| Da effedieffe.com 12-7-2007   LA RIFORMA CHE
  NON VOGLIONO FARE di Maurizio
  Blondet   Il
  dibattito sulla finanziaria di Prodi, ancorchè «controllato»
  perché non sbandasse in argomenti-tabù, ha messo in luce almeno
  questo: che è una finanziaria di «più tasse e nessuna
  riforma», fatta su misura delle oligarchie parassitarie, i miliardari di
  Stato che si identificano con la «sinistra».Beninteso, per Montezemolo come per D’Alema, per Rutelli
  come per Capezzone, le «riforme» necessarie
  sarebbero le liberalizzazioni degli ordini professionali, i tagli alle
  pensioni, alla sanità, al costo e alla sicurezza alla sicurezza del
  lavoro («flessibilità»), ovviamente per renderci «più
  competitivi»: insomma colpire ancora di più i contribuenti che
  già sono tartassati, precari e in via di impoverimento.
 Di questo si parla quando si parla di «tagli alla
  spesa pubblica».
 Ma almeno, l’opinione pubblica attenta ha capito che i «tagli alla
  spesa pubblica» necessari ed utili sono proprio ciò che nessuno di
  lorsignori ha proposto: gli scandalosi sprechi, i
  costosissimi privilegi e gli emolumenti dei Sardanapali
  pubblici.
 Qualcosa è venuto alla luce, e consente di identificare dove bisogna «riformare».
 Si è scoperto, ad esempio, l’immenso spreco provocato dalle «partecipate»,
  ossia dagli enti un tempo pubblici o municipali ora pseudo-privatizzati, dall’ENI all’ENEL alla Centrale del
  Latte di un qualunque Comune.
 Queste aziende ex di Stato sono state dichiarate «private», il che
  significa che sono ora soggette al diritto privato e non al controllo
  pubblico.
 Ma la loro privatizzazione è meramente formale, legalistica.
 Restano aziende pubbliche per almeno due motivi: poiché l’azionista di
  maggioranza di queste presunte società per azioni resta il Tesoro, o
  il Comune o la Regione, a pagare le perdite sono sempre i contribuenti,
  attraverso le casse pubbliche.
 Queste SpA presunte, fornendo un servizio pubblico,
  non possono esser lasciate.
 Non si possono lasciare senza luce, acqua e gas i cittadini delle ex-municipali, ora «partecipate».
 Queste cosiddette imprese, inoltre, continuano ad operare più o meno in regime di monopolio: dunque sono al di fuori di
  ogni «mercato», su di loro non agisce la mano invisibile di Adam Smith, e non devono occuparsi di alcuna «competitività».
 A che cosa è servito dunque «privatizzarle»?
 Si è capito,
  finalmente.Anzitutto, a sottrarre il loro operato al sindacato degli organi pubblici di
  controllo.
 Mentre aziende pubbliche devono in qualche modo rispondere di come operano o
  trattano i patrimoni (pubblici) a loro conferiti, o dei loro sprechi, alla
  corte dei Conti e alla magistratura ordinaria, non è così per
  le società per azioni: possono fare quello che vogliono, nei limiti
  del codice penale, purchè ci sia il voto
  della maggioranza del consiglio d’amministrazione.
 Così ad esempio alla Regione Lombardia Formigoni,
  il grande privatizzatore ed epico cantore
  dell’efficienza e del mercato, sta conferendo tutti gli immobili della
  Regione ad una SpA chiamata «Lombardia
  infrastrutture»: con questo semplice inghippo, tutta la roba nostra, dei
  cittadini, da noi pagata mille volte come contribuenti, può essere
  alienata senza concorso pubblico.
 La nuova SpA può vendere a chi vuole, e al
  prezzo che vuole, senza aste di nessun genere, cose come gli ospedali
  lombardi, le Ferrovie Nord, gli stadi, una immensa
  ricchezza di edifici pubblici, terreni e case popolari.
 Ma nelle vere SpA, il consiglio d’amministrazione
  rappresenta (almeno in teoria) dei veri capitalisti privati che nell’impresa
  hanno messo i loro soldi e che sono indotti alla prudenza dalla paura di
  perderli e di fallire.
 Nelle aziende pubbliche neo-privatizzate, i consiglieri sono, tipicamente,
  deputati trombati
 a cui qualche partito ha trovato un posto ben
  remunerato, o amici e clientes dei partiti, da
  compensare.
 Non hanno alcun interesse alla buona amministrazione, né alcuna
  capacità imprenditoriale.
 Non devono temere di perdere il loro capitale, perché comunque vada l’azienda
  partecipata, a pagare non saranno loro, ma i soliti contribuenti.
 E abbiamo scoperto che queste aziende «pubbliche di fatto»,
  ma giuridicamente private, sono state affollate di consiglieri di questo
  genere.
 La RAI ne ha nove.
 Alitalia e Ferrovie cinque (si immagina che non
  dormiranno la notte, visto lo stato delle loro aziende), l’ENI 12, l’ENEL 9.
