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Report "Obama"  25-26 aprile 2009


Indice degli articoli

Sezione principale: Obama

aspettando l'annuncio di obama - torino ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Pagina 1 - Prima Pagina Il retroscena Aspettando l´annuncio di Obama TORINO Uno scontro tra Italia e Germania, sul futuro della Opel e sul risiko delle alleanze mondiali dell´auto. Il vertice dell´Unione Europea, a sorpresa, si è diviso sulla prospettiva che la Fiat, dopo Chrysler, si possa annettere anche la casa tedesca.

chrysler, verso il sì dei sindacati ora braccio di ferro con le banche - (segue dalla prima pagina) salvatore tropea ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: le banche Mercoledì annuncio di Obama, ma Gm entra nella partita Testo per misurare lo spazio equivalen equivalente di 001 righe cartella. Testo per misurare lo spa (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) SALVATORE TROPEA Una incauta presa di posizione contro questa operazione del commissario all´Industria di Bruxelles, Guenter Verheugen, scatena le reazioni italiane sui fronti della politica,

michelle più popolare del marito piace al 79% degli americani ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Dopo i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca Michelle Obama gode di una popolarità superiore a quella pur alta del marito. Mentre le ultime rilevazioni hanno dato il presidente Barack Obama un 65% di gradimento, un sondaggio del quotidiano nazionale Usa Today e della Gallup ha rilevato che il tasso di popolarità di Michelle Obama è pari al 79%.

l'armenia ricorda il genocidio istanbul: "sì alla riconciliazione" ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Sì alla riconciliazione" ISTANBUL - L´Armenia ricorda il massacro subito, Barack Obama non pronuncia la parola «genocidio», e la Turchia si prepara ad aprire il confine fra Ankara e Erevan. E´ una vittoria della diplomazia quella che presto si potrà festeggiare nella turbolenta area del Caucaso. Il ghiaccio fra Armenia e Turchia è rotto.

la politica accorciata - (segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: è lo stile di Obama (se gli andrà bene, come tutti speriamo). In questo senso, credo che al nostro centrosinistra farebbe bene un po´ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie ?

"faccio brutta new york per una storia d'amore che non dà felicità" - antonio monda new york ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: la tengo nella mia sfera privata e penso che Obama abbia le carte per passare alla storia come grande presidente La filosofia del protagonista è che la vita è una esperienza tragica, l´unico sollievo è ciò che funziona nel singolo momento ANTONIO MONDA NEW YORK Dopo quattro film girati in Europa, Woody Allen torna ad ambientarne uno a New York intitolato Whatever works,

la gran torino tra obama e berlusconi ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Torino La gran torino tra obama e berlusconi Sulla crisi dell´industria dell´automobile, Barack Obama non ha esitato a mettere in campo una task force per cercare una soluzione in grado di garantire i posti dei lavoratori americani interessati. Si vedrà a giorni con quali prospettive per il futuro della Chrysler e della Gm - perché è di queste che si parla -

la gran torino tra obama e berlusconi ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Pagina XIII - Torino La gran torino tra obama e berlusconi (segue dalla prima di cronaca) Non appena la caduta delle vendite di auto ha cominciato a toccare da vicino la Germania, ha messo in atto una serie di misure per attenuarne gli effetti su quello che è da sempre il primo mercato europeo del settore.

troppo facile gridare negro a un ragazzino di 18 anni ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: infelice e inopportuna) del nostro Premier nei confronti di un Obama lampadato? Dove? Forse perché difendere un ragazzo di diciotto anni, che aspira ad onorare la maglia della nazionale, è meno clamoroso che attaccare un politico? Due pesi e due misure intitolava Tuttosport, commentando la chiusura per razzismo dello stadio di Torino.

i taliban alle porte di islamabad l'esercito pronto allo scontro - francesca caferri ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: amministrazione Obama verso il Pakistan ? l´inviato speciale del presidente, Richard Holbrooke, ha ribadito pochi giorni fa che gli aiuti da ora in avanti saranno subordinati a risultati nella lotta ai Taliban ? ha esacerbato l´opinione pubblica e reso ancora più debole il governo del premier Yusuf Raza Gilani e del presidente Asif Ali Zardari.

genocidio, istanbul "sì alla riconciliazione" ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Intanto Barack Obama ha ricordato il tragico evento ma senza usare il termine «genocidio». La ricorrenza è caduta pochi giorni dopo la storica intesa con la Turchia su una «roadmap» per la normalizzazione dei rapporti e l´Armenia non ha voluto alzare i toni.

l'instabile paese delle atomiche e la fine di un rapporto con gli usa - guido rampoldi ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini.

il compleanno tibetano che pechino non vuole - (segue dalla copertina) dal nostro corrispondente ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama.

- leonardo coen mosca ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Potrebbe Obama influire in questo processo politico? «Finché il regime in Russia rimarrà antidemocratico, corrotto ed autoritario, ci saranno delle profonde discordie ideologiche fra Obama e le autorità russe. La democrazia gli ha permesso di diventare presidente.

exploit di michelle obama è più popolare di barack ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Pagina 20 - Economia Exploit di Michelle Obama è più popolare di Barack Dopo 100 giorni alla Casa Bianca Michelle Obama batte in popolarità il marito. Il presidente è al 65% di gradimento. La first lady al 79%

"sbagliato alzare le tasse ai ricchi così si torna alla lotta di classe" - luisa grion ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: come negli Usa dove molti manager si sono schierati con Obama E´ giusto che chi ha di più dia di più, ma non si deve criminalizzare chi ha la fortuna di avere redditi alti e paga tutte le tasse LUISA GRION ROMA - Chi più ha, più deve dare: sul principio in sé, Matteo Colaninno - deputato Pd che fu ministro ombra allo Sviluppo economico con Veltroni - è del tutto d´accordo.

jolie e chávez, se i testimonial involontari fanno vendere ( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: presidente venezuelano Hugo ChÁvez che regala a Barack Obama una copia di Le vene aperte dell´America Latina di Eduardo Galeano, durante il summit delle Americhe. Il libro è passato in 24 ore dal 734esimo posto al secondo nella classifica dei più venduti su Amazon. E se la versione inglese ha scalato la graduatoria ancora meglio è andata all´edizione spagnola che è balzata dalla 47.

La Casa Bianca: lavoriamo per intesa su Chrysler ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: L'amministrazione di Obama ha fatto sapere che sta esaminando «tutte le eventualità». «Il presidente, la sua task force sul settore auto e tutti gli azionisti lavorano 24 ore al giorno per arrivare a un accordo che protegga i posti di lavoro di Chrysler» ha detto il portavoce Robert Gibbs.

E con i test l'America scopre che le banche tengono ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Il riferimento è alle dimissioni di Rick Wagoner (Gm) pretese dal presidente Obama il mese scorso. La Fed preso in considerazione due diversi scenari di crisi. Il primo con una contrazione del Pil del 2% e un tasso di disoccupazione all'8,4% nel 2009, seguito da una crescita del 2,1% e un tasso di disoccupazione dell'8,8% nel 2010.

La risposta degli Usa: superveloci ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: «che io invidio all'Europa», dichiarò Obama all'inizio del mese in un discorso agli studenti europei a Strasburgo, arriveranno dai 787 miliardi da lui stanziati per la ripresa dell'economia. Obama ha già tracciato dieci corridoi di mille chilometri di lunghezza in media, dove i treni correranno a oltre 250 km orari.

Marina, torturata a Evin: ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Qualcosa sta cambiando però: le aperture di Obama a Teheran, le prossime presidenziali in Iran. Siamo a una svolta? «Obama porta una nuova speranza, dopo i disastri di Bush. E credo che in giugno il candidato moderato Mir-Hossein Mousavi abbia buone chance, la gente ma anche i khomeinisti sono stanchi di Ahmadinejad.

Virus dai maiali all'uomo Messico, decine di morti ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Una possibile emergenza che è finita anche sulla scrivania di Barack Obama: «Il presidente è stato informato e segue la situazione », hanno comunicato i portavoce. Nessuno ha intenzione di spandere il panico ma da Atlanta, il Cdc, il centro specializzato nel seguire questo tipo di fenomeni, ha avvertito: «Forse è troppo tardi per impedire l'epidemia».

G8 sull'ambiente, solo una Carta sulla biodiversità ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Anche perché l'entusiasmo per l'arrivo al summit di Lisa Jackson, l'inviata di Barak Obama responsabile dell'agenzia di protezione ambientale, si è subito smorzato dietro ai suoi «non posso parlare ». Soltanto qualche parola di apprezzamento per il tema (dagli Stati Uniti proposto) sul problema della tutela della salute dei bambini.

L'IMBROGLIO AFGANO PERCHÉ È DIFFICILE USCIRNE ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: ma il ritiro delle truppe regalerebbe ai talebani un successo che avrebbe effetti disastrosi sulla stabilità dell'intera regione. Il quadro potrebbe forse migliorare se la Nato potesse contare sulla collaborazione, anche militare, della Russia e dell'Iran. Ma questo dipende da Obama e dalle iniziative che prenderà nei prossimi mesi».

Senza titolo. ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: passata dalle mine antiuomo alla produzione civile Comito è convinto che il percorso si possa invertire: che l'avanguardia tecnologica non siano i software da guerra-playstation, ma le energie rinnovabili. In fondo, è la strada di Obama: quella che gli pseudorealisti, contigui al Sordi di Finché c'è guerra c'è speranza, hanno subito tacciato di demagogia.

L'alter ego di Woody ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Mettiamo il caso che il presidente Obama proponga un piano bizzarro per 'restaurare' l'economia. Se questo suo progetto non fa del male ad alcuno e rasserena gli animi, whatever works. Ossia tutto ha la possibilità di funzionare, al di là di ogni diversità di opinione, speculazione o economico interesse.

Mike in mongolfiera per il debutto da Fiorello ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: sembri Obama! ». La gag, che segna l'ingresso ufficiale del decano dei presentatori a Sky, prosegue per qualche minuto nel Palatenda di piazzale Clodio, gremito di pubblico, dove si realizza lo show televisivo in onda stasera alle 21.15 su SkyUno. Battute a raffiche, anche di vento, finché Mike, provato dall'altitudine,

Un lichene di nome Obama ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Corriere della Sera sezione: Scienza data: 25/04/2009 - pag: 30 Un lichene di nome Obama Ricercatori dell'università californiana di Riverside hanno scoperto una nuova specie di lichene alla quale è stato dato il nome del presidente Barack Obama: si chiama infatti Caloplaca obamae

Avvio a Roma dei negoziati per il disarmo ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: incontro tra il presidente americano Barack Obama e quello russo Dimitri Medvedev, in agenda a luglio. I due responsabili hanno detto che l'obiettivo finale dei colloqui è preparare una bozza di accordo entro la fine dell'anno. Il trattato che stabilisce il numero massimo di testate consentite per Russia e Usa è lo Start e scade il 5 dicembre prossimo.

G8 all'Aquila disco verde dall'Europa ( da "Stampa, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Tokyo Obama aspetta l'ok dai servizi di sicurezza [FIRMA]EMANUELE NOVAZIO ROMA Dopo il governo britannico, anche quelli tedesco e giapponese dicono sì allo spostamento del G8 di luglio all'Aquila, mentre da Washington arriva la conferma che la disponibilità di principio della Casa Bianca non ha ancora ottenuto il via libera ufficiale dei servizi di sicurezza e dai responsabili dell'

Obama non parla di genocidio ( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: 17 In breve Armeni Obama non parla di genocidio WASHINGTON Migliaia di armeni hanno commemorato ieri a Erevan il milione e mezzo di vittime massacrate dall'impero ottomano tra il 1915 e il '17. A Washington Barack Obama ha ricordato il tragico evento senza usare il termine «genocidio», preferendo non interferire nel processo distensivo in corso tra Erevan e Ankara,

Finestra sull'America ( da "Stampaweb, La" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Obama di «farsi largo nel mondo parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia

L'instabile paese delle atomiche e la fine di un rapporto con gli Usa ( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini.

Nuova influenza, cresce l'allarme "Difficile evitare l'epidemia" ( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: arrivato sul tavolo di Barack Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella capitale, dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito le mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da manifestazioni eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non condividere cibo e bevande per il timore di un contagio,

Il mistero del Piccolo Buddha che oggi compie vent'anni ( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama.

Febbre suina, cresce l'allarme Oms: "La situazione è seria" ( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: arrivato sul tavolo di Barack Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella capitale, dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito le mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da manifestazioni eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non condividere cibo e bevande per il timore di un contagio,

Hillary Clinton a sorpresa a Bagdad "Siamo nella direzione giusta" ( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: diciotto giorni dopo quella compiuta dal presidente Barack Obama - Hillary Clinton ha voluto un contatto con la società civile irachena. E nella sede diplomatica Usa, dove da meno di 24 ore si è insediato il nuovo ambasciatore Christopher Hill, il segretario di Stato ha incontrato circa 150 persone per rispondere alle loro domande.

I VERI NEMICI SONO IN CASA ( da "Stampa, La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: Obama di «farsi largo nel mondo parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia

La Casa Bianca: pronti a tutte le eventualità ( da "Stampa, La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: amministrazione Obama «sta facendo tutto il possibile», anche per quanto riguarda la trattativa tra Fiat e Chrysler. Le trattative sono in una fase interlocutoria su tutti i fronti: l'atteso accordo con il Canadian Auto Workers, previsto per ieri mattina non è arrivato, mentre i negoziati con gli americani di United Auto Workers proseguiranno per tutto il weekend.

"Pensa solo allo share Così tradisce gli Usa" ( da "Stampa, La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: Obama rinuncia a riaffermare la Costituzione». Il punto però è che Obama ritiene l'esatto contrario, ovvero che richiamarsi a Abramo Lincoln significa evitare rese dei conti sanguinose con gli avversari oramai sconfitti... «Obama però è anche un avvocato e dovrebbe sapere che quando la Costituzione viene violata deve essere difesa,

"Un pragmatico vero Disinnescherà l'Iran" ( da "Stampa, La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: Il primo viaggio di Obama è stato in Europa ed ha sottolineato il ruolo chiave che assegna alla Nato. La partnership fra America e Europa resta prioritaria». Sul fronte economico che cosa è avvenuto? «Obama non vuole modificare il sistema economico americano ma sanare le lacune di quello finanziario ricorrendo all'intervento dello Stato.

Effetto Obama più scuola meno bombe ( da "Stampa, La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: prima pagina Effetto Obama più scuola meno bombe Il rischio più grande è quello di una rivolta nell'establishment di Washington La base elettorale è con lui, ma il problema arriva nelle battaglie politiche quotidiane Il disgelo inizia dagli yacht PRESIDENZA USA SOTTO ESAME Stile inconfondibile In giacca, con uno staff sempre online e il teleprompter a disposizione Il primo bilancio:

Una delle vittime incontrò Obama ( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Obama «Il presidente Obama sta bene e il suo viaggio in Messico non ha messo in alcun modo in pericolo la sua salute». Lo comunica la Casa Bianca per fugare qualsiasi dubbio sulla salute del presidente degli Stati Uniti che, lo scorso 16 aprile si era recato a Città del Messico per discutere della lotta al narcotraffico prima di raggiungere Trinidad e Tobago per il vertice delle

la febbre suina arriva a new york scatta l'allarme sanitario mondiale - elena dusi ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: virus incontenibile La Casa Bianca: "Il presidente Obama sta bene". Caso sospetto a Londra: malato uno steward ELENA DUSI Baci vietati. Scuole, teatri e locali pubblici chiusi a Città del Messico. Ospedali affollati per i controlli e mascherine per la bocca esaurite in farmacia. A distribuirle nei sotterranei della metro ci pensa ormai l´esercito.

- (segue dalla prima pagina) vittorio zucconi ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: dalla quale il Presidente Obama è stato costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in Messico. Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla borghesia middle class debordata da Manhattan, l´ultimo e il massimo melting pot, crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato «borough»,

la patria e il nuovo padre padrone - (segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate. * * * C´è un freschissimo esempio della «fantasia al potere» o meglio della «follia positiva» stando all´autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall´isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell´

brevi, schede e richiami 1. ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: provenienza e vita dei Rom in Italia seguito da aperitivo, mostre fotografiche e filmati. In via Valeriano 3/f con ingresso libero. storia americana Martedì alle 11 a Roma Tre (via Ostiense 159) conferenza di Alexander Bloom su "Barak Obama e la fine degli anni Sessanta". Introduce Cristina Giorcelli.

"segno" riflette sulla crisi culturale e su una chiesa possibile ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: la svolta verde di Barack Obama, la crisi politica e culturale del paese e della regione, sviluppata attraverso una tavola rotonda, il romanzo del Parto democratico, l´Onda studentesca di Palermo, tre articoli sulla buona morte e sulla laicità, la presenza di Dio fuori dalla chiesa e un appello per una chiesa solidale e compassionevole: un tema,

genocidio armeno scontro turchia-usa ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: il messaggio del presidente americano Obama, dedicato al massacro degli armeni del 1915. «Consideriamo inaccettabili alcune espressioni del messaggio e la percezione della storia che esso ha rispetto agli avvenimenti del 1915», si legge in un comunicato del ministero. Anche la comunità armena in Usa ha vivamente criticato il fatto che Obama non abbia usato la parola "

blitz della clinton a bagdad l'iran: "gli usa dietro i kamikaze" - alberto flores d'arcais ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: guidata da due giorni dal nuovo ambasciatore di Obama, Christopher Hill. «Non c´è nulla di più importante di un Iraq unito, lasciate dunque che vi ripeta ciò che ha detto il presidente Obama: noi siamo impegnati in Iraq, lo vogliamo stabile, sovrano e autosufficiente. Anche se la natura del nostro impegno può sembrare a volte differente, perché, come sapete,

najiba, tanya e le altre alla guerra delle donne - guido rampoldi ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: idea europea e adesso anche l´intenzione di Richard Holbrooke, l´inviato di Obama. Ma il tentativo di Holbrooke può riuscire soltanto se saranno risolte questioni confinarie che si trascinano dal Novecento (la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, non riconosciuta da Kabul, e l´assetto definitivo del Kashmir, conteso tra Islamabad e Delhi).

tagli per 400 milioni di dollari sì dei sindacati chrysler a fiat - salvatore tropea ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: attesa per Obama SALVATORE TROPEA TORINO - Disco verde dei sindacati e cambio di tavolo per Sergio Marchionne i cui interlocutori, dislocati questa volta tra Washington e New York, da oggi sono le banche. Dopo la firma dei sindacati canadesi della Caw per settimane fermi su una linea di intransigenza, ieri anche con i loro colleghi americani della Uaw è stato raggiunto un accordo.

belpaese - alessandra longo ( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Interni BELPAESE LA SUITE DI OBAMA ALESSANDRA LONGO La suite destinata a Obama è al secondo piano dell´albergo ricavato nell´ex arsenale. Manca ancora quasi tutto tranne la splendida vista che il presidente americano si perderà. Ecco: sulla sinistra, Caprera. Cade il segreto di Stato sui cantieri sardi del mancato G8 e «La Nuova Sardegna» partecipa al mesto tour del comprensorio:

IL CAVALIERE SENZA AVVERSARI ( da "Stampa, La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: dopo l'idea del G8 all'Aquila (riuscirà a portare Obama e gli altri leader del mondo tra i sinistrati), adesso anche una ricorrenza storicamente di sinistra, un appuntamento che nel '94 segnò l'inizio della fine del suo breve governo, il primo con dentro ministri ex fascisti, adesso anche questa è diventata berlusconiana.

Per il supervertice Silvio sceglie già la camera a Obama ( da "Stampa, La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: anche al G8 Per il supervertice Silvio sceglie già la camera a Obama Il Cavaliere avrebbe già deciso quale camera affidare alla Merkel e Sarkozy L'operazione punta a trasformare la ricostruzione in un grande evento Il complesso che è stato individuato è quello delle Fiamme Gialle a Coppito Si arriva in elicottero E soprattutto c'è posto per cinquemila persone ONNA (L'AQUILA) Obama?

Scricchiola la tesi "due popoli due Stati" ( da "Stampa, La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: Obama. Laureato al Mit, studente ad Harvard, a lungo residente a Boston nonché già viceambasciatore a Washington e capo della missione all'Onu, Netanyahu è il politico israeliano che meglio conosce gli Stati Uniti e la scelta di far precedere l'incontro nello Studio Ovale da una pioggia di dettagli su cosa ha in mente ripete la tattica di comunicazione che la Casa Bianca adopera

"Basta con le utopie Obama accetti il realismo di Bibi" ( da "Stampa, La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: È il piano alternativo di cui il premier israeliano Netanyahu parlerà al presidente americano Obama nei prossimi giorni? «Potrebbe essere. Non so cosa progetti Netanyahu, a volte sembra sostenere la soluzione due stati, altre volte privilegia la pace economica rispetto a quella politica. Dipenderà da Obama e il suo approccio è decisamente molto pragmatico.

"Bin Laden? È come Bush: ha fallito" ( da "Stampa, La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: E come vede lei l'apertura di Obama verso l'Iran? «Non può fare diversamente perché questa è la situazione che gli ha lasciato in eredità il suo predecessore Bush: l'impantanamento americano in Iraq ha rinforzato l'Iran che ha una possibilità di ricatto politico e militare molto forte sul ritiro delle forze americane dall'Iraq».

Percfest 2009, Elio e gli altri big ( da "Stampa, La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti: Obama

Abstract: elezione del presidente Barack Obama. Sono solo due delle numerose chicche contenute nel programma del «Percfest 2009», la festa europea delle percussioni che si terrà a Laigueglia dal 23 al 28 giugno. La ricca sei giorni dedicata alla musica percussiva internazionale è stata presentata ieri pomeriggio, in piazza Marconi, durante il concerto «Travel Notes»


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aspettando l'annuncio di obama - torino (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 1 - Prima Pagina Il retroscena Aspettando l´annuncio di Obama TORINO Uno scontro tra Italia e Germania, sul futuro della Opel e sul risiko delle alleanze mondiali dell´auto. Il vertice dell´Unione Europea, a sorpresa, si è diviso sulla prospettiva che la Fiat, dopo Chrysler, si possa annettere anche la casa tedesca. SEGUE A PAGINA 3

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chrysler, verso il sì dei sindacati ora braccio di ferro con le banche - (segue dalla prima pagina) salvatore tropea (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 3 - Economia Il Lingotto tiene separati i due dossier. Giù del 46% il debito di Detroit Chrysler, verso il sì dei sindacati ora braccio di ferro con le banche Mercoledì annuncio di Obama, ma Gm entra nella partita Testo per misurare lo spazio equivalen equivalente di 001 righe cartella. Testo per misurare lo spa (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) SALVATORE TROPEA Una incauta presa di posizione contro questa operazione del commissario all´Industria di Bruxelles, Guenter Verheugen, scatena le reazioni italiane sui fronti della politica, degli imprenditori e, naturalmente, della Fiat. Dunque, quella che fino a qualche giorno fa sembrava una partita tra Torino e Detroit ha assunto improvvisamente le caratteristiche di un confronto tra Bruxelles e Washington sulla "rivoluzione" destinata a ridisegnare la mappa dell´industria mondiale dell´automobile. Al centro la Fiat con Chrysler e Gm, intorno tutti gli altri a guardare non proprio in maniera disinteressata. Quando ormai si deve dare per superato lo scoglio dei sindacati canadesi e americani e la situazione sembra essersi sbloccata, e con l´attenzione concentrata sullo scontro tra il Tesoro Usa e le banche creditrici, pronte a tagliare le loro pretese del 46%, l´irruzione sulla scena del negoziato tra Fiat e Chrysler di un altro protagonista chiamato General Motors sembra destinato a rimescolare le carte. «Prima chiudiamo il capitolo Chrysler» continua a ripetere il Lingotto, ma ormai appare chiaro che la grande partita mondiale dell´automobile si giocherà a tre: la posta in gioco è la nascita di un colosso da oltre 7 milioni di vetture all´anno, secondo solo alla Toyota. Ma la strada è cosparsa di ostacoli soprattutto se i torinesi non riusciranno, come dicono di voler fare, a tenere distinti i due dossier. E non è escluso che a dirimere la questione debba essere alla fine la Casa Bianca. Barack Obama ha fatto sapere che il 29 aprile farà un annuncio alla nazione. Negli Stati Uniti, dove ieri è tornato Sergio Marchionne, in molti sono convinti che la questione Chrysler possa essere uno dei suoi argomenti, tanto più che a quel punto mancheranno poche ore allo scadere del termine fissato per chiudere positivamente il negoziato. Il Lingotto nega che sia stato sinora formalizzata una sua proposta sulla Opel. Il che non vuol dire disinteresse. Ma i tempi sarebbero comunque più lunghi. In gioco ci sono la Opel e la Vauxhall anche se risulterà difficile staccarle dalla casa madre. «Come provare a separare un uovo da una omelette» ha commentato un dirigente. Ma l´operazione Opel seguirà all´accordo con Chrysler o incrocerà con questo al punto da condizionarlo e farsi condizionare? Il Wall Street Journal continua a rilanciare l´ipotesi della bancarotta pilotata. Secondo il quotidiano newyorkese il ricorso al Chapter 11 e il conseguente spacchettamento di Chrysler consentirebbe a Fiat di «scegliersi le parti più redditizie e appetitose della casa automobilistica». A Torino però non ne vogliono sentir parlare e insistono col dire che l´unico ostacolo sono i sindacati e le banche dopodiché l´intesa si può raggiungere nei termini fissati all´origine, per dire nella versione «benedetta» dal giudizio favorevole di Obama. Dopo il round di trattative di ieri tra Washington, Detroit e Toronto, il confronto con i sindacati, sia americani che canadesi, avrebbe trovato o starebbe per trovare uno sbocco positivo. I rappresentanti della Caw e della Uaw avrebbero ridimensionato le loro pretese in materia salariale accettando di ridurre sensibilmente il gap del costo orario tra i lavoratori Chrysler e i loro colleghi delle fabbriche giapponesi in America (la richiesta era di un taglio di 19 dollari). Ma sulla strada dell´accordo finale restano ancora le banche che insistono per il fallimento e lo "spezzatino", anche se nel mondo globale dell´auto soldi per acquistare eventuali asset non ce ne sono. La "rituale" triangolazione tra istituti di credito, governo americano e Fiat, sarà il passaggio della prossima settimana. «Ed è evidente che l´interesse dei primi è quello di tirare lungo per accomunare il caso Chrysler a quello Gm» commenta una fonte vicina al negoziato di Washington.

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michelle più popolare del marito piace al 79% degli americani (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 13 - Esteri Michelle più popolare del marito piace al 79% degli americani WASHINGTON - Dopo i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca Michelle Obama gode di una popolarità superiore a quella pur alta del marito. Mentre le ultime rilevazioni hanno dato il presidente Barack Obama un 65% di gradimento, un sondaggio del quotidiano nazionale Usa Today e della Gallup ha rilevato che il tasso di popolarità di Michelle Obama è pari al 79%. Si tratta del gradimento più alto mai registrato da una First Lady nei suoi primi cento giorni, ad esclusione del dato raggiunto da Laura Bush, che nei primi cento giorni del suo secondo mandato come First Lady registrò nel 2005 un gradimento dell´85%.

