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  6-2-2007 | |||
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| Da comedonchisciotte.org MA ESISTE ANCORA IL DENARO ? DI PAOLO SENSINI Il denaro è una pura
  astrazione Che cosa rappresenta oggi il
  denaro? E qual è la sua funzione precipua nel mondo contemporaneo? Sembrano domande scontate,
  evidenti, perfino inutili nella loro bolsa ovvietà. Siamo infatti a un
  tal grado di prossimità dalla «vil moneta», o con ciò che meno
  prosaicamente è stato definito per secoli e secoli da Santa Romana
  Chiesa come lo «sterco del diavolo», da non prestare più la minima
  attenzione alla natura intrinseca di quest’«oggetto demoniaco». Ci è
  così vicino, così abituale, così epidermicamente consustanziale
  da ritenerlo nient’altro che una sorta di impercettibile diaframma tra noi e
  il mondo circostante.  «Ma il denaro è denaro»
  sento già rispondermi da qualcuno che non ha tempo da perdere in
  simili elucubrazioni tautologiche. Eppure, allo stesso modo in cui ci
  serviamo di uno «strumento di interazione umana» come il linguaggio (la langue
  la definì il linguista svizzero Ferdinand de Saussure), così la
  «vil moneta», che ci piaccia o no, è l’elemento continuativo e
  costante del nostro rapportarci col mondo circostante. Una sorta di protesi
  esterna che anche in negativo, cioè in sua assenza, ci tiene comunque
  avvinti all’ambiente che abbiamo intorno a noi. E che, ancora una volta
  similmente al linguaggio, muta anch’essa con il mutare delle condizioni
  storico-sociali. In altre parole si tratta di un’entità che è
  stata ed è soggetta a continue metamorfosi, pur serbando nel
  suo dna alcune caratteristiche ricorrenti nel corso del tempo. Ragione per cui
  sarà bene dedicarvi, se siamo interessati a cogliere ab ovo il
  nocciolo della questione, una riflessione per intendere a che punto ci
  troviamo e verso quale direzione ci stiamo muovendo. Nulla di ozioso, dunque,
  ma un necessario gesto di profilassi mentale per riorientare la bussola del
  nostro tempo.  Partiamo allora dalla domanda
  basilare: per quale ragione è venuta alla luce la moneta? È
  stato il commercio, cioè la relazione dell’individuo con l’individuo
  in uno spazio con-diviso che ha creato l’esigenza della moneta e ne ha
  sviluppato l’uso. Apprezzare o valutare ciò che si scambia vuol
  infatti dire contarlo, pesarlo, confutarlo, misurarlo, e chi dice misura
  dice ovviamente «unità convenzionale». La moneta non è infatti
  un fenomeno per così dire primario, ma secondario. E non è essa
  ad aver creato lo scambio, è lo scambio che ha creato l’esigenza della
  moneta. Prima di questa fase, che è tuttavia relativamente assai tarda
  nell’evoluzione complessiva dell’umanità, tutti i popoli antichi
  avevano a lungo perseverato nella pratica antidiluviana del baratto. Con un tacito accordo, invece,
  ora i gruppi di individui assuefatti a scambiare e a commerciare insieme
  adottarono una derrata particolare il cui valore, generalmente
  convenuto, serviva da scala comparativa, da equivalente universale al valore
  di tutte le cose che essi di solito dovevano permutare fra loro. Ogni
  tribù, ogni popolo, adottò infatti fin da subito per campione e
  intermediario degli scambi la merce in genere più ricercata presso di
  sé a cagione dei suoi vantaggi e che si poteva, per così dire, tenere
  a portata di mano.  Ne La ricchezza delle nazioni,
  Adam Smith affermò ad esempio che «il sale era considerato uno
  strumento comune di commercio e scambio in Abissinia». La parola sanscrita
  «roupa», invece, che significa «gregge», ha formato il nome dell’unità
  monetaria dell’India, la «rupìa» (rupayā). Da questo punto
  di vista la maggior parte dei riferimenti al grosso e al piccolo bestiame nei
  libri sacri dell’India antica spesso alludevano alla funzione monetaria e
  attestavano che le ricchezze, al tempo in cui noi datiamo questi scritti,
  consistevano soprattutto in greggi. Ma anche il termine paleofrisio «sket» e
  il paleoslavo «skotu», per citare altre locuzioni equipollenti, significavano
  entrambi tanto bestiame quanto denaro. Presso i primi abitatori della
  penisola italica, similmente a quanto abbiamo riscontrato più sopra,
  tutto si valutava e si pagava in capi di bestiame. Il grosso e il piccolo
  bestiame erano pure qui, in origine, la principale ricchezza e formavano il
  campione del pagamento dei prodotti; e infatti la parola «pecūs»
  indicava il bestiame (o la pecora) e da essa, per derivazione, si ebbe il
  termine «pecūnia» che finì per applicarsi esclusivamente alla
  moneta metallica, quando quest’ultima venne impiegata nelle transazioni[2]. È inoltre l’abitudine di contare
  il bestiame per «capita» (capi), che ha dato origine alla parola «capitale»,
  termine che indica esclusivamente, nella nostra lingua, la ricchezza in
  numerario. Dopo gli scambi in natura, dopo
  la scelta d’una merce-tipo atta pressappoco alla convenienza di tutti, come i
  cereali e gli armenti presso i popoli agricoli, nasce l’uso dei metalli che
  espletano più comodamente lo stesso ufficio. Ma che assolvono
  fondamentalmente la medesima funzione di razionalizzazione dello scambio.
