|   Il Sole
  24 Ore - 25-5-2007   Confindustria -
  Assemblea 2007 Intervento del Presidente Luca Cordero di Montezemolo
 Roma, 24 Maggio 2007   Autorità,
  Signore e Signori,
   imprenditrici e imprenditori, protagonisti di tante
  iniziative, di tante battaglie, di tante speranze; tenaci sostenitori della
  libertà di intraprendere, veri costruttori di progresso e benessere. A
  voi dico grazie per l’impegno straordinario di questi anni, per quanto
  abbiamo fatto, per quanto stiamo facendo, per quanto
  faremo insieme nei prossimi mesi.
 Avevo detto, all’inizio
  della mia avventura in Confindustria, che “essere classe dirigente
  significa anche restituire al Paese parte di ciò che si è
  ricevuto, per farlo crescere e consentirgli di affrontare nuove sfide”.
  Noi lo abbiamo fatto e dobbiamo esserne orgogliosi. Noi abbiamo rifiutato la
  logica del declino. Noi ci siamo rimboccati le maniche, è a noi in
  primo luogo che si deve l’aver fatto uscire il Paese dalle secche della
  crescita zero.
 
 Il primo dovere che
  sento è dunque quello di ringraziare tutti voi imprenditori italiani
  per quanto avete fatto. Lo avete fatto per le vostre imprese, per voi stessi,
  per i vostri collaboratori e per il vostro Paese.
 
 E’ un risultato di cui
  dobbiamo essere fieri. Senza alterigia, ma con la consapevolezza di aver saputo
  svolgere bene il compito che ci siamo dati quando
  abbiamo scelto questo mestiere.
 Dobbiamo rivendicare a
  viso aperto questa nostra capacità. Soprattutto in un momento come
  questo, quando riemergono nel nostro Paese antichi e
  mai sradicati pregiudizi nei confronti dell’impresa.
 
 Quando figure di
  primissimo piano delle istituzioni si spingono a dipingere come
  “impresentabile” il capitalismo italiano, senza che si alzi una sola voce dal
  mondo della politica a smentire questa autentica falsità.
 
 E se non lo fanno loro,
  dobbiamo farlo noi. Qui e oggi. Magari prendendo a
  prestito le parole di Winston Churchill,
  secondo il quale “l’idea del comunismo è che fare profitti sia un
  vizio, ma io credo che il vero vizio consista nel subire delle perdite”.
 
 E’ caduto il muro di Berlino ma in Italia non è scomparsa la tentazione
  di prendersela con l’impresa, alimentata da un clima di ostilità di
  alcuni settori della politica.
 
 Nel capitalismo
  italiano sta crescendo una nuova borghesia che ha coscienza di sé, ma nella società sembra ancora
  prevalere una visione vecchia dell’impresa, che non tiene conto dei mutamenti
  epocali che sono avvenuti in questi anni.
 
 Non si considera il
  fatto che solo mettendo le imprese in grado di competere è possibile
  allargare la torta e quindi anche redistribuire.
 Dobbiamo domandarci che
  valore è assegnato oggi in Italia all’intraprendere. L’impresa
  è strumento di preparazione dei cittadini italiani di
  domani, crea valore sociale oltre che economico. E’ il luogo dove si
  affermano valori quali il merito, la cultura del rischio, la concorrenza.
  L'imprenditore è oggi sempre più consapevole del proprio ruolo
  sociale.
 
 Non possiamo accettare
  questa sorta di processo alle imprese che si registra solo nel nostro Paese. Come imprenditori e come associazione
  faremo sempre di più per comunicare bene il nostro ruolo e perché
  l’immagine che il Paese ha delle imprese sia più
  vicina al loro valore.
 
 Ma questa idea che agli
  imprenditori sia già stato dato chissà cosa e quindi gli altri
  vadano risarciti non sta né in cielo né in terra. Nessuno parla di ricchezza
  prodotta, occupazione creata, formazione fatta, redditi distribuiti,
  innovazione realizzata. Senza contare il sempre più alto contributo in
  termini di imposte che le aziende danno allo Stato e quindi alla
  collettività.
 
 Serve un clima diverso:
  abbiamo bisogno di sentire più tifo attorno a noi.
 
 L’impresa - lo voglio
  dire forte - non è lo strumento con cui l’imprenditore si arricchisce,
  è il tessuto vitale di una democrazia economica moderna.
 ° ° ° 
 La ripresa dell’economia italiana viene
  tutta dalle imprese e dal mercato. Ed è una ripresa selettiva frutto
  di un processo di ristrutturazione profondo, inevitabile
  ma doloroso.
 
 Qualcuno è rimasto sul campo, ma
  tanti altri sono tornati protagonisti in Italia e sui mercati internazionali.
 
 Nel 2006 gli investimenti delle imprese sono
  cresciuti del 2,3% e l’industria italiana ha saputo spostare le proprie
  produzioni verso l’alto di gamma e verso i nuovi mercati.
 
 La globalizzazione, che era considerata da
  più parti solo come una minaccia, si è rivelata, come abbiamo
  sempre detto, anche una grande opportunità. Approfittare delle
  opportunità ed affrontare i rischi fa parte delle nostre regole del
  gioco.
 
 Certo le regole
  devono essere rispettate da tutti. La contraffazione, la violazione della
  proprietà intellettuale, il dumping vanno oltre i normali rischi
  collegati ad una concorrenza leale. Contro questi fenomeni chiediamo
  all’Italia e all’Unione Europea tolleranza zero.
 
 C’è ancora molto da fare per portare
  nel mondo il nostro Paese. Ma in questi tre anni abbiamo in gran parte
  recuperato i ritardi anche grazie ad un impegno straordinario di tutto il
  sistema associativo.
 
 Penso alle oltre 5.000 imprese, per
  la stragrande maggioranza piccole e medie, che hanno partecipato alle
  missioni di Confindustria in India, Cina, Brasile, Turchia, Marocco, Tunisia,
  Emirati Arabi e tanti altri paesi.
 
 Dove abbiamo concentrato i nostri sforzi
  l’export italiano è cresciuto più della media europea e in
  qualche caso più di Francia e Germania.
 
