CENACOLO
DEI COGITANTI |
aspettando l'annuncio di
obama - torino ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Pagina 1 - Prima Pagina Il
retroscena Aspettando l´annuncio di Obama TORINO Uno scontro tra Italia e
Germania, sul futuro della Opel e sul risiko delle alleanze mondiali dell´auto.
Il vertice dell´Unione Europea, a sorpresa, si è diviso sulla prospettiva che
la Fiat, dopo Chrysler, si possa annettere anche la casa tedesca.
chrysler, verso il sì dei
sindacati ora braccio di ferro con le banche - (segue dalla prima pagina)
salvatore tropea ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: le banche Mercoledì annuncio di
Obama, ma Gm entra nella partita Testo per misurare lo spazio equivalen
equivalente di 001 righe cartella. Testo per misurare lo spa (SEGUE DALLA PRIMA
PAGINA) SALVATORE TROPEA Una incauta presa di posizione contro questa
operazione del commissario all´Industria di Bruxelles, Guenter Verheugen,
scatena le reazioni italiane sui fronti della politica,
michelle più popolare del
marito piace al 79% degli americani
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Dopo i suoi primi cento giorni alla
Casa Bianca Michelle Obama gode di una popolarità superiore a quella pur alta
del marito. Mentre le ultime rilevazioni hanno dato il presidente Barack Obama
un 65% di gradimento, un sondaggio del quotidiano nazionale Usa Today e della
Gallup ha rilevato che il tasso di popolarità di Michelle Obama è pari al 79%.
l'armenia ricorda il
genocidio istanbul: "sì alla riconciliazione"
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Sì alla riconciliazione"
ISTANBUL - L´Armenia ricorda il massacro subito, Barack Obama non pronuncia la
parola «genocidio», e la Turchia si prepara ad aprire il confine fra Ankara e
Erevan. E´ una vittoria della diplomazia quella che presto si potrà festeggiare
nella turbolenta area del Caucaso. Il ghiaccio fra Armenia e Turchia è rotto.
la politica accorciata -
(segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: è lo stile di Obama (se gli andrà
bene, come tutti speriamo). In questo senso, credo che al nostro centrosinistra
farebbe bene un po´ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica.
Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie ?
"faccio brutta new
york per una storia d'amore che non dà felicità" - antonio monda new york
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: la tengo nella mia sfera privata e
penso che Obama abbia le carte per passare alla storia come grande presidente
La filosofia del protagonista è che la vita è una esperienza tragica, l´unico
sollievo è ciò che funziona nel singolo momento ANTONIO MONDA NEW YORK Dopo
quattro film girati in Europa, Woody Allen torna ad ambientarne uno a New York
intitolato Whatever works,
la gran torino tra obama e
berlusconi ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Torino La gran torino tra obama e
berlusconi Sulla crisi dell´industria dell´automobile, Barack Obama non ha
esitato a mettere in campo una task force per cercare una soluzione in grado di
garantire i posti dei lavoratori americani interessati. Si vedrà a giorni con
quali prospettive per il futuro della Chrysler e della Gm - perché è di queste
che si parla -
la gran torino tra obama e
berlusconi ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Pagina XIII - Torino La gran torino
tra obama e berlusconi (segue dalla prima di cronaca) Non appena la caduta
delle vendite di auto ha cominciato a toccare da vicino la Germania, ha messo
in atto una serie di misure per attenuarne gli effetti su quello che è da sempre
il primo mercato europeo del settore.
troppo facile gridare
negro a un ragazzino di 18 anni ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: infelice e inopportuna) del nostro
Premier nei confronti di un Obama lampadato? Dove? Forse perché difendere un
ragazzo di diciotto anni, che aspira ad onorare la maglia della nazionale, è
meno clamoroso che attaccare un politico? Due pesi e due misure intitolava
Tuttosport, commentando la chiusura per razzismo dello stadio di Torino.
i taliban alle porte di
islamabad l'esercito pronto allo scontro - francesca caferri
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: amministrazione Obama verso il
Pakistan ? l´inviato speciale del presidente, Richard Holbrooke, ha ribadito
pochi giorni fa che gli aiuti da ora in avanti saranno subordinati a risultati
nella lotta ai Taliban ? ha esacerbato l´opinione pubblica e reso ancora più
debole il governo del premier Yusuf Raza Gilani e del presidente Asif Ali
Zardari.
genocidio, istanbul
"sì alla riconciliazione"
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Intanto Barack Obama ha ricordato
il tragico evento ma senza usare il termine «genocidio». La ricorrenza è caduta
pochi giorni dopo la storica intesa con la Turchia su una «roadmap» per la
normalizzazione dei rapporti e l´Armenia non ha voluto alzare i toni.
l'instabile paese delle
atomiche e la fine di un rapporto con gli usa - guido rampoldi
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Da quando si è insediato Obama, la
frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no
le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze
armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini.
il compleanno tibetano che
pechino non vuole - (segue dalla copertina) dal nostro corrispondente
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Hu Jintao ha lanciato un
avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva
il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet
il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte
del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama.
- leonardo coen mosca
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Potrebbe Obama influire in questo
processo politico? «Finché il regime in Russia rimarrà antidemocratico,
corrotto ed autoritario, ci saranno delle profonde discordie ideologiche fra
Obama e le autorità russe. La democrazia gli ha permesso di diventare
presidente.
exploit di michelle obama
è più popolare di barack ( da "Repubblica,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Pagina 20 - Economia Exploit di
Michelle Obama è più popolare di Barack Dopo 100 giorni alla Casa Bianca
Michelle Obama batte in popolarità il marito. Il presidente è al 65% di
gradimento. La first lady al 79%
"sbagliato alzare le
tasse ai ricchi così si torna alla lotta di classe" - luisa grion
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: come negli Usa dove molti manager
si sono schierati con Obama E´ giusto che chi ha di più dia di più, ma non si
deve criminalizzare chi ha la fortuna di avere redditi alti e paga tutte le
tasse LUISA GRION ROMA - Chi più ha, più deve dare: sul principio in sé, Matteo
Colaninno - deputato Pd che fu ministro ombra allo Sviluppo economico con
Veltroni - è del tutto d´accordo.
jolie e chávez, se i
testimonial involontari fanno vendere
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: presidente venezuelano Hugo ChÁvez
che regala a Barack Obama una copia di Le vene aperte dell´America Latina di
Eduardo Galeano, durante il summit delle Americhe. Il libro è passato in 24 ore
dal 734esimo posto al secondo nella classifica dei più venduti su Amazon. E se
la versione inglese ha scalato la graduatoria ancora meglio è andata
all´edizione spagnola che è balzata dalla 47.
La Casa Bianca: lavoriamo
per intesa su Chrysler ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: L'amministrazione di Obama ha fatto
sapere che sta esaminando «tutte le eventualità». «Il presidente, la sua task
force sul settore auto e tutti gli azionisti lavorano 24 ore al giorno per
arrivare a un accordo che protegga i posti di lavoro di Chrysler» ha detto il
portavoce Robert Gibbs.
E con i test l'America
scopre che le banche tengono ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Il riferimento è alle dimissioni di
Rick Wagoner (Gm) pretese dal presidente Obama il mese scorso. La Fed preso in
considerazione due diversi scenari di crisi. Il primo con una contrazione del
Pil del 2% e un tasso di disoccupazione all'8,4% nel 2009, seguito da una
crescita del 2,1% e un tasso di disoccupazione dell'8,8% nel 2010.
La risposta degli Usa:
Argomenti:
Obama
Abstract: «che io invidio all'Europa»,
dichiarò Obama all'inizio del mese in un discorso agli studenti europei a
Strasburgo, arriveranno dai 787 miliardi da lui stanziati per la ripresa
dell'economia. Obama ha già tracciato dieci corridoi di mille chilometri di lunghezza
in media, dove i treni correranno a oltre 250 km orari.
Marina, torturata a Evin:
Argomenti:
Obama
Abstract: Qualcosa sta cambiando però: le
aperture di Obama a Teheran, le prossime presidenziali in Iran. Siamo a una
svolta? «Obama porta una nuova speranza, dopo i disastri di Bush. E credo che
in giugno il candidato moderato Mir-Hossein Mousavi abbia buone chance, la
gente ma anche i khomeinisti sono stanchi di Ahmadinejad.
Virus dai maiali all'uomo
Messico, decine di morti ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Una possibile emergenza che è
finita anche sulla scrivania di Barack Obama: «Il presidente è stato informato
e segue la situazione », hanno comunicato i portavoce. Nessuno ha intenzione di
spandere il panico ma da Atlanta, il Cdc, il centro specializzato nel seguire
questo tipo di fenomeni, ha avvertito: «Forse è troppo tardi per impedire
l'epidemia».
G8 sull'ambiente, solo una
Carta sulla biodiversità ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Anche perché l'entusiasmo per
l'arrivo al summit di Lisa Jackson, l'inviata di Barak Obama responsabile
dell'agenzia di protezione ambientale, si è subito smorzato dietro ai suoi «non
posso parlare ». Soltanto qualche parola di apprezzamento per il tema (dagli
Stati Uniti proposto) sul problema della tutela della salute dei bambini.
L'IMBROGLIO AFGANO PERCHÉ
È DIFFICILE USCIRNE ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: ma il ritiro delle truppe
regalerebbe ai talebani un successo che avrebbe effetti disastrosi sulla
stabilità dell'intera regione. Il quadro potrebbe forse migliorare se la Nato
potesse contare sulla collaborazione, anche militare, della Russia e dell'Iran.
Ma questo dipende da Obama e dalle iniziative che prenderà nei prossimi mesi».
Senza titolo.
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: passata dalle mine antiuomo alla
produzione civile Comito è convinto che il percorso si possa invertire: che
l'avanguardia tecnologica non siano i software da guerra-playstation, ma le
energie rinnovabili. In fondo, è la strada di Obama: quella che gli pseudorealisti,
contigui al Sordi di Finché c'è guerra c'è speranza, hanno subito tacciato di
demagogia.
L'alter ego di Woody
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Mettiamo il caso che il presidente
Obama proponga un piano bizzarro per 'restaurare' l'economia. Se questo suo
progetto non fa del male ad alcuno e rasserena gli animi, whatever works. Ossia
tutto ha la possibilità di funzionare, al di là di ogni diversità di opinione,
speculazione o economico interesse.
Mike in mongolfiera per il
debutto da Fiorello ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: sembri Obama! ». La gag, che segna
l'ingresso ufficiale del decano dei presentatori a Sky, prosegue per qualche
minuto nel Palatenda di piazzale Clodio, gremito di pubblico, dove si realizza
lo show televisivo in onda stasera alle 21.15 su SkyUno. Battute a raffiche,
anche di vento, finché Mike, provato dall'altitudine,
Un lichene di nome Obama
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Corriere della Sera sezione:
Scienza data: 25/04/2009 - pag: 30 Un lichene di nome Obama Ricercatori
dell'università californiana di Riverside hanno scoperto una nuova specie di
lichene alla quale è stato dato il nome del presidente Barack Obama: si chiama
infatti Caloplaca obamae
Avvio
Argomenti:
Obama
Abstract: incontro tra il presidente
americano Barack Obama e quello russo Dimitri Medvedev, in agenda a luglio. I
due responsabili hanno detto che l'obiettivo finale dei colloqui è preparare
una bozza di accordo entro la fine dell'anno. Il trattato che stabilisce il
numero massimo di testate consentite per Russia e Usa è lo Start e scade il 5 dicembre
prossimo.
G8 all'Aquila disco verde
dall'Europa ( da "Stampa,
La" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Tokyo Obama aspetta l'ok dai
servizi di sicurezza [FIRMA]EMANUELE NOVAZIO ROMA Dopo il governo britannico,
anche quelli tedesco e giapponese dicono sì allo spostamento del G8 di luglio
all'Aquila, mentre da Washington arriva la conferma che la disponibilità di
principio della Casa Bianca non ha ancora ottenuto il via libera ufficiale dei
servizi di sicurezza e dai responsabili dell'
Obama non parla di
genocidio ( da "Corriere
della Sera" del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: 17 In breve Armeni Obama non parla
di genocidio WASHINGTON Migliaia di armeni hanno commemorato ieri a Erevan il
milione e mezzo di vittime massacrate dall'impero ottomano tra il 1915 e il
'17. A Washington Barack Obama ha ricordato il tragico evento senza usare il
termine «genocidio», preferendo non interferire nel processo distensivo in
corso tra Erevan e Ankara,
Finestra sull'America
( da "Stampaweb, La"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Obama di «farsi largo nel mondo
parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più
minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento
degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate»
degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo
lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia
L'instabile paese delle
atomiche e la fine di un rapporto con gli Usa
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Da quando si è insediato Obama, la
frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no
le sorti della guerra afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze
armate pakistane, i cui compiti istituzionali includono la tutela dei confini.
Nuova influenza, cresce
l'allarme "Difficile evitare l'epidemia"
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: arrivato sul tavolo di Barack
Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella capitale,
dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito le
mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da
manifestazioni eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non condividere
cibo e bevande per il timore di un contagio,
Il mistero del Piccolo
Buddha che oggi compie vent'anni ( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Hu Jintao ha lanciato un
avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva
il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet
il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte
del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama.
Febbre suina, cresce
l'allarme Oms: "La situazione è seria"
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: arrivato sul tavolo di Barack
Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella capitale,
dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito le
mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da manifestazioni
eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non condividere cibo e
bevande per il timore di un contagio,
Hillary Clinton a sorpresa
a Bagdad "Siamo nella direzione giusta"
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: diciotto giorni dopo quella
compiuta dal presidente Barack Obama - Hillary Clinton ha voluto un contatto
con la società civile irachena. E nella sede diplomatica Usa, dove da meno di
24 ore si è insediato il nuovo ambasciatore Christopher Hill, il segretario di
Stato ha incontrato circa 150 persone per rispondere alle loro domande.
I VERI NEMICI SONO IN CASA
( da "Stampa, La" del
25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: Obama di «farsi largo nel mondo
parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più
minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento
degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate»
degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo
lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia
La Casa Bianca: pronti a
tutte le eventualità ( da "Stampa,
La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: amministrazione Obama «sta facendo
tutto il possibile», anche per quanto riguarda la trattativa tra Fiat e
Chrysler. Le trattative sono in una fase interlocutoria su tutti i fronti:
l'atteso accordo con il Canadian Auto Workers, previsto per ieri mattina non è
arrivato, mentre i negoziati con gli americani di United Auto Workers
proseguiranno per tutto il weekend.
"Pensa solo allo
share Così tradisce gli Usa"
( da "Stampa, La" del
25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: Obama rinuncia a riaffermare la
Costituzione». Il punto però è che Obama ritiene l'esatto contrario, ovvero che
richiamarsi a Abramo Lincoln significa evitare rese dei conti sanguinose con
gli avversari oramai sconfitti... «Obama però è anche un avvocato e dovrebbe
sapere che quando la Costituzione viene violata deve essere difesa,
"Un pragmatico vero
Disinnescherà l'Iran" ( da "Stampa,
La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: Il primo viaggio di Obama è stato
in Europa ed ha sottolineato il ruolo chiave che assegna alla Nato. La
partnership fra America e Europa resta prioritaria». Sul fronte economico che
cosa è avvenuto? «Obama non vuole modificare il sistema economico americano ma
sanare le lacune di quello finanziario ricorrendo all'intervento dello Stato.
Effetto Obama più scuola
meno bombe ( da "Stampa,
La" del 25-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: prima pagina Effetto Obama più
scuola meno bombe Il rischio più grande è quello di una rivolta
nell'establishment di Washington La base elettorale è con lui, ma il problema
arriva nelle battaglie politiche quotidiane Il disgelo inizia dagli yacht
PRESIDENZA USA SOTTO ESAME Stile inconfondibile In giacca, con uno staff sempre
online e il teleprompter a disposizione Il primo bilancio:
Una delle vittime incontrò
Obama ( da "Stampa,
La" del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Obama «Il presidente Obama sta bene
e il suo viaggio in Messico non ha messo in alcun modo in pericolo la sua
salute». Lo comunica la Casa Bianca per fugare qualsiasi dubbio sulla salute
del presidente degli Stati Uniti che, lo scorso 16 aprile si era recato a Città
del Messico per discutere della lotta al narcotraffico prima di raggiungere
Trinidad e Tobago per il vertice delle
la febbre suina arriva a
new york scatta l'allarme sanitario mondiale - elena dusi
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: virus incontenibile La Casa Bianca:
"Il presidente Obama sta bene". Caso sospetto a Londra: malato uno
steward ELENA DUSI Baci vietati. Scuole, teatri e locali pubblici chiusi a
Città del Messico. Ospedali affollati per i controlli e mascherine per la bocca
esaurite in farmacia. A distribuirle nei sotterranei della metro ci pensa ormai
l´esercito.
- (segue dalla prima
pagina) vittorio zucconi ( da "Repubblica,
La" del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: dalla quale il Presidente Obama è
stato costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in
Messico. Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla
borghesia middle class debordata da Manhattan, l´ultimo e il massimo melting
pot, crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato «borough»,
la patria e il nuovo padre
padrone - (segue dalla prima pagina)
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: di Berlusconi e di Barack Obama,
con tutte le differenze di scala da essi rappresentate. * * * C´è un
freschissimo esempio della «fantasia al potere» o meglio della «follia
positiva» stando all´autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier,
ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall´isola
della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell´
brevi, schede e richiami
1. ( da "Repubblica,
La" del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: provenienza e vita dei Rom in
Italia seguito da aperitivo, mostre fotografiche e filmati. In via Valeriano
3/f con ingresso libero. storia americana Martedì alle 11 a Roma Tre (via
Ostiense 159) conferenza di Alexander Bloom su "Barak Obama e la fine degli
anni Sessanta". Introduce Cristina Giorcelli.
"segno" riflette
sulla crisi culturale e su una chiesa possibile
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: la svolta verde di Barack Obama, la
crisi politica e culturale del paese e della regione, sviluppata attraverso una
tavola rotonda, il romanzo del Parto democratico, l´Onda studentesca di
Palermo, tre articoli sulla buona morte e sulla laicità, la presenza di Dio
fuori dalla chiesa e un appello per una chiesa solidale e compassionevole: un
tema,
genocidio armeno scontro
turchia-usa ( da "Repubblica,
La" del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: il messaggio del presidente
americano Obama, dedicato al massacro degli armeni del 1915. «Consideriamo
inaccettabili alcune espressioni del messaggio e la percezione della storia che
esso ha rispetto agli avvenimenti del 1915», si legge in un comunicato del
ministero. Anche la comunità armena in Usa ha vivamente criticato il fatto che
Obama non abbia usato la parola "
blitz della clinton a
bagdad l'iran: "gli usa dietro i kamikaze" - alberto flores d'arcais
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: guidata da due giorni dal nuovo
ambasciatore di Obama, Christopher Hill. «Non c´è nulla di più importante di un
Iraq unito, lasciate dunque che vi ripeta ciò che ha detto il presidente Obama:
noi siamo impegnati in Iraq, lo vogliamo stabile, sovrano e autosufficiente.
Anche se la natura del nostro impegno può sembrare a volte differente, perché,
come sapete,
najiba, tanya e le altre
alla guerra delle donne - guido rampoldi
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: idea europea e adesso anche
l´intenzione di Richard Holbrooke, l´inviato di Obama. Ma il tentativo di
Holbrooke può riuscire soltanto se saranno risolte questioni confinarie che si
trascinano dal Novecento (la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, non
riconosciuta da Kabul, e l´assetto definitivo del Kashmir, conteso tra
Islamabad e Delhi).
tagli per 400 milioni di
dollari sì dei sindacati chrysler a fiat - salvatore tropea
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: attesa per Obama SALVATORE TROPEA
TORINO - Disco verde dei sindacati e cambio di tavolo per Sergio Marchionne i
cui interlocutori, dislocati questa volta tra Washington e New York, da oggi
sono le banche. Dopo la firma dei sindacati canadesi della Caw per settimane
fermi su una linea di intransigenza, ieri anche con i loro colleghi americani
della Uaw è stato raggiunto un accordo.
belpaese - alessandra
longo ( da "Repubblica,
La" del 26-04-2009)
Argomenti:
Obama
Abstract: Interni BELPAESE LA SUITE DI OBAMA
ALESSANDRA LONGO La suite destinata a Obama è al secondo piano dell´albergo
ricavato nell´ex arsenale. Manca ancora quasi tutto tranne la splendida vista
che il presidente americano si perderà. Ecco: sulla sinistra, Caprera. Cade il
segreto di Stato sui cantieri sardi del mancato G8 e «La Nuova Sardegna»
partecipa al mesto tour del comprensorio:
IL CAVALIERE SENZA
AVVERSARI ( da "Stampa,
La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: dopo l'idea del G8 all'Aquila
(riuscirà a portare Obama e gli altri leader del mondo tra i sinistrati),
adesso anche una ricorrenza storicamente di sinistra, un appuntamento che nel
'94 segnò l'inizio della fine del suo breve governo, il primo con dentro ministri
ex fascisti, adesso anche questa è diventata berlusconiana.
Per il supervertice Silvio
sceglie già la camera a Obama ( da "Stampa,
La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: anche al G8 Per il supervertice
Silvio sceglie già la camera a Obama Il Cavaliere avrebbe già deciso quale
camera affidare alla Merkel e Sarkozy L'operazione punta a trasformare la
ricostruzione in un grande evento Il complesso che è stato individuato è quello
delle Fiamme Gialle a Coppito Si arriva in elicottero E soprattutto c'è posto
per cinquemila persone ONNA (L'AQUILA) Obama?
Scricchiola la tesi
"due popoli due Stati" ( da "Stampa,
La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: Obama. Laureato al Mit, studente ad
Harvard, a lungo residente a Boston nonché già viceambasciatore a Washington e
capo della missione all'Onu, Netanyahu è il politico israeliano che meglio
conosce gli Stati Uniti e la scelta di far precedere l'incontro nello Studio
Ovale da una pioggia di dettagli su cosa ha in mente ripete la tattica di
comunicazione che la Casa Bianca adopera
"Basta con le utopie
Obama accetti il realismo di Bibi"
( da "Stampa, La" del
26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: È il piano alternativo di cui il
premier israeliano Netanyahu parlerà al presidente americano Obama nei prossimi
giorni? «Potrebbe essere. Non so cosa progetti Netanyahu, a volte sembra
sostenere la soluzione due stati, altre volte privilegia la pace economica
rispetto a quella politica. Dipenderà da Obama e il suo approccio è decisamente
molto pragmatico.
"Bin Laden? È come
Bush: ha fallito" ( da "Stampa,
La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: E come vede lei l'apertura di Obama
verso l'Iran? «Non può fare diversamente perché questa è la situazione che gli
ha lasciato in eredità il suo predecessore Bush: l'impantanamento americano in
Iraq ha rinforzato l'Iran che ha una possibilità di ricatto politico e militare
molto forte sul ritiro delle forze americane dall'Iraq».
Percfest 2009, Elio e gli
altri big ( da "Stampa,
La" del 26-04-2009) + 1 altra fonte
Argomenti:
Obama
Abstract: elezione del presidente Barack Obama.
Sono solo due delle numerose chicche contenute nel programma del «Percfest
2009», la festa europea delle percussioni che si terrà a Laigueglia dal 23 al
28 giugno. La ricca sei giorni dedicata alla musica percussiva internazionale è
stata presentata ieri pomeriggio, in piazza Marconi, durante il concerto
«Travel Notes»
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina
1 - Prima Pagina Il retroscena Aspettando l´annuncio di Obama TORINO Uno
scontro tra Italia e Germania, sul futuro della Opel e sul risiko delle
alleanze mondiali dell´auto. Il vertice dell´Unione Europea, a sorpresa, si è
diviso sulla prospettiva che la Fiat, dopo Chrysler, si possa annettere anche
la casa tedesca.
SEGUE A PAGINA 3
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 3 - Economia
Il Lingotto tiene separati i due dossier. Giù del 46% il debito di Detroit
Chrysler, verso il sì dei sindacati ora braccio di ferro con le banche Mercoledì annuncio di Obama, ma Gm entra nella partita Testo per misurare lo spazio
equivalen equivalente di 001 righe cartella. Testo per misurare lo spa (SEGUE
DALLA PRIMA PAGINA) SALVATORE TROPEA Una incauta presa di posizione contro
questa operazione del commissario all´Industria di Bruxelles, Guenter
Verheugen, scatena le reazioni italiane sui fronti della politica, degli
imprenditori e, naturalmente, della Fiat. Dunque, quella che fino a qualche
giorno fa sembrava una partita tra Torino e Detroit ha assunto improvvisamente
le caratteristiche di un confronto tra Bruxelles e Washington sulla
"rivoluzione" destinata a ridisegnare la mappa dell´industria
mondiale dell´automobile. Al centro la Fiat con Chrysler e Gm, intorno tutti
gli altri a guardare non proprio in maniera disinteressata. Quando ormai si
deve dare per superato lo scoglio dei sindacati canadesi e americani e la
situazione sembra essersi sbloccata, e con l´attenzione concentrata sullo
scontro tra il Tesoro Usa e le banche creditrici, pronte a tagliare le loro
pretese del 46%, l´irruzione sulla scena del negoziato tra Fiat e Chrysler di
un altro protagonista chiamato General Motors sembra destinato a rimescolare le
carte. «Prima chiudiamo il capitolo Chrysler» continua a ripetere il Lingotto,
ma ormai appare chiaro che la grande partita mondiale dell´automobile si
giocherà a tre: la posta in gioco è la nascita di un colosso da oltre 7 milioni
di vetture all´anno, secondo solo alla Toyota. Ma la strada è cosparsa di
ostacoli soprattutto se i torinesi non riusciranno, come dicono di voler fare,
a tenere distinti i due dossier. E non è escluso che a dirimere la questione
debba essere alla fine la Casa Bianca. Barack Obama ha
fatto sapere che il 29 aprile farà un annuncio alla nazione. Negli Stati Uniti,
dove ieri è tornato Sergio Marchionne, in molti sono convinti che la questione
Chrysler possa essere uno dei suoi argomenti, tanto più che a quel punto
mancheranno poche ore allo scadere del termine fissato per chiudere
positivamente il negoziato. Il Lingotto nega che sia stato sinora formalizzata
una sua proposta sulla Opel. Il che non vuol dire disinteresse. Ma i tempi
sarebbero comunque più lunghi. In gioco ci sono la Opel e la Vauxhall anche se
risulterà difficile staccarle dalla casa madre. «Come provare a separare un
uovo da una omelette» ha commentato un dirigente. Ma l´operazione Opel seguirà
all´accordo con Chrysler o incrocerà con questo al punto da condizionarlo e
farsi condizionare? Il Wall Street Journal continua a rilanciare l´ipotesi
della bancarotta pilotata. Secondo il quotidiano newyorkese il ricorso al
Chapter 11 e il conseguente spacchettamento di Chrysler consentirebbe a Fiat di
«scegliersi le parti più redditizie e appetitose della casa automobilistica». A
Torino però non ne vogliono sentir parlare e insistono col dire che l´unico
ostacolo sono i sindacati e le banche dopodiché l´intesa si può raggiungere nei
termini fissati all´origine, per dire nella versione «benedetta» dal giudizio
favorevole di Obama. Dopo il round di trattative di
ieri tra Washington, Detroit e Toronto, il confronto con i sindacati, sia
americani che canadesi, avrebbe trovato o starebbe per trovare uno sbocco
positivo. I rappresentanti della Caw e della Uaw avrebbero ridimensionato le
loro pretese in materia salariale accettando di ridurre sensibilmente il gap
del costo orario tra i lavoratori Chrysler e i loro colleghi delle fabbriche
giapponesi in America (la richiesta era di un taglio di 19 dollari). Ma sulla
strada dell´accordo finale restano ancora le banche che insistono per il
fallimento e lo "spezzatino", anche se nel mondo globale dell´auto
soldi per acquistare eventuali asset non ce ne sono. La "rituale"
triangolazione tra istituti di credito, governo americano e Fiat, sarà il
passaggio della prossima settimana. «Ed è evidente che l´interesse dei primi è
quello di tirare lungo per accomunare il caso Chrysler a quello Gm» commenta
una fonte vicina al negoziato di Washington.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 13 - Esteri
Michelle più popolare del marito piace al 79% degli americani WASHINGTON - Dopo i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca Michelle Obama gode di una popolarità superiore a
quella pur alta del marito. Mentre le ultime rilevazioni hanno dato il
presidente Barack Obama un
65% di gradimento, un sondaggio del quotidiano nazionale Usa Today e della
Gallup ha rilevato che il tasso di popolarità di Michelle Obama è pari al 79%. Si tratta
del gradimento più alto mai registrato da una First Lady nei suoi primi cento
giorni, ad esclusione del dato raggiunto da Laura Bush, che nei primi cento
giorni del suo secondo mandato come First Lady registrò nel 2005 un gradimento
dell´85%.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 13 - Esteri
L´Armenia ricorda il genocidio Istanbul: "Sì alla
riconciliazione" ISTANBUL - L´Armenia ricorda il massacro subito, Barack Obama non pronuncia la parola
«genocidio», e la Turchia si prepara ad aprire il confine fra Ankara e Erevan.