  Secondo la testimonianza di colui che può essere considerato a buon
  ragione come il padre della storiografia occidentale, Erodoto di Alicarnasso,
  furono «i Lidî i primi uomini che, a nostra conoscenza, abbiano fatto coniare
  per loro uso della moneta d’oro e d’argento»[3].  L’introduzione della moneta
  presso i Greci delle sponde del mar Egeo nel vii secolo a.C., si
  manifestò assai rapidamente proprio in virtù dell’enorme
  sviluppo commerciale dell’epoca, come attesta la quantità di monete
  ritrovate. È infatti a Egina, situata in un golfo della costa
  nord-occidentale ellenica, che fanno la loro prima apparizione le monete
  d’argento. Egina era nel vii secolo il centro commerciale più
  importante della Grecia, cioè il più grande mercato
  internazionale dell’epoca, dove approdavano le navi di tutto l’Oriente e
  soprattutto quelle provenienti dalle colonie greche della costa dell’Asia
  Minore. Si capisce dunque perché sia diventato il primo luogo in cui venne
  sperimentata la moneta vera e propria.  Poi verrà il turno della
  polis ateniese, che nel volgere di qualche secolo riuscì a imporsi
  come il vero e proprio omphalós dell’intero bacino mediterraneo,
  accompagnando la propria espansione commerciale e talassocratica con uno
  straordinario rigoglio delle sue peculiari istituzioni politiche e
  socioculturali. È dunque all’interno di questo materialissimo crogiolo
  di pratiche mercantili che rese possibile un intenso scambio di esperienze e
  sensibilità con tutti i popoli del mondo fino allora conosciuti, e non
  in un astratto cielo metafisico di cui si è così a lungo
  favoleggiato fuori e dentro le accademie, che vanno ricercate le coordinate
  assiologiche che diedero vita al concetto stesso di dēmokratía,
  cioè al primo tentativo esperito concretamente in sede storica di
  gestire la cosa pubblica da parte del popolo sovrano[4]. Con tutto ciò che esso ha
  significato sul piano della vita associata ma anche su quello
  dell’auto-riflessione che l’uomo ha iniziato a rivolgere verso se stesso. In
  altre parole si tratta di una profonda rottura con il mondo precedente: una
  soluzione di continuità che trova una spiegazione
  logico-consequenziale solo se si ha l’onestà intellettuale di seguire
  le pieghe interne e la dinamica di questo complesso sviluppo sociale. Uno
  sviluppo che peraltro ha piena rispondenza sul piano storico in ogni luogo con
  cui questo tipo di amalgama esperienziale è entrato in contatto.  Ma per riprendere il bandolo del
  nostro discorso, quali sono le ragioni per cui la moneta soppiantò le
  altre merci in funzioni di mezzo di scambio? Il motivo principale è
  che i metalli sono meno alterabili e più versatili della gran parte
  delle altre merci o derrate; per conseguenza è più facile
  serbarli a lungo in magazzino, senza rischiare di vederli deteriorare, come i
  cereali, il bestiame, le pellicce o il sale. Si può facilmente
  accumularli e ridurli in frammenti senza che essi perdano nulla del loro
  valore. La loro conservazione non esige molta manutenzione e sono
  relativamente ben poco voluminosi. «Caratteristica ancora più
  importante è che il bene sia un bene di lusso. Il fatto che i desideri
  dell’uomo per gli oggetti di lusso siano illimitati ne garantisce una domanda
  continua e una perenne accettabilità»[5]. In breve, le altre merci-tipo sono
  sprovviste di tutte queste qualità, o almeno non le posseggono allo
  stesso grado.  Dappertutto i «campioni del
  valore», di fabbricazione metallica, si sostituirono dunque ai campioni presi
  nelle produzioni naturali di ogni paese. Si trova in questo universale
  avvicendamento degli oggetti naturali con oggetti di metallo, un titolo di
  valore-tipo, una nuova applicazione di quella legge che lo sviluppo sociale
  d’un popolo in fondo si regola sempre sulle modificazione del regime della
  produzione. Va anche aggiunto, inoltre, che originariamente il contenuto
  metallico costituiva il dato di fatto mentre la forma monetaria
  rappresentava solamente l’autenticazione pubblica del contenuto metallico
  stesso. Si trattava insomma di un determinato quantitativo di metallo
  prezioso, di una verghetta in una forma autenticata dalle autorità del
  luogo. Così, in ragione della funzione commerciale della moneta e del
  carattere fiduciario che le conferiva l’impronta delle istituzioni che la
  «certificavano» pubblicamente, ci si rese presto conto che vi era un grande
  interesse nel dare a questo marchio la maggior importanza possibile, nello
  svilupparlo per renderlo più appariscente affinché nessuno potesse
  confonderlo. Secondo alcune attendibili ricerche[6], il regime monetario romano ebbe inizio
  appena nell’anno  Con l’«aureus» (moneta d’oro
  istituita da Cesare nel  Il proposito di creare una
  moneta mondiale determinò infatti una esportazione notevole di oro e
  argento che fu una delle cause della crisi monetaria del ii secolo dopo
  Cristo. Fu così che gli «imperatori soldati», successori dei Severi,
  si trovarono nella necessità di adottare tutti gli artifici possibili
  e immaginabili pur di surrogare i metalli preziosi che andavano sempre
  più rarefacendosi sui territori dell’impero. Ma, nonostante
  ciò, la crisi proruppe in tutta la sua devastante violenza con
  l’imperatore Valeriano i e soprattutto con suo figlio Gallieno, in quanto
  l’importazione notevole di beni di lusso dalle Indie, dall’Arabia e da altri
  paesi, come ad esempio l’ambra dalla Germania, superò l’esportazione
  verso quei paesi in modo assai consistente. Ebbe così inizio
  un’èra di sfrenata inflazione, con una dilatazione monetaria
  illimitata e una coniazione a getto continuo di «miliarenses» di rame
  utilizzati soprattutto per pagare il «soldo» alle truppe, ultima risorsa
  ormai di un organismo un tempo straordinariamente potente ma ora intaccato
  nelle sue funzioni più vitali. Scomparsa la fiducia nella moneta, la
  capacità d’acquisto del denaro crollò rapidamente segnando in
  maniera definitiva le già pencolanti sorti dell’impero. Sulla base di
  molteplici elementi si è accertato che, pur tenendo conto
  dell’estrazione di metallo aureo, il «deflusso di metalli preziosi dal tempo
  di Augusto sino alla metà del iii secolo d.C. fu di quattro quinti di
  oro e due terzi di argento delle giacenze originarie»[7]. In buona sostanza bimetallismo e
  supervalutazione del rame, tentativi politici di creare una valuta universale
  e una bilancia commerciale cronicamente passiva sortirono come risultato la
  sparizione di pressoché l’intero stock di metallo prezioso. Tutto ciò
  unitamente allo sfaldamento dell’impero e al regresso dei traffici, alla
  distruzione del «principio di legittimità» incarnato dal Senato romano
  ad opera di Settimio Severo[8], al decremento complessivo della
  popolazione e al crollo degli standard di vita generali, furono le ragioni
  del tracrollo monetario e del conseguente caos inflazionistico che
  prostrò le residue forze che allignavano nell’impero. La svalutazione
  del denaro ebbe inoltre come conseguenza che i paesi limitrofi deviassero i
  loro traffici dall’agonizzante impero, con un vertiginoso rincaro dei prezzi. A questi fattori di ragione
  prettamente valutaria si aggiunse anche, estinta la casa dei Severi, la
  dissoluzione dell’impero in varie parti per opera di anticesari e usurpatori.