 Abbiamo inaugurato un modo nuovo di andare
  sui mercati internazionali presentandoci come un sistema compatto: governo,
  piccole, medie e grandi imprese, banche, università, mettendo sempre
  al centro gli incontri faccia a faccia tra piccoli imprenditori.
 
 Questo è il gioco di squadra di cui
  ho spesso parlato e di cui il nostro Paese ha grande bisogno.
 
 Ho vissuto personalmente questa nostra
  riscossa da prospettive diverse: come rappresentante delle imprese italiane,
  come imprenditore e come manager impegnato nel riuscito processo di rinascita
  del nostro più grande gruppo industriale privato.
 
 Il sistema produttivo italiano vince quando è capace di innovare a 360°. Quando
  mette al centro i propri collaboratori, i propri
  prodotti, i propri clienti.
 
 Anche sull’innovazione Confindustria ha
  sviluppato attività di formazione in tutta Italia, coinvolgendo oltre
  6.000 piccole e medie imprese.
 
 Dobbiamo continuare, investendo ancora di
  più in ricerca e sviluppo, in nuovi software, riorganizzando la
  produzione e il marketing. Asset immateriali sui
  quali si gioca la competizione globale, investimenti importanti come quelli
  in capitale fisso, come del resto ci insegnano i dati degli Stati Uniti.
 
 Non mi stancherò mai di ripeterlo:
  innovazione, innovazione, innovazione.
 
 Molto resta da
  fare. Il sistema produttivo italiano ha soprattutto nella dimensione e nella
  struttura finanziaria i suoi principali punti deboli.
 
 Anche per questo siamo sempre più
  vicini alle PMI che si confrontano con questi problemi, che pagano un prezzo
  più alto all’eccesso di burocrazia e di pressione fiscale e che
  malgrado tutto ciò continuano ad essere - con successo ed orgoglio -
  la spina dorsale del sistema produttivo italiano.
 
 E’ anche qui che deve giocare un ruolo
  fondamentale il sistema bancario che raccoglie depositi da clienti italiani
  per oltre 700 miliardi di euro, quasi la metà del Prodotto Interno
  Lordo e che rappresenta da solo oltre il 30% della capitalizzazione di borsa.
 
 In questi ultimi anni le banche hanno
  ottenuto risultati straordinari per livelli di redditività e sono
  cresciute soprattutto attraverso processi di fusione in linea con il pensiero
  del Governatore Draghi. Guardiamo ad esempio all’importante operazione
  conclusa in questi giorni tra due grandi banche italiane. Se tutto questo
  fosse avvenuto in un altro paese avremmo gridato al miracolo.
 
 Ci attendiamo che questo processo porti
  adesso servizi e costi più concorrenziali per cittadini e imprese, e una
  maggiore presenza internazionale in tanti paesi importanti dove sentiamo la
  mancanza di banche italiane.
 
 La battaglia della concorrenza, insieme
  all’internazionalizzazione e all’innovazione, è stata il principale
  riferimento ideale della Confindustria di questi ultimi anni. Abbiamo ottenuto dei risultati quando
  la concorrenza sembrava una battaglia ormai abbandonata.
 
 Dal 2004 abbiamo lanciato una campagna per
  la concorrenza come progetto comune e trasversale a tutte le categorie e a tutti gli interessi.
 Abbiamo imposto questi temi al centro del
  dibattito. Il Governo, con il Ministro Bersani, ha avviato un processo,
  apprezzabile ma ancora insufficiente, di liberalizzazioni.
 
 Dobbiamo approfittare del clima favorevole
  che si è creato e imprimere, cominciando dai provvedimenti che sono
  già in Parlamento, una forte accelerazione in tanti settori ancora
  chiusi alla concorrenza: energia, professioni, servizi pubblici locali,
  pubblica amministrazione.
 
 Chi ha fiducia nella capacità della
  sua impresa o del proprio paese non ha paura della concorrenza. Io credo profondamente nell’Italia e negli italiani. Nella
  nostra società ci sono molte eccellenze, in tutti i campi, non certo
  solo tra gli imprenditori.
 
 Nelle istituzioni e nelle Forze Armate - a
  cominciare dai nostri militari impegnati all’estero, a cui
  va il nostro grazie - nella scuola, nella sanità, nelle professioni,
  nella cultura e nello sport ci sono moltissimi talenti. Il nostro problema
  è come farli emergere perché convivono con situazioni di degrado.
 
 Un solo modo ha funzionato in tutti i paesi:
  è il meccanismo della concorrenza e del merito.
 
 Noi abbiamo definito la concorrenza un bene
  comune perché premia i migliori, offre servizi più efficienti e meno
  costosi: questa è la strada maestra per abbattere le disuguaglianze.
 E su questi temi ci meravigliano le
  posizioni di retroguardia di quelle forze politiche e sindacali che
  dovrebbero farsi carico dei più deboli, quelli che hanno maggiori
  difficoltà a pagare servizi costosi e poco efficienti.
 
 La concorrenza è la via per generare
  un cambiamento dove tutti potranno trovare le loro convenienze.
 
 In questi anni non abbiamo solo lavorato al
  nostro interno, ma come associazione che rappresenta una componente
  importante della società italiana, abbiamo fornito spunti, idee e
  progetti concreti per affrontare le principali questioni, a cominciare da un
  grande lavoro su scuola e università. Abbiamo sempre parlato prima
  come cittadini e poi come imprenditori, pensando soprattutto alla crescita
  del nostro Paese.
 
 Anche come associazione abbiamo guardato
  sempre più al mercato e al merito. Abbiamo deciso di portare in borsa
  il Sole 24 Ore per reperire risorse per la crescita; abbiamo avviato un
  grande piano di sviluppo della LUISS e un progetto di modernizzazione del
  sistema Confindustria con l’obiettivo di ridurre i costi e rappresentare
  sempre meglio gli interessi di tutti gli associati.
 
 Ma non voglio riproporre qui
  l’attività di questi anni. La considero un patrimonio comune
  acquisito.
 ° ° ° 
 Oggi vogliamo andare oltre, proiettarci nel
  futuro e ragionare di come potrebbe essere l’Italia nel 2015. Un futuro vicino, che non può aspettare i tempi ed i
  rituali della partitocrazia.
 
