à sa couleur, et que même un aveugle n'auroit nulle idée de la dernière, on pourroit nier que ces propriétez pussent subsister en mesme sujet, et on le nieroit mal à propos. Ainsy la maxime est véritable: omne quod percipitur in subjecto de eo potest affirmari, mais l'argument négatif ne l'est pas, et on ne sçauroit dire: omne quod non percipitur in subjecto de eo negari debet.

On ne peut pas regarder le sentiment que les hommes ont de leurs actions comme un témoignage de leur liberté. Tout est déterminé dans l'ordre naturel: les hommes le sont avec sentiment et conscience , et les estres inanimez le sont sans sentiment ny connoissance, à raison de leur nature. Or, si l'on conçoit que jamais le seul mouvement des atomes ne pourroit dans l'éternité faire une pendule, il faut, pour rendre raison de cet effet, joindre les deux déterminations: celle qui est purement naturelle, en conséquence de laquelle les matières servant à la construction d'une pendule ont esté formez, et celle qui résulte des occasions de nécessité où l'homme se trouve d'inventer ou de produire des ouvrages. Toutes les deux sont également machinales, et résultantes des loix du mouvement. Mais la seconde estant accompagnée de sentiment d'une part, et de preceptes de l'autre, paroist l'effet de la liberté, à cause du canal par où elle passe.

 

 

 

 


SENTIMENS DES PHILOSOPHES SUR LA NATURE DE L'ÂME

[by Benoît de Maillet]

Critical edition by G.Mori
For a full account of manuscript and printed sources see La Lettre Clandestine, 4, 1995

De toutes les matières dont les philosophes ont traité, il n'y en a aucune sur laquelle ils aient été plus partagés de sentimens que sur la nature de l'âme humaine. Ils ont étudié et travaillé avec la même ardeur, les uns pour établir son immortalité, et les autres pour prouver qu'elle étoit périssable avec le corps, ainsi que celle des autres animaux.

Pour laisser à chacun la liberté de se déterminer à cet égard sur ses propres lumières, nous nous contenterons de rapporter ici succintement, sans cependant rien omettre d'essentiel, les différentes preuves sur lesquelles les philosophes de l'un et l'autre parti se sont cru<s> bien fondés pour soutenir chacun son opinion.

Il y a plusieurs traités composés en faveur de la première opinion, tant par les anciens que par les nouveaux philosophes. Pic de la Mirandole en fit un dans le quinzième siècle qu'on trouve imprimé dans ses oeuvres: les fameuses thèses qu'il soutint à Rome durant quinze jours, où il s'étoit engagé de répondre en toutes langues et de défendre l'opinion contraire à toutes les propositions qu'on y avanceroit, l'ayant obligé à l'ouverture de ces Thèses à soutenir que l'âme humaine étoit mortelle contre un sçavant qui avoit entrepris de soutenir son immortalité, Pic de la Mirandole allégua tant et de si fortes raisons pour prouver qu'elle étoit mortelle, que toute l'assemblée fut convaincue qu'il avoit défendu son propre sentiment, ce qui l'obligea à composer durant les nuits des quinze jours <suivants>, qu'il employa si glorieusement pour lui, son traité de l'immortalité de nos âmes, qu'il fit imprimer à mesure qu'il le faisoit et distribuer le dernier jour.


 

CHAPITRE PREMIER

Preuves de l'immortalité de l'âme

Les preuves les plus plausibles que les philosophes tant anciens que modernes, partisans de l'opinion de l'immortalité de notre âme, ont alléguées pour établir leur sentiment sont à peu près celles-ci.

I°. Que l'excellence de l'âme humaine sur celle des animaux est tellement manifeste, qu'il n'est pas possible de croire qu'elle soit de même nature; d'autant mieux que la pensée et le raisonnement lui sont propres privativement aux autres, qu'ils dénotent en elle des facultés qui ne peuvent appartenir au corps, et qui par conséquent sont les opérations d'une substance différente de celle du corps. Un philosophe du dernier siècle a expliqué plus particulièrement cette preuve par le raisonnement qui suit.
Je pense et cette pensée n'est pas mon corps: cette pensée n'est ni longue, ni large, ni étendue, comme il est essentiel à la matière qui compose mon corps de l'être; elle n'est pas par conséquent sujette à la destruction comme lui; car la destruction ne peut se faire sans division de parties, et l'on ne peut concevoir de division de parties dans une substance qui n'a point d'étendue, telle que la pensée: il y a donc en moi, conclud ce philosophe, deux substances, l'une impérissable qui pense, et l'autre périssable qui ne pense point.

2°. Que le sentiment de l'immortalité de nos âmes répandu dans toutes les nations en est une preuve aussi véritable que naturelle.

3° Que les opérations de cette âme n'en apportent pas un témoignage moins touchant, vu que l'homme est non seulement l'unique être qui soit doué de la faculté de penser et de raisonner, mais encore le seul qui ait celle d'exprimer ses pensées par des sons appropriés et de les transmettre à la postérité par des
caractères dont il est l'inventeur; joint à cela que le désir, qui lui est naturel, d'immortaliser son nom et ses actions, les monumens qu'il élève pour en perpétuer la mémoire, les substitutions qu'il fait de ses biens à ses descendans ou à ceux qui porteront son nom, sont autant de preuves de l'âme immortelle qui est en lui et qui voudroit, s'il était possible, communiquer son immortalité à la partie mortelle à laquelle elle est unie.

4° Que les opérations de cette âme sont si nobles, qu'elles démontrent qu'elle ne peut dériver que d'une source divine et immortelle. Pour prouver cette proposition, on dit que l'homme est l'inventeur des arts et des sciences les plus sublimes, qu'il a formé des sociétés qui se sont bâti des villes, fait des loix pour régler le corps de l'état, y maintenir la justice et l'abondance, punir les mauvais et récompenser les bons ; qu'il en a fait d'autres pour régler les droits des pères sur leurs enfans et le partage entre eux de leurs biens ; qu'il a trouvé l'art de traverser les mers les plus vastes, et de réunir pour ses commodités ce que la nature avoit séparé par tant d'espaces ; qu'il s'est enfin élevé jusqu'aux cieux, qu'il sçait le cours des astres et le tems qu'ils y emploient, qu'il prévoit l'avenir et l'annonce; qu'il est parvenu à la connoissance de l'auteur de l'univers, et qu'il lui rend un juste culte: toutes lesquelles opérations ne peuvent, dit-on, dériver que d'une âme divine et immortelle.

5° Que la constitution de son corps est si belle et si noble qu'il suffit de la considérer au dehors et au dedans, pour être persuadé qu'il est le logement d'une âme sublime. On fait là-dessus une longue énumération de la beauté de ses parties intérieures qu'on appelle l'abrégé du monde et sa représentation. A l'égard de l'extérieur, après en avoir observé l'excellente proportion, on ajoute qu'il est le seul des animaux qui marche la tête élevée vers le ciel : preuve encore évidente qu'il tire de là son origine, et qu'il doit y retourner.

6°. Que tous les animaux le respectent et le craignent, même ceux qui ont des forces bien supérieures aux siennes, et qu'ils lui sont soumis. Cette supériorité, dit-on, ne peut venir que de celle de son âme sur la leur, et établit manifestement la différence de nature qui se trouve entre l'âme humaine et celle des bêtes, et l'immortalité de la première.

7° Que ce seroit en vain que l'homme adoreroit le Créateur du ciel et de la terre et lui rendroit des hommages, qu'il s'abstiendroit du mal pour faire le bien, s'il ne devoit y avoir aucune récompense pour les bonnes actions ni aucune punition pour les mauvaises: or comme ces récompenses et ces châtimens n'ont pas toujours lieu dans cette vie, puisque la plupart des bons et des innocens la quittent sans avoir reçu aucun prix de leur vertu, et que plusieurs méchans la passent dans une suite continuelle de plaisirs et de prospérités, il est nécessaire, dit-on, qu'il y en ait une autre où ceux-ci soient punis de leurs crimes, et les autres récompensés de leurs vertus ; sans quoi Dieu ne seroit pas juste, ce qui n'est pas possible, vu qu'il est un être infiniment parfait. Or cette autre vie prouve et constate l'immortalité de nos âmes, dont l'anéantissement rendrait cette autre vie inutile.

On joint à ceci des exemples de châtimens et de récompenses surnaturelles et nombreuses dès cette vie, dont les histoires nous ont conservé la mémoire, par lesquelles il est prouvé que Dieu à pris soin d'établir parmi les hommes la vérité de sa justice ; soins qui sont des assurances qu'elle doit s'étendre à une autre vie, lorsqu'elle n'a pas été exercée dans celle-ci : ce qui ne pourroit être si nos âmes périssoient avec le corps.

8° Qu'on a une autre preuve que la substance de nos âmes est impérissable et indépendante de nos corps dans l'existence des démons, des génies, des esprits folets et des toutes les substances aériennes; laquelle existence est établie par une infinité de témoignages qui nous ont été transmis des siècles passés et qui ne manquent pas en ces derniers, et dans les apparions extraordinaires et surnaturelles. Les voix sans corps entendues dans les airs, comme fut celle-ci: le grand Dieu pan est mort, qui se fit entendre par toute l'Asie, nous sont d'autres preuves convainquantes qu'il y a véritablement des substances indépendantes de la matière, et une assurance que l'âme humaine, qui est de la même nature que ces substances, peut être séparée du corps auquel elle est unie, sans qu'elle soit sujette à l'anéantissement.

9°. On ajoute à toutes ces preuves l'autorité des religions, confirmées par des miracles du premier ordre et annoncées de loin par des prophéties, qui ne sont pas des témoignages moins invincibles de leurs vérités. On fait ici le détail des prodiges de l'Égypte, de ceux du Mont Sinaï, qui ont accompagné le peuple juif dans la terre de promission et continué depuis jusqu'à la destruction de son Temple, prédite si
autentiquement. On rapporte les miracles éclatans qui ont caractérisé et attesté la mission de Jésus-Christ, et la sainteté de son Église depuis sa naissance jusqu'à ce tems. On fait valoir le progrès et la durée de ces religions qui nous ont développé ce mystère de l'union d'une âme immortelle avec un corps sujet à la destruction, et qui nous ont démontré, dit-on, par des faits, la possibilité de son existence indépendamment du corps.

10°. Enfin on observe que ceux qui nient l'immortalité de nos âmes sont ordinairement des libertins ou des méchans, que la crainte de la punition en une autre vie, des crimes qu'ils ont commis en celle-ci, porte à s'imaginer qu'il n'y en a pas et à soutenir que l'âme meurt avec le corps.



CHAPITRE DEUXIèME

Ce que disent les partisans de la mortalité de l'âme pour réfuter les preuves précédentes

Ceux qui soutiennent que nos âmes sont anéanties avec nos corps, auxquels elles sont unies, prétendent qu'on doit d'abord retrancher des preuves de l'immortalité de l'âme, l'autorité des religions, les histoires des miracles et des prodiges, les opinions des substances aériennes, et toutes les conséquences qu'on tire de là en faveur de cette immortalité.

Pour le prouver ils disent:

I°. que les histoires de tous les tems et de tous les pays contiennent une infinité de faits extraordinaires et surnaturels que la superstition d'un côté, l'ignorance des peuples de l'autre, et l'intérêt avec l'adresse de ceux qui leur ont voulu imposer des loix, ont fait passer pour véritables.
Pour en démontrer la fausseté ils citent aux chrétiens les miracles et les prodiges des payens et des mahométans; et à ceux-ci les miracles des autres, qui ne peuvent être en même tems véritables dans deux différentes religions qui s'accusent réciproquement de fausseté, et qui doivent être fausses au moins les unes ou les autres. Ils citent aux chrétiens et aux Juifs des prodiges et des miracles innombrables attestés dans les livres des payens et dans ceux des mahométans.

Ils rapportent entre autres les témoignages de certains historiens, lesquels ont assuré qu'il y avoit des rois en Égypte, dont ils citent les noms, lesquels s'élevoient quelquefois en présence des peuples jusque dans les nues. Ils disent entre autres qu'un de ces rois, après leur avoir donné des loix et recommandé de les observer, s'éleva de cette sorte au milieu d'eux en leur disant qu'il viendroit les revoir, et qu'il se montra en effet à eux après plusieurs mois, pendant qu'ils étoient assemblés dans un temple, qu'il leur parut brillant de lumière, leur parla et les invita de nouveau à l'observation de ses loix, leur annonçant qu'il alloit les quitter pour toujours : il disparut en achevant ces paroles.
Une autre fois ils virent, dit-on, de leurs yeux ce que l'on voit écrit dans l'histoire du troisième siècle de l'ère mahométane ; sçavoir, qu'un Calife régnant en Babilone, où il avoit bâti un collège pour y enseigner la doctrine du Chaffay, l'un des célèbres interprètes de leurs loix, mort et enseveli au grand Caire, écrivit au gouverneur qu'il avoit en Égypte de lui envoyer le corps de ce docteur pour être déposé dans son collège et le rendre plus illustre : ce que ce gouverneur ayant voulu exécuter avec la plus grande solemnité, il s'étoit transporté accompagné de tout ce qu'il y avoit de plus illustre et d'un peuple innombrable à l'endroit de la sépulture du Chaffay pour en tirer le corps; mais que ceux qu'on avoit employés à ôter la terre qui le couvroit, ne furent pas plutôt arrivés au voisinage du cercueil, qu'il en sortit une flamme dont ils restèrent tous aveuglés ; duquel miracle il fut dressé un procès-verbal qui fut attesté et signé du gouverneur, des autres officiers du royaume et de plus de deux mille personnes. On envoya ce procès-verbal au Calife, qui en fit tirer un grand nombre de copies autentiques qu'il fit passer dans tous les lieux où la religion mahométane s'étoit dès lors répandue. Ils citent encore ce qui est rapporté dans l'histoire d'un empereur romain qui rendit dans son passage en Alexandrie la vue à un aveugle-né.

Ils objectent au contraire aux mahométans et aux Juifs la résurrection de Jésus-Christ, que les partisans de ces deux religions nient, avec tant d'autres miracles attestés dans les histoires en faveur du christianisme.


3°. Ils observent sur les miracles en général qu'on n'en a rapporté aucun d'un homme décapité publiquement qui ait vécu depuis, quoique ce miracle ne soit point au-dessus de celui de la résurrection d'un mort véritablement flétri; d'où ils prétendent avoir raison de conclure que tous les autres sont faux et supposés. Parmi tant de miracles qu'on rapporte avoir été faits dans tous les genres, on n'en a excepté que celui d'un homme publiquement décapité et encore vivant, parce qu'un tel prodige, disent-ils, est le seul d'une nature à ne pouvoir être supposé ni imité par aucun artifice.

4°. Ils nient l'existence de tous esprits séparés du corps, quelques noms qu'on leur ait donné et regardent comme des fables ce qui est avancé là-dessus, prétendant que tout ce qu'on en dit est de même nature que ce qui a été dit anciennement des oracles, qu'on convient aujourd'hui généralement n'avoir été que l'effet de l'adresse et de la malice des sacrificateurs et des prêtresses, favorisées de la superstition des peuples de ce tems.

5°. A l'égard des preuves qu'on tire pour l'immortalité de l'âme humaine de l'excellence de ses opérations, ils prétendent que toute la différence de la raison humaine à celle des animaux ne consiste que dans celle de l'organisation de leur cerveau, qui se trouve dans les hommes d'une disposition plus propre au raisonnement qu'il ne l'est dans les autres animaux.

Ils observent à cet égard que le chien connoît son maître, qu'il a de l'amour pour lui et de la haine contre celui qui l'a frappé ; que les castors se bâtissent des maisons, s'unissent à leurs semblables pour faire des ouvrages au-dessus de la force d'un seul, et qu'ils punissent et bannissent de leur société ceux d'entre eux qui ne veulent point travailler; que les abeilles et les fourmis font des provisions pour l'hyver, qu'elles tirent les morts de leurs habitations pour n'en être pas incommodées, composent des républiques et ont leurs loix. Et ils soutiennent que ce qui produit ces opérations dans les animaux est ce qui fait dans l'homme celles par lesquelles on prétend établir la différence de son âme avec celle des bêtes. Si vous comprenez, disent-ils, ce qui donne lieu dans les animaux à toutes ces opérations et comment elles se font en eux, vous sçavez, en supposant une plus grande perfection dans les organes dont elles sont l'effect, quel est l'instrument et la cause dans l'homme de la pensée et du raisonnement. Le propre du cerveau est, disent-ils, dans tous les animaux, de penser, de juger des rapports qui lui sont faits par les autres sens et de les combiner, comme le propre de l'oeil est de voir, celui de l'oreille d'entendre; le plus ou moins de perfection dans toutes ces opérations n'étant que l'effet de la différente composition ou arrangement des parties, dans les organes qui en sont les instrumens.
Si l'homme raisonne mieux que les autres animaux, c'est, disent-ils, que la constitution de son cerveau est plus propre que la leur à juger des images qui lui sont présentées par les autres sens. Si le chien a l'odorat plus fin, l'aigle la vue meilleure, le chat l'ouïe plus subtile, c'est que les organes de ces sensations sont meilleurs dans ces animaux que dans l'homme: mais cette différence ne constitue pas une diversité de substance entre ce qui pense, voit, odore et entend mieux et ce qui le fait moins bien; elle dénote seulement une disposition d'organes plus favorable dans ceux dans lesquels ces sens ont plus de force qu'elle en a dans ceux en qui ils en ont moins.
Pour établir d'autant mieux que le raisonnement dans l'homme est uniquement l'effect de la disposition des organes de son cerveau, ils observent encore qu'il est si peu raisonnable à sa naissance qu'il n'a pas même le discernement qu'ont tous les autres animaux, de connoître et de prendre de lui-même la mammelle qui le doit allaitter ; que la raison ne croît dans aucun animal aussi lentement que dans l'homme ; parce qu'il n'y en a aucun dont les organes du cerveau soient si foibles à sa naissance et aient besoin d'autant de tems pour acquérir l'état propre à bien raisonner: que cette propriété est si fort dépendante en lui de l'état de ses organes, qu'il y a des hommes chez lesquels elle est toujours languissante et imparfaite, parce que les instrumens dont elle dépend sont chez eux naturellement mauvais et incapables de se perfectionner. Ils disent encore que si ces organes viennent à se déranger ou à s'user dans les hommes qui raisonnent le mieux, leur raison s'affoiblit et se dérange à proportion, souvent jusques à un tel point que ces hommes après s'être fait admirer par la force de leur raison vivent encore vingt et trente ans, sans qu'il en paroisse en eux le moindre vestige.

Cette observation fit tant d'impression sur Vanhelmont, grand philosophe du dernier siècle qui avoit fait de longues méditations sur cette matière, que, quoiqu'il n'osât nier ouvertement l'existence de l'âme raisonnable et immortelle dans l'homme, il fut néanmoins obligé de reconnoître dans ses ouvrages qu'elle étoit tellement ensevelie en lui pendant qu'il vivoit, qu'elle ne donnoit aucun signe d'elle; ce qui est déclarer en termes non équivoques que ce qui nous apparoît en lui, qu'on nomme raison, n'est que l'harmonie produite du concours des images que tous les autres sens rapportent dans celui du cerveau, et que le vulgaire se représente comme l'effet d'un être spirituel et raisonnable par son essence,
entièrement distinct du corps, incapable de destruction, et qui subsistera après celle du corps auquel il est uni durant cette vie, et indépendamment duquel il verra, entendra et raisonnera par lui-même : ce qui est, continuent-ils, aussi faux qu'inconcevable, la pensée et le raisonnement n'étant qu'une modification des organes, sans lesquels ils peuvent aussi peu subsister que la couleur sans corps et l'étendue sans matière. Ils ajoutent que ce qui dans l'homme donne lieu au raisonnement et la pensée est également sujet en lui, comme dans les autres animaux, à la destruction; laquelle est inévitable lorsque la lumière entretenue en cet endroit par les esprits que le sang fournit vient à s'éteindre; lumière à la faveur de laquelle cette partie juge sur les rapports extérieurs; lumière qui est interrompue par les vapeurs du sommeil, parce qu'alors le sang ne fournit plus les esprits, ou ne les fournit pas avec la même abondance ; lumière qui est obscurcie par les vapeurs d'une fièvre ardente, distraite par une grande application de cette partie à certains objets, en sorte que l'animal ne voit ni n'entend rien, quoique les yeux et les oreilles ouverts, quand ses sens sont affoiblis par le dessèchement des canaux qui leur fournissent de l'aliment ou par la diminution de cet aliment ; cette diminution est causée par une appoplexie ou autre maladie violente, comme les canaux sont entièrement desséchés par la mort ; lumière, enfin, qui n'a rien de différent de celle d'une lampe allumée, laquelle se perd, se confond et se mêle à l'air, sans que la matière de cette lumière soit réellement anéantie, et sans qu'elle subsiste autrement qu'elle ne faisoit avant qu'elle fût unie à cette lampe.

Un philosophe moderne a expliqué tout cela d'une manière particulière et plus sensible, nous allons rapporter en abrégé ce qu'il en a dit et pensé.


CHAPITRE TROISIèME

Sentiment de Spinosa

Ce philosophe, l'un de ceux qui paroît avoir le plus étudié la matière dont nous traitons, prétend qu'il y a une âme universelle répandue dans toute la matière et surtout dans l'air, de laquelle toutes les âmes particulières sont tirées : que cette âme universelle est composée d'une matière déliée et propre au mouvement, telle qu'est celle du feu ; que cette matière est toujours prête à s'unir aux sujets disposés à recevoir la vie, comme la matière de la flamme est prête à s'attacher aux choses combustibles qui sont dans la disposition d'être embrasées.

Que cette matière unie au corps de l'animal y entretient, du moment qu'elle y est insinuée jusqu'à celui qu'elle l'abandonne et se réunit à son tout, le double mouvement des poulmons dans lequel la vie consiste et qui est la mesure de sa durée.

Que cette âme, ou cet esprit de vie, est constamment et sans variation de substance le même, en quelque corps qu'il se trouve, séparé ou réuni ; qu'il n'y a enfin aucune diversité de nature dans la matière animante qui fait les âmes particulières raisonnables, sensitives, végétatives, comme il vous plaira de les nommer ; mais que la différence qui se voit entr'elles ne consiste que dans celle de la matière qui s'en trouve animée et dans la différence des organes qu'elle est employée à mouvoir dans les animaux ou dans la différente disposition des parties de l'arbre ou de la plante qu'elle anime: semblable à la matière de la flamme, uniforme dans son essence, mais plus ou moins brillante ou vive suivant la substance à laquelle elle se trouve assez réunie pour nous paroître belle et nette lorsqu'elle est attachée à une bougie de cire, purifiée, obscure et languissante lorsqu'elle est jointe à la graisse ou à une chandelle de suif grossier. Il ajoute que même parmi les cires il y en a de plus nettes et de plus pures, qu'il y a de la cire jaune et de la cire blanche.

Il y a aussi des hommes de différentes qualités, ce qui seul constitue plusieurs degrés de perfection dans leur raisonnement, y ayant une différence infinie là-dessus, non seulement des hommes de l'espèce blanche à ceux de la noire, et entre ceux des diverses nations dont la terre est peuplée, mais même entre les sujets d'une même espèce et nation, et les personnes d'une même famille. On peut même, ajoute-t-il, perfectionner dans l'homme les puissances de l'âme ou de l'entendement en fortifiant les organes par le secours des sciences, de l'éducation, de l'abstinence, de certaines nourritures et boissons, et par l'usage d'autres alimens ; ces puissances s'affoiblissent au contraire par une vie déréglée, par des passions violentes, les calamités, les maladies et la vieillesse. Ce qui est une preuve invincible que ces puissances ne sont que l'effet des organes du corps constitués d'une certaine manière.


Ceci s'accorde assez avec l'opinion autrefois si généralement reçue dans le monde et adoptée de presque tous les philosophes de ce tems du passage des âmes d'un corps dans un autre, et s'explique fort naturellement dans ce système, étant évident par ces observations que la portion de l'âme universelle ou partie de cette portion qui aura servi à animer un corps humain pourra servir à animer celui d'une autre espèce, et pareillement celles dont les corps d'autres animaux auront été animés, et celles qui auront fait pousser un arbre, ou une plante, pourront être employées réciproquement à animer des corps humains, de la même manière que les parties de la flamme qui auroient embrasé du bois pourroient embraser une autre matière combustible.

Ce philosophe moderne pousse cette pensée plus loin, et il prétend qu'il n'y a pas de moment où les âmes particulières ne se renouvellent dans les corps animés par une succession continuelle des parties de l'âme universelle aux particulières, ainsi que les particules de la lumière d'une bougie ou d'une autre flamme sont sans cesse suppléés par d'autres qui les chassent, et sont chassées à leur tour par d'autres.

En vain, ajoute-t-il, les Égyptiens se persuadoient-ils qu'après un certain tems limité, pendant lequel la portion de l'âme universelle dont leur corps auroit été animé passeroit successivement dans d'autres corps, cette partie acquerroit le don d'un être particulier, spirituel et immortel; en vain sur cette espérance et l'opinion que leurs corps restants entiers, leurs âmes ne passeroient pas en d'autres habitations, les faisoient-ils embaumer et conserver avec soin. En vain les banians dans la crainte de manger l'âme de leurs frères, s'abstiennent-ils encore aujourd'hui de tout ce qui a eu vie. En vain les anciens Juifs se sont-ils fait une loi de ne point manger le sang des animaux (loi qui s'observe encore aujourd'hui parmi les malheureux restes de cette nation.) En vain, dis-je, se sont-ils fait une telle loi pour cette seule raison qu'ils pensoient que c'étoit dans le sang que consistoit leur âme; car la réunion des âmes particulières à la générale à la mort de l'animal, est aussi promte et aussi entière que le retour de la flamme à son principe, aussitôt qu'elle est séparée de la matière à laquelle elle étoit unie. L'esprit de vie dans lequel les âmes consistent, d'une nature encore plus subtile que celle de la flamme, si elle n'est la même, n'est ni susceptible d'une séparation permanente de la matière dont il est tiré, ni capable d'être mangé, et est immédiatement et essentiellement uni dans l'animal vivant avec l'air dont sa respiration est entretenue.

Cet esprit est porté, ajoute notre philosophe, sans interruption dans les poulmons de l'animal avec l'air qui entretient leur mouvement ; il est poussé avec lui dans les veines par le souffle des poulmons ; il est répandu par celles-ci dans toutes les autres parties du corps. Il fait le marcher et le toucher dans les unes, le voir, l'entendre, le raisonner dans les autres ; il donne lieu aux diverses passions de l'animal. Ses fonctions se perfectionnent et s'affoiblissent selon l'accroissement ou diminution de forces dans les organes. Elles cessent totalement, et cet esprit de vie s'envole et se réunit au général, lorsque les dispositions qui le maintenoient dans le particulier viennent à cesser.


 

CHAPITRE QUATRIèME

Suite de la réfutation des preuves de l'immortalité de l'âme

A l'égard de la preuve qu'on prétend tirer de la composition du corps humain pour l'immortalité de l'âme, ceux qui la nient font voir qu'elle est une pure imagination ; qu'il n'y a rien dans l'intérieur de l'homme qui le distingue des autres animaux ; que les organes d'un moucheron et du plus petit des insectes sont d'autant plus admirables que dans une petitesse qui échape au meilleur microscope, ils sont les mêmes que ceux de l'homme; qu'ils ont un coeur, des poulmons et des entrailles comme nous. Qu'à l'égard de l'extérieur, plusieurs animaux surpassent en beauté celui de l'homme; le plumage admirable de cent oiseaux différens, les peaux de tant d'animaux si diversement et si agréablement marquetés et colorés étant bien au-dessus de la nudité du corps humain, de ses cheveux, de son poil et de sa barbe, dont il est bien plus défiguré qu'orné. Que l'aigle à l'oeil mille fois plus vif et plus perçant que celui de l'homme, qu'il voit du plus haut des nues le plus petit animal qui rampe sur la terre, qu'il regarde fixement le soleil sans en être incommodé ; que l'homme est foible en comparaison de certains animaux, plus tardif à la course, moins courageux; qu'il ne vit pas aussi longtems en comparaison d'un cerf; qu'il n'a aucune défense naturelle, et qu'il est obligé de se faire des armes pour suppléer à celles que la nature lui a refusées, et de s'environner de murs pour se garantir de l'insulte des autres animaux.


Quant à l'avantage qu'on prétend tirer en faveur de l'immortalité de son âme de l'opinion répandue parmi diverses nations d'une autre vie après celle-ci, les partisans de l'opinion contraire disent qu'une telle croyance est moins une preuve de cette immortalité que de l'amour propre des hommes ; lesquels ne pouvant penser qu'avec douleur à la certitude de leur anéantissement, ont imaginé cette flatteuse manière d'exister après la destruction du corps dans une partie d'eux-mêmes qui ne seroit pas sujette à cette destruction.

Que les législateurs et les magistrats ont toujours favorisé cette opinion dans la vue de contenir les méchans par la crainte des peines inévitables pour eux dans une autre vie, en punition des crimes qu'ils auroient commis dans celle-ci dont ils n'auroient point été châtiés, et d'exciter les hommes à la vertu par l'espoir d'une récompense après leur mort, des bonnes oeuvres qu'ils auroient exercé durant cette vie.

Que les ministres des religions, intéressés à faire valoir ces sentimens à cause des offrandes que les autres font par leurs mains à la divinité, les uns en expiation de leurs crimes et les autres pour se la rendre propice après leur mort, n'oublioient rien pour les inspirer aux peuples ; que de là sont venues les descriptions de la vie heureuse préparée aux mânes des bons dans les champs élisées, et celle des tourmens auxquels celles des méchans seront livrées après leur mort, les roues des Ixions et les autres suplices qu'on lit dans les livres des Grecs et des Romains.

Que les législateurs des derniers siècles, pour réprimer la supériorité que l'esprit humain commençoit de prendre sur cette opinion, ont cru ne pouvoir employer à cet effet rien de plus puissant que d'augmenter au point que l'on voit dans leurs livres, les images de félicité en une autre vie pour les bons, et de tourmens pour les méchans, sans qu'il y ait rien de plus réel en cela que dans le bonheur et les supplices chantés anciennement par les poètes pour les uns et pour les autres.

Qu'il n'est pas étonnant que ces peintures du bien et du mal faites aux enfans dès le berceau, prévalent sur les actes postérieurs de leur raison et soient crues par des hommes naturellement foibles, remplis de crainte, d'espérance et de soumission pour les dogmes d'une religion qu'ils ont succée avec le lait, et que les pensées de la mort renouvellent à mesure qu'ils en approchent davantage.

Que cependant l'opinion de l'immortalité de l'âme n'a jamais été générale et ne le sera apparemment jamais ; que la plupart des anciens philosophes l'on crue mortelle, ou passagère d'un corps dans l'autre, ainsi que leurs livres en font foi ; que plusieurs d'entre les Juifs, ainsi qu'on peut le lire dans Joseph leur historien, ces hommes si rigides observateurs d'une rude loi, ne croyoient pas l'immortalité de l'âme et n'attendoient de la divinité que des peines ou des récompenses temporelles de leur attachement, ou de leur infidélité à l'exécution de ce qui leur étoit ordonné ; que ce ne fut que sous le règne d'Auguste que la secte des esseniens, dont étoit Jésus-Christ, se distingua par cette nouvelle opinion.

Quant à la conséquence qu'on tire de la nécessité d'une autre vie où les bons, non récompensés en celle-ci de leurs vertus, et les méchans non punis de leurs crimes, trouvent cette récompense ou cette punition, ils nient cette nécessité et disent que les bons sont récompensés dès celle-ci de leurs vertus, ou par l'estime des autres hommes de laquelle ils jouissent, ou par le témoignage de leur propre conscience. Que d'ailleurs le bien ou le mal, hors la douleur, n'étant qu'opinion, la privation des honneurs, des richesses, des commodités mêmes de la vie, n'est un mal que pour ceux qui s'en affligent, et la possession des mêmes choses qu'un bien que pour ceux qui les regardent comme tels ; que faire du bien, aider son prochain, est une satisfaction qui tient lieu de récompense dans cette vie à ceux qui le font; qu'opprimer son voisin, lui ravir les biens ou la vie, est une conduite qui produit dans les coeurs des remords ou des craintes qui tiennent lieu aux méchans des peines prononcées par les loix contre ceux qui commettent ces violences, lorsqu'elles restent impunies.

Ils ajoutent que souffrir la douleur, les maladies, les infirmités avec constance est une diminution et un soulagement à ces maux, et un moyen d'y résister ou d'en guérir ; qu'endurer les persécutions ou les traverses avec patience ou soumission est un moyen de les moins sentir ; que la tranquillité de l'âme au milieu des adversités est préférable au remords et aux craintes qu'éprouvent les injustes et les méchans au milieu des biens et des honneurs qu'ils ont acquis par des voies blâmables.

Qu'enfin il n'y a aucune obligation pour Dieu de récompenser les bonnes actions ou de punir les mauvaises, ni par conséquent de nécessité qu'il y ait une autre vie où les bonnes reçoivent ces peines ou
ces récompenses qu'ils nous paroissent n'avoir point reçues dans celle-ci ; qu'on pourroit tirer la même conséquence de l'impunité en cette vie de cent meurtres que le tigre, le lion, et d'autres animaux commettent journellement de leurs pareils. Que c'est une illusion de notre amour propre de nous imaginer que nous sommes d'une nature si différente de la leur et si excellente, qu'il est nécessaire qu'il y ait une autre vie où Dieu est obligé de rendre aux hommes une justice qu'ils estiment n'avoir pas reçue dans celle-ci.

Pour ce qui est de l'objection qu'il n'y a que les libertins ou les impies qui cherchent à se persuader de l'anéantissement de leurs âmes, par la crainte d'un avenir fâcheux pour eux dans une autre vie, ils répondent que les promesses du pardon des plus grandes fautes pour un seul repentir de les avoir commises, jointes à la reconnoissance de l'expiateur et de ses mérites annoncés dans la religion chrétienne, et pour un seul acte de profession d'un seul Dieu, et du choix qu'il a fait de Mahomet pour l'accomplissement de la loi, suffisant dans la religion Mahométane pour éviter les supplices préparés dans une autre vie à ceux qui n'entreront pas dans ces dispositions et mériter au contraire des biens ineffables, cette idée, bien loin de porter les libertins et les impies à combattre avec tant de risque pour eux l'opinion de l'immortalité de l'âme, les doit au contraire engager à embrasser un parti qui doit leur couter si peu pour les rendre éternellement heureux et leur épargner des supplices sans fin.

Enfin après avoir combattu de cette sorte les raisons dont on prétend prouver l'immortalité de l'âme humaine, ils ajoutent qu'il n'y en a aucune de concluante, et qu'elles ne sont au plus à notre amour propre que des motifs de l'espérer, et de se flatter de la possibilité d'une chose non concevable à l'esprit et totalement opposée au rapport de nos sens. Qu'il ne s'est point fait sur cette matière si intéressante pour nous de nouvelles découvertes, depuis ce qu'un grand philosophe précepteur d'un empereur romain écrivoit à un de ses amis, il y a mille sept cents ans. Quand votre lettre m'est parvenue, lui disoit-il en lui faisant réponse, j'étois occupé à la lecture de ce que les philosophes ont écrit sur la nature de l'âme humaine, de l'immortalité de laquelle ils nous donnent bien plus d'espérance qu'ils ne nous apportent de preuves: Legebam libros phiosophorum, animarum immortalitatem promittentium magis quam probantium; et ils concluent en assurant que c'est encore le jugement qu'on doit porter aujourd'hui de toutes les raisons que l'on allègue en faveur de cette immortalité.

Ils rapportent contre l'autorité des Évangiles en faveur de cette opinion, le passage suivant: Messala consule, Anastasio Imperatore jubente, Sancta Evangelia, tanquam ab idiotis Evangelistis composita, reprehenduntur et emendantur. Ce passage est tiré du Chronicon de Victor de Tmuis, évêque d'Afrique, qui fleurissoit dans le sixième siècle. L'abbé Houtteville dans son livre de la vérité de la religion chrétienne a employé deux pages pour ruiner la conséquence qu'on tire de ce passage contre l'authenticité des Évangiles ; mais il en résulte toujours que l'altération si bien marquée a été faite.




 


Infaillibilité du jugement humain, sa dignité, son excellence

[by William Lyons]

 

Critical edition by Antony McKenna (©) 1994-1996

For a full account of manuscript sources and an introduction of the editor, see: G. Canziani [ed.], Filosofia e religione nella letteratura clandestina, Milano, F. Angeli, 1994, pp. 469-502

 

William Lyons, Infaillibilité du jugement humain, sa dignité, son excellence

Nous connaissons trois manuscrits de ce texte : Paris-Sorbonne 761 et 1181, et Nancy 484. Leur source est clairement indiquée : il s'agit de la 3e édition du livre de William Lyons, paru pour la première fois à Londres en 1719 sous le titre The Infallibility, dignity and excellency of humane judgement; being a new art of reasoning and discovering truth (London 1719, 8°). Une deuxième édition paraît dès 1721 avec un nouvel appendice où sont examinés les articles du symbole d'Athanase; la troisième édition date de 1723 et comporte un supplément en réponse à différentes objections, ainsi qu'un post-scriptum où l'auteur démontre la liberté humaine; une quatrième et dernière édition paraît en 1724, comportant de nouvelles réponses à de nouvelles objections. C'est donc un livre qui connaît un certain succès, - succès de scandale dû très probablement à la prise de position sans équivoque sur la question de la tolérance et sur les articles controversés du symbole d'Athanase. La traduction française ne comporte que les 9 chapitres du premier livre.

Il s'agit essentiellement d'un plaidoyer contre l'autorité religieuse et pour la tolérance civile. Le contexte politique, l'analyse impitoyable des articles du symbole d'Athanase, ainsi que diverses formules implicites de Lyons, désignent ce texte comme un plaidoyer en faveur de la tolérance des anti-trinitaires. La coupure opérée dans la version française -qui supprime le détail du raisonnement sur le dogme, pour ne retenir que la revendication des droits de la raison- vise à notre avis à faire apparaître Lyons comme un disciple de Locke, mais d'un Locke conçu comme héritier du rationaliste Martin Clifford et comme inspirateur des déistes Collins, Toland et Tindal. Le lecteur français du 18e siècle lira ainsi le texte de Lyons comme un fruit de l'Essai, de la Lettre de la Tolérance, des Traités politiques et du Christianisme raisonnable de Locke.

Notre texte constitue un témoignage sur un moment de l'évolution des sectes anglaises : l'arminianisme induit une évolution du rationalisme en Angleterre semblable à celle, si bien mise en lumière par les études récentes d'Andrew C.Fix et de Wiep van Bunge, de l'illuminisme des Collégiants néerlandais vers le rationalisme de Bredenburg. En ce sens notre texte témoigne de la contribution des sectes issues de la "Réforme radicale" au rationalisme des Lumières.

A.McK.

 

Infaillibilité du jugement humain, sa dignité, son excellence

Contenant un art nouveau de raisonner et de découvrir la vérité, qui réduit tous les cas on on dispute à des propositions générales et évidentes par elles mêmes.

3e édition à laquelle on a ajouté un supplément et une apostille.

L'Infaillibilité du jugement humain : Chapitre Premier

L'homme le plus excellent dans son espèce est celui qui met en oeuvre avec le plus grand avantage les propriétés qui le distinguent des autres animaux.

La Raison en fait la différence et produit la beauté et la dignité de l'espèce humaine. Quiconque ou par des dogmes ou autrement empêche l'homme de bien employer sa raison, le déshonore et l'avilit.

Ce n'est que par l'usage de la raison que l'on peut juger du bien et du mal, de la justice et de l'injustice, de la sagesse ou de la folie; et ce n'est que par la raison que l'homme acquiert la sagesse, qu'il arrive à distinguer la vérité de l'erreur et qu'il se détermine à agir conformément à la vérité.

On ne peut empêcher l'homme de se servir de la raison qu'en employant la force et l'artifice pour tromper les sens, et les sens étant trompés, le jugement est par conséquent trompé.

Il est absurde de dire que l'homme croie une chose contraire à sa raison et à ses sens.

Si quelqu'un avec le pouvoir de punir vous ordonne de croire qu'un certain corps noir et doux est blanc et âpre, il peut faire illusion et se piquer d'avoir une faculté particulière de sentir dont les autres sont privés et prétendre que les rayons de la lumière tombent autrement sur les corps qu'ils ne tombent en effet.

Si vous craignez son pouvoir ou que vous ayez une telle révérence pour lui, que vous n'osez ou ne voulez le contredire, vous pouvez soupçonner vos sens dans l'erreur, et cependant vous soumettre; vous acquiescez sans disputer ni vous opposer. Mais tout autant que vous pouvez voir et toucher, votre jugement vous dit que le corps en question est doux et noir et que c'est par crainte[a] ou par politique que vous accordez le contraire.

La Raison de l'homme est juge aussi infaillible de la sagesse et de la folie; de la justice et de l'injustice, comme elle l'est des couleurs, et chaque proposition que l'on peut disputer sur la religion, la morale et la politique est soumise au jugement.

Un Monarque régnait dans une partie de l'Afrique située sous la zone torride, après avoir longtemps gouverné avec toute la justice et la sagesse imaginable, il quitta ses sujets pour voyager dans un climat au nord de ce pays. Quelque temps après son départ il parut un homme dans ses états qui dit avoir passé un hiver avec leur Roi et qui montra des lettres signées de la main du Prince qui l'établissaient régent de son royaume pendant son absence. Entre tous les ordres qu'il disait en avoir reçu, il ordonna sous peine de mort de croire que l'eau des rivières s'endurcissait par le froid au point de permettre aux hommes et aux chevaux de se promener sur leur surface. Ce point répugnait trop à leur[b] sens; il leur fut impossible de concevoir qu'un élément aussi fluide, pût par le froid devenir un corps aussi solide. Quoique le prétendu gouverneur séduisît les uns par intérêts, les autres par crainte, néanmoins les plus sages d'entre eux après avoir bien consulté déclarèrent qu'il était un imposteur et le chassèrent, non seulement pour leur propre sûreté, mais encore pour défendre l'honneur de leur Roi. N'était-ce pas accuser le Roy d'une grande folie et d'une grande injustice que de croire qu'il n'avait pas connu que ces peuples manquaient de la faculté de concevoir l'eau solide, et si ce Roy pouvait leur procurer cette faculté et qu'il ne l'ait pas fait, c'est encore un plus grand crime.