 Persino il Poligrafico ha dieci consiglieri: senza alcun motivo confessabile.
 Nelle vere aziende private
  che operano sul mercato,
  i consigli d’amministrazione servono a sancire scelte rischiose,
  imprenditoriali; ma nessuna scelta imprenditoriale
  tocca al Poligrafico, che opera come monopolio per un solo cliente, lo Stato,
  e fa la stessa produzione da secoli.Il solo senso di un consiglio d’amministrazione in un tale ente è
  regalare stipendi di sogno a degli «amici».
 Tutti ben pagati da noi.
 Appena Cimoli è arrivato all’Alitalia non
  più come «boiardo di Stato» ma
  come «amministratore delegato», ossia travestito da super-manager, la
  prima cosa che ha fatto, su sua richiesta, il consiglio d’amministrazione dei
  parassiti pubblici mascherati da azionisti è stata: raddoppiargli lo
  stipendio, attualmente sui 2,8 milioni di euro l’anno.
 Il personaggio guadagna (più precisamente, percepisce senza
  guadagnarlo) 179 mila euro
 al mese, il triplo di quel che prende il suo
  pari-grado alla British Airways.
 Ovviamente, né i risultati del supermanager presunto, né tantomeno
  i profitti (che sono solo perdite) di Alitalia,
  giustificano un tale emolumento.
 Ma, si sa, l’Alitalia è ora privata; solo i
  soldi che spreca sono nostri, cioè pubblici.
 Giuseppe D’Angiolino, presidente ANAS per anni 9 fino al 2001 e boiardo di Stato, non sarà stato un’aquila, ma
  prendeva «solo» 350 milioni di lire l’anno per un’azienda di 6 mila
  dipendenti.
 Quello che Lunardi ha messo al suo posto riceve il
  quadruplo.
 I consiglieri dell’ANAS da soli prendono 40 mila euro l’anno (si riuniscono,
  se va bene, una volta a settimana) ma altri 140 mila per certe «deleghe»
  che sono inghippi clientelari: c’è il consigliere con la delega al
  personale (a che serve, se c’è un direttore del personale? A
  distribuire posti ai clientes), quello con la
  delega al Mezzogiorno, cioè a mettere le mani in pasta con le imprese
  edili di mafia e camorra… e sono anche superpagati
  per questo.
 I consiglieri, da controllori che dovrebbero essere, diventano operatori:
  incontrollati, perché sono loro che si dovrebbero auto-controllare.
 Si aggiungano le municipalizzate ora «partecipate»
  fra pubblico e privati: sono circa 800, e ciascuna ha, ipotizza Tiziano Treu, una decina di consiglieri: sono almeno 8 mila
  parassiti con emolumenti, a stare bassi, fra i 50 e i 150 mila euro l’anno
  ciascuno.
 Aziende che prima funzionavano sotto la guida di un dirigente, ora «devono»
  avere un consiglio d’amministrazione…
 Paolo Scaroni, aministratore
  delegato dell’ENEL, nominato da Berlusconi, ha guadagnato altrettanto, e si
  è portato via una liquidazione di quasi 6 milioni di euro.
 Scaroni era stato «boiardo
  di Stato» e come tale era stato beccato da Mani Pulite per tangenti ai
  partiti; ora non corre più nemmeno questo rischio.
 Tralasciamo per il momento
  le partecipate
  regionali, allungherebbero troppo il discorso.Ma quel che abbiamo detto spiega perché in Italia paghiamo le bollette, i
  ticket e le tariffe autostradali più care, mentre i costi pubblici
  sono in aumento spaventoso e le aziende ex-pubbliche
  continuano a fare perdite terrificanti, il contrario dell’efficienza che ci
  era stata promessa dalle privatizzazioni, dalle «dosi di privato»
  iniettate nel settore pubblico.
 Tutto ciò che è servizio pubblico ci costa di più
  perchè dobbiamo pagare i 179 mila euro mensili a Cimoli, e le
  enormità di paghe a migliaia di inutili «consiglieri
  d’amministrazione». (1)
 Si capisce che questa è la palla al piede dell’Italia, la causa
  della sua perduta competitività, il peso mortale della sua burocrazia.
 Si capisce anche qual è stato l’effetto finale delle «partecipazioni»
  di questo tipo: la distruzione, nei dirigenti, del senso stesso di «bene
  pubblico».
 Sono ircocervi, metà
  privati quando fa comodo a loro, ma metà pubblici quando si
  tratta di coprire le falle che hanno provocato.
 Si capisce anche che qui, più che nella liberalizzazione dei taxisti e dei panettieri, o nella mitica persecuzione
  dell’evasione fiscale dei dentisti, si possono ottenere risparmi veri, tagli
  della spesa pubblica «utili», ossia che non riducono i servizi resi ai
  cittadini ed agli utenti.