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l'armenia ricorda il genocidio istanbul: "sì alla riconciliazione" (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 13 - Esteri L´Armenia ricorda il genocidio Istanbul: "Sì alla riconciliazione" ISTANBUL - L´Armenia ricorda il massacro subito, Barack Obama non pronuncia la parola «genocidio», e la Turchia si prepara ad aprire il confine fra Ankara e Erevan. E´ una vittoria della diplomazia quella che presto si potrà festeggiare nella turbolenta area del Caucaso. Il ghiaccio fra Armenia e Turchia è rotto. La capitale armena ieri si è fermata, ricordando le centinaia di migliaia di vittime dei massacri perpetrati dall´Impero ottomano a partire dal 24 aprile 1915. Erevan e Ankara hanno dichiarato l´intenzione di tracciare una «road map» per la riconciliazione. Tempo poche settimane, il confine sopra la città di Kars sarà riaperto. E il 7 ottobre le due Nazionali di calcio disputeranno a Istanbul una partita per le qualificazioni per i prossimi Mondiali.

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la politica accorciata - (segue dalla prima pagina) (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 33 - Commenti LA POLITICA ACCORCIATA (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Anche il suo riflesso mediatico, che è non meno penetrante e reale; lo spettacolo che mette in scena ogni giorno di sé, il modo in cui si propone e viene percepito attraverso i mille racconti che frantumano e poi di continuo ricompongono la nostra vita quotidiana. è questo, credo, il grande tema del momento, su cui bisogna fermarsi a ragionare. In ogni emergenza, infatti – che si tratti di economia o di terremoto, e tanto più se di tutt´e due insieme – l´immagine della politica tende inevitabilmente a trasformarsi. Lo stato d´eccezione – e la storica fragilità dell´Italia ne moltiplica a dismisura le occasioni – spinge in maniera inesorabile a richiedere e a costruire una rappresentazione "contratta" e semplificata del potere, e a soddisfarsene come l´unica adeguata alla concitazione e all´incalzare delle circostanze. Fra la ferita e la terapia non sembra siano necessarie mediazioni. C´è bisogno di presa diretta. Una politica "accorciata" al massimo (c´è chi dice "verticalizzata", ma dubito che sia la parola giusta), e anche una politica "vicina" e "veloce", che non si nasconde nelle nebbie dell´indistinto. Se la situazione precipita, il leader che può tirarcene fuori deve essere identificabile, certo, presente: e forte e immediato il suo rapporto con le masse in pericolo. Definirei questa condizione come l´inevitabile "deriva populista" che accompagna sempre, in ogni democrazia, e tanto più se condizionata dai media, una stagione di difficoltà e di paure. è qualcosa di simile a una "legge tendenziale", cui non si può sfuggire. Vi sono però almeno due modi, fondamentalmente diversi, di comportarsi di fronte a questa specie di obbligato slittamento, a questa metamorfosi che fa ormai parte in qualche modo della nostra fisiologia democratica. Il primo è quello che, per così dire, tende a rendere "istituzionale" la spinta populista, ad assumerne acriticamente i contenuti emotivi di volta in volta più incalzanti e meno elaborati, a prolungarne e a dilatarne indefinitamente gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, e a farne l´unico centro di una strategia politica che non sa e non vuole vedere altro. Esso mira unicamente a stabilire e ad alimentare un rapporto fideistico fra il leader e il "suo" popolo, e a comprimere e marginalizzare tutto il resto – altre forme di rappresentanza, divisione dei poteri, contrappesi decisionali – come un inutile impaccio. L´emergenza – crisi economica, terremoto, gestione dei rifiuti a Napoli – è solo il pretesto per cementare ed esibire questo legame di salvezza, dove i ruoli sono assolutamente predeterminati: da una parte un popolo bisognoso e immobile, spettatore passivo e indistinto di una "grazia" che arriva dall´alto, sotto forma di tempestività, lungimiranza, risorse; e dall´altro un "capo" che sceglie e decide per tutti, al più coadiuvato da un ristretto manipolo di tecnici e di esperti. è un modo di stressare, per così dire, la democrazia, schiacciandola su una sola delle sue componenti, per quanto essenziale: la ricerca e la verifica del consenso, il transfert di sovranità alla base dell´investitura a governare. è lo stile di Berlusconi: per esempio, quando dice della tempesta economica che bisogna solo aspettare che passi, e al resto pensa lui, con pochi provvedimenti d´urgenza, perché non c´è altro da fare; o quando gira fra le popolazioni del terremoto e assicura che sarà lui stesso il garante della ricostruzione. Sono la politica e la democrazia ridotte alla loro forma più elementare e impoverita: al solo corto circuito carismatico. Ma vi è un diverso modo di reagire alla deriva di cui stiamo parlando. Ed è la risposta che definirei della "frontiera democratica". Essa non nega, ma accetta di fare i conti con la spinta populista; non rifiuta, ma valorizza la componente carismatica nella ricerca del consenso al tempo della crisi; e però utilizza entrambe non come fini a se stesse, per la pura conservazione del potere, bensì come mezzi per la realizzazione di un disegno più ampio, per trasformare cioè, in una parola, il consenso in egemonia. A suo tempo, ne fu capace De Gaulle, ed è anche la ragione per cui la sua eredità riuscì a incrociare, al momento opportuno, il cammino di Mitterrand. E soprattutto, questa seconda risposta riequilibra onda populista e personalizzazione carismatica attraverso una continua richiesta di partecipazione collettiva, di presenza democratica "dal basso"; innesta nel circuito del consenso messaggi nuovi, e mette al centro della propria strategia non la conservazione in quanto tale del potere, ma un´idea complessiva di autoriforma della società, come unica via per superare davvero l´emergenza e lo stato d´eccezione. Usa il consenso per cercare di costruire un´egemonia intellettuale e morale. è lo stile di Obama (se gli andrà bene, come tutti speriamo). In questo senso, credo che al nostro centrosinistra farebbe bene un po´ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie – forse non tutte "politicamente corrette", ma questo è il vero e ineludibile nodo della questione – di quella parte di popolo già "liquefatta" dalla trasformazione postindustriale, e ora dalla crisi, con cui ha purtroppo smesso da un pezzo di intendersi. Ma prima di cercare un nostro Obama, occorrerà porsi il problema di una generale riattivazione politica e democratica del corpo sociale del Paese, di ridargli insomma un´anima "popolare" condivisa, e nello stesso tempo orientata verso nuovi orizzonti, dettati dalla ragione, e non solo dalle pulsioni emotive: più conoscenza, più saperi, più proporzione fra profitti e lavoro. E insieme più coesione, più merito, più eguaglianza, più senso critico. Ne saremo capaci?

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"faccio brutta new york per una storia d'amore che non dà felicità" - antonio monda new york (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 46 - Spettacoli La politica La morale Allen ha presentato al Tribeca Festival il nuovo cupo film "Whatever works" che racconta il rapporto e le nozze fra una giovane e un uomo settantenne "Faccio brutta New York per una storia d´amore che non dà felicità" Non la metto nei film, la tengo nella mia sfera privata e penso che Obama abbia le carte per passare alla storia come grande presidente La filosofia del protagonista è che la vita è una esperienza tragica, l´unico sollievo è ciò che funziona nel singolo momento ANTONIO MONDA NEW YORK Dopo quattro film girati in Europa, Woody Allen torna ad ambientarne uno a New York intitolato Whatever works, che ha inaugurato il Tribeca Film Festival e uscirà in Italia per Medusa. La storia ricorda Manhattan, ma la città non è celebrata in bianco e nero con le musiche di George Gershwin. Qui è immortalata con colori decadenti, ambienti poveri e personaggi amareggiati e allo sbando ma, come sempre, Allen propone temi alti trattati con leggerezza e genialità: si discute dell´esistenza di Dio, della ricerca angosciata della felicità, e della fragilità delle relazioni sentimentali. Tuttavia sembra prevalere una concezione disperata dell´esistenza, e i motivi per cui vale la pena vivere non sono, come in Manhattan, Mozart, Monet o il viso di una bella ragazza, ma "whatever works", ciò che funziona e dà un po´ di sollievo. La storia ha per protagonista uno scienziato pieno di amarezza e rancore (è andato a un passo dal vincere il Nobel e sembra una perfida parodia di Philip Roth, con il quale Allen non ha buoni rapporti), il quale, dopo il primo di due tentativi di suicidio accoglie in casa una ragazza estremamente ignorante con la quale finisce per sposarsi. «In molti mi hanno chiesto cosa possa trovare una bella ragazza come Evan Rachel Wood in uomo come quello interpretato da Larry David» racconta Allen, camicia gialla e bicchiere d´acqua minerale in mano «a me interessava raccontare l´imprevedibilità dei sentimenti e l´attrazione degli opposti. Non è prima volta che vedo giovani innamorarsi di persone molto più anziane». Cosa c´è di autobiografico nel film? «Meno di quanto si possa pensare: l´aspetto principale è la filosofia cupa del protagonista. La vita è un´esperienza tragica, e l´unico momento di sollievo sta nel saper apprezzare quello che funziona in uno specifico momento e non arreca male a nessun altro». I suoi film sono sempre più pessimisti. «Credo che l´esistenza non abbia senso: non sappiamo perché siamo al mondo, e persino la nostra nascita è legata al caso. Le possibilità che s´incontrino l´uovo e lo spermatozoo che lo feconda sono infinitesimali e il caso è determinante in ogni aspetto della vita. Non esiste alcun Dio ed è difficile resistere all´idea di vedere tutto come un incubo terribile. A coloro che vedono nel finale del film un segno di ottimismo rispondo parlando di accettazione, disincanto e un tentativo di sopravvivere rispetto alle notti in cui si è sopraffatti dall´orrore. Si tratta comunque di un passo avanti rispetto ai tentativi di suicidio del protagonista». Dostoevskj ha scritto che se Dio non esiste tutto è permesso. Lei crede in una legge morale superiore? «Non esiste un decalogo, e ritengo solo che si possa trovare un´intesa riguardo ad atti evidentemente criminali come uccidere o rubare. Ogni persona compie scelte morali, ma non c´è nulla al di sopra di noi». La New York del film è molto diversa dal passato. «Non ha nulla a che vedere con la città: è come la vede il protagonista, che ha abbandonato la moglie, la professione e una casa elegante per vivere in un desolato appartamento a Chinatown. Tuttavia credo che anche quella zona di New York abbia una bellezza non convenzionale». Come mai non ha interpretato il film? «Ho preferito affidare la parte a Larry David perché è uno di quegli attori che riesci ad amare anche quando interpretano personaggi bruschi e amari. Io avrei portato nel film un elemento comico, che avrebbe stonato con la storia». è vero che non rivede i suoi film? «Mai, e quando capitano in televisione cambio immediatamente canale. Non ne sono mai soddisfatto: ogni volta penso di realizzare "Quarto Potere" o "Ladri di Biciclette" ma poi faccio solo un altro film di Woody Allen. Già sul set mi accorgo degli errori, e col tempo ho imparato molti trucchi, ma non sono diventato più saggio. L´unico del quale l´ultimo giorno di riprese mi sono sentito soddisfatto è stato "Match Point", ma questo non significa che sia il mio miglior film». Nei suoi film la politica appare solo come parodia. «Tengo la politica nella mia sfera privata, ma ho le mie idee: sono convinto ad esempio che Obama abbia tutte le carte per passare alla storia come un grande presidente. Ha già dimostrato coraggio e ora deve solo sperare che i più responsabili tra gli avversari dimostrino spirito di collaborazione e che quelli della sua parte non siano vigliacchi e mostrino il suo stesso coraggio».

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la gran torino tra obama e berlusconi (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina I - Torino La gran torino tra obama e berlusconi Sulla crisi dell´industria dell´automobile, Barack Obama non ha esitato a mettere in campo una task force per cercare una soluzione in grado di garantire i posti dei lavoratori americani interessati. Si vedrà a giorni con quali prospettive per il futuro della Chrysler e della Gm - perché è di queste che si parla - ma è certo che lo ha fatto, scendendo in campo personalmente e schierandosi decisamente a favore della soluzione che, almeno per quanto riguarda la più piccola delle tre sorelle americane dell´auto, passa per un´alleanza con la Fiat. La cancelliera Angela Merkel non è stata da meno. SEGUE A PAGINA XI

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la gran torino tra obama e berlusconi (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina XIII - Torino La gran torino tra obama e berlusconi (segue dalla prima di cronaca) Non appena la caduta delle vendite di auto ha cominciato a toccare da vicino la Germania, ha messo in atto una serie di misure per attenuarne gli effetti su quello che è da sempre il primo mercato europeo del settore. Quanto a Nikolas Sarkozy, com´era prevedibile, ha scelto la via francese della grandeur, accompagnando ai normali incentivi un piano da 6 miliardi di euro a favore di Peugeot e Renault. In Italia il rinnovo delle misure di sostegno scadute a fine dicembre è entrato in vigore soltanto a metà febbraio, con una forte penalizzazione per le aziende attive, direttamente o indirettamente, nel settore dell´auto che ha prodotto un ricorso alla cassa integrazione senza precedenti. Ma il punto non è questo. Oggi siamo in presenza di una grande manovra al termine della quale il panorama mondiale dell´industria dell´automobile risulterà verosimilmente ridisegnato. è in corso da settimane un negoziato finalizzato a un´alleanza tra Fiat e Chrysler e non è da escludere che esso possa avere un seguito col coinvolgimento in questo accordo anche dell´ex numero uno mondiale dell´auto, ovvero la Gm, le cui condizioni di salute industriali e finanziarie non sono migliori. Questa vasta azione di assestamento allarma i sindacati i quali temono che essa possa comportare tagli di fabbriche e posti di lavoro: dall´Italia al Canada e dalla Germania agli Stati Uniti. Di qui la richiesta, partita non a caso da Torino, di un tavolo di discussione al quale, oltre alla Fiat e ai sindacati, partecipi il governo. Anzi l´idea era che fosse il governo a costringere la Fiat ad accettare questa proposta per valutare gli effetti dell´accordo tra Detroit e Torino. «Sacconi faccia come Donat Cattin e porti la Fiat al tavolo del governo», si era augurato qualche giorno fa il segretario della Fiom torinese, Giorgio Airaudo, con riferimento a un episodio degli anni ruggenti dello scontro tra Fiat e sindacati italiani. Con apprezzabile realismo i sindacati non hanno mai provato a bocciare l´operazione con Chrysler ma non hanno smesso di chiedersi quale potrà essere la ricaduta sulla Gran Torino chiamata a salvare una major di Detroit. Che cosa potrà cambiare a Mirafiori e dintorni dopo un´alleanza a due o a tre con la nascita di un colosso mondiale Fiat-Chrysler-Gm da oltre 7 milioni di vetture all´anno? Una domanda legittima alla quale, appena due giorni fa, dopo il cda del Lingotto e prima di ripartire per l´America, Marchionne, che non sottovaluta l´importanza di un buon rapporto col sindacato, si è detto «disposto a un tavolo a tre col governo». è questo un passo avanti importante per il sindacato, non solo torinese, se non fosse che ora si tratta di convincere il governo ad andare al tavolo con Fiat e non viceversa. Con quali risultati? Per il momento, tra il G8 all´Aquila e le scadenze elettorali, Berlusconi non sembra essere particolarmente interessato alla partita dell´auto. A una domanda dei giornalisti sul negoziato Fiat-Chrysler martedì scorso ha risposto testualmente: «Non so quante chance può avere l´operazione perché non la conosco nei dettagli ma ho fatto i miei auguri più convinti affinché questa operazione possa andare in porto e dia alla Fiat una grande spinta e la possibilità di contare anche nel mondo internazionale e sul mercato americano». Gli auguri, proprio così, come se si trattasse del lancio di una vettura o di un compleanno. Obama, Sarkozy e la signora Merkel stanno facendo qualcosa di più.

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troppo facile gridare negro a un ragazzino di 18 anni (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina XVII - Milano Troppo facile gridare negro a un ragazzino di 18 anni Solo a scriverla quella parola mi suona male, figuriamoci a sentirla cantare per 90 minuti in uno stadio alla partita dei rancori (forse secondo gli juventini è colpa nostra se hanno avuto un Moggi dietro le quinte). Solo nei giorni successivi di Juve-Inter ho capito che cosa cantavano allo stadio a Mario Balotelli, fiero di essere italiano come io da tempo ormai non sono. Definire l´insulto che si è levato per quei 90 minuti coro razzista è abbastanza riduttivo. Ma non voglio polemizzare sul fatto che Mario venga definito un provocatore, che il pubblico della Juve sia stato punito con un provvedimento esemplare come nessuno o quant´altro. Io voglio sapere perché l´opinione pubblica, il popolo, la gente comune non si indigna. Perché, maledizione? Dove sono finite le personcine che firmavano in ogni dove petizioni contro l´uscita (infelice e inopportuna) del nostro Premier nei confronti di un Obama lampadato? Dove? Forse perché difendere un ragazzo di diciotto anni, che aspira ad onorare la maglia della nazionale, è meno clamoroso che attaccare un politico? Due pesi e due misure intitolava Tuttosport, commentando la chiusura per razzismo dello stadio di Torino. è vero, due pesi due misure. Mario non è Silvio e agli italiani non frega niente del razzismo. Ipocriti. Caro Piero, avevo bisogno di scriverle. Farlo ha allontanato in parte la rabbia. Non l´amarezza. Forza Mario! Sabine Anche per questa ragione il centrosinistra ha perso, perde e perderà sempre le elezioni, se non cambia marcia. Tra i grandi temi che dividono il fascismo dalla democrazia c´è il razzismo. Dunque, dice lei, come mai si sbraita da sinistra per le battute di Berlusconi contro Obama e non si ascoltano nemmeno i cori di migliaia di persone contro Supermario? Le do una risposta agghiacciante, ma vera: questa sinistra che tenta di fare opposizione non combatte (in senso lato) per la democrazia, ma soprattutto per le cadreghe (le sedie). Non difende i lavoratori e chi paga le tasse sullo stipendio fisso, ma sta pappa e ciccia con gli industriali e infatti i quartieri popolari del Nord hanno votato Lega. In questa Italia sempre più frastagliata, è facile gridare "negro": e mentre tutti i riflettori si puntano sul leader, nel buio nascono i mostri e a sinistra i bravi politici manco se n´accorgono. Lei ha allontanato la sua rabbia, a me è venuta, proprio oggi che è il 25 Aprile.

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i taliban alle porte di islamabad l'esercito pronto allo scontro - francesca caferri (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 10 - Esteri I Taliban alle porte di Islamabad l´esercito pronto allo scontro Gli integralisti non si fermano, fuga dalla capitale pachistana Usa preoccupati "Gli estremisti potrebbero impadronirsi del Paese" FRANCESCA CAFERRI I Taliban pachistani controllano ormai una delle principali vie d´accesso a Islamabad, capitale del Pakistan. I militanti hanno accettato ieri di fermare la loro avanzata verso la città che aveva segnato nei giorni scorsi un punto fondamentale con la conquista della valle di Buner, avamposto strategico a soli 100 chilometri dalla capitale. Sotto pressione dell´esercito hanno scelto di ritirare i combattenti dalle strade principali dell´area: ma ciò non significa, constatano giornalisti locali, che non restino in controllo. «Possono tornare in qualunque momento», sintetizza un esperto. La notizia della giornata di ieri è comunque che, dopo giorni di avanzata, i Taliban hanno accettato di ritirarsi, almeno formalmente. Lo stop è arrivato dopo che l´esercito ha reso chiaro che, se l´offensiva non si fosse fermata, sarebbe intervenuto «entro 48 ore». «Non permetteremo ai militanti di dettare condizioni al governo o di imporre il loro stile di vita alla società», ha detto il responsabile delle forze armate pachistane, generale Ashafaq Kayani, richiamando i Taliban al rispetto dell´accordo siglato il 16 febbraio con il governo. Il patto prevede l´adozione sharia in sette province della North West frontier, ma specifica che l´influenza Taliban deve rimanere confinata a determinate aree. Proprio il tentativo di allargarsi verso altre zone ha determinato le reazione delle forze armate. Lo stop di ieri ha allontanato la possibilità di un confronto immediato fra esercito e militanti, ma molti temono che lo scontro sia solo rimandato. «Possono tornare quando vogliono. Chi ha i soldi scappa all´estero. O almeno manda via le figlie femmine. Molte persone portano via ricchezze e oggetti d´arte. Chi non può lasciare il paese almeno si allontana dai grandi centri urbani. Tutti si aspettano un´offensiva a breve», spiega un abitante di Islamabad raggiunto al telefono. Un timore forte anche a Washington: dopo Hillary Clinton – che due giorni fa ha aveva accusato il governo del Pakistan di «abdicare» di fronte agli estremisti - ieri sia il generale che guida le forze Usa in Asia e Medio Oriente, David Petraeus, che l´ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati Maggiori statunitensi, hanno espresso preoccupazione. «Gli estremisti stanno minacciando l´esistenza stessa del Pakistan» ha spiegato Petraeus in un´audizione al Congresso, mentre Mullen si è detto «estremamente preoccupato»: «Ci stiamo avvicinando al punto critico in cui potrebbero impadronirsi del paese». Alle parole gli americani non possono far seguire fatti: la linea dura adottata dall´amministrazione Obama verso il Pakistan – l´inviato speciale del presidente, Richard Holbrooke, ha ribadito pochi giorni fa che gli aiuti da ora in avanti saranno subordinati a risultati nella lotta ai Taliban – ha esacerbato l´opinione pubblica e reso ancora più debole il governo del premier Yusuf Raza Gilani e del presidente Asif Ali Zardari. «I Taliban stanno sfruttando la debolezza dell´esecutivo – spiega Zahid Hussein, uno dei massimi analisti pachistani – possono anche scegliere di non arrivare a Islamabad: in fondo non gli serve, hanno già appoggi importanti in città. Ma stanno diventando più forti di settimana in settimana. Il braccio di ferro non finisce oggi».

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genocidio, istanbul "sì alla riconciliazione" (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 11 - Esteri Armenia Genocidio, Istanbul "Sì alla riconciliazione" EREVAN - Migliaia di armeni hanno commemorato il milione e mezzo di vittime del massacro perpetrato dall´impero ottomano tra il 1915 e il 1917, di cui l´Armenia chiede il riconoscimento come genocidio. Intanto Barack Obama ha ricordato il tragico evento ma senza usare il termine «genocidio». La ricorrenza è caduta pochi giorni dopo la storica intesa con la Turchia su una «roadmap» per la normalizzazione dei rapporti e l´Armenia non ha voluto alzare i toni.

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l'instabile paese delle atomiche e la fine di un rapporto con gli usa - guido rampoldi (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 11 - Esteri Ossessionati dalla rivalità con l´India e in crisi con gli Usa i pachistani tentati dalla neutralità con i terroristi L´instabile paese delle atomiche e la fine di un rapporto con gli Usa Era la Terra promessa della Riforma islamica, poi è stato infettato dai fondamentalisti GUIDO RAMPOLDI In vari pensatoi da qualche tempo si discute se il Pakistan arriverà alla fine del 2009; o se invece collasserà prima, implodendo in un´anarchia generalizzata nella quale vagoleranno Taliban, milizie tribali e una dozzina di bombe atomiche pronte per l´uso. Fauste o infauste, le prognosi convengono su questo: l´Occidente dispone ancora di strumenti per tentare di arrestare il marasma pachistano prima che diventi irreversibile. Il problema è che nella prassi politica e militare il poderoso consesso delle democrazie somiglia ad uno quegli eserciti persiani che la falange macedone sbaragliava a ripetizione durante la sua marcia verso l´Indo, poiché la confusione di lingue e stili di combattimento li conduceva a fallire le manovre più elementari. E comunque il salvataggio del Pakistan non è certo un´operazione facile. Nei suoi turbolenti sessant´anni il Paese ha visto alternarsi indecorose dittature militari e non molto più decorosi governi civili. Un tempo era la Terra promessa della sempre attesa Riforma islamica, poi è stato infettato da un ultra-fondamentalismo d´importazione che oggi conta per una piccola quota dell´elettorato, meno del 5%, ma rappresenta la quasi totalità delle milizie, vale a dire decine di migliaia di armati. La sua fazione "rivoluzionaria", i Taliban, ormai è saldamente attestata in vasti territori al confine con l´Afghanistan, e li usa come trampolini per successive avanzate. In marzo le sgangherate milizie di tale Fazlallah, più noto come "Mullah radio" per le sue concioni radiofoniche, si sono presi lo Swat, una regione a ridosso della frontiera afgana, dove hanno sostituito lo stato di diritto con la giustizia delle corti islamiche. In cambio di una vaga promessa di non belligeranza, il governo centrale ha ratificato questo atto di aperta sovversione. Galvanizzati, all´inizio di questa settimana quei Taliban sono calati nella valle di Buner, un centinaio di chilometri della capitale, e ammazzati alcuni poliziotti, hanno ordinato alle donne di chiudersi in casa, alle scuole di serrare i portoni. Soltanto un nuovo negoziato con Islamabad, e presumibilmente nuove concessioni, ieri hanno indotto quei guerrieri a tornare nelle loro montagne. Sbigottiti da questi eventi, nelle ultime ore gli occidentali hanno scoperto che se in Afghanistan non va bene, in Pakistan va molto peggio. E´ a rischio «l´esistenza stessa del Pakistan», ha avvertito il generale Petraeus. La Clinton, Berlino, Londra, la preoccupazione è unanime. E al Pentagono, questo possiamo darlo per scontato, hanno tirato fuori dai cassetti i piani per tentare di impossessarsi delle atomiche pachistane qualora tutto precipiti. A questo coro angosciato manca la voce di chi dovrebbe difendere le istituzioni nell´ora più grave, le Forze armate pachistane. Se si esclude una dichiarazione vaga e ufficiosa attribuita al capo di stato maggiore, i generali tacciono. E il loro silenzio è misterioso quanto la loro inazione. Proviamo a ripercorrere la sequenza che conduce alla "talibanizzazione" dello Swat. Quel "mullah Radio" che pare in grado di minacciare uno Stato di 165 milioni di abitanti, non è un Garibaldi islamico, ma un noto pasticcione. E i suoi miliziani non sono molti più dei cinque o seicento che nei giorni scorsi hanno "conquistato" la valle di Buner. Perché l´esercito, forte di cinquecentomila uomini, ha lasciato fare? E perché proprio adesso, mentre il presidente pachistano si prepara a partire per Washington? Ecco le domande che l´Occidente dovrebbe porsi. Il vertice militare pachistano non inclina al fondamentalismo, ma come ormai è evidente, non combatte la nostra stessa guerra. La sua priorità è contrastare l´India, tanto più che quella sta rafforzando notevolmente le sue posizioni in Afghanistan, in buona collaborazione con gli americani. Per una cultura militare ossessionata dalla geopolitica, avere gli indiani sia a est che a ovest rappresenta una minaccia esistenziale. Percezione sovreccitata, ma favorita dall´attivismo del servizio segreto indiano in Afghanistan e dai toni bellicosi usati da leader della destra indù nella campagna elettorale in corso. Questo lo sfondo. Ma più immediato, e forse decisivo, è il rapporto sempre più problematico con gli Stati Uniti. Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini. Fino a ieri lo stato maggiore ingoiava, in cambio di copiosi aiuti militari. Ora anche gli aiuti si sono diradati, mentre a Islamabad si consolida il sospetto che ormai Washington dia retta alla diplomazia indiana, quando ripete: il Pakistan è finito. Non è così. Ma se l´esercito scegliesse una "neutralità" suicida, e se gli occidentali non riuscissero a farlo ricredere, quella potrebbe diventare l´ennesima profezia che si autoinvera, e per il solito motivo: l´inettitudine degli attori.