  Il periodo che va da Massimino ad Aureliano, cioè dal 235 al 270 d.C.,
  rappresentò infatti una travolgente metamorfosi sociale in cui si
  rifuse l’intero plesso della società romana. Si andava cioè
  delineando grado dopo grado la cosiddetta epoca del Colonato, in cui l’antico
  cives romano si trasformava nel servo di un dominus che
  ne disponeva a sua completa e insindacabile discrezione[9]. Ciò avvenne perché, mancando «la
  normale circolazione della moneta, la cristallizzazione della proprietà
  era impossibile perché il “dirigente sociale” non poteva disgiungere il suo
  potere sul suolo da quello su chi lo lavora»[10]. Potendo pagare invece il lavoratore con
  una somma di denaro o l’occupazione di una terra con un fitto in contanti,
  come accadeva di regola nei tempi precedenti, ecco che il potere sociale
  prima indifferenziato, sia sul suolo, sia su chi lo lavorava, poteva
  scindersi in potere sui mezzi di produzione (proprietà) e
  potere sugli uomini (pubblici poteri). Come puntualmente documentato
  dagli eventi nonché dalla letteratura dell’epoca, l’erosione continua del
  valore del medio circolante determinò un progressivo ritorno al
  baratto, e il denaro tesaurizzato fece capolino qua e là solo
  fugacemente per permettere ai detentori di procurarsi i mezzi di
  sostentamento. A suffragio di quest’ipotesi, apprendiamo da un papiro
  dell’epoca che sin dal 250 d.C. le città erano sempre più
  spopolate e impoverite. Roma, che all’apice della sua potenza era un
  agglomerato di circa un milione e mezzo di abitanti, riduceva ora la sua
  popolazione a poche migliaia di unità[11]. Segno che qualcosa di molto grave era
  nel frattempo avvenuto. L’oro e l’argento erano scomparsi, la
  prosperità e i patrimoni formatisi nei tempi precedenti si erano volatilizzati.
  Una terribile carestia, poi, fu la conseguenza logica o piuttosto
  l’espressione della tragica situazione che era venuta a determinarsi. In questo «nuovo» panorama
  sociale, fiorirono con sempre più frequenza i cosiddetti obærati,
  gli indebitati e rovinati che, non difesi più dalla lex romana,
  cadevano nella soggezione politica dei loro creditori[12]. Si apriva in altri termini l’epoca in
  cui ogni cittadino che si trovava in questa condizione veniva di fatto
  inchiodato al suolo e si trasformava in un membrum della terra[13]. Diveniva cioè servus
  glebæ. E, come tutti i servi della gleba del x secolo, doveva
  fornire prestazioni in natura, servizî e corvées. La sua libertà
  formale, da questo punto di vista, era una sopravvivenza giuridica di
  un’epoca ormai remota, un attributo divenuto totalmente svuotato di senso.
  È quello che comunemente si usa per descrivere il periodo di tempo
  definito come «Medioevo», ma che forse sarebbe più appropriato
  chiamare Feudalesimo poiché già dal ii-iii secolo d.C. sono presenti
  tutti quegli «ingredienti» che saranno individuati come tali dagli storici
  solo molto posteriormente[14]. Durante tutta questa sequenza
  storico-sociale durata circa nove secoli, in assenza di mercato – e quindi
  della moneta – il pagamento della terra ceduta al lavoratore veniva fatto,
  come si è detto, in servizî; ma questi dovevano essere espletati sul
  luogo di produzione: ecco allora che il lavoratore non poteva più
  andarsene e si trovava legato al suolo «æternitatis iure»[15]. Si era così consolidato un potere
  unico sugli uni e sugli altri compenetrati insieme. «Il servo –
  notava a questo proposito Bruno Rizzi – è il cardine morfologico della
  società feudale, esiste dovunque, mentre il dirigente
  può essere un vassallo, un burocrate, un quirita, un patrono o il
  capoccia di una tribù, per esempio lo sceicco […]. Il potere feudale,
  ossia la signoria dei dirigenti sui mezzi di produzione e sui lavoratori,
  forma la base di tutto l’apparato giuridico. Il legame di coesione sociale
  d’ordine politico è il cemento di tutte le società feudali»[16]. Per questo «nella società feudale
  scompare tutto quello che ha attinenza al pubblico appunto perché il
  cittadino non esiste più». Tale ripiegamento sociale che
  trovò un nuovo tipo di coagulo nelle ampie villæ dei patrones
  che ridisegnarono da cima a fondo la topografia del vecchio impero romano,
  durerà per secoli e secoli proprio perché interpretava economicamente
  il profondo mutamento sociopolitico dell’epoca. Grosso modo si può
  parlare di un periodo che va dal ii-iii all’xi secolo d.C. in cui la moneta,
  salvo rarissimi casi, sparì dalla circolazione[17]. Tutto infatti si svolgeva nelle terre
  del «signore» con un’economia squisitamente autarchica in cui i villici
  preposti al fabbisogno generale producevano ciò che serviva alla
  sussistenza di ogni singola enclave. Ecco il perché
  dell’instabilità politica di quei «secoli oscuri», delle continue
  guerre e guerricciole che insanguinarono l’Europa per secoli e secoli.