E´ una vittoria della diplomazia quella che presto si potrà festeggiare nella
turbolenta area del Caucaso. Il ghiaccio fra Armenia e Turchia è rotto.
La capitale armena ieri si è fermata, ricordando le centinaia di migliaia di
vittime dei massacri perpetrati dall´Impero ottomano a partire dal 24 aprile
1915. Erevan e Ankara hanno dichiarato l´intenzione di tracciare una «road map»
per la riconciliazione. Tempo poche settimane, il confine sopra la città di
Kars sarà riaperto. E il 7 ottobre le due Nazionali di calcio disputeranno a
Istanbul una partita per le qualificazioni per i prossimi Mondiali.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 33 - Commenti
LA POLITICA ACCORCIATA (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Anche il suo riflesso
mediatico, che è non meno penetrante e reale; lo spettacolo che mette in scena
ogni giorno di sé, il modo in cui si propone e viene percepito attraverso i
mille racconti che frantumano e poi di continuo ricompongono la nostra vita
quotidiana. è questo, credo, il grande tema del momento, su cui bisogna
fermarsi a ragionare. In ogni emergenza, infatti che si tratti di
economia o di terremoto, e tanto più se di tutt´e due insieme l´immagine della
politica tende inevitabilmente a trasformarsi. Lo stato d´eccezione e la
storica fragilità dell´Italia ne moltiplica a dismisura le occasioni
spinge in maniera inesorabile a richiedere e a costruire una rappresentazione "contratta" e
semplificata del potere, e a soddisfarsene come l´unica adeguata alla
concitazione e all´incalzare delle circostanze. Fra la ferita e la terapia non
sembra siano necessarie mediazioni. C´è bisogno di presa diretta. Una politica "accorciata"
al massimo (c´è chi dice "verticalizzata", ma dubito che sia la
parola giusta), e anche una politica "vicina" e "veloce",
che non si nasconde nelle nebbie dell´indistinto. Se la situazione precipita,
il leader che può tirarcene fuori deve essere identificabile, certo, presente:
e forte e immediato il suo rapporto con le masse in pericolo. Definirei questa
condizione come l´inevitabile "deriva populista" che accompagna
sempre, in ogni democrazia, e tanto più se condizionata dai media, una stagione
di difficoltà e di paure. è qualcosa di simile a una "legge
tendenziale", cui non si può sfuggire. Vi sono però almeno due modi,
fondamentalmente diversi, di comportarsi di fronte a questa specie di obbligato
slittamento, a questa metamorfosi che fa ormai parte in qualche modo della
nostra fisiologia democratica. Il primo è quello che, per così dire, tende a
rendere "istituzionale" la spinta populista, ad assumerne
acriticamente i contenuti emotivi di volta in volta più incalzanti e meno
elaborati, a prolungarne e a dilatarne indefinitamente gli effetti nello spazio
sociale e nel tempo storico, e a farne l´unico centro di una strategia politica
che non sa e non vuole vedere altro. Esso mira unicamente a stabilire e ad
alimentare un rapporto fideistico fra il leader e il "suo" popolo, e
a comprimere e marginalizzare tutto il resto altre forme di
rappresentanza, divisione dei poteri, contrappesi decisionali come un
inutile impaccio. L´emergenza crisi economica, terremoto, gestione dei
rifiuti a Napoli è solo il pretesto per cementare ed esibire questo legame di
salvezza, dove i ruoli sono assolutamente predeterminati: da una parte un
popolo bisognoso e immobile, spettatore passivo e indistinto di una
"grazia" che arriva dall´alto, sotto forma di tempestività, lungimiranza,
risorse; e dall´altro un "capo" che sceglie e decide per tutti, al
più coadiuvato da un ristretto manipolo di tecnici e di esperti. è un modo di
stressare, per così dire, la democrazia, schiacciandola su una sola delle sue
componenti, per quanto essenziale: la ricerca e la verifica del consenso, il
transfert di sovranità alla base dell´investitura a governare. è lo stile di
Berlusconi: per esempio, quando dice della tempesta economica che bisogna solo
aspettare che passi, e al resto pensa lui, con pochi provvedimenti d´urgenza,
perché non c´è altro da fare; o quando gira fra le popolazioni del terremoto e
assicura che sarà lui stesso il garante della ricostruzione. Sono la politica e
la democrazia ridotte alla loro forma più elementare e impoverita: al solo
corto circuito carismatico. Ma vi è un diverso modo di reagire alla deriva di
cui stiamo parlando. Ed è la risposta che definirei della "frontiera
democratica". Essa non nega, ma accetta di fare i conti con la spinta
populista; non rifiuta, ma valorizza la componente carismatica nella ricerca
del consenso al tempo della crisi; e però utilizza entrambe non come fini a se
stesse, per la pura conservazione del potere, bensì come mezzi per la
realizzazione di un disegno più ampio, per trasformare cioè, in una parola, il
consenso in egemonia. A suo tempo, ne fu capace De Gaulle, ed è anche la
ragione per cui la sua eredità riuscì a incrociare, al momento opportuno, il
cammino di Mitterrand. E soprattutto, questa seconda risposta riequilibra onda
populista e personalizzazione carismatica attraverso una continua richiesta di
partecipazione collettiva, di presenza democratica "dal basso";
innesta nel circuito del consenso messaggi nuovi, e mette al centro della
propria strategia non la conservazione in quanto tale del potere, ma un´idea
complessiva di autoriforma della società, come unica via per superare davvero
l´emergenza e lo stato d´eccezione. Usa il consenso per cercare di costruire
un´egemonia intellettuale e morale. è lo stile di Obama
(se gli andrà bene, come tutti speriamo). In questo senso, credo che al nostro
centrosinistra farebbe bene un po´ di populismo, e anche una certa dose di
forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le
ansie, le fantasie forse non tutte "politicamente corrette", ma
questo è il vero e ineludibile nodo della questione
di quella parte di popolo già "liquefatta" dalla trasformazione
postindustriale, e ora dalla crisi, con cui ha purtroppo smesso da un pezzo di
intendersi. Ma prima di cercare un nostro Obama, occorrerà porsi il
problema di una generale riattivazione politica e democratica del corpo sociale
del Paese, di ridargli insomma un´anima "popolare" condivisa, e nello
stesso tempo orientata verso nuovi orizzonti, dettati dalla ragione, e non solo
dalle pulsioni emotive: più conoscenza, più saperi, più proporzione fra
profitti e lavoro. E insieme più coesione, più merito, più eguaglianza, più
senso critico. Ne saremo capaci?
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 46 -
Spettacoli La politica La morale Allen ha presentato al Tribeca Festival il
nuovo cupo film "Whatever works" che racconta il rapporto e le nozze
fra una giovane e un uomo settantenne "Faccio brutta New York per una
storia d´amore che non dà felicità" Non la metto nei film, la tengo nella mia sfera privata e penso che Obama abbia le carte per passare alla
storia come grande presidente La filosofia del protagonista è che la vita è una
esperienza tragica, l´unico sollievo è ciò che funziona nel singolo momento
ANTONIO MONDA NEW YORK Dopo quattro film girati in Europa, Woody Allen torna ad
ambientarne uno a New York intitolato Whatever works, che ha inaugurato
il Tribeca Film Festival e uscirà in Italia per Medusa. La storia ricorda
Manhattan, ma la città non è celebrata in bianco e nero con le musiche di
George Gershwin. Qui è immortalata con colori decadenti, ambienti poveri e
personaggi amareggiati e allo sbando ma, come sempre, Allen propone temi alti
trattati con leggerezza e genialità: si discute dell´esistenza di Dio, della
ricerca angosciata della felicità, e della fragilità delle relazioni
sentimentali. Tuttavia sembra prevalere una concezione disperata
dell´esistenza, e i motivi per cui vale la pena vivere non sono, come in
Manhattan, Mozart, Monet o il viso di una bella ragazza, ma "whatever
works", ciò che funziona e dà un po´ di sollievo. La storia ha per
protagonista uno scienziato pieno di amarezza e rancore (è andato a un passo
dal vincere il Nobel e sembra una perfida parodia di Philip Roth, con il quale
Allen non ha buoni rapporti), il quale, dopo il primo di due tentativi di
suicidio accoglie in casa una ragazza estremamente ignorante con la quale
finisce per sposarsi. «In molti mi hanno chiesto cosa possa trovare una bella
ragazza come Evan Rachel Wood in uomo come quello interpretato da Larry David»
racconta Allen, camicia gialla e bicchiere d´acqua minerale in mano «a me
interessava raccontare l´imprevedibilità dei sentimenti e l´attrazione degli
opposti. Non è prima volta che vedo giovani innamorarsi di persone molto più
anziane». Cosa c´è di autobiografico nel film? «Meno di quanto si possa
pensare: l´aspetto principale è la filosofia cupa del protagonista. La vita è
un´esperienza tragica, e l´unico momento di sollievo sta nel saper apprezzare
quello che funziona in uno specifico momento e non arreca male a nessun altro».
I suoi film sono sempre più pessimisti. «Credo che l´esistenza non abbia senso:
non sappiamo perché siamo al mondo, e persino la nostra nascita è legata al
caso. Le possibilità che s´incontrino l´uovo e lo spermatozoo che lo feconda
sono infinitesimali e il caso è determinante in ogni aspetto della vita. Non
esiste alcun Dio ed è difficile resistere all´idea di vedere tutto come un
incubo terribile. A coloro che vedono nel finale del film un segno di ottimismo
rispondo parlando di accettazione, disincanto e un tentativo di sopravvivere
rispetto alle notti in cui si è sopraffatti dall´orrore. Si tratta comunque di
un passo avanti rispetto ai tentativi di suicidio del protagonista». Dostoevskj
ha scritto che se Dio non esiste tutto è permesso. Lei crede in una legge
morale superiore? «Non esiste un decalogo, e ritengo solo che si possa trovare
un´intesa riguardo ad atti evidentemente criminali come uccidere o rubare. Ogni
persona compie scelte morali, ma non c´è nulla al di sopra di noi». La New York
del film è molto diversa dal passato. «Non ha nulla a che vedere con la città:
è come la vede il protagonista, che ha abbandonato la moglie, la professione e
una casa elegante per vivere in un desolato appartamento a Chinatown. Tuttavia
credo che anche quella zona di New York abbia una bellezza non convenzionale».
Come mai non ha interpretato il film? «Ho preferito affidare la parte a Larry
David perché è uno di quegli attori che riesci ad amare anche quando
interpretano personaggi bruschi e amari. Io avrei portato nel film un elemento
comico, che avrebbe stonato con la storia». è vero che non rivede i suoi film?
«Mai, e quando capitano in televisione cambio immediatamente canale. Non ne
sono mai soddisfatto: ogni volta penso di realizzare "Quarto Potere"
o "Ladri di Biciclette" ma poi faccio solo un altro film di Woody
Allen. Già sul set mi accorgo degli errori, e col tempo ho imparato molti
trucchi, ma non sono diventato più saggio. L´unico del quale l´ultimo giorno di
riprese mi sono sentito soddisfatto è stato "Match Point", ma questo
non significa che sia il mio miglior film». Nei suoi film la politica appare
solo come parodia. «Tengo la politica nella mia sfera privata, ma ho le mie
idee: sono convinto ad esempio che Obama abbia tutte
le carte per passare alla storia come un grande presidente. Ha già dimostrato
coraggio e ora deve solo sperare che i più responsabili tra gli avversari
dimostrino spirito di collaborazione e che quelli della sua parte non siano
vigliacchi e mostrino il suo stesso coraggio».
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina I - Torino La gran torino tra obama e berlusconi Sulla crisi
dell´industria dell´automobile, Barack Obama non ha esitato a mettere in campo una task force per cercare una
soluzione in grado di garantire i posti dei lavoratori americani interessati.
Si vedrà a giorni con quali prospettive per il futuro della Chrysler e della Gm
- perché è di queste che si parla - ma è certo che lo ha fatto,
scendendo in campo personalmente e schierandosi decisamente a favore della
soluzione che, almeno per quanto riguarda la più piccola delle tre sorelle
americane dell´auto, passa per un´alleanza con la Fiat. La cancelliera Angela
Merkel non è stata da meno. SEGUE A PAGINA XI
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina
XIII - Torino La gran torino tra obama e berlusconi (segue dalla prima di
cronaca) Non appena la caduta delle vendite di auto ha cominciato a toccare da
vicino la Germania, ha messo in atto una serie di misure per attenuarne gli
effetti su quello che è da sempre il primo mercato europeo del settore. Quanto a Nikolas Sarkozy, com´era
prevedibile, ha scelto la via francese della grandeur, accompagnando ai normali
incentivi un piano da 6 miliardi di euro a favore di Peugeot e Renault. In
Italia il rinnovo delle misure di sostegno scadute a fine dicembre è entrato in
vigore soltanto a metà febbraio, con una forte penalizzazione per le aziende
attive, direttamente o indirettamente, nel settore dell´auto che ha prodotto un
ricorso alla cassa integrazione senza precedenti. Ma il punto non è questo.
Oggi siamo in presenza di una grande manovra al termine della quale il panorama
mondiale dell´industria dell´automobile risulterà verosimilmente ridisegnato. è
in corso da settimane un negoziato finalizzato a un´alleanza tra Fiat e
Chrysler e non è da escludere che esso possa avere un seguito col
coinvolgimento in questo accordo anche dell´ex numero uno mondiale dell´auto, ovvero
la Gm, le cui condizioni di salute industriali e finanziarie non sono migliori.
Questa vasta azione di assestamento allarma i sindacati i quali temono che essa
possa comportare tagli di fabbriche e posti di lavoro: dall´Italia al Canada e
dalla Germania agli Stati Uniti. Di qui la richiesta, partita non a caso da
Torino, di un tavolo di discussione al quale, oltre alla Fiat e ai sindacati,
partecipi il governo. Anzi l´idea era che fosse il governo a costringere la
Fiat ad accettare questa proposta per valutare gli effetti dell´accordo tra
Detroit e Torino. «Sacconi faccia come Donat Cattin e porti la Fiat al tavolo
del governo», si era augurato qualche giorno fa il segretario della Fiom
torinese, Giorgio Airaudo, con riferimento a un episodio degli anni ruggenti
dello scontro tra Fiat e sindacati italiani. Con apprezzabile realismo i
sindacati non hanno mai provato a bocciare l´operazione con Chrysler ma non
hanno smesso di chiedersi quale potrà essere la ricaduta sulla Gran Torino
chiamata a salvare una major di Detroit. Che cosa potrà cambiare a Mirafiori e
dintorni dopo un´alleanza a due o a tre con la nascita di un colosso mondiale
Fiat-Chrysler-Gm da oltre 7 milioni di vetture all´anno? Una domanda legittima
alla quale, appena due giorni fa, dopo il cda del Lingotto e prima di ripartire
per l´America, Marchionne, che non sottovaluta l´importanza di un buon rapporto
col sindacato, si è detto «disposto a un tavolo a tre col governo». è questo un
passo avanti importante per il sindacato, non solo torinese, se non fosse che
ora si tratta di convincere il governo ad andare al tavolo con Fiat e non
viceversa. Con quali risultati? Per il momento, tra il G8 all´Aquila e le
scadenze elettorali, Berlusconi non sembra essere particolarmente interessato
alla partita dell´auto. A una domanda dei giornalisti sul negoziato
Fiat-Chrysler martedì scorso ha risposto testualmente: «Non so quante chance
può avere l´operazione perché non la conosco nei dettagli ma ho fatto i miei
auguri più convinti affinché questa operazione possa andare in porto e dia alla
Fiat una grande spinta e la possibilità di contare anche nel mondo
internazionale e sul mercato americano». Gli auguri, proprio così, come se si
trattasse del lancio di una vettura o di un compleanno. Obama,
Sarkozy e la signora Merkel stanno facendo qualcosa di più.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina XVII - Milano
Troppo facile gridare negro a un ragazzino di 18 anni Solo a scriverla quella
parola mi suona male, figuriamoci a sentirla cantare per 90 minuti in uno
stadio alla partita dei rancori (forse secondo gli juventini è colpa nostra se
hanno avuto un Moggi dietro le quinte). Solo nei giorni successivi di
Juve-Inter ho capito che cosa cantavano allo stadio a Mario Balotelli, fiero di
essere italiano come io da tempo ormai non sono. Definire l´insulto che si è
levato per quei 90 minuti coro razzista è abbastanza riduttivo. Ma non voglio
polemizzare sul fatto che Mario venga definito un provocatore, che il pubblico
della Juve sia stato punito con un provvedimento esemplare come nessuno o
quant´altro. Io voglio sapere perché l´opinione pubblica, il popolo, la gente
comune non si indigna. Perché, maledizione? Dove sono finite le personcine che
firmavano in ogni dove petizioni contro l´uscita (infelice
e inopportuna) del nostro Premier nei confronti di un Obama lampadato? Dove? Forse perché difendere un ragazzo di diciotto
anni, che aspira ad onorare la maglia della nazionale, è meno clamoroso che
attaccare un politico? Due pesi e due misure intitolava Tuttosport, commentando
la chiusura per razzismo dello stadio di Torino. è vero, due pesi due
misure. Mario non è Silvio e agli italiani non frega niente del razzismo.
Ipocriti. Caro Piero, avevo bisogno di scriverle. Farlo ha allontanato in parte
la rabbia. Non l´amarezza. Forza Mario! Sabine Anche per questa ragione il
centrosinistra ha perso, perde e perderà sempre le elezioni, se non cambia
marcia. Tra i grandi temi che dividono il fascismo dalla democrazia c´è il
razzismo. Dunque, dice lei, come mai si sbraita da sinistra per le battute di
Berlusconi contro Obama e non si ascoltano nemmeno i
cori di migliaia di persone contro Supermario? Le do una risposta
agghiacciante, ma vera: questa sinistra che tenta di fare opposizione non
combatte (in senso lato) per la democrazia, ma soprattutto per le cadreghe (le
sedie). Non difende i lavoratori e chi paga le tasse sullo stipendio fisso, ma
sta pappa e ciccia con gli industriali e infatti i quartieri popolari del Nord
hanno votato Lega. In questa Italia sempre più frastagliata, è facile gridare
"negro": e mentre tutti i riflettori si puntano sul leader, nel buio
nascono i mostri e a sinistra i bravi politici manco se n´accorgono. Lei ha
allontanato la sua rabbia, a me è venuta, proprio oggi che è il 25 Aprile.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 10 - Esteri I
Taliban alle porte di Islamabad l´esercito pronto allo scontro Gli integralisti
non si fermano, fuga dalla capitale pachistana Usa preoccupati "Gli
estremisti potrebbero impadronirsi del Paese" FRANCESCA CAFERRI I Taliban
pachistani controllano ormai una delle principali vie d´accesso a Islamabad,
capitale del Pakistan. I militanti hanno accettato ieri di fermare la loro
avanzata verso la città che aveva segnato nei giorni scorsi un punto
fondamentale con la conquista della valle di Buner, avamposto strategico a soli
100 chilometri dalla capitale. Sotto pressione dell´esercito hanno scelto di
ritirare i combattenti dalle strade principali dell´area: ma ciò non significa,
constatano giornalisti locali, che non restino in controllo. «Possono tornare
in qualunque momento», sintetizza un esperto. La notizia della giornata di ieri
è comunque che, dopo giorni di avanzata, i Taliban hanno accettato di
ritirarsi, almeno formalmente. Lo stop è arrivato dopo che l´esercito ha reso
chiaro che, se l´offensiva non si fosse fermata, sarebbe intervenuto «entro 48
ore». «Non permetteremo ai militanti di dettare condizioni al governo o di
imporre il loro stile di vita alla società», ha detto il responsabile delle
forze armate pachistane, generale Ashafaq Kayani, richiamando i Taliban al
rispetto dell´accordo siglato il 16 febbraio con il governo. Il patto prevede
l´adozione sharia in sette province della North West frontier, ma specifica che
l´influenza Taliban deve rimanere confinata a determinate aree. Proprio il
tentativo di allargarsi verso altre zone ha determinato le reazione delle forze
armate. Lo stop di ieri ha allontanato la possibilità di un confronto immediato
fra esercito e militanti, ma molti temono che lo scontro sia solo rimandato.
«Possono tornare quando vogliono. Chi ha i soldi scappa all´estero. O almeno
manda via le figlie femmine. Molte persone portano via ricchezze e oggetti
d´arte. Chi non può lasciare il paese almeno si allontana dai grandi centri
urbani. Tutti si aspettano un´offensiva a breve», spiega un abitante di
Islamabad raggiunto al telefono. Un timore forte anche a Washington: dopo
Hillary Clinton che due giorni fa ha aveva accusato il
governo del Pakistan di «abdicare» di fronte agli estremisti - ieri sia il
generale che guida le forze Usa in Asia e Medio Oriente, David Petraeus, che
l´ammiraglio Mike Mullen, capo
degli Stati Maggiori statunitensi, hanno espresso preoccupazione. «Gli
estremisti stanno minacciando l´esistenza stessa del Pakistan» ha spiegato
Petraeus in un´audizione al Congresso, mentre Mullen si è detto «estremamente
preoccupato»: «Ci stiamo avvicinando al punto critico in cui potrebbero
impadronirsi del paese». Alle parole gli americani non possono far seguire
fatti: la linea dura adottata dall´amministrazione Obama
verso il Pakistan l´inviato speciale del presidente, Richard
Holbrooke, ha ribadito
pochi giorni fa che gli aiuti da ora in avanti saranno subordinati a risultati
nella lotta ai Taliban ha esacerbato l´opinione pubblica e reso
ancora più debole il governo del premier Yusuf Raza Gilani e del presidente
Asif Ali Zardari. «I Taliban stanno sfruttando la debolezza dell´esecutivo
spiega Zahid Hussein, uno dei massimi analisti pachistani possono anche
scegliere di non arrivare a Islamabad: in fondo non gli serve, hanno già
appoggi importanti in città. Ma stanno diventando più forti di settimana in settimana. Il
braccio di ferro non finisce oggi».
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 11 - Esteri
Armenia Genocidio, Istanbul "Sì alla riconciliazione" EREVAN -
Migliaia di armeni hanno commemorato il milione e mezzo di vittime del massacro
perpetrato dall´impero ottomano tra il 1915 e il 1917, di cui l´Armenia chiede
il riconoscimento come genocidio. Intanto Barack Obama ha ricordato il tragico evento ma
senza usare il termine «genocidio». La ricorrenza è caduta pochi giorni dopo la
storica intesa con la Turchia su una «roadmap» per la normalizzazione dei
rapporti e l´Armenia non ha voluto alzare i toni.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 11 - Esteri
Ossessionati dalla rivalità con l´India e in crisi con gli Usa i pachistani
tentati dalla neutralità con i terroristi L´instabile paese delle atomiche e la
fine di un rapporto con gli Usa Era la Terra promessa della Riforma islamica,
poi è stato infettato dai fondamentalisti GUIDO RAMPOLDI In vari pensatoi da
qualche tempo si discute se il Pakistan arriverà alla fine del 2009; o se
invece collasserà prima, implodendo in un´anarchia generalizzata nella quale
vagoleranno Taliban, milizie tribali e una dozzina di bombe atomiche pronte per
l´uso. Fauste o infauste, le prognosi convengono su questo: l´Occidente dispone
ancora di strumenti per tentare di arrestare il marasma pachistano prima che
diventi irreversibile. Il problema è che nella prassi politica e militare il
poderoso consesso delle democrazie somiglia ad uno quegli eserciti persiani che
la falange macedone sbaragliava a ripetizione durante la sua marcia verso
l´Indo, poiché la confusione di lingue e stili di combattimento li conduceva a
fallire le manovre più elementari. E comunque il salvataggio del Pakistan non è
certo un´operazione facile. Nei suoi turbolenti sessant´anni il Paese ha visto
alternarsi indecorose dittature militari e non molto più decorosi governi
civili. Un tempo era la Terra promessa della sempre attesa Riforma islamica,
poi è stato infettato da un ultra-fondamentalismo d´importazione che oggi conta
per una piccola quota dell´elettorato, meno del 5%, ma rappresenta la quasi
totalità delle milizie, vale a dire decine di migliaia di armati. La sua
fazione "rivoluzionaria", i Taliban, ormai è saldamente attestata in
vasti territori al confine con l´Afghanistan, e li usa come trampolini per
successive avanzate. In marzo le sgangherate milizie di tale Fazlallah, più noto
come "Mullah radio" per le sue concioni radiofoniche, si sono presi
lo Swat, una regione a ridosso della frontiera afgana, dove hanno sostituito lo
stato di diritto con la giustizia delle corti islamiche. In cambio di una vaga
promessa di non belligeranza, il governo centrale ha ratificato questo atto di
aperta sovversione. Galvanizzati, all´inizio di questa settimana quei Taliban
sono calati nella valle di Buner, un centinaio di chilometri della capitale, e
ammazzati alcuni poliziotti, hanno ordinato alle donne di chiudersi in casa,
alle scuole di serrare i portoni. Soltanto un nuovo negoziato con Islamabad, e
presumibilmente nuove concessioni, ieri hanno indotto quei guerrieri a tornare
nelle loro montagne. Sbigottiti da questi eventi, nelle ultime ore gli
occidentali hanno scoperto che se in Afghanistan non va bene, in Pakistan va
molto peggio. E´ a rischio «l´esistenza stessa del Pakistan», ha avvertito il
generale Petraeus. La Clinton, Berlino, Londra, la preoccupazione è unanime. E
al Pentagono, questo possiamo darlo per scontato, hanno tirato fuori dai
cassetti i piani per tentare di impossessarsi delle atomiche pachistane qualora
tutto precipiti. A questo coro angosciato manca la voce di chi dovrebbe
difendere le istituzioni nell´ora più grave, le Forze armate pachistane. Se si
esclude una dichiarazione vaga e ufficiosa attribuita al capo di stato
maggiore, i generali tacciono. E il loro silenzio è misterioso quanto la loro
inazione. Proviamo a ripercorrere la sequenza che conduce alla "talibanizzazione"
dello Swat. Quel "mullah Radio" che pare in grado di minacciare uno
Stato di 165 milioni di abitanti, non è un Garibaldi islamico, ma un noto
pasticcione. E i suoi miliziani non sono molti più dei cinque o seicento che
nei giorni scorsi hanno "conquistato" la valle di Buner. Perché
l´esercito, forte di cinquecentomila uomini, ha lasciato fare? E perché proprio
adesso, mentre il presidente pachistano si prepara a partire per Washington?