C'est une cruauté à un Prince d'altérer les lois de son pays pour punir sévèrement ceux qui ne croyent pas ce qu'il est impossible de croire.

Il n'y a que la méchanceté et le désordre qui puissent être les motifs d'une telle ordonnance. Ceux qui disent qu'ils croient sont coupables d'hypocrisie et de mensonge. Eh, peut-il être une excuse suffisante pour traiter ses sujets avec autant de barbarie ? Ceux qui ont le courage de résister tombent dans la révolte; donc un Prince n'en peut tirer d'autres avantages que celuy de perdre l'estime et le respect qui lui sont dûs pour n'être plus regardé que comme un monstre ou comme un fou.

Tout homme raisonnable ne peut s'empêcher de critiquer un tel cas, mais on se sert de périphrases et de sophismes pour prouver que par les lois du pays on a le pouvoir d'imposer ce qui plaît, et de punir ceux qui n'obéissent pas. Cela veut dire en d'autres termes qu'il est au pouvoir du Prince d'être juste et clément, ou bien injuste et barbare et qu'il a choisi ce dernier.

On ne peut défendre cette folie qu'en disant vous ne pouvez, ni ne devez disputer sur cette matière.

De là naissent la confusion et l'illusion que l'on baptise de noms vénérables, l'autorité est mise à la place de la raison et la raison n'examine plus par la crainte du danger. C'est par là qu'on usurpe une domination tyrannique sur l'esprit des hommes, et quand ils sont une fois aveuglés, ils deviennent des esclaves abandonnés à l'imposteur.

Quiconque prétend donc avoir une commission d'un Prince incontestablement reconnu pour sage et pour juste, qui néanmoins affirme qu'il a droit d'ordonner des choses folles et injustes et qui emploie la force pour être obéi, doit être rejeté comme un imposteur imposant au peuple et faisant tort à la vertu du Prince.

Imposer dans le premier cas ce n'est pas de prétendre que nous ne connaissons pas les corps âpres et noirs, mais c'est d'ordonner de croire que lui les connaît mous [=doux] et blancs sans pouvoir appeler de sa parole. Imposer dans le second cas, c'est vous obliger à vous soumettre à son autorité sans faire d'usage de votre raison.

C'est donc une vérité universelle et que l'on ne peut disputer, que la raison humaine est un juge compétent de la sagesse et de la folie, de la justice et de l'injustice, du bien et du mal etc.

Chapitre Second

Dix mille personnes peuvent prétendre également à une autorité sacrée et à des systèmes réguliers de dogmes et de moeurs. Si chacun de ces systèmes n'est examiné que par eux-mêmes et selon leurs propres règles, il sera trouvé très bon, quoiqu'ils soient opposés l'un à l'autre et qu'ils répugnent au sens commun.

Il n'y a point d'autorité qui ne trouve son opposition et sa condamnation dans une autre autorité. De là il s'ensuit qu'il n'y a personne au monde qui ne puisse supposer que les hommes en général ont été trompés et le seront toujours par quelque fausse autorité.

Les autorités les plus vraies sont exposées à des altérations, et à des additions et quand-même elles n'auraient point été altérées, elles sont exposées à la censure maligne de ceux qui les soupçonnent d'altération quoiqu'à tort.

On ne peut acquiescer à aucune autorité sans avoir auparavant examiné ce qu'elle a de bon ou de mauvais. Il n'est guère possible de juger d'une autorité par la comparaison d'une autre autorité.

Un Mahométan ne peut pas plus démontrer l'Alcoran par la Bible qu'un Chrétien démontrer la Bible par l'Alcoran avant que l'un et l'autre puissent s'écouter patiemment. Il faut que l'un commence par faire sentir dans le livre qu'il attaque quelque chose de contraire à la raison et qu'il prouve dans celui qu'il soutient quelque chose de conforme à la raison.

Si toutes les autorités ne sont pas soumises au jugement de la raison, toutes les autorités dans le monde sont également bonnes pour ceux qui y défèrent et ces personnes se trouvent obligées et avec raison de les défendre.

On tire de là une conclusion aussi absurde et aussi ridicule qu'il est difficile de l'exprimer en termes intelligibles, C'est que chaque homme doit donner raison à son antagoniste par rapport à la dispute, quoiqu'en même temps il croie qu'il mérite le plus grand châtiment par rapport au dogme. Le moyen d'éviter ces absurdités, c'est de découvrir, de soutenir la vérité et d'adhérer à la raison, non seulement comme juge compétent et infaillible, mais encore comme un témoin auquel toutes les autorités doivent être soumises avant que l'on en puisse connaître le vrai ou le faux.

Le jugement de l'homme est une faculté involontaire dépendante des objets et déterminée sans le consentement de la volonté : comme un miroir rend une véritable image des choses qu'on lui présente, de même le jugement détermine si les choses sont plus ou moins douteuses, vraies ou fausses, selon la certitude ou l'incertitude, la clarté ou l'obscurité des matières qu'on lui présente.

Un homme peut se déterminer à une action sans qu'il y ait dans l'objet qui le détermine une certitude convenable à l'action qu'il entreprend. Pour lors ce n'est plus en lui un effet de la différence du jugement, mais un acte de la volonté : il a plus de courage qu'un autre et s'expose au plus grand hasard. Dans ce cas on lui peut appliquer cette critique convenable quoique commune qui dit que quiconque sans consulter son jugement s'expose à un grand hasard, a tout l'emportement de la folie.

Il n'y a point d'homme qui puisse décider de la couleur d'un objet sans le voir dans la distance nécessaire à la distinction des couleurs. Si donc l'homme n'a pas une certitude suffisante ou quelques faits qui puissent le convaincre, il n'y ni pouvoir ni autorité qui puisse déterminer son jugement à décider si les choses sont bonnes ou mauvaises.

Toutes les autorités et tous les moyens employés pour nous faire croire sont inutiles; si l'objet qu'on nous présente est clair par lui-même, le vrai jugement est équitable[c] .

Chapitre 3.

Si l'on examine la disposition de l'univers, de quelque côté que l'on se tourne l'on voit une infinie variété de choses disposées dans un ordre très régulier, une justice convenable et distributive dans la production et composition de chaque chose en elle-même, et dans sa disposition par rapport au tout.

Il est impossible de ne pas concevoir quelque pouvoir, quelque force ou quelque cause sage, juste et régulière, en voyant certains effets remplis de sagesse, de régularité et de justice. Le rapport de ces productions les unes aux autres fait une unité dans le tout et démontre qu'il n'y a pas différentes causes mais une cause générale de tout l'univers. Nous donnons à cette cause la faculté de comparer qui nous est propre, et de là nous concluons qu'elle est quelque chose de comparable à notre esprit.

Ensuite réfléchissant sur ses ouvrages, nous tâchons de pousser nos découvertes sur la nature de cette cause; nous nous la peignons tout aussi parfaite et aussi sage que nous le pouvons imaginer. Enfin la trouvant infiniment sage, infiniment puissante, nous sommes obligés d'avouer qu'elle est incompréhensible, et que la raison de l'homme quoique du même genre et servant à la connaître n'a pas plus de rapport avec elle qu'un point à tout l'univers.

Nous donnons généralement le nom de Dieu à ce grand Etre ou auteur de toutes les choses.

Se laisser aller à l'imagination qu'un tel être (comme on voudra le nommer) n'existe pas, c'est introduire dans l'esprit une confusion qui ne produit que des absurdités, cette imagination ne plaît point, ne satisfait point, est inutile aux connaissances, nullement à souhaiter et ne peut subsister dans l'esprit humain à moins que quelque artifice n'en ait banni la raison naturelle.

Tout nous représente la providence dans la nature soit par les découvertes de la physique, soit par la pratique de la philosophie naturelle, soit enfin par les autres connaissances que le hasard même nous fournit. Cette providence de la nature ne consiste que dans des inventions, et des actions remplies de sagesse, de justice et de perfection; c'est dire que la nature est un inventeur et un agent qui a de la justice et de la sagesse. Nous ne pouvons concevoir ces qualités réunies dans un être qu'en formant en nous-mêmes l'idée d'un esprit.

Quiconque parle ainsi de la nature n'est pas un athée, mais il a une vraie notion de Dieu, et ce n'est que par caprice ou prévention que les hommes docteurs donnent à la même chose des noms différents.

Chapitre 4.

En considérant les ouvrages de l'auteur de la nature, nous trouvons que les planètes sont des corps aussi vastes que le globe terrestre que nous habitons; et voyant même qu'elles sont éclairées par le même soleil qui nous éclaire, nous sommes convaincus que tous ces corps ont la même origine. A cette réflexion nous ajoutons l'expérience qui nous apprend que chaque espace de la terre est rempli de plusieurs animaux, et que chaque chose a non seulement un usage, mais qu'elle est capable encore d'en avoir plusieurs autres. L'eau, par exemple, n'est pas seulement utile aux productions de la terre, et d'un grand usage à l'homme et aux animaux de l'air et de la terre, elle se trouve encore remplie de poissons et d'animaux qui l'habitent, et s'y multiplient.

Nous concluons de là qu'il est probable que les étoiles sont habitées. N'est-ce pas en effet une grande absurdité de penser le contraire? Comment peut-on réfléchir sur la sagesse et la perfection de l'auteur de la nature, et imaginer qu'il n'ait produit ces corps prodigieux que pour éclairer l'homme ? Mais il nous est impossible de connaître quelle est l'espèce de leurs habitants, quelles sont leurs formes et leurs facultés.

Méditant sur un être sage, bon et puissant à l'infini, nous commençons naturellement par sentir du respect et nous sommes entraînés à lui rendre les honneurs et les devoirs conséquents de l'idée que nous en avons, et cette idée nous conduit enfin jusques à l'adoration.

Occupés de ces contemplations, un homme nous vient dire que nos notions[d] sont justes, qu'elles nous conduisent à exalter comme il convient le pouvoir de Dieu, que c'est ainsi que nous le devons adorer; mais que Dieu lui a révélé et ordonné de nous dire que nous devons aller plus loin dans nos idées, et que nous devons croire que les planètes sont remplies d'hommes précisément et de la même manière que notre terre. Nous lui demandons la démonstration de cette proposition, et si Dieu lui a donné les moyens de nous en convaincre; mais au lieu de nous donner une démonstration par les faits, il dit seulement : vous le devez croire sans preuve, et si vous ne le croyez pas, le même pouvoir qui vous a produits avec toute la nature, vous punira de la manière la plus terrible; vous savez bien qu'il a le pouvoir de le faire.

Il passe de là à nous prouver autant qu'il le peut la vérité de sa prétendue révélation, mais il ne donne aucuns faits qui la démontrent.

Or tout ce qu'il ajoute de la part de Dieu de commandements et d'ordres est directement opposé à l'idée de la justice et de la sagesse par lesquelles nous avons découvert d'abord l'existence divine.

Plus il donne d'évidence à sa prétendue autorité, plus il confond ce qu'il prétend enseigner, c'est-à-dire qu'en élevant Dieu il détruit tout le fondement sur lequel nous avons bâti l'existence de Dieu.[e]

La seule notion[f] que nous ayons de Dieu, c'est de lui reconnaître un esprit raisonnable tel que le nôtre, mais nous lui admettons à la plus grande perfection.

Si l'on trouve de la folie, des bagatelles, de l'injustice[g] et de la cruauté, où la raison est dans sa plus grande perfection, nous pouvons assurer qu'une cause inférieure à Dieu [ne] peut prétendre à faire ou à connaître mieux.

En détruisant la notion naturelle que nous avons de la justice et de la sagesse, on fait tomber l'esprit de l'homme dans une destruction totale et l'on ne lui laisse d'autres règles certaines pour la conduite de sa vie et de ses actions[h] que celle d'imaginer que le bien peut être un mal, et que le mal peut être un bien.

Car nous n'avons rien en nous qui nous punisse de faire le mal ou qui nous approuve lorsque nous faisons le bien, c'est ce que l'on appelle communément conscience [*] . Nous n'avons pas non plus en nous rien qui empêche la raison ou lumière naturelle de faire tous les jours de nouvelles découvertes sur la sagesse et la justice de Dieu.

Mais laissons ces questions aux curieux et à ceux qui prétendent tirer immédiatement d'eux-mêmes une plus grande connaissance de la Divinité. Il est certain que ces prétendues découvertes accusant Dieu de folie, d'injustice et de cruauté, produisent une confusion dans l'esprit qui ne conduit qu'à des absurdités.

Plus le crédit d'une personne est grand, et plus la vérité de la révélation est probable, moins ce qu'il prétend prouver doit avoir de crédit, par la raison que plus la révélation approche de la vérité moins nous avons d'opinion de la sagesse et de la bonté de Dieu, d'où il s'ensuit inévitablement que nous l'estimons moins.

Ainsi tout le système est détruit, tant du côté du pouvoir et de la perfection de Dieu que du côté de sa sagesse et de sa justice. Car si nous n'avons aucune certitude d'un être sage et juste, il ne peut pas être capable de faire ce que nous avons imaginé; c'est-à-dire en d'autres mots qu'un être sage, puissant, parfait et juste n'existe point ou bien en termes encore plus simples[i] qu'il n'y a point de Dieu.

C'est par là que, faute de courage et de détermination à exercer la raison, le genre humain est abandonné par les pièges qu'on lui tend à l'athéisme, au scepticisme, à l'esclavage, et à la stupide bigoterie.

Chapitre 5.

Lors donc que l'on nous offre une religion révélée, nous devons employer notre raison pour l'examiner, demeurant fermes et inébranlables à la proposition qui suit : que la raison générale du genre humain, soit qu'on l'appelle lumière de nature ou bien conscience, est un juge compétent de ce qui est juste et sage, bon et mauvais, et qu'il est impie et blasphématoire d'affirmer que Dieu soit fou ou injuste.

Dans l'établissement[j] d'une religion révélée on n'enseigne point d'autres choses que ce qui conduit à se soumettre aux volontés[k] et aux commandements de Dieu, qu'à corriger les[l] passions, qu'à rectifier l'esprit, qu'à s'humilier et devenir patient, qu'à se résigner entièrement à la providence, qu'à mépriser les honneurs et les grandeurs du monde, qu'à s'appliquer[m] uniquement du bonheur de l'état à venir, enfin qu'à craindre des peines éternelles pour les prévaricateurs.

Tous ces préceptes n'étant point contraires au bonheur du genre humain, on se laisse aisément aller à les suivre, et l'on se laisse conduire par les personnes saintes et vénérables qui les enseignent et qui prétendent ne rien apprendre qui vienne de leur propre fond mais d'une autorité révélée. Cette autorité révélée devenue suffisamment évidente soumet à la fin tout à elle-même, et les peuples et ceux qui les enseignent.

Pour entretenir la dévotion, la piété et pour la facilité de l'instruction il est nécessaire de former de petites sociétés et d'en donner le soin à des conducteurs. Ces conducteurs comme interprètes de la révélation établissent par degrés une soumission absolue à leur décision, se servant, pour y parvenir, de la volonté qu'ont les peuples de se laisser gouverner pour s'entretenir dans la régularité de la religion. Par le crédit qu'ils ont sur le peuple il leur est aisé, soit par artifice soit par intérêt, de rendre eux-mêmes leur doctrine nécessaire, soit en effet soit en apparence, aux Princes ou aux puissances législatives. Ils gagnent par ce moyen des honneurs, des prérogatives et des dignités, et négligeant de jour en jour l'exercice des règles[n] de morale qu'ils ont prescrit[es], ils vivent avec délices et jouissent avec excès des plaisirs.

Mais quelques altérations qu'ils introduisent, elles sont toujours dépendantes des règles ou tirées des meilleures interprétations, ne se départant jamais de leur première exposition qui dit que ceux qui n'obéissent pas en tout[o] à la règle doivent souffrir pendant une éternité les peines les plus horribles que puisse concevoir l'esprit humain[p] .

L'homme qui voit un aussi grand intérêt fondé sur cette autorité se croit obligé d'approfondir ce dont il est instruit et trouve que les interprètes ou directeurs ont mal fait plusieurs choses et qu'ils s'écartent de la règle. Cependant, toujours soumis à la révélation, ils concluent nécessairement qu'ils doivent agir selon[q] la règle prescrite ou qu'ils sont exposés aux dangers de la Damnation, et ces directeurs et ces interprètes se laissant emporter par les vues contraires aux lumières naturelles, ceux qui réfléchissent se confirment eux-mêmes dans le bon chemin et sont persuadés que les autres en sont éloignés.

Chapitre 6.

Si dans la Religion révélée il se trouve des mots obscurs et dérivés de langues étrangères, des allégories annexées à un peuple, et des phrases embarrassées par les doutes de la construction, les interprètes pour éclaircir les mots, les allégories et les phrases douteuses affirment des choses contraires les unes aux autres selon leurs passions et selon leurs préjugés[r] .

C'est ce qui fait que ceux qui se trouvent avoir le plus de conscience, et qui ont résolu de n'être point trompés dans l'affaire de leur salut se séparent de ces interprètes, et de là naissent incontestablement une multitude d'opinions et de séparations. La Raison pourrait être dans ce cas de quelque secours, mais différant entre eux ils conviennent en général que, la règle émanant immédiatement de la révélation divine, quiconque la soumet à la raison mérite d'être puni éternellement.

Ceux qui ont des opinions contraires se damnent réciproquement les uns les autres et comme chacun pense que l'autre a mérité d'être condamné par la main de Dieu, il leur est aisé de se persuader qu'ils méritent d'être châtiés par la main des hommes. C'est donc une conséquence nécessaire que de haïr ce que Dieu hait.

Etant persuadés de servir Dieu, la religion, et de mériter leur félicité éternelle, les hommes pensent nécessairement[s] que plus ils font d'injustices aux ennemis de leur Religion, et que plus ils souffrent en défendant la leur, plus ils méritent que Dieu les récompense.

Cette idée a introduit dans le monde la haine la plus barbare, l'inimitié et le mépris que l'on a les uns pour les autres.

Ceux qui ont poussé le plus loin cette haine de religion sont ceux qui ont été plus religieux et plus parfaits selon leur règle prétendue.

Il s'est aussi trouvé des hommes méchants qui ont su profiter de la disposition bigote du genre humain, et qui ont exposé les hommes à plus d'erreurs encore qu'ils n'en étaient imbus, sous le prétexte de les réformer, ils ont enchéri sur les artifices des premiers pour tromper les plus ignorants.

Il faut condamner jusqu'à l'apparence plausible de l'inspiration, et toutes les tromperies qui sous le nom de miracles peuvent suborner la raison.

Le mal le plus à craindre dans le monde et qui entraîne tous les maux avec lui, c'est lorsqu'un tyran imposteur forme la discipline d'un état, car c'est alors que les hommes sont aisément engagés à ce qui seul convient à ses principes et qu'il peut imposer des lois et donner des bornes à la pensée de ses sujets; et si ces lois ne sont pas suffisantes, la société par la suite condamne à des peines ceux qui parlent ou qui disputent sur différentes choses utiles en philosophie par la seule raison que par la dispute on peut découvrir la source des doctrines enseignées et la source des peines purement tyranniques.

Cette erreur et cet esclavage naissent naturellement de toute religion qui défend à la raison d'examiner son autorité.

Car quoique ces religions aient pour source une véritable piété et une véritable dévotion, et que ces différentes divisions aient pour principe un désir de réformer les erreurs des autres, et la crainte de la damnation, cependant elles dégénèrent et leurs directeurs usurpent un pouvoir despotique.

Chapitre 7.

Si l'on formait aujourd'hui un système de Religion applaudi généralement par tout le genre humain, ou qu'un système fût envoyé aux hommes par une révélation divine qui ne pût être disputée, qu'à cette révélation on ne pût faire aucune objection, et que tout en elle fût d'accord avec la raison, hors en ce point qui condamnerait à des peines éternelles tous ceux qui s'en éloigneraient ou ceux qui voudraient en raisonner, il serait impossible qu'il n'arrivât des changements dans une telle Religion.

Car à la succession du temps certains mots deviendraient anciens et obscurs. Certains hommes par caprice ou par intérêt donneraient des interprétations différentes, les copies des livres seraient sujettes à des erreurs, à des additions ou bien à des soupçons de tous les accidents.

La confusion ne viendrait pas de la vérité ou[t] de la fausseté de la révélation, mais elle naîtrait de la grande difficulté qui se trouve à[u] croire infaillible une chose exposée à des erreurs et sur laquelle la raison n'aurait aucun droit.

C'est par cet artifice secret que ceux qui enseignent la religion se mettent au-dessus de toutes questions et s'attribuent le pouvoir absolu.

En conséquence de cela, le genre humain abandonné à l'ignorance et à la barbarie éprouve des malheurs, des guerres, des séditions et des révoltes, et c'est ce qui fait encore que, suivant le caprice de ces gouverneurs, l'on fait tort aux lois civiles et que l'on élève, que l'on forme ou que l'on détruit les gouvernements.

Le plus grand malheur du genre humain, c'est celui d'être soumis à l'autorité de gens dont la volonté et la conduite ne sont pas soumis[es] à l'inspection de la raison, auxquels on accorde que tout leur pouvoir ne procède que de Dieu et de la religion, que toutes les lois qu'ils font ou la politique qu'ils emploient n'ont d'autres fondements que l'autorité divine et que tous ceux qui s'opposent à leurs dogmes méritent la damnation éternelle et sont indignes d'être écoutés.

Chapitre 8.

Quoique plusieurs nations gémissent sous le poids d'une telle tyrannie ou qu'ils [= elles] en soient menacées, il n'y a cependant encore eu personne qui ait pu imaginer un système de Religion réel ou apparent qui contienne des lois suffisantes pour le gouvernement d'un peuple.

L'on n'a jamais inventé ni[v] publié aucune loi parfaite au moment de sa naissance, mais selon les différents besoins que l'on en a eu[s] on leur a beaucoup ajouté ou retranché.

Le genre humain est naturellement doué d'une raison suffisante pour imaginer des lois et des systèmes de gouvernement.

C'est accuser Dieu d'imperfection que de croire qu'un gouvernement soit immédiatement révélé de lui, et c'est l'accuser de folie et d'impertinence que de croire qu'il doive recourir à des miracles sur des choses où la raison suffit.

[Les hommes ont de certaines propriétés qu'il est injuste de leur enlever.][a]

L'expérience apprend que les hommes peuvent plus sûrement[w] et plus heureusement jouir de leur propriété dans une société réglée que dans leur particulier. C'est là la source des lois et des gouvernements politiques qui sont le résultat de l'ordre nécessaire pour conserver avec le plus grand avantage les libertés et les privilèges du genre humain.

Tous les avantages du gouvernement ne regardent que ceux qui sont gouvernés et c'est la loi fondamentale de toutes les autres. L'autorité des autorités à laquelle se rapportent les gouvernements, les gouverneurs, la politique, la morale et [=est] l'intérêt des peuples, et cette maxime sert de règle pour examiner tous ces points.

Autant que le bien des peuples et des nations le demande, les lois et la politique sont altérées ou peuvent être altérées. Il est donc juste et nécessaire de changer toutes les lois, la politique et les moeurs quand ils sont au désavantage du public.

Toutes les lois, la politique et les moeurs qui sont au désavantage du public ne sont introduites et ne se soutiennent que par la force ou par la tromperie. C'est une injustice et une tyrannie que de les maintenir, et quiconque (sans excepter personne) se déclare publiquement[x] en leur faveur, ou bien empêche secrètement[y] qu'ils [= elles] ne soient aboli[e]s est un traître à son peuple et à son pays.

Les hommes ont une raison suffisante pour inventer les manières convenables pour perfectionner les lois.[z]

Si l'orgueil ou la fureur les précipite dans la confusion ou que la crainte ou l'ignorance les rendent esclaves, les effets funestes de leur folie les convainc [=convainquent] suffisamment de la faute qu'ils ont fait[e].

Il est contre le bon sens et les idées de tous les hommes d'assurer qu'il y a des millions de peuples dont les vies, les libertés et les biens puissent dépendre uniquement[a] du caprice d'un seul homme. Il n'y a ni droit civil ni droit divin qui puisse autoriser cette maxime. Il n'y a que les hommes méchants qui la soutiennent et l'illusion qu'ils causent n'est pas de longue durée[b].

Car il n'y a point de tyran qui s'appuie d'une telle autorité sans avoir la force en main pour la défendre, et les peuples ne s'y soumettent qu'en attendant les moyens de se délivrer.

Le Gouvernement fondé sur le bien général se soutient par lui-même, il n'a pour fondement que la nature, la justice et la raison, et la nature, la justice et la raison le soutiennent également.

Il n'y a point d'homme qui puisse désirer d'être gouverné par aucune autre autorité que celle de la justice et de la raison, à moins qu'il ne veuille se venger de la justice et de la raison.

Celui qui établit l'autorité de la religion contre la loi générale de la raison soumet absolument le pouvoir des magistrats et la liberté des peuples à ceux qui peuvent également nourrir la révolte contre le gouvernement et la tyrannie dans les gouverneurs.

Quoique la religion tyrannique et le gouvernement arbitraire se soutiennent réciproquement, cependant ceux qui reconnaissent[c] l'injustice de ce pouvoir et qui voudraient s'en venger par la prétendue autorité de la Religion se trouvent eux-mêmes enveloppés dans l'esclavage auquel le peuple est soumis.

Il s'ensuit de là que si les tyrans qui leur sont supérieurs les persécutent, malgré leur indépendance ils sont enchaînés de façon qu'ils ne peuvent rien entreprendre ni pour leur honneur, ni pour leur pays.

Un homme peut avoir un droit pour succéder à un autre et la paix publique peut rendre cette succession nécessaire; mais il n'y a point de droit naturel[d] qui permette à un homme de s'attribuer une domination que ne lui donne ni le consentement général ni la paix et l'avantage des peuples.

Si une loi, une coutume ou bien un héritage[e] font prétendre à un homme de disposer des propriétés d'un peuple sans son consentement, cet homme peut s'emparer du tout et se servir de chaque partie pour s'emparer du reste et détruire les propriétaires, mais il est contre nature, justice[f] et raison de perpétuer un pareil pouvoir.

Il est juste, naturel, raisonnable, le bien du peuple gouverné le demande, de changer une telle coutume pour prévenir de pareils inconvénients.

Quand on a si clairement examiné un cas pareil, le jugement décide involontairement et la raison en est satisfaite.

Après ce que nous venons de dire, le cas exposé ne peut être changé quoique l'on dise qu'une telle personne, qu'un tel auteur et qu'une telle religion disent autrement. Un tel discours peut renfermer quelques parties[g] du cas proposé, mais ce n'est jamais le même argument, c'en est un autre de différente espèce, et il ne s'agit plus que de savoir si une telle personne, un tel auteur ou une telle religion sont raisonnables ou non.

Ce cas proposé a déjà été décidé et de façon que ceux qui n'étaient pas de même avis ont été obligés d'en convenir malgré toute leur opiniâtreté, leur erreur est dans leur volonté et non dans leur jugement, et cette erreur y subsiste contre leur propre conscience.

Le moyen de décider toutes les questions de morale, de politique et de religion, c'est celui de les réduire à une vérité évidente d'elle-même.

Si l'on entendait, en présence[h] de dix mille personnes au milieu d'une tempête accompagnée de tonnerre et d'éclairs, une voie [= voix] terrible qui ordonnât de se souvenir que dans 70 ans un homme qui n'est point encore au monde doit être pendu pour expier le sacrilège que son père a commis ce jour-là, chacun de ces dix mille hommes ne pourrait s'empêcher en particulier de regarder cet ordre comme injuste et barbare.

Par la raison que c'est une vérité incontestable qu'il est injuste de punir un homme innocent du crime qu'un autre a commis. C'est encore une autre vérité incontestable que l'auteur de la nature est un être parfaitement juste, incapable de méchanceté et de folie; par conséquent il ne peut produire un tel cas.

Il faut appliquer ce raisonnement à tous les cas semblables, et répondre à cette question de savoir si la chose est raisonnable ou juste selon la notion générale du genre humain, sans faire aucun cas des sophismes de la logique et de tous les textes des auteurs.

Cette manière de découvrir la vérité est si simple et si naturelle que l'homme[i] ne doit point se laisser détourner par l'artifice des hommes méchants.

Chapitre 9.

Le détestable mystère de l'art noir ne consiste qu'à exciter les passions, qu'à en favoriser quelques unes et qu'à en faire naître d'autres, et c'est par ce moyen que cet art apprend à substituer à la place de la raison des passions d'un moment de durée et pleines de brutalité. Ces passions conduisent les hommes à n'estimer qu'eux, à s'opposer à leurs voisins, et à préférer leurs caprices à ceux des autres.

De là viennent le dérèglement de l'esprit et l'éloignement de la raison, et de là vient encore que le désordre des esprits animaux joint au nom de sainteté donné à l'état de corruption forme une habitude qui est la plus dangereuse et la seule espèce de méchanceté.

Il n'y a point d'autres Diables que les auteurs de cette méchanceté. Ce sont eux qui détruisent la félicité humaine. Ils empêchent seuls la paix[j] générale du monde et du pays qu'ils habitent. Ils sont ennemis de l'humanité, blasphémateurs, impies, ils déshonorent la divinité, ils portent le scandale et interrompent la véritable piété.

Voilà ce qui a fait dégénérer le genre humain de son excellence et de la dignité de son espèce, c'est ce qui l'a abaissé à la brutalité qui a obscurci la vérité et qui a précipité l'entendement de l'homme dans une telle erreur et[k] dans une telle ignorance qu'il n'est à présent que ténèbres et confusion.

Il est temps de trouver quelque divin esprit capable de débrouiller ce chaos, et d'éclairer le monde.

Abrégé des trois livres.

1. La raison est ce que l'homme a de plus beau et qui le distingue des autres animaux.

2. La raison n'a d'autre usage que celui de juger du mal et du bien, de la justice et de l'injustice, de la folie et de la sagesse, etc. C'est par la raison que l'homme peut se rendre sage, et distinguer le vrai du faux, et déterminer ses actions conformément à la vérité.

3. La raison est connue sous le nom de jugement, de lumière naturelle, de conscience et de sens commun, ces noms sont différents selon les différents usages que l'on en fait, mais ils signifient tous la même chose.

4. L'entendement de l'homme n'est autre chose qu'appréhension, qu'on appelle autrement perception, jugement et volonté qu'on appelle autrement résolution.

Les erreurs de l'entendement humain sont ou dans l'appréhension par la négligence que les hommes ont à concevoir les objets avant de les juger; ou dans la volonté par le choix injuste; ou par la résolution que les hommes prennent sur les choses sans consulter le jugement, ou agissant malgré lui.

5. Le jugement de l'homme est une faculté involontaire que les objets font naître en lui et le détermine sans le consentement de la volonté, semblable à un miroir qui peint l'objet qu'on lui présente.

Selon la certitude ou l'incertitude de chaque chose, le jugement détermine le plus ou le moins douteux, le vrai ou le faux.

6. Si l'on n'a pas une certitude suffisante ou quelques faits[l] pour démontrer clairement une chose au jugement, aucun pouvoir, aucune autorité ne peuvent nous forcer et nous persuader à[m] déterminer si une chose est bonne ou mauvaise, mais si la chose est aperçue, le vrai jugement est inévitable.

7. La raison n'est pas seulement juge compétent et infaillible, elle est encore le seul témoin auquel toutes les autorités doivent être soumises pour être examinées avant que nous connaissions nous-mêmes et que nous prouvions aux autres si la chose est bonne ou mauvaise.

8. Ce qui est juste, sage, vrai et bon ne peut pas craindre l'examen de la raison et ne peut pas craindre d'appeler jamais de la raison à l'autorité.

9. Croire est un acquiescement du jugement. C'est pourquoi quand le jugement n'a pas encore déterminé ou acquiescé à quelque chose connu par la perception, prétendre de croire en ce cas c'est une simple affirmation et un acte de la volonté qui n'est autre chose qu'un mensonge rempli d'ignorance et de méchanceté.

10. Une voix qui crie dans un nuage, aucun miracle ou prodige tel qu'il puisse être ne peuvent altérer la notion de la justice et de la sagesse dans l'esprit des hommes; les prodiges peuvent prévenir les usages et les avantages de la raison, mais ils ne peuvent empêcher le jugement de déterminer si ce que l'on voit ou ce que l'on connaît est juste et sage, quoiqu'ils puissent l'épouvanter jusques au point de le réduire au silence et au mensonge. Car si les notions de la justice et de l'injustice, de la sagesse ou de la folie, sont imprimées dans l'esprit de l'homme comme les notions des couleurs, les unes et les autres sont également profondes, également inaltérables et applicables avec la même exactitude.

11. La religion et la sagesse ne sont pas attachées à des hommes qui aient aucune faculté particulière pour juger, percevoir et en profiter. Ce qui est utile est propre au bien et à l'instruction de tous les hommes.

12. Ce qui est désigné pour la connaissance[n] commune doit être évident et convenable à la raison et au sens commun.

13. Les notions de la justice et de la sagesse précèdent la notion de l'être de Dieu.

La connaissance de l'être de Dieu est l'effet du raisonnement naturel que nous faisons sur ce qui se présente à nos sens. Nous découvrons que le monde et ce qu'il contient est la production d'un être juste, puissant, sage et parfait, et nous donnons le nom de Dieu à cette idée à laquelle nous ne pouvons résister.

14. La notion de l'immortalité de l'âme se produit par l'observation de l'étendue de l'esprit humain, par les inventions de la parole et de l'écriture, et celles des machines qui démontrent des actions[o] qui vont au-delà des limites des corps, par la différence des actions des hommes d'avec celles des animaux[p] quoique leurs organes et leurs moyens soient les mêmes, par les efforts que font les sourds et les muets pour expliquer leur raisonnement quoiqu'ils aient un sens de moins que quelques animaux, par la prescience dans les songes et d'autres manières de perceptions indépendantes des organes, par la différence des effets que produisent la parole ou l'écriture qui nous portent la connaissance des choses à une certaine distance, par le commencement du mouvement que nous sentons en nous sans qu'il soit excité par aucun attouchement extérieur, par le sentiment que nous découvrons en nous d'un être qui aperçoit qui agit et qui vit en nous, qui est capable d'une existence distinguée de la matière quand-même les organes sont en repos, que la force d'aucun élément ne peut attaquer, qu'aucun corps ne peut toucher, et qui ne peut être réduit au néant, quoiqu'il puisse être privé d'une grande félicité. Nous manquons de moyens pour concevoir l'essence et les manières d'exister et d'agir de cet être dans le présent et dans l'avenir. Nous ne concevons pas que cet être soit mortel, et c'est ce qui fait que nous ne pouvons pas résister à l'idée de l'immortalité de notre esprit.

15. La notion de la providence est produite par l'observation des faits réels et par l'idée du pouvoir qui ne peut être celui des combinaisons ordinaires, ni du hasard, ni d'autres causes naturelles.

16. Toutes les religions qui empêchent l'usage de la raison détruisent dans l'esprit de l'homme toutes les notions de la justice et de la sagesse qui sont le seul fondement sur lequel la connaissance de Dieu, sa providence et l'immortalité de l'âme sont bâti[e]s. Ce sont donc des détours déshonorables à Dieu et injurieux au genre humain.

17. Une religion qui enseigne aux facultés rationnelles de l'âme à se perfectionner, qui apprend une méthode d'adorer Dieu conséquente des grandes notions que nous avons[q] de sa sagesse et de son pouvoir, qui nous abandonne à la providence dans ce monde et dans l'autre, cette religion, dis-je, est nécessaire et avantageuse au genre humain. La disposition naturelle que nous avons à notre conservation, l'admiration et la curiosité nous portent naturellement à elle.

Voilà le modèle de toute religion, le fondement sur lequel elle doit être bâtie[r] , la fin à laquelle elle doit tendre, et c'est la seule règle à laquelle elle puisse être réduite et par laquelle elle puisse être démontrée.

18. La morale est un système de politique par lequel un homme se rend heureux et ceux avec lesquels il vit : celui qui sert bien le public arrive aux honneurs et aux richesses et celui qui se règle lui-même acquiert du plaisir et de la santé.

La morale est une sage conduite qui règle l'usage des sens, des passions et des désirs de l'homme, qui le fait agir et qui lui fait choisir ce qui conduit à son honneur, à son plaisir et à sa fortune et qui met le comble à son bonheur quand il l'a continuellement présente à l'esprit.

19. Tous les avantages du gouvernement ne regardent que ceux qui sont gouvernés, et c'est la foi [=loi] fondamentale de toutes les autres, l'autorité des autorités à laquelle se rapportent les gouverneurs, la politique, la morale et l'intérêt des peuples, et cette maxime sert de règle[s] pour examiner tous ces points.

20. Aucune Loi, aucun gouvernement politique ne sont parfaits dans leur origine, mais ils sont altérés et le doivent être selon que le bien des peuples le demande. S'il se trouve des Lois, ou des coutumes désavantageuses au peuple[t] , il est juste et nécessaire de les réformer, et quiconque empêche qu'on ne les corrige est un traître et un ennemi de son pays.

21. L'homme est naturellement pourvu suffisamment de raison pour inventer des Lois et des méthodes de gouvernement.

22. Le gouvernement fondé sur le bien général se défend par lui-même, il n'a besoin d'aucun autre soutien que celui de sa nature, de la justice et de la raison.

23. Un homme peut avoir droit de succéder à un autre, la paix et le bien public peuvent rendre sa succession nécessaire, mais aucun droit naturel ne permet à un homme plutôt qu'à un autre de s'emparer d'une domination contraire à la paix et au bien de ses peuples, et qui [=que] ne lui donne point le consentement unanime.

C'est dans la force de l'esprit que consiste tout l'art de réduire les choses à l'examen de la raison :

Cette force est une résolution juste de la volonté de choisir et de refuser ce que dicte le jugement.

Le jugement est une lumière infaillible qui nous conduit à percevoir avec justesse et à choisir avec équité.

Et l'arrêt formé par cet examen rational [sic ] est une proposition universelle convenable à la raison universelle du genre humain, évidente par elle-même, ou du moins à laquelle on ne peut résister. C'est pourquoi il faut diviser l'esprit en perception, jugement et volonté quand on lui demande la croyance ou l'acquiescement de son jugement.[u] Si ce que l'on voit dans sa perception est contraire à ce qui est demandé, le jugement détermine que la chose est contraire, et si l'on ne voit rien dans sa perception, le jugement ne déterminera rien.

Dans tous les autres cas on peut affirmer hardiment et démontrer que celui qui fait la proposition ne croit point lui-même et n'a aucune faculté pour voir différamment, mais qu'il ne décide que par sa seule volonté et que par conséquent sa foi prétendue est une idée en l'air et[w] une chimère de la fantaisie que l'on ne peut entendre. Car tout le secret de cet art ne consiste qu'à[x] observer que la détermination du jugement est involontaire et que par conséquent un homme peut connaître ce que l'autre croit, ou pour parler plus juste, que nous n'entendons rien en disant nous croyons, à moins que nous ne puissions rendre nos expressions intelligibles en disant nous supposons, nous consentons, nous connaissons que cela est plus ou moins possible, probable ou certain.

Par conséquent, quiconque veut apprendre à un autre à penser et à parler avec justesse, doit lui apprendre à penser et[y] à parler, comme si les mots de croire et d'ajouter foi n'existaient pas. Et il ne doit pas présumer que celui à qui il veut apprendre soit incapable de juger sainement, car c'est en ce point que sont renfermés le noeud de la difficulté et le grand mystère de toutes les erreurs[z] et de toutes les confusions.

Cette illusion étant ôtée, on raisonne non sur des notions mais sur des faits, sur les apparences des sens, et sur le fidèle récit que nous a dicté le jugement. En raisonnant ainsi on passe conséquemment d'une perception générale à une détermination générale. Le consentement que l'on donne est aussi nécessaire que forcé, comme dans les questions d'arithmétique. Par ce moyen on lève tout obstacle; l'on répond à toute objection avec autant de facilité que l'on répond aux premières règles d'arithmétique.

Pour rendre cette méthode de raisonner encore plus familière, considérez cette faculté de l'esprit que l'on appelle jugement sous d'autres apparences ou d'autres noms, c'est-à-dire comme lumière de nature, conscience ou sens commun, et vous trouverez aisément[a] que le genre humain n'a point d'autre faculté d'entendre les choses ou d'autre moyen de les distinguer : il n'y a ni connaissance, ni détermination, ni acquiescement qui s'oppose au jugement et qui soit indépendante du jugement, et l'épouvante d'aucune autorité ou l'illusion d'aucun argument ne peut jamais[b] l'altérer.

Le moyen de découvrir la vérité est donc de considérer comment les choses paraissent au sens commun, c'est-à-dire à des personnes indifférentes et de s'arrêter fermement à ce qui résulte d'une telle réflexion.

Pour prouver que vous êtes dans le vrai, que votre perception est juste et que votre résolution est conforme à ce que vous a dicté votre jugement, prenez la proposition du sens commun, c'est-à-dire ce qui résulte de l'examen raisonnable du cas, réduisez-le en forme par écrit, et vous verrez pour lors la vérité claire, évidente par elle-même, à laquelle personne ne peut s'empêcher de se soumettre et convenable à la raison du genre humain; c'est-à-dire que le sens commun et la raison de tous les hommes sont obligés de convenir qu'il est aussi vrai que 2 et 2 font 4 et que 17 + 4 et 9 font 30 qu'ils sont obligés de consentir à une vérité par elle-même évidente quoiqu'elle demande quelque petit examen de plus.

Cette petite sentence qui suit renferme tout le secret nécessaire pour se rendre l'esprit juste et pour acquérir la sagesse.

Exercez avec soin et avec force et mettez continuellement en usage le sens commun.