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il compleanno tibetano che pechino non vuole - (segue dalla copertina) dal nostro corrispondente (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 36 - Esteri Il compleanno tibetano che Pechino non vuole C´è quello vero, designato dal Dalai Lama. E quello falso, costola del Partito comunista. Il primo, sparito nel nulla quattordici anni fa, oggi ne compie venti Il governo cinese lascia intendere che sia morto Ma il popolo delle nevi non gli crede. E lo festeggia Il regime fa filtrare notizie sulla sua morte. E sempre più spesso mostra la propria creatura Ad un simposio buddista il giovane burattino ha detto: "Vedete, in Cina c´è libertà religiosa" (SEGUE DALLA COPERTINA) DAL NOSTRO CORRISPONDENTE federico rampini Alla vigilia di questo compleanno proibito, i cinesi non si sono limitati a diffondere insinuazioni sulla morte del loro giovane prigioniero. Pechino ha deciso di esibire in due eventi ufficiali il suo "gemello comunista": il Panchen del regime. Quasi coetaneo dell´altro (ha 19 anni), etnicamente tibetano anche lui ma figlio di due membri del partito comunista, questo si chiama Gyaincain Norbu. Nel 1995, non appena catturato il vero Panchen, la controfigura venne investita solennemente dal governo. Secondo le autorità cinesi è lui l´undicesima reincarnazione del "grande studioso" della setta Gelugpa. Il Panchen filo-cinese non è mai stato accettato dai suoi connazionali, che gli negano ogni legittimità. Senza la benedizione del Dalai, per i fedeli è un impostore. Perciò anche lui ha finito per trascorrere infanzia e adolescenza come un detenuto. Per paura che i tibetani potessero influenzarlo le autorità lo hanno allevato a Pechino, in un convento politically correct, sotto il controllo del partito. I maestri di dottrina gli insegnavano il patriottismo (cinese), la fedeltà al governo, il mandarino e l´inglese: utili per farne un futuro portavoce urbi et orbi. Per anni le sue apparizioni in pubblico sono state rare e protette da una scorta. In una di quelle occasioni, paracadutato per poche ore nel 2005 nel monastero di Tashilhunpo a Shigatse (storicamente la sede del Panchen) il povero burattino dei cinesi rimase impaurito dal disprezzo dei religiosi. Nelle foto ufficiali ha la faccia di un bambinone cresciuto, goffo e timido, vittima di un gioco troppo grande per lui. Un mese fa le cose sono cambiate. Il Panchen-di-Pechino è stato lanciato sul palcoscenico a marzo per una celebrazione importante. Ricorreva il 50esimo anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama, un giorno di lutto per il suo popolo. Nella stessa data quest´anno il governo ha istituito una nuova festa nazionale: la Giornata dell´Emancipazione dei Servi del Tibet. Un´occasione per celebrare la "liberazione" dalla teocrazia feudale dei lama, grazie al provvidenziale intervento dell´Esercito Popolare di Liberazione sotto la guida di Mao. Il 28 marzo il Panchen comunista è apparso in una cerimonia di Stato a Lhasa. Il giovane era visibilmente agitato, ma ha detto quello che si aspettavano da lui: «Voglio ringraziare sinceramente il partito comunista per avermi aperto gli occhi, così so riconoscere il bene dal male». Poi una stoccata diretta a colui che dovrebbe esserne il padre spirituale. «Sono io stesso discendente di schiavi - ha detto Gyaincain Norbu - e ho imparato a distinguere chi ama il popolo tibetano, da quelle persone senza scrupoli che per motivi di ambizione minacciano la pace». Jia Qinglin, membro del Politburo, ha reso esplicita l´accusa: «Il Dalai ignora i veri desideri del popolo. Vuole la secessione per restaurare l´antico regime feudale». In un crescendo di visibilità, il Panchen comunista è riapparso al recente Forum Mondiale del Buddismo, organizzato in pompa magna dalle autorità cinesi. Un evento ecumenico: aperto nella città di Wuxi, provincia del Jiangsu, si è concluso a Taipei capitale dell´"isola ribelle" di Taiwan. Dopo il confucianesimo anche il buddismo viene recuperato dai leader cinesi. Purché sia una religione di Stato, il presidente Hu Jintao è convinto che serva a proiettare un´immagine rassicurante della Cina, a rafforzare il suo soft power in Asia. E il giovane Gyaincain Norbu ha fatto il suo dovere. Ai delegati mondiali del simposio buddista ha dichiarato: «Questo evento dimostra che in Cina regna la libertà religiosa». Ha partecipato alle sedute ristrette di alcuni seminari di studio: perfino un incontro con celebri imprenditori sul tema "Filosofia e Business". I magnati industriali che lo hanno incontrato dicono che i suoi interventi sono stati "fonte d´ispirazione". Le foto dell´agenzia Nuova Cina lo ritraggono, occhialuto e intimidito, mentre porge una sciarpa bianca in omaggio al presidente del Congresso del Popolo, Wu Bangguo. L´alto gerarca lo ha incoraggiato a «lavorare alacremente per l´unità del popolo cinese». Zhan Ru, direttore dell´Istituto di studi orientali all´università di Pechino, era anche lui a quel congresso: «E´ stato un incoraggiamento per tutti. Eravamo onorati di avere con noi un Budda vivente». Lo sforzo per osannare il povero burattino è corale. Tradisce il nervosismo di Pechino per il ventesimo compleanno del vero Panchen Lama. La tensione è affiorata ai massimi livelli. Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama. Già ci è riuscito con Nicolas Sarkozy, costretto a farsi "perdonare" la visita del Dalai all´Eliseo. Il Sudafrica ha preferito far saltare un summit dei premi Nobel pur di non concedere il visto al leader tibetano in esilio. Dietro la durezza cinese spunta la partita cruciale: la successione del 73enne capo spirituale. Pechino ha già annunciato che alla sua morte spetterà al potere politico la scelta del prossimo "reincarnato": come all´epoca della dinastia imperiale dei Qing, secondo le ricostruzioni degli storici revisionisti di regime. Pur di evitare questa sopraffazione il Dalai Lama ha accennato a una contromossa: cambiare le regole e procedere a un´elezione democratica del suo successore. Chissà se il suo discepolo ventenne, ovunque si trovi, può intuire la battaglia furibonda che si prepara. Se è vivo oggi passa anche questo compleanno nella solitudine che ormai è il suo destino. Lontano dal Tibet, lontano dai suoi e dal mondo, forse condannato a essere invisibile fino a quando morirà davvero.

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- leonardo coen mosca (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 39 - Esteri LEONARDO COEN MOSCA dal nostro corrispondente «Qualche giorno fa i militanti nashisti putiniani mi hanno gettato in faccia del sale ammoniacale. Una notte la polizia ha sequestrato 125mila volantini elettorali. I cekisti, tramite i loro complici in America, mi hanno spedito un bonifico di 10mila dollari, per screditarmi. Non passa giorno che non ci sia una provocazione per ostacolare la mia campagna elettorale. Mi sono candidato per il posto di sindaco di Soci, la città dei futuri Giochi Olimpici Invernali del 2014, di cui Putin è il grande patron. Ma tutte le tv, le radio e i giornali di Soci si rifiutano di darmi spazio. Domani si vota ma nonostante il boicottaggio contro di me è ormai chiaro che i due favoriti di questa gara elettorale sono due: Anatolij Pakhomov, l´uomo di Putin, e il sottoscritto». Se c´è un politico, in Russia, che non si rassegna alle violenze e ai soprusi, ai brogli elettorali, alla corruzione che divora il paese, questo si chiama Boris Nemtsov. è uno dei leader dell´opposizione liberale. Ha 50 anni. è stato, ai tempi di Eltsin, primo vicepremier. Poi, è arrivato Putin. Nemtsov ha dovuto far fagotto. Oggi è tornato in piazza (la sua storia politica è raccontata nel libro Confessioni di un ribelle edito da Spirali). La sfida di Soci è impari, perché cuore di interessi colossali e investimenti faraonici. Russia Unita, il partito della maggioranza assoluta e di Putin, vuole infatti gestire tutta la torta olimpica. Punta su Pakhomov, il sindaco uscente. In lizza sono in nove. «Soci è diventata territorio di arbitrii e abusivismi - ci racconta - Arrivano da fuori per arraffare tutto quello che il potere locale e regionale gli concede di fare. La gente s´è stufata. Vogliono un sindaco pulito, che non rubi. Che denunci le sopraffazioni, le prepotenze. Pakhomov, il mio avversario, e tutti gli altri funzionari di regime si rifiutano di partecipare ai nostri dibattiti: quattro volte gliel´ho chiesto e quattro volte ha risposto di no. Intimidiscono le persone che organizzano i nostri comizi, minacciandoli di licenziamento e verifiche fiscali». Per forza: Nemtsov da anni denuncia il malaffare. Documenta gli enormi debiti delle aziende di Stato, attacca l´autoritarismo di Putin, critica pesantemente la politica economica e finanziaria del Cremlino. «Io do fastidio. Smaschero i veri "giochi dei Giochi". Dico che rubano terreni e proprietà. Rivelo e cerco di impedire gli sfratti prepotenti che si stanno perpetrando nella valle Imeretinskaja. Lo faccio perché oltre un certo limite ti viene voglia di recuperare il senso della dignità e di smettere d´aver paura». Un ruolo donchisciottesco, quello di Nemtsov. Ma lui spera di avere un alleato, alla lunga. «In Russia oggi comanda Putin mentre Medvedev cerca di comandare. Ho però una pallida speranza. Che Medvedev si trasformi da presidente delfino in quello vero. Io sono pronto ad aiutarlo. è chiaro che il gruppo che è al potere è molto sfacciato, cinico, corrotto e quanto prima si riuscirà ad allontanarlo dal potere tanto meglio sarà per la Russia». Potrebbe Obama influire in questo processo politico? «Finché il regime in Russia rimarrà antidemocratico, corrotto ed autoritario, ci saranno delle profonde discordie ideologiche fra Obama e le autorità russe. La democrazia gli ha permesso di diventare presidente. Mentre la gente che governa il nostro paese odia la democrazia, calpesta la Costituzione e le leggi. Quest´odio nei confronti della democrazia, la paura nei confronti del nostro popolo crea un abisso enorme tra Obama e l´attuale regime russo. Solo se la Russia riprenderà la strada della democrazia potranno migliorare i rapporti con l´Occidente».

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exploit di michelle obama è più popolare di barack (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 20 - Economia Exploit di Michelle Obama è più popolare di Barack Dopo 100 giorni alla Casa Bianca Michelle Obama batte in popolarità il marito. Il presidente è al 65% di gradimento. La first lady al 79%

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"sbagliato alzare le tasse ai ricchi così si torna alla lotta di classe" - luisa grion (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 15 - Interni Esempio americano Criminalizzati "Sbagliato alzare le tasse ai ricchi così si torna alla lotta di classe" Colaninno: nel Pd abbienti ed operai devono avere pari dignità Un grande partito deve accogliere storie e redditi diversi, come negli Usa dove molti manager si sono schierati con Obama E´ giusto che chi ha di più dia di più, ma non si deve criminalizzare chi ha la fortuna di avere redditi alti e paga tutte le tasse LUISA GRION ROMA - Chi più ha, più deve dare: sul principio in sé, Matteo Colaninno - deputato Pd che fu ministro ombra allo Sviluppo economico con Veltroni - è del tutto d´accordo. Ma detto questo, attenti a non criminalizzare «chi ha la fortuna di avere un reddito alto, ma paga tutte le tasse». Attenti a pensare che «nel Pd un abbiente che fa il suo dovere non possa avere la stessa dignità e considerazione di un operaio». Questa avverte, sarebbe «un´aberrazione ottica che tradirebbe la natura stessa del partito e scatenerebbe una pericolosa contrapposizione di classe». Parte dell´elettorato non potrebbe accettarla quindi, precisa, sull´introduzione di una tassazione extra per le fasce alte bisogna essere «molto cauti». L´idea, a dire il vero, è proprio del suo partito che pensa di aumentare l´aliquota massima dal 43 al 45 per cento - per un anno - a chi supera i 120 mila euro. Non è d´accordo? «Il mio reddito va oltre quel tetto e, sia chiaro, troverei giusto pagare. Ma ad una condizione: un´iniziativa del genere si può fare solo se va di pari passo con una seria e potente lotta all´evasione fiscale. In assenza di ciò pagherebbero i soliti "leali" e questo non va bene. Per i redditi alti la fiscalità complessiva già sfiora il 50 per cento: è tanto, chi la rispetta deve essere a sua volta rispettato». Ma il momento di crisi come quello attuale, non è giusto chiedere uno sforzo in più? «Dare di più mi sta bene, mi sono impegnato nel Pd perché credo che la lotta alla diseguaglianza debba essere la priorità, la linea guida del partito. Ma il Pd non è solo questo. Siamo in una fase delicata: c´è la campagna elettorale, ci sarà il congresso. Va chiarito che la strada per raggiungere l´obiettivo - ovvero la difesa dei deboli - non è la contrapposizione fra classi. Il principio di appartenenza e di cittadinanza si dimostra partecipando correttamente alla fiscalità. Chi lo fa, al di là del reddito, sia imprenditore o operaio, deve avere pari dignità e ascolto. Un grande partito riformista deve puntare a questo, deve accogliere redditi e storie diverse: si può, ce lo dimostra il fatto che negli Usa, molti dei manager in testa alle classifiche di Forbes si sono schierati con Obama». Ma perché gli altri paesi, dalla Gran Bretagna agli Usa, hanno applicato - o pensano di farlo - una tassazione extra per i ricchi e da noi l´idea resta un tabù? «Perché in quei paesi l´evasione fiscale è più bassa. O magari perché è più diffusa l´idea che pagare le tasse sia una cosa non dico bella - come direbbe Padoa-Schioppa, ma per lo meno giusta. Un fondamento della democrazia». La Cgil, che ancor prima del Pd ha lanciato l´idea di una tassa per i ricchi, ricorda che ognuno dei cento top manager guadagna, da solo, quanto cento operai o impiegati. Le sembra equilibrato? «Di questi tempi la sobrietà è un obbligo, ma quei cento top manager, se pagano tutte le tasse, non vanno criminalizzati. Se lo Stato innalzerà la loro aliquota dovranno adeguarsi, certo. E sono anche d´accordo che per le società dove il governo è intervenuto con sostegni ad hoc, come i Tremonti bonds, vi debba essere un controllo su quanto guadagnano i vertici. Mi chiedo però una cosa: perché nessuno si scandalizzano quando alcuni sportivi o attori guadagnano, quattro volte tanto quel top manager che magari è responsabile di 50 mila dipendenti?». Lei ritiene che in Italia ci sia un livello tale di contrapposizione sociale che possa portare a rapimenti di manager come è successo in Francia? «Non mi pare, per fortuna, che il clima sia questo. Quelle azioni, comunque, vanno condannate». Pensa che la sinistra radicale lo abbia fatto a sufficienza o che ritiene che abbia lasciato spazi al ritorno di una lotta di classe? «Non giudico l´operato della sinistra radicale, anche perché il Pd è cosa diversa. Al di là delle preoccupazioni di Bertinotti, che in campagna elettorale dichiarava che fra me e Boccuzzi, il dipendente Thyssan eletto nel Pd, ci doveva per forza essere qualcuno di troppo. Non è così, noi due ci siamo sempre capiti, quelle contrapposizioni non ci appartengono».

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jolie e chávez, se i testimonial involontari fanno vendere (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 45 - Cultura Dopo Galeano, una foto casuale dell´attrice lancia un altro libro Jolie e ChÁvez, se i testimonial involontari fanno vendere Anche se involontario il testimonial famoso funziona sempre. Adesso pure con i libri. L´ultima a fare casualmente pubblicità è stata Angelina Jolie. E´ successo ieri mattina, a New York, sul set del film "Salt", che racconta la storia di Edwina A. Salt, agente della Cia. La Jolie ha approfittato di una pausa delle riprese per uscire dagli studi; sotto il braccio aveva una copia del saggio di Richard Haass War of necessity, War of choice: a memoir of two Iraq wars (Simon and Schuster). Non il copione e nemmeno un romanzo, ma un´analisi del duplice intervento Usa in Iraq. I blog di tutto il mondo si sono scatenati, prevedendo un immediato incremento delle vendite, ma anche rilanciando l´interrogativo: «Come fa con 6 figli a leggere un libro così impegnativo?». Probabilmente Angiolina voleva "ripassare" il pensiero di Haass, presidente del Council on Foreign Relations, organismo di cui anche l´attrice fa parte. E a proposito di testimonial casuali, è di pochi giorni fa l´immagine del presidente venezuelano Hugo ChÁvez che regala a Barack Obama una copia di Le vene aperte dell´America Latina di Eduardo Galeano, durante il summit delle Americhe. Il libro è passato in 24 ore dal 734esimo posto al secondo nella classifica dei più venduti su Amazon. E se la versione inglese ha scalato la graduatoria ancora meglio è andata all´edizione spagnola che è balzata dalla 47.468esima alla 283esima posizione. Anche in Italia c´è stato l´effetto Chavez-Obama: la Sperling & Kupfer, editore de Le vene, lunedì lo ha ristampato, per le richieste dei librai. Chavez non è alla sua prima promozione: tre anni fa mostrò all´Assemblea generale dell´Onu l´opera di Noam Chomsky Egemonia o sopravvivenza. Dopo poche ore era in vetta alle classifiche del mercato online.

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La Casa Bianca: lavoriamo per intesa su Chrysler (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 25/04/2009 - pag: 2 Da Washington La Casa Bianca: lavoriamo per intesa su Chrysler Il ricorso al Chapter 11 da parte di Chrysler non è stata decisa in via definitiva. L'amministrazione di Obama ha fatto sapere che sta esaminando «tutte le eventualità». «Il presidente, la sua task force sul settore auto e tutti gli azionisti lavorano 24 ore al giorno per arrivare a un accordo che protegga i posti di lavoro di Chrysler» ha detto il portavoce Robert Gibbs. Accordo per l'auto La Casa Bianca

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E con i test l'America scopre che le banche tengono (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 25/04/2009 - pag: 5 Gli esami sui patrimoni E con i test l'America scopre che le banche tengono MILANO Pare sia andata meglio del previsto: la gran parte delle banche statunitensi dispone di fondi propri superiori ai livelli di sicurezza. E tuttavia per «alcuni» dei 19 istituti sui quali la Fed ha effettuato i cosiddetti stress test le riserve sono risultate drasticamente ridotte, almeno secondo le prime indicazioni emerse in attesa dei dati definitivi previsti il 4 maggio. Per le banche che escono meglio delle attese dalle simulazioni effettuate per valutarne non tanto il rischio di insolvenza quanto la capacità di continuare a erogare credito in contesti peggiori del previsto, vale comunque la raccomandazione della Fed di conservare un un'eccedenza di capitale per due anni. Si stima che gli accantonamenti-cuscinetto possano essere complessivamente di 900 miliardi. Ci sono istituti in condizioni di salute «molto, molto buone» ha confermato il capo di gabinetto della Casa Bianca Rahm Emanuel precisando che i risultati definitivi mostreranno «una diversa gradazione» tra le banche. Nessun nome è trapelato, ma secondo il «New York Post» la prima vittima illustre dei test potrebbe essere Vikram Pandit, capo di Citigroup. Il suo allontanamento, ha argomentato il quotidiano, dimostrerebbe che il governo è inflessibile con le banche come lo è stato con le case automobilistiche. Il riferimento è alle dimissioni di Rick Wagoner (Gm) pretese dal presidente Obama il mese scorso. La Fed preso in considerazione due diversi scenari di crisi. Il primo con una contrazione del Pil del 2% e un tasso di disoccupazione all'8,4% nel 2009, seguito da una crescita del 2,1% e un tasso di disoccupazione dell'8,8% nel 2010. Il secondo, più pesante, con una contrazione del Pil del 3,3% e un tasso di disoccupazione all'8,9% nel 2009, seguito da una crescita dello 0,5% e un tasso di disoccupazione del 10,3% nel 2010. Paola Pica Finanza Usa Il segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner

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La risposta degli Usa: superveloci (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Focus data: 25/04/2009 - pag: 13 Il piano Obama lancia la sfida del binario ad auto e aerei La risposta degli Usa: «corridoi» superveloci WASHINGTON Nel 2000, un altro anno di crisi a Wall street, presentando a Bush il progetto «Positive train control» per la loro integrazione e modernizzazione, la Lockheed Martin definì le ferrovie americane «un gigante addormentato» il cui risveglio avrebbe favorito il rilancio dell'economia. Bush non fece nulla. Ma nove anni dopo, il suo successore, Obama, ha destato il gigante con l'annuncio che lo stato investirà 13 miliardi di dollari in treni ad alta velocità, una novità quasi assoluta per l'America, 8 miliardi subito, gli altri 5 in un quinquennio. «Occorre un sistema di trasporti intelligente adatto ai bisogni del XXI secolo», ha detto Obama in una velata critica alla passione incontrollata degli americani per l'auto e per l'aereo. «Ci dobbiamo mettere al passo con l'Asia e con l'Europa, molto più avanti di noi in questo campo. I treni sono il mezzo di trasporto forse più efficiente, non intasano il traffico e non inquinano l'ambiente». Il risveglio del gigante addormentato fa parte del piano di rivoluzione energetica di Obama, che vuole ridurre la dipendenza dell'America dal petrolio straniero e passare a poco a poco dalle auto a benzina a quelle elettriche (ne ha ordinate a Detroit 2.500 per il governo). E' anche deciso a creare migliaia di posti di lavoro e ad attrarre massicci investimenti privati nelle ferrovie. I fondi per i treni ad alta velocità, «che io invidio all'Europa», dichiarò Obama all'inizio del mese in un discorso agli studenti europei a Strasburgo, arriveranno dai 787 miliardi da lui stanziati per la ripresa dell'economia. Obama ha già tracciato dieci corridoi di mille chilometri di lunghezza in media, dove i treni correranno a oltre 250 km orari. A partire dal 2012 salvo intoppi i tre più importanti collegheranno San Francisco a San Diego in California, la New England alla Florida sulla costa E st, e varie parti del Mid west. Come Lincoln, che oltre un secolo e mezzo fa ampliò la rete ferroviaria per unificare l'America e accrescerne la produttività, Obama, che lo ha citato a più riprese, punta su di essa «per cambiare il modo in cui noi viaggiamo per lavoro o facciamo turismo, e per risparmiare energia, tempo e denaro». I modelli saranno la Francia e la Spagna in Europa, e la Cina e il Giappone in Asia. Secondo la Casa bianca, la scelta del presidente non inciderà sulla sua decisione di salvare l'industria dell'auto americana. Semplicemente, come per i treni così per le auto, ha spiegato un portavoce, Obama desidera che «rendano migliore la vita dei nostri figli». Per i critici di Obama, i colossi del petrolio in primo luogo, che vedono intaccato il loro monopolio, è un passo indietro. In realtà, è un importante passo avanti, e Wall Street lo ha confermato: in borsa, le azioni delle ferrovie sono tra le poche che salgono. Per esse, inoltre, l'accesso alle alte tecnologie era questione di vita o di morte. Gli Stati Uniti hanno 240 mila km di binari su cui passano ogni anno quasi 2 miliardi e mezzo di tonnellate di merci. Le società che le gestiscono sono 650, di cui molte hanno necessità di rinnovarsi. E il settore passeggeri, che è in mano all'Amtrak acronimo di American track rischiava di diventare la Cenerentola dei trasporti. Nel 2008, sui treni americani hanno viaggiato meno di 35 milioni di persone, contro i 600 milioni delle linee aeree: lo 0,6 per cento dei viaggiatori, tenuto conto anche di quelli sulle auto. L'economista Robert Reich, un ex ministro del governo Clinton, sostiene che l'avvento dei treni ad alta velocità «segnerà il rinascimento delle ferrovie ». L'Amtrak, il cui nome intero è National railroad passengers corporation, e ha una rete di 35 mila km, con quasi 500 destinazioni in 46 dei 50 stati, prevede un vero boom. Nel 2008 ha registrato il consueto deficit, 2 miliardi e mezzo di dollari di incassi contro quasi 3 miliardi e mezzo di spese, e si è salvata con il consueto sussidio dello Stato. Ma è sicura che i supertreni entreranno a far parte del sogno americano e attireranno i visitatori stranieri. Reich è d'accordo: «Non ci sarà modo migliore di vedere l'America in tutto il suo splendore ». Ennio Caretto