 Non possiamo più permetterci di non
  decidere, di perdere altro tempo. Non vorrei che qualcuno pensasse che questa
  ripresa sia sufficiente. Non lo è. E’ il prodotto degli sforzi isolati
  di milioni di italiani. Dimostra che gli italiani
  sono capaci di reagire alle crisi e sanno sempre trovare la via del rilancio
  e del riscatto.
 
 Ma la ripresa non è ancora
  consolidata, è fragile, e si spegnerà
  rapidamente se saremo lasciati soli, se non saranno rimosse le tante,
  tantissime anomalie che ci costringono a competere con un braccio legato
  dietro la schiena.
 
 E’ una ripresa di cui non ci possiamo
  accontentare. Nel primo trimestre del 2007 l’area dell’euro è
  cresciuta ad un tasso triplo rispetto a quello italiano.
 
 Abbiamo sempre sostenuto che il successo di
  un’azienda lo fa chi la gestisce e chi ci lavora, non la politica. La recessione passata era anche il frutto della nostra
  carenza di competitività, così come l’attuale ripresa è
  il prodotto della nostra capacità di cambiamento e di rinnovamento. Assunzione
  di responsabilità ed orgoglio devono andare di pari passo.
 
 Continueremo, con questa consapevolezza,
  sulla strada intrapresa: innovando, internazionalizzandoci, aprendoci sempre
  più alla concorrenza, investendo e rischiando.
 
 Ma quanto potrebbe essere maggiore la
  crescita se non dovessimo lottare contemporaneamente su due fronti: all’esterno
  con concorrenti sempre più agguerriti e all’interno con i deficit di
  sistema!
 
 Davvero la politica italiana vuole
  rassegnarsi ad una crescita modesta? Non lo credo. Penso che possiamo essere
  più ambiziosi.
 
 Attraiamo un terzo degli investimenti internazionali
  che arrivano in Francia e un ottavo di quelli del Regno Unito. Questo
  dimostra quanto sia difficile fare l’imprenditore in
  Italia!
 
 Creare un sistema paese in grado di attrarre
  è un lavoro molto più serio, difficile e complesso che non
  quello di sponsorizzare cordate o fondare l’ennesima società a
  controllo pubblico.
 
 L’italianità delle imprese si difende
  assicurando un contesto in cui le aziende possano
  crescere, non siano penalizzate dal punto di vista dei contributi, del fisco,
  delle infrastrutture, dell’energia, degli adempimenti burocratici rispetto a
  chi opera negli altri paesi.
 ° ° ° 
 Nel mondo di oggi la politica industriale
  consiste nel creare condizioni favorevoli alla crescita e nel definire regole
  certe per l’esercizio delle attività economiche, rafforzando il ruolo
  di autorità veramente indipendenti.
 
 Partiamo dal fisco. Paghiamo troppe tasse
  per alimentare la spesa corrente e gli interessi sul debito, mentre i servizi
  sono spesso insoddisfacenti e gli investimenti pubblici non arrivano ad un
  modesto 4% del PIL.
 
 Non abbiamo soldi da investire in
  infrastrutture, in ricerca, in education, nei
  servizi pubblici essenziali. Mancano persino le risorse per garantire
  adeguatamente la sicurezza delle persone, malgrado
  l’impegno straordinario di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza che
  meritano tutta la nostra gratitudine. La sicurezza, questo si, è un
  problema che tocca da vicino i cittadini!
 
 Continuiamo a non tagliare sprechi e
  privilegi e così la pressione fiscale continua a crescere. Con
  l’addizionale IRAP arriviamo all’assurdo di togliere soldi alle imprese per
  premiare le regioni che amministrano peggio!
 
 Da gennaio, quando in Germania
  entrerà in vigore la riforma che riduce di 9 punti l’aliquota fiscale
  sui profitti, le aziende italiane saranno le più tassate d’Europa.
 
 Guardo al Paese che vogliamo costruire da
  qui al 2015: chi produce, chi
  lavora, chi paga regolarmente le tasse non deve più essere
  penalizzato. Non è accettabile una pressione fiscale così concentrata
  sulla produzione, rispetto alle rendite e ai consumi.
 
 In questo modo si penalizza
  l’attività di chi fa impresa in Italia, a tutto vantaggio di chi
  produce all’estero e vende sul nostro mercato: è questo che
  vogliamo? È così che si pensa ai lavoratori e soprattutto alle
  famiglie?
 
 La crescita deve essere la missione di
  tutti.
 
 Per questo abbiamo acceso un faro sulla
  competitività, sul costo del lavoro e sul cuneo fiscale: questioni
  cruciali su cui abbiamo fatto passi in avanti. Prima con la Finanziaria del
  2006, che non a caso definimmo “responsabile”. E poi quella del 2007, con il
  taglio del cuneo di cui è giusto dare atto al
  Presidente Prodi che non lo ha mai messo in discussione. Consideriamo
  un risultato importante aver ottenuto finalmente una prima riduzione dell’IRAP, ma altri passi devono seguire.
 Il taglio del cuneo non finisce nelle tasche
  degli imprenditori, è un vantaggio per tutta l’economia perché ci
  rende più competitivi.
 
 Dobbiamo ridurre le imposte sulle imprese
  come hanno fatto in Germania, Spagna, Regno Unito, Austria e Svezia, paesi
  con maggioranze politiche diverse tra loro.
 
 Dobbiamo allinearci all’aliquota media
  europea che è più bassa di ben 8 punti. Siamo disponibili a
  scambiare qualunque incentivo in cambio di minore pressione fiscale sulle
  imprese e su questo vogliamo confrontarci con il Governo
  prima della Finanziaria.
 
 Per ridurre stabilmente la pressione fiscale
  la strada è abbattere il debito pubblico, tagliare la spesa
  improduttiva - su cui si è fatto ancora pochissimo per non dire nulla
  - spingere la crescita dell’economia. E poi, come ripetiamo da anni, far
  pagare le tasse a tutti .
 
 Ora, su 40,6 milioni di contribuenti IRPEF,
  è inaccettabile che solo il 5% del totale dichiari un reddito
  complessivo superiore ai 40 mila euro e solo lo 0,8% sopra i 100 mila euro.
  Sono dati obiettivamente scandalosi in un paese civile!
 