[L'extrait des 3 livres suffit pour faire juger de ce que renferment de meilleur les deux derniers; ce qu'il y a de plus curieux dans le 2e est ce que l'auteur dit de l'immortalité de l'âme que l'on lit tout au long dans l'abrégé. Dans le 3e il n'y a presque que des définitions pareillement rendues dans l'abrégé. Le reste du livre en contient des réponses à des objections; la plus cureise est celle où il traite de la probabilité de l'habitation des planètes dans laquelle l'auteur éclaircit sa doctrine par des exemples sur les mystères de la religion, la transsubstantiation, la prédestination, la trinité qu'il annule. Ce qu'on y lit de plus curieux, est une échelle qui mesure les degrés de nos connaissances. Ces degrés sont :

Le certain

le probable

l'indéterminable

le possible

l'impossible

le faux.

Il renvoie à un de ces degrés quand on lui propose une question. Celle qui regarde l'immortalité de l'âme n'est que la matière, plus étendue, de ce qu'il a dit dans l'abrégé; dans l'apostille il soutient l'existence de cette force que l'on appelle Liberté. Les arguments dont il se sert sont à peu près ceux du Docteur Clark et toute l'apostille que la Liberté est une espèce de hasard. C'est ce qui lui fait dire que le consentement de la volonté qui n'est pas dirigé par le jugement n'est que mensonge et méchanceté.

Le premier de ces trois livres est le plus beau, le plus étendu, le plus serré et le plus nouveau; les deux autres sont pleins de réflexions plus ingénieuses que nouvelles; mais l'on peut dire que tout cet ouvrage est, en général, tiré de M. Locke.] [c]

FIN

 

NOTES

[a] Nancy : poltronnerie.

[b] Nancy : leurs.

[c] Nancy : inévitable.

[d] Nancy : idées.

[e] La suite du texte de Nancy est écrite d'une autre main.

[f] Nancy : idée.

[g] Nancy : imperfection.

[h] Nancy : d'autres règles de sa conduite et de ses actions.

[*] Les trois manuscrits portent ce texte qui comporte un contre-sens. Le texte anglais est le suivant : "But there is no such thing as wholly stifling man's reason from checking him in doing ill, and approving him in doing well, which is commonly call'd conscience; nor obscuring altogether the same reason, or light of Nature, from making daily discoveries of the wisdom and justice of God." (traduction : "Mais il est impossible d'étouffer entièrement la raison humaine qui le retient de faire le mal et qui l'approuve de faire le bien, qu'on appelle communément conscience; comme il est impossible d'empêcher cette même raison, ou lumière de la Nature, de faire quotidiennement de nouvelles découvertes sur la sagesse et sur la justice divines.")

[i] Nancy : plus simplement.

[j] Nancy : les commencements.

[k] Nancy : à la volonté.

[l] Nancy : ses.

[m] Nancy : s'occuper.

[n] Nancy : de jour en jour les règles.

[o] Nancy : pas à la règle.

[p] Nancy : les plus horribles que l'esprit humain puisse imaginer.

[q] Nancy : doivent suivre la règle.

[r] Nancy : selon leur passion et selon leur préjugé.

[s] Nancy : mot omis.

[t] Nancy : ne viendrait pas de la fausseté.

[u] Nancy : difficulté de croire.

[v] Nancy : jamais publié.

[a] Cette phrase, qui correspond bien au texte anglais, est omise du ms Sorbonne 1181, mais présente dans Sorbonne 761 et Nancy 484.

[w] Nancy : librement.

[x] Nancy : mot omis.

[y] Nancy : mot omis.

[z] Nancy : phrase omise.

[a] Nancy : mot omis.

[b] Nancy : leur illusion n'est pas de longue durée.

[c] Nancy : connaissent

[d] Nancy : mot omis.

[e] Nancy : une coutume font prétendre.

[f] Nancy : mot omis.

[g] Nancy : quelque partie.

[h] Nancy : au milieu.

[i] Nancy : si simple, si naturelle à l'homme qu'il ne doit point.

[j] Nancy : félicité.

[k] Nancy : l'homme dans une telle ignorance.

[l] Nancy : suffisante pour démontrer.

[m] Nancy : forcer à déterminer.

[n] Nancy : croyance.

[o] Nancy : des machines qui vont au-delà.

[p] Nancy : bêtes.

[q] Nancy : nous avons de sa providence, de sa sagesse.

[r] Nancy : appuyée.

[s] Nancy : sert pour examiner.

[t] Nancy : aux peuples.

[u] Nancy : croyance, si.

[w] Nancy : la foi prétendue est une chimère de sa fantaisie.

[x] Nancy : cet art consiste à.

[y] Nancy : apprendre à parler.

[z] Nancy : difficultés.

[a] Nancy : mot omis.

[b] Nancy : mot omis.

[c] Cette conclusion, qui semble être un commentaire du traducteur, est omise du ms Sorbonne 1181; il figure à la fin de Sorbonne 761 et au début de Nancy 484. Nous donnons le texte de Nancy.


 

Traité de la liberté

[B. de Fontenelle]

From [An.] Nouvelles libertés de penser, Amsterdam 1743



Traité de la liberté divisé en quatre parties

 

Première partie On suppose toujours la liberté des hommes et la prescience de Dieu sur les actions libres des hommes, et la différence n'est que d'accorder ensemble ces deux choses-là; cependant, ni l'une ni l'autre n'est pas trop prouvée. Peut-être même s'embarrasse-t-on d'une question dont les parties ne sont pas vraies. Je prends la chose de plus loin, et j'examine, premièrement, si Dieu peut prévoir les actions des causes libres; et en second, si les hommes le sont.

Sur la première question, je dis que j'appelle prescience toute connoissance de l'avenir.

La nature de la prescience de Dieu m'est inconnue, mais je connois dans les hommes cette prescience par laquelle je puis juger de celle de Dieu, parce qu'elle est commune à Dieu et à tous les hommes.

Les astronomes prévoient infailliblement les éclipses; Dieu les prévoit aussi.

Cette prescience de Dieu et cette prescience des astronomes sur les éclipses, conviennent en ce que Dieu et les astronomes connoissent un ordre nécessaire et invariable dans le mouvement des corps célestes, et qu'ils prévoient par conséquent les éclipses qui sont dans cet ordre-là.

Ces presciences diffèrent, premièrement, en ce que Dieu connoît dans les mouvemens célestes l'ordre qu'il y a mis lui-même; et que les astronomes ne sont pas les auteurs de l'ordre qu'ils y connoissent.

Secondement en ce que la prescience de Dieu est tout à fait exacte, et que celle des astronomes ne l'est pas; parce que les lignes des mouvemens célestes ne sont pas si régulières qu'ils les supposent, et que leurs observations ne peuvent pas être de la première justesse.

On ne peut trouver d'autres convenances, ni d'autres différences.

Pour rendre la prescience des astronomes sur les éclipses égale à celle de Dieu, il ne faudroit que remplir ces différences.

La première ne fait rien d'elle-même à la chose; il n'importe pas d'avoir établi un ordre pour en prévoir les suites, il suffit de connoître cet ordre aussi parfaitement que si on l'avoit établi; et quoiqu'on ne puisse pas en être l'auteur sans le connoître, on peut le connoître sans en être l'auteur.

En effet, si la prescience ne se trouvoit qu'où se trouve la puissance, il n'y auroit aucune prescience dans les astronomes sur les mouvemens célestes, puisqu'ils n'y ont aucune puissance. Ainsi Dieu n'a pas la prescience en qualité d'auteur de toutes les choses, mais il l'a en qualité d'être qui connoît l'ordre qui est en toutes choses.

Il ne reste donc qu'à remplir la deuxième différence qui est entre la prescience de Dieu et celle des astronomes. Il ne faut pour cela que supposer les astronomes parfaitement instruits de l'irrégularité des mouvemens célestes et les observations de la dernière justesse. Il n'y a nulle absurdité à cette supposition.

Ce seroit donc avec cette condition qu'on pourroit assurer sans témérité, que la prescience des astronomes sur les éclipses, seroit précisément égale à celle de Dieu en qualité de simple prescience: donc la prescience de Dieu sur les éclipses ne s'étendroit pas à des choses où celle des astronomes ne pourroit s'étendre.

Or il est certain que, quelque habiles que fussent les astronomes, ils ne pourraient pas prévoir les éclipses, si le soleil ou la lune pouvoit quelquefois se détourner de leur cours indépendamment de quelque cause que ce soit, et de toute règle.

Donc Dieu ne pourroit pas non plus prévoir les éclipses, et ce défaut de prescience en Dieu ne viendroit non plus que d'où viendroit le défaut de prescience dans les astronomes.

Or le défaut de prescience dans les astronomes ne viendroit pas de ce qu'ils ne seraient pas les auteurs des mouvemens célestes, puisque cela est indifférent à la prescience, ni de ce qu'ils ne connoîtraient pas assez bien les mouvemens, puisqu'on suppose qu'ils les connoîtraient aussi bien qu'il seroit possible; mais le défaut de prescience en eux, viendroit uniquement de ce que l'ordre établi dans les mouvemens célestes ne seroit pas nécessaire et invariable: donc de cette même cause viendroit aussi en Dieu le défaut de prescience.

Donc Dieu, bien qu'infiniment puissant et infiniment intelligent, ne peut jamais prévoir ce qui ne dépend pas d'un ordre nécessaire et invariable.

Donc Dieu ne prévoit point du tout les actions des causes qu'on appelle libres. Donc il n'y a point de causes libres, ou Dieu ne prévoit point leurs actions. En effet, il est aisé de concevoir que Dieu prévoit infailliblement tout ce qui regarde l'ordre physique de l'univers, parce que cet ordre est nécessaire et sujet à des règles invariables qu'il a établies. Voilà le principe de sa prescience.

Mais sur quel principe pourroit-il prévoir les actions d'une cause que rien ne pourroit déterminer nécessairement? Le second principe de prescience qui devroit être différent de l'autre, est absolument inconcevable; et puisque nous en avons un qui est aisé à concevoir, il est plus naturel et plus conforme à l'idée de la simplicité de Dieu de croire que ce principe est le seul sur lequel toute sa prescience est fondée.

Il n'est point de la grandeur de Dieu de prévoir des choses qu'il auroit faites lui-même de nature à ne pouvoir être prévues.

Deuxième partie

Il ne faudroit donc point ôter la liberté aux hommes pour conserver à Dieu une prescience universelle, mais il faudroit auparavant savoir si l'homme est libre en effet.

Examinons cette deuxième question en elle-même et sur ces principes essentiels, sans même avoir égard au préjugé du sentiment que nous avons de notre liberté, et sans nous embarrasser de ses conséquences, voici ma pensée.

Ce qui est dépendant d'une chose a certaines proportions avec cette même chose, c'est-à-dire qu'il reçoit des changemens quand elle en reçoit selon la nature de leur proportion.

Ce qui est indépendant d'une chose n'a aucune proportion avec elle; en sorte qu'il demeure égal quand elle reçoit des augmentations et des diminutions.

Je suppose avec tous les métaphysiciens, 1deg. que l'âme pense selon que le cerveau est disposé, et qu'à des certaines dispositions matérielles du cerveau, et à de certains mouvemens qui s'y font, répondent certaines pensées de l'âme. 2deg. que tous les objets, même spirituels, auxquels on pense, laissent des dispositions matérielles, c'est-à-dire des traces dans le cerveau. 3deg. je suppose encore un cerveau où soient en même temps deux sortes de dispositions matérielles, contraires et d'égale force, les unes qui portent l'âme à penser vertueusement sur un certain sujet, les autres qui la portent à penser vicieusement.

Cette supposition ne peut être refusée; les dispositions matérielles contraires se peuvent aisément rencontrer ensemble dans le cerveau au même degré, et s'y rencontrent même nécessairement toutes les fois que l'âme délibère et ne sait quel parti prendre.

Cela supposé, je dis: ou l'âme se peut absolument déterminer dans cet équilibre des dispositions du cerveau, à choisir entre les pensées vertueuses et les pensées vicieuses, ou elle ne peut absoulument se déterminer dans cet équilibre.

Si elle peut se déterminer, elle a en elle-même le pouvoir de se déterminer, puisque dans son cerveau tout ne tend qu'à l'indétermination, et que pourtant elle se détermine.

Donc ce pouvoir qu'elle a de se déterminer est indépendant des dispositions du cerveau.

Donc il n'a nulle proportion avec elle. Donc il demeure le même, quoiqu'elles changent.

Donc si l'équilibre du cerveau subsiste, l'âme se détermine à penser vertueusement; elle n'aura pas moins le pouvoir de s'y déterminer quand ce sera la disposition matérielle à penser vicieusement qui l'emportera sur l'autre.

Donc à quelque degré que puisse monter cette disposition matérielle aux pensées vicieuses, l'âme n'en aura pas moins le pouvoir de se déterminer aux choix des pensées vertueuses.

Donc l'âme a en elle-même le pouvoir de se déterminer malgré toutes les dispositions contraires du cerveau. Donc les pensées de l'âme sont toujours libres. Venons au second cas.

Si l'âme ne peut se déterminer absolument, cela ne vient que de l'équilibre supposé dans le cerveau, et l'on conçoit qu'elle ne se déterminera jamais si l'une des dispositions ne vient à l'emporter sur l'autre, et qu'elle se déterminera nécessairement pour celle qui l'emportera.

Donc le pouvoir qu'elle a de se déterminer au choix des pensées vertueuses ou vicieuses, est absolument dépendant des dispositions du cerveau.

Donc pour mieux dire, l'âme n'a en elle-même aucun pouvoir de se déterminer, et ce sont les dispositions du cerveau qui la déterminent au vice ou à la vertu. Donc les pensées de l'âme ne sont jamais libres.

Or en rassemblant les deux cas, où il se trouve que les pensées de l'âme sont toujours libres, ou qu'elles ne le sont jamais en quelque cas que ce puisse être.

Or il est vrai, et reconnu de tous, que les pensées des enfans, de ceux qui rêvent, de ceux qui ont la fièvre chaude et des fols, ne sont jamais libres.

Il est aisé de reconnoître le noeud de ce raisonnement. Il établit un principe uniforme dans l'âme, en sorte que le principe est toujours, ou indépendant des dispositions du cerveau, ou toujours dépendant, au lieu que dans l'opinion commune, on le suppose quelquefois dépendant, et d'autres indépendant.

On dit que les pensées de ceux qui ont la fièvre chaude et des fols ne sont pas libres, parce que les dispositions matérielles du cerveau sont atténuées et élevées à un tel degré que l'âme ne leur peut résister, au lieu que dans ceux qui sont sains, les dispositions du cerveau sont modérées, et n'entraînent pas nécessairement l'âme.

Mais premièrement dans ce système, le principe n'étant pas uniforme, il faut qu'on l'abandonne, si je puis expliquer tout par un qui le soit.

Secondement, si un poids de cinq livres pouvoit n'être pas emporté par un poids de six, vous concevrez qu'il ne le seroit pas non plus par un poids de mille livres; car s'il résistoit à un poids de six livres par un principe indépendant de pesanteur, et ce principe, quel qu'il fût, n'auroit pas plus de proportion avec un poids de mille livres qu'avec un poids de six, parce qu'il seroit d'une nature différente de celle des poids.

Ainsi si l'âme résiste à une disposition matérielle du cerveau qui la porte à un choix vicieux, et qui, quoique modérée, est pourtant plus forte que la disposition matérielle à la vertu, il faut que l'âme résiste à cette même disposition matérielle du vice quand elle sera infiniment au-dessus de l'autre, parce qu'elle ne peut lui avoir résisté d'abord que par un principe indépendant des dispositions du cerveau et qui ne doit pas changer par les dispositions du cerveau.

En troisième lieu, si l'âme pouvoit voir très clairement malgré une disposition de l'oeil qui devroit affoiblir la vue, on pourroit conclure qu'elle verroit encore malgré une disposition de l'oeil qui devroit empêcher entièrement la vision, en tant qu'elle est matérielle.

4deg. On convient que l'âme dépend absolument des dispositions du cerveau pour ce qui regarde le plus ou le moins d'esprit; cependant si sur la vertu ou le vice les dispositions du cerveau ne déterminent l'âme que lorsqu'elles sont extrêmes, et qu'elles lui laissent la liberté lorsqu'elles sont modérées, en sorte qu'on peut avoir beaucoup de vertu malgré une disposition médiocre au vice, il devroit être aussi, qu'on peut avoir beaucoup d'esprit malgré une disposition médiocre à la stupidité, ce qu'on ne peut pas admettre; il est vrai que le travail augmente l'esprit, ou pour mieux dire, qu'il fortifie les dispositions du cerveau, et qu'ainsi l'esprit croit précisément autant que le cerveau se perfectionne.

En cinquième lieu, je suppose que toute la différence qui est entre un cerveau qui veille et un cerveau qui dort, est qu'un cerveau qui dort est moins rempli d'esprits, et que les nerfs y sont moins tendus, de sorte que les mouvemens ne se communiquent pas d'un nerf à l'autre, et que les esprits qui rouvrent une trace, n'en rouvrent pas une autre qui lui est liée.

Cela supposé, si l'âme a un pouvoir de résister dispositions du cerveau, lorsqu'elles ont faibles, elle est toujours libre dans les songes, ou les dispositions du cerveau qui la portent à de certaines choses, sont toujours très foibles. Si l'on dit que c'est qu'il ne se présente à elle que d'une sorte de pensées qui n'offrent point de matière de délibération, je prends un songe où l'on délibère si l'on tuera son ami, ou si on ne le tuera pas, ce qui ne peut être produit que par des dispositions matérielles du cerveau qui soient contraires, et en ce cas il paroît que selon les principes de l'opinion commune, l'âme devroit être libre.

Je suppose qu'on se réveille, lorsqu'on étoit résolu à tuer son ami, et que dès qu'on est réveillé on ne le veut plus tuer; tout le changement qui arrive dans le cerveau, c'est qu'il se remplit d'esprits, c'est que les nerfs se tendent; il faut voir comment cela produit la liberté.

La disposition matérielle du cerveau qui me portoit en songe à vouloir tuer mon ami, étoit plus forte que l'autre. Je dis: ou le changement qui arrive à mon cerveau fortifie également toutes les deux, ou elles demeurent dans la même disposition où elles étaient; l'une restant, par exemple, trois fois plus forte que l'autre; et vous ne sauriez concevoir pourquoi l'âme est libre quand l'une de ces dispositions a dix degrés de force et l'autre trente, et pourquoi elle n'est pas libre quand l'une de ces dispositions n'a qu'un degré de force et l'autre que trois.

Si ce changement du cerveau n'a fortifié que l'une de ces dispositions, il faut pour établir la liberté que ce soit celle contre laquelle je me détermine, c'est-à-dire celle qui me portoit à voulir tuer mon ami, et alors vous ne sauriez concevoir pourquoi la force qui survient à cette disposition vicieuse est nécessaire pour faire que je puisse me déterminer en faveur de la disposition vertueuse qui demeure la même; ce changement paroît plutôt un obstacle à la liberté; enfin s'il fortifie une disposition plus que l'autre, il faut encore que ce soit la disposition vicieuse, et vous ne sauriez concevoir non plus pourquoi la force qui lui survient est nécessaire pour faire que l'une puisse faire embrasser l'autre qui est toujours la plus foible, quoique plus forte qu'auparavant.

Si l'on dit que ce qui empêche pendant le sommeil la liberté de l'âme, c'est que les pensées ne se présentent pas à elle avec assez de netteté et de distinction, je réponds que le défaut de netteté et de distinction dans les pensées peut seulement empêcher l'âme de se déterminer avec assez de connoissance, mais qu'il ne la peut empêcher de se déterminer librement, et qu'il ne doit pas ôter la liberté, mais seulement le mérite ou le démérite de la résolution qu'on prend.

L'obscurité et la confusion des pensées fait que l'âme ne sait pas assez sur quoi elle délibère, mais elle ne fait pas que l'âme soit entraînée nécessairement à un parti; autrement si l'âme est nécessairement entraînée, ce seroit sans doute par celles de ses pensées obscures et confuses qui le seroient le moins, et je demanderois pourquoi le plus de netteté et de distinction dans les pensées la détermineroit nécessairement pendant que l'on dort, et non pas pendant que l'on veille, et je ferois revenir tous les raisonnemens que j'ai faits sur les dispositions matérielles.

Il paroît donc que le principe commun que l'on suppose inégal et tantôt dépendant, tantôt indépendant des dispositions du cerveau, est sujet à des difficultés insurmontables, et qu'il vaut mieux établir le principe par lequel l'âme se déterminé toujours dépendant des dispositions du cerveau en quelque cas que ce puisse être.

Cela est plus conforme à la physique, selon laquelle il paroît que l'état de veille, ou celui de sommeil, une passion ou une fièvre chaude, l'enfance et l'âge avancé sont des choses qui ne diffèrent réellement que du plus ou du moins, et qui ne doivent pas par conséquent emporter une différence essentielle, telle que seroit celle de laisser à l'âme sa liberté, ou de ne la lui pas laisser.

Troisième partie

Les difficultés les plus considérables de cette opinion sont le pouvoir qu'on a sur les pensées et sur les mouvemens volontaires du corps.

On convient que les premières pensées sont toujours présentées involontairement par les objets extérieurs, ou, ce qui revient au même, par les dispositions intérieures du cerveau, cela est très vrai. Cependant si l'âme formoit une première pensée indépendamment du cerveau, elle formeroit bien la seconde, et ensuite toutes les autres, et cela en quelque état que peut être le cerveau. Mais on dit communément qu'après que cette première a été nécessairement offerte à l'âme, l'âme a le pouvoir de l'étouffer ou de la fortifier, de la faire cesser ou de la continuer.

Ce pouvoir n'est pas encore tout à fait indépendant du cerveau; car, par exemple, l'âme pourroit donc en songe disposer comme elle voudroit des pensées que les dispositions du cerveau lui auraient offertes. Mais l'opinion commune est que dans l'état de la veille ou de la santé, l'âme a dans son cerveau des esprits auxquels elle peut imprimer à son gré le mouvement qui est propre à étouffer ou à fortifier les pensées qui sont nées d'abord indépendamment d'elle.

Sur cela je remarque que l'action des esprits dépend de trois choses: de la nature du cerveau sur lequel ils agissent, de leur nature particulière, et de la quantité ou de la détermination de leur mouvement.

De ces trois choses il n'y a précisément que la dernière dont l'âme puisse être maîtresse. Il faut donc que le pouvoir seul de mouvoir les esprits suffit pour la liberté.

Or je dis premièrement, que si ce pouvoir de mouvoir les esprits suffit pour rendre l'âme libre par rapport sur la vertu ou sur le vice, quoiqu'elle ne soit maîtresse ni de la nature du cerveau, ni de celle des esprits, pourquoi ne suffira-t-elle pas pour rendre l'âme libre sur le plus ou le moins de connoissances et de lumières naturelles? Si la nature de mon cerveau et de mes esprits me dispose à la stupidité, le seul pouvoir de diriger le mouvement de mes esprits ne me mettra-t-il pas en état d'avoir, si je veux, beaucoup de discernement et de pénétration?

En second lieu, si le pouvoir de diriger le mouvement des esprits ne suffit pas pour la liberté, puisque l'âme doit avoir ce pouvoir dans les enfans, et qu'elle n'est pourtant pas libre, ce qui l'empêche de l'être, est la seule nature de son cerveau, et peut-être encore celle de ses esprits.

3deg. Pourquoi l'âme des fols n'est-elle pas libre? Elle peut encore diriger le mouvement de ses esprits. Ce pouvoir est indépendant des dispositions où est le cerveau des fols. Si on dit que le mouvement naturel de leurs esprits est alors trop violent, il s'ensuit que dans cet état la force de l'âme n'a nulle proportion avec celle des esprits qui l'emporte nécessairement; que dans un état plus modéré où la force de l'âme commence à avoir de la proportion avec celle des esprits, l'âme ne peut pas changer entièrement le mouvement des esprits, mais seulement leur en donner un composé de celui qu'ils avaient d'abord, et de celui qu'elle leur imprime de nouveau, ce qui est autant de rabattu sur la liberté de l'âme, et qu'enfin l'âme n'est entièrement libre, que quand elle imprime un mouvement aux esprits qui d'eux-mêmes n'en avaient aucun, ce qui apparemment n'arrive jamais.

En quatrième lieu, l'âme devroit n'avoir jamais plus de facilité à diriger le mouvement des esprits que pendant le sommeil, et par conséquent elle ne devroit jamais être plus libre.

Si on dit que les pensées, tant les premières que les secondes, dépendent absolument des dispositions du cerveau, mais qu'elles ne sont que la matière des délibérations, et que le choix que l'âme en fait est absolument libre, je demande ce qui met cette différence de nature entre les pensées et le choix qu'on en fait, et pourquoi les fols et ceux qui rêvent ne font pas des choix libres et indépendans des pensées auxquelles leur cerveau les détermine.

Sur les mouvemens volontaires du corps, l'opinion commune est que l'on remue librement le pied, le bras, et il est vrai que ces mouvemens sont volontaires, mais il ne s'ensuit pas absolument de là qu'ils soient libres. Ce qu'on fait parce qu'on le veut, est volontaire, mais il n'est point libre, à moins qu'on pût s'empêcher réellement ou effectivement de le vouloir.

Quand je remue la main pour écrire, j'écris parce que je le veux, et si je ne le voulois pas, je n'écrirois pas; cela est volontaire et n'a nulle contrainte. Mais il y a dans mon cerveau une disposition matérielle qui me porte à vouloir écrire, en sorte que je ne puis pas réellement ne le point vouloir; cela est nécessaire et n'a nulle liberté; ainsi ce qui est volontaire est en même temps nécessaire, et ce qui est sans liberté n'a pourtant pas de contrainte.

Concevez donc que comme le cerveau meut l'âme, en sorte qu'à son mouvement répond une pensée de l'âme, l'âme meut le cerveau, en sorte qu'à sa pensée répond un mouvement du cerveau.

L'âme est déterminée nécessairement par son cerveau à vouloir ce qu'elle veut, et sa volonté excite nécessairement dans son cerveau un mouvement par lequel elle l'exécute.

Ainsi, si je n'avois point d'âme, je ne ferois point ce que je fais, et si je n'avois point un tel cerveau, je ne le voudrois point faire.

Tous les autres mouvemens, comme celui du coeur, etc., ne sont point causés par l'âme. Elle ne fait rien que par des pensées, et ce qui n'est point l'effet d'une pensée ne vient point d'elle.

Sur ce principe, je puis satisfaire aisément à tout ce qui regarde les mouvemens volontaires; mais je veux qu'en me servant de réponse il me serve encore de nouvelles preuves.

Je suppose un fol qui veut tuer quelqu'un, et qui le tue véritablement: le mouvement du bras de ce fol est volontaire, c'est-à-dire produit par l'âme, parce qu'elle le veut; car s'il ne l'étoit pas, il faudroit que la même disposition matérielle du cerveau qui auroit porté l'âme du fou à vouloir tuer, eût aussi fait couler les esprits dans les nerfs de la manière propre à remuer les bras, et que ce qui l'auroit fait vouloir, eût en même temps exécuté sa volonté, sans que l'âme s'en fût mêlée, n'ayant imprimé aucun mouvement au cerveau. D'où il suit évidemment: 1deg. Que quand le fol auroit été une pure machine vivante qui n'auroit point eu d'âme qui pensât, il auroit encore tué cet homme en prenant même les armes qui y sont propres, et en choisissant les endroits qui sont propres à blesser.

En second lieu, que quand ce fol auroit été guéri, il pourroit encore tuer un homme en le voulant tuer, mais sans le tuer précisément, parce qu'il le voudroit, puisque les dispositions du cerveau qui le portoient à vouloir tuer pourroient encore exciter dans son bras le mouvement par lequel il tueroit indépendamment de l'âme.

Qu'ainsi, l'âme dans tous les hommes ne seroit la cause d'aucun mouvement, mais qu'elle le voudroit seulement dans le temps qu'il se feroit, et par conséquent l'âme ôtée, les hommes feraient encore tout ce qu'ils font, ce qui ne peut être admis.

Donc le mouvement du bras de ce fol est volontaire; mais certainement ce mouvement n'est pas libre.

Donc il n'est pas absolument de la nature des mouvemens volontaires d'être libres.

En effet, c'est l'âme de ce fol qui remue son bras parce qu'elle veut tuer, mais elle est portée nécessairement à vouloir tuer par les dispositions de son cerveau.

Quatrième partie

Il ne me reste plus qu'à découvrir la source de l'erreur où sont tous les hommes sur la liberté et la cause du sentiment intérieur que nous en avons.

Tous les préjugés ont un fondement, et après l'avoir trouvé, il faut trouver encore pourquoi on a donné dans l'erreur plutôt que dans la vérité.

Les deux sources de l'erreur où l'on est sur la liberté, sont que l'on ne fait ce que l'on veut faire, et que l'on délibère très souvent si on fera ou si on ne fera pas.

Un esclave ne se croit point libre, parce qu'il sent qu'il fait malgré lui ce qu'il fait, et qu'il connoît la cause étrangère qui l'y force; mais il se croiroit libre s'il se pouvoit faire qu'il ne connût point son maître, qu'il exécutât ses ordres sans le savoir, et que ces ordres fussent toujours conformes à son inclination.

Les hommes se sont trouvés en cet état; ils ne savent point que les dispositions du cerveau font naître toutes leurs pensées et toutes leurs diverses volontés; et que les ordres qu'ils reçoivent, pour ainsi dire, de leur cerveau, sont toujours conformes à leurs inclinations, puisqu'ils causent l'inclination même. Ainsi l'âme a cru se déterminer elle-même parce qu'elle ignoroit et ne connoissoit en aucune manière le principe étranger de sa détermination.

On sait qu'on fait toujours ce que l'on veut, mais on ne sait pas pourquoi on le veut, il n'y a que les physiciens qui le puissent deviner.

En second lieu, on a délibéré, et parce qu'on s'est senti partagé entre vouloir et ne pas vouloir, on a cru, après avoir pris un parti, qu'on eût pu prendre l'autre; la conséquence étoit mal tirée, car il pouvoit se faire aussi bien qu'il fût survenu quelque chose qui eût rompu l'égalité qu'on voyoit entre les deux partis, et qui eût déterminé nécessairement à un choix, mais on n'avoit garde de penser à cela puisqu'on ne sentoit pas ce qui étoit survenu de nouveau et qui déterminoit l'irrésolution, et faute de la sentir, on a dû croire que l'âme s'étoit déterminée elle-même et indépendamment de toute cause étrangère.

Ce qui produit la délibération, et ce que le commun des hommes n'a pu deviner, c'est l'égalité de force qui est entre deux dispositions contraires du cerveau, et qui donne à l'âme des pensées contraires: tant que cette égalité subsiste, on délibère; mais dès que l'une des deux dispositions matérielles l'emporte sur l'autre par quelque cause physique que ce puisse être, les pensées qui lui répondent se fortifient et deviennent un choix. De là vient qu'on se détermine souvent sans rien penser de nouveau, mais seulement parce qu'on pense à quelque chose avec plus de force qu'auparavant. De là vient aussi qu'on se détermine sans savoir pourquoi. Si l'âme s'étoit déterminée elle-même, elle devroit toujours en savoir la raison. Dans l'état de veille, le cerveau est plein d'esprits et les nerfs sont tendus, de sorte que les mouvemens se communiquent d'une trace à l'autre qui lui est liée. Ainsi comme vous n'avez jamais ouï parler d'un homicide que comme d'un crime, dès qu'on vous y fait penser, le même mouvement des esprits va rouvrir les traces qui vous représentent l'horreur de cette action; et en un mot, sur quelque sujet que ce soit, toutes les traces qui y sont liées se rouvrent et vous fournissent par conséquent toutes les différentes pensées qui peuvent naître sur cela.

Mais dans le sommeil, le défaut d'esprit et le relâchement des nerfs font que le mouvement des esprits qui rouvrent, par exemple, les traces qui vous font penser à un homicide, ne rouvrent pas nécessairement celles qui y sont liées et qui vous le représentoient comme un crime; et en général il ne se présente point à vous tout ce que vous pouvez penser sur chaque sujet: c'est pourquoi on se croit libre en veillant, et non pas en dormant, quoique dans l'un et l'autre état l'âme soit également déterminée par les dispositions du cerveau.

On ne croit pas que les fols soient fibres, parce que toutes les dispositions de leur cerveau sont si fortes pour de certaines choses qu'ils n'en ont point du tout, ou n'en ont que d'infiniment foibles qui les portent aux choses contraires, et que par conséquent ils n'ont point le pouvoir de délibérer, au lieu que dans les personnes qui ont l'esprit sain, le cerveau est dans un certain équilibre qui produit les délibérations.

Mais il est évident qu'un poids de 5 livres emporté par un poids de 6, est emporté aussi nécessairement que par un poids de mille livres, quoiqu'il le soit avec moins de rapidité; ainsi ceux qui ont l'esprit sain étant déterminés par une disposition du cerveau qui n'est qu'un peu plus forte que la disposition contraire, sont déterminés aussi nécessairement que ceux qui sont entraînés par une disposition qui n'a été ébranlée d'aucune autre; mais l'impétuosité est bien moindre dans les uns que dans les autres, et il paroît qu'on a pris l'impétuosité pour la nécessité et la douceur du mouvement pour la liberté. On a bien pu, par le sentiment intérieur, juger de l'impétuosité ou de la douceur du mouvement; mais on ne peut que par la raison, juger de la nécessité ou de la liberté.

Quant à la morale, ce système rend la vertu un pur bonheur, et le vice un pur malheur; il détruit donc toute la vanité et toute la présomption qu'on peut tirer de la vertu, et donne beaucoup de pitié pour les méchans sans inspirer de haine contre eux. Il n'ôte nullement l'espérance de les corriger; parce qu'à force d'exhortations et d'exemples, on peut mettre dans leur cerveau les dispositions qui les déterminent à la vertu, et c'est ce qui conserve les loix, les peines et les récompenses.

Les criminels sont des monstres qu'il faut étouffer en les plaignant; leur supplice en délivre la société, et épouvante ceux qui seraient portés à leur ressembler.

On ne doit qu'à son tempérament même les bonnes qualités ou le penchant au bien, et il n'en faut point faire honneur à une certaine raison dont on reconnoît en même temps l'extrême foiblesse. Ceux qui ont le bonheur de pouvoir travailler sur eux-mêmes, fortifient les dispositions naturelles qu'ils avoient au bien.

Enfin ce système ne change rien à l'ordre du monde, sinon qu'il ôte aux honnêtes gens un sujet de s'estimer et de mépriser les autres, et qu'il les porte à souffrir des injures sans avoir d'indignation, ni d'aigreur contre ceux dont ils les reçoivent. J'avoue néanmoins que l'idée que l'on a de se pouvoir retenir sur le vice est une chose qui aide souvent à nous retenir, et que la vérité que nous venons de découvrir est dangereuse pour ceux qui ont de mauvaises inclinations. Mais ce n'est pas la seule matière sur laquelle il semble que Dieu ait pris soin de cacher au commun des hommes les vérités qui leur auraient pu nuire.

Au surplus, ce système est très uniforme, et le principe en est très simple: la même chose décide de l'esprit naturel et des moeurs, et selon les différens degrés qu'elle reçoit, elle fait la différence des fols et des sages, de ceux qui dorment et de ceux qui veillent, etc.

Tout est compris dans un ordre physique, où les actions des hommes sont à l'égard de Dieu la même chose que les éclipses, et où il prévoit les unes et les autres sur le même principe.

Haec refutando transcripsi digniori modo sentiens deliberate




 

Extrait d'un livre intitulé: Discours sur les miracles de Jésus traduit de l'anglais

Edited by W. Trapnell © 1997
Electronic version by G. Mori

 

Présentation

La bibliothèque de Voltaire conservée à Saint-Pétersbourg contient un recueil manuscrit coté "Voltaire" 8· 221". La seule source connue du texte qui suit est la troisième pièce de ce recueil. Il s'agit d'une traduction partielle des six Discourses on the Miracles of our Savior (1727-1729) de Thomas Woolston avec un commentaire par le traducteur. Sans doute l'auteur de cet ouvrage est-il Emilie du Châtelet qui l'aurait rédigé pendant son séjour avec Voltaire à Cirey. Pour les détails de cette attribution, voir mon étude dans les actes du colloque de Saint-Etienne en 1993 sur la littérature clandestine (à paraître).

William Trapnell

 

Extrait d'un livre intitulé Discours sur les miracles de Jésus traduit de l'anglais

Ce livre contient six discours et examine 14 miracles de Jésus, dont la resurrection miraculeuse est le dernier. Il est également hardi et fort, les arguments y sont solides, et l'ironie fine et légère; c'est ce qui rarement va ensemble. Il ne sacrifie point la justesse de son raisonnement au brillant de son imagination. Si je lui reprochais quelque chose, ce seroit seulement d'avoir employé quelquefois, pour réfuter les miracles de Jésus-Christ, des raisons aussi frivoles (j'ai retranché quelques-uns de ces endroits qui ne m'ont pas paru justes) que celles dont on se sert pour les défendre. Il me semble qu'où les preuves abondent on doit négliger les vaines subtilités, qu'il faut laisser à ceux qui sentant le faible de leur cause en ont besoin pour mettre à la place des raisons. En un mot il ne faut point donner de fausse monnaie, quand on en a de bonne, plus que l'on n'en a besoin.

Du reste, il règne dans tout cet ouvrage un esprit de haine contre l'ordre ecclésiastique que je n'extrairai sûrement pas, non plus que toutes les rêveries allégoriques des pères qu'il n'a vraisemblablement rapportées que, comme son prétexte, pour les rendre ridicules et dont je crois qu['il] faisait le cas qu'elles méritent.

Discours premier

L'auteur prétend exclure toute explication littérale des livres saints et semble être bien convaincu de cette sentence de Jésus Christ, "La lettre tue, mais l'esprit vivifie". Je crois cependant qu'il avait plus de foi à la première partie de cette sentence qu'à la seconde. Il prétend qu'on doit tous les entendre dans un sens mystique et allégorique, que c'était ainsi que les pères les entendaient, ce qu'il prouve assez bien. Il promet de prouver combien les miracles de Jésus sont peu capables de prouver la mission divine en faisant voir : 1· que ceux qui regardent la question des maladies corporelles ne sont point des preuves d'une mission divine, 2· que l'histoire littérale de ses miracles contenue dans ses évangiles implique et renferme plusieurs absurdités incroyables, sans ombre de probalité. Il regarde, dit-il, les pères comme des philosophes prodigieux, des savants profonds et des théologiens sublimes, quoiqu'ils soient, pour la plupart, mystérieux et impénétrables. "Quand j'y rencontre, dit-il, quelque passage obscur que je n'entends pas, je le salue avec vénération jusqu'à ce que les yeux de mon entendement soient ouverts pour en pénétrer le fond; c'est ainsi qu'il respecte les pères.

Il prouve que les pères ont presque tous pensé que les miracles de Jésus étaient absurdes selon la lettre et insoutenables, et il rapporte les paroles de saint Irénée : "Si nous considérons, en lui-même et sans aller plus loin, l'usage temporel et extérieur que Jésus fit de la puissance de guérir, il ne fit rien qui soit grand ni qui mérite notre admiration". Et celle-ci de saint Augustin : "Si nous admirons les miracles de Jésus par la raison humaine, nous trouverons qu'il ne fit rien de grand, puisque tous ses miracles auraient pu être imputés à l'art magique et opérés par son moyen".

L'auteur avance modestement que Jésus, dans ses miracles, fit des choses aussi absurdes, aussi ridicules et aussi injurieuses à la nature humaine qu'aucun imposteur; ce qui l'oblige de prouver. Il cite Origène qui dit que, dans la partie historique des saintes écritures, il y a des choses qui ne sont jamais arrivées et qui ne pouvaient jamais arriver, et d'autres choses qui auraient pu arriver, mais qui n'ont jamais été faites; ce qu'il dit de l'Ancien et du Nouveau Testament et en donne des preuves. Saint Hilaire déclare qu'il y a plusieurs passages de l'écriture sainte et surtout du Nouveau Testament qui sont contraires au bon sens et à la raison dans un sens littéral, et qu'il faut par conséquent les entendre dans un sens mystique. Enfin saint Augustin ose dire qu'il y a des mystères cachés dans les oeuvres et miracles de Jésus lesquels, si nous les interprétons dans un sens littéral, nous nous précipiterons dans les erreurs et les bévues les plus grossières. J'espère, dit l'auteur, que trois autorités calmeront la rage et diminueront les préjugés de mes adversaires, qui crieront peut-être que je suis un impie et un blasphémateur de vouloir prouver que le sens littéral des miracles de Jésus est absurde, incroyable et impossible.


Premier miracle

Jésus chasse les vendeurs du temple

Le miracle paraît ridicule et inutile à l'auteur. Pourquoi, dit-il, Jésus était-il si dévoré de zèle contre ceux qui profanaient une maison qu'il est venu lui-même détruire et qu'il livra peu après à toutes sortes d'abominations? Le peu de sens et de sagesse qui se trouve dans cette action oblige les pères à avoir recours à un sens mystique que l'auteur expose et que je passerai sous silence, ne connaissant rien de plus ridicule que la lettre des écritures, si ce n'est les explications allégoriques qu'on en fait. Je suis persuadée que c'est dans l'intention de le prouver que l'auteur les rapporte. Il me prend envie de dire mon avis sur le miracle en question : je tombe d'accord de son inutilité, de son ridicule, et je conviens qu'il était peu conforme aux principes de Jésus mais, outre cela, loin de le trouver le plus grand de tous les miracles, je n'en vois aucun là-dedans. On sait que le peuple est plein d'inconstance et de fantaisie, toujours prêt à obéir au premier qui lui parle avec autorité, enthousiasme et quelque sorte d'éloquence, et également prêt à le lapider si un plus adroit le lui persuade. En matière de religion, les hommes sont encore plus susceptibles de prendre feu qu'en aucune autre, sans raison. L'enthousiasme est une maladie qui se gagne (notez que la circonstance rapportée dans saint Mathieu ch. 21, que c'était le jour de son entreé dans Jérusalem, confirme ma conjecture puisque le peuple était disposé ce jour-là en sa faveur). Ceci supposé, ne se peut-il pas que Jésus ait dit au peuple avec emphase que c'était un abus de laisser trafiquer dans le temple et, citant sur cela quelque passage des écritures (comme lorsqu'il leur dit, "il est écrit, ma maison est appelée une maison de prières et vous en faites une caverne de voleurs"), aura engagé la multitude à chasser les marchands du temple. Les évangélistes ont voulu faire un miracle d'un fait aussi simple que vraisemblablement Jésus ne tanta que pour se donner quelque réputation dans le peuple pour faire quelque chose de singulier et pour avoir l'air d'un réformateur.