  Ciascuno di questi patrones, infatti, godeva nella propria tenuta di
  uno status paragonabile a quello di un vero e proprio capo di Stato, anche se
  tutto ciò naturalmente non era codificato in termini giuridici. Ma la
  sostanza era quella, e come tale si comportava con i propri subordinati
  interni così come con gli avversari esterni. In altri termini era un
  despota che, essendo venuta meno la differenza tra «pubblico» e «privato» su
  cui era basato tutto l’edificio del diritto romano, godeva di un dominium
  eminente (cioè di un potere totale) su chiunque rientrasse sotto
  la sua sfera di competenza. Ovviamente nel descrivere un
  siffatto contesto non si può neppure più parlare di «classi
  sociali», com’era stato invece il caso dell’epoca di maggior fulgore della
  civiltà greco-romana, ma semmai di vere e proprie «caste», che si
  differenziano dalle prime per una sostanziale impermeabilità e
  separazione tra i vari raggruppamenti sociali. E questo, tanto per tradurlo
  in termini concreti, significava che nascere servo della gleba
  equivaleva a rimanerlo per tutto l’arco dell’esistenza e trasmettere tale
  attributo alla propria progenie; così come nascere signore voleva
  dire dominare – a prescindere dalle capacità e dai meriti personali –
  sui propri possedimenti e sul proprio «gregge umano» in sæcula
  sæculorum trasmettendone intatte le medesime prerogative a tutta la
  discendenza. Quando iniziò a mutare
  tale situazione? Esattamente nel momento in cui si riattivarono quei
  meccanismi sociali che permisero di riconnettere lentamente ciò che
  per secoli era venuto meno, vale a dire tutta quella rete di scambi e
  relazioni tra individui e comunità di cui ci è stata trasmessa
  ampia documentazione dai cronachisti del tempo. È inoltre l’epoca in
  cui, subito dopo il tornante del primo millennio, rifioriscono a nuova vita
  le «città fantasma» abbandonate dopo il crollo dell’impero romano le
  quali, come ad esempio nel caso di Roma, fungevano ormai da secoli e secoli
  da terreno per il pascolo di bestiame o come distese di rovi là dove
  un tempo sorgevano templi e agorà.  Molte città nacquero in
  questo stesso periodo, alcune inizialmente come piccoli borghi che facevano
  da corona alla dimora del signore, altre ancora sorsero al crocevia di
  importanti vie di comunicazione proprio perché i prodotti in eccedenza delle
  campagne iniziavano a creare quel circolo virtuoso e quell’osmosi sociale tra
  città e contado agricolo che preparò il terreno del nostro
  Rinascimento. Un Rinascimento che fu, è bene specificarlo, dapprima
  economico e quindi artistico e culturale. E le cui scoperte
  tecnico-scientifiche, peraltro molto importanti, furono la conseguenza,
  piuttosto che la causa, della ripresa economica.  Sembra un’interpretazione,
  quest’ultima, assai ardita rispetto alla vulgata ufficiale tutta centrata su
  una visione eminentemente «culturalista». Eppure come spiegare quel
  brulichìo artistico se non come la risultante delle molteplici attività
  artigianali che andavano dispiegandosi nelle botteghe comprese tra le mura
  delle città? Forse che gli abitanti della Firenze
  umanistico-rinascimentale erano ontologicamente più dotati o capaci
  rispetto a quelli venuti dopo di loro? Certo che no. Solo che essendo la
  città dell’epoca composta quasi interamente da lavoratori artigianali
  che si cimentavano nelle più molteplici attività manuali e
  intellettuali, è ovvio che da quel magma ribollente emergessero figure
  che si distinguevano per la straordinaria qualità delle loro opere. Da
  qui i Leonardo, i Brunelleschi, i Vasari, i Michelangelo, i Raffaello… Ecco
  la differenza tra quel contesto e il mondo attuale. Accampare ragioni di
  carattere metafisico o strane congiunzioni astrali non aiuta certo a capire i
  fatti nella loro datità reale, che sono molto meno misteriosi di
  quanto si voglia far credere. Avvenne dunque che, grado dopo
  grado, riprese a circolare quel tallone monetario che si era eclissato
  dall’ambito dell’economia autarchica per svariati secoli. Dapprima esso
  servì come razionalizzatore del commercio e come elemento di
  fluidificazione mercantile, in un periodo che possiamo grosso modo datare tra
  il xii e il xv secolo, e che si può definire a buon diritto come
  «artigiano-nobiliare»[18]. Poi il processo di circolazione
  monetaria iniziò gradualmente a tramutarsi in vera e propria
  accumulazione di capitale, tanto è vero che già alle soglie del
  ’500 abbiamo le prime testimonianze di agglomerati di lavoratori (e anche
  delle prime rivolte sociali) che vendono il proprio lavoro come una merce
  qualsiasi[19]. Sono diventati cioè proletari, e
  non più servi di un dominus che ne dispone a suo totale
  piacimento. Si tratta di una trasformazione epocale che avrà
  conseguenze dirompenti sul mondo a venire. In un contesto siffatto, quindi,
  il denaro non è qualcosa che interviene dopo che il prodotto
  sia stato ottenuto, quasi come semplice artificio tecnico diretto a
  facilitare un processo di scambio che rimane, nella sostanza, identico al
  baratto, ma è, viceversa, il prodotto stesso della società
  mercantile. Detto altrimenti, il denaro non è altro che il medesimo
  valore di scambio «scisso dalle merci stesse ed esistente esso stesso come
  una merce accanto ad esse»[20]; e che siccome il valore è il
  prodotto specifico del processo capitalistico, lo stesso denaro, in quanto
  valore autonomizzatosi, non si aggiunge al prodotto del capitale, ma è
  questo prodotto stesso. «Il presupposto elementare della società
  borghese – annotava Marx nel novembre 1857 – è che il lavoro produce
  immediatamente il valore di scambio, ossia il denaro»[21]. L’assunzione della «forma di denaro»
  della merce non è pertanto una circostanza accessoria, ma è
  l’abbandono da parte della merce della sua forma particolare e l’attribuzione
  da parte sua della sua forma generale[22]. Naturalmente la forma di denaro
  rappresentava, in quanto a sua volta merce ed equivalente generale, il
  corrispettivo di un metallo prezioso che ne garantiva il valore. Da questo
  punto di vista un fatto economico assai rilevante di quest’epoca è
  l’arrivo in Europa, proveniente dall’America, di una grande quantità
  di altra merce, l’oro e l’argento. 100 milioni di franchi in oro e 200
  milioni in argento: queste, pare, le masse monetarie penetrate in Europa dal
  1533 al 1568[23]. Per cui l’abbondanza della moneta,
  l’attività commerciale e le variazioni dei prezzi resero possibili la
  formazione di alcune immense ricchezze che dettero a certe famiglie borghesi
  un straordinaria potenza. A partire dalla seconda
  metà del xvi secolo, inoltre, si impose una novità assai
  importante: l’introduzione della banconota[24]. Questa ricevuta, di cui il più
  antico esemplare conosciuto è del 1564, venne in seguito rilasciata a
  chiunque ne faceva richiesta e assunse allora il nome di «fede di credito»[25]. Coperto e garantito dal metallo
  prezioso, il biglietto del banco, che non è altro che il simbolo
  del valore contenuto nel metallo prezioso, può circolare come
  moneta – da cui la banca ricava un beneficio – proprio come se fosse esso
  stesso oro o argento. «La logica prosecuzione alla creazione di un mezzo di
  scambio diventa pertanto lo sviluppo di un sistema bancario e l’emissione di
  titoli di credito (banconote e assegni) in grado di sostituire l’oro»[26]. Occorre solo che la moneta di carta sia convertibile
  nel metallo prezioso, e se lo Stato garantisce i biglietti così
  emessi si dice che essi hanno «corso legale». Questo, in maniera succinta,
  è il meccanismo di fondo su cui farà aggio tutto il susseguente
  processo di valorizzazione capitalistica. Ma cosa succede quando questo
  meccanismo perde le sue caratteristiche fondanti così come le abbiamo
  descritte finora e si trasforma in qualcosa di diverso? Mi spiego meglio.