 Per questo condividiamo una vera azione di
  contrasto all’evasione fiscale, all’economia sommersa e al lavoro nero, ma
  vogliamo che sia condotta in modo rigoroso. Si deve intervenire con
  determinazione soprattutto laddove sappiamo si annidano l’evasione e
  l’illegalità. E dove fino ad oggi si è fatto davvero troppo
  poco se il sommerso tocca il 30% del PIL.
 
 Il contrasto al sommerso è
  fondamentale anche per combattere gli infortuni e soprattutto i morti sul
  lavoro. Questa è una battaglia che ci vede e ci vedrà
  sempre a fianco dei lavoratori.
  Focalizziamo i controlli in tutta quell’area di economia grigia o sommersa,
  che spesso sfocia nella criminalità, dove si concentrano gli abusi. E
  magari facciamo accompagnare gli ispettori del lavoro dalle forze dell’ordine
  nelle situazioni più a rischio.
 
 Non possiamo nasconderci che troppo diffusa
  è l’illegalità nel nostro Paese e questo rappresenta un vero
  freno allo sviluppo.
 
 Penso in primo luogo al Mezzogiorno, di cui
  ci si ricorda solo durante le campagne elettorali, e dove non può
  esserci rilancio senza un ripristino della legalità.
 
 Troppe imprese e troppi
  lavoratori sono costretti ad abbandonare il Sud a causa del degrado, della
  violenza, delle mille grandi e piccole illegalità spesso tollerate.
  Dov’è lo Stato?
 
 Il Sud è un interesse nazionale, e serve un impegno straordinario di maggioranza e opposizione
  sul quale possano ritrovarsi tutti gli attori pubblici
  e privati. Oggi questo impegno comune non c’è. Può esistere per
  l’Italia un futuro di crescita e di sviluppo che escluda
  metà del Paese? Nell’Italia del 2015 dovrà esserci posto per un
  Mezzogiorno risanato. Così come dovrà esserci posto per un
  turismo all’altezza delle nostre potenzialità.
 ° ° ° 
 Con l’obiettivo della crescita abbiamo
  proposto un patto per la produttività che coinvolga
  sindacati e sistema finanziario. In Italia la produttività per ora
  lavorata cresce meno di qualunque altro paese europeo, eccetto il Portogallo.
  Il PIL pro capite italiano è
  sensibilmente più basso della media dei paesi OCSE. Significa che nel
  confronto con gli altri paesi industrializzati ci stiamo impoverendo.
 
 Prima del 2015 dobbiamo aver risolto le
  questioni che incidono sulla produttività del Paese. Innanzitutto
  l’efficienza della pubblica amministrazione, che deve aprirsi alla
  concorrenza e al merito, premiando e pagando meglio chi lavora e chi è
  capace, ma facendo a meno dei cosiddetti fannulloni. Poi la dotazione infrastrutturale, la ridotta dimensione delle imprese, la
  capacità del sistema bancario di finanziare il rischio d’impresa, la
  qualità dei centri di produzione e trasmissione della conoscenza e gli
  investimenti in ricerca.
 
 Ma la produttività è una vera
  emergenza nel mondo del lavoro e non sembra che ci sia consapevolezza di
  ciò.
 
 Ci sono cose che si devono fare subito:
  ampliare gli spazi di flessibilità, ridurre il costo contributivo e
  fiscale degli straordinari, incentivare la contrattazione di secondo livello,
  legando gli aumenti salariali ai risultati aziendali e alla
  produttività. Ciò vale per il settore privato e, a maggior
  ragione, per il settore pubblico.
 
 Questi non sono strumenti per far arretrare
  il lavoro. Al contrario, sono strumenti per pagare di più e meglio i
  lavoratori e per rendere le imprese italiane più competitive.
 
 Eppure sono proposte ancora impopolari in
  qualche settore del sindacato e francamente non capiamo perché. Certamente
  non abbiamo l’impressione che siano impopolari tra i
  lavoratori, che dovrebbero poter beneficiare dei risultati raggiunti dalle
  imprese anche grazie ai loro sforzi e alle loro capacità.
 
 E’ questo un tipico esempio di cosa vuol
  dire essere europei non solo a parole. Noi imprenditori italiani non
  chiediamo trattamenti particolari o invenzioni stravaganti. Vogliamo seguire
  l’Europa.
 
 Penso ai contratti a termine, al lavoro
  interinale, agli orari di lavoro. Germania, Spagna,
  Gran Bretagna si sono mosse da tempo verso una maggiore e migliore
  efficienza.
 
 Le prime indicazioni della nuova presidenza
  francese vanno nella stessa direzione, e l’Austria ha recepito nella
  legislazione accordi tra le parti che consentono orari fino a 60 ore
  settimanali.
 
 E’ arrivato il momento di cambiare alcune
  regole del gioco nell’interesse delle imprese e dei lavoratori, per
  restituire alle relazioni industriali un ruolo vero nel governo dell’economia. Possiamo farlo ora che siamo in fase di ripresa e possiamo
  farlo di comune accordo con il sindacato, se si vuole evitare che ognuno trovi
  scorciatoie che non ci piacciono.
 
 Serve uno scatto in avanti, servono riforme innovative per non perdere terreno ed
  essere ricacciati indietro. L’Europa deve rappresentare ancora una volta il
  nostro punto di riferimento, anche nel dibattito sulle pensioni.
 
 Siamo il paese del vecchio continente con
  l’età media più alta e con l’età di pensionamento
  più bassa. In tutti i grandi paesi europei si va in pensione ormai a
  65 anni e c’è chi - come la Germania - ha
  già fissato un obiettivo più ambizioso. Non si tratta nemmeno
  di fare riforme difficili, ma solo di applicare le leggi esistenti, a partire
  dalla legge Dini, che
  è stata approvata con le firme di tutti i sindacati, e dalla riforma
  Maroni.
 
 E pensare che l’adeguamento del nostro
  sistema pensionistico è necessario perché i lavoratori possano avere
  in tarda età una pensione più consistente. O davvero si
  pensa che i giovani di domani siano disposti a pagare una pensione per ogni
  salario? Perché questo avverrà, se non interveniamo oggi.
 