Jésus chasse les démons des corps des possédés et les envoie dans ceux des cochons

Second miracle

L'auteur prétend que les circonstances du texte prouvent que ce n'est nullement un fait mais une allégorie. Il est dit, ditil, que les possédés erraient vagabonds dans des cimetières, mais n'y avait-il chez les juifs ni hopitaux, ni petites maisons! Pourquoi ne les enfermait-on pas par charité et par compassion et même par police pour prévenir les désordres que leur rage pouvait causer? Mais, dira-t-on, ils rompaient leurs chaînes. Mais ne devait-on pas plutôt les étouffer que d'exposer les passants à leur cruauté? On pouvait répondre aussi qu'il y a des moyens d'enfermer les fous les plus furieux de façon que, quand même ils rompraient leurs chaînes, ils ne peuvent sortir du moins de l'enceinte de la maison de force où on les retient. 2· Comment pouvait-il y avoir des pourceaux dans un pays de juifs qui ne mangeaient ni jambons ni petit salé, ni boudins, ni saucisses? Oh, répondra-t-on, ils étaient pour l'usage des gentils qui voyageaient dans la Judée. Cela ne se peut parce que, depuis qu'Antiochus pollua le temple par le sacrifice d'un pourceau, les juifs avaient défendu sous peine d'anathème d'avoir ni porc ni truie dans leur pays. On dira peut-être que les Gadarènes n'étaient pas juifs mais gentils. D'accord, quoique cette circonstance ne soit pas speéifiée dans l'évangile, nous la suposerons. 3· Pourquoi envoya-t-il les démons dans le corps des pourceaux? Etait-ce un acte de justice et de bonté? Les propriétaires de ces animaux perdaient beaucoup et nous ne voyons pas que Jésus leur en ait remboursé le prix ou qu'ils eussent mérité un semblable traitement. Les habitants du pays le supplient de sortir de leur territoire pour éviter de plus grands dommages, marque évidente qu'ils ne le regardaient pas comme un bienfaiteur et qu'il n'employait pas le don prétendu qu'il avait de guérir les malades et de faire les miracles à l'avantage du public. Je trouve même leur ressentiment fort modéré; si quelque exorciste faisait de même aujourd'hui, nos juges et nos lois le puniraient plus sévèrement.

L'auteur, sur les deux miracles précédents, fait cette réflection : quand Jésus fut amené devant Pilate pour être accusé, jugé et condamné, et qu'il fit cette question à ceux qui le traduisaient devant lui : Quel mal avait-il fait, si l'une ou l'autre de ces histoires était arrivée, il n'avait pas besoin de faux témoins pour le condamner. Les marchands de ce temple n'avaient qu'à dire un mot manifeste, un soulèvement et un tumulte universel, qu'ils avaient perdu par là leurs denrées, leurs marchandises et leurs biens, que les uns avaient été pillés, les autres brisés, les autres gâtés, et tout cela par la violence d'un drôle turbulent et artificieux qui voulait en imposer au peuple, le séduire, et faire du [sic] réformateur, et qui souleva la multitude afin de faire main basse sur leurs marchandises. Puis les porchers des Gadarènes n'avaient qu'à déposer qu'ils le croyaient un sorcier, qu'ils avaient perdu par ses enchantemens deux mille cochons gros et gras, qu'il y avait envoyé des démons pour les noyer et que, s'il avait guéri deux fols de compatriotes, il avoat abîmé leurs cochons dont deux mille valaient bien plus que deux juifs. Je ne suis pas de l'avis de mon auteur qui assure que, si Pilate l'eût condamné sur ces preuves-là, il n'eût fait que ce que tout autre juge n'eût pu se dispenser de faire. Je ne trouve pas comme lui qu'il y eût eu là de quoi faire mourir, mais je crois comme lui que, si les faits fussent arrivés, les juifs en auraient parlé dans leurs accusations comme preuves accessoires, qu'il cherchait à séduire la multitude, à l'étonner et à se faire passer pour un homme surnaturel.

Troisième miracle

Jésus va sur la montagne de Tabor et y est transfiguré.

C'est ici la plus obscure et la plus louche histoire de l'évangile; l'on n'y trouve ni tête ni queue. Il n'est pas permis à nous autres croyants de convenir que le fait soit absolument faux, parce que le prince des apôtres dit qu'il a été témoin oculaire de la gloire de Jésus et qu'il a entendu sa voix de la nue. Mais comme les infidèles veulent toujours mettre le nez où ils n'ont que faire, ils viendraient former des difficultés contre la possibilité et la probabilité de cet événement. Or puisquils nous désoleraient par la lettre, il est à propos de l'abandonner. Saint Augustin dit que le tout pouvait être fait par art magique et nous savons que, de nos jours, certains joueurs de gobelets ont un art merveilleux de contrefaire leurs voix et de la faire paraître très éloignée, quoiqu'ils soient tout près, qu'ils ont de plus le secret de se donner toutes sortes de formes sans miracle.

Qu'est-ce qui arrive dans la transfiguration? On nous dit que son visage reluisait comme le soleil et que ses vêtements étaient blancs comme la neige. Cela suffit-il pour prouver une trans-figuration? Les philosophes nous diront que les différentes réflexions des rayons de lumière forment les différentes couleurs et que, quand tous les rayons sont réfléchis également, cela forme le blanc et les pyrrhoniens diraient qu'il n'est pas étonnant que le visage de Jésus fût rubicon, parce que le soleil donnait dessus. Pour une véritable transfiguration, on attend le changement d'une personne dans une forme, une figure et une essence différente de la sienne. Or Jésus ne fut transformé ni en veau, ni en ours, ce serait même une impiété de le dire. Mais passons et supposons que le visage radieux et les vêtements blancs constatent une véritable transfiguration. Je demande quelle était la raison et l'usage de ce miracle, car Jésus qui est la sagesse du père n'en a fait jamais sans une fin, comme dit saint Augustin. Cependant, l'évangile garde là-dessus un profond silence et les théologiens, avec tous leurs efforts raisonneurs, n'osent rien imaginer.

Mais que faisaient là Moïse et Elie? Y parurent-ils en personne ou comme des spectres et de simples apparences? Il est dit qu'ils s'entretenaient avec Jésus : de quoi parlaient-ils et pourquoi les apôtres, qui entendaient leur entretien, ne nous en ont rien dit? Car les trois plus grands prophètes et philosophes qui aient jamais été devaient s'entretenir des choses les plus sublimes et les plus édifiantes. Pourquoi le miracle ne s'opérait pas dans un vallon? Les incrédules diront que Jésus trouva les nuages qui s'arrêtent sur les montagnes plus propres à faire ses tours de passe-passe. Pourquoi ne choisit-il pour en être témoins que trois imbéciles pêcheurs et n'opérait pas le miracle devant la multitude qui en avait besoin pour son instruction?

C'est ainsi, dit l'auteur en finissant le premier discours, que j'ai parcouru trois miracles de Jésus et prouvé qu'ils sont absurdes selon la lettre. Je traiterai de même tous les autres et surtout le voyage des mages et les ridicules présents d'encens et de myrre à un pauvre enfant qui avait plus besoin de sucre et de bouillie et de langes. Je finirai par les deux miracles de la conception de la vierge et de la résurrection apparemment comme étant l'alpha et l'oméga de cette extravagante comédie dont le sens littéral renferme, dit-il, un amas de contradictions et d'absurdités. Nota [sic] qu'il n'a parlé ni du voyage des mages ni de la conception de la vierge, ce que tous les bons fidèles doivent regretter.

Discours deuxième

Quatrième miracle

Guérison de la femme qui avait une perte de sang depuis douze ans

Il convient de la vérité littérale de cette guérison mais, pour nous assurer, dit-il, qu'elle fût miraculeuse, il faudrait être instruit de l'état de la malade avant la guérison prétendue. Or, dit-il, les évangélistes ne nous en disent pas grand-chose. Saint Mathieu dit qu'elle était sujette à saigner; saint Marc et saint Luc disent qu'elle avait un flux de sang, mais pas un d'eux ne nous dit la quantité de sang qu'elle perdait, ni de [sic] la partie de son corps d'où il sortait. Il se pouvait faire qu'elle saignait de temps en temps du nez, du cul ou des environs, plus ou moins suivant les occasions. Au reste qu'il soit permis à nos théologiens de faire couler le sang de l'endroit du corps qu'ils voudront, il ne s'ensuit pas de là qu'il fallût un miracle pour arrêter ce flux qui avait duré depuis douze ans et qui serait impossible, s'il avait été un peu considérable, car la nature se serait épuisée en douze jours et la femme, loin de vivre douze ans, n'eût pas passé le mois.

Je répondrais à cette objection de l'auteur qu'il y a beaucoup d'exemples de pertes de sang qui ont duré plusieurs anneés, mais qu'elles se sont arrêtées sans miracle par le simple effet des remèdes ou par un grand repos. C'est ainsi que la nommée Laporte de nos jours a été guérie par un prétendu miracle. De plus, ce n'est pas tant la perte de sang qui est dangereuse, dans ces sortes de maladies, que l'ulcère qu'elle occasione et qui sait si la femme de l'évangile et Mme Laporte en ont été guéries. Pour cette première, comme elle mourut quelque temps après, on peut présumer que la prétendue guérison, loin de lui être salutaire, avança ses jours, comme ferait une suppression, et que cela arrêta un écoulement que la nature s'était fait d'elle-même pour son soulagement. C'était comme une espèce de cautère naturel. Elle n'était pas si faible puisqu'elle perça la foule qui entourait Jésus. Ainsi le miracle est aussi douteux que l'état de la maladie.

J'admire la force de l'imagination de cette femme qui avait dit en elle-même, "si je puis seulement toucher le bord de son habit, je serai guérie". On sait les effets surprenants que cause une imagination frappée. Il n'en a pas fallu davantage pour sa guérison. Que répondra-t-on à saint Jean de Jérusalem qui dit (in loco. marc.) que "son imagination l'avait guérie"?

Il est dit qu'une vertu sortit de lui pour la guérir, mais cette vertu n'était donc pas bien inhérente puisqu'elle l'avait extraite de lui sans sa participation. Mais que répondrait-on si les incrédules s'avisaient de dire que Jésus, averti de la crédulité de cette femme, s'en servit à propos et dit qu'une vertu était sortie de lui tant pour confirmer son imagination frappée que pour s'en faire honneur devant la multitude.

 

Cinquième miracle

Guérison de la femme infirme depuis dix-huit ans

Cette femme avait un esprit d'infirmité depuis dix-huit ans et était courbée, sans pouvoir se redresser, étant liée par Satan. Vraisemblablement cette femme avait des vapeurs. Les évangélistes nous le laissent présumer, en ne nous disant rien dont nous puissions inférer le caractère de la maladie. Il serait à souhaiter qu'ils l'eussent fait. Elle était courbée : le chagrin et la tristesse font d'ordinaire cet effet. On ne sait si elle était vieille ou non, circonstance qui eût rendu le miracle plus authentique, si Jésus eût rendu la vigueur de quatorze ans à une femme de soixante-dix ou quatre-vingts ans. Il n'y a que le diable qui mérite quelque considération dans ce conte. Il veut croire que Jésus l'a culbuté de dessus cette femme dont il se servait comme d'un bidet, mais je n'y trouve rien de miraculeux. Si l'on faisait une histoire aussi louche de quelque imposteur ou pape (c'est un Anglais qui parle), nos théologiens seraient les premiers à la tourner en ridicule et à la détruire.

L'évangile dit que le chef de la synagogue fut indigné de voir la guérison de cette femme le jour du sabbat, ce qui est absurde car les médecins avaient permission de faire leurs opérations et de guérir tous ceux qu'ils pouvaient, aussi bien le jour du sabbat qu'aucun autre jour.

Les écrits des évangélistes sont plus farcis de contes de fées et de démons qu'aucune histoire quelconque et on serait porté à croire que ce fut dans le siècle de Jésus que les démons s'emparèrent du genre humain. Arnobe (in Lib. 2 Adversus Gentes), dit qu'avant lui on ne savait pas dans le monde ce que c'était que les démons.

Sixième Miracle

Histoire de la Samaritaine

Quand il dit à la Samaritaine la bonne aventure, qu'elle avait eu quatre maris et qu'elle vivait actuellement avec un adultère, nos théologiens s'épuisent à louer et à admirer sa science. Les théologiens en infèrent que les Samaritains attendaient le messie, mais pourquoi n'inférèrent-ils pas aussi qu'ils l'attendaient comme un diseur de bonne aventure? Sans quoi, il n'y avait pas de sens à ce que fait dire la Samaritaine aux habitants de Sichar : "Venez voir un homme qui m'a dit tout ce que j'ai fait dans ma vie. Ne serait-ce point le Christ"? Je ne sais si nos théologiens approuvent ce conte, mais je sais qu'ils désavouent hautement le métier que Jésus y fait, puisquils veulent poursuivre criminellement nos bohémiens et nos astrologues comme des fourbes et des imposteurs. Les évangélistes ne nous ont point dit si l'on en fit alors un crime à Jésus, mais je suis étonné de ce que nos bohémiens ne se disent pas ses véritables disciples, puisqu'ils font le même métier.

Il y a apparance qu'il leur dit aussi leur bonne aventure à tous, puisquil est dit (verset 42) que les habitants de Sichar, avertis par la Samaritaine, crurent qu'il était le messie plutôt sur ce qu'ils venaient d'entendre eux-mêmes que sur ce qu'elle leur avait dit. Que pouvaient-ils ouïr sinon leur bonne aventure? Que si Jésus leur dit leur bonne aventure, j'espère que, par prudence, ils ne [se serait] pas entretenus de leurs adultères [les] uns avec les autres, ce qui aurait pu causer des querelles domestiques. S'il n'a fait que leur indiquer des bestiaux ou des pâtres égarés, il n y a qu'eux que je puisse blâmer de l'avoir, à cause de cela, pris pour le messie.

De plus, les théologiens veulent inférer de la connaissance de Jésus, mais on ne sait pas trop pourquoi. Est-ce parce qu'il a dit à une femme qu'elle était putain et qu'elle avait eu cinq maris? Mais Nostradamus et beaucoup d'autres ont dit des choses plus extraordinaires, sans que pour cela on se soit avisé de les croire omnisavants de plus. Les libertins pouvaient dire que Jésus, comme tous les bohémiens, s'était informé de l'histoire de cette femme avant de la voir ou l'avait apprise par quelque hasard du cas fortuit. Il n y a point d'impiété à le penser, puisque c'est la coutume des diseurs de bonne aventure. L'histoire telle qu'elle est rapportée par saint Jean n'est pas nette et on y peut entrevoir de la fraude. Il est vrai qu'il y a une circonstance qui est particulière à Jésus : il semble abuser de la simplicité de cette femme pour lui tirer les vers du nez, quand il lui dit d'aller chercher son mari. Il trouva la crédulité de cette pauvrette capable de soutenir la confidence qu'il lui fit qu'il était le messie, ce qu'il n'avait osé dire en présence de gens plus sages.

Enfin (verset 27) les disciples de Jésus, étaient surpris de le trouver en conversation avec une femme. Quelle pouvait être la cause de leur surprise? Est-ce que le sexe n'était pas digne de ses attentions et de ses instructions? Serait-ce de le voir parler à une femme de mauvaise vie qui eût pu lui donner des tentations? Mais ils devaient connaître sa modestie et sa timidité. Il faut croire cependant qu'ils n'avaient pas d'autre sujet d'étonnement. Ses six discours finissent toujours en disant, "toute gloire soit au bienheureux Jésus. Amen".


Discours troisième

Septième miracle

Jésus maudit le figuier sans fruit. (Math. ch. 21. Marc ch. 11)

Nous parlerons à present du figuier, miracle où Jésus maudit le figuier pour n'avoir pas porté de fruit. La seule mention de ce miracle révolte d'abord. Il est si absurde, si extravagant et si ridicule, pour ne pas dire pis, que je doute si on peut trouver un exemple pareil dans toute l'histoire. Les pères de l'église, Origène et saint Augustin disent de lui, "hoc factum nisi figuratum, stultum invenitur". Saint Jean de Jérusalem et les autres n'ont en rien cédé aux infidèles en exposant la lettre de cette histoire. Saint Augustin dit clairement que, si Jésus a fait cette action, elle était folle en elle-même. Si donc je traite cette histoire d'une manière plus ridicule qu'à l'ordinaire, j'espère que leur autorité et leur exemple me serviront d'excuse.

Jésus avait faim et, ne trouvant point de figues pour assouvir son appétit, il maudit l'arbre. Mais pourquoi lui qu'on nous représente comme le plus doux des hommes et comme le plus patient, même au milieu des souffrances, fait-il éclater tant de colère et d'emportement et d'impatience dans cette occasion? S'il était d'un si bon caractère, il n y a pas de raison qu'il se soit emporté si fort, faute de quelques figues pour passer son ennui. Mais de maudire l'arbre, c'est montrer autant d'extravagance que de passion, comme un homme qui briserait tout chez lui parce que son dîner ne serait pas prêt à six heures du matin, quand il dîne ordinairement à deux heures après-midi.

On dira, "mais Jésus avait faim et ventre affamé n'a point d'oreilles". Soit, mais ne devait-il pas prévenir la faim et y pourvoir par quelque mets plus assuré que des figues qu'il ne devait pas espérer de trouver puisque ce n'était pas la saison? Où était Judas son pourvoyeur avec son argent et ses vivres? Sil avait su faire sa charge, il aurait épargné cette impertinence à son maître qui n'eût pas été réduit pour son déjeuner à compter sur le fruit d'un figuier qu'il voyait de loin. Si Jésus se voyait frustré d'un repas de figues dont il avait envie, pourquoi se venger sur un arbre insensible qui n'avait point de fruit. "Nulla esset signi culpa, qui alignum sine sensu non habebat culpam" (Aug. in sermo). S'il avait été dans un désert tout seul, les anges lui auraient fourni tout ce qu'il aurait souhaité pour sa subsistance. Pourquoi ne s'en servait-il pas en cette occasion? Ils lui auraient été utiles, à lui et à ceux qui en eussent été les témoins. Miracle pour miracle, il fallait en faire un qui, en apaisant la faim, marquât son pouvoir d'une façon non suspecte et la malédiction du figuier ne fait que prouver sa brutalité et son extravagance. Il est bien difficile que, dans cette occasion, on prouve qu'il ait fait de mieux, qui est cependant ce que la sagesse éternelle doit tojours faire nécessairement, en sorte même que (pour le dire en passant) que [sic] de faire le mal n'est pas en sa puissance selon les théologiens. Dieu par exemple ne peut pas pécher, il ne peut donc pas tout, car on ne me dira pas que c'est parce qu'il ne peut pas les contraires : il n y a rien de contraire à faire une loi et à la violer. Il interrompt bien quand il veut les lois naturelles, pourquoi ne pourra-t-il pas violer les morales? Mais mettons fin à la digression. Jésus, continue mon auteur, n'eût-il pas pu créer assez de pain pour lui et pour sa compagnie aussi bien que nourrir les milliers d'hommes dans ce désert? Ne savait-il que multiplier ou faire du punch? Qu'était-il nécessaire de s'emporter, faute de nourriture? S'il avait la puissance de pourvoir tout d'un coup à la subsistance des autres, il s'en serait servi pour lui-même en cette occasion et n'eût pas été réduit à se mettre en colère contre un arbre. Je trouverais bien plus sensé qu'il eût battu Judas son pourvoyeur. Mais ce qu'il y a de pis est que le temps des figues n'était pas encore venu (saint Marc ch. 11. verset 13). "Quaerit poma; nesciebat tempus nondum esse? quod cultor arboris sciebat, creator arboris nesciebat"? (saint Aug. in serm. 49) Y eut-il jamais rien de si déraisonnable que de vouloir manger des figues hors de la saison? Jésus n'eût jamais marqué son ressentiment, s'il eût voulu ménager sa réputation. Que dirait-on d'un paysan de Kent qui irait chercher des pommes de reinettes dans son verger à Pâques et, n'en trouvant point, se mettrait à abattre tous les arbres fruitiers de colère? Que penseraient les voisins d'un homme si extravagant? Is servirait de risée. Je voudrais savoir si Jésus n'en a pas servi aux scribes et aux pharisiens, du moins il leur donnait beau rire. Pour moi, je ne puis y penser sans rire et je ne sais comment on peut s'en empêcher quand on entend lire ce conte avec gravité dans l'église et les prêtres admirer en cette occasion la conduite de Jésus. Je voudrais savoir à qui appartenait l'arbre et de quel droit Jésus prétendait en prendre les fruits et se donnait l'air de le maudire. Il est sûr qu'il ne lui appartenait pas, car il est dit qu'il n'avait pas où reposer sa tête, loin d'avoir des terres et des arbres. Tout le temps de sa mission, il fut vagabond comme un moine mendiant et avant ce temps, il n'était que compagnon charpentier. Je suis étonné qu'on n'ait pas quelque relique de son ouvrage, pas même un escabeau ou un cassenoisettes. Il faut croire qu'il avait la permission du propriétaire car, s'il ne l'eût pas eu, il n'avait aucun droit de prendre les fruits, encore moins de le maudire. "Arbor non est juste siccata". (in loco marci). En effet, y a-t-il de l'honneur, de la justice et de la probité dans cette action? Les évangélistes auraient dû nous donner quelque éclaircissement làdessus, s'ils voulaient persuader que Jésus ne fit de tort à personne. Personne ne saurait soutenir ou nier que Jésus n'ait été réprimandé, pour parler modestement, par le maître du figuier pour avoir maudit et desséché son arbre. Mais il est certain que, si quelqu'un, par haine ou par malice, abattait l'arbre de quelqu'un, quand même il serait mort, il serait heureux si on ne l'envoyait pas à Bicêtre. Je me flatte que les théologiens con viendront, comme saint Augustin le dit, que si Jésus, au lieu de maudire le figuier, l'avait fait reverdir et fleurir et même dans le moment produire du fruit à un arbre mort et desséché et pourri, ils en seraient plus satisfaits. Cette preuve de son pouvoir aurait été un miracle incontestable; elle aurait marqué son pouvoir et sa bonté, sans qu'on eût pu y faire des objections susdites.

La malédiction du figuier ternit toute la gloire de ses autres actions. L'esprit du Christ qui n'est qu'amour et bonté ne devait lui inspirer qu'amour et bonté pour les hommes, au lieu que personne ne saurait justifier un souffle si pestiféré, qui sortit de sa bouche comme un vent du nord pour détruire et faire mourir un arbre innocent qui ne lui appartenait point, qui n'était point en faute et qui ne lui avait point fait de mal. De plus, les infidèles s'imagineront qu'il n y a rien de miraculeux dans cet événement. Ils seront portés à croire que la fourbe de l'homme y avait plus de part que la puissance de Dieu. Saint Mathieu dit que le figuier sécha bientôt après, ce qui marque un temps indéterminé et peut s'entendre d'un jour, d'une semaine, ("qu'il ne vienne plus de fruit sur toi à l'avenir", dit Jésus,) aussi bien que du moment qu'il parlait. Saint Marc dit que les disciples virent le lendemain le figuier séché jusques aux racines, ce qui marque du moins qu'il fut un jour entier à dessécher. Cela ne veut pas dire qu'il fut mort; on peut même n'entendre autre chose sinon que les feuilles commençaient à se faner, ce qui peut arriver sans miracle. Peut-on empêcher les juifs et les infidèles de dire que Jésus, voulant en imposer à ses disciples et à ses sectateurs, prît une occasion la veille pour circoncire l'arbre avec sa hache de charpentier, de sorte qu'il n'en fallait pas davantage pour faire faner les feuilles, ce qui aurait fort bien pu arriver dans l'espace d'un jour et d'une nuit? A Dieu ne plaise que cela soit ni que j'y pense, mais personne ne peut disconvenir de la vérité du fait.

La circonstance de la faim qu'eut Jésus en cette occasion est si basse et si puérile qu'elle ne mérite pas la peine qu'on y fasse attention. On se moquerait de Diogène Laërce s'il en avoit raporté une semblable de quelqu'un de ses philosophes.

Saint Marc (chap. 11.21.13) dit, "mais étant là, il ne vit que des feuilles, parce que ce n'était pas le temps des figues". Quelques-uns veulent rétablir le texte et en faire une interrogation en disant, mais n'était-ce pas le temps des figues? Mais la difficulté reste quand même. On admettrait cette interprétation forcée parce qu'il est prouvé que c'était dans le temps de la Pâque que le figuier fut maudit. "Hoc ideo probamus, quia passio domini dies appropinquabat et scimus, quod eo tempore passus sit" (Saint Augustin sermone 89).

Pour ce qui est du conte ordinaire débité en chaire, orné de tous les apanages, du second avènement de Jésus assis sur des nues comme sur un sac de laine sous une forme humaine mais majestueuse, pour ressusciter les corps par le son d'une trompette, c'est la chose la plus impertinente, la plus déraisonnable, la plus contraire à l'évangile, aux prophètes et aux autres auteurs anciens, authentiques et dignes de foi. Voilà pourtant les fadaises et les pauvretés que le [sic] débite et prêche au peuple le clergé.



Huitième miracle.

Jésus guérit l'homme de la piscine Bethzaïde.

A l'égard du miracle qui consistait à guérir un homme [de] je ne sais quelle maladie, il n'y paraît rien d'extraordinaire autant qu'on le peut conjecturer. Il y avait plus de paresse dans son fait que d'autre chose et Jésus ne fait que lui en faire la honte, en lui disant, "Prenez votre lit et allez-vous-en". S'il n'était point fourbe, il n'était malade que d'imagination et Jésus, par quelques discours tenus à propos, lui pénétra le coeur et le guérit ainsi. Son imagination qui le rendait malade le guérit. Pour le reste de ce conte où il est fait mention de la vertu salutaire de ces eaux après la descente de l'ange, c'est non seulement destitué de toute sorte de fondement et d'exemple dans les histoires, mais le sens commun y est manifestement contredit. 1· Saint Jean qui le raconte était le bien-aimé de Jésus et je crois qu'il n'était pas ingrat envers son maître, autrement il serait pis qu'un païen qui aime ceux dont il est aimé, quoique sur ce qui regarde Jésus il soit plus croyable qu'un autre puisqu'il conversait familièrement avec lui. Cependant, quand il rapporte des faits incroyables et qui n'y ont nul rapport, tel que celui de la piscine, il ne mérite nulle croyance. Josèphe, si soigneux de rapporter tout ce qui montre le soin que Dieu prenait de sa nation, aurait-il oublié une telle histoire et est-il possible qu'aucun historien ne parle de ce fait si c'était vrai? 2· Je voudrais savoir le véritable motif qui faisait descendre l'ange dans la piscine. Etait-ce pour se baigner ou pour communiquer quelque vertu ou qualité singulière aux eaux pour quelque homme en particulier? Ce qui me fait faire la première question, c'est qu'on lit dans quelques anciens exemplaires (v. 4) que l'ange y fut lavé, ce qui supposerait quelque malpropreté ou échauffement contracté dans la région céleste qui aurait besoin de rafraîchissement dans la piscine. Pour la seconde, ce qui est dit qu'il n'y avait qu'un seul malade de guéri chaque fois [qu'il] y a donné lieu. En effet, pourquoi n'y en avait-il qu'un et qu'est-ce qui empêchait la guérison de tous les infirmes? On prie les théologiens de faire à cette difficulté une réponse qui s'accorde avec la sagesse et la bonté de Dieu, autrement cette histoire aura lieu [sic] d'un roman ridicule, et aussi incroyable que les rêveries de l'Apocalypse. En répondant aux objections susdites, ils doivent nous dire si l'ange descendait les pieds ou la tête la première ou comme une oie dans un abreuvoir. 3· Combien de fois dans la semaine, dans le mois, dans l'année, pendant combien de siècles avant Jésus Christ, pourquoi pas devant sa venue et aujourd'hui même ne profite-t-on pas de cette faveur angélique? Sil ne descendait qu'une fois l'année, on lui avait peu d'obligation comme dit saint Jean Chrysostôme. 4· Comment est-il arrivé que la prévoyance de Dieu ou des magistrats de Jérusalem ne disposassent point de cette grâce angélique en faveur des pauvres selon leurs nécessités, au lieu d'en laisser indifféremment jouir celui qui était assez heureux pour y descendre le premier et qui était le plus alerte et le plus diligent, manière bizarre et extraordinaire de conférer une grâce divine.

On pourrait croire que les anges cherchaient à s'amuser plutôt qu'à faire du bien aux hommes, semblables à ceux qui jettent un os dans un chenil, pour avoir le plaisir de voir se battre les chiens, ou ceux qui jettent une pièce d'argent à la vile populace pour voir qui l'aura. Il s'est trouvé des païens qui croyaient que les dieux se divertissaient des misères des hommes, mais je n'ai jamais cru que les anges du dieu des juifs fissent de même avant d'avoir lu cet endroit de saint Jean. Ce devait être une plaisante comédie pour les gens de Jérusalem et pour les anges de voir sauter tant de gens dans l'eau dont, pour un qui s'en tirait guéri, il n y en avait une quantité d'autres qui en sortaient transis et malades comme ils y étaient entrés. Il y avait du bonheur si, par les tracasseries que cela devait causer, il n'en arrivait pas à ce peuple plus de mal que la guérison d'un seul ne lui faisait de bien. "Qui potest evedere evedat". S'il y avait quelque chose d'angélique là-dedans ce ne pouvait être qu'un ange de Satan qui se plaisait à faire du mal. S'il en guérissait un, ce n'était que pour amorcer et exposer les autres à y perdre la vie ou à se faire casser les bras et les jambes. S'il y avait une semblable piscine ou citerne aux environs de Londres, nos magistrats y établiraient sagement bon ordre pour l'avantage et le soulagement des malades, car il y a de l'absurdité à s'imaginer qu'ils abandonneraient cette grâce à la dispute d'une multitude de canailles. Pourquoi avons-nous plus mauvaise opinion des magistrats de Jérusalem.

5· Quelle espèce de malades et de gens étaient couchés sous les portiques de Bethsaïde en attendant le remuement des eaux? Saint Jean dit que c'était des aveugles, des boiteux et, selon quelques manuscrits, des paralytiques. Qu'avaient-ils à faire là? Comment peut-on croire qu'il s'en trouvât dans ces gens-là d'assez alertes pour y sauter les premiers plutôt que tant d'autres qui s'y rendai[en]t pour se faire guérir d'autres infirmités?

Il me semble que le texte de l'évangile donne une réponse à cette difficulté sur laquelle mon auteur s'étend pendant une page et demie, car ce malade que saint Paul dit être paralytique et que Jésus guérit lui répondit qu'il était là depuis trente-huit ans, parce qu'il n'avait personne pour l'aider à marcher et pour le jeter dans la piscine le premier, preuve que les aveugles etles boiteux et les autres étaient aidés ou par leurs femmes ou par leurs enfants ou par des personnes charitables. On voit tous les jours des aveugles conduits et des boiteux soutenus par leurs femmes et leurs enfants.

6· On entend les trente-huit ans non de sa maladie mais du temps qu'il étoit couché auprès de la piscine suivant l'original grec, suivant lequel aussi on ignore la maladie, car ÓÙvnÓ signifie toutes sortes de maladies; il est cependant traduit en français par paralysie. Or il est contre toute vraisemblance que cette homme fût là constamment depuis trente-huit ans sans espérance de guérison et il est impossible d'imaginer un fou de cette espèce, quelque chose que disent les théologiens de sa patience. Peut-être l'a-t-on dit paralytique pour faire entendre qu'il ne pouvait point s'en aller et que c'était la nécessité, non l'espérance, qui le retenait auprès de la piscine. De plus, il était nécessaire qu'il fût paralytique pour que ce fût un miracle, qu'il prît son lit et s'en allât au commandement de Jésus.

7· Pourqu[oi] Jésus ne guérit-il pas tous les malades de toute espèce qui remplissaient les cinq portiques de la piscine? Il avait là une belle occasion d'exercer sa toute puissance et sa bonté. S'il ne l'a pas pu, il n'avait donc pas le pouvoir de faire des miracles et il n'était pas tout puissant. S'il ne l'a pas voulu, il a manqué de bonté, de miséricorde et de pitié en cette occasion. Cette objection est de saint Augustin.

8· Jésus n'a exercé sa puissance de faire des miracles que sur un seul homme de tant d'autres qu'il eût pu guérir, mais il est douteux qu'il y ait rien de miraculeux dans la guérison. Nous ne savons pas seulement sa maladie, tout ce que nous savons, c'est qu'elle durait depuis trente-huit ans. Mais combien y a-til d'infirmités que la nature, le temps et la vieillesse guérissent? De plus, en supposant, comme il [Woolston] fait, que le mot de paralysie n'est point le texte grec, Jésus put lui [au paralytique] remontrer que s'il faisait bien, il s'en irait prendre l'air au lieu de rester inutilement auprès de cette piscine et cet homme, quoiqu'infirme, aura pu emporter son lit qui vraisemblablement n'était pas lourd, et de s'en aller, et se trouver l'imagination soulagée. De plus, en ne guérissant qu'un malade de cent qui étaient là qu'il pouvait guérir, il y a bien de l'apparence qu'il choisit le moins malade, que c'était un malade imaginaire qui se tenait là par fainéantise, peut-être dans l'espérance de faire pitié et d'attraper quelque aumône, à qui Jésus fit honte et à qui il persuada par ses exhortations pathétiques qu'il était guéri du mal qu'il n'avait pas et de la paresse qu'il avait réellement. Les libertins peuvent prétendre cela et dire que Jésus en cette occasion n'a point opéré de miracles, autrement qu'il se serait servi de sa toute puissance pour tous les autres malades.

Saint Chrysostôme dit en parlant de ce miracle, "l'on voit ici une étrange manière de guérir les malades, mais examinons le sens mystique qu'il faut rechercher". La chose ne pourrait pas se passer littéralement comme elle est rapportée. Elle renferme quelques paraboles de l'évangile de l'avenir, autrement l'histoire est si peu vraisemblable par elle-même qu'elle offenserait les oreilles de ceux qui en entendraient parler (in loco iohannis). "Peut-on s'imaginer, dit saint Augustin, que les eaux aient été remuées comme on le rapporte" (in loco iohan.).

Discours quatrième

Neuvième miracle

Jésus guérit l'aveugle né avec un peu de boue et de crachat.

Presque tout ce qui est dit dans les évangélistes fait voir que Jésus exercerait son pouvoir sur les aveugles plutôt que sur les autres. Il y a plusieurs sortes d'aveugles, les uns qui le sont d'une façon incurable, les autres qui n'ont besoin que du temps et d'un peu de soin pour être guéris. Nos théologiens ne peuvent prouver sur quelle espèce d'aveugles Jésus exerça son pouvoir divin. Ainsi, jusqu'à ce qu'ils prouvent qu'il en a guéris des premiers, les libertins croiront que Jésus avait quelque bon onguent dont il se servait heureusement pour les yeux et que le peuple, toujours ignorant, regardait la réussite de ce remède comme autant de miracles. Il en a trouvé plusieurs qu'il n'a pu guérir, autrement il n'aurait jamais laissé aller tant d'aveugles et de malades sans les guérir; il en est de même des charlatans, empiriques et médecins. Mais, dira-t-on, c'est qu'ils manquaient de foi et ce n'est pas qu'il manquât de puissance pour les guérir. Les chrétiens sont bien heureux d'avoir cette échappatoire et de pouvoir dire qu'il n'était pas à propos de faire des miracles en faveur des infidèles et les autres, au contraire, sont à louer d'avouer l'insuffisance de leur art au lieu de s'en prendre à leurs patients.

Jésus rendit la vue à cet aveugle en lui frottant les yeux avec un onguent et lui ordonna de les aller laver dans la fontaine de Siloé. Je ne ne vois rien de merveilleux à cela; tous nos médecins, chirurgiens et apothicaires en font tous les jours autant sans qu'on s'imagine de crier aux miracles. Il n'y a pas une des maladies que Jésus a guéries circonstanciée de façon que l'on pût inférer que les remèdes ne pouvaient rien et que le doigt de Dieu y était nécessaire, ce qu'il faudrait pourtant pour constater le fait miraculeux. Ainsi on peut faire deux objections sur ce miracle : 1· on ignore la qualité du mal des yeux de ce pauvre homme; 2· Jésus s'est servi d'onguent. S'il y avait un miracle, à quoi bon l'onguent? Jésus cracha à terre et fit de l'onguent avec de la boue et son crachat; il est vrai que la recette est extraordinaire, malpropre, bizarre, absurde, dégoutante et impertinente. Il me semble qu'aucun charlatan n'a été tenté de s'en servir et je suis de l'avis de saint Chrysostôme qui dit qu'un pareil onguent était plus propre à crever les yeux de ce pauvre homme qu'à les guérir. Je laisse aux médecins et aux chirurgiens le soin de définir cet onguent. Peutêtre Jésus avait-il quelque ingrédient dans sa bouche qu'il fit fondre avec sa salive et dont il se servit. Si son baume ou son onguent était un remède qui guérît le malade, il n'y a plus de miracle et, si la guérison est miraculeuse, il se comportait comme un fou en se servant inutilement de ce baume ou onguent ridicule, et dégradant ainsi son pouvoir divin. Qu'on me réponde à ce dilemme.

Miracle dixième.

Jésus change l'eau en vin aux noces de Cana

A Dieu ne plaise que je sois assez impie pour croire à la lettre [de] ce qui est rapporté ici par l'évangile. L'auteur rapporte la lettre d'un prétendu rabbin contre ce miracle, ne pouvant pas, dit-il, prendre sur lui d'en mal parler. Elle mériterait d'étre transcrite toute entière, cependant je l'abrégerai le plus que je pourrai.

"Vous autres chrétiens adorez Jésus que vous croyez être un auteur divin envoyé de Dieu pour réformer les hommes. Ce qui vous y engage, ce sont quelques prophéties obscures, de l'explication desquelles vous ne convenez pas entre vous, et l'histoire de ses miracles. Mais vous n'en devez pas avoir une grande ideé à cause de ces miracles qui devraient plutôt aliéner vos coeurs, s'il n'a fait que ce qui est rapporté dans vos évangélistes. Je n'ai pas le temps de les examiner tous, mais, en les parcourant, j'ose dire qu'il n'y en a pas un seul qui mérite la croyance d'un homme sensé. Les uns sont des contes à dormir debout, les autres passeraient pour des folies. Quelques-uns sont remplis d'iniquité, de tours de passe-passe et de magie. Que, s'il s'en trouvait quelques-uns de plus grands et de plus utiles qu'à l'ordinaire, cependant son premier miracle suffit pour nous dégouter des autres et nous inspirer de l'aversion pour sa religion sans en examiner les principes. Il n'eût jamais dû aller à une noce où, chez nous autres comme chez toutes les nations, il se commettait beaucoup d'excès. On n'y aurait même jamais invité Jésus, sa mère et ses disciples s'ils avaient été aussi graves que vous les représentez. On les eût plutôt craint comme des trouble-fête, mais ils aimaient la bonne chère et la débauche dans l'occasion, autrement le fils n'aurait jamais consenti à la prière de sa mère en faisant changer tant d'eau en vin pour des gens déjà échauffés de liqueur, car saint Jean dit qu'ils étaient plus d'à moitié rendus. Il n'est pas certain que Jésus ou sa mère fussent du nombre des ivrognes. Peut-être était-elle très libre quoique, s'il en faut croire de vieux contes qui parlent de sa familiarité avec un soldat et [??] dont est venu son "chara deum soboles", en toute probabilité elle prenait du rogomme et buvait sa bouteille aussi bien qu'un autre. Mais il paraît que Jésus était un peu échauffé de vin, sans quoi il ne lui eût jamais répondu si brusquement, "femme qu'ai-je à démêler avec toi? Mon heure n'est point encore venue", réponse indigne d'un fils qui, à l'exception de la seule fois qu'il s'est sauvé de ses père et mère qui en furent chagrins, leur a toujours obéi et leur obéit même encore dans le ciel selon les catholiques romains. Vous interpréterez cette réponse comme vous voudrez, mais les pères de votre église conviennent qu'elle est dure et brutale. Si vous voulez j'aiderai à nos commentateurs modernes à se tirer de l'embarras qu'ils se donnent pour donner quelque sens à cette réponse. La vierge sachant qu'on manquait de vin et voulant soûler la compagnie, elle s'adressa à son fils qu'elle savait être initié dans les mystères de Bacchus et lui dit qu'il n'y avait plus de vin. Mais Jésus ne se donnant pas la peine de l'écouter jusqu'au bout et croyant qu'elle voulait lui défendre de boire, il lui coupa la parole et lui dit, "femme pourquoi vous embarrassez-vous de moi", car le grec le signifie, "je ne veux pas interrompre la compagnie; mon heure n'est pas encore venue pour m'en aller". Mais dès qu'il eut compris ce qu'elle voulait dire, il mit la main à l'oeuvre et fit de la punch en mettant un peu d'eau de vie dans de l'eau.

Quelques anciens hérétiques concluaient gravement de cette réponse, "femme qu'ai-je à faire à toi", que Marie n'était ni vierge ni mère de Jésus, qui ne lui eut jamais répondu si impertinenment si elle eût seulement été sa parente. Saint Augustin était intrigué pour y trouver une explication qui pût s'accorder avec sa virginité. Pour moi, je soutiens qu'il n' a pas de meilleure excuse que l'ivresse, ni de solution plus favorable à une réponse si dure et si impertinente. Un philosophe ou un magicien prudent et sage qui aurait eu l'art de changer l'eau en vin ne l'eût jamais fait dans une occasion semblable. Il eût répondu que la compagnie avait déjà bien bu et qu'elle n'avait plus besoin de vin. Cette réponse eût éte plus convenable que ce que Jésus dit, qui fut pour le moins spectateur de l'excès et de la débauche des autres en cette occasion, et dont il se rendit coupable par le changement d'eau en vin. Les gentils disaient autrefois, par manière d'objection, que la compagnie ayant bu tout le vin du marié, Jésus, pour lui éviter de la confusion, de concert avec le roi du festin, fit croire à une bande d'ivrognes qu'il avait fait un faux miracle par le moyen de quelque liqueur mêlée avec une bonne quantité d'eau. Le roi du festin soutenait que c'était du vin incomparable fait miraculeusement par Jésus. La compagnie ayant trop bu ne savait discerner le bon et le mauvais, admirait le miracle et buvait ce prétendu vin. Je suis étonné qu'après cette action les ivrognes ne l'aient pas pris pour leur patron et ne l'invoquent pas toutes les fois que le vin leur manque.