  Abbiamo visto, nel corso di queste rapida ricostruzione, la funzione di
  intermediazione e lo statuto del denaro nella società mercantile prima
  e capitalistica poi. Ovvero quello di un «equivalente generale» che sgorga
  direttamente dal processo produttivo e che trova incarnazione nel metallo
  prezioso o, che è lo stesso, nella moneta cartacea da essa
  simbolizzata. Il tutto naturalmente basato su un rapporto di produzione che
  fa premio sul mercato. Abbiamo però anche visto che vi è stato,
  nel corso della nostra storia pregressa, un lungo lasso di tempo in cui il
  denaro (cioè il metallo pregiato che lo incarnava) era praticamente
  sparito come momento di intermediazione sociale. Una sparizione coeva al
  venir meno della distinzione tra «pubblico» e «privato» che su di essa era
  fondata, la quale di conseguenza aveva imposto un modello di sfruttamento
  economico non più mercantile bensì autarchico e feudale. Nel corso del Novecento
  osserviamo l’emergere di un altro fenomeno ancora, che si differenzia
  significativamente da quelli ora descritti. In questo nuovo scenario abbiamo
  sì il denaro, ma quest’ultimo tende a divenire sempre di più un
  mero «segno cartaceo» e a svincolarsi dal suo sostrato aureo. Tale tendenza
  iniziò a delinearsi con la Prima Guerra Mondiale, per effetto delle
  politiche statali di copertura delle spese belliche attraverso un aumento
  della circolazione fiduciaria. Da esso derivò che tutte le divise
  monetarie si svalutarono enormemente in proporzione alla massa di segni
  cartacei emessi dalle cosiddette «centrali». Dopo il ritorno della pace ne
  conseguirono pesanti tensioni sui mercati finanziari che nel corso degli anni
  successivi divennero endemici. Sul piano nazionale, infatti, il
  regime aureo implicava che le banche centrali dovessero mantenere il valore
  della loro unità monetaria alla pari con quella delle altre moneta del
  sistema mediante una sufficiente riserva d’oro. Il mantenimento del gold
  standard richiedeva un preciso limite alla creazione di moneta creditizia
  «e il sistema bancario si imponeva come il protettore della stabilità
  economica»[27]. Il regime aureo era quindi uno strumento
  teso a limitare l’espansione e la contrazione del credito e con esse le
  tendenze inflazionistiche e deflazionistiche che si esprimevano nell’aumento
  o nella diminuzione dei prezzi. Con la Seconda Guerra Mondiale
  il quadro si complicò ulteriormente e il processo inflattivo, di
  conseguenza, continuò a espandersi pressoché ovunque. Questa
  situazione era la risultante della «trasformazione subìta da un
  capitalismo di tipo concorrenziale a un regime che, sfociando in due guerre e
  rivoluzioni mondiali, ha portato lo Stato a un controllo rapidamente
  crescente o addirittura completo delle economie nazionali»[28]. L’economia veniva «perciò
  codeterminata dallo Stato e dalla grande industria in misura tale che, a
  tutti i fini pratici, lo Stato è la grande industria e la grande
  industria è lo Stato»[29].  Dopo il secondo conflitto
  bellico i movimenti internazionali di capitale «furono dominati dalla
  presenza degli Stati Uniti, i quali vi parteciparono con fondi in gran parte
  governativi. Gli aiuti americani permisero inoltre ai governi europei di
  adottare programmi di impresa molto più ampi di quanto sarebbe stato
  altrimenti possibile. Questi aiuti furono un’estensione alla sfera
  internazionale della produzione indotta dallo Stato»[30].  Tale «politica economica»
  raggiunse il suo momento culminante il 15 agosto 1971, quando il presidente
  degli Stati Uniti d’America, l’avvocato Richard Nixon, decretò
  l’inconvertibilità del dollaro in oro ponendo così fine al
  sistema del Gold exchange standard ratificato con gli accordi di
  Bretton Woods il 22 luglio 1944[31]. In questo quadro il dollaro si era
  imposto come l’arbitro del sistema monetario internazionale, fissando, con 45
  paesi presto saliti a oltre 150, un nuovo equilibrio di cambi che poggiava
  sulla piena convertibilità della rappresentazione teatrale
  della moneta sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti assumevano
  così un ruolo d’impresario e garantivano che l’oro ideale
  rappresentato dal dollaro poteva in qualunque momento divenire oro reale.
