| HOME    PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli     Documento d’interesse   Inserito l’11-6-2007 | |||
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| La Repubblica 11-6-2007 LINEA DI CONFINE Di  MARIO
  PIRANI L'Aspen Institute, uscendo dalle sue
  abituali tematiche, ha piacevolmente sorpreso i soci organizzando una breve
  ma intensa tavola rotonda dedicata a "La lingua degli italiani:
  un'identità ricusata". Le relazioni introduttive erano affidate
  al presidente dell'Accademia della Crusca, Francesco Sabatini,
  e a Vittorio Sermonti, finissimo letterato
  ma soprattutto noto per le letture pubbliche della Divina Commedia.
  Non tenterò neppure un riassunto del dibattito. Mi limiterò a
  ricordare che l'interrogativo prevalente è ruotato attorno alla
  ricerca delle ragioni che hanno portato gli italiani al disinteresse per la
  propria lingua, pur tuttavia la più antica del Continente e che,
  durante il Rinascimento, aveva animato la cultura europea. Oggi, mentre il
  discorso pubblico, politicamente corretto, propone una lingua insignificante,
  insieme banale e incomprensibile, quello corrente, che i parlanti usano,
  è largamente influenzato dal linguaggio televisivo, "ridicolo,
  orrendo, miserabile e scadentissimo", secondo la definizione di Sermonti. Così si sta sempre più delineando
  l'idea che fra l'idioma della comunicazione mondiale e la freschezza
  espressiva delle parlate locali, insomma fra l'inglese e i dialetti,
  l'italiano debba rassegnarsi al ruolo burocratico di "lingua delle
  prefetture". Peraltro a preoccupare non è tanto la sguaiataggine
  delle contaminazioni e mescolanze inter dialettali,
  dovute alla sgangherata diffusione di una lingua nazionale che nel 1861 era
  parlata dal 2,5% della popolazione del Regno, mentre oggi raggiunge il 95%,
  quanto la corruzione dei significati e del senso. Ben a proposito è
  stato ricordato, sempre da Sermonti, un aforisma di
  Auden: "Quando la lingua si corrompe, la gente
  perde fiducia in quello che sente, e questo genera violenza".
  Naturalmente nella tavola rotonda sono risuonate molte critiche alla scuola
  sulla scia dell'introduzione del prof. Sabatini,
  che le imputa sia di non aver trasmesso il valore di una lingua che è
  stata espressione di una grande civiltà, sia di non svolgere un ruolo
  incisivo per la sua diffusione. Accuse che investendo la istruzione
  pubblica dall'unità d'Italia ad oggi risultano, a mio avviso, sfuocate
  rispetto alle scansioni storico-politiche di una involuzione devastante della
  scuola, in primo luogo per lo studio dell'italiano. Se, infatti, la
  scolarizzazione di massa ha costituito il frutto di un rinnovamento
  riformistico indispensabile allo sviluppo del Paese e degli individui, la
  pulsione ideologica egualitaristica e il
  pedagogismo che ne ha formalizzato l'attuazione nell'ultimo trentennio, hanno
  sospinto volutamente verso il basso tutto l'impianto scolastico, impedito la
  formazione qualificata di una classe dirigente, aperto le porte alla
  faciloneria e all'indisciplina quando non al bullismo, annullato il senso del
  limite e della gerarchia didattica. L'alunno, diventato cliente
  dell'azienda-scuola, è liberato dall'incubo settimanale del tema,
  delle poesie a memoria, della lettura ad alta voce. Può ignorare senza
  vergogna, al contrario di un tempo, l'ortografia. La morfologia e la sintassi
  appaiono un optional. La storpiatura della lingua è sentita da molti
  come un gesto di legittima e tollerata rivolta. Se non si coglie l'origine di
  questa frattura educativa, politicamente voluta e perseguita, sotto le
  spoglie di un pedagogismo ideologizzato e confuso,
  che ha finito paradossalmente per accentuare le differenze di classe (vedi i
  master all'estero dei figli dei ricchi), ebbene le accuse generiche alla
  scuola - e, cioè, in definitiva. agli insegnanti,
  già di per sé, vilipesi e avviliti - suona abbastanza ingiusta. Faccio
  un esempio (ma potrei pubblicare una pagina di
  aneddotica scolastica contemporanea): un autorevole cattedratico di Storia
  del Diritto italiano alla Sapienza mi ha recentemente confessato di aver
  dovuto rinunciare a far concludere un corso sulla Costituzione con un
  succinto saggio scritto, per lo scoramento di fronte a una quarantina di
  testi dove, ad eccezione di due o tre eccellenti, in ogni pagina si
  riscontravano clamorosi errori d'ortografia, ripetuti più volte con la
  prevalenza assoluta del verbo "penzare"
  con la zeta e dell'aggettivo "leggislativo",
  regolarmente con la doppia g. Per non parlare dell'assoluta assenza di
  qualsivoglia ragionamento complesso che comprovasse la consapevolezza
  dell'assunto. Questo il punto d'arrivo di giovani che avevano superato, col
  solito bagaglio di debiti formativi, crediti, sei rossi e quant'altro
  l'intero iter della scuola dell'obbligo, delle superiori e della licenza
  liceale. Di chi la colpa? Almeno ai tempi di Stalin un celebre dibattito
  sulla linguistica in Urss si concluse con alcune
  condanne a morte. |