Mais vous autres chrétiens, vous voudrez peut-être, malgré ce que saint Jean rapporte, vous faire accroire que la compagnie était sobre et composée de saints. Soit, mais qu'avaient-ils à faire de vin? Quelle raison donnera-t-on pour que Dieu s'en mêlât avec décence, surtout pour faire une si grande quantité de vin? Nos traducteurs ont donné lieu de croire qu'ils burent à l'excès, car qu'était-il nécessaire de dire que les vases tenaient chacun tant d'eau? Si j'en avais fait une traduction, ils n'auraient pas tenu plus de deux ou trois pintes chacun, ce qui aurait été suffisant pour prouver son pouvoir et marquer son amitié et sa bonté. Mais de s'imaginer que Jésus ait fait en faveur d'un tas d'ivrognes une assez grande quantité de vin pour enivrer toute la ville de Cana, c'est se moquer et un chrétien devrait effacer ce conte du Nouveau Testament.

D'ailleurs si Jésus avait fait véritablement du vin, il aurait dû, pour ôter tout soupçon de fraude, le faire sans eau. Vous autres chrétiens prétendez qu'il est le créateur de tout et qu'il a tout tiré du néant. Pourquoi donc ne fit-il pas du vin de rien? Pourquoi ne fit-il pas vider les pots et ne les remplit-il pas d'un seul mot? Il y aurait eu du moins en cela un miracle contre lequel on n'aurait pu faire d'autre objection que son inutilité et son indécence, mais l'eau gâte tout. Il paraît qu'il fallait remplir d'eau les cruches avant de pouvoir faire le miracle. N'est-ce pas assez pour vous convaincre qu'il [savait] seulement faire du punch? Je suis même persuadée que l'ideé en est venue du premier qui en a fait en lisant ce conte des noces de Cana et, en cela, nous avons une grande obligation à Jésus, car c'est une très bonne liqueur.

Mais pourquoi Jésus n'a-t-il pas laissé le pouvoir de changer l'eau en vin à ses apôtres et à leurs successeurs? Il me semble que c'était un assez joli don à leur laisser et qui leur aurait été plus utile que celui de transporter les montagnes et de maudire les arbres. Mais, Dieu merci, ils n'ont jamais eu assez de foi pour cela, autrement ils auraient bouleversé et renversé tout l'ordre de la nature, de même qu'ils ont bouleversé tout ce [??] quelque pouvoir.

Il est vrai qu'on dit qu'ils changent du pain en chair et du vin en sang, mais il n'y a que des fous, des imbéciles ou des superstitieux qui le croyent. S'ils pouvaient changer l'eau en vin, ils en tireraient de beaux revenus, eux qui trouvent bien le secret de vendre quelques gouttes d'eau qui tombent de leurs doigts à un baptême. Je crois que, s'ils avaient un tel pouvoir, ils se garderaient bien de prêcher contre l'ivrognerie.


Miracle onzième

Jésus guérit un paralytique que l'on descend par le toit de la maison.

Cette histoire, si vous exceptez celle de la piscinen est la plus absurde, la moins probable et la plus impertinente selon la lettre. Il ne se trouve pas un miracle des miracles de Jésus qui ne soit plus ou moins rempli d'absurdités, mais il n'y en a point qui approche de celui dont nous allons parler. Il est rempli de tant de faussetés grossières que je n'aurais pas pris la peine d'en parler si ce n'était le mystère qu'il contient et je défie les plus effrontés menteurs ou imposteurs d'inventer un semblable roman.

On est étonné de la presse qui environnait la maison de Jésus; ce ne pouvait être que pour lui voir faire des miracles. Mais, par cette même raison, ils auraient dû faire place au paralytique. Enfin, quelque fût la raison de la presse, le pauvre paralytique ne put jamais approcher. Mais on fut contraint de l'élever sur le toit qu'on perça pour le faire descendre dans la chambre où était Jésus. Pourquoi tant de peine et de hâte pour pénétrer jusqu'a lui? Il n'y avait qu'à attendre quelques heures, après lesquelles le tumulte se serait dispersé et le paralytique lui eût parlé tout à son aise. Mais de s'imaginer que les porteurs du malade voulussent entreprendre un ouvrage qui devait durer plus que le tumulte, ce fait paraît un peu extraordinaire. La paralysie n'est pas un mal qui presse pour le danger du malade, témoin le paralytique prétendu de la piscine qui l'était depuis trente-huit ans. Mais supposé même le danger et l'impatience du malade et la volonté des porteurs, je ne vois nulle possibilité car, si les porteurs ne pouvaient pas approcher de la maison à cause de la presse, encore moins pouvaient-ils approcher des murs, à moins de marcher sur la tête de la multitude qui environnait la maison.

On pouvait répondre à cela qu'ils allèrent par une rue détournée où donnait le derrière ou un côté de la maison et où elle n'était entourée de personne. Supposons-le donc au pied du mur et représentons-nous un homme qu'on élève sur le toit de la maison avec son lit, comme une botte de foin, à force de cordes et de poulies dont sans doute ils avaient eu soin de se munir, n'importe de quelle hauteur était la maison. On peut supposer même qu'elle était basse. Jésus et ses disciples furent bien heureux de n'avoir pas la tête cassée, car c'était précisément au-dessus de leur tête qu'on faisait pleuvoir cette quantité de tuiles et de lattes qu'il fallait ôter pour faire un trou assez grand pour faire passer le paralytique et son lit. La poussière seule devait les étouffer, mais je voudrais bien savoir où était le propriétaire de la maison pendant ce temps. Ne les aurait-il pas empêché d'abîmer sa maison et ne leur aurait-il pas conseillé d'attendre un moment que la populace fût dispersée. Saint Marc et saint Luc disent expressément que l'on cassa et que l'on découvrit le toit de la maison pour le faire descendre, ainsi la solution de ceux qui prétendent que le toit était plat et qu'il y avait une porte par où on le descendit ne peut être admise. Mais pourquoi Jésus ne montait-il pas par cette porte pour épargner le dégât? N'allait-il pas dire le mot salutaire pour la guérison de ce malade? Ne pouvait-il rendre son accès facile? Ne pouvait-il pas gagner sur le peuple de faire place a ce pauvre paralytique? Car lui qui savait tout ne pouvait ignorer ni son état ni son dessein ni la peine où il était. Lui qui chassait des milliers d'hommes du temple pouvait obliger de gré ou de force cette populace à lui faire place.

Croira cette histoire qui voudra, il n'est pas possible que les habitants de Capharnaüm où demeurait Jésus fussent si pressés de le voir et de l'entendre. Si c'était pour ses prodiges, ils n'auraient pas empêché d'approcher ceux qui devaient être guéris. S'ils étaient attroupés autour de cette maison, comment a-t-on jamais pu approcher des murs et du toit avec un paralytique dans son lit (J'ai répondu à cette objection.)? De plus, qui est le propriétaire qui permettrait qu'on démolisse sa maison? Et s'il ne l'avait pu empêcher, je crois qu'il devait être peu satisfait d'avoir reçu chez lui un tel hôte.

Je ne suis pas étonné, s'il en usait ainsi, qu'il n'eût pas où reposer sa tête. Il ne devait pas y avoir presse pour le loger. Je suis étonné que son hôte de Capharnaüm, voyant qu'à cause de lui, on démolissait sa maison, ne l'ait pas jeté par les fenêtres, mais apparamment qu'il craignait d'écraser ses compatriotes qui entouraient sa maison. Cicéron dit qu'il n'y a rien de si absurde qui n'était soutenu par un philosophe. Nous avons ici une preuve plus que suffisante de ce qu'il dit devant les yeux. Je les défie tous de rien avancer de si chimérique et de si déraisonnable. Les pères expliquent ce miracle, comme tous les autres, allégoriquement. La maladie de cet homme, selon saint Augustin et saint Jérôme, n'était qu'une maladie de l'âme. Eusebius Gallicanus dit que les paroles de notre Sauveur doivent s'entendre d'une malade spirituelle et non corporelle, qu'autrement il n'aurait jamais dit, "mon fils, tes péchés te sont remis", paroles qui ne peuvent s'entendre que de la paralysie intérieure de l'âme.


Discours cinquième.

On examine dans ce discours trois resurrections, celle de la fille de Jaïre, celle du fils de la veuve de Naïm et celle de Lazare. Cette dernière, qui est la plus miraculeuse, n'est rapportée que par saint Jean. Mathieu, Marc et Luc, auteurs antécédents, n'en disent pas un mot. Jean écrivit son évangile ayant plus de cent ans, il radotait et tous les témoins oculaires qui eussent pu le démentir étaient morts. Car il est notoire qu'il écrivit son évangile plus de soixante ans après l'ascension de Jésus. Que devinrent les trois resuscités, combien de temps vécurent-ils ensuite et quel avantage en est-il venu aux hommes et à l'église.

Les historiens sacrés ne disent rien d'eux ni de leurs actions, ce qui seul ferait douter de la vérité des faits. Autrement on aurait transmis à la postérité quelques-uns de leurs discours. Epiphane dit qu'il avait trouvé par tradition que Lazare vécut trente ans après sa mort, mais que fit-il pendant ce temps?

Employait-il sa vie à l'honneur de Jésus, au service de

l'église et à l'établissement de l'évangile? C'est ce que la reconnaissance exigeait de lui? L'histoire en ne nous disant pas un mot, nous laisse la liberté de croire sur cela ce que nous voudrons. Grotius dit qu'il s'est caché, mais ne voit-on pas l'injustice qu'il a faite à Jésus par une remarque si déshonorante pour le Lazare? Le même pouvoir que lui avait rendu la vie ne suffisait-il pas pour le protéger contre les juifs et ses ennemis? Nous ne savons rien de la fille de Jaïre, ni du fils de la veuve de Naïm.

On s'attendait à voir les trois ressuscités jouer un rôle considérable parmi les disciples de Jésus et les prédicateurs de l'évangile, mais on garde un silence profond à leur égard. Il est étonnant qu'on n'ait jamais ouï parler dans la suite d'aucun des malades que Jésus a guéri. Eusèbe dit que la femme guérie d'une perte de sang, fit élever à Césarée deux belles statues à Jésus en l'honneur de sa guérison. Mais Eusèbe a oublié apparemment, en disant cela, que l'évangile nous apprend qu'elle n'avait été guérie qu'après avoir dépensé tout son bien et tous ses revenus en médecines. Quel rang tenaient ces trois personnes dans le monde? Etait-ce des gens propres à rendre témoignage du pouvoir divin de Jésus?

La fille de Jaïre n'avait que douze ans, sa vie n'était ni importante ni nécessaire, sa mort ne pouvait causer que quelques pleurs à des parents déraisonnables. Une exhortation à la patience eût suffi dans cette occasion et, quoique Jésus ait pu la ressusciter, cependant, comme cette faveur ne devait être accordée qu'à peu de personnes et que ses miracles devaient être non seulement utiles à ceux sur qui ils étaient opérés, mais manifestes, éclatants et utiles à tous les hommes, Jésus aurait dû la laisser là en comparaison de tant d'autres dont nous parlerons ci-après.

Le fils de la veuve de Naïm est dans le même cas pour l'âge et pour son utilité, ainsi on peut y appliquer les objections précédentes. Il etait plus naturel, il est vrai, de ressusciter une petite fille et un jeune homme qu'une vieille femme qui, par le cours ordinaire de la nature, eût pu retourner dans la corruption dans peu de temps et Lazare, ami de Jésus, plutôt que ses ennemis déclarés. Mais peut-on les comparer à un magistrat utile dont la vie eût été une bénédiction commune, à un père d'une famille nombreuse qui ne subsistait que par son industrie? Jésus, pendant son ministère, ne devait pas manquer de sujets semblables mais, puisqu'il s'agit des objets les plus dignes de sa compassion, pourquoi ne ressuscitait[-il] pas saint Jean Baptiste? Ne le pouvait-il pas faire ou le tirer des mains d'Hérode? La chose n'était pas plus difficile [que] de faire revivre une carcasse puante. Cet exemple seul de son pouvoir aurait suffi quand il en serait resté là. C'est [ce] qui prouve encore plus la folie et la fiction de ces trois resurrections, puisqu'il ne s'en trouve pas parmi eux un plus digne être et un plus ami de Jésus, mais celuilà avait eu la tête coupée; cela était plus difficile.

Miracle douzième.

Jésus ressucite la fille de Jaïre

l n'y en avait pas un seul des trois qui fût mort depuis assez longtemps pour ôter tout soupçon. La fille de Jaïre ne venait que de passer. Jésus dit qu'elle dormait. Vraisemblablement elle s'était trouvée mal des cris que faisaient les femmes qui l'entouraient, c'est la raison pourquoi Jésus les fit sortir, sans quoi il n'eût eu que faire de chasser les pleureuses. Ne dit-il pas à ses parents qu'elle dormait? N'est-ce pas en dire autant qu'il faut pour détruire le miracle?

Miracle treizième.

Jésus ressuscite le fils de la veuve de Naïm.

Pour le fils de la veuve, il y avait plus d'apparence de mort. On le portait en terre, mais il pouvait y avoir de la méprise ou de la fraude. De la méprise, car combien y a-t-il d'exemples de gens qu'on a enterrés tout vifs et combien y en at-il qui en sont revenus par des contretemps heureux. De la fraude, parce que Jésus pouvait savoir que cet homme n'était qu'en une léthargie dont il voulait le faire revenir en l'échauffant. Il pouvait s'entendre avec la mère du jeune homme. Son deuil, ses larmes et la rencontre fortuite de Jésus ont un air d'intelligence. A Dieu ne plaise que je le dise, mais la chose est possible et cela suffit pour rejeter le miracle. Que ne le laissait-il enterrer et n'attendait-il un mois pour le ressuciter, alors les infidèles auraient eu bouche close.

Miracle quatorzième.

Jésus ressuscite le Lazare

Cela me paraît le mieux circonstancié des faits. Il y avait quatre jours qu'il était enterré, il sentait déjà et commençait à se corrompre. Voilà un grand miracle. Je voudrais qu'on n'y pût point faire les objections suivantes. Le Lazare qui était l'ami et le disciple de Jésus s'entendait avec lui. Il a pu consentir à se faire enterrer dans une voûte bouchée par une pierre où il s'est pu passer de manger, car ces quatre jours sont supputés comme les trois que Jésus passa dans le tombeau. De plus, il pouvait avoir fourni son caveau de nourriture avant de s'y laisser enterrer ou sa soeur qui était d'intelligence pouvait lui en porter par quelque issue inconnue. Pour ce que dit sa soeur, qu'il puait déjà, c'est le commencement et le prélude de la farce qu'on allait jouer, ainsi que les pleurs et les lamentations. Ce qu'il y a de pis, c'est quand Jésus l'appelle de toutes ses forces, comme si l'on parlait à un mort, et que pendant ce temps, il avait le visage couvert d'une serviette, de sorte que les spectateurs ne purent voir s'il avait la mine d'un mort et d'un mort de quatre jours à moitié pourri, ni le changement qui dût arriver dans le temps que l'âme rentra dans le corps, ce qui prouve une fraude manifeste de la part de Jésus et de ses disciples. De plus le Lazare ne fut point assez longtemps dans sa cave pour ôter tout soupçon aux incrédules. Les évangélistes n'auraient pas manqué de nous laisser quelques-uns de leurs discours. Nos théologiens sont réduits à un dilemme, je n'en vois pas la raison ou à abandonner l'existence sépareé de l'âme ou les trois resurrections susdites.

L'auteur d'un sermon attribué à saint Augustin dit (in ser. 96.), que Lazare fit une ample description de l'enfer où il avait été, mais comme ce qu'il dit passe pour une pure fiction, je crois que c'est une bévue de supposer l'ami de Jésus dans l'enfer. Il est vrai que l'âme de Jésus descendit dans l'enfer pour des raisons à lui connues au lieu de mener l'âme du voleur qui s'était repenti en paradis comme il le lui avait promis. Mais que dirait-on si les amis de Jésus allaient en enfer? Nos théologiens et nos prédicateurs, qui sont du nombre, que deviendraient-ils? Si l'âme du Lazare était en paradis, ce n'était pas lui faire du bien que de l'en tirer pour lui faire passer une trentaine d'anneés comme un misérable sur la terre. Je voudrais savoir de nos théologiens où était son âme pendant ce temps-là. Il faut croire ou qu'elle était morte avec lui ou qu'elle était dans une mauvaise situation, sans quoi il ne se fût jamais caché des juifs, peur d'y retourner.

Jésus pleure à la mort de Lazare. Pourquoi? dit saint Bazile. N'était-il pas absurde de pleurer un homme qu'il allait ressusciter? Que dirait-on de quelqu'un qui se mettrait à pleurer son ami absent dans le temps qu'il s'attendrait le plus de le revoir? Est-ce avec une entière certitude? Les pleurs de Jésus ne serviraient que d'un prélude ridicule à la farce qu'il allait jouer. Epiphane dit que d'anciens catholiques avaient effacé de leurs bibles ces mots, "il pleura". N'est-ce pas une absurdité qui prouve clairement la fourberie de n'avoir pas ôté la serviette de dessus son visage avant la résurrection pour le faire voir aux spectateurs qui, par là, auraient mieux décidé de ce qui en était et n'auraient pu avoir nul doute, ce que Jésus n'osa faire de peur que quelqu'un de l'assemblée n'eût critiqué l'embonpoint du mort.

Lettre d'un prétendu rabbin

"Quelques méchants endurcis et emportés contre Jésus, que l'on suppose des juifs, ils se seraient rendus à un miracle si visible, mais ils n'en eussent pas été touchés jusqu'à croire en lui. Ils ne l'eussent jamais persécuté pour cela, ils n'eussent jamais enveloppé Lazare dans la persécution pour s'être laissé ressusciter et ils ne le persécutèrent que pour avoir prêté lesmains à cette fourberie. Jésus, le Lazare et les disciples s'enfuirent et, depuis ce temps-là, n'osèrent plus paraître en public. Mais les gens qui ont Dieu, la force et la vérité pour eux manquent rarement de courage pour soutenir ce qu'ils ont avancé. Il me paraît évident qu'ils se cachaient parce qu'on avait découvert quelque supercherie dans cet événement. Nous ne savons point positivement comment la fraude fut découverte, saint Jean n'en dit rien, nous ne pouvons sur cela faire que des conjectures. Quelques-uns des juifs qui étaient présents s'aperçurent sans doute que Lazare remuait avant le temps, virent quelques vestiges de la nourriture dont il s'était servi pendant ces quatre jours. Quoiqu'il en soit, ils ne purent s'empêcher de remarquer la serviette qui lui couvrait le visage, circonstance inutile si le fait était miraculeux et qui le rend fort suspect.

"C'est un malheur pour nous de n'avoir pas d'autres mémoires de la vie de Jésus que ceux de ses disciples. Le temps les a détruits et les chrétiens étant devenus les maîtres brûlèrent plusieurs livres de nos ancêtres comme le Porphire et d'autres à qui ils ne savaient que répondre. Sans doute que les motifs de l'accusation exhibée contre lui aura été la fraude découverte dans la résurrection du Lazare (ce que nos évangelistes n'ont pas manqué d'omettre) ce qui est d'autant plus vraisemblable que le chef de la synagogue et les pharisiens résolurent de le faire mourir en conséquence de ce qui s'était passé. Ils ne voulurent pas le faire assassiner ni mourir secrètement, mais publiquement pour désabuser ceux qui croyaient à lui plus authentiquement. Si de nos jours un faux prophète voulait contrefaire de faux miracles, cherchait à séduire le peuple, à le détourner du culte reçu, était pris sur le fait, les prêtres, le peuple et les magistrats ne prendraient-ils pas le dessein de faire mourir l'imposteur et ceux qui lui [sic] auraient aidé à en imposer a la multitude? De plus, les pharisiens ni le chef de la synagogue auraient-ils osé persécuter Jésus pour ce miracle s'il eût été vrai et la crainte d'exciter la colère et la vengeance d'un homme qui, ayant le pouvoir de ressusciter les morts, aurait aussi vraisemblablement celui de faire mourir les vivants n'aurait-elle pas suffi, elle seule, pour arrêter leur fureur?

"C'est une tradition commune parmi nous autres juifs que les magistrats et les prêtres de Béthanie, pour mieux décider l'affaire dans la dispute qui s'éleva, selon saint Jean, dans l'assemblée, les uns soutenant le miracle et les autres le niant, proposèrent à Jésus, pour mettre tout le monde d'accord, de recommencer le miracle sur une autre personne qui était morte il n'y avait pas longtemps et que Jésus l'ayant refusé souleva contre lui et contre le Lazare tout le peuple, tant ceux qui étaient contre que ceux qui étaient pour, et que c'est ce qui porte le peuple à demander tout d'une seule voix sa mort et de sauver Barabbas de préférence. Je ne veux pas être garant de cette tradition, mais du moins a-t-elle un air de vérité et de vraisemblance. Je voudrais bien savoir si vos prêtres en pareil cas ne demanderaient pas qu'on recommencât le miracle pour fermer la bouche à tout le monde et, si le charlatan refusait d'y consentir, ne voudrait pas le punir.

Mathieu, Marc et Luc n'ont osé, quoiqu'il sussent le faux miracle, le rapporter parce que les témoins oculaires vivaient quand ils écrivirent leurs évangiles. Mais saint Jean, après la dissolution de l'état des juifs et qu'on eut brulé les registres des juges, hasarda le conte dans le récit duquel on voit claire ment qu'il radotait, puisqu'il y a inséré des circonstances désavantageuses et qui font entrevoir la fraude.

Il est inutile, après ce qui vient d'être dit sur la résurrection du Lazare, de s'étendre sur les deux autres ressuscités. Vous savez que le plus renferme le moins; ainsi, si le plus grand des trois n'est qu'une imposture, je vous fais juge des deux autres. Je finis par vous prier de remarquer la folie et la méchanceté de cette imposture, les conséquences pernicieuses dont elle était au bien public et qu'il n'est pas surprenant qu'on ait demandé, d'un cri unanime, la grâce d'un voleur et d'un assassin plutôt que celle de Jésus.

Discours sixième et dernier

Jésus ressuscite lui-même le troisième jour après sa mort

Miracle quinzième et dernier

Voilà mon sixième et dernier discours sur les miracles de Jésus-Christ dont le sujet sera l'histoire littérale de sa propre résurrection et je vais démontrer, ainsi que je me le suis proposé, qu'elle est remplie de choses absurdes, incroyables et dénuées de toute vraisemblance. C'est sur ce plan que j'ai travaillé et, après avoir médité pendant quelque temps en moimême comment on pouvait saper le fondement de l'église, j'ai senti toute mon insuffisance pour y réussir et j'ai eu recours à un rabbin de mes amis. Voici la lettre qu'il m'a écrite à ce sujet.

Extrait de la lettre du rabbin.

"J'ai souvent déploré la perte des écrits de nos ancêtres contre Jésus que les chrétiens ont vraisemblablement soustraits et dispersés, puisqu'ils nous donneraient des idées claires de la tromperie et de la fausseté de la religion pour détruire et réfuter l'histoire de ce miracle monstrueux. J'eus envie une fois de commencer par un argument sur la justice de l'arrêt prononcé et exécuté contre Jésus, qui fut si éloigné d'être innocent, comme vous autres chrétiens voulez le faire paraître, que, comme on peut le prouver aisément, ce fut un si grand trompeur, imposteur et malfaiteur qu'il n'y avait point de trop grandes punitions pour lui. Mais cet argument serait trop long pour les bornes de cette lettre, quoiquil me fût d'un grand secours ici, parce qu'il n'est nullement vraisemblable que Dieu ressuscitât miraculeusement un homme qui, pour ses crimes, souffrit et mérita la mort. Jusqu'à ce que nos théologiens aient répondu aux arguments que je vais avancer contre la résurrection, il ne doit passer parmi nous que pour un imposteur et un faux prophète. Mais supposons que Jésus ait été plus homme de bien que je ne le pense et bornons-nous à examiner les circonstances de l'histoire évangélique de la résurrection et, si je ne prouve pas que c'est la plus impudente imposture qui ait jamais été faite dans le monde, je mérite pour ma vanité une punition aussi infame que celle qu'il a essuyée et subie pour ses tromperies.

"Je commence par être étonné, considérant l'énormité et la nature des crimes de Jésus pour lesquels il mourut, que le chef de nos prêtres et les pharisiens aient pu faire quelque attention à la prédiction qu'il devait ressusciter trois jours après son crucifiement. Mais quand je considère l'imposture de la résurrection du Lazare, je sens de quelle conséquence [c']était pour le repos de notre nation que celle de Jésus ne pût pas être supposée et j'admire l'ordre qu'ils ont établi à son sépulcre et les moyens dont ils se sont servis pour découvrir la fraude. Il avait des partisans et des disciples en grand nombre et il n'était pas impossible qu'ils n'eussent fait le projet d'une feinte résurrection de leur maître. Les précautions que prirent les p. [sic] des prêtres prouvent leur sagesse et leur prévoyance, et nullement qu'ils ajoutassent foi à ce que Jésus avait prédit de sa résurrection.

"Ils s'adressent à Pilate, à qui cela ne parut pas d'une grande importance, et qui eût même fomenté volontiers et payé la fraude pour augmenter et entretenir les troubles et les divisions de notre malheureuse nation. Mais leur demande lui parut si juste qu'il ne put leur refuser de leur donner une garde pour garder le sépulcre, l'entrée duquel ils scellèrent de leur sceau et y mirent une garde. Les deux seules précautions qui eussent pu assurer sa sureté et qui pussent prévenir ou découvrir la superchérie d'une fausse résurrection. Le sceau qu'ils auraient appliqué sur la pierre n'était point une sûreté contre la violence, mais [c]'en était une entière contre la fraude. L'usage subsiste encore de sceller les portes des cabinets quand un homme meurt pour assurer la sûreté de ce qu'ils renferment. C'est ainsi que Darius scella de son sceau la porte de la fosse aux lions où Daniel fut jeté. Les chefs de nos prêtres et autres magistrats civils de Jérusalem, ayant pris cette précaution contre la fraude et posé la garde, comptaient se trouver au jour marqué à l'ouverture du sépulcre, ne doutant point, ce que personne même ne peut révoquer en doute, que Jésus n'attendît leur arrivée et ne ressuscitât à leur vue et à celle du concours du peuple qui vraisemblablement les eût accompagnés. Une telle résurrection eût satisfait la nation entière et, raisonnablement parlant, Jésus l'eût dû, s'il l'eût pu, et c'était le seul moyen d'ôter tout soupçon de fraude par rapport à la précaution qu'on avait pris de sceller la pierre. Mais nonobstant cette précaution, la meilleure que l'on pût prendre contre la fraude, le corps de Jésus fut enlevé secrètement dès le matin du jour d'auparavant et les disciples prétendirent qu'il était ressuscité.

"On demande à quel jour et à quelle heure les chefs de nos prêtres attendaient cette résurection et quel fut l'espace de temps que Jésus entendit lorsqu'il dit que, trois jours après sa passion, il ressusciterait. Si quelque imposteur ou prophète comme Jésus prédisait à présent la même chose et qu'il fût exécuté le vendredi, le jour de la résurrection serait présumé le lundi et non le dimanche avant le jour. Je crois humblement que tous les siècles, toutes les nations et la nôtre en particulier comptaient de telle manière. Je ne doute pas que ce fut le lundi que les chefs de nos prêtres eussent projeté d'être présents à l'ouverture du sceau du sépulcre, mais le corps de Jésus fut clandestinement enlevé le dimanche, jour d'auparavant celui auquel il avait prédit sa résurrection, à la risée plutôt qu'à la surprise de nos ancêtres, par la notoriété de la fraude et la vanité d'une résurrection prétendue. Ses disciples craignirent apparemment de trouver, le troisième jour, plus de difficulté à enlever le corps de Jésus et prirent leur belle quand ils la trouvèrent. Vos théologiens me divertissent toujours quand je vois l'adresse singulière avec laquelle ils font d'un jour et de deux nuits que Jésus fut dans le tombeau trois jours et trois nuits sans prétendre [un] retour à la vie un jour plus tôt qu'on ne devait l'attendre suivant sa propre prédiction, et la fracture des sceaux contre la loi de sûreté sont des marques et indications de fraude incontestables. Enfin, par le scellé de la pierre du sépulcre, nous ne devons rien entendre qu'une convention contre les p. des prêtres et les apôtres pour éprouver le mérite du pouvoir et le caractère du messie dans Jésus qui, s'il ressuscitait, devait être reconnu tel, quoique nous ne lisions pas que les apôtres aient consenti à cette convention. Cependant, il est naturel et raisonnable de la présumer et même qu'ils ne l'ont pas refusée si on la leur a proposée. Rien n'était plus sage et plus juste, mais ils avaient d'autres vues et un autre rôle à jouer. Le corps devait être enlevé et une résurrection supposée à la tromperie de tout le genre humain, en quoi ils ont été plus heureux qu'ils ne pouvaient le supposer et l'espérer avec un projet si dépourvu de sens et de raison, et si peu adroit dans l'invention et dans l'exécution.

"Il fut aisé aux apôtres de corrompre les gardes avec de l'argent ou de les enivrer. Peut-être même que leurs officiers, à l'instigation de Pilate, qui trouvait son compte à fomenter les troubles de notre nation, voulurent fermer les yeux à cette fraude. Mais vos évangélistes nous disent qu'ils se trouvèrent endormis, ce qui est vraisemblable, et qu'ils profitèrent du temps de leur sommeil. On ne sait de combien la garde était composée, quelques-uns la font de six mais, comme ce n'était qu'une garde contre la fraude et non contre la violence, elle n'était vraisemblablement que de trois ou quatre. Il n'est point contre la vraisemblance qu'un si petit nombre de soldats fussent endormis, surtout après avoir célébré la fête de Pâques dont les soldats romains profitaient pour s'enivrer. Les disciples ont pu occasionner leur ivresse et, par conséquent, le sommeil qui en était la suite. Pierre qui savait blasphémer et jurer autant qu'un cavalier ne se fit pas un scrupule d'enivrer un petit nombre de soldats.

"Si Jésus fut véritablement ressuscité, pourquoi ne se montrait-il jamais ni aux p. des prêtres ni au peuple? C'était perdre le fruit de sa résurrection que de la cacher. Rien ne lui était plus aisé et n'était plus nécessaire; il est absurde de penser qu'il ne l'ait point fait. Ainsi, quand vous me prouverez ou que Jésus est apparu après sa résurrection aux chefs des prêtres, à Pilate, au peuple [et] à ceux qui l'avaient crucifié, ou que, conformément à la loi de [la] raison, il ne le devait pas faire, alors je me ferais chrétien."Le rapport des apôtres et de ses disciples ne pouvait être d'aucun poids puisqu'on avait reconnu leur imposture dans la resurrection du Lazare dont j'ai parlé ci-devant. Ainsi la non apparition de Jésus après la résurrection aux p. des prêtres, à Pilate ni a ceux qui l'avaient crucifé est une preuve sans réplique qu'il ne ressuscita point et que son corps fut enlevé et qu'il [n']eut attendu le jour qu'il avait marqué et la présence des chefs des prêtres pour les convaincre par sa résurrection. Mais, dit-on, si c'eût été un fait faux, il n'eût point été répandu et ne se serait pas soutenu comme il a fait. Mais qui ne sait que plusieurs erreurs dans la philosophie et de faussetés dans la religion ont été soutenues et répandues dans le monde et qu'avec le temps les hommes en sont devenus si entêtés, soit par préjugé, soit par intérêt, qu'ils ne se donnent pas même la liberté d'en rechercher l'origine et le fondement. Les faux miracles ont été connus dans toutes les religions et les chrétiens en abondent le "qui bono" [sic]. Mais il n'importe que ce soit l'ambition ou la haine contre nos prêtres qui l'ait fait entreprendre aux disciples de Jésus, ils sont morts pour la soutenir. Mais on sait ce que peut le fanatisme sur l'esprit des hommes et qu'ils ne sont pas les premiers qui aient soutenu la mort avec intrépidité par obstination. La seule chose qui soit surprenante dans ce faux miracle c'est que, quoique ce soit l'imposture la plus impudente et la plus évidente qui ait jamais été, ce soit cependant la plus heureuse et qu'elle se soutienne encore malgré les preuves que je viens de rapporter qui la détruisent entièrement et, qui par leur vérité et leur simplicité, sont à la portée de tout homme qui y réfléchira. Pour ces contes que vos évangélistes rapportent sur les apparitions de Jésus, tantôt à des femmes, tantôt à ses disciples, je suis, je crois, dispensé de les réfuter. Quand elles seraient racontées d'une façon plus circonstanciée et plus intelligible, elles ne mériteraient aucune foi de leur part par les raisons susdites mais, telles qu'elles sont, elles ressemblent fort aux contes de revenants et de bonne femme qu'on ne croit plus à présent passé douze ans.

"2· Il a apparu à quelques femmes qui avaient déjà été averties de sa résurrection par un jeune homme qui ressemblait autant à un ange (dont elles n'avaient jamais vu) qu'un jeune homme y put ressembler et qu'elles le reconnurent, non à la figure ni à la contenance car leurs yeux étaient éblouis, mais à ses discours sur les prophéties de l'écriture. Qu'une autre fois, il était apparu à ses anciens amis et que ce n'était pas aux traits de son visage qu'ils l'avaient reconnu, mais au mouvement habituel de sa main en rompant un pain. Qu'une autre fois, s'étant montré à eux en corps, ils crurent voir un esprit; qu'environ huit jours après il était apparu à un plus grand nombre de ses anciens amis; que, malgré l'intimité qui était entre eux pendant sa vie, quelques-uns avaient douté si c'était lui. Qu'il vient ensuite à eux sous une autre figure qui ne ressemblait point à celle qu'il avait auparavant et qu'ils furent assurés que c'était lui par l'expositon qu'il leur fit du sens des écritures. Qu'une autre fois étant assemblés et les portes fermées par la peur qu'ils avaient de vos prêtres, ce docteur se glissa inopinément parmi eux, soit qu'il se fût caché derrière un rideau, soit qu'il fût entré miraculeusement par le trou de la serrure. Que la dernière fois qu'il leur était apparu, un de ses intimes amis ne le reconnut qu'en mettant son doigt dans une plaie qu'il avait au sein et que le pouvoir de Dieu n'avait point guéri dans sa résurrection. Enfin qu'il disparut, qu'il monta aux cieux et qu'ils ne le virent plus.

"Si Jésus fût véritablement ressuscité le troisième jour à la vue des p. de nos prêtres, qu'il se fût ensuite promené publiquement dans les rues, le peuple l'eût presque adoré et sa conduite eût été, telle qu'on la devait attendre, conforme à la raison et au but qu'il se proposait en venant au monde, qui était de déclarer et de persuader les hommes. Mais de se cacher avec soin pendant quarante jours avant de monter aux cieux est une preuve bien manifeste de l'imposture. Qu'on ne me dise point qu'il [n']y a personne d'assez fou pour s'imaginer et pour entreprendre de la soutenir. Il y a cent mille gens capables de l'entreprendre pour leur plaisir et pour faire parler d'eux et par vengeance, témoin les contes d'apparitions d'esprits qui sont autant de tours d'adresse dont on se sert pour attraper les ignorants.

La crainte des magistrats est ce qui contient dans le devoir les esprits échauffés, témoin ce qui est arrivé de nos jours au sujet des prétendus miracles du prêtre Pâris. Mais les disciples de Jésus ne les avaient point à craindre puisque Pilate favorisait chaque différent parti parmi les juifs pour conserver toute son autorité sur eux. Tibère même, sur ses représentations, ordonna qu'on ne fît aucune peine aux disciples de Jésus, tellement qu'ils eurent la liberté de soutenir leur imposture et qu'ils débitèrent si souvent la fable de Jésus ressuscité qu'à la fin ils la crurent eux-mêmes et entraînèrent dans la même croyance la multitude toujours avide du merveilleux et des découvertes, surtout de ce qu'elle n'entend pas. Je suis persuadée que son obscurité et son inintelligibilité ont fait une partie de la fortune de la religion chrétienne. Cette croyance se perpétuerait encore dans les générations si l'argument précédent n'en faisait pas voir l'absurdité à tous les gens sages et éclairés.

"Ne croyez pas que ce soit ce que vous avez communiqué au public de mes réflections sur ces différents miracles de Jésus qui vous a attiré des affaires, mais l'imprudence que vous avez eu d'appeler vos prêtres une vermine ecclésiastique, de parler des inconvénients d'une prêtrise mercenaire et de vanter le bonheur dont les peuples jouiraient si on pouvait les détruire. Etendez-vous, au lieu de cela, sur leurs louanges; tâchez de prouver, avec le docteur Rogers, la nécessité indispensable de maintenir un ordre de prêtrise bien payé pour le service du roi et du pays, même dans tous les changements de religion. C'est le moyen de disputer et d'argumenter librement dans la suite, comme vous faites, contre toutes sortes de doctrines, de miracles et d'articles de foi, sans être inquiété et sans craindre la persécution."

Il y a deux choses à remarquer principalement dans l'erreur du démon rabbin : le dessein qu'on avait formé en scellant la pierre du sépulcre, dont la fracture marquait un enlèvement manifeste, et l'autre est l'application de ces paroles, "La dernière erreur sera pire que la première", c'est-à-dire celle du Lazare à laquelle les chefs de la synagogue renvoyent Pilate pour lui faire sentir l'imposture qu'on a voulu leur faire croire. Si la conséquence est juste, la résurrection du Lazare et celle de Jésus sont également fausses (les pères, pour expliquer ce mot, disent simplement que c'était une expression proverbiale). Comme le temps de Pâques s'approche, nos prêtres ne seront peut-être pas fâchés d'avoir pour sujet de leur sermon le sceau mis sur la pierre du sépulcre et "la dernière erreur sera pire que la première". Celui d'entre les prédicateurs qui y fera une bonne réponse sera, de mon consentement, fait archevêque de Cantorbéry et de plus, "erit mihi magnus Apollo."

Les pères disent que chaque particularité de la mort et de la résurrection de Jésus est mystique et saint Hilaire, saint Augustin, Origène et saint Jean de Jérusalem nous apprennent le sens figuré et mystique qui est caché sous l'écorce de la lettre. Saint Augustin, entre autres (inser. 168. app.) dit que la résurrection de Jésus figurerait sa résurrection mystique et future. Il dit encore (inlib. de trinitate lcc.20) qu'il paraît par l'écriture que Jésus ne fut pas trois jours et trois nuits sous le tombeau et que les trois jours signifient trois siècles du monde. Toutes ces preuves tirées des pères font voir qu'ils regardaient la résurrection de Jésus comme représentant la sortie du tombeau de la lettre où il est enseveli par le clergé. C'est ainsi que je finis mon discours sur la résurrection de Jésus dont j'ai fait voir les absurdités par le moyen de la lettre de mon ami le rabbin.

Si Dieu me continue la santé et la vie, je compte donner un volume où je traiterai des passages historiques du Nouveau Testament comme la naissance de Jésus, la conception miraculeuse, l'apparition des pasteurs aux anges [sic], le voyage des mages, la mort des innocents, le voyage de Jésus et de ses parents en Egypte, sa dispute avec les docteurs, son entrée dans Jérusalem sur un âne, les milliers d'hommes nourris avec cinq pains et deux poissons et autres passages de sa vie, car je ne veux pas donner de réponse aux défenseurs de la lettre, tant que Dieu me laissera vie. Origène dit (in psal. 36.) que, quand nous disputons avec les ministres de la lettre, nous devons choisir les passages historiques de l'écriture et leur faire voir que, selon la lettre, ils sont remplis d'absurdités et qu'ils n'ont point de sens.

Quand Jésus appelle à ses miracles comme à des preuves de son autorité, il entendait ceux qu'il devait opérer dans l'esprit lorsqu'il se ferait connaître à l'entendement des hommes, car les prophètes parlent des choses futures comme si elle étaient présentes ou même passées. Les pères disent que Jésus prophétisait dans les miracles aussi bien que dans les paraboles et on dit (in gen. vol. 8.) que la première venue de Jésus n'était qu'une figure de son second avènement et que les véritables miracles qui prouvent son autorité sont spirituels.

Il s'agit donc de savoir si c'est ceux de l'esprit ou de la chair que Jésus entend quand il appelle à ses miracles. Etait-ce à l'ombre ou à la figure ou aux choses signifiées dont les oeuvres dans la chair n'étaient qu'une ombre? C'est sans doute aux opérations réelles qui doivent arriver par rapport à l'âme dont la guérison surpasse infiniment celle du corps. Pour moi, j'avoue franchement que je suis pour le messie spirituel qui corrigera l'entendement des hommes, ce que Jésus de Nazareth n'a point fait. Je laisse donc à l'évêque Gibson son messie qui guérit les maladies du corps, ainsi que je l'ai prouvé dans mes discours précédents, poursuivre [sic] celui qui doit guérir l'entendement. S'il veut, nous allons faire en peu de mots la comparaison de nos deux messies. M. Gibson croit en Jésus parce qu'il a guéri deux aveugles; je n'y trouve pas à dire, mais j'aime celui qui ouvrira les yeux de l'entendement, ce que son Jésus n'a point fait. Gibson admire son Jésus d'avoir guéri un boiteux et moi mon Jésus qui doit empêcher les hommes de sauter d'une opinion à l'autre. On pourrait comparer les maladies corporelles que son Jésus a guéries et dont je ne le blâme pas à ce que font tous les jours nos médecins, mais je m'en rapporte à qui il voudra s'il y a de la comparaison à faire entre son Jésus et le mien qui doit guérir les maladies spirituelles de l'âme. Gibson pourra avoir autant de vénération pour son Jésus qu'il voudra, je lui promets que je ne m'aviserai jamais de l'en faire persécuter, il devrait donc me rendre la pareille et me permettre d'honorer en repos mon Jésus, sans me faire persécuter et me livrer entre les mains du magistrat. Il veut me faire passer pour un mécroyant, un blasphémateur et un libertin, tandis que jeprofesse publiquement une foi toute chréienne dans laquelle je suis inébranlable comme un roch[er]. Qu'on sache donc que je crois sur l'autorité des pères, car je ne les ai jamais perdus de vue, que les ministres de la lettre de l'Ancien et du Nouveau Testament sont de vrais antéchrists, que les miracles de Jésus tels que les ministres les ont rapportés sont littéralement les ouvrages de l'antéchrist, que toute opposition au sens mystique et allégori[qu]e est le blasphême et le péché contre le Saint Esprit qui ne sera remis ni en ce monde ni en l'autre, que l'esprit et la lettre sont opposés comme le Christ et l'antéchrist. Que, sur l'autorité des pères, je crois que l'esprit et le pouvoir de Jésus chasser[ont] de son église les évêques et les prêtres gagés par le diable pour vendre l'évangile, et de [?], aux hommes et pour les tromper comme les vendeurs et les acheteurs du temple de Jérusalem, [ce] qui sera pour le moins un aussi grand miracle et plus utile au genre humain.