  Mettendo bruscamente fine a questo trend, bisognava ora aver fiducia nella
  rappresentazione scenica senza più mediazione alcuna, l’oro non
  esisteva, lo spettacolo doveva divenire realtà perché così
  comandava l’impresario. Del resto nessuno era in grado di chiedere ed
  ottenere il fallimento degli Stati Uniti d’America, non solo per carenza di
  armi idonee, ma anche perché ormai le riserve di tutte le nazioni si
  fondavano sulla medesima finzione[32].  In altre parole Nixon procedeva
  ad allineare il dollaro alle valute europee e al rublo. Il che significava
  equipararlo a della pura e semplice carta-moneta, o meglio, a dei segni
  monetari senza alcun valore intrinseco i quali, per essere accettati o
  imposti come tallone di scambio, ponevano in tutta la loro
  drammaticità il problema del valore. «Le obbligazioni
  governative – notava a questo riguardo il futuro presidente della fed Alan
  Greenspan – non sono infatti finanziate da ricchezza tangibile, ma
  rappresentano solo la promessa del governo di sborsare nel futuro parte del
  reddito ottenuto tramite il prelievo fiscale»[33].  Che cosa garantisce un «segno
  cartaceo» in circolazione che non ha più come contropartita immediata
  la sua realizzabilità in un certo peso di metallo pregiato? Non vi
  è che una sola risposta: la produzione. Finché sono reperibili merci
  sul mercato, esse garantiscono quei segni monetari che teniamo in tasca. Se
  mancano i prodotti, invece, li possiamo anche buttare perché non valgono
  nulla – non essendovi più in contropartita il metallo prezioso. Ma i
  prodotti sono lavoro cristallizzato e, in ultima analisi, le differenti
  valute cartacee rappresentano lavoro. L’euro, il dollaro, il rublo, lo yen,
  ecc., rappresentano nient’altro che le varie unità di misura
  «regionali» del lavoro umano. Balza quindi agli occhi che
  questa «moneta-lavoro» rappresenta una «novità» rispetto a ciò
  che abbiamo riscontrato fin qui. «Ora il possessore di un titolo di stato o
  di un deposito bancario creato dalle riserve cartacee crede di avere un
  valido diritto su un bene reale. Ma non è così: la
  verità dei fatti è che adesso ci sono più diritti che
  beni reali»[34]. Trattasi insomma di un problema di prima
  grandezza, anche perché, la storia ce lo insegna, il disordine monetario non
  è la causa scatenante delle difficoltà economiche generali, ma
  sono invece queste ultime che costituiscono la ragione della metamorfosi del
  denaro in segno cartaceo. Ed esso non è altro che il sintomo
  rivelatore del funzionamento patologico del sistema. Dire però che questa
  tipologia economica rappresenti un’autentica novità non è del
  tutto esatto. Infatti uno scenario come quello testé descritto si era
  già manifestato altrove. Mi riferisco a ciò che era già
  avvenuto in Russia con il rublo che, com’è noto, non si poteva cambiare
  in oro e non aveva corso in Occidente; era cioè una «moneta di conto»
  o un buono di consumo che serviva puramente alla distribuzione dei
  prodotti senza possedere un valore intrinseco. Ad onor del vero, tuttavia, va
  anche detto che già durante la «Grande Depressione» il presidente
  Roosevelt si era reso conto «che quanto si sta facendo negli Stati Uniti sono
  in parte le stesse cose che si stanno facendo in Russia come pure alcune cose
  che si stanno facendo nella Germania di Hitler. La differenza è che gli
  Stati Uniti le fanno in modo ordinato»[35]. Ma, a parte l’elemento dell’«ordine», si
  «abbozzavano già distintamente gli elementi che facevano intravvedere
  molte caratteristiche in comune; caratteristiche che si possono combinare
  insieme per formare nuovi sistemi misti»[36].  Il rublo rappresentava quindi
  un’«unità di tempo-lavoro» che lo Stato russo emetteva a suo piacere
  lasciandola garantire dal gettito produttivo. Prezzi, salari e profitti pur
  essendo ancora categorie economiche, non svolgevano più una funzione
  attiva indipendente: erano soltanto espressioni di grandezze fisiche
  aggregate e determinate direttamente dalle decisioni del Gosplan. La
  ripartizione delle risorse non aveva quindi nulla a che fare con i rapporti
  di prezzo, di salario e di profitto[37]. Cosa voleva dire tutto questo?
  Che la «moneta di conto» sovietica non costituiva più un tallone
  mercantile. Non misurava né stabiliva il valore dei prodotti. Li smistava e
  li distribuiva secondo criteri che non si fondavano più
  prevalentemente sulla domanda e sull’offerta, ma su criteri che rispondevano
  ad una ratio squisitamente politica. A questo riguardo, come abbiamo
  visto, le modalità con cui venivano assegnati questi beni non
  rispondevano a un’esigenza di tipo socialista, ma seguivano una logica per
  cui il grosso della produzione veniva distribuito tra l’esigua élite
  burocratica al vertice del paese, mentre la restante parte di beni era
  ripartita, in proporzioni stabilite dagli organi del Partito-Stato, tra tutta
  la popolazione lavoratrice. Così anche nei paesi
  occidentali, con le trasformazioni della moneta in «segno cartaceo»,
  l’intervento statale iniziava mano a mano a divenire talmente profondo e
  multiforme che i «prezzi» non erano più tali, ossia sgorganti dal
  rapporto aritmetico tra domanda e offerta[38]. Con l’intervento continuo dello Stato
  nella produzione, nella distribuzione e nei servizî, il potere sociale
  cambiava poco per volta di sede. Dai privati passava allo Stato
  corrispondentemente all’ampiezza e alla profondità dell’intervento
  statale. Ogni «prezzo», in conseguenza di ciò, assumeva coefficienti
  politici che ne alteravano il valore. «E se il prezzo non era più
  tale, ma una quotazione largamente dovuta a fattori estranei al rapporto
  aritmetico tra domanda e offerta, ciò era indicativo del fatto che il mercato
  non aveva più vitalità e che il negozio non era
  più tale. Non si scambiavano delle merci, ma si distribuivano in un
  certo altro modo i prodotti del lavoro umano e non secondo mercato»[39]. In una simile condizione, dunque, «in
  cui l’economia di mercato sembra irrimediabilmente perduta»[40], «il valore del denaro ha assunto le
  sembianze del puro segno, della convenzione, fino a sparire quasi nella
  totale astrazione. Il segno viene accettato in nome della stabilità e
  della sopravvivenza istituzionale, senza porre l’inquietante problema del valore»[41]. In conclusione proviamo allora a
  trarre un provvisorio bilancio su quanto accade attorno a noi. Qual è
  oggi l’elemento più rilevante nella nostra esperienza quotidiana col
  denaro? Direi la sua quasi avvenuta «evaporazione», riferendomi con tale
  espressione alla sua consistenza fisica, palpabile, concreta. Ormai il denaro
  in circolazione viene utilizzato prevalentemente per le spese minute come
  l’acquisto del giornale in edicola, per pagare un caffè al bar o a
  spesucole di questo genere. Per il resto il nostro fabbisogno complessivo