 Non si tratta nemmeno di ridurre la spesa
  sociale, perché in Italia all’alta spesa per pensioni corrisponde una spesa insufficiente per gli aiuti a chi si trova in
  situazioni di forte disagio. Noi abbiamo bisogno di ammortizzatori sociali
  moderni, a tutela degli stessi lavoratori. Così potremo ampliare
  gli spazi di flessibilità contrattata. In questo campo gli altri
  corrono veloci e per noi non è sufficiente restare fermi e difendere
  l’esistente. La legge Biagi va completata, non
  certo ridotta.
 
 Su questi temi vorremmo confrontarci con un
  sindacato che guardi un po’ meno al passato e un po’ più al futuro, e
  a quello che succede nel mondo. Un sindacato che vuole essere classe
  dirigente non dice sempre di no, e sa valutare i veri interessi dei
  lavoratori di oggi e di domani.
 
 L’Europa deve essere il punto di riferimento
  anche per l’energia e le politiche ambientali, due questioni che impattano
  sempre di più sui costi delle imprese.
 
 Confindustria ha dedicato a energia ed
  ambiente grande attenzione e molto lavoro. Risultati anche importanti non
  sono mancati. Ma dobbiamo uscire da una logica punitiva e fare della politica
  ambientale una politica per l’innovazione, la
  crescita e la competitività. Con un’impostazione che non ci penalizzi
  verso i concorrenti europei e non scarichi tutti i costi solo sulle imprese,
  come sta purtroppo avvenendo.
 
 Non voglio qui ritornare su tutti i problemi
  con cui noi cittadini ci confrontiamo ogni giorno. Infrastrutture
  insufficienti: a cominciare dalla rete idrica e dai trasporti, compresa la TAV. E poi: costo della logistica, lentezza del sistema
  giudiziario, burocrazia asfissiante, scarsi investimenti in education e ricerca. Temi su cui siamo intervenuti
  in questi tre anni con proposte e progetti. E con lo stesso spirito
  costruttivo continueremo a lavorare.
 
 Le soluzioni sono note e a parole tutti
  avvertono l’esigenza delle riforme. Nei fatti però nessuna forza
  politica di governo e di opposizione sembra voler affrontare davvero i nodi
  che bloccano la crescita economica e sociale del Paese.
 ° ° ° 
 Una parte importante della classe politica
  italiana teme il cambiamento perché pensa che questo alienerà i voti
  di quanti dovranno rinunciare a vecchie sicurezze, a rendite o privilegi
  grandi e piccoli che si sono accumulati nel tempo. Così si tende
  sempre a galleggiare in attesa della consultazione
  elettorale successiva.
 
 In entrambi gli schieramenti sembra mancare
  la forza per dar vita ad un grande progetto paese che sappia
  coinvolgere gli italiani e i cui risultati non si vedranno in tempi brevi. E’ un compito che certamente spetta soprattutto a chi
  governa, senza alibi o giustificazioni: compresa la necessità, che
  condividiamo, di migliorare la produttività dei lavori parlamentari.
  Ma ci aspettiamo anche un’opposizione che esprima un
  progetto politico e culturale più che propaganda e denuncia.
 
 Fare oggi scelte coraggiose, i cui risultati
  si vedranno fra otto o dieci anni, significa avere senso dello Stato.
 
 La concorrenza in politica è
  altrettanto importante che in economia. E in politica la concorrenza
  significa sistema elettorale.
 
 Non sta a noi indicare quale sistema
  rappresenti la scelta migliore per il Paese. Da cittadini diciamo che occorre
  fare presto e che serve un sistema che consenta ai migliori di emergere e di
  governare, e dia agli elettori la possibilità di scegliere senza liste
  prefabbricate.
 
 Evitiamo poi di varare l’ennesima riforma
  concepita più per penalizzare l’altra parte politica che per il bene
  del Paese. Un approccio che, oltre ad essere sbagliato per i cittadini, ha
  dimostrato di non funzionare anche per la parte politica che lo propone.
 
 La riforma del sistema elettorale da sola
  non basta. Occorre accelerare sulle riforme istituzionali, affrontando i
  problemi di fondo dello Stato. A partire dall’aggiornamento della Carta Costituzionale,
  che mostra i segni del tempo e in molti casi non permette al Paese di
  adeguarsi alla modernità.
 
 Occorre integrare la Costituzione,
  rafforzare il Governo, completare il federalismo.
 
 Ci piacerebbe vedere una Carta
  Costituzionale che faccia propri i principi di
  economia di mercato e libera concorrenza, che sono oggi valori europei.
  Ripartiamo da quanto, senza essere ascoltato, Luigi Einaudi
  propose alla Costituente: “La legge non deve essa stessa istituire monopoli”.
 
 Per rafforzare il Governo, occorre estendere
  le prerogative del Presidente del Consiglio, dandogli un vero potere di
  nomina e revoca dei ministri. Aumentare i poteri del premier sull’esecutivo
  riduce l’immobilismo politico.
 
 Bisogna poi accorciare i tempi infiniti
  dell’azione legislativa, separando le competenze di Camera e Senato ed
  evitando quell’avanti e indietro di provvedimenti che è un fenomeno
  tutto italiano.
 
 Infine è indispensabile rimettere
  mano al nostro federalismo incompiuto.
 Occorre redistribuire
  competenze, risorse e funzioni tra centro e periferia perché questo
  federalismo, come temevamo, sta solo generando moltiplicazioni di spesa e di
  centri decisionali. Una realizzazione corretta dell’attuale Titolo V
  richiederebbe una forte riduzione degli apparati statali.
 
 Siamo da troppo tempo a metà del
  guado. Dobbiamo scegliere quale strada vogliamo prendere, avendo chiaro un
  solo vincolo: gli imprenditori italiani non sono disposti a pagare un euro in
  più di tasse!
 
 Abbiamo bisogno di più trasparenza,
  di responsabilità chiare. A questo deve servire il federalismo
  fiscale: responsabilizzare regioni e comuni finanziando i servizi con imposte
  locali. Pensiamo che ciò possa ingenerare comportamenti virtuosi,
  perché è comunque sempre più difficile tassare i propri
  cittadini elettori che spendere i soldi di qualcun altro.
 
