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  La Stampa 9-3-2008 
  9/3/2008 (7:39) - IL CASO 
  "Ho manipolato le Br per far
  uccidere Moro" 
  Dopo 30 anni le rivelazioni del
  «negoziatore» Usa 
  Francesco Grignetti 
    
  ROMA 
  «Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso
  trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la
  morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per
  lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare
  le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in
  là». Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia
  nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad
  «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai
  parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi
  impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di
  cui è stato a conoscenza. Ed è un fatto che né la magistratura,
  né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo.
  Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il
  francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro
  («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso.  
   
  Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che
  è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un
  ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato
  le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di
  Moro.  
   
  Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo
  1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Francesco
  Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo
  statista. Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa
  da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un
  paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla
  destabilizzazione finale.  
   
  Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’
  un proconsole inviato alla periferia dell’impero. «Il
  capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione
  supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle
  Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo
  era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era una diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi
  politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi
  fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato
  venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per
  andare alla deriva».  
   
  Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una
  saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick
  comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a
  studiare lui. «Secondo le fonti di polizia
  dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi
  avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora
  che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati
  all’interno della macchina dello Stato».  
   
  Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano. «Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano
  in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano
  nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria. Evidentemente era in questo
  modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una
  pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la
  Beretta che avevo in tasca».  
   
  Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era
  guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo
  possibile, il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi
  servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza a una classe
  politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia».  
   
  Ma la strategia di Pieczenick diventa presto
  qualcosa di più. E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti
  all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre
  più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente
  fermezza, avrebbe comunque negoziato».  
   
  Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata
  delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia. Una brusca gelata.
  Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del
  lago della Duchessa. Secondo Pieczenick è un
  tranello elaborato dai servizi segreti italiani. «Non ho partecipato
  direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel
  comitato di crisi». Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica
  al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i
  brigatisti. Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro. E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava
  innescando.  
   
  «Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione
  cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente
  sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato. Ma in questo genere di
  situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e
  perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio.
  E questo è il freddo commento di Pieczenick:
  «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia
  crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata
  catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».
   
    
    
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