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Marina, torturata a Evin: (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Esteri data: 25/04/2009 - pag: 15 «Prigioniera a Teheran» L'iraniana Nemat, fuggita in Canada, racconta la sua terribile esperienza in un libro proibito in patria Marina, torturata a Evin: «Non restiamo in silenzio» Marina Nemat aveva 16 anni quando fu arrestata, trascinata in cella, torturata come «sovversiva comunista» per qualche protesta in classe e un paio di articoli sul giornalino del liceo. Era il 1982, a Teheran. E il lugubre carcere dove rimarrà due anni era Evin, che oggi rinchiude la reporter iranoamericana Roxana Saberi e molti altri «dissidenti». Marina riuscirà a evitare la morte: già davanti al plotone d'esecuzione fu salvata da una Guardia della rivoluzione che l'amava, le impose di convertirsi all'Islam (lei era ed è cristiana), la sposò. Poi la fuga in Canada, un nuovo marito (il suo primo amore), due figli. E nel 2007 un libro: Prigioniera di Teheran (Cairo Edizioni), proibito in Iran, tradotto in 23 lingue, che presto diventerà un film. Del caso Saberi si sta parlando molto in Occidente. Ma dei prigionieri politici iraniani si sa poco in realtà. Come mai? «Roxana, a cui sono vicina, è un caso speciale: ha doppia nazionalità, è parte del gioco politico tra Iran e Usa, verrà usata, credo, come 'merce di scambio'. Per questo staranno ben attenti a non torturarla né ucciderla. Hanno gli occhi del mondo su loro. Ma in Iran ci sono da decenni migliaia di detenuti innocenti, giovanissimi, ragazze, ignorati da tutti in Occidente. Solo negli anni 80 i prigionieri politici erano 40-50 mila. E il 90% di loro erano adolescenti, come me». Eppure anche lei ha aspettato quasi 20 anni per parlare, nemmeno suo marito sapeva tutto. Perché? «È quasi impossibile uscire da simili traumi e parlarne subito. È successo alle vittime delle torture in Cile e in Argentina, quasi tutte restate in silenzio anche con l'arrivo della democrazia. Dopo quei traumi si vive in una bolla, si diventa come un maratoneta condannato a correre fino alla morte o a cadere. Io sono caduta. Dopo la morte di mia madre, nel 2000, ho capito che lei non aveva mai saputo chi fossi io davvero. Nessuno mi conosceva. Ho iniziato ad avere incubi, flashback, perfino episodi psicotici. Ho capito che il silenzio mi avrebbe ucciso. Mi ero sbagliata sperando di poter rimuovere Evin: era dentro di me. Dovevo farlo uscire». Cos'è il carcere di Evin per lei e gli iraniani? «L'orrore in cui entri e sparisci. L'incubo assoluto. Un tabù nazionale. Se qualcuno sopravvive e ne esce non ne parla: per paura di tornarci, di rappresaglie sui propri cari, perché è 'nella bolla'. Evin è parte del sistema dai tempi dello Scià, che lo costruì. Non è cambiato nemmeno con il moderato Khatami: la reporter iranocanadese Zahra Kazemi fu uccisa a Evin sotto la sua presidenza. Ora con Ahmadinejad è peggio. Da poco è morto in cella il blogger Omid Mir Sayafi, uno dei tanti». Qualcosa sta cambiando però: le aperture di Obama a Teheran, le prossime presidenziali in Iran. Siamo a una svolta? «Obama porta una nuova speranza, dopo i disastri di Bush. E credo che in giugno il candidato moderato Mir-Hossein Mousavi abbia buone chance, la gente ma anche i khomeinisti sono stanchi di Ahmadinejad. Ma perché le cose cambino davvero ci vuole la caduta del regime, per ora impossibile. La Storia ci ha insegnato che né l'islamismo né il marxismo portano alla democrazia. E sarebbe ingenuo illuderci ». Che fare, allora? Shirin Ebadi ritiene che sanzioni o, peggio, una guerra sarebbero un disastro per tutti. «Concordo in pieno. Piuttosto, l'Occidente dovrebbe alzare la voce contro ogni violazione dei diritti umani, non solo di cittadini con doppia nazionalità. E aiutare la nascita di un'opposizione non ideologica, una vera alternativa. In quanto a me, non posso tornare in Iran, ho subito minacce, ma resto in contatto con il mio Paese. Sto preparando un secondo libro, insegno. E cerco altri ex prigionieri di Evin per convincerli a parlare. Ma è difficile. Quasi tutti scelgono di restare nella loro bolla, in silenzio ». Cecilia Zecchinelli «Sovversive » L'autrice Marina Nemat (foto grande) e la reporter Roxana Saberi (qui accanto) tuttora detenuta a Evin, Teheran (sopra, una cella femminile) \\ Roxana Saberi verrà usata come merce di scambio tra gli ayatollah e la Casa Bianca

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Virus dai maiali all'uomo Messico, decine di morti (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Cronache data: 25/04/2009 - pag: 24 Sanità Contagi anche negli Usa. L'Oms: rischio di pandemia Virus dai maiali all'uomo Messico, decine di morti Il sottosegretario Fazio: da noi nessun rischio WASHINGTON Sessantuno morti, quasi mille persone infettate, scuole e locali pubblici chiusi nel Messico centrale. E otto casi segnalati negli Stati Uniti. Le autorità sanitarie internazionali sono in allerta per un nuovo ceppo virale H1N1 dell'influenza suina. Una possibile emergenza che è finita anche sulla scrivania di Barack Obama: «Il presidente è stato informato e segue la situazione », hanno comunicato i portavoce. Nessuno ha intenzione di spandere il panico ma da Atlanta, il Cdc, il centro specializzato nel seguire questo tipo di fenomeni, ha avvertito: «Forse è troppo tardi per impedire l'epidemia». Tutto è iniziato con una segnalazione dal Canada. Un turista rientrato da una vacanza in Messico ha presentato i classici sintomi influenzali. Febbre forte, malessere. Successivi test hanno mostrato che si trattava dell'influenza suina. I medici hanno allora avvertito i loro colleghi messicani che hanno riscontrato similitudini con decine di casi. E il fenomeno è cresciuto. Nel giro di pochi giorni il numero delle persone colpite nel Paese centro-americano è salito: quasi mille casi, 15 morti sicuramente provocati dal virus ed altri 46 decessi sospetti. Quindi le segnalazioni di 8 malati in alcuni stati americani confinanti: la California e il Texas. Davanti all'estendersi del contagio le autorità hanno varato contromisure nelle zone centrali del Messico, capitale compresa. Ieri è stata decisa la chiusura immediata di scuole, teatri, librerie lasciando milioni di bambini e di adulti a casa. A sorpresa, a conferma della situazione delicata, il presidente Felipe Calderon ha rinviato un'importante visita nella città di frontiera di Ciudad Juarez. Un viaggio che doveva riaffermare la presenza dello Stato in una località dilaniata dagli scontri tra i narcos e l'esercito. Per gli esperti questo tipo di virus è una novità. Per una serie di ragioni: La prima: raramente si trasmette da umano ad umano ed invece qui è avvenuto. La seconda: sembra essere una sintesi di fattori infettivi, in quanto le analisi dimostrano che racchiude elementi dell'influenza aviaria e di quella suina. «L'influenza messicana ha spiegato il professor Pietro Crovari dell'Università di Genova è una situazione che merita attenzione perché potrebbe essere il punto di partenza di una nuova pandemia. Trattandosi di un ceppo nuovo non abbiamo difese immunologiche». Particolare la storia del virus. Il primo H1N1 ha ricordato l'immunologo è stato isolato nel 1933, quindi nel 1956, infine è scomparso fino al 1977 quando è riapparso, forse per un campione «sfuggito», tra Cina e Russia. Tuttavia, ha aggiunto Crovari, non sembra essere particolarmente virulento. I casi negli Stati Uniti, come quello in Canada, si sono risolti senza gravi conseguenze. Al Cdc di Atlanta i dirigenti non hanno nascosto la loro inquietudine in quanto sostengono di non aver ricevuto ancora «informazioni complete». Mobilitata anche l'Organizzazione mondiale della Sanità che potrebbe convocare un vertice nelle prossime ore. In Italia, ha precisato il sottosegretario alla Sanità Ferruccio Fazio, siamo al livello di allerta 3, un gradino sotto la soglia d'allarme. «Non ci sono rischi, la situazione è sotto controllo», ma si sta valutando l'opportunità di effettuare controlli alle frontiere. Guido Olimpio Controlli La gente in fila per sottoporsi ai controlli davanti al General Hospital di Città del Messico (Ap)

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G8 sull'ambiente, solo una Carta sulla biodiversità (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Cronache data: 25/04/2009 - pag: 28 Siracusa Il ministro Prestigiacomo: non si potevano prendere decisioni. Il Brasile: dal petrolio i fondi per il clima G8 sull'ambiente, solo una Carta sulla biodiversità DAL NOSTRO INVIATO SIRACUSA Bisogna premetterlo: il G8 sull'ambiente di Siracusa «non ha assunto decisioni perché non poteva prendere decisioni», come ha spiegato Stefania Prestigiacomo, nostro ministro e padrona di casa in senso letterale, visto che il summit che è finito ieri si è tenuto nel bel castello recuperato della sua città. Ma bisogna essere chiari: dal G8 non è venuta fuori nemmeno mezza proposta concreta. Molti buoni propositi, dichiarazioni d'intenti. E un fiore all'occhiello: la Carta di Siracusa sulla biodiversità, un punto di riferimento per le nuove e comuni strategie dopo il 2010. Ma sui disastri climatici? L'inquinamento? Le emissioni della Co2? Gli investimenti per le nuove tecnologie ecologiche? Due giorni e mezzo di dibattito, di cui solo il primo aperto ai cronisti, sono riusciti a produrre soltanto un riassunto delle difficoltà che i grandi della terra e i Paesi emergenti dovranno affrontare in proposito. Da qui a dicembre per la riunione dell'Onu di Copenaghen, passando per il nostro G8 dei capi di governo di luglio. Non era facile mettersi d'accordo. Anche perché l'entusiasmo per l'arrivo al summit di Lisa Jackson, l'inviata di Barak Obama responsabile dell'agenzia di protezione ambientale, si è subito smorzato dietro ai suoi «non posso parlare ». Soltanto qualche parola di apprezzamento per il tema (dagli Stati Uniti proposto) sul problema della tutela della salute dei bambini. Del resto lunedì a Washington proprio Obama ha convocato il Mef (Major economies forum) ed è verosimile che è da quel palco che gli Stati Uniti scopriranno finalmente le carte sulla strategia della nuova politica ambientale statunitense. Non era facile conquistare l'entusiasmo dei Paesi emergenti. Anche perché sono stati loro i primi a mugugnare contro le tante parole prive di contenuti dei grandi della terra. Per capire: rispetto alle cifre messe in conto da ogni Paese per i cosiddetti pacchetti anti-crisi, l'Europa ha destinato all'ambiente l'8% contro il 38% della Cina e il 18% del Brasile. Già, il Brasile. I mugugni più sonori sono arrivati proprio da Carlos Minc, ministro brasiliano per lo sviluppo, sottolineando gli sforzi del Paese che sta lavorando ad un obiettivo alquanto ambizioso: la riduzione del 70% della deforestazione in Amazonia entro il 2017. «Questo vuol dire una riduzione di emissione di Co2 di 4,5 miliardi di tonnellate», ha spiegato Minc prima di aggiungere una provocazione: «Noi il prossimo agosto in Brasile approveremo una legge che prevede che il 10% dei profitti del mercato del petrolio vengano destinati a favore del fondo sul clima. Contiamo di recuperare così almeno 800 milioni di dollari l'anno. Perché non fanno questo anche i paesi del G8?». Ma i Paesi del G8 a Siracusa non hanno parlato di cifre. Né di percentuali. Hanno messo nero su bianco che ci sono cinque nodi da sciogliere: «E questo è un risultato molto importante», ha commentato il ministro Prestigiacomo. Ma a leggerli di seguito sembrerebbero matasse, più che nodi visto che si tratta di stabilire i target a medio e a lungo termine, la compatibilità degli sforzi tra i Paesi, i finanziamenti, la governance per la gestione degli investimenti. Alessandra Arachi

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L'IMBROGLIO AFGANO PERCHÉ È DIFFICILE USCIRNE (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Lettere al Corriere data: 25/04/2009 - pag: 45 Risponde Sergio Romano L'IMBROGLIO AFGANO PERCHÉ È DIFFICILE USCIRNE Continuo a chiedermi perché in Italia nessun politico della maggioranza abbia il coraggio di prendere posizione, interpretando l'opinione prevalente degli italiani che evidentemente conta come il due di picche, contro la permanenza in Afghanistan del nostro contingente militare: sembra un argomento tabù. Finora in quelle contrade le forze dello schieramento occidentale hanno conseguito risultati nulli per la inconsistenza di Karzai, per le incontrollabili intromissioni del vicino Pakistan, per la natura intrinseca della composizione della società afgana che si regge sulla molteplicità tribale. E i propositi di distruggere l'influenza dei talebani e di contrastare la spinta dell'Islam sul piano sociale sono oggettivamente illusori. Perché allora non ammetterlo e dare, ritirando le nostre truppe a costo di provocare un temporaneo gelo nei rapporti con gli Usa, un segnale di realismo politico? Non le pare pusillanimità? Antonio Benazzo abenazzo@hotmail.com Caro Benazzo, P rovo a immaginare come il ministro degli Esteri risponderebbe alla sua lettera se fosse libero di esprimersi liberamente. «La situazione afgana è pessima. Il presidente Karzai controlla tutt'al più la capitale e tollera, per restare al potere, un regime clientelare che arricchisce una piccola oligarchia e nuoce alla sua credibilità. La legge sul 'debito coniugale' (come veniva eufemisticamente chiamato il diritto d'imporre alla moglie il proprio piacere) è un regalo alla comunità sciita ed è soltanto un esempio dei compromessi a cui Karzai deve piegarsi per restare in sella. I talebani, intanto, controllano una buona parte del territorio, si finanziano con il commercio della droga e hanno costituito di fatto una sorta di Stato che comprende le province orientali dell'Afghanistan e quelle occidentali del Pakistan. È questo il tragico paradosso della guerra americana: otto anni dopo l'invasione i talebani sono tornati sulle terre perdute e stanno insidiando la stabilità del maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione. «Le prospettive non sono incoraggianti. Gi americani hanno deciso di aumentare il loro contingente con l'invio di 20 mila soldati, ma il generale David Petraeus, ex comandante delle truppe americane in Iraq, ha detto negli scorsi giorni che la situazione, prima di cominciare a migliorare, peggiorerà. Non basta vincere qualche battaglia. Occorre conquistare gli animi della popolazione, diffondere un sentimento di fiducia e di speranza. Sono gli obiettivi che ci siamo proposti con programmi di ricostruzione e formazione civile. Ma non è facile realizzarli in un Paese dove le truppe della Nato non riescono a controllare stabilmente il territorio. «Lei sostiene, caro Benazzo, che dovremmo andarcene. Ma dimentica che siamo in Afghanistan nell'ambito della Nato e che un'alleanza non è un pranzo alla carta in cui ogni commensale mangia quello che gli piace e scarta il resto. Potemmo andarcene dall'Iraq perché vi andammo sulla base di una flessibile intesa bilaterale che poteva essere modificata secondo le circostanze. Ma l'Afghanistan, ripeto, è un'altra cosa. È lecito avere molti dubbi sull'utilità della Nato oggi, ma non è possibile lasciare i nostri alleati nei guai senza pagare il prezzo di quello che verrebbe considerato un tradimento. «Tutti i Paesi che hanno mandato le loro truppe in Afghanistan sono quindi prigionieri di un dilemma. La vittoria è, a dir poco, improbabile, ma il ritiro delle truppe regalerebbe ai talebani un successo che avrebbe effetti disastrosi sulla stabilità dell'intera regione. Il quadro potrebbe forse migliorare se la Nato potesse contare sulla collaborazione, anche militare, della Russia e dell'Iran. Ma questo dipende da Obama e dalle iniziative che prenderà nei prossimi mesi».

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Senza titolo. (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Cultura data: 25/04/2009 - pag: 47 IN PAGINA La pace come impresa di SANDRO MODEO L'ipotesi di un calo di produzione di armi post Guerra fredda si è rivelata illusoria. Come mostra Vincenzo Comito ( Le armi come impresa, Edizioni dell'Asino, pp. 88, e 5), già dai primi anni Novanta a un minor numero di conflitti tra Stati ha corrisposto un'intensificazione di guerre civili e attività terroristico-criminali. Risultato: la spesa militare globale è aumentata del 48% tra 1998 e 2007, con profitti anche per i privati (le compagnie militari in Iraq) o per le tante aziende riconvertite al militare. Si tratta, com'è noto, di un settore cardine a livello occupazionale. Eppure, citando alcuni esempi la Valsella, passata dalle mine antiuomo alla produzione civile Comito è convinto che il percorso si possa invertire: che l'avanguardia tecnologica non siano i software da guerra-playstation, ma le energie rinnovabili. In fondo, è la strada di Obama: quella che gli pseudorealisti, contigui al Sordi di Finché c'è guerra c'è speranza, hanno subito tacciato di demagogia.

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L'alter ego di Woody (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Spettacoli data: 25/04/2009 - pag: 53 Whatever works La commedia di Allen ambientata a New York. «In amore tutto funziona» L'alter ego di Woody «E' vero, dietro il genio protagonista ci sono io Il mio film è una soap tra divorzi e passioni gay» NEW YORK Woody Allen è impareggiabile nell'ironia con la quale spiega Whatever works. «Il titolo ha bisogno di un chiarimento dichiara Woody . Mettiamo il caso che il presidente Obama proponga un piano bizzarro per 'restaurare' l'economia. Se questo suo progetto non fa del male ad alcuno e rasserena gli animi, whatever works. Ossia tutto ha la possibilità di funzionare, al di là di ogni diversità di opinione, speculazione o economico interesse. Nel mio film, l'affermazione vale per l'amore: bisogna saperlo vivere senza preclusioni e diffidenze». La pellicola, presentata in prima mondiale al Tribeca Festival, è interpretata da Larry David, Patricia Clarkson, Evan Rachel Wood e dal giovane inglese Henry Cavill. Dopo impegni a Londra e a Barcellona per le sue ultime pellicole, Whatever works ha riportato l'autore allo scenario da vero co-protagonista della sua New York con un copione da lui scritto e diretto che pare riproporre il Woody dei primi film, carico di humour, sarcasmo e «malinconica allegria». Ci sono nel film scritto da Allen divorzi, un matrimonio tra un uomo molto anziano e una ragazza arrivata senz'arte né parte a New York dal profondo Sud, due uomini e una donna uniti dalla passione, un sentimento tra due uomini, tentativi di suicidio e dialoghi fulminanti. Tipo: «Dio è gay» dice un uomo abbandonato dal suo compagno. «Ma come replica un marito fedifrago e che scoprirà di essere un gay represso Egli ha creato la natura, le nostre giornate, la bellezza ». «Appunto ribatte il suo futuro compagno incontrato in un bar . Era un ottimo decoratore di esterni e interni». C'è soprattutto un protagonista e voce narrante, che dialoga con una invisibile platea della schermo. Dice Woody: «Sarebbe limitativo fermarsi alle battute o affermare che racconto una relazione tra una donna e due uomini, un marito che si scopre gay, l'arrivo della madre di Melody (Evan Rachel Wood) diventata mia moglie Il finale è pessimista e ottimista al tempo stesso, proprio perché i personaggi hanno capito l'importanza del tutto funziona ». Non è Woody Allen a interloquire con il pubblico dallo schermo, ma Larry David, uno degli autori e attori televisivi più noti e apprezzati in Usa. E' lui, nei panni di Boris, un «genio» (o tale almeno si considera), misantropo professore di fisica in pensione che, dopo un divorzio e un tentato suicidio, ha lasciato l'Upper East Side per un appartamento a Dowtown. Però dietro Boris c'è tutto Woody che a 72 anni sembra essersi divertito molto a scrivere e a dirigere questa sua commedia romantica. Ammette che il film può sembrare una soap opera di Danielle Steel o Jackie Collins. Ride: «È vero, forse è anche una soap opera, ma non è lo spesso la vita stessa? Boris, dallo schermo, rivolto alla platea, dichiara: 'Solo io sono rimasto sino alla fine, sono l'unico che ha visto e vissuto l'intero film, sapendo che qualcuno lo stava osservando. Per questo sono un genio'». Racconta: «Al mattino, il professore Boris in pensione detesta leggere i giornali perché gli rovinano l'umore. Fu Ingmar Bergman a dirmi molti anni fa che al mattino non leggeva mai i giornali. Faccio lo stesso: li raccolgo sulle scala, con vero piacere all'idea di gustarmeli in serata. Non ci sono computer nei miei film. Detesto l'idea di leggere un quotidiano sul computer, non ne uso alcuno, sono affezionato alla mia macchina da scrivere Olimpia e non mi piace internet dove puoi anche incontrare qualche serial killer sebbene dicano che si tratta di uno strumento 'globale e democratico' ». Boris non vorrebbe tornare a essere l'uomo sposato un tempo a una intellettuale dell'Upper East Side, non ha rimpianti neppure quando lo lascia la giovane Melody. E lei? «Ne ho uno solo: come attore da giovane girai un film in Europa. Avrei voluto fermarmi a Parigi, non lo feci. Quel rimpianto è sempre vivo». Che cosa ha provato nel girare di nuovo nella sua «cultura urbana»? «Mi è piaciuto. Aggiungo: ho sempre pensato che, per salvarsi dal caos, New York dovrebbe diventare un nuovo e altro Stato autonomo degli Usa». Che cosa le piace del Boris nato dalla sua immaginazione? «Il suo realismo nel guardare il mondo, nello sposare Melody che pareva orgogliosa di essere maritata a un genio, nell'essere lasciato due volte, nel ritrovare un terzo amore... In fondo, non fa differenza se, alla fine, prima di lasciare questo brutto mondo, tutto funziona». Giovanna Grassi Cineasta A destra Woody Allen sul set con Larry David, suo «alter ego» nel film. A sinistra ancora Larry David ed Evan Rachel Wood in una scena di «Whatever works» presentato al Tribeca Film Festival Coppia Evan Rachel Wood e l'attore inglese Henry Cavill in «Whatever works» di Woody Allen \\ Non mi piace Internet. Dicono che è uno strumento «globale e democratico» ma sul web puoi anche incontrare i serial killer

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Mike in mongolfiera per il debutto da Fiorello (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Spettacoli data: 25/04/2009 - pag: 53 La coppia Il «maestro» partecipa allo show dal vivo dell'amico che gli dice: «Aspettiamo il Riskytutto» Mike in mongolfiera per il debutto da Fiorello ROMA Mike Bongiorno arriva in mongolfiera. Piove dall'alto sullo show di Fiorello, come un Leviatano mediatico che tutto domina: «Rosario! Rosario!», urla da lassù il maestro. E l'allievo dal basso: «Mike! Ma che ci fai in mongol-- fiera?! ». «Amici telespettatori, allegria! allegria! eccomi qua», risponde imperturbabile l'ultraottantenne appeso al pallone. Aggiunge: «Fa freddo, quassù, Fiorello, sto parcheggiato da un po', in attesa di entrare in scena...». Ti ricordi quando eri sul Cervino? ribatte Fiore ti vedo abbronzato...». «Ma come fai a vedermi abbronzato?! Sto al buio! ». «No, ti vedo... sembri Obama! ». La gag, che segna l'ingresso ufficiale del decano dei presentatori a Sky, prosegue per qualche minuto nel Palatenda di piazzale Clodio, gremito di pubblico, dove si realizza lo show televisivo in onda stasera alle 21.15 su SkyUno. Battute a raffiche, anche di vento, finché Mike, provato dall'altitudine, reclama: «Terra! Terra!». Poco dopo Bongiorno riappare in palcoscenico, nel salotto tipo Letterman show: «Ho preso freddo», si lamenta, ma lo riscalda il suo più giovane collega, che comincia a snocciolare aneddoti sulla lunga carriera del maestro: «È nato nel 1924 e già a 12 anni conduceva il suo primo programma 'Il quadrato della fortuna'», perché la ruota ancora non esisteva. E poi: «Si è diplomato a Torino e tra i primi a congratularsi, ci fu Pippo Baudo... ». Attacca con le domande: «Mike, è vero che la prima volta che Berlusca ha messo i tacchi lo ha fato davanti a te e tu gli hai detto sempre più in alto?... Quando la Longari ti è caduta sul... ti ha fatto male? Si chiamava davvero 'Fiato alle trombe' di nome e Turchetti di cognome?». Bongiorno precisa: «Tu ci scherzi, ma a quell'epoca arrivavano davvero lettere indirizzate al dottor Fiato alle trombe Turchetti!». E il mitico «Rischiatutto », secondo Fiorello, tornerà in una nuova versione con l'approdo di Mike alla paytv. Assicura: «Si chiamerà il Riskytutto». Boati di applausi in platea dal vivo. Ottimi ascolti in tv: una media di oltre 330 mila spettatori. In prime time, la media di ascolto del canale 109 SkyUno si è più che triplicata, passando da 23.256 a 77.392, nonostante il fatto che il Fiorello Show duri solo mezz'ora e che per una settimana non è andato in onda dopo il terremoto. Un successo che il vulcanico showman siciliano adesso mira a confermare, coinvolgendo il compagno ottantenne: «Ho detto a Mike: vieni con me a Sky...ma in che rapporti stai con Silvio Berlusconi?». Mike gli sussurra qualcosa all'orecchio. E Fiore, con il vezzo da Padrino, dice al pubblico: «Mike perdona, ma non dimentica... ». Emilia Costantini L'arrivo di Mike sulla mongolfiera (Foto Ansa)

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Un lichene di nome Obama (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

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Corriere della Sera sezione: Scienza data: 25/04/2009 - pag: 30 Un lichene di nome Obama Ricercatori dell'università californiana di Riverside hanno scoperto una nuova specie di lichene alla quale è stato dato il nome del presidente Barack Obama: si chiama infatti Caloplaca obamae

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Avvio a Roma dei negoziati per il disarmo (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Esteri data: 25/04/2009 - pag: 16 Usa-Russia Avvio «costruttivo» a Roma dei negoziati per il disarmo ROMA I responsabili di Russia e Usa per il dossier nucleare hanno definito rispettivamente «costruttivi» e «molto produttivi» i negoziati preliminari di ieri a Roma, ospitati all'ambasciata americana di via Veneto. In una conferenza stampa seguita ai negoziati, Anatoly Antonov, direttore del dipartimento per il disarmo del ministero degli Esteri russo, ha assicurato che Mosca «farà tutto il possibile» per trovare un accordo con Washington. La controparte americana, Rose Gottemoeller, assistente segretario del dipartimento di Stato, ha spiegato che le trattative sono state un buon passo iniziale, annunciando che ci saranno una serie di colloqui «più sostanziali» nelle prossime settimane. Antonov ha aggiunto che il primo round verrà ospitato a Washington a metà maggio. Il compito dei delegati è preparare un rapporto dettagliato entro l'estate, da presentare alle rispettive capitali. Il documento sarà poi la base per l'incontro tra il presidente americano Barack Obama e quello russo Dimitri Medvedev, in agenda a luglio. I due responsabili hanno detto che l'obiettivo finale dei colloqui è preparare una bozza di accordo entro la fine dell'anno. Il trattato che stabilisce il numero massimo di testate consentite per Russia e Usa è lo Start e scade il 5 dicembre prossimo.