 Occorre un vero “patto di stabilità”
  fra Stato e regioni sul modello di quello
  esistente tra l’Europa e gli stati membri. Il federalismo fiscale
  introdurrà la concorrenza fra regioni e le imprese potranno scegliere
  dove operare in funzione delle imposte e della qualità dei servizi.
 
 Sulla semplificazione istituzionale vorremmo qualche segnale preciso e semplice, per evitare
  la spiacevole sensazione che non accade mai nulla. Facciamo, ad esempio,
  una specie di business plan per l’abolizione delle province.
 
 Cominciamo finalmente a bloccare qualunque
  richiesta di istituirne di nuove e variamo un progetto condiviso per
  cancellare quelle esistenti entro qualche anno.
  Risparmieremmo molto denaro pubblico, semplificando la vita a cittadini e
  imprese.
 
 Nello stesso tempo potremmo stabilire che
  non si possono accettare comunità montane a
  pochi metri di altezza sul livello del mare. Parlo, per capirci, dell’altezza
  di un condominio.
 
 Pensiamo a rimettere a posto un’auto vecchia
  e pesante, altrimenti neanche il miglior pilota del mondo sarà in
  grado di portarla alla vittoria. La riforma delle istituzioni, della
  macchina amministrativa e della politica viene prima di tutto. L’Italia
  non può continuare ad essere il paese dei veti – dai rifiuti alla TAV,
  dai rigassificatori alle autostrade
  – ma deve diventare il paese delle decisioni!
 
 La politica è la prima azienda
  italiana con quasi 180 mila eletti. Il
  costo della rappresentanza politica nel suo complesso in Italia è pari
  a quello di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna messi insieme. Il solo
  sistema dei partiti costa al contribuente 200 milioni di euro l’anno, contro
  i 73 milioni della Francia. E mi riferisco solo ai
  contributi diretti. Stime recenti parlano di un costo complessivo della
  politica vicino ai 4 miliardi di euro. In quale altro paese i partiti
  politici sono così “pesanti” e così numerosi?
 Attenzione, qui non voglio fare alcuna
  generica accusa contro la politica e il professionismo politico. La garanzia
  di un compenso per svolgere attività politica è stata una
  conquista democratica e come tale va rispettata e difesa. Ma un conto
  è rispettare la politica e i suoi costi, altro è far finta di
  niente rispetto alla duplicazione delle strutture, degli incarichi, delle
  prebende in carico alla collettività, a tutta una serie di privilegi
  che molti politici si autoassegnano.
 
 Tutto questo fa emergere un drammatico
  problema di rapporto tra costi e risultati. Non ci spaventa dover sopportare
  il costo anche alto di qualcosa che funziona bene, ci imbarazza il costo
  altissimo di un sistema che ha perso efficacia e stenta a produrre risultati.
  E ormai non siamo più soli nella denuncia, si comincia finalmente a
  parlarne anche fra i rappresentanti della politica italiana.
 
 Certo, quelli che dovrebbero modificare
  questa situazione sono anche coloro che ne sono i primi beneficiari. Ma
  questo non ci esime dal ricordare a tutti che la coerenza dei comportamenti
  rappresenta la prima legittimazione morale di una classe dirigente.
 
 Occorre ritrovare il coraggio e la
  lungimiranza di scelte impegnative e di grandi sfide come fu la decisione per
  l’euro.
 
 Se non si interviene, il rischio è
  l’ordinaria amministrazione e che si affermi un’idea del “paese fai da te”,
  dove ognuno pensa che è meglio uno Stato assente rispetto ad uno Stato considerato invadente.
 
 E’ un rischio che dobbiamo fronteggiare e
  respingere, perché non esiste futuro che sia basato solo sulla
  capacità dei singoli di gettare il cuore oltre l’ostacolo.
 
 Non basta la buona volontà dei molti,
  moltissimi, che non si risparmiano sul proprio posto di lavoro. Occorre che
  ognuno faccia la sua parte, a partire dalla politica, dalle istituzioni, dal
  settore pubblico nel suo complesso.
 
 Non possiamo andare avanti con un Paese dove
  la metà è ai remi e spinge in avanti la barca e un’altra
  metà è a poppa, a godersi il sole o a litigare.
 
 Noi vogliamo un’Italia diversa, un Paese in
  grado di incoraggiare chi vuole crescere.
 
 Questo richiede di rompere grandi protezioni
  e piccole caste. Il 30% degli italiani non riesce a cambiare la propria
  condizione sociale in tutto l’arco della vita: troppo spesso chi nasce povero
  rimane povero. La situazione delle donne poi
  è ancora peggiore. Il tasso di occupazione femminile è molto
  inferiore alla media europea, anche a causa di servizi pubblici scadenti.
  Ciò pesa negativamente sulla produttività e sulla
  difficoltà di molte famiglie a far quadrare i propri bilanci.
 In Germania, Angela Merkel ha annunciato un
  piano per triplicare i posti negli asili nido entro il 2013. Queste sono
  sfide qualificanti per una vera politica della famiglia, che rappresenta il
  perno della nostra società! Quanti asili nido potremmo costruire se
  non dovessimo pagare lo stipendio di diciottomila consiglieri di amministrazione
  di società e enti pubblici?
 ° ° ° 
 La gente sogna di vivere in un paese
  migliore, più prospero, più giusto e più funzionante,
  proiettato nel futuro, ma ha paura del cambiamento e non sa neanche bene come
  chiamare questo sogno.
 
 La parola evocativa di questo sogno è
  “merito”, nel senso di premiare chi merita. Attraverso il merito è
  possibile ristabilire il nesso, oggi perduto, fra ciò che un individuo
  vale e fa e quello che riceve in cambio. Questa è la strada maestra
  che conduce ad una società più giusta.
 
 Troppo spesso in Italia si è parlato
  di competizione e meritocrazia con toni ideologici, che hanno finito per
  imprimere una curvatura minacciosa alla giusta rivendicazione del
  riconoscimento del merito.
 
 Ed invece il riconoscimento del merito
  è la via attraverso la quale i migliori consentiranno al Paese di
  accelerare la crescita, trascinando anche coloro che non riuscissero ad
  emergere. È più sociale premiare il merito che portare tutti
  alla velocità del più lento.
 