Voilà quelques-uns des articles de foi des premiers chrétiens dont j'ai voulu faire ici une profession publique pour convaincre le monde et l'évêque que je ne suis ni libertin ni blasphémateur ni infidèle. Saint Jacques dit qu'il faut montrer sa foi par ses oeuvres : c'est ce que j'ai fait par mes six discours précédents où je renonce aux erreurs des ministres de la lettre que je ferai tout mon possible de chasser de la maison de Dieu où ils s'établissent comme une vermine malgré tous les honnêtes gens qui regardent l'état ecclésiastique comme nuisible à l'état et à la société civile, ce qui n'est que trop bien prouvé par les guerres et les persécutions qu'il a suscitées dans le monde. Heureux le peuple et la nation qui peut se vanter de n'être point visitée par un fléau semblable que, sans doute, Dieu a envoyé aux hommes dans sa colère pour leur punition. Il n'y a que les quakers qui peuvent se vanter d'en être exempts, quoique, d'ailleurs, ils ne cèdent en rien aux autres superstitions et extravagances.

Si je m'adressais au bras séculier pour me venger de l'évêque et de ses adhérents, ce serait une preuve de la faiblesse de mes raisons ou du Dieu dont je prétends soutenir la cause. L'évêque de Londres en me faisant persécuter s'imaginait apparemment que son Dieu sommeillait ou qu'il voyageait, autrement il n'aurait jamais eu recours au magistrat pour se venger. Si le clergé voulait se posséder un peu et se donner la liberté de raisonner, qu'il veut interdire aux autres, il verrait que [je] ne m'y prends pas mal pour donner une paix universelle à l'église et réconcilier tous les esprits.

Si j'étais un évêque ou prêtre ou docteur en théologie, je me croirais déshonoré si le bras séculier se mêlait de soutenir ma religion qui me paye et m'entretient pour cela. Ainsi, que l'évêque de Londres réfute mes erreurs et je n'aurai rien à lui reprocher. Il a pour lui Dieu et la vérité, n'est-ce pas assez? Qu'il s'en tienne donc à la raison qu'il croit toujours avoir pour lui en tout ce qu'il avance, elle sera notre juge aussi bien que le divin Jésus, à qui toute gloire soit à jamais.

Sur le malade ou prétendu paralytique guéri à la piscine de Bethsaïda, il dit, sur ce que Jésus n'avait guéri que ce seul homme de tant de malades qui inondaient les portiques de cette piscine, que, de quelque facon qu'on tourne cette action, elle tournera toujours au désavantage de saint Jean et de Jésus. Quelle raison donnera-t-on de ce qu'il n'exerce sa charité que sur un pauvre malade? Je tiens cette objection de saint Augustin et, quoique nous n'ayons ni l'un ni l'autre envie de faire plaisir aux infidèles, ils pourraient s'en servir jusqu'à ce que le ministre de la lettre y ait fait une réponse satisfaisante.

Les évangélistes Mathieu, Marc et saint Luc disent tant de choses du pouvoir qu'avait Jésus de guérir qu'on croirait qu'il n'y avait point de malades dans le pays qu'il fréquentait. Il guérissait, disent-ils, toutes sortes d'infirmités de sorte qu'il est douteux s'il y a des hommes qui soient morts pendant son ministère dans les lieux qu'il a habités. Nos théologiens se sont si fort épuisés à louer les miracles de Jésus qu'il n'en faudrait pas davantage pour nous confirmer dans cette opinion, mais ce fait dans saint Jean réfute tout ce qu'on peut dire à ce sujet. L'evêque de Lichfield remarque que Jésus guérissait tous ceux qui le venaient trouver ou qu'il rencontrait sans distinction de personnes ni de maladies. Sans doute qu'il avait le texte de saint Jean en cet endroit devant les yeux. C'est un rare exemple du jugement exact et de la pénétration de ce rare évêque qui mérite de là un archevêché au moins. Ainsi on ne peut excuser saint Jean, dans cette histoire, de [la] malignité de l'avoir rapportée et cela lui est moins pardonnable qu'à un autre, lui qui dormait dans le giron de Jésus; ni Jésus de dureté de n'avoir pas guéri tous les malheureux s'il en avait le pouvoir, outre qu'il manquait la plus belle occasion du monde d'établir sa réputation.

Sur le figuier désséché, il dit les propres paroles du Sauveur en voyant l'étonnement de ses disciples au sujet du figuier, démontrant assez visiblement qu'il n'y a rien de vrai dans la lettre de cette histoire. Car il leur dit que, s'ils avaient de la foi gros comme un grain de moutarde, ce qui est difficile à évaluer, ils [ne] feraient pas seulement dessécher les arbres, mais qu'ils n'auraient qu'à dire à la montagne, voisine apparemment, "ôte-toi de là et te place dans la mer", pour être obéis. Mais ils ne firent jamais à la lettre changer de place à aucune montagne. Peut-être, comme ils n'avaient ni feu ni lieu, n'auraient-ils su où la mettre et n'étaient-ils incommodés par aucune. Par conséquent, Jésus ne maudit pas littéralement le figuier ou bien ses disciples manquèrent de foi pour opérer les miracles susdits, ce qui est absurde à supposer, ou Jésus parlait en l'air de leur donner un pouvoir dont ils ne devraient jamais être revêtus. Si Jésus dessécha littéralement le figuier, ses disciples auraient dû faire changer de place aux montagnes. Si on reçoit la lettre dans une partie de cette histoire, il faut l'admettre en toutes.

Ce raisonnement ne me paraît pas juste, car Jésus peut donner réellement ce pouvoir à ses apôtres sans que, pour cela, ils aient été obligés de le mettre en usage. On peut tous les jours cent choses qu'on ne veut point et cela a été fort heureux pour le pays qu'ils habitaient; cela y eût causé un peu de bouleversement. Peut-être ce qui est arrivé en Auvergne cette année ait été l'effet de la foi d'un descendant des apôtres à qui ils avaient laissé ce pouvoir par succession.

Nos théologiens, dit-il dans un autre endroit, ont donné au public plusieurs règles pour distinguer les faux miracles d'avec les vrais, mais pas un d'eux ne s'est donné la peine, autant que j'ai pu voir jusqu'à présent, de marquer la conformité de ces règles avec les miracles de Jésus. Mr. Chandler, qui, selon l'archevêque, a donné une véritable idée d'un miracle, a dit dans ses règles que les choses supposées être faites doivent être telles qu'il y va de la perfection de Dieu de s'en mêler. Il ajoute de plus qu'il est nécessaire qu'elles répondent au caractère d'un Dieu rempli de bonté et de bienveillance, puisqu'il est raisonnable de croire que toutes les fois que le premier et le meilleur des êtres juge à propos d'envoyer quelqu'un pour révéler sa volonté aux hommes, il les munira de preuves suffisantes pour prouver sa mission et pour convaincre les hommes, non seulement du pouvoir de son maître, mais même de son amour pour eux. Et de son penchant à leur faire du bien.

J'approuve assez la définition de Mr. Chandler, mais il faut croire que l'archevêque et lui avaient devant les yeux le miracle du figuier, celui de chasser les vendeurs et les acheteurs du temple, d'envoyer les diables dans le troupeau de cochons pour les faire noyer, son changement d'eau en vin pour des hommes qui avaient déjà bien bu, quand il fit publier la définition, car on suppose que des théologiens savants doivent avoir l'esprit présent. Il finit enfin les six discours qui composent son livre en disant.... pour conclusion, je n'ai d'autres vues dans ces six discours que la gloire de Dieu, l'avancement de la vérité, le bonheur du genre humain, la destruction de Babylone, cette cité de superstition, cet empire des préjugés, le rétablissement de Jérusalem et la démonstration de la mission de notre Jésus spirituel à qui toute gloire soit à jamais. Amen.


 

 

Lettre sur les difficultés de l'étude de l'Ecriture

[F. Hare]

Edited by Antony McKenna © 1998

Printed version soon to appear in:
La Fécondité de la dissension religieuse, ed. Michèle Clément
Saint-Etienne, Publications de l'Université de Saint-Etienne, 1998

 


Lettre sur les difficultés et découragements qui se trouvent dans le chemin de ceux qui s'appliquent à l'étude de l'Ecriture d'une manière à ne se fier qu'à leurs propres yeux : écrite à un jeune ecclésiastique par un prêtre de l'Eglise anglicane, et publiée dans l'intention de faire voir que, puisqu'on est indispensablement obligé d'étudier l'Ecriture de cette manière-là, toutes les sociétés chrétiennes sont intéressées de faire tout ce qui dépend d'elles pour détruire ces découragements

Ouvrage de Mr l'Évêque Hare

Monsieur !

La surprise, avec laquelle vous reçutes dernièrement l'avis que je pris la liberté de vous donner touchant l'étude de l'Ecriture n'a rien d'étonnant pour moi. Qu'un ecclésiastique détourne ceux de son ordre d'une étude recommandable partout [par tant] de raisons et qui, au sentiment de tous les gens de bien, devrait faire leur occupation principale, cela, j'en conviens, a l'air d'un paradoxe fort étrange et très pernicieux. Rien ne ressemble mieux au papisme et aux ruses ecclésiastiques, et il est naturel aux âmes jeunes et tendres de tressaillir quand on leur en fait la première proposition, surtout lorsqu'elles sont intimement persuadées de l'excellence et de l'inspiration de l'Ecriture, et qu'elles s'attachent avec ardeur à la poursuite de cette sorte de vérités qui tendent plus directement à l'avancement de la vertu et de la religion. Comme vous êtes de ce nombre et que la seule raison qui vous a fait prendre les ordres est de pouvoir étudier plus soigneusement l'Ecriture et d'en augmenter la connaissance dans le monde, je ne m'attendais point de vous que vous dussiez entrer d'abord dans d'autres sentiments. Cette conduite, loin d'être blâmable, est à mon avis très digne de louange, étant une preuve assurée que ni l'affection pour un ancien ami, ni l'estime dont vous m'avez si souvent donné des marques vous a pu porter a vous rendre légèrement dans une affaire de telle conséquence. C'est encore un grand éloge pour vous que vous pouvez persister dans votre sentiment sans perdre la modération envers ceux qui sont d'un avis contraire, et sans faire voir de la répugnance à entendre ce qu'on vous peut opposer. Ces esprits se jettent pour la plupart dans des extrémités opposées. Ils sont ou trop volatiles pour être jamais fixés ou tellement fixés qu'aucune force d'argument ne peut les ébranler. Comme vous avez le bonheur de pouvoir vous attacher sans opiniâtreté et changer sans légèreté, je m'imagine que vous ne serez pas fâché que je reprenne le sujet, dont nous parlâmes dernièrement et que je vous représente de mon mieux les raisons qui semblent dissuader l'étude de l'Ecriture, entreprise et poursuivie de telle manière que l'on ne se fie qu'à ses propres yeux. J'ose même espérer que, quand vous aurez examiné de sang froid ce sentiment, il ne vous ne paraîtra plus si étrange. Songez, en même temps, que ceci vient d'un homme qui est pour le moins autant l'ami de l'Eglise que le vôtre. Si les exemples peuvent être de quelque poids, je vous puis assurer que ce parti ne manque pas de prosélites : et quand vous aurez acquis un peu plus de connaissance du monde que vous n'en avez jusqu'à présent, vous trouverez que l'on néglige cette étude à un point que vous ne sauriez croire. Ce ne sont pourtant pas les exemples qui vous doivent déterminer, mais les raisons. Commençons donc par celles-ci, et remarquons:

I. En premier lieu, que l'étude de l'Ecriture, je parle d'une étude parfaite, à laquelle vous aspirez, est extrêmement difficile et ne peut se poursuivre avec succès sans une application très forte et très constante, et sans avoir préalablement acquis des grandes connaissances dans plusieurs autres parties de l'érudition. Le Nouveau Testament ne peut s'entendre sans le Vieux ; les verités révélées dans celui-là se fondent sur les prédictions contenues dans celui-ci : par conséquent, personne ne peut parfaitement entendre une partie de l'Ecriture, à moins qu'on ne l'ait étudiée tout entière. On ne peut non plus négliger sans inconvénient les livres apocryphes, quelque peu de cas qu'on en fasse généralement, puisqu'il y a un grand vide de cinq cents années pour le moins entre le dernier des prophètes et le commencement de l'Evangile, période dont la connaissance, quelque négligée qu'elle soit, est de la dernière importance pour bien entendre le Nouveau Testament. Or, si vous voulez bien étudier le Vieux Testament, il vous faut absolument une bonne connaissance des langues orientales. Tout homme qui a la moindre teinture des lettres ne peut ignorer qu'il n'y a point de traductions des anciens livres sur laquelle on puisse se reposer entièrement. Les fautes y sont nombreuses et souvent de la dernière conséquence, particulièrement lorsque ces traductions sont faites sur des originaux écrits dans des langages peu entendus et dans un style rempli de figures pour la plupart inconnues à cette partie de la terre que nous habitons. Mais quand ces difficultés ne seraient point si grandes que nous les faisons, est-ce donc chose si facile d'acquérir, outre la connaissance du grec et du latin, celle de tant d'autres langues ? Ces deux langues seules ne donnent-elles pas assez d'ouvrage à la plupart des savants ? Combien de peine faut il donc qu'un homme se donne, quand, outre celles-ci, il faut qu'il apprenne encore tant d'autres. Quand il pourrait se passer de la connaissance du Vieux Testament, permettez-moi de vous dire que le langage du Nouveau Testament même ne peut s'entendre si aisément que l'on pense. Il est vrai qu'on l'apprend dans l'école, et par là on s'imagine que c'est le grec le plus facile que l'on saurait lire. Mais ceux qui l'étudient d'une autre manière que celle des écoliers en pensent tout autrement. Pour ne rien dire des difficultés qui sont particulières au style de saint Paul, dont les Epîtres font une grande partie du Nouveau Testament. C'est sûr que Platon et Démosthène sont à plusieurs égards beaucoup moins difficiles que les livres du Nouveau Testament les plus aisés. Il est vrai que dans les livres historiques le style est simple et uni, mais, malgré tout cela, ces pièces mêmes ne laissent pas d'avoir leurs difficultés. Le tout est écrit dans un langage qui a été particulier aux Juifs ; quoique les mots soient grecs, le tout est hébreux ou syriaque, ce qui fait que l'on ne peut se passer d'une connaissance médiocre de ces langues.

Quand-même on croirait qu'il ne fût pas nécessaire de lire le Vieux Testament dans l'original, il en faudrait pourtant lire la version grecque, et cela même avec soin, d'autant qu'elle est très souvent l'unique ou au moins le meilleur secours pour expliquer le langage du Nouveau Testament, sans compter que presque toutes les citations du Nouveau Testament sont tirées de cette traduction. Or peut-on s'imaginer un travail plus pénible que d'étudier une mauvaise traduction d'un livre fort difficile qu'on ne peut pas lire dans l'original ? Je l'appelle une traduction mauvaise. Car, quoiqu'à dire vrai, elle soit assez bonne pour le siècle auquel elle a été faite, il faut pourtant que tous ceux qui sont capables d'en juger conviennent qu'elle est très éloignée d'être exacte. Pour s'en convaincre, on n'a qu'à consulter quelque passage difficile, soit dans la Pentateuque ou dans les livres poétiques ou prophétiques. Elle a été certainement très éloignée de la perfection dans son origine, et les corruptions qu'elle a souffertes, avant que de venir jusqu'a nous, l'ont empirée davantage : de sorte que j'ose soutenir [que si], dans notre siècle, quelqu'un faisait une traduction aussi imparfaite que celle des 70, son ouvrage, loin de se faire admirer ou estimer, serait entièrement méprisé de la plupart de nos critiques.

J'y pourrais ajouter plusieurs autres difficultés qui accompagnent une étude sérieuse du Nouveau Testament. Elle demande une bonne connaissance de l'Etat des Juifs du temps de l'avènement de notre Sauveur, de leur gouvernement, Sanhedrin, Synagogues, Coutumes, Traditions, Opinions et sectes. Il faut savoir quelle espèce de littérature a été en vogue parmi les Juifs, ce qu'ils ont emprunté des Grecs, quand ils ont commencé d'expliquer l'Ecriture d'une manière mythique et allégorique ; quelle espèce de Messie ils ont attendu, et ce qu'ils ont enseigné touchant les anges, les démons, les possessions, les oracles et les miracles, et sur quels principes, etc.

C'est en vain, me direz-vous, que vous me proposez des pareilles difficultés; mon parti est pris ; aucune crainte ne m'en détournera. Il est vrai vous êtes encore dans le commencement de votre carrière, vous avez de bons yeux, une constitution forte, un esprit préparé au travail, vous êtes raisonnablement versé dans les langues, et fourni d'une connaissance suffisante de toutes les parties de l'érudition qui vous peuvent être utiles dans cette étude. Je tombe aisément d'accord avec vous que, s'il n'y avait d'autres objections contre cette étude que la difficulté d'en venir à bout, celle-ci ne devrait point en detourner un homme qui s'y est si bien preparé. Mais quand vous auriez assez d'habileté d'achever une étude si pénible, je m'imagine pourtant que vous ne voudrez pas vous y attacher simplement pour l'amour des difficultés, ni que vous soyez en humeur de vous donner tant de peines à moins qu'il ne vous en revînt quelque utilité. C'est pourquoi je prendrai la liberté de vous demander:

II. En second lieu, Cui bono ? Tant de travail à quoi aboutit-il ? Car certainement une recherche libre, sérieuse, impartiale et laborieuse de l'Ecriture ne sera pas de grande utilité. En voici les raisons.

§ 1. Il est évident, que la foi orthodoxe ne se fonde pas sur une connaissance scrupuleuse et critique de l'Ecriture. Tout le monde convient que le plupart des anciens Chrétiens, loin d'être grands critiques, ont eté fort adonnés à la mystiquerie. Origène surtout, le plus savant homme que le christianisme a produit jusques au siècle où il a vécu, tourne l'Ecriture presque continuellement en allégorie. Il me semble qu'on a raison de conclure de là qu'au sentiment de la plupart des anciens Chrétiens, la connaissance du simple sens littéral n'est pas d'un grand usage.

§ 2. Il est certain d'ailleurs que dans le premiers six siècles, pendant lesquels on a tenu les Conciles généraux qui ont fixé tous les articles de la foi orthodoxe, la langue originelle du Vieux Testament n'a eté connue qu'à très peu de personnes. C'etait la version grecque qui servait de règle et par laquelle on determinait tous les points contestés ; et ceux qui savaient encore un peu de l'hébreu, soit qu'ils donnassent dans les explications mystiques ou qu'ils s'attachassent à la lettre, avaient le malheur d'être les moins orthodoxes. Ce fut le cas d'Origène, qui avait une telle connaissance de l'Ecriture qu'il la savait par coeur tout entière. Eusèbe et plusieurs autres qui, dans les siècles suivants, ont étudié les Ecritures et qui en ont entendu le mieux le sens littéral, n'ont pas mieux réussi, de sorte que cette étude paraît avoir été de très peu d'usage pour l'établissement de la foi orthodoxe. Or, si une connaissance exacte et critique de l'Ecriture n'a pas eté nécessaire pour l'établissement de la foi, elle ne le peut être non plus pour en entendre les articles, ni même pour comprendre le sens des auteurs qui les ont le mieux expliqués ou défendus. Au contraire, une telle connaissance, nous découvrant les fautes des Pères de l'Eglise, ne sert qu'a diminuer l'estime que nous en faisons et peut même affaiblir le respect que nous portons aux décisions des Conciles, d'autant qu'elle nous fait voir la fausseté des principes sur lesquels on s'est fondé. Tous ceux qui sont versés dans le sens littéral de l'Ecriture trouvent que très souvent les Pères aussi bien que les Conciles insistent avec assez peu de raison sur plusieurs textes de l'Ecriture, et qu'ils se fondent principalement sur des passages qui, quand on les explique selon les règles de la critique, ne prouvent rien ou qui prouvent quelquefois le contraire de ce en faveur duquel on les produit. Cette circonstance me fournit une troisième raison, pourquoi cette étude selon toutes les apparences ne peut produire aucun bien, savoir:

§ 3. Parce que la foi orthodoxe ne dépend point de l'Ecriture considerée en elle-même, mais de l'Ecriture expliquée selon la traduction [tradition] catholique. La foi a été conservée dans les Symboles et transmise d'un évêque orthodoxe à l'autre, la principale affaire des évêques étant de garder ce dépôt sacré dans toute sa pureté et sans tache, et de le transmettre à leur successeur tel qu'ils l'avaient reçu. Ce n'est pas par une étude particulière de l'Ecriture, mais par la tradition que les principaux articles de la foi ont eté conservés dans l'Eglise : c'est pourquoi il faut distinguer avec soin les fondements sur lesquels on a établi les articles d'avec les textes de l'Ecriture que l'on a allégués en preuve de ces dogmes. Quand les preuves seraient faibles et peu convaincantes, la verité ne laisserait pas de subsister indépendamment d'elles. C'était la foi que les anciens avaient reçue et si, parfois, ils la soutiennent par des pauvres raisonnements sur l'Ecriture, c'est bien une preuve de leur ignorance, mais qui ne porte aucun préjudice à leur orthodoxie.

Ceci paraît être un autre bon argument pour prouver que l'étude exacte et soigneuse de l'Ecriture n'est pas une chose ni salutaire, ni profitable. Pour rendre un homme orthodoxe, il y a assurément un chemin moins dangereux et plus court, c'est d'étudier la tradition de l'Eglise.

Mais en me renvoyant de l'Ecriture à la tradition, me direz vous, vous me chassez du Paradis et du jardin de Dieu, et vous m'exilez dans une forêt vaste, confuse et touffue, de sorte que, loin de faciliter la chose, vous m'engagez dans une étude dix fois plus difficile que celle dont vous voulez me détourner. Je conviens que l'étude de la tradition est telle que vous la dépeignez, si pour la connaître il fallait lire avec soin tous les auteurs ecclésiastiques. Mais ce n'est pas de quoi il s'agit. La substance de la tradition catholique est renfermée dans des bornes beaucoup plus étroites. L'Eglise établie par la loi, vous n'en disconviendrez pas, j'espère, est orthodoxe dans tous les articles nécessaires : par conséquent, si vous savez le sentiment de celle-ci, vous avez en raccourci toute la tradition catholique, de sorte que, pour vous rendre orthodoxe, vous n'avez qu'a étudier les opinions de votre Eglise et, pour celles-ci, l'homme le plus ignorant les peut trouver dans la liturgie et dans les articles. Vous tomberez d'accord que c'est bien [le plus] court chemin que l'on puisse souhaiter pour savoir tout ce dont la connaissance est nécessaire. Il ne faut qu'un jour pour lire dans sa langue maternelle des choses qui, quand on les rassemblerait toutes, ne rempliraient point un volume de médiocre grandeur. De cette manière-là, on sera assez orthodoxe à peu de frais, et on aura du temps de reste pour d'autres sciences qui sont bien plus profitables. D'ailleurs, ce n'est pas un petit avantage de suivre un chemin aussi sûr qu'il est court, et qui vous mène à la connaissance de toutes les vérités salutaires, sans vous exposer au hasard de tomber dans des opinions dangereuses.

§ 4. Mais en cas que vous persistiez à soutenir que c'est sur l'Ecriture et non pas sur la tradition que la foi est fondée, il faut que je vous fasse souvenir d'une chose, qui semble prouver évidemment qu'une étude profonde et laborieuse de l'Ecriture n'est pas ce qu'il vous faut pour vous rendre orthodoxe. C'est un principe fondamental parmi les Protestants que tout ce dont la croyance est nécessaire est révélé clairement et évidemment dans l'Ecriture; par conséquent, tout ce qui n'y est pas révélé clairement et évidemment n'est pas nécessaire d'être cru. Or, si ce qui se trouve clairement et évidemment dans l'Ecriture est la seule chose dont la connaissance soit nécessaire, une recherche pénible dans les parties plus obscures de l'Ecriture semble peu nécessaire pour établir la foi véritablement orthodoxe, Vous me direz peut-être que, malgré cette déclaration des Protestants, il leur peut être objecté, et l'a eté effectivement par leurs adversaires, qu'ils croient et soutiennent plusieurs articles comme nécessaires au salut qui ne peuvent se prouver par des passages clairs et évidents de l'Ecriture. J'avoue que cela leur a été objecté et que peut-être on l'a reproché avec raison à toutes les sectes des Protestants excepté l'Eglise établie par la loi. Mais supposé que cela fût, cela prouve seulement que ces sectes ne se tiennent point à leur principe, et non pas que le principe en lui-même ne soit bon et vrai : et l'on ne saurait disconvenir que celui[-là] est le meilleur Protestant qui se tient le plus étroitement au principe sur lequel la Réformation a été fondée.

§ 5. En dernier lieu, supposé que l'étude de l'Ecriture fût aussi nécessaire que vous le voulez, je dis, et suis sûr que tout le monde le dira avec moi, qu'on l'a déjà suffisamment étudiée : et si nonobstant cela quelques parties de l'Ecriture restent toujours obscurs, qui est-ce qui se pourra flatter d'éclaircir des passages qui ont embarrassé tant de grands hommes ? Ou qui présumera d'opposer dans des points si problématiques son sentiment particulier à celui des gens qui ont eu plus de savoir et de capacité, qui se sont plus appliqués à la tradition de l'Eglise, et qui l'ont mieux connue que personne de ceux qui vivent dans notre siècle ne peut pretendre : qui d'ailleurs -ce qui est le meilleur guide dans la connaissance de la religion- ont été des gens d'une piété, dévotion et humilité des plus exemplaires ? Vertus dont on ne trouve que très peu de traces parmi les savants de nos jours.

Ne faudrait-il donc pas avoir un furieux penchant pour les choses difficiles, si par toutes ces raisons on ne [se] laisse pas détourner d'une étude que tant des gens trouvent si peu profitable et si pénible ? et si l'on s'obstine à poursuivre sa pointe, malgré tout ce que j'ai dit pour faire voir évidemment qu'on se consume inutilement et qu'on ne retirera aucun fruit de tout son travail que celui de connaître que l'on ne sait rien ? J'appelle rien, ce qui n'est d'aucune utilité.

Mais pour vous faire voir que je suis disposé a vous faire tous les relâchements possibles, je supposerai qu'on pourrait même résoudre cette objection, si celle-ci etait la plus forte qu'on y peut faire. Mais j'ai encore un argument de réserve qui, à mon avis, décidera entièrement la question. Le voici:

§ III. C'est que bien de gens s'imagineront qu'une étude laborieuse, exacte et impartiale de l'Ecriture, loin de produire quelque bien, ne peut faire que beaucoup de tort tant au public qu'à vous en particulier.

§ 1. Cette étude nuira au public. Car elle troublera la paix de l'Eglise, ce qui ne manque jamais d'avoir une mauvaise influence sur celle de l'Etat.

Il est sûr que les disputes dans l'Eglise troublent la paix, et il n'est pas moins sûr que ces disputes ont été pour la plupart suscitées par des gens qui ont prétendu a une connaissance supérieure de l'Ecriture et aux découvertes qui eussent échappé aux autres. C'est l'usage que les anciens hérétiques n'ont jamais manqué de faire de l'Ecriture, et c'est encore le caractère des grands hérétiques de notre siècle et du précédent de se vanter d'avoir fait une recherche libre et impartiale du sens littéral de l'Ecriture au-delà de ce qu'on avait fait avant eux. Mais quel succès ont-ils eu ? Cette prétendue connaissance de l'Ecriture a coûté bon à leur réputation, et leur savoir a abîmé leur orthodoxie, et si l'on ne supprimait pas avec soin leurs opinions et leurs livres, si même on n'exposait pas leurs personnes à la haine du peuple, que sait on combien de troubles ils pourraient avoir suscité dans l'Eglise ? De l'autre côté, il semble que rien n'a tant contribué à la paix intérieure dont l'Eglise a joui pendant assez longtemps que la nonchalance avec laquelle on a généralement traité cette étude : et les dangers qui menacent présentement la tranquillité de l'Eglise viennent uniquement des gens qui tâchent de faire revivre une étude qui a eu des effets pernicieux à la paix de l'Eglise toutes les fois que l'on s'y est appliqué.

Aussi cela ne peut être autrement. Car un homme qui se met dans ce chemin, qui entreprend d'étudier l'Ecriture d'une manière libre et impartiale, se dépouillant de toutes les préventions et de tous les préjugés, résolu de voir par ses propres yeux, de juger pour lui-même et de ne rien croire que ce que sur sa propre recherche il y trouve clairement compris, un tel homme, dis je, quelle sûreté a-t-il qu'en poursuivant ce chemin, il [ne] tombe dans quelques opinions qui ont eté déjà condamnées comme erronées et hérétiques ou qui choquent celles qu'on reçoit communément ? Quand-même ces opinions ne donneraient atteinte à aucun article fondamental, on ne laissera point de le prétendre et de dire qu'elles aboutissent à remplir de scrupules les esprits faibles et à troubler la paix de l'Eglise à cause qu'elles font naître des doutes sur les gens ou sur la verité de certains articles, ou que l'on soutient qu'une croyance explicite de ces articles n'est pas absolument nécessaire.

Il est si naturel aux esprits curieux de s'écarter du chemin battu et les exemples en sont en si grand nombre que je serai fort trompé si vous ne suivez pas la meme route, à moins que vous n'ayez plus de plomb dans votre constitution qu'aucun homme curieux n'en a jamais eu, ou que vous ne sachiez mieux captiver votre entendement. Autrement, comptez que votre étude vous mènera, sinon dans des opinions contraires à quelques notions reçues, au moins en des doutes. Vous douterez peut-être de l'autorité de quelque livre canonique ou de son auteur. Vous pourrez vous imaginer que certains passages sont interpolés, ou que certains textes fameux ne sont pas authentiques, ou se doivent lire autrement que l'on ne fait, ou qu'on ne les entend pas comme il faut, ou qu'ils ne prouvent pas le point en faveur duquel on les allègue. Vous pourrez tomber dans des sentiments que l'on croira s'approcher de l'arianisme ou d'autres hérésies pareilles. Peut-être rejetterez vous les arguments que l'on produit du Vieux Testament pour prouver la Trinité. Vous direz que ces arguments sont frivoles et ne prouvent rien que l'ignorance de ceux qui s'en servent. Vous pourrez vous imaginer qu'une prophétie à laquelle on ne donne communément qu'un sens mystique, en a un littéral : que plusieurs textes du Nouveau Testament , quoique très embarrassants pour les Sociniens, ne prouvent rien contre les Ariens : que le titre de fils de Dieu n'a pas toujours le même sens dans l'Evangile et que cette expression en elle-même ne prouve pas qu'il y a en Dieu quelque chose qui ait de l'affinité avec la génération des hommes ; que la consubstantialité identique du fils, la procession éternelle de l'Esprit et quantité d'autres notions qui regardent la Trinité, quoiqu'elle puisse être vraies en elles-mêmes, ne le sont pourtant pas en vertu des passages que l'on produit communément pour les prouver.

Tout ceci sont des sentiments dans lesquels des très savants hommes sont tombés et de là j'ai raison de craindre qu'il ne vous soit pas facile de vous en garantir. Je n'ai parlé que des points qui regardent la Trinité, à cause que c'est la controverse qui fait présentement le plus de bruit ; mais on peut dire la meme chose de plusieurs autres articles de la foi. Car dans chaque article il n'y a qu'un sentiment qui soit vrai, au lieu que les erreurs là-dessus peuvent aller à l'infini : et à peine y a-t-il d'opinion touchant chaque article en particulier dans laquelle des savants hommes ne soient tombés quand, au lieu de prendre la doctrine de l'Eglise pour guide, ils ont voulu suivre leur jugement particulier.

Or, supposé que votre étude produisît quelque opinion nouvelle ou qu'elle vous fît donner dans quelque hypothèse ancienne que l'on a déjà condamnée, dites-moi, que ferez vous ? La garderez-vous pour vous, ou la publierez-vous ? La question paraît aisée a décider. Les auteurs des nouvelles opinions les aiment communément avec assez de tendresse, et il leur paraît trop barbare et cruel d'étouffer leur production dans sa naissance. Il y a un plaisir secret dans la singularité. Etre d'un autre sentiment que le vulgaire passe pour une marque que l'on est au-dessus de lui, et se distinguer du troupeau est une tentation trop forte pour qu'on la surmonte sans peine. Mais quand vous auriez assez de prudence pour tenir en échec votre ambition, la conscience pourrait s'en mêler et vous faire faire des démarches auxquelles l'ambition toute seule ne vous porterait point. Les vérités que vous croirez avoir découvertes seront, au moins à votre avis, trop importantes à l'honneur de Dieu et au bien de la religion pour les cacher. Vous les regarderez comme des bénédictions que Dieu répand sur vos études, et il vous paraîtra criminel d'éteindre la lumière et de supprimer les connaissances dont vous croyez que Dieu vous a fait part. En un mot, vous vous imaginerez d'être indispensablement obligé de ne pas dissimuler en fait de religion et de ne pas cacher à l'Eglise de Dieu des opinions dont la verité aussi bien que l'utilité vous paraissent fondées sur des preuves convaincantes. Enfin, les nouvelles opinions ou bien les renouvelées auxquelles votre etude vous conduira ne manqueront point d'être publiées dans le monde. Or qu'est-ce qui en suivra ? Un mal immanquable, mais sûrement pas le moindre bien. Pas le moindre bien, dis je. Votre sentiment sera peut-être faux ou de peu de conséquence ; mais quel qu'il soit, la présomtion sera toujours si forte contre vous que votre opinion ne sera point reçue et peut-être pas examinée. On la condamnera comme une doctrine nouvelle ou comme un sentiment déjà rejeté. Malgré tout ce que vous pourrez dire, la seule circonstance que, pendant tant de siècles, votre sentiment n'a pas eté reçu, n'en passera pas moins pour une preuve assurée qu'il ne mérite pas la peine d'être soigneusement examiné. Vous vous tromperez, si vous vous flattez que ce que vous avancerez soit reçu ou qu'il fasse aucun bien : mais le mal qu'il causera est sûr et certain. Il fera naître des doutes dans les esprits faibles et mal assurés : il sapera les fondements de la foi orthodoxe et il fournira des prétextes aux sceptiques qui, dès que l'on révoque en doute un point de la religion -ne fût-il qu'accessoire et de peu de conséquence- s'imaginent d'être en droit de douter de tout. De cette manière, l'Eglise et la foi établie en souffriront, tant par les scrupules que vous ferez naître à ses amis, qu'à cause de la prise que vous donnerez sur elles aux ennemis. D'ailleurs, dès qu'une dispute sur la religion a commencé, on ne manque jamais de gens artificieux qui trouvent moyen d'y faire entrer les affaires d'Etat, et alors Dieu sait où cela aboutira, et combien de maux il en résultera ! Au lieu que, si vous vous contentez de suivre le chemin battu, si vous vous soumettez implicitement aux doctrines reçues, si vous croyez avec humilité que le jugement de l'Eglise est meilleur que le vôtre, vous serez à l'abri de ces chagrins et vous ne ferez tort ni a l'Eglise, ni à vous-même.

§ 2. J'ajoute ces derniers mots : ni à vous-même comme un autre motif, qui, dans la décision de cette question, doit être d'un grand poids avec vous. Car vous ne pouvez point troubler la paix de l'Eglise, sans que votre personne en souffre. Quand-même vous ne la troubleriez point effectivement, c'est tout un, on vous l'imputera, et cela vous plongera dans plus de malheurs que je n'en voudrais souhaiter à mon plus grand ennemi. En un mot, on vous fera passer pour hérétique : terme qui, n'ayant aucun sens déterminé dans la bouche du commun peuple, ni même aucun sens mauvais en lui-même, ne laisse pas de renfermer un sortilège bien étrange. Il n'y a rien de mauvais que l'on ne suppose compris dans ce terme : rien qu'il ne fasse paraître odieux et deforme [difforme], il dissout toute amitié et étouffe tout sentiment amiable, quelque juste et bien merité qu'il soit. Dès qu'un homme est prononcé hérétique, c'est charité d'agir contre toutes les règles de la charité, et plus on enfreint les lois divines à son égard, plus on s'imagine de rendre service à l'Etre suprême.

Ne vous imaginez point que je parle a l'avanture, dans la vue de vous effrayer et de vous amener à mes volontés. Considérez, je vous en prie, les suites naturelles du reproche d'hérésie. Dès le moment que vos gens vous croient hérétique, vous êtes hors d'état de faire beaucoup de bien parmi eux : ce qui ne peut être que très sensible à un aussi honnête homme que vous êtes. Tant que vous passerez pour orthodoxe, votre conduite vertueuse et irreprochable, votre tempérance exacte et rigoureuse, vos manières affables et familières, vos soins généreux et charitables pour les malades et les malheureux, toutes ces bonnes qualités, dis je, soutenues d'une manière de prêcher simple et facile, mais affectueuse et touchante, ont une merveilleuse influence sur votre troupeau, et vous pouvez le mener comme il vous plaira. Ils admirent votre bon exemple et ils tâchent de l'imiter. Quand ils font mal, votre conduite vertueuse leur sert de reproche tacite, mais perpétuel. Votre regard seul leur est une leçon de vertu. L'influence que vous avez déjà sur vos paroissiens, pendant ce peu de temps que vous avez resté parmi eux, saute trop aux yeux pour que vous en puissiez disconvenir. Mais dès le moment qu'on [vous appellera hérétique, beaucoup du bien que] vous êtes en état de leur faire s'évanouira, ceux qui ci-devant avaient une vénération secrète pour vous, s'imagineront qu'il est de leur devoir de vous décrier et de vous déshonorer ; votre vertu passera dans leur esprit pour hypocrisie ; votre humilité pour orgueil spirituel. Ils vous regarderont comme un malheureux abandonné de qui Dieu a retiré sa grâce, et que le Diable s'est caché sous tout ce que vous avez fait ci-devant. Ils croiront qu'ils ne peuvent donner un témoignage plus authentique de leur orthodoxie qu'en perdant tous les égards pour votre doctrine, aussi bien que pour votre exemple. Il se pourrait même que, crainte qu'on ne les soupçonnât d'être infectés de vos erreurs, ils retournassent aux vices que vous leur avez fait abandonner : au moins prendront-ils des précautions efficaces pour ne pas devenir meilleurs pour l'amour de vous.

Personne ne peut faire beaucoup de bien à moins que le peuple ne le croie homme de bien. C'est de quoi vous ne pourrez pas vous flatter, puisqu'on vous chargera, à tort ou à droit, de tant de reproche[s] et d'infamie dès que vous cesserez d'être orthodoxe. Si vous en doutez, vous n'avez qu'à faire réflexion sur ce qui se passe sous vos yeux. En vain vous vous flatterez que votre vertu vous protégera. Nullement : on ne voudra pas croire la vertu la plus illustre. Si l'on ne peut vous reprocher des vices publics, on vous en imputera des cachés. Vos recherches passeront pour vaines, curieuses et défendues : on dira que l'orgueil et l'ambition en sont des motifs secrets. La recherche de la vérité portera le nom de l'amour de la nouveauté. Le doute sur l'autorité d'un seul texte sera scepticisme et, si vous désapprouvez un seul argument, on vous accusera d'abandonner la loi. Dire ce que l'Ecriture a dit et se servir de ses propres paroles, si vous ne les expliquez point selon la manière commune, passera pour blasphème, et quand vous vous interesseriez le plus sincèrement pour l'honneur du Dieu tout-puissant, vous ne serez pas bien sûr qu'on ne vous charge d'athéisme outré. On donnera un tour malin à tout ce que vous dites ou que vous faites. La moindre faute de mémoire sera une prévarication préméditée ; une bévue dans une citation passera pour fausseté et corruption ; une erreur sur un point incidental de littérature sera une preuve asssurée que vous êtes un ignorant. On vous fera un crime de toute expression peu exacte ; la moindre chaleur qui vous échappe sera prônée comme un marque de votre emportement et opiniâtreté, de votre mépris pour l'autorité et de votre impolitesse. En un mot, on recueillera avec soin toutes les imprudences de votre vie passée et l'on ne vous pardonnera rien de tout ce dont on peut rappeler le souvenir et que l'on peut violenter à votre désavantage. Or, qui est-ce qui trouvât du plaisir à être traité de cette façon. Pour moi, j'avoue franchement que je crains de n'avoir ni assez de vertu, ni assez de courage pour soutenir une si furieuse épreuve.

Cependant, c'est ce que tout homme s'attire, quand il se fait accuser d'hérésie ; au lieu que l'orthodoxe vit en repos et à son aise, sans être ni molesté ni envié. Ses défauts -et qui est-ce qui n'en a point ?- sont adoucis et excusés, ou peut-être tout à fait enterrés. Ses emportements passent pour un zèle louable, son indiscrétion pour une bonté de coeur. On imputera ses bévues à la rate, ou à l'inadvertance et, si elles sont insoutenables, on alléguera en sa faveur que les plus grands hommes sont sujets à se tromper et que les écrivains du premier ordre n'ont pas toujours raison. Que sait on, si une telle bévue ne tournera même à son avantage ? On fera voir que c'est une erreur commise en faveur du parti qui a raison, et que c'est la bonne cause qui l'y a fait tomber. De l'autre côté, son savoir sera prisé au-delà de toutes les bornes, tout le monde retentira de ses bonnes qualités, et ses vertus seront mis dans le jour le plus avantageux, pour y briller avec plus d'éclat et pour couvrir tous ses défauts. En un mot, l'orthodoxie expie tous les vices et l'hérésie détruit toutes les vertus. J'en appelle à votre experience, si ce que je viens de dire n'est pas la verité toute pure.