Ecco le domande che l´Occidente dovrebbe porsi. Il vertice militare pachistano
non inclina al fondamentalismo, ma come ormai è evidente, non combatte la
nostra stessa guerra. La sua priorità è contrastare l´India, tanto più che
quella sta rafforzando notevolmente le sue posizioni in Afghanistan, in buona
collaborazione con gli americani. Per una cultura militare ossessionata dalla
geopolitica, avere gli indiani sia a est che a ovest rappresenta una minaccia
esistenziale. Percezione sovreccitata, ma favorita dall´attivismo del servizio
segreto indiano in Afghanistan e dai toni bellicosi usati da leader della
destra indù nella campagna elettorale in corso. Questo lo sfondo. Ma più
immediato, e forse decisivo, è il rapporto sempre più problematico con gli
Stati Uniti. Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti
americani in Pakistan è aumentata. Che aiutino o no le sorti della guerra
afgana, cominciano a diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui
compiti istituzionali includono la tutela dei confini. Fino a ieri lo stato
maggiore ingoiava, in cambio di copiosi aiuti militari. Ora anche gli aiuti si
sono diradati, mentre a Islamabad si consolida il sospetto che ormai Washington
dia retta alla diplomazia indiana, quando ripete: il Pakistan è finito. Non è
così. Ma se l´esercito scegliesse una "neutralità" suicida, e se gli
occidentali non riuscissero a farlo ricredere, quella potrebbe diventare
l´ennesima profezia che si autoinvera, e per il solito motivo: l´inettitudine
degli attori.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 36 - Esteri
Il compleanno tibetano che Pechino non vuole C´è quello vero, designato dal
Dalai Lama. E quello falso, costola del Partito comunista. Il primo, sparito
nel nulla quattordici anni fa, oggi ne compie venti Il governo cinese lascia
intendere che sia morto Ma il popolo delle nevi non gli crede. E lo festeggia
Il regime fa filtrare notizie sulla sua morte. E sempre più spesso mostra la
propria creatura Ad un simposio buddista il giovane burattino ha detto:
"Vedete, in Cina c´è libertà religiosa" (SEGUE DALLA COPERTINA) DAL
NOSTRO CORRISPONDENTE federico rampini Alla vigilia di questo compleanno
proibito, i cinesi non si sono limitati a diffondere insinuazioni sulla morte
del loro giovane prigioniero. Pechino ha deciso di esibire in due eventi
ufficiali il suo "gemello comunista": il Panchen del regime. Quasi
coetaneo dell´altro (ha 19 anni), etnicamente tibetano anche lui ma figlio di
due membri del partito comunista, questo si chiama Gyaincain Norbu. Nel 1995,
non appena catturato il vero Panchen, la controfigura venne investita solennemente
dal governo. Secondo le autorità cinesi è lui l´undicesima reincarnazione del
"grande studioso" della setta Gelugpa. Il Panchen filo-cinese non è
mai stato accettato dai suoi connazionali, che gli negano ogni legittimità.
Senza la benedizione del Dalai, per i fedeli è un impostore. Perciò anche lui
ha finito per trascorrere infanzia e adolescenza come un detenuto. Per paura
che i tibetani potessero influenzarlo le autorità lo hanno allevato a Pechino,
in un convento politically correct, sotto il controllo del partito. I maestri
di dottrina gli insegnavano il patriottismo (cinese), la fedeltà al governo, il
mandarino e l´inglese: utili per farne un futuro portavoce urbi et orbi. Per
anni le sue apparizioni in pubblico sono state rare e protette da una scorta.
In una di quelle occasioni, paracadutato per poche ore nel 2005 nel monastero
di Tashilhunpo a Shigatse (storicamente la sede del Panchen) il povero
burattino dei cinesi rimase impaurito dal disprezzo dei religiosi. Nelle foto
ufficiali ha la faccia di un bambinone cresciuto, goffo e timido, vittima di un
gioco troppo grande per lui. Un mese fa le cose sono cambiate. Il
Panchen-di-Pechino è stato lanciato sul palcoscenico a marzo per una
celebrazione importante. Ricorreva il 50esimo anniversario della fuga in esilio
del Dalai Lama, un giorno di lutto per il suo popolo. Nella stessa data
quest´anno il governo ha istituito una nuova festa nazionale: la Giornata
dell´Emancipazione dei Servi del Tibet. Un´occasione per celebrare la
"liberazione" dalla teocrazia feudale dei lama, grazie al
provvidenziale intervento dell´Esercito Popolare di Liberazione sotto la guida
di Mao. Il 28 marzo il Panchen comunista è apparso in una cerimonia di Stato a
Lhasa. Il giovane era visibilmente agitato, ma ha detto quello che si
aspettavano da lui: «Voglio ringraziare sinceramente il partito comunista per
avermi aperto gli occhi, così so riconoscere il bene dal male». Poi una
stoccata diretta a colui che dovrebbe esserne il padre spirituale. «Sono io
stesso discendente di schiavi - ha detto Gyaincain Norbu - e ho imparato a
distinguere chi ama il popolo tibetano, da quelle persone senza scrupoli che
per motivi di ambizione minacciano la pace». Jia Qinglin, membro del Politburo,
ha reso esplicita l´accusa: «Il Dalai ignora i veri desideri del popolo. Vuole
la secessione per restaurare l´antico regime feudale». In un crescendo di
visibilità, il Panchen comunista è riapparso al recente Forum Mondiale del
Buddismo, organizzato in pompa magna dalle autorità cinesi. Un evento ecumenico:
aperto nella città di Wuxi, provincia del Jiangsu, si è concluso a Taipei
capitale dell´"isola ribelle" di Taiwan. Dopo il confucianesimo anche
il buddismo viene recuperato dai leader cinesi. Purché sia una religione di
Stato, il presidente Hu Jintao è convinto che serva a proiettare un´immagine
rassicurante della Cina, a rafforzare il suo soft power in Asia. E il giovane
Gyaincain Norbu ha fatto il suo dovere. Ai delegati mondiali del simposio
buddista ha dichiarato: «Questo evento dimostra che in Cina regna la libertà
religiosa». Ha partecipato alle sedute ristrette di alcuni seminari di studio:
perfino un incontro con celebri imprenditori sul tema "Filosofia e
Business". I magnati industriali che lo hanno incontrato dicono che i suoi
interventi sono stati "fonte d´ispirazione". Le foto dell´agenzia
Nuova Cina lo ritraggono, occhialuto e intimidito, mentre porge una sciarpa
bianca in omaggio al presidente del Congresso del Popolo, Wu Bangguo. L´alto
gerarca lo ha incoraggiato a «lavorare alacremente per l´unità del popolo
cinese». Zhan Ru, direttore dell´Istituto di studi orientali all´università di
Pechino, era anche lui a quel congresso: «E´ stato un incoraggiamento per
tutti. Eravamo onorati di avere con noi un Budda vivente». Lo sforzo per
osannare il povero burattino è corale. Tradisce il nervosismo di Pechino per il
ventesimo compleanno del vero Panchen Lama. La tensione è affiorata ai massimi
livelli. Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a
Barack Obama: non vuole che
il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il
tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo
diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu
Jintao spera di intimidire Obama. Già ci è riuscito con Nicolas Sarkozy, costretto a farsi
"perdonare" la visita del Dalai all´Eliseo. Il Sudafrica ha preferito
far saltare un summit dei premi Nobel pur di non concedere il visto al leader
tibetano in esilio. Dietro la durezza cinese spunta la partita cruciale: la
successione del 73enne capo spirituale. Pechino ha già annunciato che alla sua
morte spetterà al potere politico la scelta del prossimo
"reincarnato": come all´epoca della dinastia imperiale dei Qing,
secondo le ricostruzioni degli storici revisionisti di regime. Pur di evitare
questa sopraffazione il Dalai Lama ha accennato a una contromossa: cambiare le
regole e procedere a un´elezione democratica del suo successore. Chissà se il
suo discepolo ventenne, ovunque si trovi, può intuire la battaglia furibonda
che si prepara. Se è vivo oggi passa anche questo compleanno nella solitudine
che ormai è il suo destino. Lontano dal Tibet, lontano dai suoi e dal mondo,
forse condannato a essere invisibile fino a quando morirà davvero.
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 39 - Esteri
LEONARDO COEN MOSCA dal nostro corrispondente «Qualche giorno fa i militanti
nashisti putiniani mi hanno gettato in faccia del sale ammoniacale. Una notte
la polizia ha sequestrato 125mila volantini elettorali. I cekisti, tramite i
loro complici in America, mi hanno spedito un bonifico di 10mila dollari, per
screditarmi. Non passa giorno che non ci sia una provocazione per ostacolare la
mia campagna elettorale. Mi sono candidato per il posto di sindaco di Soci, la
città dei futuri Giochi Olimpici Invernali del 2014, di cui Putin è il grande
patron. Ma tutte le tv, le radio e i giornali di Soci si rifiutano di darmi
spazio. Domani si vota ma nonostante il boicottaggio contro di me è ormai
chiaro che i due favoriti di questa gara elettorale sono due: Anatolij
Pakhomov, l´uomo di Putin, e il sottoscritto». Se c´è un politico, in Russia,
che non si rassegna alle violenze e ai soprusi, ai brogli elettorali, alla
corruzione che divora il paese, questo si chiama Boris Nemtsov. è uno dei
leader dell´opposizione liberale. Ha 50 anni. è stato, ai tempi di Eltsin,
primo vicepremier. Poi, è arrivato Putin. Nemtsov ha dovuto far fagotto. Oggi è
tornato in piazza (la sua storia politica è raccontata nel libro Confessioni di
un ribelle edito da Spirali). La sfida di Soci è impari, perché cuore di
interessi colossali e investimenti faraonici. Russia Unita, il partito della
maggioranza assoluta e di Putin, vuole infatti gestire tutta la torta olimpica.
Punta su Pakhomov, il sindaco uscente. In lizza sono in nove. «Soci è diventata
territorio di arbitrii e abusivismi - ci racconta - Arrivano da fuori per
arraffare tutto quello che il potere locale e regionale gli concede di fare. La
gente s´è stufata. Vogliono un sindaco pulito, che non rubi. Che denunci le sopraffazioni,
le prepotenze. Pakhomov, il mio avversario, e tutti gli altri funzionari di
regime si rifiutano di partecipare ai nostri dibattiti: quattro volte gliel´ho
chiesto e quattro volte ha risposto di no. Intimidiscono le persone che
organizzano i nostri comizi, minacciandoli di licenziamento e verifiche
fiscali». Per forza: Nemtsov da anni denuncia il malaffare. Documenta gli
enormi debiti delle aziende di Stato, attacca l´autoritarismo di Putin, critica
pesantemente la politica economica e finanziaria del Cremlino. «Io do fastidio.
Smaschero i veri "giochi dei Giochi". Dico che rubano terreni e
proprietà. Rivelo e cerco di impedire gli sfratti prepotenti che si stanno
perpetrando nella valle Imeretinskaja. Lo faccio perché oltre un certo limite
ti viene voglia di recuperare il senso della dignità e di smettere d´aver
paura». Un ruolo donchisciottesco, quello di Nemtsov. Ma lui spera di avere un
alleato, alla lunga. «In Russia oggi comanda Putin mentre Medvedev cerca di
comandare. Ho però una pallida speranza. Che Medvedev si trasformi da
presidente delfino in quello vero. Io sono pronto ad aiutarlo. è chiaro che il
gruppo che è al potere è molto sfacciato, cinico, corrotto e quanto prima si
riuscirà ad allontanarlo dal potere tanto meglio sarà per la Russia». Potrebbe Obama influire in questo processo politico? «Finché il regime in
Russia rimarrà antidemocratico, corrotto ed autoritario, ci saranno delle
profonde discordie ideologiche fra Obama e le autorità russe. La democrazia gli ha permesso di diventare
presidente. Mentre la gente che governa il nostro paese odia la
democrazia, calpesta la Costituzione e le leggi. Quest´odio nei confronti della
democrazia, la paura nei confronti del nostro popolo crea un abisso enorme tra Obama e l´attuale regime russo. Solo se la Russia riprenderà
la strada della democrazia potranno migliorare i rapporti con l´Occidente».
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina
20 - Economia Exploit di Michelle Obama è più popolare
di Barack Dopo 100 giorni alla Casa Bianca Michelle Obama batte in
popolarità il marito. Il presidente è al 65% di gradimento. La first lady al
79%
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 15 - Interni
Esempio americano Criminalizzati "Sbagliato alzare le tasse ai ricchi così
si torna alla lotta di classe" Colaninno: nel Pd abbienti ed operai devono
avere pari dignità Un grande partito deve accogliere storie e redditi diversi, come negli Usa dove molti manager si sono schierati con Obama E´ giusto che chi ha di più dia di
più, ma non si deve criminalizzare chi ha la fortuna di avere redditi alti e
paga tutte le tasse LUISA GRION ROMA - Chi più ha, più deve dare: sul principio
in sé, Matteo Colaninno - deputato Pd che fu ministro ombra allo Sviluppo
economico con Veltroni - è del tutto d´accordo. Ma detto questo, attenti
a non criminalizzare «chi ha la fortuna di avere un reddito alto, ma paga tutte
le tasse». Attenti a pensare che «nel Pd un abbiente che fa il suo dovere non
possa avere la stessa dignità e considerazione di un operaio». Questa avverte,
sarebbe «un´aberrazione ottica che tradirebbe la natura stessa del partito e
scatenerebbe una pericolosa contrapposizione di classe». Parte dell´elettorato
non potrebbe accettarla quindi, precisa, sull´introduzione di una tassazione
extra per le fasce alte bisogna essere «molto cauti». L´idea, a dire il vero, è
proprio del suo partito che pensa di aumentare l´aliquota massima dal 43 al 45
per cento - per un anno - a chi supera i 120 mila euro. Non è d´accordo? «Il
mio reddito va oltre quel tetto e, sia chiaro, troverei giusto pagare. Ma ad
una condizione: un´iniziativa del genere si può fare solo se va di pari passo
con una seria e potente lotta all´evasione fiscale. In assenza di ciò
pagherebbero i soliti "leali" e questo non va bene. Per i redditi
alti la fiscalità complessiva già sfiora il 50 per cento: è tanto, chi la
rispetta deve essere a sua volta rispettato». Ma il momento di crisi come quello
attuale, non è giusto chiedere uno sforzo in più? «Dare di più mi sta bene, mi
sono impegnato nel Pd perché credo che la lotta alla diseguaglianza debba
essere la priorità, la linea guida del partito. Ma il Pd non è solo questo.
Siamo in una fase delicata: c´è la campagna elettorale, ci sarà il congresso.
Va chiarito che la strada per raggiungere l´obiettivo - ovvero la difesa dei
deboli - non è la contrapposizione fra classi. Il principio di appartenenza e
di cittadinanza si dimostra partecipando correttamente alla fiscalità. Chi lo
fa, al di là del reddito, sia imprenditore o operaio, deve avere pari dignità e
ascolto. Un grande partito riformista deve puntare a questo, deve accogliere
redditi e storie diverse: si può, ce lo dimostra il fatto che negli Usa, molti dei
manager in testa alle classifiche di Forbes si sono schierati con Obama». Ma perché gli altri paesi, dalla Gran Bretagna agli
Usa, hanno applicato - o pensano di farlo - una tassazione extra per i ricchi e
da noi l´idea resta un tabù? «Perché in quei paesi l´evasione fiscale è più
bassa. O magari perché è più diffusa l´idea che pagare le tasse sia una cosa
non dico bella - come direbbe Padoa-Schioppa, ma per lo meno giusta. Un
fondamento della democrazia». La Cgil, che ancor prima del Pd ha lanciato
l´idea di una tassa per i ricchi, ricorda che ognuno dei cento top manager guadagna,
da solo, quanto cento operai o impiegati. Le sembra equilibrato? «Di questi
tempi la sobrietà è un obbligo, ma quei cento top manager, se pagano tutte le
tasse, non vanno criminalizzati. Se lo Stato innalzerà la loro aliquota
dovranno adeguarsi, certo. E sono anche d´accordo che per le società dove il
governo è intervenuto con sostegni ad hoc, come i Tremonti bonds, vi debba
essere un controllo su quanto guadagnano i vertici. Mi chiedo però una cosa:
perché nessuno si scandalizzano quando alcuni sportivi o attori guadagnano,
quattro volte tanto quel top manager che magari è responsabile di 50 mila
dipendenti?». Lei ritiene che in Italia ci sia un livello tale di
contrapposizione sociale che possa portare a rapimenti di manager come è
successo in Francia? «Non mi pare, per fortuna, che il clima sia questo. Quelle
azioni, comunque, vanno condannate». Pensa che la sinistra radicale lo abbia
fatto a sufficienza o che ritiene che abbia lasciato spazi al ritorno di una
lotta di classe? «Non giudico l´operato della sinistra radicale, anche perché
il Pd è cosa diversa. Al di là delle preoccupazioni di Bertinotti, che in
campagna elettorale dichiarava che fra me e Boccuzzi, il dipendente Thyssan
eletto nel Pd, ci doveva per forza essere qualcuno di troppo. Non è così, noi
due ci siamo sempre capiti, quelle contrapposizioni non ci appartengono».
( da "Repubblica, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 45 - Cultura
Dopo Galeano, una foto casuale dell´attrice lancia un altro libro Jolie e
ChÁvez, se i testimonial involontari fanno vendere Anche se involontario il
testimonial famoso funziona sempre. Adesso pure con i libri. L´ultima a fare
casualmente pubblicità è stata Angelina Jolie. E´ successo ieri mattina, a New
York, sul set del film "Salt", che racconta la storia di Edwina A.
Salt, agente della Cia. La Jolie ha approfittato di una pausa delle riprese per
uscire dagli studi; sotto il braccio aveva una copia del saggio di Richard
Haass War of necessity, War of choice: a memoir of two Iraq wars (Simon and
Schuster). Non il copione e nemmeno un romanzo, ma un´analisi del duplice
intervento Usa in Iraq. I blog di tutto il mondo si sono scatenati, prevedendo
un immediato incremento delle vendite, ma anche rilanciando l´interrogativo:
«Come fa con 6 figli a leggere un libro così impegnativo?». Probabilmente
Angiolina voleva "ripassare" il pensiero di Haass, presidente del
Council on Foreign Relations, organismo di cui anche l´attrice fa parte. E a
proposito di testimonial casuali, è di pochi giorni fa l´immagine del presidente venezuelano Hugo ChÁvez che regala a Barack Obama una copia di Le vene aperte
dell´America Latina di Eduardo Galeano, durante il summit delle Americhe. Il
libro è passato in 24 ore dal 734esimo posto al secondo nella classifica dei
più venduti su Amazon. E se la versione inglese ha scalato la graduatoria
ancora meglio è andata all´edizione spagnola che è balzata dalla 47.468esima
alla 283esima posizione. Anche in Italia c´è stato l´effetto Chavez-Obama: la Sperling & Kupfer, editore de Le vene, lunedì
lo ha ristampato, per le richieste dei librai. Chavez non è alla sua prima
promozione: tre anni fa mostrò all´Assemblea generale dell´Onu l´opera di Noam
Chomsky Egemonia o sopravvivenza. Dopo poche ore era in vetta alle classifiche
del mercato online.
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Primo Piano data: 25/04/2009 - pag: 2 Da Washington La Casa Bianca:
lavoriamo per intesa su Chrysler Il ricorso al Chapter 11 da parte di Chrysler
non è stata decisa in via definitiva. L'amministrazione di Obama ha fatto sapere che sta esaminando
«tutte le eventualità». «Il presidente, la sua task force sul settore auto e
tutti gli azionisti lavorano 24 ore al giorno per arrivare a un accordo che
protegga i posti di lavoro di Chrysler» ha detto il portavoce Robert Gibbs.
Accordo per l'auto La Casa Bianca
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Primo Piano data: 25/04/2009 - pag: 5 Gli esami sui patrimoni E con i
test l'America scopre che le banche tengono MILANO Pare sia andata meglio del
previsto: la gran parte delle banche statunitensi dispone di fondi propri
superiori ai livelli di sicurezza. E tuttavia per «alcuni» dei 19 istituti sui
quali la Fed ha effettuato i cosiddetti stress test le riserve sono risultate
drasticamente ridotte, almeno secondo le prime indicazioni emerse in attesa dei
dati definitivi previsti il 4 maggio. Per le banche che escono meglio delle
attese dalle simulazioni effettuate per valutarne non tanto il rischio di
insolvenza quanto la capacità di continuare a erogare credito in contesti
peggiori del previsto, vale comunque la raccomandazione della Fed di conservare
un un'eccedenza di capitale per due anni. Si stima che gli
accantonamenti-cuscinetto possano essere complessivamente di 900 miliardi. Ci
sono istituti in condizioni di salute «molto, molto buone» ha confermato il
capo di gabinetto della Casa Bianca Rahm Emanuel precisando che i risultati
definitivi mostreranno «una diversa gradazione» tra le banche. Nessun nome è
trapelato, ma secondo il «New York Post» la prima vittima illustre dei test
potrebbe essere Vikram Pandit, capo di Citigroup. Il suo allontanamento, ha argomentato
il quotidiano, dimostrerebbe che il governo è inflessibile con le banche come
lo è stato con le case automobilistiche. Il riferimento è
alle dimissioni di Rick Wagoner (Gm) pretese dal presidente Obama il mese scorso. La Fed preso in
considerazione due diversi scenari di crisi. Il primo con una contrazione del
Pil del 2% e un tasso di disoccupazione all'8,4% nel 2009, seguito da una
crescita del 2,1% e un tasso di disoccupazione dell'8,8% nel 2010. Il
secondo, più pesante, con una contrazione del Pil del 3,3% e un tasso di
disoccupazione all'8,9% nel 2009, seguito da una crescita dello 0,5% e un tasso
di disoccupazione del 10,3% nel 2010. Paola Pica Finanza Usa Il segretario al
Tesoro americano, Timothy Geithner
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Focus data: 25/04/2009 - pag: 13 Il piano Obama
lancia la sfida del binario ad auto e aerei La risposta degli Usa: «corridoi»
superveloci WASHINGTON Nel 2000, un altro anno di crisi a Wall street,
presentando a Bush il progetto «Positive train control» per la loro
integrazione e modernizzazione, la Lockheed Martin definì le ferrovie americane
«un gigante addormentato» il cui risveglio avrebbe favorito il rilancio
dell'economia. Bush non fece nulla. Ma nove anni dopo, il suo successore, Obama, ha destato il gigante con l'annuncio che lo stato
investirà 13 miliardi di dollari in treni ad alta velocità, una novità quasi
assoluta per l'America, 8 miliardi subito, gli altri 5 in un quinquennio.
«Occorre un sistema di trasporti intelligente adatto ai bisogni del XXI
secolo», ha detto Obama in una velata critica alla
passione incontrollata degli americani per l'auto e per l'aereo. «Ci dobbiamo
mettere al passo con l'Asia e con l'Europa, molto più avanti di noi in questo
campo. I treni sono il mezzo di trasporto forse più efficiente, non intasano il
traffico e non inquinano l'ambiente». Il risveglio del gigante addormentato fa
parte del piano di rivoluzione energetica di Obama,
che vuole ridurre la dipendenza dell'America dal petrolio straniero e passare a
poco a poco dalle auto a benzina a quelle elettriche (ne ha ordinate a Detroit
2.500 per il governo). E' anche deciso a creare migliaia di posti di lavoro e
ad attrarre massicci investimenti privati nelle ferrovie. I fondi per i treni
ad alta velocità, «che io invidio all'Europa», dichiarò Obama all'inizio del mese in un discorso
agli studenti europei a Strasburgo, arriveranno dai 787 miliardi da lui
stanziati per la ripresa dell'economia. Obama ha già tracciato dieci corridoi di mille chilometri di lunghezza
in media, dove i treni correranno a oltre 250 km orari. A partire dal
2012 salvo intoppi i tre più importanti collegheranno San Francisco a San Diego
in California, la New England alla Florida sulla costa E st, e varie parti del
Mid west. Come Lincoln, che oltre un secolo e mezzo fa ampliò la rete
ferroviaria per unificare l'America e accrescerne la produttività, Obama, che lo ha citato a più riprese, punta su di essa «per
cambiare il modo in cui noi viaggiamo per lavoro o facciamo turismo, e per
risparmiare energia, tempo e denaro». I modelli saranno la Francia e la Spagna
in Europa, e la Cina e il Giappone in Asia. Secondo la Casa bianca, la scelta
del presidente non inciderà sulla sua decisione di salvare l'industria
dell'auto americana. Semplicemente, come per i treni così per le auto, ha spiegato
un portavoce, Obama desidera che «rendano migliore la
vita dei nostri figli». Per i critici di Obama, i
colossi del petrolio in primo luogo, che vedono intaccato il loro monopolio, è
un passo indietro. In realtà, è un importante passo avanti, e Wall Street lo ha
confermato: in borsa, le azioni delle ferrovie sono tra le poche che salgono.
Per esse, inoltre, l'accesso alle alte tecnologie era questione di vita o di
morte. Gli Stati Uniti hanno 240 mila km di binari su cui passano ogni anno
quasi 2 miliardi e mezzo di tonnellate di merci. Le società che le gestiscono
sono 650, di cui molte hanno necessità di rinnovarsi. E il settore passeggeri,
che è in mano all'Amtrak acronimo di American track rischiava di diventare la
Cenerentola dei trasporti. Nel 2008, sui treni americani hanno viaggiato meno
di 35 milioni di persone, contro i 600 milioni delle linee aeree: lo 0,6 per
cento dei viaggiatori, tenuto conto anche di quelli sulle auto. L'economista
Robert Reich, un ex ministro del governo Clinton, sostiene che l'avvento dei
treni ad alta velocità «segnerà il rinascimento delle ferrovie ». L'Amtrak, il
cui nome intero è National railroad passengers corporation, e ha una rete di 35
mila km, con quasi 500 destinazioni in 46 dei 50 stati, prevede un vero boom.
Nel 2008 ha registrato il consueto deficit, 2 miliardi e mezzo di dollari di
incassi contro quasi 3 miliardi e mezzo di spese, e si è salvata con il
consueto sussidio dello Stato. Ma è sicura che i supertreni entreranno a far
parte del sogno americano e attireranno i visitatori stranieri. Reich è
d'accordo: «Non ci sarà modo migliore di vedere l'America in tutto il suo
splendore ». Ennio Caretto
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Esteri data: 25/04/2009 - pag: 15 «Prigioniera a Teheran» L'iraniana
Nemat, fuggita in Canada, racconta la sua terribile esperienza in un libro
proibito in patria Marina, torturata a Evin: «Non restiamo in silenzio» Marina
Nemat aveva 16 anni quando fu arrestata, trascinata in cella, torturata come
«sovversiva comunista» per qualche protesta in classe e un paio di articoli sul
giornalino del liceo. Era il 1982, a Teheran. E il lugubre carcere dove rimarrà
due anni era Evin, che oggi rinchiude la reporter iranoamericana Roxana Saberi
e molti altri «dissidenti». Marina riuscirà a evitare la morte: già davanti al
plotone d'esecuzione fu salvata da una Guardia della rivoluzione che l'amava,
le impose di convertirsi all'Islam (lei era ed è cristiana), la sposò. Poi la
fuga in Canada, un nuovo marito (il suo primo amore), due figli. E nel 2007 un
libro: Prigioniera di Teheran (Cairo Edizioni), proibito in Iran, tradotto in
23 lingue, che presto diventerà un film. Del caso Saberi si sta parlando molto
in Occidente. Ma dei prigionieri politici iraniani si sa poco in realtà. Come
mai? «Roxana, a cui sono vicina, è un caso speciale: ha doppia nazionalità, è
parte del gioco politico tra Iran e Usa, verrà usata, credo, come 'merce di
scambio'. Per questo staranno ben attenti a non torturarla né ucciderla. Hanno
gli occhi del mondo su loro. Ma in Iran ci sono da decenni migliaia di detenuti
innocenti, giovanissimi, ragazze, ignorati da tutti in Occidente. Solo negli
anni 80 i prigionieri politici erano 40-50 mila. E il 90% di loro erano
adolescenti, come me». Eppure anche lei ha aspettato quasi 20 anni per parlare,
nemmeno suo marito sapeva tutto. Perché? «È quasi impossibile uscire da simili
traumi e parlarne subito. È successo alle vittime delle torture in Cile e in
Argentina, quasi tutte restate in silenzio anche con l'arrivo della democrazia.
Dopo quei traumi si vive in una bolla, si diventa come un maratoneta condannato
a correre fino alla morte o a cadere. Io sono caduta. Dopo la morte di mia
madre, nel 2000, ho capito che lei non aveva mai saputo chi fossi io davvero.
Nessuno mi conosceva. Ho iniziato ad avere incubi, flashback, perfino episodi
psicotici. Ho capito che il silenzio mi avrebbe ucciso. Mi ero sbagliata
sperando di poter rimuovere Evin: era dentro di me. Dovevo farlo uscire». Cos'è
il carcere di Evin per lei e gli iraniani? «L'orrore in cui entri e sparisci.