  viene coperto per la quasi totalità da «denaro virtuale». Si stima
  infatti che «circa l’85 per cento del denaro esistente e circolante al mondo
  non è denaro vero, emesso da Banche Centrali, ma denaro creditizio,
  ossia aperture di credito e disponibilità di spesa create dal nulla
  dalle banche commerciali, le quali, attraverso questa creazione continua di
  nuovo denaro creditizio, si impossessano di quote crescenti del potere
  d’acquisto complessivo della popolazione mondiale»[42]. Potremmo dunque riferirci a
  questa «nuova forma» del denaro come a qualcosa di molto prossimo a una specie
  di «buono di consumo», in quanto esso ha perduto la sua caratteristica
  funzione di anonimato per divenire un’entità che vincola ciascun
  individuo inderogabilmente alla propria consistenza bancaria. Una sorta di
  nuovo «principio di individuazione» sulla base delle proprie
  possibilità di accesso al consumo. Per cui il diffondersi sempre
  più intrusivo di tali buoni quali effettivi mezzi di
  rimunerazione e la sincronica disseminazione di carte di credito, bancomat e
  tessere varie come ultimi ritrovati in fatto di transazioni
  economiche, incarnano una consolidata deriva alla «rappresentazione scenica»
  del denaro il cui significato non dovrebbe sfuggire a tutti coloro che sono
  interessati a cogliere l’essenziale dello status quo. E tutto
  ciò senza omettere il circuito integrato fatto di rate, mutui, fidi,
  leasing, servizî alla persona, servizio civile, servitù temporanee,
  staff leasing, ipoteche sulla casa, indebitamenti bancari, eccetera
  eccetera[43].  Tipologie differenti che
  però rimandano tutte alla medesima modalità concreta con cui
  viene concepito il valore e la qualità del tempo nelle
  nostre «società avanzate». Insomma, si tratta di peculiari forme di
  «cambiali in bianco» che si profilano come delle vere e proprie ipoteche
  sul futuro per chi ne è soggetto. «Tre giorni lavorerai per me,
  tuo signore e padrone, e tre giorni lavorerai per te, riposo al settimo»
  recitava un ricorrente apoftegma feudale[44]. E, sia pure tenendo conto dei differenti
  contesti in esame, la tonalità emotiva che informa certe pratiche
  odierne non sembra in ultima istanza così lontana da un simile
  afflato procedurale.  Contrariamente a quanto viene
  oggi declamato dai laudatori delle innumerevoli possibilità del
  «lavoro interattivo» disponibile on the Market, «si può infatti
  essere servi di Stato con un computer in mano invece che con la zappa di
  feudale memoria, ma si è pur sempre servi»[45]. Infatti ciò che si profila con
  sempre più nettezza davanti ai nostri occhi è una sorta di
  prototipo del «cittadino ideale»; un individuo perfettamente manovrabile,
  privo di capacità di opposizione, di resistenza e sprovvisto di alcun
  senso di consapevolezza, l’esatto contrario della tanto sbandierata
  imprenditoria «neoliberista» del nostro tempo. Gli si può aumentare a
  fisarmonica i bisogni, i costi dei servizî e dei beni essenziali, i debiti e
  le tasse. Lo si può far lavorare e vivere sempre più per un
  altro e sempre meno per sé stesso, lo si può anche defraudare dei suoi
  risparmi: tutto questo con l’appoggio degli apparati mediatici e delle
  istituzioni al gran completo. Non so, per concludere, se ho
  risposto esaustivamente o almeno contribuito a fare chiarezza circa la
  domanda posta nel titolo di questo scritto. Quello che so e a questo punto mi
  pare difficilmente confutabile è che, avendo ripercorso sinteticamente
  la genealogia della moneta dal mondo antico a quello attuale, ci troviamo a
  vivere in una situazione molto diversa rispetto ciò che ci vorrebbero
  far credere le «trombe» di regime. Una situazione che allude, per dirla in
  maniera icastica, a uno scenario non molto lontano da quello che potremmo
  definire come un vero e proprio «feudalesimo modernizzato». [1] Pecunia non olet significa letteralmente
  «Il denaro non puzza». La leggenda vuole questa frase attribuita a
  Vespasiano, a cui il figlio Tito aveva rimproverato di avere messo una tassa
  sui servizi igienici pubblici, denominati da allora vespasiani, dalla quale
  provenivano cospicue entrate per l’erario. [2] Secondo le ricerche dell’insigne linguista
  Émile Benveniste, l’indoeuropeo *peku designava invece originariamente
  la «ricchezza mobile» personale; ed è solo attraverso specificazioni
  successive che, in certe lingue, ha potuto denotare il bestiame, il bestiame
  minuto e il montone (cfr. Id., Le vocabulaire des institutions
  indo-européennes, 2. voll., Les Éditions de Minuit, Paris, 1969; trad.
  it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 voll., Einaudi,
  Torino, 1976, vol. i, pp. 36-37). [3] Erodoto, Storie, Utet, Torino,
  1998, i, 94. [4] Cfr. J. Burckhardt, Griechische
  Kulturgeschichte, 4 voll.,  [5] A. Greenspan, Gold
  and Economic Freedom, in «The Objectivist», vol. 5, n. 7, luglio 1966, p.
  80 (poi ristampato in A. Rand, Capitalism: The Unknown Ideal, New
  American Library, New York, 1966). [6] E. Babelon, Le origini della moneta
  considerate dal punto di vista economico e storico, Arnaldo Forni Editore,
  Sala Bolognese, 1977, p. 315. [7] R. Gaettens, Inflationen:
  das Drama der Geldenwertungen vom Altertum bis Gegenwart, Richard Pflaum
  Verlag, München, 1955; trad. it. Inflazione, Longanesi, Milano, 1959, p. 37. [8] G. Ferrero, La Ruine de la civilisation
  antique, Plon-Nourrit & Cie, Paris, 1921; trad. it., La
  rovina della civiltà antica, Athena, Milano, 1926, p. 37. [9] Cfr. E. Ciccotti, Il tramonto della
  schiavitù nel mondo antico, Bocca, Torino, 1899. [10] B. Rizzi, La proprietà, in
  «Rassegna italiana di sociologia», n. 4, ottobre-dicembre 1967, p. 597. [11] Cfr. L. Homo, Les institutions
  politiques romaines: de la cité à l’état, La Renaissance du Livre,
  Paris, 1927; trad. it. Le istituzioni politiche romane. Dalla città
  allo Stato, Mursia, Milano, 1975, p. 125. [12] H. Wallon, Histoire de l’esclavage
  dans l’antiquité, 2. voll., Imprimerie Royal, Paris, 1847, vol. ii, pp.
  162-170. [13] Cfr. F. Lot, La fin du monde antique
  et le début du Moyen âge, La Renaissance du Livre, Paris, 1927. [14] Farà scuola in questo senso il
  lavoro dello storico francese Marc Bloch, che localizzò la
  società feudale tra il x e xiii secolo (cfr. Id., La Société féodal,
  2 voll., Albin Michel, Paris, 1939; trad. it. La società feudale,
  Einaudi, Torino, 1949). [15] Codice Giustiniano, XI, 51: «Cum
  per alias provincias, quæ subiacent nostræ serenitatis imperio,
  lex a maioribus constituta colonos quodam æternitatis iure detineat…». [16] Cfr. B. Rizzi, La rovina antica e
  l’età feudale, a cura di P. Sensini e B. Chiorrini Dezi, Marco
  editore, Lungro di Cosenza, 2006, cap. VIII (Il Feudo), pp. 449-472. [17] Cfr. A. Engel - R. Serrure, Traité de
  numismatique du Moyen âge, 3 voll., Leroux, Paris, 1891-1905, vol. i, p.