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G8 all'Aquila disco verde dall'Europa (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-04-2009)

Argomenti: Obama

L'occasione mancata IL VERTICE DI LUGLIO Molti Paesi pensano a ridurre le delegazioni viste le condizioni dell'area scelta G8 all'Aquila disco verde dall'Europa LE REAZIONI DEI PARTNER Il summit Dopo Londra via libera al trasferimento anche dai governi tedesco e giapponese "Gesto forte e importante". Sì pure da Tokyo Obama aspetta l'ok dai servizi di sicurezza [FIRMA]EMANUELE NOVAZIO ROMA Dopo il governo britannico, anche quelli tedesco e giapponese dicono sì allo spostamento del G8 di luglio all'Aquila, mentre da Washington arriva la conferma che la disponibilità di principio della Casa Bianca non ha ancora ottenuto il via libera ufficiale dei servizi di sicurezza e dai responsabili dell'organizzazione. Nell'insieme comunque - afferma il segretario generale della Farnesina e «sherpa» dell'Italia al G8 Massolo - la decisione «è stata accolta bene dalla comunità internazionale: i nostri partner hanno fiducia in noi, e la loro fiducia è ben riposta». Anche dal punto di vista della sicurezza, garantisce Silvio Berlusconi: «Non ci saranno problemi di ordine pubblico, la scelta dell'Abruzzo disincentiva le proteste dei no-global». Ieri, mentre in Italia l'opposizione manifestava perplessità per la decisione, le sole capitali a esprimersi ufficialmente sono state Berlino e Tokyo: «E' un gesto di solidarietà. Siamo fiduciosi che i partner italiani creino le condizioni necessarie dal punto di vista logistico», ha dichiarato il portavoce della cancelliera Merkel. «E' compito del Paese organizzatore decidere sul luogo del vertice, e noi non siamo in condizione di esprimere obiezioni», gli ha fatto eco il capo di gabinetto del premier Taro Aso. Il capo della Protezione civile Bertolaso assicura che «ci sono i tempi per organizzare un vertice positivo e costruttivo che deve rispettare anche il criterio di sobrietà imposto dal momento». Ma la preoccupazione di Berlino non è isolata. Richiesti di un commento, funzionari del Quai d'Orsay dichiarano alla «Stampa» che l'unico problema è «di tipo logistico»: considerate le condizioni dell'area in cui si terrà il vertice, «bisognerà pensare a delegazioni molto ridotte» invece di quelle inviate normalmente, decine di migliaia di persone nel complesso. Al ministero degli Esteri francese ritengono però che la scelta dell'Aquila abbia un significato simbolico: la città è il posto adatto alla riunione delle principali economie mondiali, «considerando il clima d'oggi». Anche da Russia e Canada, che pure ufficialmente tacciono, non ci sono obiezioni insormontabili. Mentre plaude - senza celare le consuete preoccupazioni per le difficoltà organizzative - l'Unione europea: «Un gesto forte e importante», commenta un portavoce della Commissione. «Un passo positivo dettato dalla solidarietà», precisa la commissaria per le relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner, in visita a Roma: certo «bisognerà vedere come organizzare la logistica», ma «l'Italia è un Paese creativo». Se era prevedibile che i partner stranieri non sconfessassero una scelta che - al di là di ogni altra valutazione - assume nel mondo la valenza del simbolo, la decisione di Berlusconi ha sollevato perplessità e polemiche in Italia, nelle file dell'opposizione. «E' un gesto di solidarietà, ma non so se il G8 sarà più un problema o un aiuto per l'Abruzzo», nota Massimo D'Alema: «Ai terremotati servono più stufette nelle tende». Per Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei Valori, lo spostamento del vertice in Abruzzo è «uno spot elettorale» e «un'ennesima presa in giro», perché «ci sono già 300 milioni di euro spesi in Sardegna e 200 da spendere in Abruzzo per opere che il giorno dopo dovranno essere smontate». Un'accusa respinta dal governo: le infrastrutture resteranno alla Sardegna, garantisce il ministro degli Esteri Frattini. Lo ha confermato Silvio Berlusconi al presidente regionale Ugo Castellacci, ricevuto ieri a Roma: tutte le opere avviate per il vertice di luglio saranno completate e utilizzate per futuri eventi internazionali. A cominciare dal G8 sull'ambiente voluto da Obama.

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Obama non parla di genocidio (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-04-2009)

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Corriere della Sera sezione: Esteri data: 25/04/2009 - pag: 17 In breve Armeni Obama non parla di genocidio WASHINGTON Migliaia di armeni hanno commemorato ieri a Erevan il milione e mezzo di vittime massacrate dall'impero ottomano tra il 1915 e il '17. A Washington Barack Obama ha ricordato il tragico evento senza usare il termine «genocidio», preferendo non interferire nel processo distensivo in corso tra Erevan e Ankara, che respinge ogni responsabilità nella strage armena. Mercoledì, i due governi si erano accordati su una «road map» per arrivare alla riconciliazione, dopo decenni di gelo. Il presidente Usa ieri ha comunque aggiunto che «94 anni fa cominciò una delle maggiori atrocità del XX secolo».

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Finestra sull'America (sezione: Obama)

( da "Stampaweb, La" del 25-04-2009)

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WASHINGTON Senza giacca nello Studio Ovale, in raccoglimento di fronte al ritratto di John F. Kennedy nella West Wing, circondato da uno staff che lavora online e seguito ovunque dal teleprompter che lo aiuta a leggere i discorsi, Barack H. Obama nei primi cento giorni di governo ha incarnato lo stile di un presidente quarantenne, lavorando su due priorità. Affidare la ripresa alla realizzazione di un modello economico incentrato sul sostegno alla classe media e rilanciare la leadership Usa nel mondo contando sulla capacità di dialogare con gli avversari. Eletto da una nazione atterrita dall’incubo della povertà, Obama ha mobilitato le finanze pubbliche per sostenere la crescita nel breve periodo ma ciò che per lui conta di più è l’obiettivo di medio termine: la creazione di un nuovo modello di crescita che aiuti le famiglie della classe media a spendere meno e vivere meglio. Basta scorrere la lista delle iniziative prese per rendersene conto: più sanità pubblica per ridurre le spese per anziani e bambini, più borse di studio per spingere verso il college i figli dei poveri, alta velocità per abbattere le mura geografiche che isolano i centri meno sviluppati, rete a banda larga per dare pari opportunità online a ogni cittadino, fonti rinnovabili per abbattere le bollette energetiche, interessi più bassi per le carte di credito. Ordini esecutivi, leggi al Congresso e decreti puntano a trasformare il ceto medio flagellato dalla recessione nel pilastro di una nuova stagione di crescita. Il regista è Larry Summers, il ministro del benessere clintoniano, mentre il titolare del Tesoro Tim Geithner ha confezionato un piano di rimedi alla crisi finanziaria che ancora non convincono Wall Street, esponendo il presidente alle accuse di «statalismo» rivoltegli dai repubblicani come a quelle di «aver adottato false soluzioni» giuntegli da liberal come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Se il piano di lungo termine per la classe media spiega l’ottimismo della maggioranza degli americani sulla direzione in cui va la nazione, le perduranti incertezze economiche sono all’origine delle lunghe file di disoccupati alle «job fairs» di città in città. Il risultato è che il presidente consolida un personale rapporto con la base attraverso meeting via Internet, messaggi su Youtube e mail ai fan di «Organizing for America» mentre al Congresso ha difficoltà a trovare i voti per far passare il bilancio federale. La base elettorale è ancora con lui e crede nei cambiamenti che promette mentre i problemi sono nelle battaglie politiche quotidiane con l’opposizione repubblicana sulle barricate e i democratici spaccati sul «tassa e spendi». Anche sul fronte della politica internazionale Obama appare in mezzo al guado. I primi cento giorni sono serviti per presentare, da Londra a Strasburgo, da Praga e Trinidad, un’idea di leadership americana nel mondo che si riassume nella «responsabilità di aiutare la comunità internazionale a trovare le risposte migliori ai problemi più urgenti», dalla salute del Pianeta alla lotta al terrorismo, dalla recessione alla proliferazione nucleare. è un approccio pragmatico, basato sulla necessità delle alleanze e sul dialogo con gli avversari, che ha portato Obama a promuovere «mutuo rispetto» con l’Islam, stringere la mano al venezuelano Hugo Chavez, scambiarsi messaggi con l’iraniano Mahmud Ahmadinejad e far accogliere i suoi inviati dal siriano Bashar Assad, ma tale slancio finora ha dato scarsi risultati: l’Europa è contro lo stimolo globale per l’economia, la Nato non manda più soldati in Afghanistan, la Nord Corea ha testato un nuovo missile intercontinentale, l’Iran ha inaugurato la prima centrale nucleare e il Pakistan appare in balia dei gruppi jihadisti. La differenza fra propositi è risultati è tale che Karl Rove, ex guru elettorale di Bush oggi polemista conservatore, infierisce dalle colonne del «Wall Street Journal» accusando Obama di «farsi largo nel mondo parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia preannunciano una resa dei conti dentro l’establishment che potrebbe essere innescato dalle commissioni di inchiesta del Congresso invocate dai leader democratici. FOTO Usa, i primi 100 giorni di Obama: ecco le cose fatte commenti (0) scrivi

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L'instabile paese delle atomiche e la fine di un rapporto con gli Usa (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)

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IN VARI pensatoi da qualche tempo si discute se il Pakistan arriverà alla fine del 2009; o se invece collasserà prima, implodendo in un'anarchia generalizzata nella quale vagoleranno Taliban, milizie tribali e una dozzina di bombe atomiche pronte per l'uso. Fauste o infauste, le prognosi convengono su questo: l'Occidente dispone ancora di strumenti per tentare di arrestare il marasma pachistano prima che diventi irreversibile. Il problema è che nella prassi politica e militare il poderoso consesso delle democrazie somiglia ad uno quegli eserciti persiani che la falange macedone sbaragliava a ripetizione durante la sua marcia verso l'Indo, poiché la confusione di lingue e stili di combattimento li conduceva a fallire le manovre più elementari. E comunque il salvataggio del Pakistan non è certo un'operazione facile. Nei suoi turbolenti sessant'anni il Paese ha visto alternarsi indecorose dittature militari e non molto più decorosi governi civili. Un tempo era la Terra promessa della sempre attesa Riforma islamica, poi è stato infettato da un ultra-fondamentalismo d'importazione che oggi conta per una piccola quota dell'elettorato, meno del 5%, ma rappresenta la quasi totalità delle milizie, vale a dire decine di migliaia di armati. La sua fazione "rivoluzionaria", i Taliban, ormai è saldamente attestata in vasti territori al confine con l'Afghanistan, e li usa come trampolini per successive avanzate. In marzo le sgangherate milizie di tale Fazlallah, più noto come "Mullah radio" per le sue concioni radiofoniche, si sono presi lo Swat, una regione a ridosso della frontiera afgana, dove hanno sostituito lo stato di diritto con la giustizia delle corti islamiche. OAS_RICH('Middle'); In cambio di una vaga promessa di non belligeranza, il governo centrale ha ratificato questo atto di aperta sovversione. Galvanizzati, all'inizio di questa settimana quei Taliban sono calati nella valle di Buner, un centinaio di chilometri della capitale, e ammazzati alcuni poliziotti, hanno ordinato alle donne di chiudersi in casa, alle scuole di serrare i portoni. Soltanto un nuovo negoziato con Islamabad, e presumibilmente nuove concessioni, ieri hanno indotto quei guerrieri a tornare nelle loro montagne. Sbigottiti da questi eventi, nelle ultime ore gli occidentali hanno scoperto che se in Afghanistan non va bene, in Pakistan va molto peggio. E' a rischio "l'esistenza stessa del Pakistan", ha avvertito il generale Petraeus. La Clinton, Berlino, Londra, la preoccupazione è unanime. E al Pentagono, questo possiamo darlo per scontato, hanno tirato fuori dai cassetti i piani per tentare di impossessarsi delle atomiche pachistane qualora tutto precipiti. A questo coro angosciato manca la voce di chi dovrebbe difendere le istituzioni nell'ora più grave, le Forze armate pachistane. Se si esclude una dichiarazione vaga e ufficiosa attribuita al capo di stato maggiore, i generali tacciono. E il loro silenzio è misterioso quanto la loro inazione. Proviamo a ripercorrere la sequenza che conduce alla "talibanizzazione" dello Swat. Quel "mullah Radio" che pare in grado di minacciare uno Stato di 165 milioni di abitanti, non è un Garibaldi islamico, ma un noto pasticcione. E i suoi miliziani non sono molti più dei cinque o seicento che nei giorni scorsi hanno "conquistato" la valle di Buner. Perché l'esercito, forte di cinquecentomila uomini, ha lasciato fare? E perché proprio adesso, mentre il presidente pachistano si prepara a partire per Washington? Ecco le domande che l'Occidente dovrebbe porsi. Il vertice militare pachistano non inclina al fondamentalismo, ma come ormai è evidente, non combatte la nostra stessa guerra. La sua priorità è contrastare l'India, tanto più che quella sta rafforzando notevolmente le sue posizioni in Afghanistan, in buona collaborazione con gli americani. Per una cultura militare ossessionata dalla geopolitica, avere gli indiani sia a est che a ovest rappresenta una minaccia esistenziale. Percezione sovreccitata, ma favorita dall'attivismo del servizio segreto indiano in Afghanistan e dai toni bellicosi usati da leader della destra indù nella campagna elettorale in corso. Questo lo sfondo. Ma più immediato, e forse decisivo, è il rapporto sempre più problematico con gli Stati Uniti. Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini. Fino a ieri lo stato maggiore ingoiava, in cambio di copiosi aiuti militari. Ora anche gli aiuti si sono diradati, mentre a Islamabad si consolida il sospetto che ormai Washington dia retta alla diplomazia indiana, quando ripete: il Pakistan è finito. Non è così. Ma se l'esercito scegliesse una "neutralità" suicida, e se gli occidentali non riuscissero a farlo ricredere, quella potrebbe diventare l'ennesima profezia che si autoinvera, e per il solito motivo: l'inettitudine degli attori. (25 aprile 2009

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Nuova influenza, cresce l'allarme "Difficile evitare l'epidemia" (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)

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CITTA' DEL MESSICO - Le autorità di Messico e Stati Uniti sono in allerta nel tentativo di contenere l'epidemia di influenza suina che si teme abbia già fatto 61 morti in Messico (venti i casi già accertati) e contagiato otto persone negli Stati Uniti. E l'allarme è già esteso in tutti i Paesi latinoamericani, dove sono aumentati i controlli negli aeroporti e attivati piani sanitari di emergenza per evitare il contagio. Il presidente del Messico, Felipe Calderon, ha presieduto venerdì per varie ore un incontro con i massimi esperti sanitari del Paese per valutare la situazione. L'influenza suina, un sotto-tipo del tradizionale ceppo H1N1 che si è trasferito dai maiali all'uomo, ha causato nella capitale messicana e in un'area limitrofa almeno 20 morti e un migliaio di contagi. I primi casi del virus sono stati individuati il 13 aprile, ma è solo da giovedì che si è compresa l'estensione e la gravità dell'epidemia. Il Messico ha chiuso scuole, musei, biblioteche, teatri in tutta la sua popolosa capitale e in una provincia vicina "fino a nuovo ordine". Anche se le autorità sanitarie fanno notare che la media dei decessi non è aumentata e non si è verificato quell'incremento esponenziale dei contagi che si temeva. Le analisi genetiche mostrano però che il ceppo incriminato è una mescolanza mai vista prima tra virus aviario, suino e di essere umano. E il fatto che la gran parte dei decessi riguardi persone tra il 25 e i 45 anni è considerato un preoccupante segno che fa pensare alla pandemia perchè le influenze stagionali tendono invece a colpire gli anziani e i bimbi piccoli. OAS_RICH('Middle'); Intanto negli Usa, il direttore del Centro di Controllo e Prevenzione delle Malattie (il Cdc di Atlanta), Richard Besser, ha ammesso che "probabilmente è troppo tardi" per riuscire a contenere una nuova epidemia. Negli Stati Uniti i casi accertati sono 8 tra California e Texas (sei risiedevano nel sud della California e due nell'area di Sant'Antonio, in Texas) ma solo uno era stato in Messico. E si indaga su alcune decine di studenti di un liceo nel Queens che si sono ammalati con sintomi simili. Il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha assicurato di avere un "rigoroso" piano di risposta all'epidemia. Ma Besser ha spiegato che è probabilmente troppo tardi per cercare di contenerla vaccinando, trattando o isolando la popolazione. "Gli elementi in nostro possesso ci fanno credere che il contenimento (del contagio) non sia (più) molto probabile", ha spiegato, confermando che il virus sembra essere lo stesso negli Usa e in Messico. Besser ha sottolineato però che al momento non è chiaro per quale motivo il virus si sia rivelato così letale in Messico e, finora, non abbia causato vittime negli Stati Uniti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha convocato per oggi una riunione di emergenza, ha fatto sapere che la struttura genetica del virus contratto da 12 vittime analizzate in Messico è lo stesso degli otto contagiati in California e Texas. Questo fa temere il cosiddetto 'salto di specie', ossia che la malattia possa essere trasmessa "da uomo e uomo", come riferito da Anne Schuchat, direttore del Centro di immunologia e patologie respiratorie del 'Cdc'. Intanto, la Casa Bianca ha annunciato di seguire molto da vicino l'espandersi del virus: il dossier è arrivato sul tavolo di Barack Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella capitale, dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito le mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da manifestazioni eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non condividere cibo e bevande per il timore di un contagio, non ancora provato, da essere umano a essere umano. I sintomi sono la febbre superiore ai 39 gradi, che si presenta in maniera repentina, la tosse, il dolore di testa intenso, quello muscolare e alle articolazioni, l'irritazione agli occhi e il flusso nasale. (25 aprile 2009

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Il mistero del Piccolo Buddha che oggi compie vent'anni (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)

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PECHINO - È l'anniversario che la Cina ha deciso di cancellare. Oggi compie vent'anni il Panchen Lama, la seconda autorità spirituale del buddismo tibetano, il "vice" del Dalai Lama alla guida del suo popolo. Ma Gedhun Choeky Nyima - questo il nome del vero Panchen Lama - è invisibile dall'età di sei anni. Poco dopo la sua investitura da parte del Dalai, il 14 maggio 1995, il bambino fu sequestrato con tutta la sua famiglia dalla polizia cinese. Quello che divenne "il prigioniero politico più giovane del mondo" da allora è recluso in un luogo segreto. La sua colpa è imperdonabile: per il solo fatto di esistere, il Panchen incarna l'autonomia di un potere spirituale che lo ha scelto senza prendere ordini dal governo. L'ultima violenza su di lui il regime di Pechino l'ha commessa alcuni giorni fa, lasciando filtrare indiscrezioni sulla sua morte. Nessun annuncio ufficiale - altrimenti il governo dovrebbe fornire spiegazioni e prove sull'improvviso decesso di un ventenne - ma solo voci. Che gli esuli tibetani vicini al Dalai Lama definiscono false. Forse per vie imperscrutabili riescono ad avere notizie su di lui. Alla vigilia di questo compleanno proibito, i cinesi non si sono limitati a diffondere insinuazioni sulla morte del loro giovane prigioniero. Pechino ha deciso di esibire in due eventi ufficiali il suo "gemello comunista": il Panchen del regime. Quasi coetaneo dell'altro (ha 19 anni), etnicamente tibetano anche lui ma figlio di due membri del partito comunista, questo si chiama Gyaincain Norbu. Nel 1995, non appena catturato il vero Panchen, la controfigura venne investita solennemente dal governo. Secondo le autorità cinesi è lui l'undicesima reincarnazione del "grande studioso" della setta Gelugpa. Il Panchen filo-cinese non è mai stato accettato dai suoi connazionali, che gli negano ogni legittimità. Senza la benedizione del Dalai, per i fedeli è un impostore. Perciò anche lui ha finito per trascorrere infanzia e adolescenza come un detenuto. Per paura che i tibetani potessero influenzarlo le autorità lo hanno allevato a Pechino, in un convento politically correct, sotto il controllo del partito. I maestri di dottrina gli insegnavano il patriottismo (cinese), la fedeltà al governo, il mandarino e l'inglese: utili per farne un futuro portavoce urbi et orbi. Per anni le sue apparizioni in pubblico sono state rare e protette da una scorta. In una di quelle occasioni, paracadutato per poche ore nel 2005 nel monastero di Tashilhunpo a Shigatse (storicamente la sede del Panchen) il povero burattino dei cinesi rimase impaurito dal disprezzo dei religiosi. OAS_RICH('Middle'); Nelle foto ufficiali ha la faccia di un bambinone cresciuto, goffo e timido, vittima di un gioco troppo grande per lui. Un mese fa le cose sono cambiate. Il Panchen-di-Pechino è stato lanciato sul palcoscenico a marzo per una celebrazione importante. Ricorreva il 50esimo anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama, un giorno di lutto per il suo popolo. Nella stessa data quest'anno il governo ha istituito una nuova festa nazionale: la Giornata dell'Emancipazione dei Servi del Tibet. Un'occasione per celebrare la "liberazione" dalla teocrazia feudale dei lama, grazie al provvidenziale intervento dell'Esercito Popolare di Liberazione sotto la guida di Mao. Il 28 marzo il Panchen comunista è apparso in una cerimonia di Stato a Lhasa. Il giovane era visibilmente agitato, ma ha detto quello che si aspettavano da lui: "Voglio ringraziare sinceramente il partito comunista per avermi aperto gli occhi, così so riconoscere il bene dal male". Poi una stoccata diretta a colui che dovrebbe esserne il padre spirituale. "Sono io stesso discendente di schiavi - ha detto Gyaincain Norbu - e ho imparato a distinguere chi ama il popolo tibetano, da quelle persone senza scrupoli che per motivi di ambizione minacciano la pace". Jia Qinglin, membro del Politburo, ha reso esplicita l'accusa: "Il Dalai ignora i veri desideri del popolo. Vuole la secessione per restaurare l'antico regime feudale". In un crescendo di visibilità, il Panchen comunista è riapparso al recente Forum Mondiale del Buddismo, organizzato in pompa magna dalle autorità cinesi. Un evento ecumenico: aperto nella città di Wuxi, provincia del Jiangsu, si è concluso a Taipei capitale dell'"isola ribelle" di Taiwan. Dopo il confucianesimo anche il buddismo viene recuperato dai leader cinesi. Purché sia una religione di Stato, il presidente Hu Jintao è convinto che serva a proiettare un'immagine rassicurante della Cina, a rafforzare il suo soft power in Asia. E il giovane Gyaincain Norbu ha fatto il suo dovere. Ai delegati mondiali del simposio buddista ha dichiarato: "Questo evento dimostra che in Cina regna la libertà religiosa". Ha partecipato alle sedute ristrette di alcuni seminari di studio: perfino un incontro con celebri imprenditori sul tema "Filosofia e Business". I magnati industriali che lo hanno incontrato dicono che i suoi interventi sono stati "fonte d'ispirazione". Le foto dell'agenzia Nuova Cina lo ritraggono, occhialuto e intimidito, mentre porge una sciarpa bianca in omaggio al presidente del Congresso del Popolo, Wu Bangguo. L'alto gerarca lo ha incoraggiato a "lavorare alacremente per l'unità del popolo cinese". Zhan Ru, direttore dell'Istituto di studi orientali all'università di Pechino, era anche lui a quel congresso: "E' stato un incoraggiamento per tutti. Eravamo onorati di avere con noi un Budda vivente". Lo sforzo per osannare il povero burattino è corale. Tradisce il nervosismo di Pechino per il ventesimo compleanno del vero Panchen Lama. La tensione è affiorata ai massimi livelli. Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama. Già ci è riuscito con Nicolas Sarkozy, costretto a farsi "perdonare" la visita del Dalai all'Eliseo. Il Sudafrica ha preferito far saltare un summit dei premi Nobel pur di non concedere il visto al leader tibetano in esilio. Dietro la durezza cinese spunta la partita cruciale: la successione del 73enne capo spirituale. Pechino ha già annunciato che alla sua morte spetterà al potere politico la scelta del prossimo "reincarnato": come all'epoca della dinastia imperiale dei Qing, secondo le ricostruzioni degli storici revisionisti di regime. Pur di evitare questa sopraffazione il Dalai Lama ha accennato a una contromossa: cambiare le regole e procedere a un'elezione democratica del suo successore. Chissà se il suo discepolo ventenne, ovunque si trovi, può intuire la battaglia furibonda che si prepara. Se è vivo oggi passa anche questo compleanno nella solitudine che ormai è il suo destino. Lontano dal Tibet, lontano dai suoi e dal mondo, forse condannato a essere invisibile fino a quando morirà davvero. (25 aprile 2009

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Febbre suina, cresce l'allarme Oms: "La situazione è seria" (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)

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CITTA' DEL MESSICO - Le autorità di Messico e Stati Uniti sono in allerta nel tentativo di contenere l'epidemia di influenza suina che si teme abbia già fatto 61 morti in Messico (venti i casi già accertati) e contagiato otto persone negli Stati Uniti. E l'allarme è già esteso in tutti i Paesi latinoamericani, dove sono aumentati i controlli negli aeroporti e attivati piani sanitari di emergenza per evitare il contagio. Secondo l'Organizzazione mandiale della sanità, la comprsa di questo virtus è "una situazione seria", che è necessario seguire da vicino. Ieri il presidente del Messico, Felipe Calderon, ha presieduto un incontro con i massimi esperti sanitari del Paese per valutare la situazione. L'influenza suina, un sotto-tipo del tradizionale ceppo H1N1 che si è trasferito dai maiali all'uomo, ha causato nella capitale messicana e in un'area limitrofa almeno 20 morti e un migliaio di contagi. I primi casi del virus sono stati individuati il 13 aprile, ma è solo da giovedì che si è compresa l'estensione e la gravità dell'epidemia. Il Messico ha chiuso scuole, musei, biblioteche, teatri in tutta la sua popolosa capitale e in una provincia vicina "fino a nuovo ordine". Anche se le autorità sanitarie fanno notare che la media dei decessi non è aumentata e non si è verificato quell'incremento esponenziale dei contagi che si temeva. Le analisi genetiche mostrano però che il ceppo incriminato è una mescolanza mai vista prima tra virus aviario, suino e di essere umano. E il fatto che la gran parte dei decessi riguardi persone tra il 25 e i 45 anni è considerato un preoccupante segno che fa pensare alla pandemia perchè le influenze stagionali tendono invece a colpire gli anziani e i bimbi piccoli. OAS_RICH('Middle'); Intanto negli Usa, il direttore del Centro di Controllo e Prevenzione delle Malattie (il Cdc di Atlanta), Richard Besser, ha ammesso che "probabilmente è troppo tardi" per riuscire a contenere una nuova epidemia. Negli Stati Uniti i casi accertati sono 8 tra California e Texas (sei risiedevano nel sud della California e due nell'area di Sant'Antonio, in Texas) ma solo uno era stato in Messico. E si indaga su alcune decine di studenti di un liceo nel Queens che si sono ammalati con sintomi simili. Il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha assicurato di avere un "rigoroso" piano di risposta all'epidemia. Ma Besser ha spiegato che è probabilmente troppo tardi per cercare di contenerla vaccinando, trattando o isolando la popolazione. "Gli elementi in nostro possesso ci fanno credere che il contenimento (del contagio) non sia (più) molto probabile", ha spiegato, confermando che il virus sembra essere lo stesso negli Usa e in Messico. Besser ha sottolineato però che al momento non è chiaro per quale motivo il virus si sia rivelato così letale in Messico e, finora, non abbia causato vittime negli Stati Uniti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha convocato per oggi una riunione di emergenza, ha fatto sapere che la struttura genetica del virus contratto da 12 vittime analizzate in Messico è lo stesso degli otto contagiati in California e Texas. Questo fa temere il cosiddetto 'salto di specie', ossia che la malattia possa essere trasmessa "da uomo e uomo", come riferito da Anne Schuchat, direttore del Centro di immunologia e patologie respiratorie del 'Cdc'. Intanto, la Casa Bianca ha annunciato di seguire molto da vicino l'espandersi del virus: il dossier è arrivato sul tavolo di Barack Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella capitale, dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito le mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da manifestazioni eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non condividere cibo e bevande per il timore di un contagio, non ancora provato, da essere umano a essere umano. I sintomi sono la febbre superiore ai 39 gradi, che si presenta in maniera repentina, la tosse, il dolore di testa intenso, quello muscolare e alle articolazioni, l'irritazione agli occhi e il flusso nasale. (25 aprile 2009

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Hillary Clinton a sorpresa a Bagdad "Siamo nella direzione giusta" (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 25-04-2009)