L'incubo assoluto. Un tabù nazionale. Se qualcuno sopravvive e ne esce non ne
parla: per paura di tornarci, di rappresaglie sui propri cari, perché è 'nella
bolla'. Evin è parte del sistema dai tempi dello Scià, che lo costruì. Non è
cambiato nemmeno con il moderato Khatami: la reporter iranocanadese Zahra Kazemi
fu uccisa a Evin sotto la sua presidenza. Ora con Ahmadinejad è peggio. Da poco
è morto in cella il blogger Omid Mir Sayafi, uno dei tanti». Qualcosa sta cambiando però: le aperture di Obama a Teheran, le prossime
presidenziali in Iran. Siamo a una svolta? «Obama porta una nuova speranza, dopo i disastri di Bush. E credo che
in giugno il candidato moderato Mir-Hossein Mousavi abbia buone chance, la
gente ma anche i khomeinisti sono stanchi di Ahmadinejad. Ma perché le
cose cambino davvero ci vuole la caduta del regime, per ora impossibile. La
Storia ci ha insegnato che né l'islamismo né il marxismo portano alla
democrazia. E sarebbe ingenuo illuderci ». Che fare, allora? Shirin Ebadi
ritiene che sanzioni o, peggio, una guerra sarebbero un disastro per tutti.
«Concordo in pieno. Piuttosto, l'Occidente dovrebbe alzare la voce contro ogni
violazione dei diritti umani, non solo di cittadini con doppia nazionalità. E
aiutare la nascita di un'opposizione non ideologica, una vera alternativa. In
quanto a me, non posso tornare in Iran, ho subito minacce, ma resto in contatto
con il mio Paese. Sto preparando un secondo libro, insegno. E cerco altri ex
prigionieri di Evin per convincerli a parlare. Ma è difficile. Quasi tutti
scelgono di restare nella loro bolla, in silenzio ». Cecilia Zecchinelli
«Sovversive » L'autrice Marina Nemat (foto grande) e la reporter Roxana Saberi
(qui accanto) tuttora detenuta a Evin, Teheran (sopra, una cella femminile) \\
Roxana Saberi verrà usata come merce di scambio tra gli ayatollah e la Casa
Bianca
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Cronache data: 25/04/2009 - pag: 24 Sanità Contagi anche negli Usa.
L'Oms: rischio di pandemia Virus dai maiali all'uomo Messico, decine di morti
Il sottosegretario Fazio: da noi nessun rischio WASHINGTON Sessantuno morti,
quasi mille persone infettate, scuole e locali pubblici chiusi nel Messico
centrale. E otto casi segnalati negli Stati Uniti. Le autorità sanitarie
internazionali sono in allerta per un nuovo ceppo virale H1N1 dell'influenza
suina. Una possibile emergenza che è finita anche sulla
scrivania di Barack Obama:
«Il presidente è stato informato e segue la situazione », hanno comunicato i
portavoce. Nessuno ha intenzione di spandere il panico ma da Atlanta, il Cdc,
il centro specializzato nel seguire questo tipo di fenomeni, ha avvertito:
«Forse è troppo tardi per impedire l'epidemia». Tutto è iniziato con una
segnalazione dal Canada. Un turista rientrato da una vacanza in Messico ha
presentato i classici sintomi influenzali. Febbre forte, malessere. Successivi
test hanno mostrato che si trattava dell'influenza suina. I medici hanno allora
avvertito i loro colleghi messicani che hanno riscontrato similitudini con
decine di casi. E il fenomeno è cresciuto. Nel giro di pochi giorni il numero
delle persone colpite nel Paese centro-americano è salito: quasi mille casi, 15
morti sicuramente provocati dal virus ed altri 46 decessi sospetti. Quindi le
segnalazioni di 8 malati in alcuni stati americani confinanti: la California e
il Texas. Davanti all'estendersi del contagio le autorità hanno varato
contromisure nelle zone centrali del Messico, capitale compresa. Ieri è stata
decisa la chiusura immediata di scuole, teatri, librerie lasciando milioni di
bambini e di adulti a casa. A sorpresa, a conferma della situazione delicata,
il presidente Felipe Calderon ha rinviato un'importante visita nella città di
frontiera di Ciudad Juarez. Un viaggio che doveva riaffermare la presenza dello
Stato in una località dilaniata dagli scontri tra i narcos e l'esercito. Per
gli esperti questo tipo di virus è una novità. Per una serie di ragioni: La
prima: raramente si trasmette da umano ad umano ed invece qui è avvenuto. La
seconda: sembra essere una sintesi di fattori infettivi, in quanto le analisi
dimostrano che racchiude elementi dell'influenza aviaria e di quella suina.
«L'influenza messicana ha spiegato il professor Pietro Crovari dell'Università
di Genova è una situazione che merita attenzione perché potrebbe essere il
punto di partenza di una nuova pandemia. Trattandosi di un ceppo nuovo non
abbiamo difese immunologiche». Particolare la storia del virus. Il primo H1N1
ha ricordato l'immunologo è stato isolato nel 1933, quindi nel 1956, infine è
scomparso fino al 1977 quando è riapparso, forse per un campione «sfuggito»,
tra Cina e Russia. Tuttavia, ha aggiunto Crovari, non sembra essere
particolarmente virulento. I casi negli Stati Uniti, come quello in Canada, si
sono risolti senza gravi conseguenze. Al Cdc di Atlanta i dirigenti non hanno
nascosto la loro inquietudine in quanto sostengono di non aver ricevuto ancora
«informazioni complete». Mobilitata anche l'Organizzazione mondiale della
Sanità che potrebbe convocare un vertice nelle prossime ore. In Italia, ha
precisato il sottosegretario alla Sanità Ferruccio Fazio, siamo al livello di
allerta 3, un gradino sotto la soglia d'allarme. «Non ci sono rischi, la
situazione è sotto controllo», ma si sta valutando l'opportunità di effettuare
controlli alle frontiere. Guido Olimpio Controlli La gente in fila per sottoporsi
ai controlli davanti al General Hospital di Città del Messico (Ap)
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Cronache data: 25/04/2009 - pag: 28 Siracusa Il ministro
Prestigiacomo: non si potevano prendere decisioni. Il Brasile: dal petrolio i
fondi per il clima G8 sull'ambiente, solo una Carta sulla biodiversità DAL
NOSTRO INVIATO SIRACUSA Bisogna premetterlo: il G8 sull'ambiente di Siracusa
«non ha assunto decisioni perché non poteva prendere decisioni», come ha
spiegato Stefania Prestigiacomo, nostro ministro e padrona di casa in senso
letterale, visto che il summit che è finito ieri si è tenuto nel bel castello
recuperato della sua città. Ma bisogna essere chiari: dal G8 non è venuta fuori
nemmeno mezza proposta concreta. Molti buoni propositi, dichiarazioni
d'intenti. E un fiore all'occhiello: la Carta di Siracusa sulla biodiversità,
un punto di riferimento per le nuove e comuni strategie dopo il 2010. Ma sui
disastri climatici? L'inquinamento? Le emissioni della Co2? Gli investimenti
per le nuove tecnologie ecologiche? Due giorni e mezzo di dibattito, di cui
solo il primo aperto ai cronisti, sono riusciti a produrre soltanto un
riassunto delle difficoltà che i grandi della terra e i Paesi emergenti
dovranno affrontare in proposito. Da qui a dicembre per la riunione dell'Onu di
Copenaghen, passando per il nostro G8 dei capi di governo di luglio. Non era
facile mettersi d'accordo. Anche perché l'entusiasmo per
l'arrivo al summit di Lisa Jackson, l'inviata di Barak Obama responsabile dell'agenzia di
protezione ambientale, si è subito smorzato dietro ai suoi «non posso parlare
». Soltanto qualche parola di apprezzamento per il tema (dagli Stati Uniti
proposto) sul problema della tutela della salute dei bambini. Del resto
lunedì a Washington proprio Obama ha convocato il Mef
(Major economies forum) ed è verosimile che è da quel palco che gli Stati Uniti
scopriranno finalmente le carte sulla strategia della nuova politica ambientale
statunitense. Non era facile conquistare l'entusiasmo dei Paesi emergenti.
Anche perché sono stati loro i primi a mugugnare contro le tante parole prive
di contenuti dei grandi della terra. Per capire: rispetto alle cifre messe in
conto da ogni Paese per i cosiddetti pacchetti anti-crisi, l'Europa ha
destinato all'ambiente l'8% contro il 38% della Cina e il 18% del Brasile. Già,
il Brasile. I mugugni più sonori sono arrivati proprio da Carlos Minc, ministro
brasiliano per lo sviluppo, sottolineando gli sforzi del Paese che sta
lavorando ad un obiettivo alquanto ambizioso: la riduzione del 70% della
deforestazione in Amazonia entro il 2017. «Questo vuol dire una riduzione di
emissione di Co2 di 4,5 miliardi di tonnellate», ha spiegato Minc prima di
aggiungere una provocazione: «Noi il prossimo agosto in Brasile approveremo una
legge che prevede che il 10% dei profitti del mercato del petrolio vengano
destinati a favore del fondo sul clima. Contiamo di recuperare così almeno 800
milioni di dollari l'anno. Perché non fanno questo anche i paesi del G8?». Ma i
Paesi del G8 a Siracusa non hanno parlato di cifre. Né di percentuali. Hanno
messo nero su bianco che ci sono cinque nodi da sciogliere: «E questo è un
risultato molto importante», ha commentato il ministro Prestigiacomo. Ma a
leggerli di seguito sembrerebbero matasse, più che nodi visto che si tratta di
stabilire i target a medio e a lungo termine, la compatibilità degli sforzi tra
i Paesi, i finanziamenti, la governance per la gestione degli investimenti.
Alessandra Arachi
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Lettere al Corriere data: 25/04/2009 - pag: 45 Risponde Sergio Romano
L'IMBROGLIO AFGANO PERCHÉ È DIFFICILE USCIRNE Continuo a chiedermi perché in
Italia nessun politico della maggioranza abbia il coraggio di prendere
posizione, interpretando l'opinione prevalente degli italiani che evidentemente
conta come il due di picche, contro la permanenza in Afghanistan del nostro
contingente militare: sembra un argomento tabù. Finora in quelle contrade le
forze dello schieramento occidentale hanno conseguito risultati nulli per la
inconsistenza di Karzai, per le incontrollabili intromissioni del vicino
Pakistan, per la natura intrinseca della composizione della società afgana che
si regge sulla molteplicità tribale. E i propositi di distruggere l'influenza
dei talebani e di contrastare la spinta dell'Islam sul piano sociale sono
oggettivamente illusori. Perché allora non ammetterlo e dare, ritirando le
nostre truppe a costo di provocare un temporaneo gelo nei rapporti con gli Usa,
un segnale di realismo politico? Non le pare pusillanimità? Antonio Benazzo
abenazzo@hotmail.com Caro Benazzo, P rovo a immaginare come il ministro degli
Esteri risponderebbe alla sua lettera se fosse libero di esprimersi
liberamente. «La situazione afgana è pessima. Il presidente Karzai controlla
tutt'al più la capitale e tollera, per restare al potere, un regime clientelare
che arricchisce una piccola oligarchia e nuoce alla sua credibilità. La legge
sul 'debito coniugale' (come veniva eufemisticamente chiamato il diritto
d'imporre alla moglie il proprio piacere) è un regalo alla comunità sciita ed è
soltanto un esempio dei compromessi a cui Karzai deve piegarsi per restare in
sella. I talebani, intanto, controllano una buona parte del territorio, si
finanziano con il commercio della droga e hanno costituito di fatto una sorta
di Stato che comprende le province orientali dell'Afghanistan e quelle
occidentali del Pakistan. È questo il tragico paradosso della guerra americana:
otto anni dopo l'invasione i talebani sono tornati sulle terre perdute e stanno
insidiando la stabilità del maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione.
«Le prospettive non sono incoraggianti. Gi americani hanno deciso di aumentare
il loro contingente con l'invio di 20 mila soldati, ma il generale David
Petraeus, ex comandante delle truppe americane in Iraq, ha detto negli scorsi
giorni che la situazione, prima di cominciare a migliorare, peggiorerà. Non
basta vincere qualche battaglia. Occorre conquistare gli animi della
popolazione, diffondere un sentimento di fiducia e di speranza. Sono gli
obiettivi che ci siamo proposti con programmi di ricostruzione e formazione
civile. Ma non è facile realizzarli in un Paese dove le truppe della Nato non
riescono a controllare stabilmente il territorio. «Lei sostiene, caro Benazzo,
che dovremmo andarcene. Ma dimentica che siamo in Afghanistan nell'ambito della
Nato e che un'alleanza non è un pranzo alla carta in cui ogni commensale mangia
quello che gli piace e scarta il resto. Potemmo andarcene dall'Iraq perché vi
andammo sulla base di una flessibile intesa bilaterale che poteva essere
modificata secondo le circostanze. Ma l'Afghanistan, ripeto, è un'altra cosa. È
lecito avere molti dubbi sull'utilità della Nato oggi, ma non è possibile
lasciare i nostri alleati nei guai senza pagare il prezzo di quello che
verrebbe considerato un tradimento. «Tutti i Paesi che hanno mandato le loro
truppe in Afghanistan sono quindi prigionieri di un dilemma. La vittoria è, a
dir poco, improbabile, ma il ritiro delle truppe
regalerebbe ai talebani un successo che avrebbe effetti disastrosi sulla
stabilità dell'intera regione. Il quadro potrebbe forse migliorare se la Nato
potesse contare sulla collaborazione, anche militare, della Russia e dell'Iran.
Ma questo dipende da Obama
e dalle iniziative che prenderà nei prossimi mesi».
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Cultura data: 25/04/2009 - pag: 47 IN PAGINA La pace come impresa di
SANDRO MODEO L'ipotesi di un calo di produzione di armi post Guerra fredda si è
rivelata illusoria. Come mostra Vincenzo Comito ( Le armi come impresa,
Edizioni dell'Asino, pp. 88, e 5), già dai primi anni Novanta a un minor numero
di conflitti tra Stati ha corrisposto un'intensificazione di guerre civili e
attività terroristico-criminali. Risultato: la spesa militare globale è
aumentata del 48% tra 1998 e 2007, con profitti anche per i privati (le
compagnie militari in Iraq) o per le tante aziende riconvertite al militare. Si
tratta, com'è noto, di un settore cardine a livello occupazionale. Eppure,
citando alcuni esempi la Valsella, passata dalle mine
antiuomo alla produzione civile Comito è convinto che il percorso si possa
invertire: che l'avanguardia tecnologica non siano i software da
guerra-playstation, ma le energie rinnovabili. In fondo, è la strada di Obama: quella che gli pseudorealisti,
contigui al Sordi di Finché c'è guerra c'è speranza, hanno subito tacciato di
demagogia.
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Spettacoli data: 25/04/2009 - pag: 53 Whatever works La commedia di
Allen ambientata a New York. «In amore tutto funziona» L'alter ego di Woody «E'
vero, dietro il genio protagonista ci sono io Il mio film è una soap tra
divorzi e passioni gay» NEW YORK Woody Allen è impareggiabile nell'ironia con
la quale spiega Whatever works. «Il titolo ha bisogno di un chiarimento
dichiara Woody . Mettiamo il caso che il presidente Obama proponga un piano bizzarro per
'restaurare' l'economia. Se questo suo progetto non fa del male ad alcuno e
rasserena gli animi, whatever works. Ossia tutto ha la possibilità di
funzionare, al di là di ogni diversità di opinione, speculazione o economico
interesse. Nel mio film, l'affermazione vale per l'amore: bisogna
saperlo vivere senza preclusioni e diffidenze». La pellicola, presentata in
prima mondiale al Tribeca Festival, è interpretata da Larry David, Patricia
Clarkson, Evan Rachel Wood e dal giovane inglese Henry Cavill. Dopo impegni a
Londra e a Barcellona per le sue ultime pellicole, Whatever works ha riportato
l'autore allo scenario da vero co-protagonista della sua New York con un
copione da lui scritto e diretto che pare riproporre il Woody dei primi film,
carico di humour, sarcasmo e «malinconica allegria». Ci sono nel film scritto
da Allen divorzi, un matrimonio tra un uomo molto anziano e una ragazza
arrivata senz'arte né parte a New York dal profondo Sud, due uomini e una donna
uniti dalla passione, un sentimento tra due uomini, tentativi di suicidio e
dialoghi fulminanti. Tipo: «Dio è gay» dice un uomo abbandonato dal suo
compagno. «Ma come replica un marito fedifrago e che scoprirà di essere un gay
represso Egli ha creato la natura, le nostre giornate, la bellezza ». «Appunto
ribatte il suo futuro compagno incontrato in un bar . Era un ottimo decoratore
di esterni e interni». C'è soprattutto un protagonista e voce narrante, che
dialoga con una invisibile platea della schermo. Dice Woody: «Sarebbe
limitativo fermarsi alle battute o affermare che racconto una relazione tra una
donna e due uomini, un marito che si scopre gay, l'arrivo della madre di Melody
(Evan Rachel Wood) diventata mia moglie Il finale è pessimista e ottimista al
tempo stesso, proprio perché i personaggi hanno capito l'importanza del tutto
funziona ». Non è Woody Allen a interloquire con il pubblico dallo schermo, ma
Larry David, uno degli autori e attori televisivi più noti e apprezzati in Usa.
E' lui, nei panni di Boris, un «genio» (o tale almeno si considera), misantropo
professore di fisica in pensione che, dopo un divorzio e un tentato suicidio,
ha lasciato l'Upper East Side per un appartamento a Dowtown. Però dietro Boris
c'è tutto Woody che a 72 anni sembra essersi divertito molto a scrivere e a
dirigere questa sua commedia romantica. Ammette che il film può sembrare una
soap opera di Danielle Steel o Jackie Collins. Ride: «È vero, forse è anche una
soap opera, ma non è lo spesso la vita stessa? Boris, dallo schermo, rivolto
alla platea, dichiara: 'Solo io sono rimasto sino alla fine, sono l'unico che
ha visto e vissuto l'intero film, sapendo che qualcuno lo stava osservando. Per
questo sono un genio'». Racconta: «Al mattino, il professore Boris in pensione
detesta leggere i giornali perché gli rovinano l'umore. Fu Ingmar Bergman a
dirmi molti anni fa che al mattino non leggeva mai i giornali. Faccio lo
stesso: li raccolgo sulle scala, con vero piacere all'idea di gustarmeli in
serata. Non ci sono computer nei miei film. Detesto l'idea di leggere un
quotidiano sul computer, non ne uso alcuno, sono affezionato alla mia macchina
da scrivere Olimpia e non mi piace internet dove puoi anche incontrare qualche
serial killer sebbene dicano che si tratta di uno strumento 'globale e
democratico' ». Boris non vorrebbe tornare a essere l'uomo sposato un tempo a
una intellettuale dell'Upper East Side, non ha rimpianti neppure quando lo
lascia la giovane Melody. E lei? «Ne ho uno solo: come attore da giovane girai
un film in Europa. Avrei voluto fermarmi a Parigi, non lo feci. Quel rimpianto
è sempre vivo». Che cosa ha provato nel girare di nuovo nella sua «cultura
urbana»? «Mi è piaciuto. Aggiungo: ho sempre pensato che, per salvarsi dal
caos, New York dovrebbe diventare un nuovo e altro Stato autonomo degli Usa».
Che cosa le piace del Boris nato dalla sua immaginazione? «Il suo realismo nel
guardare il mondo, nello sposare Melody che pareva orgogliosa di essere
maritata a un genio, nell'essere lasciato due volte, nel ritrovare un terzo
amore... In fondo, non fa differenza se, alla fine, prima di lasciare questo
brutto mondo, tutto funziona». Giovanna Grassi Cineasta A destra Woody Allen
sul set con Larry David, suo «alter ego» nel film. A sinistra ancora Larry
David ed Evan Rachel Wood in una scena di «Whatever works» presentato al
Tribeca Film Festival Coppia Evan Rachel Wood e l'attore inglese Henry Cavill
in «Whatever works» di Woody Allen \\ Non mi piace Internet. Dicono che è uno
strumento «globale e democratico» ma sul web puoi anche incontrare i serial
killer
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Spettacoli data: 25/04/2009 - pag: 53 La coppia Il «maestro» partecipa
allo show dal vivo dell'amico che gli dice: «Aspettiamo il Riskytutto» Mike in
mongolfiera per il debutto da Fiorello ROMA Mike Bongiorno arriva in
mongolfiera. Piove dall'alto sullo show di Fiorello, come un Leviatano mediatico
che tutto domina: «Rosario! Rosario!», urla da lassù il maestro. E l'allievo
dal basso: «Mike! Ma che ci fai in mongol-- fiera?! ». «Amici telespettatori,
allegria! allegria! eccomi qua», risponde imperturbabile l'ultraottantenne
appeso al pallone. Aggiunge: «Fa freddo, quassù, Fiorello, sto parcheggiato da
un po', in attesa di entrare in scena...». Ti ricordi quando eri sul Cervino?
ribatte Fiore ti vedo abbronzato...». «Ma come fai a vedermi abbronzato?! Sto
al buio! ». «No, ti vedo... sembri Obama! ». La gag, che segna l'ingresso
ufficiale del decano dei presentatori a Sky, prosegue per qualche minuto nel
Palatenda di piazzale Clodio, gremito di pubblico, dove si realizza lo show
televisivo in onda stasera alle 21.15 su SkyUno. Battute a raffiche, anche di
vento, finché Mike, provato dall'altitudine, reclama: «Terra! Terra!».
Poco dopo Bongiorno riappare in palcoscenico, nel salotto tipo Letterman show:
«Ho preso freddo», si lamenta, ma lo riscalda il suo più giovane collega, che
comincia a snocciolare aneddoti sulla lunga carriera del maestro: «È nato nel
1924 e già a 12 anni conduceva il suo primo programma 'Il quadrato della
fortuna'», perché la ruota ancora non esisteva. E poi: «Si è diplomato a Torino
e tra i primi a congratularsi, ci fu Pippo Baudo... ». Attacca con le domande:
«Mike, è vero che la prima volta che Berlusca ha messo i tacchi lo ha fato
davanti a te e tu gli hai detto sempre più in alto?... Quando la Longari ti è
caduta sul... ti ha fatto male? Si chiamava davvero 'Fiato alle trombe' di nome
e Turchetti di cognome?». Bongiorno precisa: «Tu ci scherzi, ma a quell'epoca
arrivavano davvero lettere indirizzate al dottor Fiato alle trombe Turchetti!».
E il mitico «Rischiatutto », secondo Fiorello, tornerà in una nuova versione
con l'approdo di Mike alla paytv. Assicura: «Si chiamerà il Riskytutto». Boati
di applausi in platea dal vivo. Ottimi ascolti in tv: una media di oltre 330
mila spettatori. In prime time, la media di ascolto del canale 109 SkyUno si è
più che triplicata, passando da 23.256 a 77.392, nonostante il fatto che il
Fiorello Show duri solo mezz'ora e che per una settimana non è andato in onda
dopo il terremoto. Un successo che il vulcanico showman siciliano adesso mira a
confermare, coinvolgendo il compagno ottantenne: «Ho detto a Mike: vieni con me
a Sky...ma in che rapporti stai con Silvio Berlusconi?». Mike gli sussurra
qualcosa all'orecchio. E Fiore, con il vezzo da Padrino, dice al pubblico:
«Mike perdona, ma non dimentica... ». Emilia Costantini L'arrivo di Mike sulla
mongolfiera (Foto Ansa)
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere
della Sera sezione: Scienza data: 25/04/2009 - pag: 30 Un lichene di nome Obama Ricercatori
dell'università californiana di Riverside hanno scoperto una nuova specie di
lichene alla quale è stato dato il nome del presidente Barack Obama: si chiama
infatti Caloplaca obamae
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Esteri data: 25/04/2009 - pag: 16 Usa-Russia Avvio «costruttivo» a
Roma dei negoziati per il disarmo ROMA I responsabili di Russia e Usa per il
dossier nucleare hanno definito rispettivamente «costruttivi» e «molto
produttivi» i negoziati preliminari di ieri a Roma, ospitati all'ambasciata
americana di via Veneto. In una conferenza stampa seguita ai negoziati, Anatoly
Antonov, direttore del dipartimento per il disarmo del ministero degli Esteri
russo, ha assicurato che Mosca «farà tutto il possibile» per trovare un accordo
con Washington. La controparte americana, Rose Gottemoeller, assistente
segretario del dipartimento di Stato, ha spiegato che le trattative sono state
un buon passo iniziale, annunciando che ci saranno una serie di colloqui «più
sostanziali» nelle prossime settimane. Antonov ha aggiunto che il primo round
verrà ospitato a Washington a metà maggio. Il compito dei delegati è preparare
un rapporto dettagliato entro l'estate, da presentare alle rispettive capitali.
Il documento sarà poi la base per l'incontro tra il
presidente americano Barack Obama e quello russo Dimitri Medvedev, in agenda a luglio. I due
responsabili hanno detto che l'obiettivo finale dei colloqui è preparare una
bozza di accordo entro la fine dell'anno. Il trattato che stabilisce il numero
massimo di testate consentite per Russia e Usa è lo Start e scade il 5 dicembre
prossimo.
( da "Stampa, La" del
25-04-2009)
Argomenti: Obama
L'occasione mancata
IL VERTICE DI LUGLIO Molti Paesi pensano a ridurre le delegazioni viste le
condizioni dell'area scelta G8 all'Aquila disco verde dall'Europa LE REAZIONI
DEI PARTNER Il summit Dopo Londra via libera al trasferimento anche dai governi
tedesco e giapponese "Gesto forte e importante". Sì pure da Tokyo Obama
aspetta l'ok dai servizi di sicurezza [FIRMA]EMANUELE NOVAZIO ROMA Dopo il
governo britannico, anche quelli tedesco e giapponese dicono sì allo
spostamento del G8 di luglio all'Aquila, mentre da Washington arriva la
conferma che la disponibilità di principio della Casa Bianca non ha ancora
ottenuto il via libera ufficiale dei servizi di sicurezza e dai responsabili
dell'organizzazione. Nell'insieme comunque - afferma il segretario
generale della Farnesina e «sherpa» dell'Italia al G8 Massolo - la decisione «è
stata accolta bene dalla comunità internazionale: i nostri partner hanno
fiducia in noi, e la loro fiducia è ben riposta». Anche dal punto di vista
della sicurezza, garantisce Silvio Berlusconi: «Non ci saranno problemi di
ordine pubblico, la scelta dell'Abruzzo disincentiva le proteste dei
no-global». Ieri, mentre in Italia l'opposizione manifestava perplessità per la
decisione, le sole capitali a esprimersi ufficialmente sono state Berlino e
Tokyo: «E' un gesto di solidarietà. Siamo fiduciosi che i partner italiani
creino le condizioni necessarie dal punto di vista logistico», ha dichiarato il
portavoce della cancelliera Merkel. «E' compito del Paese organizzatore
decidere sul luogo del vertice, e noi non siamo in condizione di esprimere
obiezioni», gli ha fatto eco il capo di gabinetto del premier Taro Aso. Il capo
della Protezione civile Bertolaso assicura che «ci sono i tempi per organizzare
un vertice positivo e costruttivo che deve rispettare anche il criterio di
sobrietà imposto dal momento». Ma la preoccupazione di Berlino non è isolata.
Richiesti di un commento, funzionari del Quai d'Orsay dichiarano alla «Stampa»
che l'unico problema è «di tipo logistico»: considerate le condizioni dell'area
in cui si terrà il vertice, «bisognerà pensare a delegazioni molto ridotte»
invece di quelle inviate normalmente, decine di migliaia di persone nel
complesso. Al ministero degli Esteri francese ritengono però che la scelta
dell'Aquila abbia un significato simbolico: la città è il posto adatto alla
riunione delle principali economie mondiali, «considerando il clima d'oggi».