 La meritocrazia è lo strumento
  più potente a disposizione di ognuno per avanzare con la forza del
  proprio talento. E’ dunque uno strumento di maggiore giustizia sociale contro
  i privilegi corporativi.
 
 La meritocrazia deve aiutarci a rendere
  più efficienti i servizi pubblici. Abbiamo bisogno di ospedali pensati
  in funzione degli ammalati, di una pubblica amministrazione che semplifichi
  la vita dei cittadini e di una scuola organizzata per chi deve studiare.
 
 Una scuola e un’università che
  trasmettano la cultura dell’innovazione e il gusto di intraprendere. Dobbiamo
  avvicinare reciprocamente la scuola e l’impresa, colmando il divario tra
  ciò che si insegna e ciò che serve nel mondo del lavoro.
 
 Ci troviamo di fronte a tre emergenze: i
  ragazzi non si iscrivono più agli istituti tecnici, i giovani che
  scelgono le lauree scientifiche sono la metà rispetto ai grandi paesi
  europei e i dirigenti scolastici non possono scegliere i docenti.
 
 In particolare, gli istituti tecnici insieme
  all’apprendistato devono contribuire a diffondere la figura di un operaio
  sempre più moderno, libero dalla fatica fisica, parte attiva del
  processo innovativo delle aziende. Sicurezza, conoscenza e salario equo
  sono pilastri sui quali costruire un nuovo modello d’impresa che si va
  affermando in tutto il mondo e che pone le basi per un rinnovato orgoglio
  professionale dei lavoratori dell’industria.
 
 Le università sono il luogo dove
  crescono gli innovatori del futuro: le idee e le conoscenze rappresentano le
  vere risorse, di cui siamo scarsi, per l'avvento di una società aperta
  e mobile.
 
 E’ con questa cultura, con una vera ansia di
  cambiamento, che si costruiscono percorsi di sviluppo e benessere. Lo ha
  fatto il Regno Unito, lo sta facendo la Germania,
  comincia a muoversi la Francia.
 ° ° ° 
 Da quindici anni l’Italia è
  prigioniera di una transizione che non accenna a finire. E dai primi anni
  Novanta si dibatte alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi politica
  nella quale è precipitata.
 
 La sensazione di sconfitta, l’atmosfera di
  “reducismo”, si coglie chiaramente guardando ai dibattiti che appassionano il
  mondo politico italiano.
 
 Quante volte abbiamo visto i protagonisti
  della politica accapigliarsi sui fantasmi di un tempo ormai lontano? Quasi
  che l’Italia fosse condannata a vivere eternamente nelle diatribe di un
  passato che non passa, e di un presente scandito da troppi anniversari. Come se questo Paese non riuscisse a sintonizzarsi una volta
  per tutte sugli scenari futuri, sui giovani, sulle questioni totalmente nuove
  su cui s’interrogano e decidono i grandi paesi.
 
 Guardiamo ad esempio all’antica divisione
  tra destra e sinistra. Siamo davvero sicuri che i confini tra i due campi
  corrano lungo le linee tradizionali con le quali in Italia ci ostiniamo a
  rappresentarle? Io sono convinto che il confine passi ora lungo crinali molto
  diversi dal passato, seguendo linee spesso trasversali rispetto agli
  schieramenti politici.
 
 Battersi per nuove infrastrutture o per
  più liberalizzazioni è di destra o di sinistra? Una scuola
  efficiente e basata sul merito è di destra o di sinistra? Sconfiggere
  la criminalità, se necessario anche con leggi speciali, è di
  destra o di sinistra? Permettere a chi merita di emergere nella
  società è di destra o di sinistra?
 
 Sappiamo bene come in entrambi i campi della
  politica italiana vi siano sostenitori e avversari
  del cambiamento e della cultura di mercato.
 
 Sono divisioni nuove e trasversali rispetto
  ai tradizionali confini delle famiglie politiche italiane. Abbiamo bisogno di
  una politica forte nelle idee e capace di visione per il nostro futuro.
 
 La politica è forte solo quando sono forti le sue idee, le soluzioni che
  propone, gli scenari che offre al Paese e sui quali mobilita le passioni.
 
 L’attuale debolezza della politica e la
  litigiosità dei partiti comportano seri rischi. Perché l’Italia
  è un paese che ha tradizionalmente covato diffidenza verso le
  istituzioni e la politica, e dove il cinismo rischia sempre di trasformarsi
  in un segno distintivo del nostro spirito pubblico. Se la nostalgia non
  è una soluzione, tanto meno può esserlo il cinismo
  dell’antipolitica.
 
 Quando la politica s’indebolisce si rafforza
  il lato puramente amministrativo della gestione della cosa pubblica, a tutti
  i livelli della nostra vita sociale ed economica.
 
 Lo vediamo bene. In tempi di politica
  debole, prevale l’occupazione della società da parte dei partiti e la
  statalizzazione avanza senza controllo attraverso canali subdoli e non
  dichiarati.
 
 Lo vediamo a livello nazionale, con il
  ritorno di un neointerventismo pubblico che nasconde la convinzione che il
  peggiore gestore pubblico sia preferibile al migliore imprenditore privato.
 
 Lo vediamo sul territorio, dove abbiamo
  assistito ad una assoluta concordia bipartisan sull’uso privato delle risorse pubbliche.
 
 Occorre bonificare la crescente foresta di
  società pubbliche o semipubbliche generate dagli amministratori locali
  per creare poltrone e gestire affari.
 
 In questo scenario, avevamo salutato con
  vero interesse il disegno di legge del ministro Lanzillotta
  sui servizi pubblici locali, perché poteva intaccare quel neostatalismo
  municipale che abbiamo per primi denunciato molto tempo fa. Il compromesso
  che è stato raggiunto rischia di essere insufficiente e non capiamo
  perché sia stata accettata una revisione al ribasso.
 
 Bisogna procedere con più
  determinazione e più in fretta.
 