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BAGDAD - Il segretario di Stato americano Hillary Clinton è giunta oggi a Bagdad - è la sua prima volta nel paese da quando è a capo del Dipartimento - per una visita a sorpresa. Un viaggio che giunge in un momento in cui nel Paese si registra una nuova ondata di violenze. Un crescendo sfociato in due giornate di sangue, giovedì e venerdì, in cui alcuni attentati suicidi sono costati la vita ad almeno 140 persone. Scopo del viaggio, ribadire l'impegno degli Stati Uniti ma anche fare alcune valutazioni della situazione dopo l'ondata di attentati. La morte di oltre 140 persone, fra cui decine di pellegrini iraniani diretti ai luoghi santi sciiti, ha indotto la guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, ad affermare che "i principali accusati per questo e altri crimini del genere sono i servizi di intelligence degli Stati Uniti e dei sinisiti", ovvero Israele, parole per cui la Clinton ha poi espresso "disappunto". Si tratta di un'impennata della violenza che, dopo mesi di relativa calma, suscita timori, in particolare in vista della scadenza di fine giugno per il ritiro delle forze americane dai centri urbani, prima del disimpegno che prevede la fine delle missioni di combattimento e il rimpatrio di circa 100mila soldati entro agosto 2010, nonchè il rimpatrio totale entro il 2011. Il capo della diplomazia Usa ha tuttavia affermato di ritenere che l'Iraq, dove a fine anno sono in programma le elezioni legislative, stia "complessivamente andando nella giusta direzione". "In questo momento - ha detto Clinton - non vedo segnali di una ripresa" del conflitto interconfessionale, il che la porta a ritenere che gli attentati suicidi "siano, in un modo purtroppo tragico, il segnale che gli oppositori temono che l'Iraq stia andando nella direzione sbagliata". OAS_RICH('Middle'); Nei colloqui avuti con il premier Nuri al Maliki, con il presidente Jalal Talabani e con il generale Ray Odierno, comandante delle forze Usa in Iraq, la Clinton ha voluto sapere "come vengono valutati" i nuovi attentati, "quale è il loro significato, e cosa si può fare per impedirli". Nel corso della visita - diciotto giorni dopo quella compiuta dal presidente Barack Obama - Hillary Clinton ha voluto un contatto con la società civile irachena. E nella sede diplomatica Usa, dove da meno di 24 ore si è insediato il nuovo ambasciatore Christopher Hill, il segretario di Stato ha incontrato circa 150 persone per rispondere alle loro domande. "Non c'è nulla di più importante di un Iraq unito - ha ribadito - lasciate che ripeta quanto già affermato da Obama: il nostro impegno è per un Iraq stabile, sovrano e autosufficiente". (25 aprile 2009

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I VERI NEMICI SONO IN CASA (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-04-2009)
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Maurizio Molinari I VERI NEMICI SONO IN CASA Senza giacca nello Studio Ovale, in raccoglimento di fronte al ritratto di John F. Kennedy nella West Wing, circondato da uno staff che lavora online e seguito ovunque dal teleprompter che lo aiuta a leggere i discorsi, Barack H. Obama nei primi cento giorni di governo ha incarnato lo stile di un presidente quarantenne, lavorando su due priorità. Affidare la ripresa alla realizzazione di un modello economico incentrato sul sostegno alla classe media e rilanciare la leadership Usa nel mondo contando sulla capacità di dialogare con gli avversari. Eletto da una nazione atterrita dall'incubo della povertà, Obama ha mobilitato le finanze pubbliche per sostenere la crescita nel breve periodo ma ciò che per lui conta di più è l'obiettivo di medio termine: la creazione di un nuovo modello di crescita che aiuti le famiglie della classe media a spendere meno e vivere meglio. Basta scorrere la lista delle iniziative prese per rendersene conto: più sanità pubblica per ridurre le spese per anziani e bambini, più borse di studio per spingere verso il college i figli dei poveri, alta velocità per abbattere le mura geografiche che isolano i centri meno sviluppati, rete a banda larga per dare pari opportunità online a ogni cittadino, fonti rinnovabili per abbattere le bollette energetiche, interessi più bassi per le carte di credito. Ordini esecutivi, leggi al Congresso e decreti puntano a trasformare il ceto medio flagellato dalla recessione nel pilastro di una nuova stagione di crescita. Il regista è Larry Summers, il ministro del benessere clintoniano, mentre il titolare del Tesoro Tim Geithner ha confezionato un piano di rimedi alla crisi finanziaria che ancora non convincono Wall Street, esponendo il presidente alle accuse di «statalismo» rivoltegli dai repubblicani come a quelle di «aver adottato false soluzioni» giuntegli da liberal come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Se il piano di lungo termine per la classe media spiega l'ottimismo della maggioranza degli americani sulla direzione in cui va la nazione, le perduranti incertezze economiche sono all'origine delle lunghe file di disoccupati alle «job fairs» di città in città. Il risultato è che il presidente consolida un personale rapporto con la base attraverso meeting via Internet, messaggi su Youtube e mail ai fan di «Organizing for America» mentre al Congresso ha difficoltà a trovare i voti per far passare il bilancio federale. La base elettorale è ancora con lui e crede nei cambiamenti che promette mentre i problemi sono nelle battaglie politiche quotidiane con l'opposizione repubblicana sulle barricate e i democratici spaccati sul «tassa e spendi». Anche sul fronte della politica internazionale Obama appare in mezzo al guado. I primi cento giorni sono serviti per presentare, da Londra a Strasburgo, da Praga e Trinidad, un'idea di leadership americana nel mondo che si riassume nella «responsabilità di aiutare la comunità internazionale a trovare le risposte migliori ai problemi più urgenti», dalla salute del Pianeta alla lotta al terrorismo, dalla recessione alla proliferazione nucleare. È un approccio pragmatico, basato sulla necessità delle alleanze e sul dialogo con gli avversari, che ha portato Obama a promuovere «mutuo rispetto» con l'Islam, stringere la mano al venezuelano Hugo Chavez, scambiarsi messaggi con l'iraniano Mahmud Ahmadinejad e far accogliere i suoi inviati dal siriano Bashar Assad, ma tale slancio finora ha dato scarsi risultati: l'Europa è contro lo stimolo globale per l'economia, la Nato non manda più soldati in Afghanistan, la Nord Corea ha testato un nuovo missile intercontinentale, l'Iran ha inaugurato la prima centrale nucleare e il Pakistan appare in balia dei gruppi jihadisti. La differenza fra propositi è risultati è tale che Karl Rove, ex guru elettorale di Bush oggi polemista conservatore, infierisce dalle colonne del «Wall Street Journal» accusando Obama di «farsi largo nel mondo parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia preannunciano una resa dei conti dentro l'establishment che potrebbe essere innescato dalle commissioni di inchiesta del Congresso invocate dai leader democratici.

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La Casa Bianca: pronti a tutte le eventualità (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-04-2009)
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IL CHAPTER 11 LO STALLO Retroscena La stretta finale La Casa Bianca: pronti a tutte le eventualità Non impedirebbe alla casa italiana di chiudere l'affare L'accordo con banche e sindacati è ancora lontano FRANCESCO SEMPRINI WASHINGTON Chrysler, si fa strada l'opzione amministrazione controllata L'Italia tifa compatta per l'asse Detroit-Torino definito dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, «una cosa fantastica», nel giorno in cui la Casa Bianca si dice pronta ad ogni eventualità sul destino di Chrysler, compresa l'amministrazione controllata. Inizia così il quarto round di negoziati americani di Sergio Marchionne di nuovo negli Usa per trattare con sindacati, creditori e task force della Casa Bianca. L'ad del Lingotto sembra scommettere tutto su questa tornata che seguirà personalmente sino alla fine, dicono fonti informate. La Casa Bianca dichiara di essere pronta a ogni eventualità, ma la priorità è «proteggere» i posti di lavoro. «Siamo ad un punto importante dei negoziati - dice il portavoce Robert Gibbs, spiegando però che le informazioni dei giornali non rappresentano necessariamente un fatto compiuto». Il riferimento è alla ridda di voci sulla «bancarotta» di Chrysler che, dopo la smentita del Tesoro di mercoledì è stata rilanciata dal Wall Street Journal. Il quotidiano finanziario spiega che l'azienda si starebbe preparando a chiedere la protezione dai creditori già la prossima settimana, che venga raggiunta o meno un'alleanza con Fiat. In caso di accordo il ricorso al «Chapter 11», cioè una procedura di bancarotta pilotata, permetterà a Chrysler di liberarsi di alcune voci di bilancio in passivo e di diversi asset «cattivi», permettendo così al Lingotto di scegliere le unità più redditizie o che considera più funzionali agli interessi del gruppo. Il segretario al Tesoro, Tim Geithner, dice di essere «incoraggiato dai progressi fatti ma c'é ancora molto lavoro da fare» e che l'amministrazione Obama «sta facendo tutto il possibile», anche per quanto riguarda la trattativa tra Fiat e Chrysler. Le trattative sono in una fase interlocutoria su tutti i fronti: l'atteso accordo con il Canadian Auto Workers, previsto per ieri mattina non è arrivato, mentre i negoziati con gli americani di United Auto Workers proseguiranno per tutto il weekend. Il nodo bancario è più complicato da sciogliere: i creditori hanno presentato al Tesoro Usa una nuova controfferta per la ristrutturazione del debito che prevede. Propongono il taglio del debito da 6,9 miliardi di dollari a 3,75 miliardi in cambio di una quota del 35% di azioni di Chrysler. La task force governativa aveva chiesto invece di ridurre il debito a 1,5 miliardi di dollari, in cambio di una quota di azioni del 5% nell'azienda. Per il vicepresidente del terzo produttore americano di auto, Jim Press, la bancarotta di Chrysler non è «imminente». Il manager però aggiunge che non verrà dato nessun annuncio fino alla fine della prossima settimana anche perché la situazione «non è cambiata» per quanto riguarda la ristrutturazione di Chrysler fuori dai tribunali. Favorevole all'amministrazione controllata per i colossi dell'auto è il ministro delle Finanze canadese, Jim Flaherty, purché sia risparmiata a Gm e Chrysler la liquidazione. «La pseudo-bancarotta per le case automobilistiche non è qualcosa di terribile», dice Flaherty a Washington per gli incontri del G-7, anzi «permetterebbe di evitare la loro liquidazione, uno scenario che nessuno auspica». E proprio con Flaherty ha parlato in mattinata Tremonti a margine dei lavori dell'Fmi: «Il Canada è un Paese dove ci sono molte industrie dell'auto e della Chrysler, ho riscontrato un grande favore anche dal parte loro per la Fiat». E dopo aver raccontato la leggenda di un giovane Obama che scorrazzava per le vie di Chicago a bordo di una Fiat il ministro conclude: «Dicevano che le auto italiane partono a spinta. Oggi le auto italiane danno la spinta, speriamo».

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"Pensa solo allo share Così tradisce gli Usa" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-04-2009)
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PRESIDENTE DI TUTTI PUNIRE BUSH CONTRARIO/ Gore Vidal «Per essere bipartisan rinuncia a riaffermare la Costituzione» «Deve mettere sotto accusa gli eccessi di chi lo ha preceduto» "Pensa solo allo share Così tradisce gli Usa" [FIRMA]DAL CORRISPONDENTE DA NEW YORK «Un buon presidente ma con il problema di essere troppo tenero con i repubblicani». Gore Vidal, scrittore di successo e lingua tagliente dei liberal, dà un giudizio in chiaroscuro sui primi cento giorni di Barack Obama alla Casa Bianca. Perché «troppo tenero»? «Obama nel complesso sta gestendo bene la presidenza ma esita di fronte al gruppo di potere che è stato guidato per otto anni da Bush e Cheney. Si è trattato di un'amministrazione convinta che "tutto è legale per il presidente", proprio come ai tempi del Watergate di Richard Nixon, ma nessuno sembra volergliene chiedere conto». Qual è la spiegazione? «Obama vuole essere un presidente bipartisan. Per una questione di valori e per opportunità politica. Crede nella guida bipartisan della nazione, ispirandosi a Lincoln, e gli fa comodo averla per ottenere dai repubblicani i voti necessari per varare il bilancio ora e le riforme economiche in un prossimo futuro. Ma tutto questo ha un prezzo molto alto per il popolo americano: Obama rinuncia a riaffermare la Costituzione». Il punto però è che Obama ritiene l'esatto contrario, ovvero che richiamarsi a Abramo Lincoln significa evitare rese dei conti sanguinose con gli avversari oramai sconfitti... «Obama però è anche un avvocato e dovrebbe sapere che quando la Costituzione viene violata deve essere difesa, riaffermata, ripristinata. L'eccesso di accentramento di potere nella Casa Bianca avvenuto durante gli anni di Bush-Cheney ha creato un vulnus nel sistema politico che deve essere sanato. E' compito del nuovo presidente, votato dal popolo, di assumersi la responsabilità di punire chi violò la Costituzione proprio come si fece ai tempi di Nixon». Cosa dovrebbe fare? «Sostenere con forza chi al Congresso vuole arrivare a un processo pubblico agli eccessi dell'amministrazione Bush». Sul fronte economico Obama la convince maggiormente? «Sull'economia Obama applica Keynes, secondo il quale quando il mercato fa corto circuito spetta allo Stato versare il denaro per riattivare la crescita. E' l'unica ricetta economia che sento come mia. Il prolema di Obama non sono le azioni politiche che compie, in gran parte giuste, ma la sua volontà di essere amico di tutti, di non avere mai avversari». Come se lo spiega? «Con il fatto che viviamo nell'era della tv. Il presidente vuole apparire ed essere amato, avere tassi di gradimento alti, teme gli scontri duri, non desidera avere l'opposizione sul piede di guerra. L'obiettivo è conquistare il maggior numero di consensi sempre e comunque. L'approccio bipartisan è lo strumento con cui Obama persegue questa strategia ed al momento i tassi di popolarità superiore al 60 per cento gli stanno dando ragione. Ma in questa maniera sta facendo pagare un prezzo alto alla nazione. Il primo compito del presidente non è essere popolare ma difendere la Costituzione redatta dai padri fondatori». Qual è l'errore più grave che gli rimprovera? «Dalle torture della Cia fino agli abusi costituzionali vuole mettersi tutto dietro le spalle in fretta».\

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"Un pragmatico vero Disinnescherà l'Iran" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-04-2009)
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FAVOREVOLE/ Charlie Kupchan LA MODERNITÀ ECONOMIA GLOBALE "Un pragmatico vero Disinnescherà l'Iran" «Afferma una versione della leadership adatta al XXI secolo» «Smentito chi diceva che avrebbe favorito la Cina sull'Europa» [FIRMA]DAL CORRISPONDENTE DA NEW YORK «Barack Obama afferma una nuova versione della leadership americana nel mondo, adattandola alla realtà del XXI secolo». Charles Kupchan, titolare degli Studi europei al «Council on Foreign Relations» legge i primi cento giorni di presidenza nel segno delle «notevoli novità avvenute». Qual è l'idea di leadership americana che Obama afferma? «E' basata sul fatto che nel XXI secolo i protagonisti della scena internazionale sono molteplici. L'America deve muoversi su questo terreno per identificare i problemi, capire come possano essere risolti e dunque con chi lavorare per risolverli. Si tratta di un cambiamento drammatico rispetto a Bush, la cui attenzione era per i cambiamenti di regime. Bush era ideologico, Obama è pragmatico, si prepara a lavorare con Paesi come Russia, Cina e Arabia Saudita per risolvere i problemi in agenda». Ma non è rischioso tendere la mano ai leader autoritari? «Se i primi cento giorni hanno messo in luce le innovazioni di Obama ora la prova più difficile sarà vedere se funzioneranno. Se riuscirà a riportare la Russia a recitare un ruolo di equilibrio e stabilizzazione, se riuscirà a disinnescare la crisi nucleare con l'Iran». Qual è l'appoccio all'Europa? «Chi parlava di un G2 sinoamericano destinato a offuscare l'Ue è stato smentito. Il primo viaggio di Obama è stato in Europa ed ha sottolineato il ruolo chiave che assegna alla Nato. La partnership fra America e Europa resta prioritaria». Sul fronte economico che cosa è avvenuto? «Obama non vuole modificare il sistema economico americano ma sanare le lacune di quello finanziario ricorrendo all'intervento dello Stato. Non siamo all'origine di uno stravolgimento del capitalismo, assistiamo alla sua correzione». Quale impatto hanno avuto questi cento giorni sui rapporti interrazziali? «Sul piano della vita quotidiana non vi sono stati grandi cambiamenti e anzi la situazione è peggiorata a causa della crisi economica. L'elezione del primo presidente afroamericano ha avuto però un forte valore simbolico facendo venire alla ribalta una nuova America, più giovane, interrazziale e multietnica. Se consideriamo solo gli americani sotto i 20 anni, le minoranze sono già maggioranza. Entro una generazione questo varrà per l'intera nazione». Quali sono i maggiori rischi per il presidente? «Obama nelle primarie ha sconfitto Hillary cavalcando la rivolta della base degli elettori democratici e nel viaggio in Europa ha avuto successo nel parlare direttamente alla gente più che ai leader. La forza di Obama è nell'essere un politico che fa insorgere le masse ma quando si governa la difficoltà sta nel realizzare le proprie politiche. Per riuscirci ha bisogno di una coalizione di governo della quale finora non dispone perché al Congresso i repubblicani sono su posizioni di estrema destra mentre i democratici sono divisi fra centristi e liberal. Obama vuole governare al centro ma dovrà trovare i numeri per riuscire a farlo altrimenti non avrà quei due terzi di voti del Senato che servono per ratificare qualsiasi trattato internazionale, dal clima alla non proliferazione».\

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Effetto Obama più scuola meno bombe (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-04-2009)
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Maurizio Molinari Cuba-Stati Uniti I PRIMI 100 GIORNI segue dalla prima pagina Effetto Obama più scuola meno bombe Il rischio più grande è quello di una rivolta nell'establishment di Washington La base elettorale è con lui, ma il problema arriva nelle battaglie politiche quotidiane Il disgelo inizia dagli yacht PRESIDENZA USA SOTTO ESAME Stile inconfondibile In giacca, con uno staff sempre online e il teleprompter a disposizione Il primo bilancio: Barack vola su YouTube ma non ha ancora convinto il Congresso I governi di Cuba e Stati Uniti non sono ancora riusciti a trovare una sintonia politica, ma almeno su un fronte i rapporti stanno migliorando: gli yacht a stelle e strisce tornano a visitare l'isola caraibica. Secondo Sabino Fernandez, presidente del gruppo «Marlin nautica y marinas», nel primo trimestre 2009 le imbarcazioni Usa che hanno raggiunto le coste cubane sono state 18, a fronte dei cinque yacht nello stesso periodo dell'anno scorso. Un aumento pari al 30%. Da parte sua, Josè Escrich, presidente del Club nautico internazionale di Cuba, ha detto che «negli ultimi tempi abbiamo ricevuto numerosi operatori americani che stanno cercando di organizzare eventi bilaterali, per esempio tornei di pesca e regate», come la gara che si terrà a Cienfuegos, nel sud dell'isola, con la partecipazione di una ventina di imbarcazioni francesi. L'ultima regata cubana con presenza americana si è svolta 15 anni fa, con la partecipazione di 84 barche statunitensi.

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Una delle vittime incontrò Obama (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Stretta di mano Una delle vittime incontrò Obama «Il presidente Obama sta bene e il suo viaggio in Messico non ha messo in alcun modo in pericolo la sua salute». Lo comunica la Casa Bianca per fugare qualsiasi dubbio sulla salute del presidente degli Stati Uniti che, lo scorso 16 aprile si era recato a Città del Messico per discutere della lotta al narcotraffico prima di raggiungere Trinidad e Tobago per il vertice delle Americhe. In quell'occasione era stato ricevuto al Museo di Antropologia del Messico da Felipe Solis, un importante archeologo che il giorno dopo è morto con sintomi simili a quelli dell'influenza e al quale il presidente aveva stretto la mano. La notizia è stata data dal quotidiano messicano «Reforma», che però non ha precisato se la forma virale che aveva colpito Solis fosse quella suina.

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la febbre suina arriva a new york scatta l'allarme sanitario mondiale - elena dusi (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 6 - Esteri Mascherine La febbre suina arriva a New York scatta l´allarme sanitario mondiale Mille gli infettati in Messico, baci vietati. Gli Usa: virus incontenibile La Casa Bianca: "Il presidente Obama sta bene". Caso sospetto a Londra: malato uno steward ELENA DUSI Baci vietati. Scuole, teatri e locali pubblici chiusi a Città del Messico. Ospedali affollati per i controlli e mascherine per la bocca esaurite in farmacia. A distribuirle nei sotterranei della metro ci pensa ormai l´esercito. Il governo messicano vuole evitare l´estendersi della febbre suina, malattia che l´Organizzazione mondiale della sanità definisce «nuova, ancora difficile da capire» ma «potenzialmente capace di scatenare una pandemia». Il virus ieri ha raggiunto anche New York. Una classe di scuola media tornata da una gita in Messico è stata colpita dall´influenza e si è sottoposta ai test per stabilire l´identità del virus. Almeno 8 ragazzi sui 9 esaminati sono positivi alla febbre suina. «I sintomi sono lievi, non corrono pericoli» ha precisato l´assessore alla salute di New York, Thomas Frieden. I ragazzi della "St. Francis preparatory school" di Queens si aggiungono agli 8 contagi dei giorni scorsi in California e Texas (guariti senza complicanze) mentre due nuovi casi sono stati registrati ieri in Kansas (marito e moglie, lui appena tornato dal Messico) e uno in California (una donna di 35 anni, ricoverata e ora guarita). Il presidente Barack Obama, che il 16 aprile era stato in Messico per un vertice sul narcotraffico, ha dovuto tranquillizzare il paese e ribadire che non ha sintomi di influenza. In Messico il virus ha infettato più di mille persone uccidendone 68. Il presidente Felipe Calderon ha dichiarato l´emergenza nazionale, riservandosi il potere di imporre quarantene. Ieri nella capitale messicana sono stati registrati 24 nuovi casi. In una città di 20 milioni di abitanti, i concerti cancellati per il week end hanno raggiunto quota 500 e due partite di serie A si giocheranno oggi a porte chiuse. I parroci dovranno ridurre al minimo la durata delle messe, distribuendo le ostie nel palmo delle mani dei fedeli e non sulla lingua. Il tragitto del contagio dimostra che l´influenza dei maiali ha imparato a circolare fra gli uomini. Tra gli 8 infettati di Texas e California (gli esami di laboratorio hanno confermato che si tratta dello stesso virus che ha ucciso in Messico) ci sono un padre e una figlia e due compagni di classe di 16 anni. Ad Atlanta il "Center for disease control" è riuscito a chiudere in provetta un campione del virus: primo passo verso la produzione di un vaccino. «Il contagio è assodato. Il virus non può più essere contenuto. Ci aspettiamo nuovi casi» ha ammesso una responsabile del centro, Anne Schuchat. Due antivirali, il Tamiflu e il Relenza, sembrano efficaci contro la malattia. Il Messico dispone di un milione di dosi e le farà distribuire esclusivamente dai medici ai pazienti che ne hanno più bisogno. Molti aeroporti del mondo ieri hanno iniziato a sottoporre a visita medica i passeggeri provenienti dal paese centro-americano. A Londra uno steward della British Airways che ha volato in Messico e poi si è ammalato di influenza è stato ricoverato. I risultati dei suoi esami sono attesi per oggi. L´Oms ha inviato in Messico una sua équipe per valutare l´entità dell´epidemia, ma per il momento mantiene il livello di allerta pandemia a 3, in una scala che va da 1 a 6. «La situazione è seria, anche se non abbiamo un quadro chiaro del rischio» ha detto la segretaria dell´Organizzazione, Margaret Chan. Subito dopo la conferma dei casi di New York, l´Oms ha dichiarato lo stato di "emergenza sanitaria pubblica internazionale", invitando tutti i paesi a lanciare un allarme immediato in caso di focolai sospetti. L´Oms sembra pronta da un momento all´altro a far scattare quel grado 4 di allerta che non fu raggiunto neanche durante il picco dell´aviaria.

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- (segue dalla prima pagina) vittorio zucconi (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 7 - Esteri E dunque l´incubatrice perfetta per la diffusione della nuova psicosi La città sa di essere e vuole essere il posto dove il mondo finirà (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) VITTORIO ZUCCONI Con una densità di undicimila abitanti per chilometro quadrato, più del triplo di Milano, e una umanità che ogni giorno si accalca nelle sue strade, nella carrozze della metropolitana, nei treni dei pendolari, nelle conigliere dei suoi grattacieli, i quattro borghi che formano New York sono il terreno di cultura ideale per ogni batterio, virus e microrganismo che si trasmetta per contatto umano. E dunque l´incubatrice perfetta per la diffusione della nuova psicosi da fine del mondo che dalle porcilaie del Messico ha attraversato la frontiera del Rio Grande e si sta allargando al Nord. Casi di questa variante del virus influenzale trasmissibile dai maiali e agli umani sono stati registrati anche in passato, creando addirittura una campagna di vaccinazione collettiva del tutto inutile e in molti casi micidiale ordinata dal presidente Ford nel 1976, e da giorni sono segnalati nelle zone di confine con il Messico, Stati come la California, l´Arizona e il Messico. Ma è lo sbarco a New York del virus, individuato in otto studenti del Liceo San Francesco a Queens a trasformare l´epidemia di questa forma temibile, ma non nuova come le prime notizie frettolosamente indicano, di influenza in un evento che ha raggiunto addirittura la Casa Bianca, dalla quale il Presidente Obama è stato costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in Messico. Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla borghesia middle class debordata da Manhattan, l´ultimo e il massimo melting pot, crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato «borough», borgo, nel quale convivono emigrati arabi e africani, latinos e asiatici. Fu sopra le casette di Queens, che pochi giorni dopo l´11 settembre, precipitò un aereo di linea, facendo subito pensare a una nuova ondata di attacchi terroristici, che nei mesi scorsi virò senza più motori in funzione il jet che poi miracolosamente planò sul fiume Hudson. Queens ospita quell´aeroporto nel quale si affolla ogni giorno la babele del mondo, il John F. Kennedy, e che le agenzia per la sicurezza guardano come al formicaio nel quale potrebbero annidarsi le cellule maligne del prossimo attacco. Era dunque ovvio, se non atteso, che sarebbero stati i leggendari tabloid di New York a sporcare per primi le loro prime pagine con gli annunci della nuova peste, a mettere in guardia, e quindi a causare, l´onda di panico che sta afferrando il popolo della «Grande Mela» e che ha spinto 100 degli studenti del Liceo San Francesco a farsi visitare in massa tutti convinti di avere contratto il virus dell´influenza suina dopo una gita scolastica di massa proprio a Città del Messico. Risultandone infetti soltanto in otto, forse nove, in forme blande, anche grazie alla loro età e salute generale. Ma da ieri, dopo l´esplosione dei titoli e delle news locali, gli ospedali e i pronto soccorso di questa nazione città sono invasi da tutti coloro che esibiscono quei sintomi vaghi e insieme sinistri, mal di gola, stanchezza, brividi, tosse, particolarmente diffusi grazie alle allergie primaverili. Da sempre, con orgoglio e con ansia contenuta, New York sa di essere, vuole essere la terra dove il mondo finirà, per essersi vista tante volte al cinema in quel ruolo. Anche questa ennesima «pandemia» che spazzerà via l´umanità, come la dovevano spazzare via l´influenza aviaria, la Sars, il prione della mucca pazza, l´Ebola, la febbre gialla, la nuova tubercolosi resistente agli antibiotici, il retrovirus, ha ora in New York il proprio palcoscenico ideale, capace di toccare il mondo che in questa città la lasciato qualcosa di se stesso e porta quel senso oscuro, orwellianamente perfetto, della vendetta del mondo dei maiali contro il mondo degli umani.