Il y a, comme vous savez, deux ecclésiastiques parmi nous que leurs études ont poussés dans l'hérésie : tout au moins en sont-ils soupçonnés. L'un et l'autre sont des gens d'un caractère noble et irréprochable. L'un [note marginale : Whiston] a passé toute sa vie à cultiver la piété, la vertu et les bonnes sciences. Rigidement attaché aux devoirs publics et particuliers de la religion, il a constamment travaillé à encourager la vertu et cette partie du savoir qui à son avis peut contribuer le plus à l'honneur de Dieu, puisqu'elle fait connaître sa grandeur et la sagesse de ses ouvrages. Plusieurs ouvrages fort utiles sur la philosophie et sur les mathématiques ont suffisamment convaincu le monde qu'il n'y a pas perdu son temps. Il a expliqué [appliqué] les mathématiques à l'explication de la philosophie, et il les a fait servir l'une et l'autre à étaler la gloire du Créateur. A ces études il a joint de bonne heure celle de l'Ecriture. Ses essais, quelque succès qu'ils aient eu, viennent tout au moins d'une intention droite et, quand on considère la difficulté, il faut avouer que, quant à l'essentiel, il a visé juste. S'il n'a pas réussi, il a eu le même sort que quantité d'autres qui se sont mêlés d'écrire sur ces matières: de sorte que l'on ne peut le blâmer plus qu'on n'a fait à l'égard des autres. J'ai tort de supposer qu'on le peut blâmer: je devais dire qu'il n'est pas moins digne de louange que les autres. Car c'est assurément un dessein très louable d'expliquer les difficultés de l'Ecriture et de détruire les objections des libertins, en faisant voir qu'il n'y a rien dans les livres sacrés qui ne soit vrai et raisonnable.

Mais quel profit lui revient-il d'une vie si bien employée ? A quoi bon tant de veilles, tant de piété et de dévotion, tant de mortification et de renoncement à soi-même, tant de zèle de faire du bien et d'être utile au monde, tant d'échantillons d'un grand génie et d'une imagination raffinée ? C'est le malheur du pauvre homme - car pauvre est-il et le restera, selon toutes les apparences, toute sa vie, n'ayant pas le moindre bénéfice. C'est son malheur, dis-je, d'avoir la tête un peu chaude et d'être fort zélé pour ce qu'il croit être la cause de Dieu. Il s'imagine que la prudence est cette sagesse mondaine que [le] Christ et ses apôtres ont condamnée, et que c'est une prévarication et une hypocrisie des plus grossières de cacher les découvertes qu'il croit avoir faites. La chaleur de son tempérament le fait tomber dans quelques assertions précipitées. Etant fortement résolu de ne faire mal à personne, il s'imagine que personne ne peut penser à lui faire du mal, et il est assez simple de croire qu'on aura pour lui la même indulgence qu'on a pour ceux qui écrivent contre lui. Quant à son savoir, c'est son malheur de n'être pas assez versé dans les langues savantes pour s'y pouvoir ériger en grand critique, et cependant il ne semble point qu'il s'aperçoive de son insuffisance à cet égard. Mais quel avantage ne tire t-on pas de ce qu'il a plus de chaleur que de critique ? On parle de son savoir d'une manière à faire accroire qu'il n'entend pas les premiers rudiments du grec, quoique, même dans cette langue, il surpasse de beaucoup la plupart de ceux qui le traitent si cavalièrement. Cependant vous entendrez tous les jours traiter ses ouvrages de fantasques et de chimériques par des gens qui ne les ont jamais lus et qui, quand ils les liraient, ne les pourraient point entendre. Il n'est pas plus épargné sur la chaleur de son tempérament. Ce n'est, dit on, qu'opiniâtreté, orgueil et méchanceté hérétique, manquement de modestie et de soumission due à l'autorité légitime. Ceux qui en parlent le plus favorablement le regardent comme un homme qui a l'esprit de travers et qui devrait être mis aux petites maisons. C'est le caractère du pauvre homme et, quelque pauvre qu'il soit, on ne se contente pas [que ne se contente-t-on pas] de le laisser en repos dans sa pauvrete ? S'il n'avait pas ete possédé d'une amour passionné pour l'Ecriture et pour la philosophie, s'il n'avait pas cru que son principal devoir l'obligeait de chercher l'avancement de la gloire de Dieu et que cela ne se pouvait jamais faire plus efficacement que par l'étude de sa parole et de ses ouvrages, il est plus que vraisemblable qu'il aurait été orthodoxe jusqu'à l'heure qu'il est. En ce cas-là, au lieu d'être traité comme il l'est présentement, on aurait fait semblant de ne pas voir ses fautes, on aurait élevé jusqu'aux nues les parties de l'érudition, dans lesquel[le]s il excelle, et on n'aurait jamais trouvé du défaut dans le reste. On l'aurait prôné comme l'ornement de son siècle et on le [= ne] lui aurait ni refusé ni envié aucune charge ecclésiastique.

Voici l'etat où se trouve l'un de nos nouveaux hérétiques. L'autre [note marginale : Clarck] se gouverne avec tant de prudence qu'il n'est que soupçonné de favoriser les mêmes sentiments. Voyons présentement de quelle manière on le traite. La circonspection est un aussi grand crime en celui-ci que le défaut de la prudence l'est dans l'autre. L'incirconspect est traité de fou, ou d'archi-Arien, le circonspect de quelque chose de moins qu'un hérétique, mais il n'en est que plus dangereux. Sobrius accessit ad evertendam Ecclesiam, et à cause de cela on sonne [l']alarme contre lui plus fortement.

Eh ! Qu'a-t-il fait ? Hélas ! Il a recueilli avec beaucoup de peine tous les passages du Vieux Testament qui ont du rapport au dogme de la Trinité et il les a arrangés le mieux qu'il a pu. Jusque-là ses travaux devraient plaire même à ceux qui sont d'un sentiment contraire, puisqu'il a rassemblé les matériaux nécessaires pour juger comme il faut de la question dont il s'agit, et qu'il leur a fourni les meilleures armes contre lui-même, en cas qu'il eût tort. Mais voici le mal: il a expliqué quelques textes d'une manière qui n'a pas l'honneur de plaire. Oui, cela est vrai, mais a-t-il jamais hasardé une seule explication qui fût purement de lui ? Ne produit-il pas à chaque article des garants de grande autorité, de sorte qu'il faut avouer que, s'il se trompe, il le fait en très bonne compagnie ? Voila encore un autre crime dont on l'accuse. Ayant soutenu, avec plusieurs autres théologiens et particulièrement avec feu Mr le Doyen de Saint-Paul, pour s'opposer aux erreurs de Sabellius, que les trois personnes de la Trinité sont trois êtres réels et distincts, il soutient encore, avec le Dr South, que c'est trithéisme de croire que ces trois êtres réellement distincts, soient parfaitement égaux, et que, par conséquent, il y faut admettre une espèce de subordination. Je ne veux pas déterminer s'il a raison ou non, mais, puisqu'un homme de ce caractère n'a pu éviter d'être maltraité, par quel endroit pouvez-vous vous flatter qu'on vous fera un meilleur parti, en cas que vos études vous menassent à des sentiments contraires à ceux qui sont généralement reçus. Le Docteur en question a toutes les bonnes qualités qui peuvent se trouver ensemble. Il possède toutes les parties de l'érudition qui rendent un ecclésiastique estimable, et il les possède dans un degré où fort peu de gens peuvent parvenir dans une seule science. A une bonne connaissance des trois langues savantes, il joint une grande érudition dans la philosophie et dans les mathématiques, ce qu'on peut voir par ses livres publiés en latin. Ses ouvrages anglais fournissent une preuve si convaincante de sa piété et de sa connaissance dans la théologie et ont rendu des si grands services à la religion qu'ils seraient des sûrs garants de l'amitié et de l'estime de tous les bons membres de l'Eglise, particulièrement du clergé, à tout homme qui ne fût point soupçonné d'hérésie. Toute cette pieté et érudition, et le bon usage qu'il en fait, est soutenu par un tempérament heureux au-delà de tout ce que l'on peut dire. Une conduite douce, aisée, modeste, débonnaire et obligeante donne un merveilleux lustre à toutes ses actions : et, dans tout ce qu'il dit ou qu'il écrit, on ne voit ni passion, ni vanité, ni impertinence, ni ostentation, défauts qui arrivent souvent aux plus honnêtes gens dans la liberté de la conversation, ou lorsqu'ils réfutent des adversaires impertinents ou déraisonnables, particulièrement ceux qui renversent les fondements de la vertu et de la religion.

Tel est le savoir, telle est la modération d'un homme que ces études ont fait soupçonner de quelques opinions hérétiques et, à cause de cela, on le noircit, on le diffame, on déchire cette grande et irréprochable réputation qu'ils s'est acquise d'ailleurs. Chaque malheureux prend la liberté d'insulter un homme qui possède tant des qualités éminentes, tout comme s'il avait aussi peu de vertu et de savoir que le plus méprisable de ses antagonistes. Si un homme d'un tel caractère ne peut se reposer sur sa bonne réputation, quelle protection pouvez-vous espérer de votre vertu en pareil cas. C'est pourquoi sur toute autre chose, soyez orthodoxe. L'orthodoxie couvrira une quantité de péchés, mais une nuée de vertu ne pourra jamais couvrir le défaut de la moindre parcelle de l'orthodoxie.

On prétend, à droit ou à tort n'importe, qu'un homme doit s'attacher pour le reste de sa vie au parti qu'il a pris une fois. C'est le sentiment du monde que les signatures qu'on a fait[es] dans sa jeunesse obligent pour toute la vie, comme si un homme à l'âge de vingt-quatre ans avait autant de sagesse et connaissait l'Ecriture et l'antiquité aussi bien qu'à l'âge de cinquante. Cependant, tout homme qui s'applique à ces etudes ne sera jamais sûr de conserver ses sentiments même pour un an. Or s'il venait à les changer, il faudrait ou qu'il etouffât sa croyance malgré les remords de sa conscience, ou qu'il s'exposât aux plus rudes traitements et à se faire appeler renégat, faux frère, hérétique, et tout ce que la malice la plus noire peut inspirer.

Je n'ai pas encore fini. Ce que je viens de représenter n'est pas le pis de l'affaire. Peut-être mépriseriez et négligeriez-vous ce que le monde dit de vous, tandis que votre conscience ne vous reproche rien. Soit, je veux que l'on abandonne le soin de la réputation ; mais êtes-vous à l'épreuve d'une autre suite, qui ne manquera point de suivre de près le soupçon de l'hérésie où vous tomberez ? Pourrez-vous endurer de vous voir ruiné vous-même, votre femme et vos enfants ? Il me semble que cela vous fait penser. Mais quel danger y a-t-il, me direz-vous ? Un Anglais est à l'abri de la persécution ou de l'Inquisition. Grâces à Dieu, l'esprit de persécution est si bien banni de notre île que les hérétiques, quand ils seraient convaincus, n'ont pas lieu de craindre le bûcher. Cela est très vrai. L'esprit de la persécution s'est retiré de chez nous, au moins est-il désarmé ; et je regarde ceci comme une des bénédictions les plus inestimables de la révolution. Mais êtes-vous bien sûr que ce même esprit [ne] reviendra point ? Et quand il ne retournerait jamais, qui est-ce qui vous pourra garantir que l'imputation d'hérésie n'aboutira point à votre ruine et à celle de votre famille. Il est vrai, on ne vous brûlera point, ni vous, ni vos enfants : mais on vous ruinera aussi sûrement que si on vous liait sur le bûcher. On vous excommuniera et, en vertu de cet acte, on vous mettra dans un cachot, où vous pourrirez pendant que votre famille crèvera de faim. Dès que vous vous trouverez dans cet état-là -circonstance sur laquelle on ne peut jamais faire trop de reflexion- il n'y a rien qui vous en puisse affranchir. Votre punition ne discontinuera point, tant que vous persiste[re]z dans vos sentiments. Les peines ecclésiastiques ont des règles tout à fait particulières. Une violation de la loi civile est punie d'une peine qui ne dure que peu de temps -à moins que le crime ne soit capital- et qui est proportionnée à la faute qu'on a commise. Quand vous avez subi cette peine, on vous laisse en liberté et on ne demande rien de vous excepté, en certains cas, une caution que vous vous comporterez mieux à l'avenir. Mais en cas d'hérésie, on n'a pas le moindre soin de proportionner la punition à l'offense ; et le supplice que l'on fait souffrir au criminel ne cesse jamais. Ce n'est pas assez que l'on lui fasse souffrir les châtiments les plus rudes, quelque légère que soit l'offense; il ne suffit [pas] non plus qu'il donne caution de ne pas offenser à l'avenir. Il faut encore que le criminel innocent déclare -ce qui [qu'il] lui est très souvent impossible de faire sincèrement- qu'il est devenu orthodoxe. Cette cérémonie ne manque jamais de se faire, quoique peut-être on ne se soit servi d'aucun moyen de conviction, à moins que les peines qu'on lui fait souffrir ne soient regardées pour une bonne méthode de convertir. Voici l'état misérable d'un hérétique convaincu. On le punit pour avoir declaré des pensées hérétiques et on continue à lui infliger les mêmes peines uniquement pour avoir pensé d'une manière hétérodoxe, quoiqu'il ne soit point dans sa puissance de gouverner ses pensées comme il veut, et que cela dépende de l'évidence que les choses lui paraissent avoir. Il faut qu'il souffre perpétuellement -quelle cruauté de la justice !-, pour ses pensées particulières, les mêmes peines qu'une démarche ouverte lui a une fois attirées. Le Saint Office ne se contente pas de le punir toties quoties, autant de fois qu'il revient à une telle démarche ouverte. Il ne sert de rien non plus de s'abstenir des démarches pareilles, ou de promettre que l'on se taira à l'avenir, ce qui est pourtant tout ce qui est dans le pouvoir d'un honnête homme de faire. Non ! Il faut qu'il se rétracte, qu'il le puisse ou qu'il ne le puisse pas, et cela pour la plupart dans des termes qu'on a soin de lui fournir, de sorte que, s'il ne trouve point des raisons qui le puissent faire changer de sentiment ou s'il ne veut pas faire semblant d'avoir changé, tant qu'il persiste encore dans ses premiers sentiments, il en a pour le reste de ses jours et son châtiment ne finit qu'avec sa vie.

De quel coté que vous tourniez la chose, il est très sûr qu'un homme excommunié pour crime d'hérésie est bien à plaindre. S'il ne se retranche point, il faut qu'il passe sa vie en prison pendant que sa famille meurt de faim. S'il se rétracte, que gagne-t-il par là ? Il est vrai qu'il recouvre sa liberté, mais item c'est tout. Croira-t-on qu'il a agi sincèrement ? Ne s'imaginera-t-on pas qu'on a ménagé en sa faveur les termes de la rétractation ? Ou, si la rétractation a été conçue dans les termes les plus forts, ne le soupçonnera-t-on pas de se sauver à la faveur des équivoques ? Ne voudra-t-on pas qu'il publie les raisons qui l'ont fait changer ? En cas qui [qu'il] ne produise point d'autres arguments pour le parti orthodoxe que ceux dont on s'est servi auparavant, ne lui demandera-t-on pas pourquoi ces raisons lui paraisssent présentement plus convaincantes qu'elles ne lui ont paru ci-devant ? Ne voudra-t-on pas conclure de son silence que ces mêmes raisons lui paraissent encore défectueuses, à moins qu'il n'en trouve des meilleures que les plus fortes dont on s'était auparavant servi pour le convaincre ? Ce qui à mon avis est une contradiction. Ne dira-t-on point là-dessus qu'il n'a pas changé de sentiment, que c'est le châtiment et non pas sa première opinion qu'il évite ? De sorte que, s'il garde son sentiment, il sera exposé à toute l'infamie de l'hérésie et à toutes ses peines et, s'il l'abandonne, on ne le croira point sur sa parole. On le punira pour avoir agi selon sa conscience et, s'il abandonne l'hérésie qu'on lui a imputée, on prétendra qu'il trahit sa conscience et on le croira peut-être plus méchant homme qu'on ne l'avait cru ci-devant. Que l'affaire tourne comme elle voudra, il est sûr qu'être une fois hérétique, c'est être misérable pour le reste de ses jours. Que vous changiez de sentiment ou que vous ne changiez point, jamais vous ne rétablirez votre réputation et jamais vous ne pourrez espérer aucun emploi ni bénéfice. Tout homme qui s'est rendu une fois coupable d'hérésie en sera toujours soupçonné; sa femme et ses enfants le verront toujours sujet au même reproche, et ils s'en ressentiront. Leur caractère en souffrira et ce reproche leur fera même trouver plus de difficulté à gagner leur vie. On regardera les enfants d'un hérétique comme une couvée de monstres, comme une peste de la république, et l'on croira qu'ils empoisonnent l'air même qu'ils respirent.

Voila les malheurs que l'homme du caractère le plus irréprochable peut attirer sur soi-même et sur sa famille, s'il se mêle d'un étude aussi dangereuse et si sa conscience ne lui permet pas d'en dissimuler le résultat : malheurs que le scélérat le plus misérable, le plus corrompu et le plus débauché n'a pas lieu de craindre. Les plus grands vices et les plus dominants échappent souvent au châtiment, surtout quand on est bien orthodoxe : au moins, la punition ne s'étend pas au-delà de la personne du délinquant. S'il se corrige, sa réputation n'en est pas flétrie, ni celle de ses enfants quand il y persiste. On les plaint plutôt d'avoir un père si débauché, et tout le monde est porté à leur témoigner de la bonté. Cela étant, qui est-ce qui voudrait s'attacher à une étude qui lui peut attirer tant de misère et d'infamie, sans mesure et sans fin, quelque innocent qu'on soit ? Et si ce sont véritablement les suites de l'excommunication, dites-moi, je vous en prie, en quoi elle vaille mieux que la persécution ?

Vous me direz encore qu'il n'est pas sûr que cette étude vous conduise immanquablement à des opinions hérétiques et, quand elle le ferait, il n'est pas si aisé de convaincre un hérétique ou de déterminer ce que c'est que l'hérésie. Quant au premier point, il me semble que j'ai dit assez là-dessus ; pour le second, j'avoue qu'il n'est pas fort facile de convaincre quelqu'un d'hérésie. Il est vrai, la loi paraît défectueuse à cet égard, mais qui est-ce qui vous garantira qu'elle ne sera pas bientôt suppléé par une nouvelle loi. En attendant, quoiqu'il soit difficile de convaincre un homme d'hérésie, on ne le trouvera peut-être pas impossible. En tout cas, on n'a que [qu'à] changer le nom et l'on trouvera assez de moyens de s'attaquer au délinquant. Si, à cause de la défectuosité de la loi, il ne peut être convaincu d'hérésie, on le pourra pourtant convaincre d'avoir parlé ou écrit contre les dogmes établis de l'Eglise, ce qui lui attirera les mêmes malheurs que l'hérésie pourrait faire. L'hérésie étant une opposition à la doctrine de l'Eglise catholique, on supposera que, puisque la doctrine de l'Eglise établie est celle de l'Eglise catholique, en s'opposant à l'une, on ne manque pas de s'opposer à l'autre, de sorte qu'un homme pourra être déclaré hérétique à tous egards et condamné aux mêmes peines, quoique peut-être, pour sa consolation, on omette dans la sentence le mot : hérésie.

Vous vous imaginerez peut-être que le clergé d'Angleterre a trop de modération et trop d'aversion pour tout ce qui ressemble au Papisme, que de vouloir ruiner un homme uniquement à cause de ses opinions. Je souhaite, que vous le trouviez tel, si jamais vous tombez dans le [ce] cas. J'avoue aussi qu'on a vu un esprit d'humanité et de christianisme régner dans quelques ouvrages qu'on a publiés depuis peu et dans lesquels on ne s'y attendait guère : mais après tout, je ne puis être de votre sentiment. Oui ! si personne ne jugeait des choses qu'il n'entend pas ; si l'on ne reconnaissait personne pour juge compétent en fait d'hérésie, à moins qu'il ne jugeât bien du sens de l'Ecriture et de l'Antiquité primitive ; si personne ne passait pour bien entendre l'Ecriture et l'antiquité hormis ceux qui les eussent bien étudiées, qui les eussent lues soigneusement eux-mêmes, sans se reposer sur la bonne foi des auteurs modernes ; si, avant que de condamner une opinion, on en examinait les raisons. Si chaque juge, avant que de donner sa voix, était obligé de s'examiner bien lui-même, et de déclarer qu'il se trouvait les qualités ci-dessus mentionnées, qu'il avait approfondi la matière et qui [qu'il] ne dirait rien qu'il ne pensât ; si l'on pouvait obtenir tout cela, je veux bien croire qu'on ne trouverait pas aisément beaucoup de juges en fait d'hérésie et, quand on les trouverait, il est très vraisemblable qu'ils ne se presseraient point à prononcer sentence. Leur lecture et leur expérience ne manqueraient point de leur représenter que les plus honnêtes gens peuvent s'égarer. Ils remarqueraient peut-être qu'il y a plus de raisons à alléguer pour le sentiment dénoncé que l'on ne se l'imagine communément. Ils appréhenderaient qu'en décourageant les recherches des savants, ils n'ôtassent aux jeunes gens l'envie de le devenir. Ils auraient beaucoup de répugnance à faire souffrir un homme dont ils sont persuadés que la vie est vertueuse et imminente [innocente], sans savoir avec autant de certitude que ses opinions soient fausses et dangereuses. Ils n'ignoreraient point que, quand on décourage l'érudition et la vertu, cela est de si mauvaise conséquence qu'il ne faut pas venir à ces extrémités à moins que les opinions d'un homme [ne] soient extrêmement mauvaises. Mais permettez-moi de vous dire qu'on n'a pas beaucoup de raison à espérer de trouver ni des juges tels que je les décris, ni une telle répugnance à juger. On ne manque jamais de mettre en fait que la doctrine de l'Eglise dont on est membre est la veritable, que c'est la doctrine de l'Ecriture et de l'antiquité ; et tout le monde s'imagine de l'entendre : de sorte qu'il ne faut que fort peu de savoir et de lecture pour qualifier le moindre ecclésiastique pour être juge du plus savant homme du monde.

Il faut que je vous représente d'ailleurs que la plupart des gens s'imaginent qu'ils peuvent faire en conscience tout ce que la loi leur permet. Ceux qui ont l'esprit plus raffiné et plus élevé, qui donnent une bonne étendue à leurs pensées et qui ont approfondi les principes des choses, n'ignorent pas que les lois écrites ne sont que des conclusions tirées de la loi naturelle antérieure à toutes les ordonnances humaines : et que si celles-ci s'ecartent de la loi non-écrite, elles n'ont aucune autorité réelle et intrinsèque. Ils savent qu'une chose n'est pas juste et raisonnable à cause qu'elle est commandée, mais que, dans tous les bons gouvernements, on ne commande les choses que parce qu'elles sont justes et raisonnables. Ils savent que c'est fort souvent par surprise, par corruption, par intrigue, par artifice ou par superstition que l'on obtient les lois. Ils n'ignorent pas qu'en fait de religion, les lois pénales font rarement du bien. Ils ne contribueront pas facilement à les faire, et quand ils les trouvent toutes faites, ils seront bien aises de les laisser reposer. Ils savent qu'aucune autorité humaine ne peut changer la nature des choses, ni justifier devant Dieu une sentence cruelle et injuste. Ils sont bien persuadés que, s'il n'est pas fort juste de punir un homme pour ses opinions, il n'y a point de milieu, il faut qu'une pareille punition soit bien injuste. C'est un brigandage ou un meurtre public de priver un homme de ses biens ou de sa vie, à moins que cette action ne soit aussi juste en elle-même qu'elle est conforme aux Lois.

S'il y a des gens qui pensent de cette façon, il faut qu'ils soient d'un entendement bien raffiné et éclairé et, par consequent, ils ne peuvent être en grand nombre. Presque tout le monde s'imagine de pouvoir faire juridiquement. Cette maxime est sans doute très bonne pour eux. Ne pouvant point juger eux-mêmes de la nature des choses, la loi est le guide le plus propre qu'ils puissent prendre. Ainsi, tant qu'il y aura des lois pour punir les défenseurs des opinions hérétiques ou opposées à la doctrine établie, contez [comptez] qu'on ne les laissera point dormir. Il y aura toujours quantité de gens qui demanderont à haute voix qu'on les mette en exécution, et ils s'imagineront que le zèle qu'ils font voir à cet egard est le meilleur service qu'ils puissent rendre à l'Eglise.

Telle est la nature de l'homme et telle a-t-elle été de tout temps. L'expérience des malheurs que l'empressement de prononcer des anathèmes contre ceux qui s'écartaient des opinions reçues a attirés sur le Christianisme ne nous rendra pas plus circonspects. Je ne doute pas qu'on puisse démontrer avec la dernière évidence que toutes les Eglises chrétiennes ont plus souffert par leur propre zèle pour l'orthodoxie et par les mesures violentes qu'elles ont prises pour l'avancer, que par les derniers efforts de leurs plus grands ennemis. Nonobstant tout cela, le monde ne cessera point de recourir aux mêmes mesures. Le meme zèle les poussera aux mêmes persécutions ou poursuites -donnez-leur tel nom qu'il vous plaira- sans faire réflexion que les mêmes moyens ne peuvent manquer de produire à la longue les mêmes effets funestes.

N'allez donc pas vous mettre dans l'esprit que le monde a changé là-dessus. Ne vous imaginez point que vos opinions ne peuvent vous ruiner, à cause qu'il n'est pas raisonnable qu'elles le fissent. Ne vous flattez point que, dans les controverses de religion, la modération, la prudence et le flegme l'emportent sur le zèle indiscret, la bigoterie et la superstition. En un mot, ne vous précipitez point d'épouser des opinions qui ne peuvent avoir d'autre effet que de mettre le plus honnête homme à la merci du dernier des mortels. L'homme le plus méprisable, qui n'a rien qui le recommande hormis son orthodoxie, dont peut-être il n'est redevable qu'à son ignorance et à sa stupidité, s'imaginera qu'il est en droit de vous traiter avec mépris, de flétrir votre réputation par des [les] réflexions les plus virulentes, de ravaler vos ouvrages comme des pièces chétives et pitoyables et de donner des noms injurieux aux opinions où il n'entend rien. Et il faut endurer tout ceci, sans avoir la moindre espérance qu'on veuille entendre ce que vous avez à dire pour votre défense !

Je ne ferai plus qu'une seule remarque. C'est que c'est le malheur des ecclésiastiques d'être bornés à une seule profession. D'autres, quand ils ne peuvent gagner la vie d'une façon, ont la liberté d'en essayer une autre : au lieu qu'un homme qui a pris ce caractère indélébile une fois doit uniquement vivre de la profession qu'il a choisie. Ainsi, quand on lui ôte ce gagne-pain, son savoir, ses bonnes qualités et son industrie ne lui servent plus de rien. On ne lui permet pas de prendre un autre chemin pour réparer la perte qu'il a soufferte à cause de ses opinions en qualité d'ecclésiastique. Il n'a employé son temps, ses biens et ses études que pour se rendre utile dans cette seule profession ; et quand il serait capable de gagner sa vie par une autre, ce serait trop tard. Il a fait son choix et il faut qu'il s'y tienne. Voici un malheureux dilemme auquel un hérétique prétendu est réduit. On ne lui permet ni de suivre sa profession, ni de l'abandonner. On ne veut qu'il vive ni dans sa profession, ni hors d'elle, de sorte que, malgré son savoir, ses qualités, sa vertu et son industrie, quoiqu'il soit capable d'être bon jurisconsulte, bon médecin, bon marchand ou bon artisan, s'il n'est pas orthodoxe, on le met dans l'impossibilité de vivre, au moins agréablement et avec réputation. Soutenez-moi présentement, si vous le pouvez, que le conseil que je vous donne n'est pas celui d'un ami. C'est assurément le conseil d'un homme qui aime la vertu et le savoir, qui est ami de tous les gens de probité et qui s'intéresse particulièrement à vous voir réussir dans le monde. D'ailleurs, ce conseil est soutenu par l'exemple des plus grands hommes. Car nommez-moi un seul homme de tous les savants les plus fameux depuis deux cents ans, qui se soit attaché serieusement à l'étude de l'Ecriture, au lieu que je vous pourrais alléguer une infinité des plus excellents personnages, depuis Scaliger et Casaubon jusqu'à notre siècle, qui ont pris [une] route tout à fait différente. Il est vrai que Capellus et le grand Grotius font une exception à cette regle : mais aussi les a-t-on traités d'une manière qui n'encouragera personne à suivre leur exemple. Ne sortons point de notre pays ! Qui sont ceux qui ont surpassé tous les autres dans la philosophie, l'astronomie et la mathématique, excepté Mr Newton ? Ne sont-ce pas des ecclésiastiques ? Leur vaste connaissance dans cette sorte de sciences ne fut-elle pas le fruit de leur attachement fort et constant à ces parties de l'érudition ? N'ont-ils pas employé dans ces études le temps qu'à votre avis ils eussent dû consacrer à celle de la Sainte Ecriture ? De l'autre côté, exceptez-moi de ce corps si nombreux deux ou trois personnes, et où me trouverez-vous un ecclésiastique d'un grand génie et qui ait fait une figure considérable dans la république des lettres, qui ait commenté les Ecritures, du moins avec quelque connaissance supérieure de la critique ?

Or à quoi faut-il attribuer tout ceci ? Ces savants hommes évitaient-ils cette étude faute d'habileté ? Personne ne fera ce reproche à des gens d'un savoir si reconnu. Manquaient-ils de bonne volonté ? Nullement, ils étaient gens de vertu et aussi bons protestants que savants ! Croyaient ils -eux qui se sont donné tant de peine pour expliquer d'autres livres, et qui y ont si bien reussi- croy[ai]ent-ils, dis-je, que l'Ecriture fût le seul livre qui n'eût pas besoin de leur aide ? Cela ne se peut dire non plus. Ils voyaient bien que les livres sacrés avaient autant souffert qu'aucun autre par les injures du temps et l'ignorance des copistes, et bien plus encore par des interprétations fausses et ridicules. Parlons nettement. La seule chose qui les a detournés d'une étude si noble et si nécessaire est le défaut d'une liberté que l'on accorde aux savants partout ailleurs, excepté dans l'étude de l'Ecriture. Ils ont trouvé qu'il est dangereux de l'examiner sans partialité et de dire ses sentiments avec liberté ou sans sûreté, et qu'on s'attendait d'eux que, loin de montrer ou de corriger les erreurs les plus grossières, ils employassent leur esprit et leur savoir à les appuyer et à les pallier, à soutenir les explications reçues quelqu'absurdes qu'elles fussent, et non pas à les remplacer par d'autres que la raison et savoir leur eussent dictées. Mais aussi c'était une tâche qui ne convenait guère à des gens de probité et qui n'avaient pas moins d'intégrité et de franchise que de pénétration et de capacité. C'est une chose bien difficile à des gens qui ont des yeux et un entendement à eux, quand on les oblige à ne pas voir ni entendre autrement que de la maniere qui leur est enjointe, et par qui ? par des gens qui ne peuvent ni voir, ni entendre eux-mêmes. Faire un usage aussi sinistre de son savoir et de ses lumières était, à leur avis, en pervertir la fin même et déshonorer ce Dieu pour le service duquel elles leur avaient été données. Ainsi, ne pouvant pas seulement souffrir la pensée d'étudier l'Ecriture aux conditions sus-dites, et se trouvant de la répugnance à être oisifs, il ne leur est resté d'autre parti à prendre que celui de s'attacher à quelque autre étude, dans laquelle ils pourraient cheminer librement partout où la verité et la raison les conduiraient, sans courir aucun risque et sans offenser personne. La conséquence en a été, pour ne rien dire de la perfection où ils ont porté les arts et sciences, que plusieurs d'entre eux ont fait, chacun pour sa part, plus de corrections heureuses et qu'ils ont expliqué plus de difficultés dans les plus petits auteurs païens, que tous les ecclésiastiques ensemble n'en ont corrigé et éclairci depuis deux siècles dans le corps entier de l'Ecriture. C'est pourquoi je ne puis me dispenser de vous conseiller de suivre ces exemples. Attachez-vous entièrement à l'étude des historiens, poètes, orateurs et philosophes païens ; employez dix ou douze ans sur un Horace ou sur un Térence ; expliquez un billet doux ou une chanson à boire ; éclaircir une plaisanterie obscène, faire une heureuse correction dans un passage qui ferait rougir un homme qui a de la pudeur, vous donnera plus de réputation et vous sera plus avantageux que si vous consumiez votre temps avec le meilleur succès du monde à l'étude des Ecritures : à moins que vous ne puissiez vous résoudre à cacher vos sentiments et à parler toujours avec le vulgaire. Que le grand Bentley vous serve d'exemple. Quelle réputation ne s'est-il point acquise par la belle édition d'Horace qu'il vient de mettre au jour ? Tout le monde ne convient-il pas avec une espèce d'admiration de sa grande capacité ? Mais s'il avait employé le même génie, la même sagacité et le même travail à l'étude de l'Ecriture, s'il avait fixé le texte dans des passages douteux, rétabli les corrompus, expliqué les difficiles, déterminé le sens des obscurs et découvert le sens littéral partout où cela se peut faire, si, dis je, il avait entrepris un ouvrage de cette espèce, il est plus que vraisemblable que, loin de l'applaudir et de l'en remercier, on l'aurait traité d'homme téméraire, sans jugement, de peu de savoir et moins de religion : et si jamais son ouvrage eût été condamné à être brûlé, je suis sûr que la majorité des voix aurait porté qu'il fallait prononcer la même sentence contre son auteur.

Considére[z] donc bien à quoi vous vous engagez, avant que de le faire. Car, apres avoir franchi le pas, il n'y aura plus de retour, ni de repentance, ni de pardon à espérer, dès que vous avez une fois le malheur de déplaire. Vous avez deux chemins devant vous : l'un vous mettra en état d'être utile au monde sans vous beaucoup incommoder, il couronnera de succès vos travaux et il vous donnera de l'estime et de la réputation : il vous fournira des occasions de pourvoir à votre famille et de donner une bonne éducation à ces deux beaux enfants dont Dieu vous a fait présent. L'autre chemin vous fatiguera par mille difficultés et vous exposera [à] des suites très funestes. Il vous attirera le reproche le plus insupportable d'être cru perturbateur de l'Eglise et ennemi de la foi orthodoxe, ce qui ne pourra finir que dans une extrême pauvreté et dans une ruine totale de votre famille. A Dieu ne plaise qu'un homme qui n'a point d'autres vues que de consacrer toute sa vie au service de Dieu, se trouve jamais dans des pareilles circonstances. J'ai l'honneur d'être,

Monsieur,

Votre très humble et très fidèle serviteur.

CONCLUSION

Apres tout ce qu'on vient de dire dans cette longue lettre, je suis persuadé que la plupart des lecteurs ne laisseront pas de croire qu'on y avance un paradoxe bien étrange : il y en aura peut-être qui s'en scandaliseront comme d'un sentiment très impie et qui ne voudront jamais convenir que les Chrétiens puissent abandonner une étude qui devrait faire leur occupation principale. A parler franchement, j'avoue que je suis tout à fait de leur opinion. Je n'ai pas moins de répugnance qu'eux à admettre la conclusion, savoir, qu'un homme sage doit abandonner l'étude de l'Ecriture. Cependant, je ne puis disconvenir qu'humainement parlant, cette conclusion ne s'ensuive de ses prémisses. C'est pourquoi, si nous ne voulons point convenir de la conclusion, il faut faire voir que les prémisses sont fausses et que l'étude de l'Ecriture n'est pas accompagnée de tant de mauvaises suites, qu'on [ce que] nous tenterons inutilement, à moins que nous ne fassions tout ce qui dépend de nous pour les faire cesser ces mauvaises suites. Car, tant qu'elles subsisteront, l'éloignement que l'on a à l'heure qu'il est pour l'étude de l'Ecriture ne cessera jamais, et autant que l'on contribue à faire subsister ces suites, autant detourne-t-on les jeunes étudiants de cette étude, quoiqu'on pretende faire tout le contraire.

En vérité, rien n'est plus ridicule que de parler de l'Ecriture tous les jours avec autant de respect que nous le faisons et d'en rendre l'étude en même temps si périlleux et dégoûtant à des gens sincères et de probité. Donc, si, en qualité de Chrétiens, nous ne voulons plus décourager le monde d'une étude, laquelle nous reconnaissons pour le devoir principal des gens d'Eglise, si, en qualité de Protestants, nous voulons adhérer au principe fondamental de la Réformation, savoir, que l'Ecriture est la règle unique de la foi, employons tous nos efforts pour éloigner ces grands obstacles qui en empêchent l'étude ! Faisons de notre mieux afin que les savants aient pleine liberté d'étudier l'Ecriture sans contrainte ni partialité : qu'on leur donne de bons encouragements pour les animer à se faire jour au travers des épines et des difficultés de cette étude et à s'y appliquer, non pas légèrement ou superficiellement, mais avec une assiduité telle que la nature de la chose demande : qu'on leur permette de dire leurs sentiments en toute sûreté : qu'on examine leurs opinions avec candeur et modération, que l'on ne les charge pas de calomnie, ni des reproches mal fondés : que l'on explique leurs paroles et leurs actions avec la même candeur dont on se sert envers ceux qui sont d'un sentiment opposé ; que si leurs assertions sont fondées, on les reçoive : si non, qu'on les réfute de la même manière que l'on agit à l'egard des erreurs des savants sur d'autres sujets. Si elles sont douteuses, et si l'Ecriture en dit si peu de chose ou parle si obscurément que rien ne puisse être déterminé, ni de part ni d'autre, qu'on n'oblige personne de prendre l'un ou l'autre parti comme nécessaire au salut : qu'en tout cas leurs personnes soient en sûreté et que leur subsistance n'en souffre point, soit qu'ils aient tort, ou qu'ils aient raison : que tant qu'ils vivent vertueusement, tant qu'ils écrivent avec toute la modestie et civilité requise, tant qu'ils n'avancent rien qui détruise la morale ou qui fasse tort au gouvernement, on les traite à tous égards de la même manière que l'on en agit, ou devrait agir, envers ceux qui s'emploient dans les autres parties de l'érudition.

D'ailleurs, une opinion, quelque fausse qu'elle soit, ne peut à mon avis jamais mettre l'Eglise en danger : je ne vois non plus que les erreurs d'un petit nombre de gens puissent faire beaucoup de progrès malgré les efforts d'un corps aussi grand et aussi savant que celui des ecclésiastiques, gens toujours prêts et capables de soutenir et de défendre l'opinion reçue, supposé qu'elle fût soutenable -car en cas qu'elle ne le soit pas, elle ne doit pas être soutenue- et quand il naîtrait quelques inconvénients de la liberté que je recommande, ils ne seraient presque rien en comparaison de ceux qui doivent s'ensuivre du défaut de cette liberté.

A moins que l'on n'accorde aux ecclésiastiques une liberté semblable, à moins qu'ils ne soient en sûreté par rapport à leur réputation, leurs biens et leurs personnes, même à moins que l'on n'encourage [l']étude de l'Ecriture à proportion de sa difficulté, il est impossible que l'on s'y attache généralement avec la sincérité, l'impartialité et l'assiduité requises. Avant que cela [ne] se fasse, il est absolument impossible de bien entendre les Ecritures et, à moins qu'on ne les entende, elles portent vainement le nom de règle de la foi. Car ce ne sont pas les mots de l'Ecriture, mais leur sens qui doit régler la foi, et tant que nous ne l'entendons point, ce n'est pas l'Ecriture qui nous sert de règle, quelque bruit que nous en fassions, mais un sens que des hommes lui donnent, des hommes aussi sujets à se tromper que nous le sommes et qui, à beaucoup près, n'ont pas été si bien fournis des secours propres à découvrir le vrai sens de l'Ecriture que les savants d'aujourdhui. Pendant que nous recevons le sens de l'Ecriture sur la bonne foi d'autrui, sans voir par nos propres yeux, nous retombons insensiblement dans les principes du Papisme et nous abandonnons le seul fondement par lequel nous pouvons justifier notre séparation de l'Eglise de Rome. Ce fut le droit d'étudier l'Ecriture et d'en juger par soi-même que nos premiers Réformateurs ont soutenu avec tant de succès, et il n'y a point d'autre principe sur lequel leurs successeurs puissent justifier leur attachement aux dogmes de leurs ancêtres.

Donc, si c'est tout de bon que nous nous intéressons à l'étude de l'Ecriture, si nous la croyons sérieusement l'unique règle de notre foi, agissons comme si nous [le] croyions ! Encourageons-en l'etude libre et impartiale, dépouillons-nous de cet esprit papiste malfaisant, arbitraire et persécutant. Gardons-nous de mettre dans les fers l'entendement des hommes et de donner à leurs recherches des bornes plus étroites que celles que Dieu et la verité ont prescrites. A moins que de vouloir abandonner le principe protestant que l'Ecriture est évidente et claire dans les articles nécessaires, ne déclarons rien nécessaire qui n'y soit clairement révélé.