 Serve una forte assunzione di
  responsabilità politica. Si tratta di una questione centrale per
  affrontare la modernizzazione del Paese. E auspichiamo un vero impegno da
  parte di tutti coloro che si definiscono riformisti nella maggioranza e
  nell’opposizione.
 ° ° °
 
 L’Italia é un paese che condivide valori e
  convinzioni ben più avanzate di quanto non emerga da contrapposizioni
  ormai antiche. Il nostro Paese ha
  già metabolizzato posizioni su cui la politica continua a dividersi.
 
 Siamo davvero sicuri, ad esempio, che
  l’Italia, quella vera, sia divisa sul proprio ruolo nel mondo? Siamo davvero
  sicuri che la stragrande maggioranza di questo Paese non abbia già
  pienamente interiorizzato l’appartenenza all’occidente, la propria
  identità di europei, la naturale vicinanza agli Stati Uniti?
 
 Anche su questo credo che l’Italia reale sia
  migliore di quanto non pensi una parte della politica. Sono convinto che gli
  italiani sappiano già dov’è la verità, anche in campo
  internazionale, e siano disponibili ad assumersi le proprie
  responsabilità nelle alleanze di cui fanno parte.
 
 Oppure, pensiamo al dibattito infinito sugli
  anni di piombo e sul terrorismo, un tema che più di ogni altro
  esigerebbe misura e pudore per evitare di offendere la memoria di chi ha
  perso la vita e di chi ancora soffre per la perdita dei propri famigliari.
 
 Ma vi pare possibile che ex-terroristi di
  destra e di sinistra, pentiti e non pentiti,
  compaiano regolarmente sui giornali, in televisione, nei dibattiti, spesso
  nella veste di poco credibili educatori, pensatori, opinionisti? Registriamo
  un imbarazzante fenomeno di rimozione, se non peggio, di quella tragica epoca
  e delle sue vittime.
 
 Il nostro Paese potrà giocare un
  ruolo di primo piano nel mondo solo se tornerà a sentirsi una
  comunità nazionale. Una
  comunità che torna a condividere un’etica e non solo uno spazio
  geografico. La transizione infinita, la politica debole, l’allentarsi dei
  vincoli istituzionali hanno provocato conseguenze molto pesanti anche sul
  piano etico e morale.
 
 Una comunità può accettare il cambiamento quando è consapevole di se stessa,
  quando riesce a definire le relazioni non solo tra i singoli individui ma
  soprattutto tra gli individui e la società.
 
 Nessuno di noi può farsi valere in
  completa solitudine. E la libertà di ciascuno di noi, compresa
  quella di affermarsi con il proprio lavoro, ha un significato solo se viene garantita a tutti, in un contesto per l’appunto
  sociale e comunitario. La libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale.
 
 Dobbiamo avere il coraggio di tornare a
  parlare anche di doveri e responsabilità. Perché non possiamo
  sopravvivere in una sorta di vuoto morale, incapaci di comprendere e di
  insegnare ai nostri figli il valore di ciò che è giusto e di
  ciò che è sbagliato.
 
 Dobbiamo ritrovare il senso della nostra
  appartenenza civile ad una comunità di donne e uomini liberi. Non una
  comunità etnica, non una comunità di
  sangue, ma una grande nazione aperta come riesce ad essere l’Italia.
 
 Una nazione che riconosce negli immigrati
  una risorsa civile ed economica, ma che dagli immigrati deve saper pretendere
  lo stesso rispetto delle regole che chiede a tutti i suoi cittadini.
  Responsabilità in cambio di diritti, sicurezza in cambio
  di accoglienza. E il coraggio civile di chiamare le cose con il loro nome:
  siamo gli unici in Europa a consentire nelle nostre città il
  vergognoso sfruttamento di minori costretti all’accattonaggio da adulti senza
  scrupoli.
 ° ° ° Signore e Signori,
 
 abbiamo il dovere di costruire oggi l’Italia
  di domani. Di un domani che non dobbiamo spostare all’infinito, tra mezzo
  secolo. Ma nel 2015, tra meno di dieci anni. Quando si vedranno i risultati
  delle scelte e delle non scelte di oggi. Vogliamo
  un Paese capace di ritrovarsi attorno al senso di una missione condivisa.
 
 Non dobbiamo avere paura e non dobbiamo più giocare sulla paura della gente. Le
  riforme necessarie non sono a danno di qualcuno, ma a beneficio di tutti. Dobbiamo
  ricostruire, tutti insieme, un clima di fiducia nel
  futuro. Non dobbiamo temere di essere coraggiosi e
  responsabili, pragmatici e visionari.
 
 L’Italia non è priva di risorse e gli
  italiani lo hanno dimostrato rovesciando le logiche del declino in questi
  anni. Ho percorso in lungo ed in largo questo Paese ed ovunque ho trovato una
  voglia di riscatto, una capacità di intraprendere. Ho visto cittadini
  ed amministratori capaci di visione e pronti ad assumersi le responsabilità
  del cambiamento. Su di essi dobbiamo fondare il
  nostro futuro. E’ ad essi che si rivolgono i nostri
  cuori e le nostre aspettative.
 
 E’ forte nell’opinione pubblica l’esigenza
  di un cambiamento che faccia sentire protagonista l’Italia reale. Una società
  civile ricca di talenti e le stanze della politica non possono continuare ad
  essere così distanti!
 
 Serve capacità di leadership, perché mai come oggi la qualità di una classe dirigente
  si misura sulla sua capacità di governare il cambiamento. Ognuno deve
  fare bene il proprio mestiere ed essere giudicato non solo per quello che fa ma per come lo fa.
 
 Noi imprenditori, che viviamo nei mercati,
  lo sappiamo bene, perché è stata questa la chiave della nuova
  vitalità delle nostre imprese. Capacità di leadership vuol
  dire soprattutto riconoscere che la cultura del rischio è un valore.
 
 Un grande leader europeo, Tony Blair, ha detto “la politica è l’arte del possibile, ma ogni tanto nella vita bisogna dare una
  chance all’impossibile”.
 
 Cambiare l’Italia, modernizzarla, ridarle
  vitalità e gusto per la competizione è una missione difficile e
  rischiosa. Potrebbe apparire persino impossibile. Ma è una sfida che
  come classe dirigente dobbiamo affrontare insieme, se vogliamo costruire per
  l’Italia un futuro all’altezza delle sue risorse, dei suoi
  talenti, delle sue ambizioni.
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