Anche da Russia e Canada, che pure ufficialmente tacciono, non ci sono
obiezioni insormontabili. Mentre plaude - senza celare le consuete
preoccupazioni per le difficoltà organizzative - l'Unione europea: «Un gesto
forte e importante», commenta un portavoce della Commissione. «Un passo
positivo dettato dalla solidarietà», precisa la commissaria per le relazioni
esterne Benita Ferrero-Waldner, in visita a Roma: certo «bisognerà vedere come
organizzare la logistica», ma «l'Italia è un Paese creativo». Se era
prevedibile che i partner stranieri non sconfessassero una scelta che - al di
là di ogni altra valutazione - assume nel mondo la valenza del simbolo, la
decisione di Berlusconi ha sollevato perplessità e polemiche in Italia, nelle
file dell'opposizione. «E' un gesto di solidarietà, ma non so se il G8 sarà più
un problema o un aiuto per l'Abruzzo», nota Massimo D'Alema: «Ai terremotati
servono più stufette nelle tende». Per Antonio Di Pietro, leader dell'Italia
dei Valori, lo spostamento del vertice in Abruzzo è «uno spot elettorale» e
«un'ennesima presa in giro», perché «ci sono già 300 milioni di euro spesi in
Sardegna e 200 da spendere in Abruzzo per opere che il giorno dopo dovranno
essere smontate». Un'accusa respinta dal governo: le infrastrutture resteranno
alla Sardegna, garantisce il ministro degli Esteri Frattini. Lo ha confermato
Silvio Berlusconi al presidente regionale Ugo Castellacci, ricevuto ieri a
Roma: tutte le opere avviate per il vertice di luglio saranno completate e
utilizzate per futuri eventi internazionali. A cominciare dal G8 sull'ambiente
voluto da Obama.
( da "Corriere della Sera"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
Corriere della Sera
sezione: Esteri data: 25/04/2009 - pag: 17 In breve Armeni Obama non parla di genocidio WASHINGTON
Migliaia di armeni hanno commemorato ieri a Erevan il milione e mezzo di
vittime massacrate dall'impero ottomano tra il 1915 e il '17. A Washington
Barack Obama ha ricordato
il tragico evento senza usare il termine «genocidio», preferendo non
interferire nel processo distensivo in corso tra Erevan e Ankara, che
respinge ogni responsabilità nella strage armena. Mercoledì, i due governi si
erano accordati su una «road map» per arrivare alla riconciliazione, dopo
decenni di gelo. Il presidente Usa ieri ha comunque aggiunto che «94 anni fa
cominciò una delle maggiori atrocità del XX secolo».
( da "Stampaweb, La"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
WASHINGTON Senza
giacca nello Studio Ovale, in raccoglimento di fronte al ritratto di John F.
Kennedy nella West Wing, circondato da uno staff che lavora online e seguito
ovunque dal teleprompter che lo aiuta a leggere i discorsi, Barack H. Obama nei primi cento giorni di governo ha incarnato lo
stile di un presidente quarantenne, lavorando su due priorità. Affidare la
ripresa alla realizzazione di un modello economico incentrato sul sostegno alla
classe media e rilanciare la leadership Usa nel mondo contando sulla capacità
di dialogare con gli avversari. Eletto da una nazione atterrita dallincubo
della povertà, Obama ha mobilitato le finanze pubbliche per sostenere la
crescita nel breve periodo ma ciò che per lui conta di più è lobiettivo
di medio termine: la creazione di un nuovo modello di crescita che aiuti le
famiglie della classe media a spendere meno e vivere meglio. Basta scorrere la
lista delle iniziative prese per rendersene conto: più sanità pubblica per ridurre le spese per
anziani e bambini, più borse di studio per spingere verso il college i figli
dei poveri, alta velocità per abbattere le mura geografiche che isolano i
centri meno sviluppati, rete a banda larga per dare pari opportunità online a
ogni cittadino, fonti rinnovabili per abbattere le bollette energetiche,
interessi più bassi per le carte di credito. Ordini esecutivi, leggi al
Congresso e decreti puntano a trasformare il ceto medio flagellato dalla
recessione nel pilastro di una nuova stagione di crescita. Il regista è Larry
Summers, il ministro del benessere clintoniano, mentre il titolare del Tesoro
Tim Geithner ha confezionato un piano di rimedi alla crisi finanziaria che
ancora non convincono Wall Street, esponendo il presidente alle accuse di
«statalismo» rivoltegli dai repubblicani come a quelle di «aver adottato false
soluzioni» giuntegli da liberal come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Se il
piano di lungo termine per la classe media spiega lottimismo
della maggioranza degli
americani sulla direzione in cui va la nazione, le perduranti incertezze
economiche sono allorigine delle lunghe file di disoccupati
alle «job fairs» di città in città. Il risultato è che il presidente consolida
un personale rapporto con la base attraverso meeting via Internet, messaggi su Youtube e mail ai fan
di «Organizing for America» mentre al Congresso ha difficoltà a trovare i voti
per far passare il bilancio federale. La base elettorale è ancora con lui e
crede nei cambiamenti che promette mentre i problemi sono nelle battaglie
politiche quotidiane con lopposizione repubblicana sulle barricate e
i democratici spaccati sul «tassa e spendi». Anche sul fronte della politica
internazionale Obama appare in mezzo al guado. I primi cento giorni sono
serviti per presentare, da Londra a Strasburgo, da Praga e Trinidad, unidea
di leadership americana nel mondo che si riassume nella «responsabilità di
aiutare la comunità internazionale a trovare le risposte migliori ai problemi
più urgenti», dalla salute del Pianeta alla lotta al terrorismo, dalla recessione alla
proliferazione nucleare. è un approccio pragmatico, basato sulla necessità
delle alleanze e sul dialogo con gli avversari, che ha portato Obama a promuovere «mutuo rispetto» con lIslam,
stringere la mano al
venezuelano Hugo Chavez, scambiarsi messaggi con liraniano
Mahmud Ahmadinejad e far accogliere i suoi inviati dal siriano Bashar Assad, ma
tale slancio finora ha dato scarsi risultati: lEuropa è contro lo stimolo
globale per leconomia, la Nato non manda più soldati in Afghanistan, la Nord Corea ha
testato un nuovo missile intercontinentale, lIran ha
inaugurato la prima centrale nucleare e il Pakistan appare in balia dei gruppi
jihadisti. La differenza fra propositi è risultati è tale che Karl Rove, ex guru elettorale di Bush
oggi polemista conservatore, infierisce dalle colonne del «Wall Street Journal»
accusando Obama di «farsi largo
nel mondo parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò
che più minaccia Obama è il
rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento degli agenti della
Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli
interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da
Dick Cheney su sicurezza ed economia preannunciano una resa dei conti
dentro lestablishment che potrebbe essere innescato dalle commissioni di
inchiesta del Congresso invocate dai leader democratici. FOTO Usa, i primi 100
giorni di Obama: ecco le cose fatte commenti (0) scrivi
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
IN VARI pensatoi da
qualche tempo si discute se il Pakistan arriverà alla fine del 2009; o se
invece collasserà prima, implodendo in un'anarchia generalizzata nella quale
vagoleranno Taliban, milizie tribali e una dozzina di bombe atomiche pronte per
l'uso. Fauste o infauste, le prognosi convengono su questo: l'Occidente dispone
ancora di strumenti per tentare di arrestare il marasma pachistano prima che
diventi irreversibile. Il problema è che nella prassi politica e militare il
poderoso consesso delle democrazie somiglia ad uno quegli eserciti persiani che
la falange macedone sbaragliava a ripetizione durante la sua marcia verso
l'Indo, poiché la confusione di lingue e stili di combattimento li conduceva a
fallire le manovre più elementari. E comunque il salvataggio del Pakistan non è
certo un'operazione facile. Nei suoi turbolenti sessant'anni il Paese ha visto
alternarsi indecorose dittature militari e non molto più decorosi governi
civili. Un tempo era la Terra promessa della sempre attesa Riforma islamica,
poi è stato infettato da un ultra-fondamentalismo d'importazione che oggi conta
per una piccola quota dell'elettorato, meno del 5%, ma rappresenta la quasi
totalità delle milizie, vale a dire decine di migliaia di armati. La sua
fazione "rivoluzionaria", i Taliban, ormai è saldamente attestata in
vasti territori al confine con l'Afghanistan, e li usa come trampolini per
successive avanzate. In marzo le sgangherate milizie di tale Fazlallah, più
noto come "Mullah radio" per le sue concioni radiofoniche, si sono
presi lo Swat, una regione a ridosso della frontiera afgana, dove hanno
sostituito lo stato di diritto con la giustizia delle corti islamiche.
OAS_RICH('Middle'); In cambio di una vaga promessa di non belligeranza, il
governo centrale ha ratificato questo atto di aperta sovversione. Galvanizzati,
all'inizio di questa settimana quei Taliban sono calati nella valle di Buner,
un centinaio di chilometri della capitale, e ammazzati alcuni poliziotti, hanno
ordinato alle donne di chiudersi in casa, alle scuole di serrare i portoni.
Soltanto un nuovo negoziato con Islamabad, e presumibilmente nuove concessioni,
ieri hanno indotto quei guerrieri a tornare nelle loro montagne. Sbigottiti da
questi eventi, nelle ultime ore gli occidentali hanno scoperto che se in
Afghanistan non va bene, in Pakistan va molto peggio. E' a rischio
"l'esistenza stessa del Pakistan", ha avvertito il generale Petraeus.
La Clinton, Berlino, Londra, la preoccupazione è unanime. E al Pentagono,
questo possiamo darlo per scontato, hanno tirato fuori dai cassetti i piani per
tentare di impossessarsi delle atomiche pachistane qualora tutto precipiti. A
questo coro angosciato manca la voce di chi dovrebbe difendere le istituzioni
nell'ora più grave, le Forze armate pachistane. Se si esclude una dichiarazione
vaga e ufficiosa attribuita al capo di stato maggiore, i generali tacciono. E
il loro silenzio è misterioso quanto la loro inazione. Proviamo a ripercorrere
la sequenza che conduce alla "talibanizzazione" dello Swat. Quel "mullah
Radio" che pare in grado di minacciare uno Stato di 165 milioni di
abitanti, non è un Garibaldi islamico, ma un noto pasticcione. E i suoi
miliziani non sono molti più dei cinque o seicento che nei giorni scorsi hanno
"conquistato" la valle di Buner. Perché l'esercito, forte di
cinquecentomila uomini, ha lasciato fare? E perché proprio adesso, mentre il
presidente pachistano si prepara a partire per Washington? Ecco le domande che
l'Occidente dovrebbe porsi. Il vertice militare pachistano non inclina al
fondamentalismo, ma come ormai è evidente, non combatte la nostra stessa
guerra. La sua priorità è contrastare l'India, tanto più che quella sta
rafforzando notevolmente le sue posizioni in Afghanistan, in buona
collaborazione con gli americani. Per una cultura militare ossessionata dalla
geopolitica, avere gli indiani sia a est che a ovest rappresenta una minaccia
esistenziale. Percezione sovreccitata, ma favorita dall'attivismo del servizio
segreto indiano in Afghanistan e dai toni bellicosi usati da leader della destra
indù nella campagna elettorale in corso. Questo lo sfondo. Ma più immediato, e
forse decisivo, è il rapporto sempre più problematico con gli Stati Uniti. Da quando si è insediato Obama, la frequenza dei bombardamenti americani in Pakistan è
aumentata. Che aiutino o no le sorti della guerra afgana, cominciano a
diventare uno smacco per le Forze armate pakistane, i cui compiti istituzionali
includono la tutela dei confini. Fino a ieri lo stato maggiore ingoiava,
in cambio di copiosi aiuti militari. Ora anche gli aiuti si sono diradati,
mentre a Islamabad si consolida il sospetto che ormai Washington dia retta alla
diplomazia indiana, quando ripete: il Pakistan è finito. Non è così. Ma se
l'esercito scegliesse una "neutralità" suicida, e se gli occidentali
non riuscissero a farlo ricredere, quella potrebbe diventare l'ennesima
profezia che si autoinvera, e per il solito motivo: l'inettitudine degli
attori. (25 aprile 2009
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
CITTA' DEL MESSICO -
Le autorità di Messico e Stati Uniti sono in allerta nel tentativo di contenere
l'epidemia di influenza suina che si teme abbia già fatto 61 morti in Messico
(venti i casi già accertati) e contagiato otto persone negli Stati Uniti. E l'allarme
è già esteso in tutti i Paesi latinoamericani, dove sono aumentati i controlli
negli aeroporti e attivati piani sanitari di emergenza per evitare il contagio.
Il presidente del Messico, Felipe Calderon, ha presieduto venerdì per varie ore
un incontro con i massimi esperti sanitari del Paese per valutare la
situazione. L'influenza suina, un sotto-tipo del tradizionale ceppo H1N1 che si
è trasferito dai maiali all'uomo, ha causato nella capitale messicana e in
un'area limitrofa almeno 20 morti e un migliaio di contagi. I primi casi del
virus sono stati individuati il 13 aprile, ma è solo da giovedì che si è
compresa l'estensione e la gravità dell'epidemia. Il Messico ha chiuso scuole,
musei, biblioteche, teatri in tutta la sua popolosa capitale e in una provincia
vicina "fino a nuovo ordine". Anche se le autorità sanitarie fanno
notare che la media dei decessi non è aumentata e non si è verificato
quell'incremento esponenziale dei contagi che si temeva. Le analisi genetiche
mostrano però che il ceppo incriminato è una mescolanza mai vista prima tra
virus aviario, suino e di essere umano. E il fatto che la gran parte dei
decessi riguardi persone tra il 25 e i 45 anni è considerato un preoccupante
segno che fa pensare alla pandemia perchè le influenze stagionali tendono
invece a colpire gli anziani e i bimbi piccoli. OAS_RICH('Middle'); Intanto
negli Usa, il direttore del Centro di Controllo e Prevenzione delle Malattie
(il Cdc di Atlanta), Richard Besser, ha ammesso che "probabilmente è
troppo tardi" per riuscire a contenere una nuova epidemia. Negli Stati
Uniti i casi accertati sono 8 tra California e Texas (sei risiedevano nel sud
della California e due nell'area di Sant'Antonio, in Texas) ma solo uno era
stato in Messico. E si indaga su alcune decine di studenti di un liceo nel
Queens che si sono ammalati con sintomi simili. Il governatore della
California, Arnold Schwarzenegger, ha assicurato di avere un
"rigoroso" piano di risposta all'epidemia. Ma Besser ha spiegato che
è probabilmente troppo tardi per cercare di contenerla vaccinando, trattando o
isolando la popolazione. "Gli elementi in nostro possesso ci fanno credere
che il contenimento (del contagio) non sia (più) molto probabile", ha
spiegato, confermando che il virus sembra essere lo stesso negli Usa e in
Messico. Besser ha sottolineato però che al momento non è chiaro per quale
motivo il virus si sia rivelato così letale in Messico e, finora, non abbia
causato vittime negli Stati Uniti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità, che
ha convocato per oggi una riunione di emergenza, ha fatto sapere che la
struttura genetica del virus contratto da 12 vittime analizzate in Messico è lo
stesso degli otto contagiati in California e Texas. Questo fa temere il
cosiddetto 'salto di specie', ossia che la malattia possa essere trasmessa
"da uomo e uomo", come riferito da Anne Schuchat, direttore del
Centro di immunologia e patologie respiratorie del 'Cdc'. Intanto, la Casa
Bianca ha annunciato di seguire molto da vicino l'espandersi del virus: il dossier
è arrivato sul tavolo di Barack Obama. In Messico però è già psicosi e si teme una pandemia: nella
capitale, dove vivono oltre 20 milioni di persone, i soldati hanno distribuito
le mascherine protettive. Il governo ha esortato gli abitanti ad astenersi da
manifestazioni eccessive di affetto, come baci e strette di mano, e di non
condividere cibo e bevande per il timore di un contagio, non ancora
provato, da essere umano a essere umano. I sintomi sono la febbre superiore ai
39 gradi, che si presenta in maniera repentina, la tosse, il dolore di testa
intenso, quello muscolare e alle articolazioni, l'irritazione agli occhi e il
flusso nasale. (25 aprile 2009
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
PECHINO - È
l'anniversario che la Cina ha deciso di cancellare. Oggi compie vent'anni il
Panchen Lama, la seconda autorità spirituale del buddismo tibetano, il
"vice" del Dalai Lama alla guida del suo popolo. Ma Gedhun Choeky
Nyima - questo il nome del vero Panchen Lama - è invisibile dall'età di sei
anni. Poco dopo la sua investitura da parte del Dalai, il 14 maggio 1995, il
bambino fu sequestrato con tutta la sua famiglia dalla polizia cinese. Quello
che divenne "il prigioniero politico più giovane del mondo" da allora
è recluso in un luogo segreto. La sua colpa è imperdonabile: per il solo fatto
di esistere, il Panchen incarna l'autonomia di un potere spirituale che lo ha
scelto senza prendere ordini dal governo. L'ultima violenza su di lui il regime
di Pechino l'ha commessa alcuni giorni fa, lasciando filtrare indiscrezioni
sulla sua morte. Nessun annuncio ufficiale - altrimenti il governo dovrebbe
fornire spiegazioni e prove sull'improvviso decesso di un ventenne - ma solo
voci. Che gli esuli tibetani vicini al Dalai Lama definiscono false. Forse per
vie imperscrutabili riescono ad avere notizie su di lui. Alla vigilia di questo
compleanno proibito, i cinesi non si sono limitati a diffondere insinuazioni
sulla morte del loro giovane prigioniero. Pechino ha deciso di esibire in due
eventi ufficiali il suo "gemello comunista": il Panchen del regime.
Quasi coetaneo dell'altro (ha 19 anni), etnicamente tibetano anche lui ma
figlio di due membri del partito comunista, questo si chiama Gyaincain Norbu.
Nel 1995, non appena catturato il vero Panchen, la controfigura venne investita
solennemente dal governo. Secondo le autorità cinesi è lui l'undicesima
reincarnazione del "grande studioso" della setta Gelugpa. Il Panchen
filo-cinese non è mai stato accettato dai suoi connazionali, che gli negano
ogni legittimità. Senza la benedizione del Dalai, per i fedeli è un impostore.
Perciò anche lui ha finito per trascorrere infanzia e adolescenza come un
detenuto. Per paura che i tibetani potessero influenzarlo le autorità lo hanno
allevato a Pechino, in un convento politically correct, sotto il controllo del
partito. I maestri di dottrina gli insegnavano il patriottismo (cinese), la fedeltà
al governo, il mandarino e l'inglese: utili per farne un futuro portavoce urbi
et orbi. Per anni le sue apparizioni in pubblico sono state rare e protette da
una scorta. In una di quelle occasioni, paracadutato per poche ore nel 2005 nel
monastero di Tashilhunpo a Shigatse (storicamente la sede del Panchen) il
povero burattino dei cinesi rimase impaurito dal disprezzo dei religiosi.
OAS_RICH('Middle'); Nelle foto ufficiali ha la faccia di un bambinone
cresciuto, goffo e timido, vittima di un gioco troppo grande per lui. Un mese
fa le cose sono cambiate. Il Panchen-di-Pechino è stato lanciato sul
palcoscenico a marzo per una celebrazione importante. Ricorreva il 50esimo
anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama, un giorno di lutto per il suo
popolo. Nella stessa data quest'anno il governo ha istituito una nuova festa
nazionale: la Giornata dell'Emancipazione dei Servi del Tibet. Un'occasione per
celebrare la "liberazione" dalla teocrazia feudale dei lama, grazie
al provvidenziale intervento dell'Esercito Popolare di Liberazione sotto la
guida di Mao. Il 28 marzo il Panchen comunista è apparso in una cerimonia di
Stato a Lhasa. Il giovane era visibilmente agitato, ma ha detto quello che si
aspettavano da lui: "Voglio ringraziare sinceramente il partito comunista
per avermi aperto gli occhi, così so riconoscere il bene dal male". Poi
una stoccata diretta a colui che dovrebbe esserne il padre spirituale.
"Sono io stesso discendente di schiavi - ha detto Gyaincain Norbu - e ho
imparato a distinguere chi ama il popolo tibetano, da quelle persone senza
scrupoli che per motivi di ambizione minacciano la pace". Jia Qinglin,
membro del Politburo, ha reso esplicita l'accusa: "Il Dalai ignora i veri
desideri del popolo. Vuole la secessione per restaurare l'antico regime
feudale". In un crescendo di visibilità, il Panchen comunista è riapparso
al recente Forum Mondiale del Buddismo, organizzato in pompa magna dalle
autorità cinesi. Un evento ecumenico: aperto nella città di Wuxi, provincia del
Jiangsu, si è concluso a Taipei capitale dell'"isola ribelle" di
Taiwan. Dopo il confucianesimo anche il buddismo viene recuperato dai leader
cinesi. Purché sia una religione di Stato, il presidente Hu Jintao è convinto
che serva a proiettare un'immagine rassicurante della Cina, a rafforzare il suo
soft power in Asia. E il giovane Gyaincain Norbu ha fatto il suo dovere. Ai
delegati mondiali del simposio buddista ha dichiarato: "Questo evento
dimostra che in Cina regna la libertà religiosa". Ha partecipato alle sedute
ristrette di alcuni seminari di studio: perfino un incontro con celebri
imprenditori sul tema "Filosofia e Business". I magnati industriali
che lo hanno incontrato dicono che i suoi interventi sono stati "fonte
d'ispirazione". Le foto dell'agenzia Nuova Cina lo ritraggono, occhialuto
e intimidito, mentre porge una sciarpa bianca in omaggio al presidente del
Congresso del Popolo, Wu Bangguo. L'alto gerarca lo ha incoraggiato a
"lavorare alacremente per l'unità del popolo cinese". Zhan Ru,
direttore dell'Istituto di studi orientali all'università di Pechino, era anche
lui a quel congresso: "E' stato un incoraggiamento per tutti. Eravamo
onorati di avere con noi un Budda vivente". Lo sforzo per osannare il
povero burattino è corale. Tradisce il nervosismo di Pechino per il ventesimo
compleanno del vero Panchen Lama. La tensione è affiorata ai massimi livelli. Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente
americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum.
Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con
Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di
intimidire Obama.
Già ci è riuscito con Nicolas Sarkozy, costretto a farsi "perdonare"
la visita del Dalai all'Eliseo. Il Sudafrica ha preferito far saltare un summit
dei premi Nobel pur di non concedere il visto al leader tibetano in esilio.
Dietro la durezza cinese spunta la partita cruciale: la successione del 73enne
capo spirituale. Pechino ha già annunciato che alla sua morte spetterà al
potere politico la scelta del prossimo "reincarnato": come all'epoca
della dinastia imperiale dei Qing, secondo le ricostruzioni degli storici
revisionisti di regime. Pur di evitare questa sopraffazione il Dalai Lama ha
accennato a una contromossa: cambiare le regole e procedere a un'elezione
democratica del suo successore. Chissà se il suo discepolo ventenne, ovunque si
trovi, può intuire la battaglia furibonda che si prepara. Se è vivo oggi passa
anche questo compleanno nella solitudine che ormai è il suo destino. Lontano
dal Tibet, lontano dai suoi e dal mondo, forse condannato a essere invisibile
fino a quando morirà davvero. (25 aprile 2009
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
CITTA' DEL MESSICO -
Le autorità di Messico e Stati Uniti sono in allerta nel tentativo di contenere
l'epidemia di influenza suina che si teme abbia già fatto 61 morti in Messico
(venti i casi già accertati) e contagiato otto persone negli Stati Uniti. E l'allarme
è già esteso in tutti i Paesi latinoamericani, dove sono aumentati i controlli
negli aeroporti e attivati piani sanitari di emergenza per evitare il contagio.
Secondo l'Organizzazione mandiale della sanità, la comprsa di questo virtus è
"una situazione seria", che è necessario seguire da vicino. Ieri il
presidente del Messico, Felipe Calderon, ha presieduto un incontro con i
massimi esperti sanitari del Paese per valutare la situazione. L'influenza
suina, un sotto-tipo del tradizionale ceppo H1N1 che si è trasferito dai maiali
all'uomo, ha causato nella capitale messicana e in un'area limitrofa almeno 20
morti e un migliaio di contagi. I primi casi del virus sono stati individuati
il 13 aprile, ma è solo da giovedì che si è compresa l'estensione e la gravità
dell'epidemia. Il Messico ha chiuso scuole, musei, biblioteche, teatri in tutta
la sua popolosa capitale e in una provincia vicina "fino a nuovo
ordine". Anche se le autorità sanitarie fanno notare che la media dei
decessi non è aumentata e non si è verificato quell'incremento esponenziale dei
contagi che si temeva. Le analisi genetiche mostrano però che il ceppo
incriminato è una mescolanza mai vista prima tra virus aviario, suino e di
essere umano. E il fatto che la gran parte dei decessi riguardi persone tra il
25 e i 45 anni è considerato un preoccupante segno che fa pensare alla pandemia
perchè le influenze stagionali tendono invece a colpire gli anziani e i bimbi
piccoli. OAS_RICH('Middle'); Intanto negli Usa, il direttore del Centro di Controllo
e Prevenzione delle Malattie (il Cdc di Atlanta), Richard Besser, ha ammesso
che "probabilmente è troppo tardi" per riuscire a contenere una nuova
epidemia. Negli Stati Uniti i casi accertati sono 8 tra California e Texas (sei
risiedevano nel sud della California e due nell'area di Sant'Antonio, in Texas)
ma solo uno era stato in Messico. E si indaga su alcune decine di studenti di
un liceo nel Queens che si sono ammalati con sintomi simili. Il governatore
della California, Arnold Schwarzenegger, ha assicurato di avere un
"rigoroso" piano di risposta all'epidemia. Ma Besser ha spiegato che
è probabilmente troppo tardi per cercare di contenerla vaccinando, trattando o
isolando la popolazione. "Gli elementi in nostro possesso ci fanno credere
che il contenimento (del contagio) non sia (più) molto probabile", ha
spiegato, confermando che il virus sembra essere lo stesso negli Usa e in
Messico. Besser ha sottolineato però che al momento non è chiaro per quale
motivo il virus si sia rivelato così letale in Messico e, finora, non abbia
causato vittime negli Stati Uniti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità, che
ha convocato per oggi una riunione di emergenza, ha fatto sapere che la
struttura genetica del virus contratto da 12 vittime analizzate in Messico è lo
stesso degli otto contagiati in California e Texas. Questo fa temere il
cosiddetto 'salto di specie', ossia che la malattia possa essere trasmessa
"da uomo e uomo", come riferito da Anne Schuchat, direttore del
Centro di immunologia e patologie respiratorie del 'Cdc'. Intanto, la Casa
Bianca ha annunciato di seguire molto da vicino l'espandersi del virus: il
dossier è arrivato sul tavolo di Barack Obama. In Messico però è già psicosi e
si teme una pandemia: nella capitale, dove vivono oltre 20 milioni di persone,
i soldati hanno distribuito le mascherine protettive. Il governo ha esortato
gli abitanti ad astenersi da manifestazioni eccessive di affetto, come baci e
strette di mano, e di non condividere cibo e bevande per il timore di un
contagio, non ancora provato, da essere umano a essere umano. I sintomi
sono la febbre superiore ai 39 gradi, che si presenta in maniera repentina, la
tosse, il dolore di testa intenso, quello muscolare e alle articolazioni,
l'irritazione agli occhi e il flusso nasale. (25 aprile 2009
( da "Repubblica.it"
del 25-04-2009)
Argomenti: Obama
BAGDAD - Il
segretario di Stato americano Hillary Clinton è giunta oggi a Bagdad - è la sua
prima volta nel paese da quando è a capo del Dipartimento - per una visita a
sorpresa. Un viaggio che giunge in un momento in cui nel Paese si registra una
nuova ondata di violenze. Un crescendo sfociato in due giornate di sangue,
giovedì e venerdì, in cui alcuni attentati suicidi sono costati la vita ad
almeno 140 persone. Scopo del viaggio, ribadire l'impegno degli Stati Uniti ma
anche fare alcune valutazioni della situazione dopo l'ondata di attentati. La
morte di oltre 140 persone, fra cui decine di pellegrini iraniani diretti ai
luoghi santi sciiti, ha indotto la guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali
Khamenei, ad affermare che "i principali accusati per questo e altri
crimini del genere sono i servizi di intelligence degli Stati Uniti e dei
sinisiti", ovvero Israele, parole per cui la Clinton ha poi espresso
"disappunto". Si tratta di un'impennata della violenza che, dopo mesi
di relativa calma, suscita timori, in particolare in vista della scadenza di
fine giugno per il ritiro delle forze americane dai centri urbani, prima del
disimpegno che prevede la fine delle missioni di combattimento e il rimpatrio
di circa 100mila soldati entro agosto 2010, nonchè il rimpatrio totale entro il
2011. Il capo della diplomazia Usa ha tuttavia affermato di ritenere che
l'Iraq, dove a fine anno sono in programma le elezioni legislative, stia
"complessivamente andando nella giusta direzione". "In questo
momento - ha detto Clinton - non vedo segnali di una ripresa" del
conflitto interconfessionale, il che la porta a ritenere che gli attentati
suicidi "siano, in un modo purtroppo tragico, il segnale che gli
oppositori temono che l'Iraq stia andando nella direzione sbagliata".