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la patria e il nuovo padre padrone - (segue dalla prima pagina) (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

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Pagina 25 - Commenti LA PATRIA E IL NUOVO PADRE PADRONE (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo «fare» e quelli che l´avversano. Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l´ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte). La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene. Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione? * * * Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su «Repubblica» ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere. Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel «rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il ‘suo´ popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci. Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti». Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d´una nuova costituzione materiale all´ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile. Un´operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese. La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un´autorità di second´ordine, esercitò un´influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l´impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa. La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente. Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie. La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti – l´abbiamo già detto – verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant´anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario. Se l´asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l´essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell´unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine. Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l´ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L´ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La «fantasia al potere» – che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori – non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale. Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate. * * * C´è un freschissimo esempio della «fantasia al potere» o meglio della «follia positiva» stando all´autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall´isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell´Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all´insaputa dello stesso governo da lui presieduto. Le motivazioni di questo «coup de thétre» sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del «meeting» tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l´avrebbero ospitato alla Maddalena. è sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate. Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell´isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d´Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l´Aquila. I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero. Portare il caso Abruzzo all´attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C´è l´intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti. La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all´Aquila, l´hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località. Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell´immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile. Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell´Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c´entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l´ossatura? Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, «lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo». Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle. No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.

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brevi, schede e richiami 1. (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

anno darwiniano Domani alle ore 14 nell'Aula Magna della Sapienza convegno su "Darwin 2009: una prospettiva evolutiva sulle emozioni". conosci i rom? Alla Città dell'Utopia domani alle ore 18.30 " dibattito su storia, provenienza e vita dei Rom in Italia seguito da aperitivo, mostre fotografiche e filmati. In via Valeriano 3/f con ingresso libero. storia americana Martedì alle 11 a Roma Tre (via Ostiense 159) conferenza di Alexander Bloom su "Barak Obama e la fine degli anni Sessanta". Introduce Cristina Giorcelli.

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"segno" riflette sulla crisi culturale e su una chiesa possibile (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina XVII - Palermo La rivista "SEGNO" RIFLETTE SULLA CRISI CULTURALE E SU UNA CHIESA POSSIBILE Domani alle 18 alla libreria Feltrinelli di via Cavour si presenta il fascicolo numero 303 della rivista "Segno". Interverranno Liborio Asciutto, parroco, Francesco Crescimanno, avvocato, Nino Fasullo direttore di "Segno", Italo Tripi, segretario di Cgil Sicilia, e Salvatore Vacca, docente nella Facoltà teologica di Palermo. Tra gli argomenti trattati in questo numero da "Segno" spiccano l´editoriale dedicato alle nuova questione cattolica, la svolta verde di Barack Obama, la crisi politica e culturale del paese e della regione, sviluppata attraverso una tavola rotonda, il romanzo del Parto democratico, l´Onda studentesca di Palermo, tre articoli sulla buona morte e sulla laicità, la presenza di Dio fuori dalla chiesa e un appello per una chiesa solidale e compassionevole: un tema, questo, lanciato recentemente da un gruppo di parroci palermitani e affrontato dal precedente numero della rivista.

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genocidio armeno scontro turchia-usa (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 14 - Esteri La polemica Genocidio armeno scontro Turchia-Usa ANKARA - Il ministero degli Esteri turco ha fatto sapere di ritenere "inaccettabile" il messaggio del presidente americano Obama, dedicato al massacro degli armeni del 1915. «Consideriamo inaccettabili alcune espressioni del messaggio e la percezione della storia che esso ha rispetto agli avvenimenti del 1915», si legge in un comunicato del ministero. Anche la comunità armena in Usa ha vivamente criticato il fatto che Obama non abbia usato la parola "genocidio".

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blitz della clinton a bagdad l'iran: "gli usa dietro i kamikaze" - alberto flores d'arcais (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 14 - Esteri La segretaria di Stato: "Andiamo nella giusta direzione, lasceremo un paese sicuro" Blitz della Clinton a Bagdad L´Iran: "Gli Usa dietro i kamikaze" Secondo l´inviata gli ultimi attentati dimostrano che l´opposizione è alle corde ALBERTO FLORES D´ARCAIS dal nostro inviato NEW York - L´ondata di attentati che ha colpito l´Iraq preoccupa la Casa Bianca e Hillary Clinton è planata d´urgenza a Bagdad per un viaggio a sorpresa. «Complessivamente le cose stanno andando nella giusta direzione», ha detto il Segretario di Stato Usa, secondo cui non ci sono «segnali di ripresa del conflitto». L´offensiva dei kamikaze degli ultimi giorni - che hanno provocato oltre 150 morti - , sono dunque, secondo la Clinton il segnale «in un modo purtroppo tragico, che gli oppositori temono che l´Iraq stia andando nella direzione sbagliata». La morte (negli attentati) di una dozzina di pellegrini sciiti iraniani, ha fatto salire la tensione tra gli Stati Uniti e l´Iran. L´ayatollah Ali Khamenei, «guida suprema» e uomo forte del regime clericale, si è spinto ad accusare pubblicamente la Casa Bianca e Israele («i principali responsabili per questo e altri crimini del genere sono i servizi di intelligence degli Stati Uniti e dei sionisti»), dichiarazione priva di alcun senso, considerato anche che arriva dal leader di un paese che da anni foraggia (con armi e finanziamenti) i gruppi terroristi armati che seminano il caos in Iraq. Parole per cui Hillary Clinton ha espresso subito profonda irritazione: «E´ un commento sconcertante, perché è chiaramente accertato che questi attentati sono opera di elementi di Al Qaeda o di altri gruppi». Negli incontri con il premier Nuri al Maliki, con il presidente Jalal Talabani e con il generale Ray Odierno - comandante delle forze Usa in Iraq - il Segretario di Stato ha chiesto una «valutazione» sulla nuova ondata di attentati e ha chiesto «qual è il significato e cosa si può fare per impedirli». L´impennata di violenza - che arriva dopo mesi di relativi successi delle forze americane e irachene - viene valutata dall´Intelligence Usa come il tentativo (da parte dei gruppi armati estremisti) di condizionare la prima tappa nell´agenda del ritiro americano fissata dalla Casa Bianca. A fine giugno i soldati Usa dovrebbero infatti completare la ritirata da tutti i maggiori centri urbani dell´Iraq, consegnando all´esercito iracheno ogni compito di ordine pubblico. Con l´offensiva dei kamikaze Al Qaeda e gli altri gruppi vorrebbero - secondo una fonte dell´Intelligence al Pentagono - costringere gli Stati Uniti a rivedere il piano (che prevede entro l´agosto 2010 il rimpatrio di centomila militari) e dimostrare che il governo e le forze armate irachene «non sono in grado di tenere sotto controllo il territorio». Per questo nel suo viaggio-lampo - il suo primo in Iraq da Segretario di Stato - Hillary Clinton si è soffermata sugli aiuti (non solo militari) al governo di Nuri al Maliki. Ha voluto incontrare la «società civile» irachena (150 tra studenti, imprenditori, giornalisti e attivisti di vario genere) tra cui molte donne ed ha risposto alle loro domande in una sala dell´ambasciata americana, guidata da due giorni dal nuovo ambasciatore di Obama, Christopher Hill. «Non c´è nulla di più importante di un Iraq unito, lasciate dunque che vi ripeta ciò che ha detto il presidente Obama: noi siamo impegnati in Iraq, lo vogliamo stabile, sovrano e autosufficiente. Anche se la natura del nostro impegno può sembrare a volte differente, perché, come sapete, ritireremo le nostre truppe da combattimento nel giro di un paio d´anni». Quanto alla mancanza di fiducia degli iracheni verso i loro servizi di sicurezza (ancora poco addestrati e in qualche caso corrotti) Hillary ha così risposto: «Più unito sarà l´Iraq e più avrete fiducia nei vostri servizi di sicurezza». Agli iracheni, che vedono l´ombra minacciosa di una guerra civile avvicinarsi con il ritiro Usa, ha promesso che l´America resterà al loro fianco: «Non sono venuta a dirvi come risolvere le vostre questioni di politica interna, voi dovete decidere queste cose. Ma continueremo a lavorare molto per far sì che abbiate un paese sicuro».

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najiba, tanya e le altre alla guerra delle donne - guido rampoldi (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 28 - Esteri Najiba, Tanya e le altre alla guerra delle donne Kabul, la sfida la copertina Cantano in tv a volto scoperto, conducono programmi radio, scendono in piazza per contestare la "nuova" legge sul diritto di famiglia. Il coraggio delle ragazze afgane - nonostante le pressioni di padri e mariti, gli assassinii, gli sfregi al vetriolo - è la novità più sorprendente del Paese tornato al centro del Grande Gioco in versione anni Duemila GUIDO RAMPOLDI (segue dalla copertina) è una guerra senza fine in cui né una parte né l´altra da allora è riuscita ad attestarsi in una posizione salda, definitiva. Un conflitto cruento le cui vittime predestinate, donne che osano l´inosabile, non devono guardarsi soltanto dal nemico dichiarato, i Taliban, ma spesso anche da chi dovrebbe proteggere le loro spalle, innanzitutto genitori e fratelli. I Taliban hanno assassinato la direttrice di Radio Pace, nel 2007; ma sono stati i familiari a uccidere due annunciatrici colpevoli di essere andate in video truccate e senza velo, mi ricorda Tanya Kayan, conduttrice di una trasmissione radiofonica. Tanya era la prima della classe quando i Taliban chiusero le scuole. Continuò a studiare in casa, su libri di testo comprati al mercato nero e dopo la liberazione dell´Afghanistan fu nel primo gruppo di ragazze che si iscrisse alla facoltà di giornalismo. Delle dodici che si sono laureate con lei, sei sono state costrette da genitori e mariti a rinunciare al lavoro per fare le mogli. Eppure le altre sette lavorano nei media, le ragazze che compaiono in tv sono sempre più numerose, e il moltiplicarsi di queste presenze femminili sulla scena pubblica sta cambiando, dice Tanya, perfino l´arcigno tradizionalismo pashtun. Secondo la Kayan, oggi il venti per cento delle donne afgane è consapevole dei propri diritti, una percentuale altissima se consideriamo che una parte rilevante della popolazione femminile di fatto non è neppure in grado di leggere. Quel venti per cento sta vincendo la propria guerra millenaria, sia pure al prezzo altissimo di cui raccontano le cronache. Adolescenti sfregiate con il vetriolo perché andavano a scuola, donne ammazzate perché avevano accettato un ruolo di potere, ragazze sparate per aver amato il ragazzo rifiutato dai genitori… Ogni rivoluzione ha i suoi caduti. Ma perché questa finalmente riesca, occorre che vada bene anche l´altra guerra, la guerra guerreggiata dagli uomini. In proposito, molte afgane sono dubbiose. Temono che l´Occidente e i suoi alleati afgani finiranno per svendere i diritti delle donne in cambio di un armistizio qualunque. Tanya non è tra queste. «Non credo che ci pianterete in asso», dice con un bel sorriso. Ma un mese fa, in un dibattito tra giornaliste ospitato dalla sua radio Killid, la conduttrice di una tv ha ritenuto prudente fare autocritica: mi pento di aver chiamato «selvaggi» i Taliban, ha detto. Non si sa mai. Così la guerra delle donne si decide anche sulla cresta di una montagna, a due ore di macchina da Kabul, dove trovo quaranta soldati afgani accampati al riparo di muretti di pietra. Non sono al sicuro. L´anno scorso una granata è fischiata sulle loro teste (ma è esplosa lontano, un duecento metri) e una recluta è stata ammazzata da un cecchino appostato sulla montagna dirimpetto. Le pattuglie nemiche arrivano di notte, da una valle vicina, Ouzbine, dove si nascondono tra i centoventi e i centoquaranta Taliban, racconta Agha Jonbozi, il maggiore afgano che mi accompagna quassù. Sono gli stessi Taliban che nel 2008 hanno massacrato dieci militari francesi. Ma questa valle l´hanno persa. L´attacco decisivo è stato condotto dagli elicotteri americani. Però è stato il maggiore afgano a conquistare i cuori e le menti dei contadini. Aiutati dai consiglieri americani i suoi soldati hanno portato nei villaggi l´allaccio dell´acqua, aperto una scuola e distribuito sementi. Tre anni fa le strisce di verde scuro ai piedi dei villaggi color terra erano campi di papavero da oppio. Oggi sono campi di zafferano, e rendono di più. Altrove in Afghanistan è stato soprattutto il grano a soppiantare l´oppio. Da quando sui mercati internazionali il suo prezzo è aumentato, un acro coltivato a grano rende grossomodo quanto un acro coltivato a papavero, ma richiede meno acqua e meno lavoro. E anche per questo l´anno scorso l´estensione delle coltivazioni di papavero sul territorio afgano è diminuita di un quinto. Ma è stato un successo per gran parte casuale e, se i trafficanti di oppio aumentassero l´offerta, temporaneo. è effimera anche la vittoria del maggiore afgano Jonbozi e dei suoi consiglieri americani? Come ci ricordano più in basso i relitti di tank sovietici affioranti dal terreno, queste valli strategiche tra Kabul e il Pakistan sono state la trappola in cui finirono massacrate le guarnigioni in fuga di due poderosi imperi. Nell´Ottocento i britannici, nel Novecento i russi. Ma quella in corso è una guerra diversa da tutti conflitti passati. «La strana guerra», la definisce Jamil Karzai, nipote del capo di Stato e influente parlamentare. Strana perché è la più asimmetrica tra le guerre asimmetriche, una somma caotica di antiche rivalità geostrategiche e stravaganti partite occulte, come quella di cui mi racconta il senatore Mohammad Arif Sarwari, fino al 2004 capo dei servizi segreti afgani (Nds). Nella provincia di Khost, proprio a ridosso del confine con il Pakistan, «c´è una base fuori dal controllo Nato in cui i servizi americani e indiani lavorano insieme ad un programma segreto, credo tuttora attivo. Non riguarda al Qaeda o bin Laden, ma il Pakistan. Da quella base elicotteri trasportano armi e pacchi di banconote ad alcune tribù pakistane nelle aree tribali». Secondo Sarwari, tra i beneficiati vi sono anche le milizie sciite di Parachinar, protagoniste nel 2007 di uno scontro feroce con tribù sunnite. E se questo è vero, probabilmente il messaggio americano ai militari pakistani suona così: finché voi aiutate i nostri nemici Taliban in Afghanistan, noi aiuteremo i vostri nemici indiani a crearvi instabilità in casa. Come la guerra degli uomini, così la lotta delle afgane per l´emancipazione ha una prima linea tortuosa. C´è un nemico esterno, i Taliban, e uno interno, un islamismo che odia i Taliban ma non è meno bigotto di loro. Dove i due campi si intersecano, la confusione è massima. Come si è visto quando il parlamento afgano ha approvato la legge sul diritto di famiglia. A lungo perseguitata in quanto sciita, per la prima volta nella sua storia millenaria la minoranza hazara, il dieci per cento della popolazione, si vedeva riconosciuto un proprio diritto di famiglia, diverso da quello sunnita, e con quello il diritto a una propria identità. Ma a quale prezzo? In buona sostanza la legge è stata scritta dai mullah sciiti e da parlamentari di etnia hazara che per buona parte provengono dalla resistenza armata ai Taliban. Dalla ricomposizione del sodalizio tra guerrieri e sacerdoti non poteva che nascere una legge profondamente illiberale: però un po´ meno illiberale di quanto non siano i costumi tradizionali dei contadini dell´Hazarajat, presso i quali, per esempio, è normale prendere in sposa una bambina di nove anni (la nuova normativa lo vieterebbe). Proprio questi interventi sui costumi nuziali degli Hazara avevano convinto partiti laici come Terza linea, e deputate progressiste come Sunia Barakzai, che il testo fosse un compromesso accettabile. E questa grossomodo era anche l´opinione dei giornalisti liberali, perciò sorpresi dalle proteste che arrivavano dai governi occidentali. «Quella legge non è così importante», mi diceva in quei giorni Mujahid Kakar, caporedattore di una tv, al Tolo, che pure detesta, ricambiata, ogni fondamentalismo islamico. Perfino giornaliste che i Taliban fucilerebbero volentieri, come Tanya Kayan, non capivano perché l´Occidente si scandalizzasse tanto: «La questione vera è un´altra, permettere concretamente alle donne di studiare e di lavorare. è a quel modo che le afgane apprenderanno i loro diritti e impareranno a difenderli». Però quella legge non era affatto un problema marginale per molte ragazze sciite di Kabul, soprattutto non-hazara di credo ismailita, cui non andava giù l´idea che diventasse un obbligo legale, per esempio, concedersi al marito, se richieste, almeno una volta ogni quattro giorni (dimostrando una singolare idea della libido femminile, il testo impone lo stesso obbligo al marito, però una volta ogni quattro mesi). Così trecento ragazze vestite nell´uniforme nera delle donne sciite la scorsa settimana hanno inscenato a Kabul una clamorosa manifestazione di protesta. La reazione è stata immediata: nello spazio di una mezz´ora un migliaio di studenti sono scesi in piazza per contrastare, con urla e insulti, le svergognate che avevano osato sfidare il clero sciita, e in modo così plateale. Adesso gli sciiti sono divisi tra chi rifiuta «ingerenze» sunnite, o peggio, occidentali, e chi invece si chiede se la legge, nel frattempo congelata, non sia un pessimo biglietto da visita per la propria fede. Probabilmente il parlamento apporterà modifiche: ma se si limitasse a qualche ritocco, per non scatenare l´ira dei mullah, come reagirebbero gli occidentali? Chiunque conosca la storia dell´invasione sovietica non può ignorare che proprio sovvertire i costumi afgani fu fatale ai russi. I liceali furono incitati ad amarsi liberamente e a ribellarsi ai matrimoni combinati dai genitori. Ma se questa rivoluzione regalò un po´ di libertà a una generazione, però convinse molti altri afgani che era in corso un attacco all´islam e soprattutto agli assetti della società patriarcale: convinzione che contribuì non poco all´adesione alla guerriglia dell´Afghanistan rurale. Gli occidentali non ripeteranno gli errori dei sovietici. Sette anni fa, liberato l´Afghanistan, la loro parola d´ordine era: dobbiamo essere ambiziosi. Oggi è: dobbiamo essere realisti. Ma un realismo in eccesso può essere pericoloso: quali sono i limiti oltre i quali diventerebbe tradimento delle afgane? E la salvaguardia dei diritti elementari delle donne è o no una condizione tassativa a quella «soluzione politica» considerata inevitabile ormai da tutti - Karzai, americani, europei? Il problema è complicato dal fatto che agli occidentali manca un interlocutore chiaro. Quelli che chiamiamo «Taliban» sono infatti una somma di varie bande e di vari interessi. Il comando occidentale preferisce definirli «insorti» e il capo di stato maggiore Nato, il generale Marco Bertolini, valuta che i Taliban veri e propri siano una piccola minoranza. Di fatto i Taliban contro cui combatte il maggiore Jonbozi tra le montagne che circondano il lago di Naghlu, non sono davvero Taliban. Il loro capo, il comandante Sultan, va e viene dal Pakistan con una facilità che i militari afgani considerano prova inconfutabile di un legame con i servizi segreti pakistani, l´Isi. Sultan coordina sette distinti gruppi armati, che comprendono contrabbandieri (il Pakistan è vicino), criminali comuni, arabi, ceceni. Ma il grosso, valuta il maggiore Jonbozi, è composto da militanti di Hizb-i-islami, l´organizzazione di un alleato dei Taliban, Gulbuddin Hekmatyar. Quest´ultimo ha un legame storico con il servizio segreto pakistano e uno più recente con Teheran; è in relazioni con al Qaeda, e in affari con i narcotrafficanti. Ma al tempo della guerra santa contro i sovietici era un favorito dell´Occidente. Ricevette onorificenze dalle mani di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, che lo proclamarono «combattente per la libertà». Non sarebbe sorprendente scoprire che adesso egli figuri tra i «Taliban moderati» con cui Karzai e molto Occidente vogliono concludere una pace separata. Favorisce l´accordo il fatto che i due tronconi in cui si è divisa Hizb-i-islami combattono l´uno dalla parte di Karzai e l´altro con i Taliban. La fazione guerrigliera, specializzata nello sfregiare scolare con il vetriolo, tiene il quartier generale in un campo-profughi pakistano dove la polizia potrebbe facilmente neutralizzarla, se solo lo volesse. Un´altra parte di Hezb-i-islami è presente nel parlamento di Kabul con quarantacinque deputati, dispersi in vari partiti. La maggior parte appoggia Karzai, e tenta, finora senza risultato, di convincere gli ex compagni d´arme ad abbandonare la guerriglia. Il timore di molte afgane è che questo lavorio segreto induca gli occidentali a sacrificare a una pace qualunque alcuni diritti fondamentali. Tanto più se i Taliban veri e propri diventassero un interlocutore della Nato: in quel caso otterrebbero legittimazione anche le loro idee, incluse le concezioni della forsennata setta Deobandi, per la quale le donne sono grossomodo un´umanità minore, subalterna al maschio per un disegno divino. Raddoppiando il proprio contingente in Afghanistan, Washington ha messo in chiaro che vuole negoziare da posizioni di forza, e magari non prima di un successo militare. Allo stesso tempo l´amministrazione americana cerca un accordo regionale che induca i vari protettori della guerriglia a ritirare ciascuno la propria sponsorizzazione. Questa è da tempo l´idea europea e adesso anche l´intenzione di Richard Holbrooke, l´inviato di Obama. Ma il tentativo di Holbrooke può riuscire soltanto se saranno risolte questioni confinarie che si trascinano dal Novecento (la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, non riconosciuta da Kabul, e l´assetto definitivo del Kashmir, conteso tra Islamabad e Delhi). In ogni caso, finché non saranno sopiti i conflitti che da un trentennio si riverberano in questa mischia complicata, i grandi o piccoli successi conseguiti dalle ragazze afgane non saranno meno precari dei muretti di pietra dietro i quali i soldati del maggiore Jonbozi attendono il prossimo attacco dei Taliban.

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tagli per 400 milioni di dollari sì dei sindacati chrysler a fiat - salvatore tropea (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 10 - Economia Tagli per 400 milioni di dollari sì dei sindacati Chrysler a Fiat Geithner prepara il "Chapter 11", dubbi di Marchionne Per i lavoratori in Canada e in Usa buste paga più vicine ai colleghi della Toyota Con l´entrata in gioco di Gm la partita è diventata più complessa, attesa per Obama SALVATORE TROPEA TORINO - Disco verde dei sindacati e cambio di tavolo per Sergio Marchionne i cui interlocutori, dislocati questa volta tra Washington e New York, da oggi sono le banche. Dopo la firma dei sindacati canadesi della Caw per settimane fermi su una linea di intransigenza, ieri anche con i loro colleghi americani della Uaw è stato raggiunto un accordo. Ora la strada verso l´intesa con Chrysler ha un ostacolo in meno ma non è ancora in discesa. Anche perché gli uomini del Lingotto si trovano impegnati in un negoziato a due ma con un terzo ospite a tavola che è più che un convitato di pietra e la cui irruzione ha già creato qualche problema al di qua dell´Atlantico tra Italia e Germania. Se le Fiat avesse dovuto trattare solo per l´alleanza con Chrysler le possibilità di successo sarebbero oggi molto alte, ma da quando in gioco è entrata anche la Gm con la Opel, la partita è diventata più complessa e Barack Obama dovrà esercitare, direttamente o indirettamente, tutta la sua autorità se vuole fare entrare nell´annuncio alla nazione di mercoledì prossimo un accordo equivalente al salvataggio della più piccola delle big three americane dell´auto. In questa prospettiva, l´amministrazione resta concentrata su Chrysler, ma come ha ricordato un suo rappresentante, «in una trattativa complessa come questa, non deve sorprendere il fatto che si stiano prendendo in considerazioni alternative». L´accordo con il sindacato canadese, che è stato il più duro nei giorni scorsi, è stato raggiunto nella notte di sabato su ieri. Sempre che in settimana lo approvino gli 8 mila lavoratori delle tre fabbriche Chrysler in Canada, esso dovrebbe permettere alla casa di Detroit di risparmiare fino a 200 milioni di dollari Usa all´anno di minori costi col taglio di "benefits" e dunque fuori dalla busta paga di cui i lavoratori sinora hanno goduto. Per il presidente del Caw, Ken Livenza, il «sacrificio» dei dipendenti equivarrebbe a quaranta minuti di lavoro non remunerati al giorno. «Per quel che ci riguarda» ha detto «abbiamo fatto la nostra parte: abbiamo rispettato l´obiettivo dei costi non solo stringendo la cinghia, ma anche incrementando la produttività». Alle 13, ora americana di ieri, anche i sindacati della Union Auto Worker, hanno accolto le proposte dell´azienda che, attraverso una riduzione del costo del lavoro all´incirca di 19 dollari all´ora (si ridimensiona così lo scarto con gli addetti delle fabbriche di Toyota in Usa) e una ristrutturazione del fondo pensioni, consentiranno di risparmiare altri 200 milioni di dollari all´anno. Intanto c´è attesa a Washington per la nuova offerta con la quale i creditori intendono rispondere all´ultima proposta del Tesoro americano basata su 1,5 miliardi di dollari più un 5 per cento della Chrysler ristrutturata. Come si ricorderà i creditori si erano detti disponibili a mantenere 4,5 miliardi di debito ristrutturando quindi il 35 per cento in cambio di una quota del 40 per cento della nuova società. Non c´è ancora una soluzione su questo punto sul quale si avvertirà l´effetto riflesso dell´operazione Opel. Le ultime notizie che rimbalzano dagli Usa lasciano intendere, come ha scritto nel suo sito il New York Times, che il Tesoro americano starebbe preparando per Chrysler un Chapter 11, ovvero una bancarotta pilotata, che pur entrando subito in vigore, non dovrebbe ostacolare l´alleanza con Fiat. Come dire che l´accordo potrebbe essere sottoscritto con uno dei contraenti in regime di amministrazione controllata. Una scelta che però non piace alla Fiat i cui negoziatori ritengono possa trattarsi di tattica da parte delle banche o almeno di alcune di esse.