  161.  [18] Durante questo periodo i nobili erano usi
  incassare moneta sonante, non beni in natura come i feudatari e neppure
  «segni cartacei» come avviene oggi (cfr. B. Rizzi, Sui tratti dominanti
  della società artigiano-nobiliare, in Id., La burocratizzazione
  del mondo, Edizioni Colibrì, Milano, 2002, pp. 381-389). [19] H. Hauser - A. Renaudet, Les
  débuts de l’âge moderne. La
  Renaissance et la Rèforme, Alcan,
  Paris, 1938; trad. it. L’età del Rinascimento e della Riforma,
  Einaudi, Torino, 1967, pp. 411-412. [20] K. Marx, Lineamenti fondamentali della
  critica dell’economia politica, 2 voll. La Nuova Italia, Firenze, 1978,
  vol. i, p. 81. [21] Ibid., p. 187. [22] Per Marx la legge del valore «regola» il
  capitalismo di mercato ma non altre forme di produzione sociale. Parlare
  dunque di legge del valore «regolatrice» dell’economia in mancanza di
  rapporti di mercato specificatamente capitalistici può solo
  significare che i termini «valore» e «plusvalore» sono conservati pur non
  esprimendo altro che il rapporto tra lavoro e lavoro supplementare
  (plus-lavoro). [23] J. Baby, Principî fondamentali di
  economia politica, Le edizioni sociali, Milano, 1949, p. 49. Pare che
  prima del 1545 l’oro valesse in Spagna 10,75 volte più dell’argento,
  mentre sotto Filippo ii si attestò a 13,90 (cfr. H. Hauser - A.
  Renaudet, L’età del Rinascimento e della Riforma, cit., p.
  500). [24] La cui origine risale probabilmente ai
  banchi pubblici napoletani, che emisero – in occasione di controversie civili
  – un documento probatorio chiamato «fede di deposito» e attestante il
  versamento nel banco di una certa somma di denaro. [25] G. Felloni, Moneta, credito e
  banche in Europa: un millennio di storia, Brigati, Genova, 1997, p. 52 [26] A. Greenspan, Gold
  and Economic Freedom, cit., p. 82. [27] Ibidem. [28] P. Mattick, Marx
  and Keynes. The Limits of the Mixed Economy, Extending Horizons Books,  [29] P.K. Crosser, State
  Capitalism in the Economy of the  [30] P. Mattick, Marx e
  Keynes. I limiti dell’economia mista, cit., p. 274. [31] Gli Stati Uniti avevano abbandonato il
  regime aureo già nel 1933. Il Gold Reserve Act del 1934 aveva
  conferito al Tesoro americano la proprietà dell’intero tesoro
  esistente nelle Banche della Federal Reserve. Tutte le monete d’oro in
  circolazione furono ritirate e il loro possesso da parte degli individui
  dichiarato illegale. Nel 1934 gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia
  misero a punto il regime del cambio in oro (Gold exchange standard),
  in base al quale regolavano in oro le operazioni finanziarie internazionali
  mentre svolgevano secondo i propri bisogni le politiche monetarie interne. [32] Da allora gli accordi si susseguono senza
  mai risolvere il problema reale, che è, per ogni singolo Stato,
  l’impossibilità di sanare il debito contratto dall’erario; la
  stabilità e la ricchezza si fondano ora su un medesimo patto
  scellerato che lega i sudditi ai tiranni indissolubilmente, il patto di
  fingere che lo spettacolo del valore del denaro costituisca un valore
  reale, il patto che l’oro esista anche se tutti sanno che non c’è. [33] A. Greenspan, Gold
  and Economic Freedom, cit., p. 83. [34] Ibidem. [35] H.L. Ickes, The
  Secret Diary of Harold L. Ickes. The first Thousand Days,
  1933-1936, Simon and  [36] J. Tinbergen, Shaping
  the World Economy. Suggestions for an International Economic Policy, The
  Twenthiet Century Fund,  [37] Cfr. N. Spulber, Foundations
  of Soviet Strategy for Economic Growth, Indiana University Press,  [38] Cfr. D. T. Bazelon, The
  Paper Economy, Random House,  [39] B. Rizzi, Un nuovo sistema economico,
  in «Rassegna italiana di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1971, p. 157. Cfr. anche F.
  Sternberg, Wer beherrscht die zweite Hälfte des 20. Jahrhunderts?,
  Kiepenheurer & Witsch, Köln, 1961, pp. 143-62. [40] P. Mattick, Marx e
  Keynes. I limiti dell’economia mista, cit., p. 336. [41] G. Giovannelli, presentazione a K.
  Marx, Segui il denaro (Follow the Money), Mimesis, Milano, 2003, p.
  27. [42] Cfr. M. Della Luna - A. Miclavez, Euroschiavi,
  Arianna Editrice, Casalecchio di Reno, 2006. [43] Il sempre crescente processo di
  indebitamento bancario che si sta registrando un po’ ovunque nel mondo
  è, in buona sostanza, l’applicazione ai privati della «trappola
  debitoria» ampiamente praticata agli Stati del Terzo Mondo: se non possono
  pagare il debito, la banca offre di aprire un nuovo credito, su cui
  pagheranno gli interessi cumulati del primo e secondo. E così via...
  Per i nuovi usurai è questo il cliens ideale: quello che lavora
  tutta la vita per arricchire loro. Infatti solo negli Stati Uniti i profitti
  delle banche su questo business sono cresciuti del 163 per cento in 8 anni. I
  privati americani, nel complesso, sono in rosso sulle carte di credito per
  800 miliardi di dollari, cifra pari a quasi una volta e mezzo il pil della
  Cina. E questo debito è aumentato del 34 per cento negli ultimi anni
  raggiungendo i 103.400 dollari in media a famiglia tra il 2001 e il 2004.
  Ecco perché le grandi banche estere ardono dal desiderio di impiantarsi anche
  in Italia. Ora che la maggior parte dei lavoratori stringe la cinghia
  già alla fine della seconda settimana, si vuol far diventare anche
  loro degli allegri peones... [44] Lex Baiuwariorum, I, 3: «Servi
  opera vero tres dies in ebdomade in dominico operent, tres vero sibi
  faciant». [45] B. Rizzi, Il deviazionismo sul
  proscenio, vol. iv, del Socialismo infantile, Editrice
  Razionalista, Bussolengo, 1970, p. 29. |