OAS_RICH('Middle'); Nei colloqui avuti con il premier Nuri al Maliki, con il
presidente Jalal Talabani e con il generale Ray Odierno, comandante delle forze
Usa in Iraq, la Clinton ha voluto sapere "come vengono valutati" i
nuovi attentati, "quale è il loro significato, e cosa si può fare per impedirli".
Nel corso della visita - diciotto giorni dopo quella
compiuta dal presidente Barack Obama - Hillary Clinton ha voluto un contatto con la società civile
irachena. E nella sede diplomatica Usa, dove da meno di 24 ore si è insediato
il nuovo ambasciatore Christopher Hill, il segretario di Stato ha incontrato
circa 150 persone per rispondere alle loro domande. "Non c'è nulla
di più importante di un Iraq unito - ha ribadito - lasciate che ripeta quanto
già affermato da Obama: il nostro impegno è per un
Iraq stabile, sovrano e autosufficiente". (25 aprile 2009
( da "Stampa, La" del
25-04-2009)
Pubblicato anche in: (Stampa,
La)
Argomenti: Obama
Maurizio Molinari I
VERI NEMICI SONO IN CASA Senza giacca nello Studio Ovale, in raccoglimento di
fronte al ritratto di John F. Kennedy nella West Wing, circondato da uno staff
che lavora online e seguito ovunque dal teleprompter che lo aiuta a leggere i
discorsi, Barack H. Obama nei primi cento giorni di
governo ha incarnato lo stile di un presidente quarantenne, lavorando su due
priorità. Affidare la ripresa alla realizzazione di un modello economico
incentrato sul sostegno alla classe media e rilanciare la leadership Usa nel
mondo contando sulla capacità di dialogare con gli avversari. Eletto da una
nazione atterrita dall'incubo della povertà, Obama ha
mobilitato le finanze pubbliche per sostenere la crescita nel breve periodo ma
ciò che per lui conta di più è l'obiettivo di medio termine: la creazione di un
nuovo modello di crescita che aiuti le famiglie della classe media a spendere
meno e vivere meglio. Basta scorrere la lista delle iniziative prese per
rendersene conto: più sanità pubblica per ridurre le spese per anziani e
bambini, più borse di studio per spingere verso il college i figli dei poveri,
alta velocità per abbattere le mura geografiche che isolano i centri meno
sviluppati, rete a banda larga per dare pari opportunità online a ogni
cittadino, fonti rinnovabili per abbattere le bollette energetiche, interessi
più bassi per le carte di credito. Ordini esecutivi, leggi al Congresso e
decreti puntano a trasformare il ceto medio flagellato dalla recessione nel pilastro
di una nuova stagione di crescita. Il regista è Larry Summers, il ministro del
benessere clintoniano, mentre il titolare del Tesoro Tim Geithner ha
confezionato un piano di rimedi alla crisi finanziaria che ancora non
convincono Wall Street, esponendo il presidente alle accuse di «statalismo»
rivoltegli dai repubblicani come a quelle di «aver adottato false soluzioni»
giuntegli da liberal come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Se il piano di lungo
termine per la classe media spiega l'ottimismo della maggioranza degli
americani sulla direzione in cui va la nazione, le perduranti incertezze
economiche sono all'origine delle lunghe file di disoccupati alle «job fairs»
di città in città. Il risultato è che il presidente consolida un personale
rapporto con la base attraverso meeting via Internet, messaggi su Youtube e
mail ai fan di «Organizing for America» mentre al Congresso ha difficoltà a
trovare i voti per far passare il bilancio federale. La base elettorale è
ancora con lui e crede nei cambiamenti che promette mentre i problemi sono
nelle battaglie politiche quotidiane con l'opposizione repubblicana sulle
barricate e i democratici spaccati sul «tassa e spendi». Anche sul fronte della
politica internazionale Obama appare in mezzo al
guado. I primi cento giorni sono serviti per presentare, da Londra a
Strasburgo, da Praga e Trinidad, un'idea di leadership americana nel mondo che
si riassume nella «responsabilità di aiutare la comunità internazionale a
trovare le risposte migliori ai problemi più urgenti», dalla salute del Pianeta
alla lotta al terrorismo, dalla recessione alla proliferazione nucleare. È un
approccio pragmatico, basato sulla necessità delle alleanze e sul dialogo con
gli avversari, che ha portato Obama a promuovere
«mutuo rispetto» con l'Islam, stringere la mano al venezuelano Hugo Chavez,
scambiarsi messaggi con l'iraniano Mahmud Ahmadinejad e far accogliere i suoi
inviati dal siriano Bashar Assad, ma tale slancio finora ha dato scarsi
risultati: l'Europa è contro lo stimolo globale per l'economia, la Nato non
manda più soldati in Afghanistan, la Nord Corea ha testato un nuovo missile
intercontinentale, l'Iran ha inaugurato la prima centrale nucleare e il
Pakistan appare in balia dei gruppi jihadisti. La differenza fra propositi è
risultati è tale che Karl Rove, ex guru elettorale di Bush oggi polemista
conservatore, infierisce dalle colonne del «Wall Street Journal» accusando Obama di «farsi largo nel mondo parlando
male della propria nazione» con effetti disastrosi. Ma ciò che più minaccia Obama è il rischio di una guerra
intestina a Washington: lo scontento degli agenti della Cia per la divulgazione
dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli interrogatori durante gli anni di
Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed
economia preannunciano una resa dei conti dentro l'establishment che
potrebbe essere innescato dalle commissioni di inchiesta del Congresso invocate
dai leader democratici.
( da "Stampa, La" del
25-04-2009)
Pubblicato anche in: (Stampa,
La)
Argomenti: Obama
IL CHAPTER 11 LO
STALLO Retroscena La stretta finale La Casa Bianca: pronti a tutte le
eventualità Non impedirebbe alla casa italiana di chiudere l'affare L'accordo
con banche e sindacati è ancora lontano FRANCESCO SEMPRINI WASHINGTON Chrysler,
si fa strada l'opzione amministrazione controllata L'Italia tifa compatta per
l'asse Detroit-Torino definito dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti,
«una cosa fantastica», nel giorno in cui la Casa Bianca si dice pronta ad ogni
eventualità sul destino di Chrysler, compresa l'amministrazione controllata.
Inizia così il quarto round di negoziati americani di Sergio Marchionne di
nuovo negli Usa per trattare con sindacati, creditori e task force della Casa
Bianca. L'ad del Lingotto sembra scommettere tutto su questa tornata che
seguirà personalmente sino alla fine, dicono fonti informate. La Casa Bianca
dichiara di essere pronta a ogni eventualità, ma la priorità è «proteggere» i
posti di lavoro. «Siamo ad un punto importante dei negoziati - dice il
portavoce Robert Gibbs, spiegando però che le informazioni dei giornali non
rappresentano necessariamente un fatto compiuto». Il riferimento è alla ridda
di voci sulla «bancarotta» di Chrysler che, dopo la smentita del Tesoro di
mercoledì è stata rilanciata dal Wall Street Journal. Il quotidiano finanziario
spiega che l'azienda si starebbe preparando a chiedere la protezione dai creditori
già la prossima settimana, che venga raggiunta o meno un'alleanza con Fiat. In
caso di accordo il ricorso al «Chapter 11», cioè una procedura di bancarotta
pilotata, permetterà a Chrysler di liberarsi di alcune voci di bilancio in
passivo e di diversi asset «cattivi», permettendo così al Lingotto di scegliere
le unità più redditizie o che considera più funzionali agli interessi del
gruppo. Il segretario al Tesoro, Tim Geithner, dice di essere «incoraggiato dai
progressi fatti ma c'é ancora molto lavoro da fare» e che l'amministrazione Obama «sta facendo tutto il possibile», anche per quanto riguarda la
trattativa tra Fiat e Chrysler. Le trattative sono in una fase interlocutoria
su tutti i fronti: l'atteso accordo con il Canadian Auto Workers, previsto per
ieri mattina non è arrivato, mentre i negoziati con gli americani di United
Auto Workers proseguiranno per tutto il weekend. Il nodo bancario è più
complicato da sciogliere: i creditori hanno presentato al Tesoro Usa una nuova
controfferta per la ristrutturazione del debito che prevede. Propongono il
taglio del debito da 6,9 miliardi di dollari a 3,75 miliardi in cambio di una
quota del 35% di azioni di Chrysler. La task force governativa aveva chiesto
invece di ridurre il debito a 1,5 miliardi di dollari, in cambio di una quota
di azioni del 5% nell'azienda. Per il vicepresidente del terzo produttore
americano di auto, Jim Press, la bancarotta di Chrysler non è «imminente». Il
manager però aggiunge che non verrà dato nessun annuncio fino alla fine della
prossima settimana anche perché la situazione «non è cambiata» per quanto
riguarda la ristrutturazione di Chrysler fuori dai tribunali. Favorevole
all'amministrazione controllata per i colossi dell'auto è il ministro delle
Finanze canadese, Jim Flaherty, purché sia risparmiata a Gm e Chrysler la
liquidazione. «La pseudo-bancarotta per le case automobilistiche non è qualcosa
di terribile», dice Flaherty a Washington per gli incontri del G-7, anzi
«permetterebbe di evitare la loro liquidazione, uno scenario che nessuno
auspica». E proprio con Flaherty ha parlato in mattinata Tremonti a margine dei
lavori dell'Fmi: «Il Canada è un Paese dove ci sono molte industrie dell'auto e
della Chrysler, ho riscontrato un grande favore anche dal parte loro per la Fiat».
E dopo aver raccontato la leggenda di un giovane Obama
che scorrazzava per le vie di Chicago a bordo di una Fiat il ministro conclude:
«Dicevano che le auto italiane partono a spinta. Oggi le auto italiane danno la
spinta, speriamo».
( da "Stampa, La" del
25-04-2009)
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La)
Argomenti: Obama
PRESIDENTE DI TUTTI
PUNIRE BUSH CONTRARIO/ Gore Vidal «Per essere bipartisan rinuncia a riaffermare
la Costituzione» «Deve mettere sotto accusa gli eccessi di chi lo ha preceduto»
"Pensa solo allo share Così tradisce gli Usa" [FIRMA]DAL CORRISPONDENTE
DA NEW YORK «Un buon presidente ma con il problema di essere troppo tenero con
i repubblicani». Gore Vidal, scrittore di successo e lingua tagliente dei
liberal, dà un giudizio in chiaroscuro sui primi cento giorni di Barack Obama alla Casa Bianca. Perché «troppo tenero»? «Obama nel complesso sta gestendo bene la presidenza ma esita
di fronte al gruppo di potere che è stato guidato per otto anni da Bush e
Cheney. Si è trattato di un'amministrazione convinta che "tutto è legale
per il presidente", proprio come ai tempi del Watergate di Richard Nixon,
ma nessuno sembra volergliene chiedere conto». Qual è la spiegazione? «Obama vuole essere un presidente bipartisan. Per una
questione di valori e per opportunità politica. Crede nella guida bipartisan
della nazione, ispirandosi a Lincoln, e gli fa comodo averla per ottenere dai
repubblicani i voti necessari per varare il bilancio ora e le riforme
economiche in un prossimo futuro. Ma tutto questo ha un prezzo molto alto per
il popolo americano: Obama
rinuncia a riaffermare la Costituzione». Il punto però è che Obama ritiene l'esatto contrario, ovvero
che richiamarsi a Abramo Lincoln significa evitare rese dei conti sanguinose
con gli avversari oramai sconfitti... «Obama però è anche un avvocato e dovrebbe sapere che quando la
Costituzione viene violata deve essere difesa, riaffermata,
ripristinata. L'eccesso di accentramento di potere nella Casa Bianca avvenuto
durante gli anni di Bush-Cheney ha creato un vulnus nel sistema politico che
deve essere sanato. E' compito del nuovo presidente, votato dal popolo, di
assumersi la responsabilità di punire chi violò la Costituzione proprio come si
fece ai tempi di Nixon». Cosa dovrebbe fare? «Sostenere con forza chi al
Congresso vuole arrivare a un processo pubblico agli eccessi
dell'amministrazione Bush». Sul fronte economico Obama
la convince maggiormente? «Sull'economia Obama applica
Keynes, secondo il quale quando il mercato fa corto circuito spetta allo Stato
versare il denaro per riattivare la crescita. E' l'unica ricetta economia che
sento come mia. Il prolema di Obama non sono le azioni
politiche che compie, in gran parte giuste, ma la sua volontà di essere amico
di tutti, di non avere mai avversari». Come se lo spiega? «Con il fatto che
viviamo nell'era della tv. Il presidente vuole apparire ed essere amato, avere
tassi di gradimento alti, teme gli scontri duri, non desidera avere
l'opposizione sul piede di guerra. L'obiettivo è conquistare il maggior numero
di consensi sempre e comunque. L'approccio bipartisan è lo strumento con cui Obama persegue questa strategia ed al momento i tassi di
popolarità superiore al 60 per cento gli stanno dando ragione. Ma in questa
maniera sta facendo pagare un prezzo alto alla nazione. Il primo compito del
presidente non è essere popolare ma difendere la Costituzione redatta dai padri
fondatori». Qual è l'errore più grave che gli rimprovera? «Dalle torture della
Cia fino agli abusi costituzionali vuole mettersi tutto dietro le spalle in
fretta».\
( da "Stampa, La" del
25-04-2009)
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Argomenti: Obama
FAVOREVOLE/ Charlie
Kupchan LA MODERNITÀ ECONOMIA GLOBALE "Un pragmatico vero Disinnescherà
l'Iran" «Afferma una versione della leadership adatta al XXI secolo»
«Smentito chi diceva che avrebbe favorito la Cina sull'Europa» [FIRMA]DAL
CORRISPONDENTE DA NEW YORK «Barack Obama afferma una
nuova versione della leadership americana nel mondo, adattandola alla realtà
del XXI secolo». Charles Kupchan, titolare degli Studi europei al «Council on
Foreign Relations» legge i primi cento giorni di presidenza nel segno delle
«notevoli novità avvenute». Qual è l'idea di leadership americana che Obama afferma? «E' basata sul fatto che nel XXI secolo i
protagonisti della scena internazionale sono molteplici. L'America deve
muoversi su questo terreno per identificare i problemi, capire come possano
essere risolti e dunque con chi lavorare per risolverli. Si tratta di un
cambiamento drammatico rispetto a Bush, la cui attenzione era per i cambiamenti
di regime. Bush era ideologico, Obama è pragmatico, si
prepara a lavorare con Paesi come Russia, Cina e Arabia Saudita per risolvere i
problemi in agenda». Ma non è rischioso tendere la mano ai leader autoritari?
«Se i primi cento giorni hanno messo in luce le innovazioni di Obama ora la prova più difficile sarà vedere se
funzioneranno. Se riuscirà a riportare la Russia a recitare un ruolo di
equilibrio e stabilizzazione, se riuscirà a disinnescare la crisi nucleare con
l'Iran». Qual è l'appoccio all'Europa? «Chi parlava di un G2 sinoamericano
destinato a offuscare l'Ue è stato smentito. Il primo
viaggio di Obama è stato in
Europa ed ha sottolineato il ruolo chiave che assegna alla Nato. La partnership
fra America e Europa resta prioritaria». Sul fronte economico che cosa è
avvenuto? «Obama non vuole
modificare il sistema economico americano ma sanare le lacune di quello
finanziario ricorrendo all'intervento dello Stato. Non siamo all'origine
di uno stravolgimento del capitalismo, assistiamo alla sua correzione». Quale
impatto hanno avuto questi cento giorni sui rapporti interrazziali? «Sul piano
della vita quotidiana non vi sono stati grandi cambiamenti e anzi la situazione
è peggiorata a causa della crisi economica. L'elezione del primo presidente
afroamericano ha avuto però un forte valore simbolico facendo venire alla
ribalta una nuova America, più giovane, interrazziale e multietnica. Se
consideriamo solo gli americani sotto i 20 anni, le minoranze sono già
maggioranza. Entro una generazione questo varrà per l'intera nazione». Quali
sono i maggiori rischi per il presidente? «Obama nelle
primarie ha sconfitto Hillary cavalcando la rivolta della base degli elettori
democratici e nel viaggio in Europa ha avuto successo nel parlare direttamente
alla gente più che ai leader. La forza di Obama è
nell'essere un politico che fa insorgere le masse ma quando si governa la difficoltà
sta nel realizzare le proprie politiche. Per riuscirci ha bisogno di una
coalizione di governo della quale finora non dispone perché al Congresso i
repubblicani sono su posizioni di estrema destra mentre i democratici sono
divisi fra centristi e liberal. Obama vuole governare
al centro ma dovrà trovare i numeri per riuscire a farlo altrimenti non avrà
quei due terzi di voti del Senato che servono per ratificare qualsiasi trattato
internazionale, dal clima alla non proliferazione».\
( da "Stampa, La" del
25-04-2009)
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Argomenti: Obama
Maurizio Molinari
Cuba-Stati Uniti I PRIMI 100 GIORNI segue dalla prima
pagina Effetto Obama più
scuola meno bombe Il rischio più grande è quello di una rivolta
nell'establishment di Washington La base elettorale è con lui, ma il problema
arriva nelle battaglie politiche quotidiane Il disgelo inizia dagli yacht
PRESIDENZA USA SOTTO ESAME Stile inconfondibile In giacca, con uno staff sempre
online e il teleprompter a disposizione Il primo bilancio: Barack vola
su YouTube ma non ha ancora convinto il Congresso I governi di Cuba e Stati
Uniti non sono ancora riusciti a trovare una sintonia politica, ma almeno su un
fronte i rapporti stanno migliorando: gli yacht a stelle e strisce tornano a
visitare l'isola caraibica. Secondo Sabino Fernandez, presidente del gruppo
«Marlin nautica y marinas», nel primo trimestre 2009 le imbarcazioni Usa che
hanno raggiunto le coste cubane sono state 18, a fronte dei cinque yacht nello
stesso periodo dell'anno scorso. Un aumento pari al 30%. Da parte sua, Josè
Escrich, presidente del Club nautico internazionale di Cuba, ha detto che
«negli ultimi tempi abbiamo ricevuto numerosi operatori americani che stanno
cercando di organizzare eventi bilaterali, per esempio tornei di pesca e
regate», come la gara che si terrà a Cienfuegos, nel sud dell'isola, con la
partecipazione di una ventina di imbarcazioni francesi. L'ultima regata cubana
con presenza americana si è svolta 15 anni fa, con la partecipazione di 84
barche statunitensi.
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
Argomenti: Obama
Stretta di mano Una
delle vittime incontrò Obama «Il
presidente Obama sta bene e
il suo viaggio in Messico non ha messo in alcun modo in pericolo la sua
salute». Lo comunica la Casa Bianca per fugare qualsiasi dubbio sulla salute del
presidente degli Stati Uniti che, lo scorso 16 aprile si era recato a Città del
Messico per discutere della lotta al narcotraffico prima di raggiungere
Trinidad e Tobago per il vertice delle Americhe. In quell'occasione era
stato ricevuto al Museo di Antropologia del Messico da Felipe Solis, un
importante archeologo che il giorno dopo è morto con sintomi simili a quelli
dell'influenza e al quale il presidente aveva stretto la mano. La notizia è
stata data dal quotidiano messicano «Reforma», che però non ha precisato se la
forma virale che aveva colpito Solis fosse quella suina.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 6 - Esteri
Mascherine La febbre suina arriva a New York scatta l´allarme sanitario
mondiale Mille gli infettati in Messico, baci vietati. Gli Usa: virus incontenibile La Casa Bianca: "Il presidente Obama sta bene". Caso sospetto a
Londra: malato uno steward ELENA DUSI Baci vietati. Scuole, teatri e locali
pubblici chiusi a Città del Messico. Ospedali affollati per i controlli e
mascherine per la bocca esaurite in farmacia. A distribuirle nei sotterranei
della metro ci pensa ormai l´esercito. Il governo messicano vuole
evitare l´estendersi della febbre suina, malattia che l´Organizzazione mondiale
della sanità definisce «nuova, ancora difficile da capire» ma «potenzialmente
capace di scatenare una pandemia». Il virus ieri ha raggiunto anche New York.
Una classe di scuola media tornata da una gita in Messico è stata colpita
dall´influenza e si è sottoposta ai test per stabilire l´identità del virus.
Almeno 8 ragazzi sui 9 esaminati sono positivi alla febbre suina. «I sintomi
sono lievi, non corrono pericoli» ha precisato l´assessore alla salute di New
York, Thomas Frieden. I ragazzi della "St. Francis preparatory
school" di Queens si aggiungono agli 8 contagi dei giorni scorsi in
California e Texas (guariti senza complicanze) mentre due nuovi casi sono stati
registrati ieri in Kansas (marito e moglie, lui appena tornato dal Messico) e
uno in California (una donna di 35 anni, ricoverata e ora guarita). Il
presidente Barack Obama, che il 16 aprile era stato in
Messico per un vertice sul narcotraffico, ha dovuto tranquillizzare il paese e
ribadire che non ha sintomi di influenza. In Messico il virus ha infettato più
di mille persone uccidendone 68. Il presidente Felipe Calderon ha dichiarato
l´emergenza nazionale, riservandosi il potere di imporre quarantene. Ieri nella
capitale messicana sono stati registrati 24 nuovi casi. In una città di 20
milioni di abitanti, i concerti cancellati per il week end hanno raggiunto
quota 500 e due partite di serie A si giocheranno oggi a porte chiuse. I
parroci dovranno ridurre al minimo la durata delle messe, distribuendo le ostie
nel palmo delle mani dei fedeli e non sulla lingua. Il tragitto del contagio
dimostra che l´influenza dei maiali ha imparato a circolare fra gli uomini. Tra
gli 8 infettati di Texas e California (gli esami di laboratorio hanno
confermato che si tratta dello stesso virus che ha ucciso in Messico) ci sono
un padre e una figlia e due compagni di classe di 16 anni. Ad Atlanta il
"Center for disease control" è riuscito a chiudere in provetta un
campione del virus: primo passo verso la produzione di un vaccino. «Il contagio
è assodato. Il virus non può più essere contenuto. Ci aspettiamo nuovi casi» ha
ammesso una responsabile del centro, Anne Schuchat. Due antivirali, il Tamiflu
e il Relenza, sembrano efficaci contro la malattia. Il Messico dispone di un
milione di dosi e le farà distribuire esclusivamente dai medici ai pazienti che
ne hanno più bisogno. Molti aeroporti del mondo ieri hanno iniziato a sottoporre
a visita medica i passeggeri provenienti dal paese centro-americano. A Londra
uno steward della British Airways che ha volato in Messico e poi si è ammalato
di influenza è stato ricoverato. I risultati dei suoi esami sono attesi per
oggi. L´Oms ha inviato in Messico una sua équipe per valutare l´entità
dell´epidemia, ma per il momento mantiene il livello di allerta pandemia a 3,
in una scala che va da 1 a 6. «La situazione è seria, anche se non abbiamo un
quadro chiaro del rischio» ha detto la segretaria dell´Organizzazione, Margaret
Chan. Subito dopo la conferma dei casi di New York, l´Oms ha dichiarato lo
stato di "emergenza sanitaria pubblica internazionale", invitando
tutti i paesi a lanciare un allarme immediato in caso di focolai sospetti.
L´Oms sembra pronta da un momento all´altro a far scattare quel grado 4 di
allerta che non fu raggiunto neanche durante il picco dell´aviaria.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 7 - Esteri E
dunque l´incubatrice perfetta per la diffusione della nuova psicosi La città sa
di essere e vuole essere il posto dove il mondo finirà (SEGUE DALLA PRIMA
PAGINA) VITTORIO ZUCCONI Con una densità di undicimila abitanti per chilometro
quadrato, più del triplo di Milano, e una umanità che ogni giorno si accalca
nelle sue strade, nella carrozze della metropolitana, nei treni dei pendolari,
nelle conigliere dei suoi grattacieli, i quattro borghi che formano New York
sono il terreno di cultura ideale per ogni batterio, virus e microrganismo che
si trasmetta per contatto umano. E dunque l´incubatrice perfetta per la
diffusione della nuova psicosi da fine del mondo che dalle porcilaie del
Messico ha attraversato la frontiera del Rio Grande e si sta allargando al
Nord. Casi di questa variante del virus influenzale trasmissibile dai maiali e
agli umani sono stati registrati anche in passato, creando addirittura una
campagna di vaccinazione collettiva del tutto inutile e in molti casi micidiale
ordinata dal presidente Ford nel 1976, e da giorni sono segnalati nelle zone di
confine con il Messico, Stati come la California, l´Arizona e il Messico. Ma è
lo sbarco a New York del virus, individuato in otto studenti del Liceo San
Francesco a Queens a trasformare l´epidemia di questa forma temibile, ma non
nuova come le prime notizie frettolosamente indicano, di influenza in un evento
che ha raggiunto addirittura la Casa Bianca, dalla quale il
Presidente Obama è stato
costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in Messico.
Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla borghesia
middle class debordata da Manhattan, l´ultimo e il massimo melting pot,
crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato «borough»,
borgo, nel quale convivono emigrati arabi e africani, latinos e asiatici. Fu
sopra le casette di Queens, che pochi giorni dopo l´11 settembre, precipitò un
aereo di linea, facendo subito pensare a una nuova ondata di attacchi
terroristici, che nei mesi scorsi virò senza più motori in funzione il jet che
poi miracolosamente planò sul fiume Hudson. Queens ospita quell´aeroporto nel
quale si affolla ogni giorno la babele del mondo, il John F. Kennedy, e che le
agenzia per la sicurezza guardano come al formicaio nel quale potrebbero
annidarsi le cellule maligne del prossimo attacco. Era dunque ovvio, se non
atteso, che sarebbero stati i leggendari tabloid di New York a sporcare per
primi le loro prime pagine con gli annunci della nuova peste, a mettere in
guardia, e quindi a causare, l´onda di panico che sta afferrando il popolo
della «Grande Mela» e che ha spinto 100 degli studenti del Liceo San Francesco
a farsi visitare in massa tutti convinti di avere contratto il virus
dell´influenza suina dopo una gita scolastica di massa proprio a Città del
Messico. Risultandone infetti soltanto in otto, forse nove, in forme blande,
anche grazie alla loro età e salute generale. Ma da ieri, dopo l´esplosione dei
titoli e delle news locali, gli ospedali e i pronto soccorso di questa nazione
città sono invasi da tutti coloro che esibiscono quei sintomi vaghi e insieme
sinistri, mal di gola, stanchezza, brividi, tosse, particolarmente diffusi
grazie alle allergie primaverili. Da sempre, con orgoglio e con ansia
contenuta, New York sa di essere, vuole essere la terra dove il mondo finirà,
per essersi vista tante volte al cinema in quel ruolo. Anche questa ennesima
«pandemia» che spazzerà via l´umanità, come la dovevano spazzare via
l´influenza aviaria, la Sars, il prione della mucca pazza, l´Ebola, la febbre
gialla, la nuova tubercolosi resistente agli antibiotici, il retrovirus, ha ora
in New York il proprio palcoscenico ideale, capace di toccare il mondo che in
questa città la lasciato qualcosa di se stesso e porta quel senso oscuro,
orwellianamente perfetto, della vendetta del mondo dei maiali contro il mondo
degli umani.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 25 - Commenti
LA PATRIA E IL NUOVO PADRE PADRONE (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Berlusconi ha
raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il
rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che
non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che
condividono il suo «fare» e quelli che l´avversano. Noi siamo tra questi ultimi
ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica
della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui
quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che
contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state
tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai
liberali (anche se l´ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello
di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria
che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte). La
fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un
ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non
sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque
avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e
intanto rallegrarsene. Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è
rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed
opposizione? * * * Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su
«Repubblica» ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla
constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà
dal quale sarebbe sbagliato prescindere. Ci sono vari modi di affrontare questa
deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel
«rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti
nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra
il leader e il suo´ popolo, marginalizzare tutte le altre
forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle
autorità di garanzia come inutili impacci. Un Capo che sceglie e decide per
tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti». Ebbene
la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti
positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta
con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più
incombente la costruzione, già da tempo avviata, d´una nuova costituzione
materiale all´ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione
che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile. Un´operazione del
genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà
degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i
partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la
democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la
pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese. La
costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un´autorità di
second´ordine, esercitò un´influenza determinante sulla magistratura inquirente
e giudicante, costruì l´impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme
vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e
manomessa. La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto
la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica
che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una
nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente. Non sono più i partiti
a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti
collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare,
gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva
del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a
tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie. La svolta di ieri ha
rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di
fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti l´abbiamo già
detto verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde
sessant´anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario. Se l´asse
portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri,
l´essenza della costituzione
materiale berlusconiana è nell´unificazione dei poteri in una sola mano.
Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi
ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in
consuetudine. Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e
l´ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente
deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava
per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per
un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di
petto. L´ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a
Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia
repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo
indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità
costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo
del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano
una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce
e Luigi Einaudi. La «fantasia al potere» che tanto piace a
Berlusconi e ai suoi mentori non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine
della modernità occidentale. Se volessimo raffigurare le due versioni
contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate. * * *
C´è un freschissimo esempio della «fantasia al potere» o meglio della «follia
positiva» stando all´autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier,
ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall´isola
della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell´Aquila. Un
colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e
ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all´insaputa
dello stesso governo da lui presieduto. Le motivazioni di questo «coup de
thétre» sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della
terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare
il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza
del «meeting» tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che
l´avrebbero ospitato alla Maddalena. è sufficiente un sommario esame per capire
che si tratta di motivazioni infondate. Le spese per realizzare il G8 alla
Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora
debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a
termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande
albergo a cinque stelle costruito nell´isola sarda resterà come una delle tante
cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione
di uno degli arcipelaghi più belli d´Europa. Il risparmio sulle spese navali
rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà
mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l´Aquila. I
potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in
Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in
Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero. Portare il caso Abruzzo
all´attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C´è
l´intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo
caso tra tanti. La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede
all´Aquila, l´hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo
vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora
Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si
domanda adesso perché fu scelta quella località. Forse Bertolaso ha troppe cose
da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell´immondizia, la
progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue
spalle ma sulle strutture della Protezione civile. Che non stia nascendo, sotto
la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso?
Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione
civile. Li curano i ministri dell´Interno, i Servizi di sicurezza, le forze
della sicurezza pubblica. Che c´entra la Protezione civile? I pompieri che ne
costituiscono l´ossatura? Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi,
che lo vede lavorare nella sua scuola, «lavora notte e giorno, non dorme, è una
fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo». Forse se si concentrasse
su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno
emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle. No,
neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno
farne a meno.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
anno darwiniano
Domani alle ore 14 nell'Aula Magna della Sapienza convegno su "Darwin
2009: una prospettiva evolutiva sulle emozioni". conosci i rom? Alla Città
dell'Utopia domani alle ore 18.30 " dibattito su storia, provenienza e vita dei Rom in Italia seguito da aperitivo, mostre
fotografiche e filmati. In via Valeriano 3/f con ingresso libero. storia
americana Martedì alle 11 a Roma Tre (via Ostiense 159) conferenza di Alexander
Bloom su "Barak Obama
e la fine degli anni Sessanta". Introduce Cristina Giorcelli.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina XVII -
Palermo La rivista "SEGNO" RIFLETTE SULLA CRISI CULTURALE E SU UNA
CHIESA POSSIBILE Domani alle 18 alla libreria Feltrinelli di via Cavour si
presenta il fascicolo numero 303 della rivista "Segno". Interverranno
Liborio Asciutto, parroco, Francesco Crescimanno, avvocato, Nino Fasullo
direttore di "Segno", Italo Tripi, segretario di Cgil Sicilia, e
Salvatore Vacca, docente nella Facoltà teologica di Palermo. Tra gli argomenti
trattati in questo numero da "Segno" spiccano l´editoriale dedicato alle
nuova questione cattolica, la svolta verde di Barack Obama, la crisi politica e culturale del
paese e della regione, sviluppata attraverso una tavola rotonda, il romanzo del
Parto democratico, l´Onda studentesca di Palermo, tre articoli sulla buona morte
e sulla laicità, la presenza di Dio fuori dalla chiesa e un appello per una
chiesa solidale e compassionevole: un tema, questo, lanciato
recentemente da un gruppo di parroci palermitani e affrontato dal precedente
numero della rivista.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 14 - Esteri
La polemica Genocidio armeno scontro Turchia-Usa ANKARA - Il ministero degli
Esteri turco ha fatto sapere di ritenere "inaccettabile" il messaggio del presidente americano Obama, dedicato al massacro degli armeni del 1915. «Consideriamo
inaccettabili alcune espressioni del messaggio e la percezione della storia che
esso ha rispetto agli avvenimenti del 1915», si legge in un comunicato del
ministero. Anche la comunità armena in Usa ha vivamente criticato il fatto che Obama non abbia usato la parola "genocidio".
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 14 - Esteri
La segretaria di Stato: "Andiamo nella giusta direzione, lasceremo un
paese sicuro" Blitz della Clinton a Bagdad L´Iran: "Gli Usa dietro i
kamikaze" Secondo l´inviata gli ultimi attentati dimostrano che
l´opposizione è alle corde ALBERTO FLORES D´ARCAIS dal nostro inviato NEW York
- L´ondata di attentati che ha colpito l´Iraq preoccupa la Casa Bianca e
Hillary Clinton è planata d´urgenza a Bagdad per un viaggio a sorpresa.
«Complessivamente le cose stanno andando nella giusta direzione», ha detto il
Segretario di Stato Usa, secondo cui non ci sono «segnali di ripresa del
conflitto». L´offensiva dei kamikaze degli ultimi giorni - che hanno provocato
oltre 150 morti - , sono dunque, secondo la Clinton il segnale «in un modo
purtroppo tragico, che gli oppositori temono che l´Iraq stia andando nella
direzione sbagliata». La morte (negli attentati) di una dozzina di pellegrini
sciiti iraniani, ha fatto salire la tensione tra gli Stati Uniti e l´Iran.
L´ayatollah Ali Khamenei, «guida suprema» e uomo forte del regime clericale, si
è spinto ad accusare pubblicamente la Casa Bianca e Israele («i principali
responsabili per questo e altri crimini del genere sono i servizi di
intelligence degli Stati Uniti e dei sionisti»), dichiarazione priva di alcun
senso, considerato anche che arriva dal leader di un paese che da anni foraggia
(con armi e finanziamenti) i gruppi terroristi armati che seminano il caos in
Iraq. Parole per cui Hillary Clinton ha espresso subito profonda irritazione:
«E´ un commento sconcertante, perché è chiaramente accertato che questi
attentati sono opera di elementi di Al Qaeda o di altri gruppi». Negli incontri
con il premier Nuri al Maliki, con il presidente Jalal Talabani e con il
generale Ray Odierno - comandante delle forze Usa in Iraq - il Segretario di
Stato ha chiesto una «valutazione» sulla nuova ondata di attentati e ha chiesto
«qual è il significato e cosa si può fare per impedirli». L´impennata di
violenza - che arriva dopo mesi di relativi successi delle forze americane e
irachene - viene valutata dall´Intelligence Usa come il tentativo (da parte dei
gruppi armati estremisti) di condizionare la prima tappa nell´agenda del ritiro
americano fissata dalla Casa Bianca. A fine giugno i soldati Usa dovrebbero
infatti completare la ritirata da tutti i maggiori centri urbani dell´Iraq,
consegnando all´esercito iracheno ogni compito di ordine pubblico. Con
l´offensiva dei kamikaze Al Qaeda e gli altri gruppi vorrebbero - secondo una
fonte dell´Intelligence al Pentagono - costringere gli Stati Uniti a rivedere
il piano (che prevede entro l´agosto 2010 il rimpatrio di centomila militari) e
dimostrare che il governo e le forze armate irachene «non sono in grado di
tenere sotto controllo il territorio». Per questo nel suo viaggio-lampo - il
suo primo in Iraq da Segretario di Stato - Hillary Clinton si è soffermata
sugli aiuti (non solo militari) al governo di Nuri al Maliki. Ha voluto
incontrare la «società civile» irachena (150 tra studenti, imprenditori,
giornalisti e attivisti di vario genere) tra cui molte donne ed ha risposto
alle loro domande in una sala dell´ambasciata americana, guidata
da due giorni dal nuovo ambasciatore di Obama, Christopher Hill. «Non c´è nulla di più importante di un Iraq
unito, lasciate dunque che vi ripeta ciò che ha detto il presidente Obama: noi siamo impegnati in Iraq, lo
vogliamo stabile, sovrano e autosufficiente. Anche se la natura del nostro
impegno può sembrare a volte differente, perché, come sapete, ritireremo
le nostre truppe da combattimento nel giro di un paio d´anni». Quanto alla
mancanza di fiducia degli iracheni verso i loro servizi di sicurezza (ancora
poco addestrati e in qualche caso corrotti) Hillary ha così risposto: «Più
unito sarà l´Iraq e più avrete fiducia nei vostri servizi di sicurezza». Agli
iracheni, che vedono l´ombra minacciosa di una guerra civile avvicinarsi con il
ritiro Usa, ha promesso che l´America resterà al loro fianco: «Non sono venuta
a dirvi come risolvere le vostre questioni di politica interna, voi dovete
decidere queste cose. Ma continueremo a lavorare molto per far sì che abbiate
un paese sicuro».
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 28 - Esteri
Najiba, Tanya e le altre alla guerra delle donne Kabul, la sfida la copertina
Cantano in tv a volto scoperto, conducono programmi radio, scendono in piazza
per contestare la "nuova" legge sul diritto di famiglia. Il coraggio
delle ragazze afgane - nonostante le pressioni di padri e mariti, gli
assassinii, gli sfregi al vetriolo - è la novità più sorprendente del Paese
tornato al centro del Grande Gioco in versione anni Duemila GUIDO RAMPOLDI
(segue dalla copertina) è una guerra senza fine in cui né una parte né l´altra
da allora è riuscita ad attestarsi in una posizione salda, definitiva. Un
conflitto cruento le cui vittime predestinate, donne che osano l´inosabile, non
devono guardarsi soltanto dal nemico dichiarato, i Taliban, ma spesso anche da
chi dovrebbe proteggere le loro spalle, innanzitutto genitori e fratelli. I
Taliban hanno assassinato la direttrice di Radio Pace, nel 2007; ma sono stati
i familiari a uccidere due annunciatrici colpevoli di essere andate in video
truccate e senza velo, mi ricorda Tanya Kayan, conduttrice di una trasmissione
radiofonica. Tanya era la prima della classe quando i Taliban chiusero le
scuole. Continuò a studiare in casa, su libri di testo comprati al mercato nero
e dopo la liberazione dell´Afghanistan fu nel primo gruppo di ragazze che si
iscrisse alla facoltà di giornalismo. Delle dodici che si sono laureate con
lei, sei sono state costrette da genitori e mariti a rinunciare al lavoro per
fare le mogli. Eppure le altre sette lavorano nei media, le ragazze che
compaiono in tv sono sempre più numerose, e il moltiplicarsi di queste presenze
femminili sulla scena pubblica sta cambiando, dice Tanya, perfino l´arcigno
tradizionalismo pashtun. Secondo la Kayan, oggi il venti per cento delle donne
afgane è consapevole dei propri diritti, una percentuale altissima se
consideriamo che una parte rilevante della popolazione femminile di fatto non è
neppure in grado di leggere. Quel venti per cento sta vincendo la propria guerra
millenaria, sia pure al prezzo altissimo di cui raccontano le cronache.
Adolescenti sfregiate con il vetriolo perché andavano a scuola, donne ammazzate
perché avevano accettato un ruolo di potere, ragazze sparate per aver amato il
ragazzo rifiutato dai genitori
Ogni rivoluzione ha i suoi caduti.
Ma perché questa finalmente riesca, occorre che vada bene anche l´altra guerra,
la guerra guerreggiata dagli uomini. In proposito, molte afgane sono dubbiose.
Temono che l´Occidente e i suoi alleati afgani finiranno per svendere i diritti delle
donne in cambio di un armistizio qualunque. Tanya non è tra queste. «Non credo
che ci pianterete in asso», dice con un bel sorriso. Ma un mese fa, in un
dibattito tra giornaliste ospitato dalla sua radio Killid, la conduttrice di
una tv ha ritenuto prudente fare autocritica: mi pento di aver chiamato
«selvaggi» i Taliban, ha detto. Non si sa mai. Così la guerra delle donne si
decide anche sulla cresta di una montagna, a due ore di macchina da Kabul, dove
trovo quaranta soldati afgani accampati al riparo di muretti di pietra. Non
sono al sicuro. L´anno scorso una granata è fischiata sulle loro teste (ma è
esplosa lontano, un duecento metri) e una recluta è stata ammazzata da un
cecchino appostato sulla montagna dirimpetto. Le pattuglie nemiche arrivano di
notte, da una valle vicina, Ouzbine, dove si nascondono tra i centoventi e i
centoquaranta Taliban, racconta Agha Jonbozi, il maggiore afgano che mi
accompagna quassù. Sono gli stessi Taliban che nel 2008 hanno massacrato dieci
militari francesi. Ma questa valle l´hanno persa. L´attacco decisivo è stato
condotto dagli elicotteri americani. Però è stato il maggiore afgano a
conquistare i cuori e le menti dei contadini. Aiutati dai consiglieri americani
i suoi soldati hanno portato nei villaggi l´allaccio dell´acqua, aperto una
scuola e distribuito sementi. Tre anni fa le strisce di verde scuro ai piedi
dei villaggi color terra erano campi di papavero da oppio. Oggi sono campi di
zafferano, e rendono di più. Altrove in Afghanistan è stato soprattutto il
grano a soppiantare l´oppio. Da quando sui mercati internazionali il suo prezzo
è aumentato, un acro coltivato a grano rende grossomodo quanto un acro
coltivato a papavero, ma richiede meno acqua e meno lavoro. E anche per questo
l´anno scorso l´estensione delle coltivazioni di papavero sul territorio afgano
è diminuita di un quinto. Ma è stato un successo per gran parte casuale e, se i
trafficanti di oppio aumentassero l´offerta, temporaneo. è effimera anche la
vittoria del maggiore afgano Jonbozi e dei suoi consiglieri americani? Come ci
ricordano più in basso i relitti di tank sovietici affioranti dal terreno,
queste valli strategiche tra Kabul e il Pakistan sono state la trappola in cui
finirono massacrate le guarnigioni in fuga di due poderosi imperi.
Nell´Ottocento i britannici, nel Novecento i russi. Ma quella in corso è una
guerra diversa da tutti conflitti passati. «La strana guerra», la definisce
Jamil Karzai, nipote del capo di Stato e influente parlamentare. Strana perché è
la più asimmetrica tra le guerre asimmetriche, una somma caotica di antiche
rivalità geostrategiche e stravaganti partite occulte, come quella di cui mi
racconta il senatore Mohammad Arif Sarwari, fino al 2004 capo dei servizi
segreti afgani (Nds). Nella provincia di Khost, proprio a ridosso del confine
con il Pakistan, «c´è una base fuori dal controllo Nato in cui i servizi
americani e indiani lavorano insieme ad un programma segreto, credo tuttora
attivo. Non riguarda al Qaeda o bin Laden, ma il Pakistan. Da quella base
elicotteri trasportano armi e pacchi di banconote ad alcune tribù pakistane
nelle aree tribali». Secondo Sarwari, tra i beneficiati vi sono anche le
milizie sciite di Parachinar, protagoniste nel 2007 di uno scontro feroce con
tribù sunnite. E se questo è vero, probabilmente il messaggio americano ai
militari pakistani suona così: finché voi aiutate i nostri nemici Taliban in
Afghanistan, noi aiuteremo i vostri nemici indiani a crearvi instabilità in
casa. Come la guerra degli uomini, così la lotta delle afgane per
l´emancipazione ha una prima linea tortuosa. C´è un nemico esterno, i Taliban,
e uno interno, un islamismo che odia i Taliban ma non è meno bigotto di loro.
Dove i due campi si intersecano, la confusione è massima. Come si è visto
quando il parlamento afgano ha approvato la legge sul diritto di famiglia. A
lungo perseguitata in quanto sciita, per la prima volta nella sua storia
millenaria la minoranza hazara, il dieci per cento della popolazione, si vedeva
riconosciuto un proprio diritto di famiglia, diverso da quello sunnita, e con
quello il diritto a una propria identità. Ma a quale prezzo? In buona sostanza
la legge è stata scritta dai mullah sciiti e da parlamentari di etnia hazara
che per buona parte provengono dalla resistenza armata ai Taliban. Dalla
ricomposizione del sodalizio tra guerrieri e sacerdoti non poteva che nascere
una legge profondamente illiberale: però un po´ meno illiberale di quanto non
siano i costumi tradizionali dei contadini dell´Hazarajat, presso i quali, per
esempio, è normale prendere in sposa una bambina di nove anni (la nuova
normativa lo vieterebbe). Proprio questi interventi sui costumi nuziali degli
Hazara avevano convinto partiti laici come Terza linea, e deputate progressiste
come Sunia Barakzai, che il testo fosse un compromesso accettabile. E questa
grossomodo era anche l´opinione dei giornalisti liberali, perciò sorpresi dalle
proteste che arrivavano dai governi occidentali. «Quella legge non è così
importante», mi diceva in quei giorni Mujahid Kakar, caporedattore di una tv,
al Tolo, che pure detesta, ricambiata, ogni fondamentalismo islamico. Perfino
giornaliste che i Taliban fucilerebbero volentieri, come Tanya Kayan, non
capivano perché l´Occidente si scandalizzasse tanto: «La questione vera è
un´altra, permettere concretamente alle donne di studiare e di lavorare. è a
quel modo che le afgane apprenderanno i loro diritti e impareranno a
difenderli». Però quella legge non era affatto un problema marginale per molte
ragazze sciite di Kabul, soprattutto non-hazara di credo ismailita, cui non
andava giù l´idea che diventasse un obbligo legale, per esempio, concedersi al
marito, se richieste, almeno una volta ogni quattro giorni (dimostrando una
singolare idea della libido femminile, il testo impone lo stesso obbligo al
marito, però una volta ogni quattro mesi). Così trecento ragazze vestite
nell´uniforme nera delle donne sciite la scorsa settimana hanno inscenato a
Kabul una clamorosa manifestazione di protesta. La reazione è stata immediata:
nello spazio di una mezz´ora un migliaio di studenti sono scesi in piazza per
contrastare, con urla e insulti, le svergognate che avevano osato sfidare il
clero sciita, e in modo così plateale. Adesso gli sciiti sono divisi tra chi
rifiuta «ingerenze» sunnite, o peggio, occidentali, e chi invece si chiede se
la legge, nel frattempo congelata, non sia un pessimo biglietto da visita per
la propria fede. Probabilmente il parlamento apporterà modifiche: ma se si
limitasse a qualche ritocco, per non scatenare l´ira dei mullah, come
reagirebbero gli occidentali? Chiunque conosca la storia dell´invasione
sovietica non può ignorare che proprio sovvertire i costumi afgani fu fatale ai
russi. I liceali furono incitati ad amarsi liberamente e a ribellarsi ai
matrimoni combinati dai genitori. Ma se questa rivoluzione regalò un po´ di
libertà a una generazione, però convinse molti altri afgani che era in corso un
attacco all´islam e soprattutto agli assetti della società patriarcale:
convinzione che contribuì non poco all´adesione alla guerriglia
dell´Afghanistan rurale. Gli occidentali non ripeteranno gli errori dei
sovietici. Sette anni fa, liberato l´Afghanistan, la loro parola d´ordine era:
dobbiamo essere ambiziosi. Oggi è: dobbiamo essere realisti. Ma un realismo in
eccesso può essere pericoloso: quali sono i limiti oltre i quali diventerebbe
tradimento delle afgane? E la salvaguardia dei diritti elementari delle donne è
o no una condizione tassativa a quella «soluzione politica» considerata
inevitabile ormai da tutti - Karzai, americani, europei? Il problema è
complicato dal fatto che agli occidentali manca un interlocutore chiaro. Quelli
che chiamiamo «Taliban» sono infatti una somma di varie bande e di vari
interessi. Il comando occidentale preferisce definirli «insorti» e il capo di
stato maggiore Nato, il generale Marco Bertolini, valuta che i Taliban veri e
propri siano una piccola minoranza. Di fatto i Taliban contro cui combatte il
maggiore Jonbozi tra le montagne che circondano il lago di Naghlu, non sono
davvero Taliban. Il loro capo, il comandante Sultan, va e viene dal Pakistan
con una facilità che i militari afgani considerano prova inconfutabile di un
legame con i servizi segreti pakistani, l´Isi. Sultan coordina sette distinti
gruppi armati, che comprendono contrabbandieri (il Pakistan è vicino),
criminali comuni, arabi, ceceni. Ma il grosso, valuta il maggiore Jonbozi, è
composto da militanti di Hizb-i-islami, l´organizzazione di un alleato dei
Taliban, Gulbuddin Hekmatyar. Quest´ultimo ha un legame storico con il servizio
segreto pakistano e uno più recente con Teheran; è in relazioni con al Qaeda, e
in affari con i narcotrafficanti. Ma al tempo della guerra santa contro i
sovietici era un favorito dell´Occidente. Ricevette onorificenze dalle mani di
Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, che lo proclamarono «combattente per la
libertà». Non sarebbe sorprendente scoprire che adesso egli figuri tra i
«Taliban moderati» con cui Karzai e molto Occidente vogliono concludere una
pace separata. Favorisce l´accordo il fatto che i due tronconi in cui si è
divisa Hizb-i-islami combattono l´uno dalla parte di Karzai e l´altro con i
Taliban. La fazione guerrigliera, specializzata nello sfregiare scolare con il
vetriolo, tiene il quartier generale in un campo-profughi pakistano dove la
polizia potrebbe facilmente neutralizzarla, se solo lo volesse. Un´altra parte
di Hezb-i-islami è presente nel parlamento di Kabul con quarantacinque
deputati, dispersi in vari partiti. La maggior parte appoggia Karzai, e tenta,
finora senza risultato, di convincere gli ex compagni d´arme ad abbandonare la
guerriglia. Il timore di molte afgane è che questo lavorio segreto induca gli
occidentali a sacrificare a una pace qualunque alcuni diritti fondamentali.
Tanto più se i Taliban veri e propri diventassero un interlocutore della Nato:
in quel caso otterrebbero legittimazione anche le loro idee, incluse le
concezioni della forsennata setta Deobandi, per la quale le donne sono
grossomodo un´umanità minore, subalterna al maschio per un disegno divino.
Raddoppiando il proprio contingente in Afghanistan, Washington ha messo in
chiaro che vuole negoziare da posizioni di forza, e magari non prima di un
successo militare. Allo stesso tempo l´amministrazione americana cerca un
accordo regionale che induca i vari protettori della guerriglia a ritirare
ciascuno la propria sponsorizzazione. Questa è da tempo l´idea
europea e adesso anche l´intenzione di Richard Holbrooke, l´inviato di Obama. Ma il tentativo di Holbrooke può
riuscire soltanto se saranno risolte questioni confinarie che si trascinano dal
Novecento (la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, non riconosciuta da Kabul,
e l´assetto definitivo del Kashmir, conteso tra Islamabad e Delhi). In
ogni caso, finché non saranno sopiti i conflitti che da un trentennio si
riverberano in questa mischia complicata, i grandi o piccoli successi
conseguiti dalle ragazze afgane non saranno meno precari dei muretti di pietra
dietro i quali i soldati del maggiore Jonbozi attendono il prossimo attacco dei
Taliban.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 10 - Economia
Tagli per 400 milioni di dollari sì dei sindacati Chrysler a Fiat Geithner
prepara il "Chapter 11", dubbi di Marchionne Per i lavoratori in
Canada e in Usa buste paga più vicine ai colleghi della Toyota Con l´entrata in
gioco di Gm la partita è diventata più complessa, attesa
per Obama SALVATORE TROPEA
TORINO - Disco verde dei sindacati e cambio di tavolo per Sergio Marchionne i
cui interlocutori, dislocati questa volta tra Washington e New York, da oggi
sono le banche. Dopo la firma dei sindacati canadesi della Caw per settimane
fermi su una linea di intransigenza, ieri anche con i loro colleghi americani
della Uaw è stato raggiunto un accordo. Ora la strada verso l´intesa con
Chrysler ha un ostacolo in meno ma non è ancora in discesa. Anche perché gli
uomini del Lingotto si trovano impegnati in un negoziato a due ma con un terzo
ospite a tavola che è più che un convitato di pietra e la cui irruzione ha già
creato qualche problema al di qua dell´Atlantico tra Italia e Germania. Se le
Fiat avesse dovuto trattare solo per l´alleanza con Chrysler le possibilità di
successo sarebbero oggi molto alte, ma da quando in gioco è entrata anche la Gm
con la Opel, la partita è diventata più complessa e Barack Obama
dovrà esercitare, direttamente o indirettamente, tutta la sua autorità se vuole
fare entrare nell´annuncio alla nazione di mercoledì prossimo un accordo
equivalente al salvataggio della più piccola delle big three americane
dell´auto. In questa prospettiva, l´amministrazione resta concentrata su
Chrysler, ma come ha ricordato un suo rappresentante, «in una trattativa
complessa come questa, non deve sorprendere il fatto che si stiano prendendo in
considerazioni alternative». L´accordo con il sindacato canadese, che è stato
il più duro nei giorni scorsi, è stato raggiunto nella notte di sabato su ieri.
Sempre che in settimana lo approvino gli 8 mila lavoratori delle tre fabbriche
Chrysler in Canada, esso dovrebbe permettere alla casa di Detroit di
risparmiare fino a 200 milioni di dollari Usa all´anno di minori costi col
taglio di "benefits" e dunque fuori dalla busta paga di cui i
lavoratori sinora hanno goduto. Per il presidente del Caw, Ken Livenza, il
«sacrificio» dei dipendenti equivarrebbe a quaranta minuti di lavoro non
remunerati al giorno. «Per quel che ci riguarda» ha detto «abbiamo fatto la
nostra parte: abbiamo rispettato l´obiettivo dei costi non solo stringendo la
cinghia, ma anche incrementando la produttività». Alle 13, ora americana di
ieri, anche i sindacati della Union Auto Worker, hanno accolto le proposte
dell´azienda che, attraverso una riduzione del costo del lavoro all´incirca di
19 dollari all´ora (si ridimensiona così lo scarto con gli addetti delle
fabbriche di Toyota in Usa) e una ristrutturazione del fondo pensioni,
consentiranno di risparmiare altri 200 milioni di dollari all´anno. Intanto c´è
attesa a Washington per la nuova offerta con la quale i creditori intendono
rispondere all´ultima proposta del Tesoro americano basata su 1,5 miliardi di
dollari più un 5 per cento della Chrysler ristrutturata. Come si ricorderà i
creditori si erano detti disponibili a mantenere 4,5 miliardi di debito
ristrutturando quindi il 35 per cento in cambio di una quota del 40 per cento
della nuova società. Non c´è ancora una soluzione su questo punto sul quale si
avvertirà l´effetto riflesso dell´operazione Opel. Le ultime notizie che
rimbalzano dagli Usa lasciano intendere, come ha scritto nel suo sito il New
York Times, che il Tesoro americano starebbe preparando per Chrysler un Chapter
11, ovvero una bancarotta pilotata, che pur entrando subito in vigore, non
dovrebbe ostacolare l´alleanza con Fiat. Come dire che l´accordo potrebbe
essere sottoscritto con uno dei contraenti in regime di amministrazione controllata.
Una scelta che però non piace alla Fiat i cui negoziatori ritengono possa
trattarsi di tattica da parte delle banche o almeno di alcune di esse.