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belpaese - alessandra longo (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 26-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 5 - Interni BELPAESE LA SUITE DI OBAMA ALESSANDRA LONGO La suite destinata a Obama è al secondo piano dell´albergo ricavato nell´ex arsenale. Manca ancora quasi tutto tranne la splendida vista che il presidente americano si perderà. Ecco: sulla sinistra, Caprera. Cade il segreto di Stato sui cantieri sardi del mancato G8 e «La Nuova Sardegna» partecipa al mesto tour del comprensorio: «Giornata umida, sembra l´inizio dell´autunno, i camion corrono vuoti...». Dentro la suite presidenziale, gli operai continuano a lavorare e, interrogati sul senso della loro missione, rispondono così: «Obama non viene? A me non importa proprio nulla se facevo la stanza per lui o per un contadino. A me importa il lavoro». Per gli arredi Bertolaso si era affidato al gusto di Antonio Marras. Ma adesso non se ne farà più nulla. Non ne vale la pena.

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IL CAVALIERE SENZA AVVERSARI (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
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Argomenti: Obama

Riccardo Barenghi IL CAVALIERE SENZA AVVERSARI Anche, persino, financo, addirittura, infine... pure il 25 Aprile è diventato suo. La Festa della liberazione ieri si è trasformata nella festa di Berlusconi, nel suo ennesimo trionfo mediatico e politico. Dopo la vittoria elettorale dell'anno sorso, la pulizia di Napoli dai rifiuti, la gestione del terremoto con la sua presenza costante, gli applausi ricevuti dalle vittime del sisma (di solito i governanti venivano fischiati), dopo l'idea del G8 all'Aquila (riuscirà a portare Obama e gli altri leader del mondo tra i sinistrati), adesso anche una ricorrenza storicamente di sinistra, un appuntamento che nel '94 segnò l'inizio della fine del suo breve governo, il primo con dentro ministri ex fascisti, adesso anche questa è diventata berlusconiana. Grazie a lui, ovviamente, che è stato finalmente - dopo 14 anni di colpevole assenza - presente sulla scena, e grazie anche al discorso che ha fatto. Intelligente, bisogna ammetterlo, capace di riconoscere addirittura (addirittura per lui) i meriti dei comunisti che tanto odia, in grado di distinguere tra chi combatteva dalla parte giusta e chi da quella sbagliata. Evitando insomma di mettere tutti sullo stesso piano perché in quel caso - anche lui se n'è reso conto - non esistevano due ragioni e due torti. Ma anche grazie al suo antagonista politico: Franceschini gli ha lanciato un invito che assomigliava a una sfida e gli è tornato indietro un boomerang. Ora, quanta strumentalità ci sia in questa mossa di Berlusconi lo vedremo nel futuro, intanto dovrebbe dar retta proprio a Franceschini che gli chiede di mettere il veto al progetto di legge che equipara partigiani e repubblichini. Vedremo se lo farà. Decisamente strumentale appare invece la sua proposta di cambiare nome alla festa, e non certo perché il concetto di libertà non sia adeguato, anzi semmai comprende in se stesso quello della liberazione. Ma perché si tratta con tutta evidenza di voler segnare, anche semanticamente, uno strappo col significato che finora ha avuto quest'appuntamento, un significato troppo di sinistra (per lui). E poi perché, diciamolo francamente, la libertà è diventata, almeno in teoria, la sua bandiera, il suo partito così si chiama, dunque suonerebbe male, diciamo che sarebbe insomma troppo smaccato rinominare il 25 Aprile a sua immagine e somiglianza. Ma si tratta di particolari, la sostanza è che l'epoca in cui viviamo è ormai scandita da lui, dalle sue iniziative, dalle sue vittorie, dalle sue trovate. Dicono che il suo prossimo obiettivo sia il Quirinale, tanto che il discorso di ieri a molti è suonato «presidenziale». Può darsi, ma può anche essere che invece lui non abbia alcuna intenzione di farsi rinchiudere al Colle senza poteri, quantomeno dovrebbe prima riuscire a cambiare la Costituzione per instaurare anche in Italia una sorta di presidenzialismo. Oppure, più facilmente, potrebbe puntare a cambiare la Costituzione nei fatti, a cominciare dalle elezioni europee: se ottenesse, come è probabile che accada, una sorta di plebiscito popolare (si presenta in tutte le circoscrizioni, saranno milioni e milioni le preferenze per lui), a quel punto diventerebbe più di un presidente del Consiglio, più di un capo di Stato, sarebbe in poche parole l'uomo solo al comando. E tutto questo anche a causa dell'assenza o dell'incapacità dell'opposizione che c'è. La quale è costretta o a seguire l'antiberlusconismo di Di Pietro, che però ha una sua efficacia anche a sinistra (e lo si vedrà dai risultati elettorali), oppure ad affidarsi alle improvvisate e improvvide iniziative del segretario del Pd. Che per alcune settimane ha ripetuto come un disco rotto che Berlusconi non doveva candidarsi senza rendersi conto che agli italiani non gliene frega assolutamente nulla, poi è passato a battere sul tasto della data del referendum e suoi relativi costi, anche qui senza capire il disinteresse dell'opinione pubblica nonché il disastroso esito che avrebbe per il suo partito un'eventuale vittoria dei sì. Infine ha tirato fuori il coniglio del 25 Aprile, sfidando Berlusconi a partecipare alle celebrazioni. Geniale. Il premier ha colto la palla al balzo, ci è andato, anzi è andato tra le macerie di Onna, ha fatto un discorso equilibrato ed egemone, appunto presidenziale, si è assicurato i titoli dei telegiornali di ieri e dei giornali di oggi, oltre ovviamente all'apprezzamento degli italiani, anche di molti tra quelli che non lo amano. A questo punto, o Franceschini ripensa e cambia radicalmente la sua strategia, oppure va fino in fondo sulla strada imboccata: invita Berlusconi al Primo Maggio, convince gli elettori di centrosinistra a votare per lui e infine lo fa eleggere per acclamazione leader del Pd.

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Per il supervertice Silvio sceglie già la camera a Obama (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
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LA RICOGNIZIONE L'OBIETTIVO Retroscena L'OSPITALITA' LA SITUAZIONE A Onna il premier pensa anche al G8 Per il supervertice Silvio sceglie già la camera a Obama Il Cavaliere avrebbe già deciso quale camera affidare alla Merkel e Sarkozy L'operazione punta a trasformare la ricostruzione in un grande evento Il complesso che è stato individuato è quello delle Fiamme Gialle a Coppito Si arriva in elicottero E soprattutto c'è posto per cinquemila persone ONNA (L'AQUILA) Obama? Consegnato in caserma. E come lui, faranno un'esperienza di vita militare tutti i grandi del pianeta invitati al prossimo G8. L'unico posto dove a luglio potranno essere alloggiati, per effetto del trasloco da La Maddalena in Abruzzo, è un vasto anonimo complesso della Guardia di Finanza, la Scuola per Ispettori e Sovrintendenti che sorge in località Coppito, pochi chilometri sotto L'Aquila. Berlusconi è andato a ispezionarla ieri con un pugno di fedelissimi e l'onnipresente Bertolaso. Voleva essere certo che lo spostamento fosse davvero una buona idea. S'è fermato a pranzo, ha gustato il rancio, gli hanno fatto visitare la caserma palmo a palmo. Pare ne sia rimasto entusiasta. Chissà che cosa ne penseranno invece Carla Bruni e Michelle Obama, casomai decidessero di accompagnare i rispettivi consorti. Affascinano il Cavaliere gli immensi hangar, i cortili sconfinati, le vaste furerie, le aule dove vengono sgrezzate le reclute. Si arriva e si parte con l'elicottero, comodissimo. Qualche problema c'è. Le scosse del terremoto hanno aperto crepe inquietanti sui muri, come minimo servirà una bella mano di stucco. I pavimenti di granito, opportunamente tirati a lucido, saranno una sciccheria. Camere e camerate possono contenere complessivamente 5 mila brande: tante, ma appena sufficienti per il grande circo che è diventato il G8. Berlusconi vuole fare spazio per le delegazioni e pure per i giornalisti. Pare abbia già deciso dove sistemare gli ospiti più attesi, Sarkozy qui e la Merkel là. Dalle finestre si vedono alte montagne innevate. Gran Sasso sullo sfondo. Capannoni commerciali in primo piano. Campi concimati. Proprio davanti all'ingresso brucano pecore e razzolano galline, ignare. La scelta del Cavaliere fa pensare. Al G8 di Genova, nel 2001, si preoccupava delle fioriere e delle mutande stese di fronte al Palazzo Ducale. Adesso sembra quasi che voglia far colpo non con la bellezza ma con il suo opposto. O magari ha in mente effetti speciali di tutt'altra natura. Tipo trasformare la ricostruzione dal terremoto in uno spettacolo degno di ammirazione in tutto il mondo, cantieri gru betoniere ovunque, l'Italia in ginocchio che si rialza da sola... Vedremo fra tre mesi. Per il momento siamo ancora alle tendopoli. Pioggia e fango per migliaia di sfollati. Il Cavaliere è iper-presente, incassa manifestazioni di gratitudine in certi casi sconvolgenti, vecchi disperati che arrivano a baciargli le mani (è successo ieri a Onna). Ricambia dispensando consigli di senso comune: «Ci sono ancora posti in albergo, andate lì che fa freddo...». Da vero grande capitalista, conosce i trucchi dei più abbienti. Nei loro confronti non predica l'esproprio proletario, ma va vicino: «A L'Aquila ci sono 1500 appartamenti costruiti e tenuti sfitti», avverte, «andateci portandovi i mobili...». E quelli che non hanno neppure il letto, rimasto sepolto sotto le macerie? Niente paura, sorride a trentadue denti il premier, «basta andare all'Ikea, e con pochi soldi si arreda casa». Già, i soldi. «Magari, e mi viene in mente adesso, si farà un provvedimento per risarcirvi anche di questi pochi soldi». \

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Scricchiola la tesi "due popoli due Stati" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
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DIPLOMAZIA AL LAVORO IN VISTA DELL'INCONTRO TRA IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI E IL PREMIER ISRAELIANO SULLA CRISI IN MEDIORIENTE Scricchiola la tesi "due popoli due Stati" Una pioggia di dettagli sulle «nuove idee» di Netanyahu precede la sua visita a Washington Il suggerimento di Oren «Offrire alla Giordania il ritiro unilaterale dalla West Bank» [FIRMA]MAURIZIO MOLINARI CORRISPONDENTE DA NEW YORK Un best seller, il padre centenario, due accademici e una miriade di indiscrezioni: sono i vettori grazie ai quali, a tre settimane da giorno in cui sarà ricevuto alla Casa Bianca, il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta facendo trapelare le «nuove idee» sul Medio Oriente che esporrà a Barack Obama. Laureato al Mit, studente ad Harvard, a lungo residente a Boston nonché già viceambasciatore a Washington e capo della missione all'Onu, Netanyahu è il politico israeliano che meglio conosce gli Stati Uniti e la scelta di far precedere l'incontro nello Studio Ovale da una pioggia di dettagli su cosa ha in mente ripete la tattica di comunicazione che la Casa Bianca adopera per preparare il pubblico alle sue iniziative. Tutto è iniziato con l'arrivo a New York di Yossi Klein Ha-Levi, un accademico della Shalem Center di Gerusalemme, che durante una serie di conferenze ha esposto la tesi dell'«impossibilità della soluzione dei due Stati» motivandola con il fatto che «i palestinesi l'hanno rifiutata prima quando Arafat disse di no a Barak a Camp David nel 2000 e poi quando Abu Mazen ripropose il rifiuto a Olmert nel 2008». Per l'accademico, considerato vicino al premier, dietro il «rifiuto di Arafat e Abu Mazen ad ottenere praticamente tutta la Cisgiordania e metà di Gerusalemme c'è la non volontà di rinunciare al diritto dei profughi palestinesi a tornare dentro i confini di Israele pre-1967» e dunque l'ostacolo è tale da «far dichiarare chiuso il capitolo dei due Stati» aperto con gli accordi di Oslo del 1993. È una tesi convergente con il libro «One State, Two States» dello storico Benny Morris arrivato in questi giorni nelle librerie - premiato dalle vendite - descrivendo il fallimento del progetto di Stato binazionale e quello dei due Stati per concludere che l'unica alternativa è «riconsiderare la separazione della Giordania dalla West Bank dando inizio ad un negoziato trilaterale israelo-giordano-palestinese per arrivare ad una soluzione dei due Stati» dove quello arabo potrebbe essere una confederazione giordano-palestinese alla quale, appena possibile attaccare Gaza. Per avvalorare questo scenario Michael Oren - un altro accademico dello Shalem Center, dato come possibile ambasciatore negli Usa - si è detto a favore del «ritiro unilaterale dalla West Bank con lo smantellamento degli insediamenti» mettendo sul piatto quella che potrebbe essere l'offerta ai giordano-palestinesi se diventassero la controparte «per la pace». Se queste possono essere le anticipazioni sulla pace con i palestinesi che Nethanyahu ha preannunciato al mediatore George Mitchell, i diplomatici israeliani di carriera mettono invece sul piatto la questione-Iran. Daniel Ayalon, vice ministro degli Esteri, spiega al «Washington Post» che «per avere progressi con i palestinesi bisogna evitare che l'Iran li boicotti» e ciò significa che Netanyahu farà passi avanti solo se Obama dimostrerà prima determinazione nell'impedire all'Iran di avere l'atomica e continuare a foraggiare Hamas e Hezbollah. Quando Ehud Barak, oggi ministro della Difesa, parla di «soluzione regionale» si riferisce ad uno scenario nel quale disinnescando il pericolo-Iran si arriva alla pace. Ma non è tutto. In America è arrivato anche Benzion, il 99enne padre del premier, per presentare l'ultimo libro sull'Inquisizione e far sapere a Obama, attraverso una raffica di interviste nella roccaforte liberal di Boston, che «il problema di fondo resta il fatto che gli arabi non ci vogliono».

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"Basta con le utopie Obama accetti il realismo di Bibi" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
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IPOTESI BINAZIONALE UN'IDEA PROVOCATORIA Intervista IN LINEA COL PASSATO Benny Morris "Basta con le utopie Obama accetti il realismo di Bibi" «È impossibile: nessuno dei due popoli accetterebbe di essere governato dall'altro» «La confederazione palestinese può non convincere Abdallah ma è una base di partenza» FRANCESCA PACI «Dopo il no di Arafat a Camp David nessuno crede più nella possibilità dei due Stati» CORRISPONDENTE DA LONDRA Quando l'amministrazione americana realizzerà che i palestinesi sostengono sempre meno la creazione di due stati per due popoli e che non c'è margine per un unico paese binazionale, dovrà studiare soluzioni alternative». Benny Morris, enfant terrible dell'accademia israeliana, idolo della sinistra all'epoca del saggio «The Birth of the Palestinian Refugee Problem» e oggi icona del postsionismo, adora sparigliare le carte. Al presidente Barack Obama, che si prepara a discutere con il premier Bibi Netanyahu «ipotesi al momento impraticabili», suggerisce la terza via, quella di cui parla nel suo nuovo libro «Due popoli, una terra» (Rizzoli): una confederazione di Giordania, Cisgiordania e, potenzialmente, Gaza. Il conflitto mediorientale ha visto giorni peggiori: Hamas e Fatah si combattono a bassa intensità, Israele aspetta in sordina il decollo del nuovo governo, Washington sprizza buona volontà. Lei però, resta pessimista. Perchè? «È un periodo di relativa calma, è vero. Ma le prospettive di pace sono nere. Dopo il no di Arafat a Barak a Camp David nel 2000, nessuno crede più nella possibilità di veder nascere due stati. Hamas dice chiaramente di essere contrario, l'Autorità palestinese del presidente Abu Mazen s'impegna a parole ma sempre più debolmente, le colonie ebraiche in Cisgiordania rappresentano un ulteriore ostacolo, se non il maggiore, alla divisione lungo i confini del 1967. D'altra parte l'ipotesi binazionale, così caldeggiata dall'estrema sinistra occidentale e dalla destra araba, non ha alcuna chance: c'è il problema della crescita demografica degli arabi che in pochi anni prenderebbero il sopravvento sugli ebrei, ma ci sono soprattutto enormi differenze culturali e religiose. Nessuno dei due popoli accetterebbe mai di essere governato dall'altro». Cosa propone per uscire dall'impasse? «Gli arabi rifiuteranno sempre una Palestina realizzata sul 20% di quella storica al confine con Israele che mantiene l'80% del territorio. Ma forse potrebbero prendere in considerazione uno stato composto da Giordania, Cisgiordania e Gaza, la vecchia ipotesi della confederazione oggi mi appare più logica dell'utopia clintoniana. Non ho dubbi sulla contrarietà di Hamas, diverse fazioni di Fatah invece avrebbero molto da guadagnare». È il piano alternativo di cui il premier israeliano Netanyahu parlerà al presidente americano Obama nei prossimi giorni? «Potrebbe essere. Non so cosa progetti Netanyahu, a volte sembra sostenere la soluzione due stati, altre volte privilegia la pace economica rispetto a quella politica. Dipenderà da Obama e il suo approccio è decisamente molto pragmatico. La confederazione palestinese potrebbe essere un'idea provocatoria». Come la prenderebbe la monarchia hashemita? «Decisamente male, la Giordania ha già combattuto una guerra civile contro i palestinesi. In questo caso poi, l'opzione giordana non sarebbe un'annessione dei territori palestinesi come quella immaginata dai laburisti israeliani negli anni '70 ma una confederazione a maggioranza palestinese. È possibile che re Abdallah abbia già palesato la sua contrarietà alla Casa Bianca. Magari però, protetta da una forza internazionale, la monarchia potrebbe finire per lasciarsi persuadere». Sempre ammesso di convincere Obama, un fermo sostenitore di Oslo, della Road Map, dei due Stati confinanti. «È vero, Obama si è mosso finora sul sentiero tracciato da Bill Clinton. Ma si renderà presto conto che gli arabi sono i primi a non volere quella soluzione. Non dico che la confederazione abbia grandi possibilità, ma le varie mappe del Medioriente immaginate in questi anni, sono carta straccia». Il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman ripete di avere delle idee sull'argomento. Riesce a immaginare quali? «Credo che nel breve periodo il conflitto israelo-palestinese perderà importanza rispetto alla minaccia iraniana, unica vera preoccupazione israeliana. L'ipotesi più realistica è il mantenimento dello status quo, gli israeliani che dominano la Cisgiordania, i palestinesi che dominano Gaza, la violenza quotidiana che domina la regione con punte più acute nelle zone di confine». Cosa si aspetta dal presidente americano sul fronte iraniano? «Ho l'impressione che la politica di pace inaugurata da Obama legga la sfida iraniana alla luce del più grande problema islamico e prediliga un tono conciliante che non sarà premiato dai suoi interlocutori».

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"Bin Laden? È come Bush: ha fallito" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
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Gilles Kepel DOPO IL 2001 Domenica con "Bin Laden? È come Bush: ha fallito" Politologo e studioso del mondo islamico «Gli Usa hanno deluso gli arabi e Al Qaeda i musulmani» Alain Elkann Lei è professore ordinario di Scienze Politiche e specialista del mondo musulmano alla scuola di Sciences Politiques di Parigi. Di cosa si sta occupando in questo momento? «Il mio ultimo libro pubblicato in Italia da Feltrinelli si intitola "Oltre il terrore e il martirio: il futuro del Medio Oriente"». Qual è questo futuro? «Il futuro non può essere peggio del passato perché il passato negli ultimi otto anni era caratterizzato dal confronto tra due grandi "narrazioni"». E quali sono queste narrazioni? «Una è quella americana della guerra al terrore pensata e organizzata dal presidente Bush e dagli ideologi neoconservatori. Per loro presente e futuro sono caratterizzati dalla necessità di organizzare il mondo in modo unipolare sotto l'egemonia benevolente degli Usa. In questo contesto il Medio Oriente deve essere risistematizzato promuovendo la democrazia. E la seconda "narrazione" è quella opposta di Bin Laden: la Jihad attraverso il martirio, secondo cui l'attentato dell'11 settembre deve annunciare l'inizio della fine dell'Occidente. Ma come cerco di spiegare nel mio libro queste due grandi storie sono entrambe naufragate. Guantanamo e Abu Ghraib hanno dato un'immagine disastrosa degli Stati Uniti e non hanno convinto la società civile araba della necessità di seguire la leadership americana. Al Qaeda non è riuscita a mobilitare le masse musulmane in una Jihad globale contro l'Occidente». E come vede lei l'apertura di Obama verso l'Iran? «Non può fare diversamente perché questa è la situazione che gli ha lasciato in eredità il suo predecessore Bush: l'impantanamento americano in Iraq ha rinforzato l'Iran che ha una possibilità di ricatto politico e militare molto forte sul ritiro delle forze americane dall'Iraq». E cosa succederà? «Obama propone un accordo globale all'Iran che garantisca la sicurezza della reintegrazione nel sistema economico mondiale in cambio della loro collaborazione per far uscire in modo tranquillo le truppe americane dall'Iraq e per lottare insieme contro il terrorismo sunnita in Pakistan e in Afghanistan. Infatti questo minaccia le province orientali dell'Iran dove ci sono attacchi dei talebani sunniti contro gli sciiti. E forse per permettere che gli alleati dell'Iran - Hezbollah e Hamas - adottino una posizione più malleabile per la pace con Israele. Ero a Washington pochi giorni fa e questa è la strategia di Obama e dei suoi consiglieri quale l'ho capita». E Israele? «Ha una coalizione di governo molto fragile. Netanyahu e Lieberman vogliono solo "una pace economica" con i palestinesi e non vogliono sentir parlare della soluzione dei due Stati. Ma Israele non può alienarsi il sostegno militare e politico americano. Penso che vedremo nei prossimi mesi una grande tensione». E lei cosa pensa? «Penso che non ci sia altra alternativa all'integrazione dell'Iran nel processo di pace e nel grande Medio Oriente, ma tutto dipenderà dalle negoziazioni tra l'Iran e l'Occidente. Queste negoziazioni sono un mercato e gli iraniani che hanno da poco accusato una giornalista americana iraniana di essere una spia dimostrano che vogliono far salire il prezzo dell'asta nella negoziazione che è aperta». E cosa succederà? «Penso che molto dipenderà dalle elezioni presidenziali a giugno: se Ahmadinejad viene rieletto vuol dire che gli iraniani si sentono abbastanza forti per fare pochissime concessioni. Ma credo che i dirigenti del clero iraniano pensino alla loro sopravvivenza a lungo termine e si proiettino in una strada del tipo cinese, dove l'apparato del partito comunista conserva tutto il potere economico e politico ma non dà nessuna importanza all'ideologia, vista la grande sfida del futuro del Medio Oriente». Ma il fanatismo islamico oggi è in crescita o in crisi? «È in crisi perché il progetto di Jihad globale di Bin Laden è stato un fallimento politico e sociale. Tra gli estremisti stessi ci sono dibattiti violentissimi sulla linea da proseguire e accuse che fanno pensare alle accuse del movimento comunista 15 anni fa». In che senso? «Nel senso che il movimento Hamas, che ha utilizzato il terrorismo e gli attentati suicidi, oggi sta negoziando per costruire un governo di unità palestinese che si adatterà alla presenza di Israele, e come me lo hanno spiegato lo scorso anno a Gaza i dirigenti del movimento. E questo malgrado la guerra di Gaza tra dicembre e gennaio». Ma il mondo musulmano oggi è molto più forte e potente? «E' forte per la sua demografia e nello stesso tempo debolissimo per la sua demografia. Non c'è lavoro e c'è un malgoverno generale e le tensioni interne sono terribili tra le minoranze al potere e le masse diseredate».

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Percfest 2009, Elio e gli altri big (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 26-04-2009)
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CONCERTI, «MEMORIAL NACO», CORSI, SEMINARI E JAM SESSION Percfest 2009, Elio e gli altri big Sei giorni di rassegna per un totale di 120 eventi [FIRMA]MASSIMO BOERO LAIGUEGLIA Il ritorno di Elio e le Storie Tese al gran completo, con le loro imprevedibili performance, e la prima volta di Francesco Cafiso, il giovane sassofonista che ha conquistato il jazz americano ed è stato invitato a suonare (dal trombettista Wynton Marsalis) alle celebrazioni per l'elezione del presidente Barack Obama. Sono solo due delle numerose chicche contenute nel programma del «Percfest 2009», la festa europea delle percussioni che si terrà a Laigueglia dal 23 al 28 giugno. La ricca sei giorni dedicata alla musica percussiva internazionale è stata presentata ieri pomeriggio, in piazza Marconi, durante il concerto «Travel Notes», che ha visto protagonista il Rosario Bonaccorso Quartet. Sul palco allestito a pochi passi dal mare, dove si è tenuta l'anteprima della rassegna, si esibiranno anche quest'anno molti big del panorama jazz mondiale. Ecco il programma della 14ª edizione del «Percfest» nel dettaglio. Ad inagurare la serie dei grandi concerti serali sarà il Francesco Cafiso Italian Quartet di scena a Laigueglia martedì 23 giugno. L'ensemble guidato dal quotato musicista sarà il batterista Roberto Gatto ("Remembering Shelly" New Project). Il 24 giugno il pianista Danilo Rea, con Diana Torto (voce), Franco Testa (contrabbasso) ed Ellade Bandini (batteria), proporranno «in jazz» le colonne sonore dei film che hanno fatto la storia del cinema. La Ambrosia Brass Band porterà invece a Laigueglia una ventata di musica stile New Orleans. I due concerti serali del 25 giugno saranno proposti dalla leggenda della tromba Tom Harrell con il suo Quintet e dal carismatico percussionista portoricano Ray Mantilla. Il batterista afroamericano Hamid Drake, assieme al vibrafonista Pasquale Mirra saranno sotto i riflettori il 26 giugno. Seguiti dal tributo a Nat King Cole di Adrienne West (con Dado Moroni, Rosario Bonaccorso e Alessio Menconi). Quindi nel weekend, grosse sorprese: la Percfest Percussion Unlimited ed Elio e le Storie Teste (sabato 27), infine le sorprese della tradizionale Notte dei tamburi (domenica 28).Oltre alla rassegna di grandi appuntamenti jazz, l'annuale Festa europea delle percussioni (23-28 giugno) offrirà anche quest'anno il «Memorial Naco», il concorso internazionale per percussionisti creativi. Una giuria, presieduta da Ellade Bandini, Gilson Silveira e Billy Cobham, selezionerà (tra le centinaia di richieste) sei formazioni (solisti e gruppi), che si esibiranno per l'ulteriore selezione durante i primi giorni del «PercFest», il vincitore sarà eletto sabato 27 giugno diventando cosi parte integrante della Great Naco Orchestra che suonerà nella «Notte dei tamburi» (domenica 28 giugno). Nei sei giorni della kermesse si alterneranno complessivamente 120 eventi a ingresso gratuito che coinvolgeranno migliaia di appassionati e turisti. Si tratta di una serie di iniziative musical-didattiche (circa venti ogni giorno) che inizieranno al mattino sulla spiaggia con un ritmato appuntamento con il fitness, proseguiranno nelle piazzette del centro storico e termineranno a notte fonda nei locali dove si svolgeranno le jam session. Tra queste ci saranno Corsi di Qjgong a cura di Renate Bauer, Corsi di musica dal mondo, ovvero interessanti viaggi nelle culture musicali e nel mondo della percussione per conoscere la musica di Cuba, Africa, Perù, Brasile, Europa. Oltre a seminari specifici di batteria e altri strumenti.\

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