En ce cas-là, nous pouvons espérer de voir l'étude de ces livres divins si heureusement cultivée par les travaux réunis des savants, qui ne seront plus retenus par aucun découragement, que tout le monde pourra, quant à l'essentiel, convenir de leur sens véritable. On donnera la même interprétation aux passages qui peuvent s'entendre, au moins à ceux qui sont de quelque importance. Quant aux textes trop obscurs pour être éclaircis avec quelque certitude, on ne [en] conviendra aussi et on déclarera unanimement qu'aucun article de la foi ne doit être établi là-dessus, ni en être prouvé. Apres la connaissance qu'on a du sens d'un texte de l'Ecriture, la meilleure [connaissance] est celle de savoir qu'on n'en peut point trouver le sens avec certitude. Quand on aura démêlé de cette façon les parties obscures de l'Ecriture d'avec les claires, on se pourra alors flatter avec raison de voir parmi les Protestants une union sur tous les points nécessaires : et quand ils auraient de différents sentiments sur d'autres points moins nécessaires, cela ne pourrait être de mauvaise conséquence, ni troubler la paix de l'Eglise en aucune manière, d'autant que, lorsque tout le monde convient sur les points essentiels de la religion et que l'on regarde les autres points comme indifférents sur lesquels chacun puisse prendre tel parti qu'il voudra, ou meme n'en prendre aucun ou changer de sentiment, comme il le trouve à propos, sans scandaliser personne, il ne reste plus rien dans la doctrine de l'Eglise qui puisse enflammer les passions de l'homme et flatter ses intérêts corrompus.

Apres tout, il faut ou encourager l'étude libre et impartiale de l'Ecriture ou ne l'encourager point. Il n'y a point de milieu. Ceux qui soutiennent qu'il ne faut point l'encourager, ne se croiront pas lesés, j'espère, si l'on suppose qu'ils ne maintiennent leur sentiment que par des raisons semblables à celles qui viennent d'être alléguées dans la lettre sus-dite : au moins nous permettront-ils de le supposer jusqu'a ce qu'ils nous en donnent des meilleures. [De l]'autre coté, ceux qui croient ces raisons défectueuses, sans nous en pouvoir fournir des meilleures, se trouveront forcés d'avouer qu'une telle étude doit être encouragée, et par conséquent ils se garderont de contribuer à ces pratiques qui tendent naturellement à la décourager, afin qu'ils ne se trouvent pas dans le cas de ceux qui préfèrent l'obscurité à la lumière, et qu'en punition de ce mauvais goût ils ne soient à la fin condamnés aux ténèbres. Dans le cas dont il s'agit, il n'y a pas plus de milieu entre encourager et décourager qu'il y en a entre la lumière et les ténèbres. Chaque degré de ténèbres produit un défaut proportionné de la lumière, et chaque défaut de lumière est assurément un degré de ténèbres. Rejeter un plus grand degré de lumière, supposé qu'on le pût avoir, est assurément préférer les ténèbres à la lumière, ce qui, à mon avis, n'est ni raisonnable, ni excusable. Ceux qui tiennent ce parti se défient évidemment ou d'eux-mêmes ou de leur cause. Si leur cause peut soutenir la lumière, pourquoi ne la lui exposent-ils pas [?] Si non, elle n'est pas la cause de Dieu, ni celle de son fils. Car Dieu est la lumière et il n'y a point de ténèbres en lui; et le fils de Dieu est la veritable lumière qui illumine tout homme qui vient dans le monde.

Fin




 

Difficultés sur la religion

Cahier I

[R. Challe]

Ed. by Frédéric Deloffre and François Moureau © 1997

 

Nota. Le texte qui suit est celui du manuscrit Cod. gall. 887 de la Staatsbibliothek de Münich, découvert par François Moureau et transcrit par Frédéric Deloffre, qui en préparent ensemble l'édition. Le manuscrit ne comporte pas de titre à la première page, mais seulement à la page 1O, Difficultés sur la religion proposées au père Malebranche. Au verso, une étiquette porte "le Philosophe militaire", mais une étiquette plus ancienne, portant sans doute un autre titre, a été arrachée. Le manuscrit a été copié avant 1760; voir François Moureau, "A l'origine du texte; le manuscrit inconnu des Difficultés sur la religion" (R.H.L.F., 92, 1992, p. 92-104). Quoique non autographe (les manuscrits clandestins le sont rarement), ce manuscrit représente une version très fidèle de l'original, tant pour le détail du texte que pour le contenu global. Il est beaucoup plus complet (+ 30 % environ) que celui de la version M, publiée en 1983 par Frédéric Deloffre et Melâhat Menemencioglu. A l'inverse, il n'inclut pas les passages interpolés dans le manuscrit M, publié par Roland Mortier aux Presses Universitaires de Bruxelles en 197O et reproduit dans l'édition de 1983. Sur la qualité remarquable de la transcription, très supérieure à celle de M, voir Frédéric Deloffre et William Trapnell, "The Identity of the 'Militaire Philosophe': Further Evidence" (Studies on Voltaire and the XVIIIth Century, 341, 1996, p. 27-60).

Challe, qu'une brochure anonyme accusait en 1708 de s'appliquer davantage aux "livres défendus" qu'à ceux de Droit, a dû se livrer à la préparation de ses Difficultés à partir de cette date environ. De nombreux indices renvoient dans le texte aux années 1710-début de 1712, aucun ne dénonce la présence d'éléments postérieurs. Du reste, à partir de 1712, Challe a été occupé par la mise au net et la publication des Illustres Françaises, parues au début de 1713, par les tentatives vaines de publier ses Tablettes chronologiques, par un séjour professionnel dans la région lyonnaise (1714-début de 1716), par la rédaction des Mémoires (1716), puis par la composition de son Journal de voyage aux Indes. Enfin, un séjour en prison (juin-août 1717), suivi d'un exil définitif à Chartres devaient le détourner de reprendre une oeuvre dangereuse pour lui.

Dans la transcription qui suit, l'orthographe a été modernisée, à l'exception des particularités significatives. Le numéro des pages du manuscrit figure entre crochets.

F.D.

 

Difficultés sur la religion proposées au père Malebranche

Le Libraire au Lecteur 1

Les gens que la raison effarouche parce qu'ils ne la peuvent accorder avec leurs intérêts ne méritent aucuns égards. Les lecteurs équitables me sauront gré du présent que je fais au public; la copie m'en a été communiquée par une personne de distinction à qui l'auteur l'a laissée quelques années avant sa mort; c'est un officier retiré du service et du grand monde qui craint de manquer de rendre à Dieu ce qu'il demande véritablement: mais qui souffre avec impatience et indignation la tyrannie qui s'exerce sous son nom. Il somme tous les théologiens du monde de lui donner les solutions que son ami attendait du fameux père Malbranche ou de trouver bon qu'il s'en tienne à la religion dont on verra un si beau plan.

[1 suite] Préface2

Il est aisé de juger de l'esprit de l'auteur de cet ouvrage par le mérite de la personne à qui il s'adresse pour être éclairé, et du fond de son coeur par la manière dont il lui parle dans sa lettre. Sa morale prouve assez son humanité, sa candeur et sa droiture, et sa sincère persuasion de l'immortalité de l'âme, et de [2] l'existence d'un Dieu libre, agissant pour une fin, punissant le crime et récompensant la vertu, avec tout ce qu'il traite sur ce qu'emporte cette persuasion convainquent incontestablement de sa vraie religion et de sa solide piété.

Les ecclésiastiques ne manqueront pas de crier qu'il paraît un livre impie, exécrable, rempli de blasphèmes, et qui ne peut être que l'ouvrage du démon sorti des enfers; qu'on veut ouvertement saper les fondements de la religion par le pied: Ils fulmineront, ils remueront ciel et terre, ils étourdiront le peuple, ils intéresseront les grands, et mettront tout en rumeur et en confusion. Au fait ce démon était un des plus honnêtes hommes qui fût au monde, aimé de tous ceux qui le connaissaient, et estimé de tous ceux qui ont eu affaire à lui; le livre ne dit pas un mot qui ne respire la gloire de Dieu et l'équité, unique source du bonheur des hommes; mais les ecclésiastiques appellent saints ceux qui leur font du bien; quiconque se récrie contre leurs fourberies et leurs exactions est un diable incarné.

On attaque les fondements de la Religion; et pourquoi non? Ces messieurs les attaquent bien, ils blasphèment bien, les théologiens de chaque religion n'attaquent-ils pas les fondements de toutes les autres, ne traitent-ils pas leurs dieux de démons, leurs simulacres d'idoles, leurs prophètes d'imposteurs, et leurs prêtres de séducteurs?

Il y a donc un droit général de combattre toutes les [3] religions, ou toutes ont tort de s'entrechoquer. Si les ministres de religion n'avaient pas plus d'intérêt à soutenir leurs lois, leurs dogmes, leurs préceptes qu'on en a à les suivre, ils ne feraient pas si grand bruit. Le pape, l'évêque, le curé, le ministre, crient contre le mufti, l'iman contre le bonze, et le talapoin contre le rabin. Le rabin crie contre le pape, l'évêque, le curé, le mufti, le bonze et le talapoin. Le mufti contre le pape, le rabin et le talapoin. Le bonze et le talapoin crient contre le pape, le rabin et le mufti. Tous s'entrefoudroient; pourquoi le philosophe, l'homme sage et sans prévention ne criera-t-il pas contre ces gens-là? Quel droit chacun d'eux a-t-il que celui-ci n'ait pas? Voyons qui a tort, voyons qui se plaint avec raison, voyons qui prêche la vérité.

Ces fondements sont bons ou mauvais. S'ils sont bons ils n'ont rien à craindre; s'ils sont mauvais pourquoi l'univers ne secouera-t-il pas un joug si dur et si pesant; par quelle raison ne se bornera-t-on pas à ce qui est réellement à la gloire de Dieu, nécessaire au salut des hommes, et utile à leur tranquillité?

M. Jacquelot [dans ses Dissertations imprimées à La Haye chez Chrétienne Foulques, 1699, note marginale] en a agi en homme de bien; convaincu de sa croyance, champion du christianisme, il jette le gantelet, et attend la lance en arrêt quiconque voudra se présenter pour le démentir; il propose ses preuves, et invite tout le monde à fournir des objections, promettant de ne se point prévaloir en faux brave des avantages de la religion régnante, [4] de n'exposer personne à la malignité des cagots, ni à la rigueur des lois extorquées par les ecclésiastiques; un honnête homme ne peut agir autrement, et un tel procédé fait plus d'honneur à la religion que tout le faste avec lequel on la prêche; et l'autorise bien mieux qu'un million de sentences de l'Inquisition.

Spinosa [Ethica ordine geometrico demonstrata, note marginale] emploie sa rare subtilité à établir l'athéisme, et ce qui est encore plus pernicieux, la fatalité et la nécessité des actions des hommes, par conséquent la licence pour tout ce qu'il y a de plus abominable. Cependant il est imprimé, et est assez commun; à la vérité il est défendu, mais avec le respect dû aux princes et aux puissances, il eût été peut-être mieux de n'en rien faire. Ses principes sont manifestement faux ou arbitraires, il se contredit partout, sur le chapitre de la liberté qu'il suppose en mille endroits quoiqu'il la nie positivement.

Le remède contre tous les écrits qui blessent la religion qu'on fait profession de croire véritable, et seule bonne, c'est d'y répondre solidement, de n'en point permettre la vente et la publication sans réponse et prétendue réfutation. Cette précaution est judicieuse et suffisante; loin de la craindre, on la demande au nom de Dieu.

Les proscriptions de ces livres font bien plus de tort à la religion que tous les écrits imaginables. C'est dire en propres termes qu'on prône une fausseté qui ne peut soutenir le moindre examen, comme un faux monnayeur qui fuit dès qu'il voit mettre ses pièces au feu.

Les écrivains protestants insultent les papistes [dans la préface des Nouvelles de la République des Lettres, note marginale] [5] sur ce que leurs objections leur font tant de peur, qu'ils ne veulent pas seulement qu'on les voie dans les livres controversites [sic] quoique la réponse les suive, puis eux-mêmes avertissent [préface de la Bibliothèque universelle et historique, note marginale] que s'il se présente quelque livre qui attaque les fondements de la religion chrétienne, loin d'en faire le détail ils n'en annonceront pas même le titre.

N'est-ce pas se laisser aveugler par ses préjugés, ou par ses intérêts? Ils s'étendront sur tous les écrits qui renversent les fondements de toutes les religions, sauf la leur. Propria dissimulans, cur aliena notas? C'est une injustice criante, l'effet de l'amour propre contre lequel on fait tant de bruit, ou plutôt du lâche et sordide intérêt, au moins du brutal esprit de parti? N'est-ce pas avouer que les fondements de la religion chrétienne en général sont de la même solidité que ceux du papisme en particulier; que les chrétiens sentent leur faible, comme le pape le sien, n'ayant que la ruse pour engager, et la violence pour retenir?

Au reste le présent écrit en peut nuire qu'à ceux qui ne s'embarrassent pas de servir Dieu, mais qui sont dévorés du zèle de s'en servir, qui veulent être respectés sans mérite, commettre toutes sortes de crimes avec impunité, et vivre dans l'opulence sans travail et sans soin. Cet ouvrage plaira infiniment aux personnes qui cherchent sincèrement la gloire de leur créateur avec leur salut, il prêche la vérité incontestable, il la prêche sans intérêt, il ne demande point de dîme, de gages, d'honoraires, de pensions, d'annates etc. [6] Il justifie parfaitement la justice divine, et ôte tout prétexte aux scélérats de s'excuser, et de vivre dans leur maudite sécurité.

Il établit d'une manière solide, claire et distincte, ce dont toutes les religions conviennent obscurément, il ne tend qu'à retrancher les funestes effets du fanatisme, de la fourberie, de l'orgueil, de l'avarice, de l'ambition et de l'esprit tyrannique.

L'auteur n'en est pas demeuré là; outre qu'il rend sensible la crainte de Dieu et la plus pure morale, il lève toutes les difficultés sur la providence, la prescience, la justice, la miséricorde et la bonté de Dieu, et sur la prédestination; il fait disparaître toutes les contrariétés qu'on veut trouver dans la nature humaine, il explique le bien et le mal moral, et en montre la cause, il fait voir l'injustice des plaintes qu'on fait contre la distribution des biens de la fortune; il établit le libre-arbitre d'une manière incontestable et sur des démonstrations palpables, qui finiront toutes disputes, et mettront cette vérité hors de toute atteinte, et tout cela par un petit nombre de principes clairs, et dont personne ne peut disconvenir.

Le nom de démonstration qu'il donne à ses preuves dans le second cahier n'est point une usurpation ou un abus de termes comme dans tous les écrits dont les auteurs n'ont jamais eu l'effronterie de réduire en syllogismes les impertinences qu'ils débitent pour preuves; celles qu'on verra ici sont de véritables démonstrations [7] en forme. La méthode en est plus facile que la commune. Il commence par proposer une vérité claire et incontestable, qu'il détaille, qu'il tourne de tous sens pour en faire pénétrer la force et la mettre au grand jour, puis il prend cette vérité pour la majeure de son syllogisme. Chacun de ses arguments est fini et absolu, sans avoir besoin de rappeler les autres par un enchaînement pareil à celui des géomètres; qui est à la vérité quelque chose d'admirable, mais que peu de gens peuvent suivre, par conséquent mal convenable à une matière que les personnes doivent entendre; c'est ce qui a obligé l'auteur à semer son travail d'une infinité de comparaisons à la portée des plus simples génies, dont on admirera la parfaite justesse.

Heureux l'Etat, heureuse la république où régnerait la religion qui fait la matière du dernier cahier, heureux le prince qui s'y tiendrait, et dont les sujets n'en auraient point d'autres, heureux les particuliers qui la professeraient, et qui vivraient avec ceux qui y seraient fidèles.

On pourra trouver quelques répétitions que l'auteur avait peut-être rayées [et non rangées, texte peu satisfaisant de M] d'une manière qui n'a point assez paru, mais on a mieux aimé risquer de mettre une bonne chose en deux façons que de l'omettre. Peut-être remarquera-t-on [8] aussi que certains articles auraient pu être mieux placés, le nombre des renvois et des interlignes est si grand dans l'original, il y a tant de petites pièces attachées avec des épingles, qu'il a été comme impossible de ne se pas tromper; ç'aurait été la mer à boire que de chercher à mettre ces articles en leur juste rang, il a de nécessité fallu donner un peu au hasard.

Rien de tout cela ne donne la moindre atteinte à la force et à la justesse de l'ouvrage. S'il paraît un peu défiguré, ce ne sera qu'au goût d'une délicatesse excessive, ou pour mieux dire aux petits génies, qui ne sont touchés que de l'ajustement. La véritable beauté les passe; il peut aussi être arrivé que ces articles soient de nouvelles pensées que l'auteur a jetées à peu près où elles pouvaient convenir, ce qui a d'autant plus d'apparence qu'ils sont négligés.

Si on trouve le tour trop affirmatif par rapport au titre, et quelques endroits plus vifs qu'on ne s'attendrait, le lecteur doit faire réflexion qu'un homme de guerre accoutumé à parler naturellement, n'a pas les ménagements et les précautions d'un homme de cabinet, il oublie ce titre, et se laisse emporter à son sujet et à la force de ses pensées. Peut-être aussi que ces endroits si vifs, et même durs eu égard à la qualité de la personne à qui on parle, n'ont point été employés dans la copie donnée au père Malbranche, soit que l'auteur les ait omis par respect, soit que ce soit de ces morceaux ajoutés, comme nous venons de conjecturer.

On finit en avertissant le lecteur qu'on a cru devoir retrancher certains traits historiques d'un grand poids, mais qui auraient pu caractériser l'auteur, et attirer bien des maux à une pauvre veuve chargée d'une grosse famille, à qui le père n'a guère laissé que l'honneur. Que n'a-t-on point à craindre de la soupçonneuse cruauté [9] de l'Inquisition?

Les personnes qui ne sont pas faites aux raisonnements un peu profonds et aux matières en quelque façon abstraites, qui n'ont aucune entrée dans les sciences exactes, trouveront bon qu'on les avertisse qu'ils doivent lire ce livre, non en le dévorant pour ainsi dire, mais doucement par pauses et à diverses reprises; qu'ils se bornent à une vingtaine de feuillets plus ou moins, autant que cela peut renfermer une espèce d'unité de matière.

Si on se laisse emporter à l'ardente curiosité ou à un certain point qu'on cherche, on est si occupé que tout le reste échappe; quoique les yeux parcourent toutes les lettres et toutes les lignes, l'esprit n'est point frappé du sens qu'elles renferment, on se trouve au bout de sa lecture embarrassé d'idées confuses et point instruit d'une manière claire et convaincante, qui est l'effet que doit produire un écrit tel, et du caractère de celui-ci.

Le meilleur et le plus sûr est de lire deux fois le livre entier; la première épuise et contente [et non épuiser et contenter, texte de M] cette ardente curiosité qui est une passion. La seconde est toute de raison, et cette passion n'embarrasse plus.

[10] Difficultés sur la religion proposées au R. P. Mabranche [sic]

Mon Révérend Père,

Prétendre vous entretenir serait une témérité que je n'ai pas, des heures aussi précieuses que les vôtres ne s'accordent pas à un inconnu, surtout lorsque vous ne savez pas le sujet de ses visites. Mais j'espère que vous voudrez bien jeter les yeux sur ces petits cahiers,3 qui contiennent mes difficultés sur la religion, et par conséquent que votre charité ne peut refuser, à moins qu'elles ne fussent indignes de la sublimité de votre génie, ce que je n'appréhende pas. Je suis aussi tranquille sur la faiblesse de mon style, et sur mon peu d'érudition; un esprit d'une si rare élévation, d'une pénétration et d'une profondeur extraordinaire, l'auteur de La Recherche de la vérité ne la méprisera pas pour être exposée sans art. Le métier que j'ai fait ne m'a pas permis de faire un grand progrès dans les lettres, mais j'ai sujet de me croire un peu de bon sens et de discernement. Jugez-en mon R.P. par ce petit endroit. Etant encore assez jeune, et à même de beaucoup de livres d'histoires, de relations, de voyages, de comédies, de romans, j'ai lu avec avidité La Recherche de la vérité; je l'ai relue contre mon génie et ma coutume. J'étais ravi d'admiration et cependant je trouvais des articles où il me semblait que le grand P. Mabranche [sic] s'oubliait lui et ses principes.

J'aurai l'honneur de vous communiquer ces petites remarques quand il vous plaira, j'espère même qu'elles vous paraîtront plus plausibles que venant d'un docteur en titre d'office, que la jalousie pique souvent plus que l'amour du vrai et du juste. Elles partent d'un esprit sans érudition et plus prévenu que personne du monde de votre mérite. Ainsi ce ne peut être que l'effort de [11] l'instinct naturel, ou plutôt la raison toute pure, si ce n'est une illusion. Il en sera de même de tout ce que je mettrai ici en oeuvre, je puis assurer votre Révérence qu'il n'y aura rien qui ne me soit venu naturellement; je n'ai jamais vu seulement par le couvercle Spinosa, ni aucun autre livre de pareille espèce, ni de sociniens, ni de déistes. J'ai même évité de lire ces sortes de livres quand il s'en est trouvé quelques-uns sous ma main, et je souffrais quand je rencontrais dans d'autres quelque chose qui en approchait. je n'ai pas voulu seulement jeter les yeux sur un Lucrèce, qu'un de mes amis me laissa il y a quelques mois. Le peu de lecture que j'ai n'a pu que donner occasion à quelqu<es>-unes de mes pensées. Je n'en emploierai pas une de celles que je puis tenir d'autrui, par la lecture ou par les conversations.

Ce n'est pas que je prétende ne rien dire que de neuf. Au contraire je suis persuadé que la plus grande partie a été dite et pensé<e> par d'autres mais je ne l'ai pas appris d'eux. La plupart s'est présenté<e> de soi-même, et la méditation a fourni le reste.

Il semble que c'est le caractère de la vérité de s'offrir naturellement et sans recherche à tous les esprits, il n'y a nulle raison pour quoi la fausseté viendrait ainsi se présenter d'elle-même, et pourquoi plutôt l'une que l'autre.

Il est bien vrai qu'en examinant une question, on peut prendre le change, se laissant trop frapper d'une des faces du sujet, mais quand sans y penser, et à la seule occasion de ce sujet, une idée claire paraît tout à coup, ce ne peut être que la Vérité.

Tout ceci, mon R.P., n'est point un trait de vanité, c'est seulement pour encourager votre R<évéren>ce à passer le premier feuillet par l'espérance de trouver quelque chose digne de votre attention.

Je présume que vous vous trouverez assez engagé à une réponse lorsque vous ferez réflexion que je ne suis pas seul que ces difficultés aient frappé et ébranlé. Je vous avouerai [12] ingénuement, mon R.P., que ma foi est en grand risque, si le P. Malebranche ne me satisfait pas, je n'attends rien du reste des hommes nés et à naître. Au reste je proteste devant Dieu que je crois, crains et reconnais pour mon créateur et mon juge, que quoique ce que je vais dire me paraisse très solide, j'en souhaite de tout mon coeur la réfutation. Je dis bien davantage; si vous pouvez, mon R.P., mettre les choses en équilibre, que vous me payiez de bonnes raisons capables de balancer les miennes, quoiqu'elles ne les détruisent pas tout à fait : La force de l'éducation, appuyée de la bonne opinion de votre suffisance, l'emportera. Mais ne me payez pas de contes, d'exclamations, d'autorités, d'allégories ni d'autres preuves de catéchistes et de missionnaires.

Je sais, mon R.P., que, sur tout autre sujet, je serais un extravagant avec un tel préambule; mais en matière de religion on met tout en usage. Et lorsque vous avez bien dit que l'on ne pouvait s'assurer de la réalité des corps que par l'Ecriture sainte. Que vous avez trouvé J.-C. glorieusement ressuscité dans une fourmi devenue papillon; que vous avez apporté comme une bonne preuve de ce qu'on nous prêche le consentement de tant de personnes à des choses incroyables: De quoi n'est point capable le plus grand génie pour soutenir une telle cause?

Les préjugés et l'engagement font trouver tout de mise, ce qui a quelque mauvaise apparence est une conviction. On trouve passable ce qui paraîtrait ridicule à toute personne sans prévention. Vous avez, mon R.P., tant d'exemples de pareilles faiblesses, et de noms si révérés auxquels vous pouvez mêler le vôtre sur ce chapitre, que votre réputation ne court aucun risque pour cela. Tout le monde dit que le grand P. Malebranche parle là [13] en prêtre chrétien et en théologien, il ne parle pas en gentilhomme incapable de déguisement, ni en philosophe qui n'apporte pas des fadaises pour de bonnes raisons.

Ne vous jetez point non plus, mon R.P., sur ces lieux communs de libertinage et de corruption de coeur; car outre que chaque religion peut faire le même reproche à l'autre, que les juifs peuvent dire aux chrétiens qu'ils ont déserté pour éviter la circoncision, pour manger toutes sortes de viandes etc., pour que ces arguments eussent quelque apparence, il faudrait que les sectateurs d'une religion factice valussent mieux que les sauvages et que les philosophes, et quelle différence, bon Dieu!

J'appelle religions factices toutes celles qui sont artificielles, qui sont établies sur des faits, et qui reconnaissent d'autres principes que ceux de la raison, et d'autres lois que celles de la conscience. Ce ne sont point les scélérats, les tyrans, les exacteurs, les traîtres, les assassins, les empoisonneurs qui se révoltent contre les religions, ils en ont même sentiment que les autres. Ils sont même assez communément dévots jusqu'à la superstition. Ce sont les gens de bien qui aiment la vertu et l'honneur, qui écoutent leur conscience et leur raison, qui se voient avec horreur engagés dans des opinions ridicules et funestes.

A mon égard j'ai été non seulement chrétien catholique à brûler, mais dévot, diseur d'obsecro, d'allégresses, d'oraisons sainte Brigitte etc, et en même temps tout des plus débauchés,4 au lieu que présentement que je mène une vie réglée et quasi exempte de passions, je sens bien qu'il n'y a que la force de l'éducation qui agit : je serais de même païen [et non païé, texte de M], du paganisme le plus abominable.

[14] Je finis en avertissant V. R<évéren>ce qu'en me disant sans érudition, j'entends par comparaison avec les savants, les critiques, les gens qui font leur métier de l'étude; car si je suis au-dessous de ces m<essieu>rs, je suis aussi un peu au-dessus du manant. J'ai fait mes études à l'ordinaire.5 J'ai lu la Sainte Ecriture entière. J'ai quelque teinture de l'histoire, je suis un peu physicien, et ai quelques entrées dans les mathématiques, en sorte que j'entendrai tout ce qui sera solide, quelque sublime qu'il soit.
J'ai lu votre Métaphysique, mon R.P., et vos Conversations chrétiennes, j'en connais tout le beau, je suis convaincu du bon, et en connais tout le faible. Si le grand P. Malebranche n'avait été que philosophe, il ne serait pas tombé en tant de cas que je n'ose appeler par leur nom. Platon se serait répandu en petitesses, en puérilités, en mystérieuses fadaises, s'il avait voulu accorder la théologie de son pays avec les sentiments qu'il avait de la divinité.

Il faut encore que je supplie très humblement Votre Révérence de n'être point choqué des termes qui peuvent m'échapper. Je prends un personnage libre, indifférent et dégagé de tout respect politique, un personnage de pure nature, un personnage de sauvage, qui n'a l'esprit barbouillé d'aucune prévention ni supposition. Je me regarde, mon R.P., comme élevé avec vous dans un désert avec une mère muette, sans autre guide que notre raison, et autre instruction que nos réflexions et méditations.

Après cela, mon R.P., le scandale n'est point à craindre. Le P. Malebranche n'est point un esprit faible, et cet écrit ne vous passera pas, à moins que vous ne le jugeassiez digne d'une réponse publique, auquel cas il en faudrait donner une copie fidèle en entier, avec la réfutation à chaque article, comme je vous [15] conjure [M ajoute à juste titre au nom de Dieu, nécessaire pour comprendre le pronom lui qui suit], mon R.P., de me la faire; ce sera lui qui récompensera vos peines. Pour moi je ne puis vous offrir que mon respect, et la reconnaissance infinie avec laquelle j'aurai l'honneur d'être toute ma vie, de Votre Révérence, mon R.P.,

Le très humble et très obéissant serviteur. M.

S'il y a quelque chose d'obscur et trop serré, je l'étendrai et le mettrai en si grand jour qu'il vous plaira, je me retiens de crainte d'alarmer votre patience, et d'ailleurs la longueur du travail me fait peur. Mais s'il n'y avait qu'un ou deux points à épuiser, je le ferais avec plaisir, et les pousserais certainement jusqu'à leur fin. / .

[16] PREMIER CAHIER

contenant ce qui m'a fait ouvrir les yeux

La première chose qui m'a choqué dans notre religion est la puissance du Pape : dès mes plus tendres années, je n'entendais pas lire une gazette, que, lorsqu'on en était à ces différends ordinaires entre la cour de Rome et les Etats catholiques, [que addition interlinéaire] je n'entrasse en une indignation qui aurait mis en poudre pape, clé et tiare si j'en avais eu le pouvoir. Je ne pouvais comprendre la faiblesse des souverains, de se faire volontairement esclave d'un malotru, que le dernier des hommes peut mépriser impunément. Il en était de même lorsque j'entendais parler de dispenses de mariages, d'excommunications, de détrônements, d'interdits de royaume, etc. Mais ç'a été bien pis quand j'ai vu de mes yeux le faste, l'orgueil, la débauche, la vanité, l'avarice, les intrigues et la politique de cette cour; quand j'ai su ces annates pour les bénéfices, ; ce tarif d'absolutions, ce dogme tant pratique d'enfreindre ses serments et de ne tenir aucun compte de sa parole; enfin quand j'ai su que cette sainteté si révérée était souvent un vieil, mangé de goutte et pourri d'ulcères qui suivent les plus infâmes maladies; donnant ou refusant tout au gré de sa concubine, laquelle durant ses délires [délices, M] décidait souverainement sur toutes sortes de matières, se trouvant ainsi l'oracle du Saint Esprit. Ensuite se présenta l'Inquisition, et toutes les violences dont on use pour se soumettre les gens sous prétexte de religion, et priver le genre humain de toute liberté. La cruauté qu'on pousse jusqu'à se faire une fête des [17] exécutions et de voir rôtir vifs des malheureux et des innocents, tandis qu'on traite de tyrans abominables ceux qui en font bien moins et avec plus de justice, car à l'égard des anciens empereurs, il n'y a point de comparaison à faire; on venait leur apporter une nouveauté qui mettait le trouble et la discorde partout, qui les tirait d'un état où ils se trouvaient fort bien; dès qu'on a été les maîtres, on a renoncé aux beaux principes qu'on leur prêchait, et on a forcé les Romains à quitter leur religion sous laquelle ils avaient conquis et conservé l'empire de l'univers. Cette religion était fausse? nous examinerons la nôtre. Quant aux païens d'à présent, la main sur la conscience, mon R.P., quel tort ont-ils de se défaire de gens qui viennent renverser des lois et des coutumes avec lesquelles ils vivent en paix, pour leur en apporter qui sèmeront la haine et la discorde et les rendront esclaves de mille marauds?

Je voudrais bien qu'on instruisît l'empereur de la Chine de ce qu'il fait en souffrant nos missionnaires, qu'on lui apprît ce qui est arrivé aux empereurs grecs et allemands, et comment on a traité un roi d'Angleterre et un comte de Toulouse, quel a été le sort des rois de l'Amérique, et qu'on lui fît connaître que rien que la puissance de son empire ne le met à l'abri d'un pareil traitement, sur lequel il peut compter infailliblement dès que la plus grande partie de ses sujets sera infatuée [et non infectée, lectio facilior de M] du papisme; où l'on soutient que tout est au [au est omis par M, qui n'a pas compris la majeure du syllogisme] juste, et que les seuls papistes sont justes. Ils prêcheront hardiment que tout leur appartient de plein droit, comme leurs docteurs l'ont écrit et décidé; par conséquent qu'ils peuvent s'emparer de tout ce que possèdent quelque sorte de gens que ce soit; qu'on l'instruisît qu'il s'élèvera vingt mille républiques [18] dans ses Etats, dont les biens et les personnes seront hors de sa juridiction, et pour lesquels il sera obligé d'avoir plus d'égards et de ménagement qu'ils n'en auront pour lui, qui soutiendront hardiment qu'ils peuvent le priver de la vie et de l'empire s'il n'est de leur opinion sur toutes leurs fantaisies, sans que lui, pour quelque cause que ce soit, leur puisse seulement faire une correction; que ces gens se diront exempts de toutes charges publiques et posséderont les plus beaux biens et lèveront sur les peuples plus d'impôts, le laissant seul chargé de toutes les dépenses de l'Etat, et d'aller courir les risques et les fatigues de la guerre pour les mettre à couvert de leurs ennemis; tandis que ces messieurs seront à table, au lit, à se promener dans leurs superbes jardins, ou à séduire les femmes et les filles des malheureux qui cour[re]ront s'exposer pour leur défense; qu'on lui fît voir au doigt et à l'oeil qu'il faudra qu'il sorte tous les ans plus de six millions de son empire pour aller à Rome acheter des provisions d'évêques et d'abbés, des dispenses de mariage, des absolutions, des indulgences, etc.; enfin que le pape le déclarera ennemi de Dieu, par conséquent déchu de son trône; et ses sujets déliés du serment de fidélité qu'ils lui doivent, moyennant lequel arrêt, il ne lui restera pas seulement des domestiques, et qu'il sera réduit à courir pieds nus présenter les épaules aux étrivières. Ces missionnaires, ces apôtres ont tant de bonne foi, qu'ils se gardent bien de garde de prêcher ces vérités; ils font les chattemites, les doucereux et les humbles en attendant l'heure de montrer les griffes et les dents. Il faudrait aussi instruire le peuple que ces gens qui crient à pleine tête qu'aucun intérêt ne les mène, ne les auront pas plus tôt gagnés, qu'ils [19] demanderont la dixième partie de leurs revenus, de leurs travaux et de leur industrie, ne les marieront que pour de grosses sommes et les contraindront à se faire enterrer à grands frais, qu'ils leur défendront les choses les plus essentielles, afin de leur en vendre la dispense, qu'ils leur enlèveront leurs femmes et leurs filles, les violeront, les massacreront, sans qu'ils en puissent espérer aucune justice.

Mais ces Juifs, mais ces hérétiques sont dans leur pays, ils sont dans leur propre bien, de quel droit peut-on les violenter dans leur conscience, les poursuivre avec le fer et le feu, et par des voies abominables, contraires à la nature, à la raison et aux règles de justice reconnues de toutes les nations? Ces gens sont bons sujets, bons citoyens, tout leur crime est de ne pas subir des lois tyranniques que l'orgueil et l'avarice des gens d'Eglise ont imposées.

Tout le train des ecclésiastiques en général par lequel on voit manifestement que ces mystères si vénérés ne sont que des nasses tendues pour pêcher les richesses et les grandeurs, m'émut infiniment. Ils ont l'impudence de prêcher la pauvreté, regorgés [M donne regorgeans, autre lectio facilior] de biens, l'humilité au comble des plus glorieux états, le désintéressement prenant à toutes mains où il ne leur est rien dû, et cent fois plus qu'il ne faudrait quand il leur appartiendrait quelque salaire, se faisant payer d'avance avec la dernière rigueur, ce que ne font pas les plus misérables manouvriers [mieux que manoeuvres, texte de M]; la sobriété et la frugalité au milieu des festins continuels, des tables abondantes et délicieuses, la simplicité dans les palais [20] superbes, avec des équipages magnifiques et des armées de serviteurs. Il ne faut pas être d'une humeur bien soupçonneuse pour croire que de telles gens sont des fourbes. Mais on ne peut s'en laisser piller et gourmander sans être bien insensible, bien paresseux et bien lâche.

Je fis après cela réflexion sur toutes ces cérémonies, en si grand nombre et telles que je reconnaissais chez les Grecs et chez les Romains païens dans mes livres de classe. J'ai depuis vu le reste chez les idolâtres indiens et américains. J'y ai trouvé les moines, les chapelets, les reliques, etc.

Sur l'attention qu'on a à préoccuper l'esprit des enfants avant qu'ils soient en état de juger de ce qu'on leur propose, sur ces légendes farcies de miracles ridicules et même odieux, de suppositions impertinentes, de faussetés grossières, et pourtant approuvées, publiées, prêchées, imprimées et peintes dans les temples, enfin autorisées comme toutes les autres chose qu'on nous donne comme ce que la religion a de plus saint et de plus sacré. Sur la vénération des reliques lorsque je vis que ce n'était que des os pourris à l'ordinaire, moi qui m'étais imaginé que c'étaient des membres comme les miens. Où est la certitude que ces squelettes qu'on tire des magasins inépuisables de Rome soient des corps des martyrs? La vraisemblance (s'il y en a) est-elle proportionnée au risque évident d'idolâtrer si on se trompe, et quelle nécessité de courir ce risque ? Sur les canonisations qui n'ont d'autre appui qu'une foi humaine, et qui sans la moindre nécessité nous expose à rendre un culte divin à des damnés, car enfin quand il y aurait quelque fond à faire sur la déposition [21] de gens prévenus, ignorants, intéressés, etc., sait-on l'intention de ces prétendus saints? Les témoins ne peuvent déposer que du fait matériel, sait-on seulement s'ils ont été baptisés? Leur curé était peut-être comme m<essi>re Louis Gaufredy qui baptisait au nom du diable, ou juif, ou mahométan comme j'en ai vu en Espagne? Mais bien pis on canonise pour des crimes, pour avoir abandonné leur devoir essentiel et causé mille maux, pour avoir faussé leurs paroles. Enfin qui répondra à cette difficulté : saint Paul dit lui-même qu'il ne sait s'il est digne d'amour ou de haine, qu'il ne se sent coupable de rien, cependant qu'il n'est pas justifié. Le pape sait-il les actions et les intentions de Jean de Capistran [note marginale de M: récollet canonisé] comme saint Paul savait les siennes propres ? Quand il les saurait également il devrait rester comme lui dans l'incertitude. Si on allègue les miracles, outre que tout le monde raisonnable n'en doit pas croire, et que tout homme sage n'en voit point; J.C. [leçon de B confirmant une conjecture de H. Coulet, qui proposait de corriger Il, donné par M, en J.C.] a dit qu'il envoierait en enfer des personnes qui auraient fait des miracles en son nom.

L'Antéchrist en fera : répondez, mon R.P. Il est donc évident que ces canonisations ne sont autre chose qu'un moyen de se donner un grand relief, et de payer de fumée des services très réels aux dépens du véritable culte qui n'est dû qu'à Dieu seul. Que peut-on inventer de plus beau, et qui coûte moins, que de faire dresser des temples et des autels aux gens, de leur attribuer la pluie et le beau temps, les tempêtes ou les vents favorables, [22] la protection des villes et des royaumes entiers, etc.? Saint Louis a ruiné la France, a fait périr un million d'hommes, est tombé lui-même en esclavage, et définitivement mort de la peste. S'il eût réussi, il en revenait au pape deux ou trois millions par an avec un accroissement immense de pouvoir et de grandeur. Comment payer tout cela ? Un trait de plume, on l'inscrit au catalogue des saints. On en fera apparemment de même au roi Jacques qui a faussé ses serments et ses promesses, renversé les lois fondamentales du royaume, et ruiné toute sa famille.

Je passai de là à tous ces gueux vagabonds par les villes et par les campagnes sans autre métier que de demander ce qu'on appelle la charité; à tant de moines mendiants bien gras et bien logés, sans autre soin que de faire les gens d'importance et les agréables, tandis qu'un effronté faquin va excroquant [M modernise: escroquant] des malheureux qui entassés dans des trous avec leur famille crèvent sous le faix du travail et des charges publiques. A tant d'autres moines riches et orgueilleux prenant le titre de pauvres et humbles qui accumulent les titres et les seigneuries, les baronnies et les justices, et les châteaux avec les plus beaux droits, dépensant chacun plus que n'ont de rente la plupart des gentilshommes chargés de pourvoir leurs filles et de pousser leurs garçons.

L'attirail de l'évêque qui me tonsura me choqua encore beaucoup, quand je comparai sa table avec la nôtre. (C'était un jour maigre.) Je compris sans peine que les jeûnes ne coûtent guère à ordonner, quand on les fait ainsi, non plus que les fêtes, quand on a métier de ne rien faire.

[23] La vue de certaine Notre-Dame où ma mère me mena pour s'acquitter d'un voeu, m'a révolté contre le culte des images dès mon enfance; je comptais pendant le chemin que je verrais la Vierge en l'air comme on la représente dans les tableaux, mais quand je ne vis qu'une mauvaise petite figure de pierre noire, à laquelle on faisait toucher des chapelets au bout d'un bâton, je tombai de mon haut, et rien ne m'a jamais paru plus ridicule. Je n'avais pas sept ans, cependant toutes les grandes idées qu'on m'avait inspirées de la bonne Notre-Dame des Ardillières s'évanouirent comme un songe. Je ne regardai cette pierre que comme une pierre, et je vis fort bien que cette pierre si vantée et si célèbre, si pleine de pouvoir, avait besoin d'un piquet pour se soutenir, et d'une grille de fer pour sa sûreté. Pourquoi, disais-je en moi-même, faire tant de chemin, se fatiguer et dépenser considérablement, n'avons-nous pas de semblables marmousets chez nous? Enfin ce bureau au milieu de l'église, pour recueillir l'argent des pauvres idiots, me donna fort mauvaise opinion des ministres de l'idole.

Vers l'âge de douze ans, je commençai à m'apercevoir des mauvaises raisons des prédicateurs, qui ne me persuadaient que de leur envie de se faire une réputation d'habiles gens. Un certain catéchisme qui pour appuyer ce qu'on dit de l'hostie brisée qu'elle contient sous chaque parcelle le corps entier de J.C., disait que l'on se voit tout entier dans chaque pièce d'un miroir cassé, et mille autres pareilles ridiculités, me remplit de doute et de soupçon.

Certain livre avec des estampes assez belles, me tomba [24] entre les mains étant encore en seconde à l'âge d'environ treize ans. Il me plut fort, certains traits figurés et pleins de pointes me paraissaient beaux. L'amour propre qui mit du mercure derrière les objets et fait qu'on s'y voit au lieu de voir Dieu au travers, l'instrument crochu appelé la réflexion avec lequel les philosophes avaient passé sous les murs de la ville de la vraie volupté me charmaient, mais quand j'en fus venu à l'article "Que vois-je? Philédon à genoux aux pieds du crucifix!" je crus rêver, tant ce que j'avais lu me menait peu à cette conversion. Ce n'était point en vérité la corruption du coeur qui me fermait les yeux, je crois que j'avais encore ce qu'on appelle l'innocence baptismale, avec une foi aveugle et sans soupçon, et à toute épre