( da "Repubblica, La"
del 26-04-2009)
Argomenti: Obama
Pagina 5 - Interni BELPAESE LA SUITE DI OBAMA ALESSANDRA LONGO La suite
destinata a Obama è al
secondo piano dell´albergo ricavato nell´ex arsenale. Manca ancora quasi tutto
tranne la splendida vista che il presidente americano si perderà. Ecco: sulla
sinistra, Caprera. Cade il segreto di Stato sui cantieri sardi del mancato G8 e
«La Nuova Sardegna» partecipa al mesto tour del comprensorio: «Giornata
umida, sembra l´inizio dell´autunno, i camion corrono vuoti...». Dentro la
suite presidenziale, gli operai continuano a lavorare e, interrogati sul senso
della loro missione, rispondono così: «Obama non
viene? A me non importa proprio nulla se facevo la stanza per lui o per un
contadino. A me importa il lavoro». Per gli arredi Bertolaso si era affidato al
gusto di Antonio Marras. Ma adesso non se ne farà più nulla. Non ne vale la
pena.
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
Pubblicato anche in: (Stampa,
La)
Argomenti: Obama
Riccardo Barenghi IL
CAVALIERE SENZA AVVERSARI Anche, persino, financo, addirittura, infine... pure
il 25 Aprile è diventato suo. La Festa della liberazione ieri si è trasformata
nella festa di Berlusconi, nel suo ennesimo trionfo mediatico e politico. Dopo
la vittoria elettorale dell'anno sorso, la pulizia di Napoli dai rifiuti, la
gestione del terremoto con la sua presenza costante, gli applausi ricevuti
dalle vittime del sisma (di solito i governanti venivano fischiati), dopo l'idea del G8 all'Aquila (riuscirà a portare Obama e gli altri leader del mondo tra i
sinistrati), adesso anche una ricorrenza storicamente di sinistra, un
appuntamento che nel '94 segnò l'inizio della fine del suo breve governo, il
primo con dentro ministri ex fascisti, adesso anche questa è diventata
berlusconiana. Grazie a lui, ovviamente, che è stato finalmente - dopo
14 anni di colpevole assenza - presente sulla scena, e grazie anche al discorso
che ha fatto. Intelligente, bisogna ammetterlo, capace di riconoscere
addirittura (addirittura per lui) i meriti dei comunisti che tanto odia, in
grado di distinguere tra chi combatteva dalla parte giusta e chi da quella
sbagliata. Evitando insomma di mettere tutti sullo stesso piano perché in quel
caso - anche lui se n'è reso conto - non esistevano due ragioni e due torti. Ma
anche grazie al suo antagonista politico: Franceschini gli ha lanciato un
invito che assomigliava a una sfida e gli è tornato indietro un boomerang. Ora,
quanta strumentalità ci sia in questa mossa di Berlusconi lo vedremo nel
futuro, intanto dovrebbe dar retta proprio a Franceschini che gli chiede di
mettere il veto al progetto di legge che equipara partigiani e repubblichini.
Vedremo se lo farà. Decisamente strumentale appare invece la sua proposta di
cambiare nome alla festa, e non certo perché il concetto di libertà non sia
adeguato, anzi semmai comprende in se stesso quello della liberazione. Ma
perché si tratta con tutta evidenza di voler segnare, anche semanticamente, uno
strappo col significato che finora ha avuto quest'appuntamento, un significato
troppo di sinistra (per lui). E poi perché, diciamolo francamente, la libertà è
diventata, almeno in teoria, la sua bandiera, il suo partito così si chiama,
dunque suonerebbe male, diciamo che sarebbe insomma troppo smaccato rinominare
il 25 Aprile a sua immagine e somiglianza. Ma si tratta di particolari, la
sostanza è che l'epoca in cui viviamo è ormai scandita da lui, dalle sue
iniziative, dalle sue vittorie, dalle sue trovate. Dicono che il suo prossimo
obiettivo sia il Quirinale, tanto che il discorso di ieri a molti è suonato
«presidenziale». Può darsi, ma può anche essere che invece lui non abbia alcuna
intenzione di farsi rinchiudere al Colle senza poteri, quantomeno dovrebbe
prima riuscire a cambiare la Costituzione per instaurare anche in Italia una
sorta di presidenzialismo. Oppure, più facilmente, potrebbe puntare a cambiare
la Costituzione nei fatti, a cominciare dalle elezioni europee: se ottenesse,
come è probabile che accada, una sorta di plebiscito popolare (si presenta in
tutte le circoscrizioni, saranno milioni e milioni le preferenze per lui), a
quel punto diventerebbe più di un presidente del Consiglio, più di un capo di
Stato, sarebbe in poche parole l'uomo solo al comando. E tutto questo anche a
causa dell'assenza o dell'incapacità dell'opposizione che c'è. La quale è
costretta o a seguire l'antiberlusconismo di Di Pietro, che però ha una sua
efficacia anche a sinistra (e lo si vedrà dai risultati elettorali), oppure ad
affidarsi alle improvvisate e improvvide iniziative del segretario del Pd. Che
per alcune settimane ha ripetuto come un disco rotto che Berlusconi non doveva
candidarsi senza rendersi conto che agli italiani non gliene frega
assolutamente nulla, poi è passato a battere sul tasto della data del
referendum e suoi relativi costi, anche qui senza capire il disinteresse
dell'opinione pubblica nonché il disastroso esito che avrebbe per il suo
partito un'eventuale vittoria dei sì. Infine ha tirato fuori il coniglio del 25
Aprile, sfidando Berlusconi a partecipare alle celebrazioni. Geniale. Il
premier ha colto la palla al balzo, ci è andato, anzi è andato tra le macerie
di Onna, ha fatto un discorso equilibrato ed egemone, appunto presidenziale, si
è assicurato i titoli dei telegiornali di ieri e dei giornali di oggi, oltre
ovviamente all'apprezzamento degli italiani, anche di molti tra quelli che non
lo amano. A questo punto, o Franceschini ripensa e cambia radicalmente la sua
strategia, oppure va fino in fondo sulla strada imboccata: invita Berlusconi al
Primo Maggio, convince gli elettori di centrosinistra a votare per lui e infine
lo fa eleggere per acclamazione leader del Pd.
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
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Argomenti: Obama
LA RICOGNIZIONE
L'OBIETTIVO Retroscena L'OSPITALITA' LA SITUAZIONE A Onna il premier pensa anche al G8 Per il supervertice Silvio sceglie già la camera a Obama Il Cavaliere avrebbe già deciso
quale camera affidare alla Merkel e Sarkozy L'operazione punta a trasformare la
ricostruzione in un grande evento Il complesso che è stato individuato è quello
delle Fiamme Gialle a Coppito Si arriva in elicottero E soprattutto c'è posto
per cinquemila persone ONNA (L'AQUILA) Obama? Consegnato in caserma. E come lui, faranno un'esperienza
di vita militare tutti i grandi del pianeta invitati al prossimo G8. L'unico
posto dove a luglio potranno essere alloggiati, per effetto del trasloco da La
Maddalena in Abruzzo, è un vasto anonimo complesso della Guardia di Finanza, la
Scuola per Ispettori e Sovrintendenti che sorge in località Coppito, pochi
chilometri sotto L'Aquila. Berlusconi è andato a ispezionarla ieri con un pugno
di fedelissimi e l'onnipresente Bertolaso. Voleva essere certo che lo
spostamento fosse davvero una buona idea. S'è fermato a pranzo, ha gustato il
rancio, gli hanno fatto visitare la caserma palmo a palmo. Pare ne sia rimasto
entusiasta. Chissà che cosa ne penseranno invece Carla Bruni e Michelle Obama, casomai decidessero di accompagnare i rispettivi
consorti. Affascinano il Cavaliere gli immensi hangar, i cortili sconfinati, le
vaste furerie, le aule dove vengono sgrezzate le reclute. Si arriva e si parte
con l'elicottero, comodissimo. Qualche problema c'è. Le scosse del terremoto
hanno aperto crepe inquietanti sui muri, come minimo servirà una bella mano di
stucco. I pavimenti di granito, opportunamente tirati a lucido, saranno una
sciccheria. Camere e camerate possono contenere complessivamente 5 mila brande:
tante, ma appena sufficienti per il grande circo che è diventato il G8.
Berlusconi vuole fare spazio per le delegazioni e pure per i giornalisti. Pare
abbia già deciso dove sistemare gli ospiti più attesi, Sarkozy qui e la Merkel
là. Dalle finestre si vedono alte montagne innevate. Gran Sasso sullo sfondo.
Capannoni commerciali in primo piano. Campi concimati. Proprio davanti
all'ingresso brucano pecore e razzolano galline, ignare. La scelta del Cavaliere
fa pensare. Al G8 di Genova, nel 2001, si preoccupava delle fioriere e delle
mutande stese di fronte al Palazzo Ducale. Adesso sembra quasi che voglia far
colpo non con la bellezza ma con il suo opposto. O magari ha in mente effetti
speciali di tutt'altra natura. Tipo trasformare la ricostruzione dal terremoto
in uno spettacolo degno di ammirazione in tutto il mondo, cantieri gru
betoniere ovunque, l'Italia in ginocchio che si rialza da sola... Vedremo fra
tre mesi. Per il momento siamo ancora alle tendopoli. Pioggia e fango per
migliaia di sfollati. Il Cavaliere è iper-presente, incassa manifestazioni di
gratitudine in certi casi sconvolgenti, vecchi disperati che arrivano a
baciargli le mani (è successo ieri a Onna). Ricambia dispensando consigli di senso
comune: «Ci sono ancora posti in albergo, andate lì che fa freddo...». Da vero
grande capitalista, conosce i trucchi dei più abbienti. Nei loro confronti non
predica l'esproprio proletario, ma va vicino: «A L'Aquila ci sono 1500
appartamenti costruiti e tenuti sfitti», avverte, «andateci portandovi i
mobili...». E quelli che non hanno neppure il letto, rimasto sepolto sotto le
macerie? Niente paura, sorride a trentadue denti il premier, «basta andare
all'Ikea, e con pochi soldi si arreda casa». Già, i soldi. «Magari, e mi viene
in mente adesso, si farà un provvedimento per risarcirvi anche di questi pochi
soldi». \
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
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Argomenti: Obama
DIPLOMAZIA AL LAVORO
IN VISTA DELL'INCONTRO TRA IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI E IL PREMIER
ISRAELIANO SULLA CRISI IN MEDIORIENTE Scricchiola la tesi "due popoli due
Stati" Una pioggia di dettagli sulle «nuove idee» di Netanyahu precede la
sua visita a Washington Il suggerimento di Oren «Offrire alla Giordania il
ritiro unilaterale dalla West Bank» [FIRMA]MAURIZIO MOLINARI CORRISPONDENTE DA
NEW YORK Un best seller, il padre centenario, due accademici e una miriade di
indiscrezioni: sono i vettori grazie ai quali, a tre settimane da giorno in cui
sarà ricevuto alla Casa Bianca, il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta
facendo trapelare le «nuove idee» sul Medio Oriente che esporrà a Barack Obama. Laureato al Mit, studente ad
Harvard, a lungo residente a Boston nonché già viceambasciatore a Washington e
capo della missione all'Onu, Netanyahu è il politico israeliano che meglio
conosce gli Stati Uniti e la scelta di far precedere l'incontro nello Studio
Ovale da una pioggia di dettagli su cosa ha in mente ripete la tattica di
comunicazione che la Casa Bianca adopera per preparare il pubblico alle
sue iniziative. Tutto è iniziato con l'arrivo a New York di Yossi Klein
Ha-Levi, un accademico della Shalem Center di Gerusalemme, che durante una
serie di conferenze ha esposto la tesi dell'«impossibilità della soluzione dei
due Stati» motivandola con il fatto che «i palestinesi l'hanno rifiutata prima
quando Arafat disse di no a Barak a Camp David nel 2000 e poi quando Abu Mazen
ripropose il rifiuto a Olmert nel 2008». Per l'accademico, considerato vicino
al premier, dietro il «rifiuto di Arafat e Abu Mazen ad ottenere praticamente
tutta la Cisgiordania e metà di Gerusalemme c'è la non volontà di rinunciare al
diritto dei profughi palestinesi a tornare dentro i confini di Israele
pre-1967» e dunque l'ostacolo è tale da «far dichiarare chiuso il capitolo dei
due Stati» aperto con gli accordi di Oslo del 1993. È una tesi convergente con
il libro «One State, Two States» dello storico Benny Morris arrivato in questi
giorni nelle librerie - premiato dalle vendite - descrivendo il fallimento del
progetto di Stato binazionale e quello dei due Stati per concludere che l'unica
alternativa è «riconsiderare la separazione della Giordania dalla West Bank
dando inizio ad un negoziato trilaterale israelo-giordano-palestinese per
arrivare ad una soluzione dei due Stati» dove quello arabo potrebbe essere una
confederazione giordano-palestinese alla quale, appena possibile attaccare
Gaza. Per avvalorare questo scenario Michael Oren - un altro accademico dello
Shalem Center, dato come possibile ambasciatore negli Usa - si è detto a favore
del «ritiro unilaterale dalla West Bank con lo smantellamento degli insediamenti»
mettendo sul piatto quella che potrebbe essere l'offerta ai
giordano-palestinesi se diventassero la controparte «per la pace». Se queste
possono essere le anticipazioni sulla pace con i palestinesi che Nethanyahu ha
preannunciato al mediatore George Mitchell, i diplomatici israeliani di
carriera mettono invece sul piatto la questione-Iran. Daniel Ayalon, vice
ministro degli Esteri, spiega al «Washington Post» che «per avere progressi con
i palestinesi bisogna evitare che l'Iran li boicotti» e ciò significa che
Netanyahu farà passi avanti solo se Obama dimostrerà
prima determinazione nell'impedire all'Iran di avere l'atomica e continuare a
foraggiare Hamas e Hezbollah. Quando Ehud Barak, oggi ministro della Difesa,
parla di «soluzione regionale» si riferisce ad uno scenario nel quale
disinnescando il pericolo-Iran si arriva alla pace. Ma non è tutto. In America
è arrivato anche Benzion, il 99enne padre del premier, per presentare l'ultimo
libro sull'Inquisizione e far sapere a Obama,
attraverso una raffica di interviste nella roccaforte liberal di Boston, che
«il problema di fondo resta il fatto che gli arabi non ci vogliono».
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
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Argomenti: Obama
IPOTESI BINAZIONALE
UN'IDEA PROVOCATORIA Intervista IN LINEA COL PASSATO Benny Morris "Basta
con le utopie Obama accetti il realismo di Bibi"
«È impossibile: nessuno dei due popoli accetterebbe di essere governato
dall'altro» «La confederazione palestinese può non convincere Abdallah ma è una
base di partenza» FRANCESCA PACI «Dopo il no di Arafat a Camp David nessuno
crede più nella possibilità dei due Stati» CORRISPONDENTE DA LONDRA Quando
l'amministrazione americana realizzerà che i palestinesi sostengono sempre meno
la creazione di due stati per due popoli e che non c'è margine per un unico
paese binazionale, dovrà studiare soluzioni alternative». Benny Morris, enfant
terrible dell'accademia israeliana, idolo della sinistra all'epoca del saggio
«The Birth of the Palestinian Refugee Problem» e oggi icona del postsionismo,
adora sparigliare le carte. Al presidente Barack Obama,
che si prepara a discutere con il premier Bibi Netanyahu «ipotesi al momento
impraticabili», suggerisce la terza via, quella di cui parla nel suo nuovo
libro «Due popoli, una terra» (Rizzoli): una confederazione di Giordania,
Cisgiordania e, potenzialmente, Gaza. Il conflitto mediorientale ha visto
giorni peggiori: Hamas e Fatah si combattono a bassa intensità, Israele aspetta
in sordina il decollo del nuovo governo, Washington sprizza buona volontà. Lei
però, resta pessimista. Perchè? «È un periodo di relativa calma, è vero. Ma le
prospettive di pace sono nere. Dopo il no di Arafat a Barak a Camp David nel
2000, nessuno crede più nella possibilità di veder nascere due stati. Hamas
dice chiaramente di essere contrario, l'Autorità palestinese del presidente Abu
Mazen s'impegna a parole ma sempre più debolmente, le colonie ebraiche in Cisgiordania
rappresentano un ulteriore ostacolo, se non il maggiore, alla divisione lungo i
confini del 1967. D'altra parte l'ipotesi binazionale, così caldeggiata
dall'estrema sinistra occidentale e dalla destra araba, non ha alcuna chance:
c'è il problema della crescita demografica degli arabi che in pochi anni
prenderebbero il sopravvento sugli ebrei, ma ci sono soprattutto enormi
differenze culturali e religiose. Nessuno dei due popoli accetterebbe mai di
essere governato dall'altro». Cosa propone per uscire dall'impasse? «Gli arabi
rifiuteranno sempre una Palestina realizzata sul 20% di quella storica al
confine con Israele che mantiene l'80% del territorio. Ma forse potrebbero
prendere in considerazione uno stato composto da Giordania, Cisgiordania e Gaza,
la vecchia ipotesi della confederazione oggi mi appare più logica dell'utopia
clintoniana. Non ho dubbi sulla contrarietà di Hamas, diverse fazioni di Fatah
invece avrebbero molto da guadagnare». È il piano
alternativo di cui il premier israeliano Netanyahu parlerà al presidente
americano Obama nei
prossimi giorni? «Potrebbe essere. Non so cosa progetti Netanyahu, a volte
sembra sostenere la soluzione due stati, altre volte privilegia la pace
economica rispetto a quella politica. Dipenderà da Obama e il suo approccio è decisamente molto pragmatico. La
confederazione palestinese potrebbe essere un'idea provocatoria». Come la
prenderebbe la monarchia hashemita? «Decisamente male, la Giordania ha già
combattuto una guerra civile contro i palestinesi. In questo caso poi,
l'opzione giordana non sarebbe un'annessione dei territori palestinesi come
quella immaginata dai laburisti israeliani negli anni '70 ma una confederazione
a maggioranza palestinese. È possibile che re Abdallah abbia già palesato la
sua contrarietà alla Casa Bianca. Magari però, protetta da una forza
internazionale, la monarchia potrebbe finire per lasciarsi persuadere». Sempre
ammesso di convincere Obama, un fermo sostenitore di
Oslo, della Road Map, dei due Stati confinanti. «È vero, Obama
si è mosso finora sul sentiero tracciato da Bill Clinton. Ma si renderà presto
conto che gli arabi sono i primi a non volere quella soluzione. Non dico che la
confederazione abbia grandi possibilità, ma le varie mappe del Medioriente
immaginate in questi anni, sono carta straccia». Il ministro degli esteri
israeliano Avigdor Lieberman ripete di avere delle idee sull'argomento. Riesce
a immaginare quali? «Credo che nel breve periodo il conflitto
israelo-palestinese perderà importanza rispetto alla minaccia iraniana, unica
vera preoccupazione israeliana. L'ipotesi più realistica è il mantenimento
dello status quo, gli israeliani che dominano la Cisgiordania, i palestinesi
che dominano Gaza, la violenza quotidiana che domina la regione con punte più
acute nelle zone di confine». Cosa si aspetta dal presidente americano sul
fronte iraniano? «Ho l'impressione che la politica di pace inaugurata da Obama legga la sfida iraniana alla luce del più grande
problema islamico e prediliga un tono conciliante che non sarà premiato dai
suoi interlocutori».
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
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Argomenti: Obama
Gilles Kepel DOPO IL
2001 Domenica con "Bin Laden? È come Bush: ha fallito" Politologo e
studioso del mondo islamico «Gli Usa hanno deluso gli arabi e Al Qaeda i
musulmani» Alain Elkann Lei è professore ordinario di Scienze Politiche e
specialista del mondo musulmano alla scuola di Sciences Politiques di Parigi.
Di cosa si sta occupando in questo momento? «Il mio ultimo libro pubblicato in
Italia da Feltrinelli si intitola "Oltre il terrore e il martirio: il
futuro del Medio Oriente"». Qual è questo futuro? «Il futuro non può
essere peggio del passato perché il passato negli ultimi otto anni era
caratterizzato dal confronto tra due grandi "narrazioni"». E quali
sono queste narrazioni? «Una è quella americana della guerra al terrore pensata
e organizzata dal presidente Bush e dagli ideologi neoconservatori. Per loro
presente e futuro sono caratterizzati dalla necessità di organizzare il mondo
in modo unipolare sotto l'egemonia benevolente degli Usa. In questo contesto il
Medio Oriente deve essere risistematizzato promuovendo la democrazia. E la
seconda "narrazione" è quella opposta di Bin Laden: la Jihad
attraverso il martirio, secondo cui l'attentato dell'11 settembre deve
annunciare l'inizio della fine dell'Occidente. Ma come cerco di spiegare nel
mio libro queste due grandi storie sono entrambe naufragate. Guantanamo e Abu
Ghraib hanno dato un'immagine disastrosa degli Stati Uniti e non hanno convinto
la società civile araba della necessità di seguire la leadership americana. Al
Qaeda non è riuscita a mobilitare le masse musulmane in una Jihad globale
contro l'Occidente». E come vede lei l'apertura di Obama verso l'Iran? «Non può fare
diversamente perché questa è la situazione che gli ha lasciato in eredità il
suo predecessore Bush: l'impantanamento americano in Iraq ha rinforzato l'Iran
che ha una possibilità di ricatto politico e militare molto forte sul ritiro
delle forze americane dall'Iraq». E cosa succederà? «Obama
propone un accordo globale all'Iran che garantisca la sicurezza della
reintegrazione nel sistema economico mondiale in cambio della loro
collaborazione per far uscire in modo tranquillo le truppe americane dall'Iraq
e per lottare insieme contro il terrorismo sunnita in Pakistan e in
Afghanistan. Infatti questo minaccia le province orientali dell'Iran dove ci
sono attacchi dei talebani sunniti contro gli sciiti. E forse per permettere
che gli alleati dell'Iran - Hezbollah e Hamas - adottino una posizione più
malleabile per la pace con Israele. Ero a Washington pochi giorni fa e questa è
la strategia di Obama e dei suoi consiglieri quale
l'ho capita». E Israele? «Ha una coalizione di governo molto fragile. Netanyahu
e Lieberman vogliono solo "una pace economica" con i palestinesi e
non vogliono sentir parlare della soluzione dei due Stati. Ma Israele non può
alienarsi il sostegno militare e politico americano. Penso che vedremo nei prossimi
mesi una grande tensione». E lei cosa pensa? «Penso che non ci sia altra
alternativa all'integrazione dell'Iran nel processo di pace e nel grande Medio
Oriente, ma tutto dipenderà dalle negoziazioni tra l'Iran e l'Occidente. Queste
negoziazioni sono un mercato e gli iraniani che hanno da poco accusato una
giornalista americana iraniana di essere una spia dimostrano che vogliono far
salire il prezzo dell'asta nella negoziazione che è aperta». E cosa succederà?
«Penso che molto dipenderà dalle elezioni presidenziali a giugno: se
Ahmadinejad viene rieletto vuol dire che gli iraniani si sentono abbastanza
forti per fare pochissime concessioni. Ma credo che i dirigenti del clero
iraniano pensino alla loro sopravvivenza a lungo termine e si proiettino in una
strada del tipo cinese, dove l'apparato del partito comunista conserva tutto il
potere economico e politico ma non dà nessuna importanza all'ideologia, vista
la grande sfida del futuro del Medio Oriente». Ma il fanatismo islamico oggi è
in crescita o in crisi? «È in crisi perché il progetto di Jihad globale di Bin
Laden è stato un fallimento politico e sociale. Tra gli estremisti stessi ci
sono dibattiti violentissimi sulla linea da proseguire e accuse che fanno
pensare alle accuse del movimento comunista 15 anni fa». In che senso? «Nel
senso che il movimento Hamas, che ha utilizzato il terrorismo e gli attentati
suicidi, oggi sta negoziando per costruire un governo di unità palestinese che
si adatterà alla presenza di Israele, e come me lo hanno spiegato lo scorso anno
a Gaza i dirigenti del movimento. E questo malgrado la guerra di Gaza tra
dicembre e gennaio». Ma il mondo musulmano oggi è molto più forte e potente?
«E' forte per la sua demografia e nello stesso tempo debolissimo per la sua
demografia. Non c'è lavoro e c'è un malgoverno generale e le tensioni interne
sono terribili tra le minoranze al potere e le masse diseredate».
( da "Stampa, La" del
26-04-2009)
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Argomenti: Obama
CONCERTI, «MEMORIAL
NACO», CORSI, SEMINARI E JAM SESSION Percfest 2009, Elio e gli altri big Sei
giorni di rassegna per un totale di 120 eventi [FIRMA]MASSIMO BOERO LAIGUEGLIA
Il ritorno di Elio e le Storie Tese al gran completo, con le loro imprevedibili
performance, e la prima volta di Francesco Cafiso, il giovane sassofonista che
ha conquistato il jazz americano ed è stato invitato a suonare (dal
trombettista Wynton Marsalis) alle celebrazioni per l'elezione
del presidente Barack Obama.
Sono solo due delle numerose chicche contenute nel programma del «Percfest
2009», la festa europea delle percussioni che si terrà a Laigueglia dal 23 al
28 giugno. La ricca sei giorni dedicata alla musica percussiva internazionale è
stata presentata ieri pomeriggio, in piazza Marconi, durante il concerto
«Travel Notes», che ha visto protagonista il Rosario Bonaccorso Quartet.
Sul palco allestito a pochi passi dal mare, dove si è tenuta l'anteprima della
rassegna, si esibiranno anche quest'anno molti big del panorama jazz mondiale.
Ecco il programma della 14ª edizione del «Percfest» nel dettaglio. Ad inagurare
la serie dei grandi concerti serali sarà il Francesco Cafiso Italian Quartet di
scena a Laigueglia martedì 23 giugno. L'ensemble guidato dal quotato musicista
sarà il batterista Roberto Gatto ("Remembering Shelly" New Project).
Il 24 giugno il pianista Danilo Rea, con Diana Torto (voce), Franco Testa
(contrabbasso) ed Ellade Bandini (batteria), proporranno «in jazz» le colonne
sonore dei film che hanno fatto la storia del cinema. La Ambrosia Brass Band
porterà invece a Laigueglia una ventata di musica stile New Orleans. I due
concerti serali del 25 giugno saranno proposti dalla leggenda della tromba Tom
Harrell con il suo Quintet e dal carismatico percussionista portoricano Ray
Mantilla. Il batterista afroamericano Hamid Drake, assieme al vibrafonista
Pasquale Mirra saranno sotto i riflettori il 26 giugno. Seguiti dal tributo a
Nat King Cole di Adrienne West (con Dado Moroni, Rosario Bonaccorso e Alessio
Menconi). Quindi nel weekend, grosse sorprese: la Percfest Percussion Unlimited
ed Elio e le Storie Teste (sabato 27), infine le sorprese della tradizionale
Notte dei tamburi (domenica 28).Oltre alla rassegna di grandi appuntamenti
jazz, l'annuale Festa europea delle percussioni (23-28 giugno) offrirà anche
quest'anno il «Memorial Naco», il concorso internazionale per percussionisti
creativi. Una giuria, presieduta da Ellade Bandini, Gilson Silveira e Billy
Cobham, selezionerà (tra le centinaia di richieste) sei formazioni (solisti e
gruppi), che si esibiranno per l'ulteriore selezione durante i primi giorni del
«PercFest», il vincitore sarà eletto sabato 27 giugno diventando cosi parte
integrante della Great Naco Orchestra che suonerà nella «Notte dei tamburi»
(domenica 28 giugno). Nei sei giorni della kermesse si alterneranno
complessivamente 120 eventi a ingresso gratuito che coinvolgeranno migliaia di
appassionati e turisti. Si tratta di una serie di iniziative musical-didattiche
(circa venti ogni giorno) che inizieranno al mattino sulla spiaggia con un
ritmato appuntamento con il fitness, proseguiranno nelle piazzette del centro
storico e termineranno a notte fonda nei locali dove si svolgeranno le jam
session. Tra queste ci saranno Corsi di Qjgong a cura di Renate Bauer, Corsi di
musica dal mondo, ovvero interessanti viaggi nelle culture musicali e nel mondo
della percussione per conoscere la musica di Cuba, Africa, Perù, Brasile,
Europa. Oltre a seminari specifici di batteria e altri strumenti.\