 E si capisce che sarebbe facile, qui la «riforma»: basta ritornare al
  sistema pubblico per tutto ciò che dà servizi pubblici. Perché
  la privatizzazione (pseudo) non ha nulla a che fare
  con la devoluzione, e nemmeno con la democrazia. Aziende pubbliche erano autoritarie, ma soggette a qualche genere di controllo e
  in teoria almeno, possono essere rese più trasparenti.
 Le aziende «partecipate» restano autoritarie, ma ora opache e
  non-responsabili, in mano ad oligarchie che si sottraggono ad ogni controllo
  ed esame.
 Sono «private» nel senso che se ne infischiano del bene pubblico (res publica), ma
  non portano nessuna efficienza né vantaggio al consumatore o utente.
 Dunque, si deve creare uno statuto giuridico diverso e nuovo per queste
  aziende.
 Si deve ri-centralizzare ogni servizio pubblico: la
  regionalizzazione, proclamata per portare «il
  potere vicino al cittadino», è solo un enorme colabrodo con più
  buchi di prima.
 E poi, che senso ha chiamare Servizio Sanitario Nazionale un’entità
  che invece è gestita dalle regioni, ciascuna a suo modo, con ineguali
  servizi e costi enormemente diversi?
 Perché infinite municipalizzate per fornire elettricità e gas,
  comprati da fornitori unici e colossali, come l’Arabia, l’Algeria e la
  Russia, che sono pure stati sovrani?
 Centralizzare è d’obbligo, per risparmiare e rendere più
  efficiente il servizio, e perché i manager capaci non sono poi tanti.
 Ma questa riforma «facile» è anche quella che non si
  farà.L’Ulivo non la farà perché è appunto il partito dei parassiti
  miliardari di stato e delle burocrazie inadempienti. Ma anche il Polo si
  è ben guardato dal fare una riforma di questo spreco vergognoso:
  è troppo comodo disporre di posti inutili ma ben pagati per amici e
  clienti. (2)
 Chi può farlo?
 Strano a dirsi nella presunta «culla del diritto» (dove è vero
  il diritto non è mai uscitod alla culla),
  nessun giurista, nessuna Corte costituzionale, ha avvertito la perversione
  legale, la vera patologia del diritto che è costituita da «partecipate»
  che sono «private» per statuto, ma le cui perdite vengono pagate da
  contribuenti.
 Il mostro giuridico dura, perché serve.
 La Banca d’Italia non fiata: il grande responsabile e promotore di queste
  privatizzazioni false e mostruose è stato Mario Draghi (3), che
  può citare in suo appoggio anche Monti, Ciampi,
  Padoa Schioppa…tutta gente che il «mercato» non sa nemmeno cos’è,
  e che ha trovato il modo di perpetuare il suo potere attraverso questo nuovo
  mostro giuridico.
 Nessuno vorrà farlo.
 Nessuna burocrazia inutile, nella storia, si è riformata da sé.
 Nessuna mostruosità è mai stata spontaneamente risanata, anche
  quando la sua natura suicida era chiara a tutti: così come la legge
  sciagurata che diede al Parlamento polacco l’obbligo di decidere
  all’unanimità, benchè palesemente
  paralizzante e patologico, non fu mai sanato dai parlamentari.
 Il motivo è semplice: ciascuno di loro aveva un diritto di veto, un
  potere demente a cui non voleva rinunziare.
 La «guarigione» venne solo dall’esterno: con spartizioni della Polonia fra le potenze vicine, perdite di territorio
  e di indipendenza spaventevoli…
 Così accadrà all’Italia.
 Stiamo davvero andando verso la situazione dell’Argentina, a forza di tasse
  per pagare i parassiti e i loro sprechi.
 Il nostro destino è già stato descritto: «Una spirale
  discendente a circolo vizioso, dove la debolezza della crescita economica
  provoca introiti fiscali in diminuzione nonostante ogni inasprimento della torchia; conseguente rialzo dei tassi a lungo termine sul
  debito pubblico, a cui seguiranno tasse ancora più feroci, che
  provocheranno un ulteriore rallentamento dell’economia e un deficit pubblico
  crescente dovuto a introiti fiscali ancora diminuiti».
 La spirale argentina. (4)
 Nessuno ci salverà, perché lorsignori
  che sono al potere saranno pronti ad accusare chi proponesse le necessarie
  evidenti riforme di «ritorno al centralismo», di socialismo (tale
  è la pretesa che la cosa pubblica resti pubblica
  e non sia regalata ai privati), e di sospette nostalgie autoritarie
  antidemocratiche.
 Ma la «democrazia» su cui loro presiedono e da cui ricavano le loro
  ricchezze è quella così definita da Gore Vidal:
  «il sistema che dà ai ricchi la licenza di rubare ai poveri,
  facendo loro credere che hanno votato per questo risultato».
 La sola soluzione - come sempre quando si tratta di sbattere fuori una grossa
  casta di parassiti costosi - si chiama rivoluzione.
 Ma chi la vuole fare?
 
 Maurizio Blondet
 
 
 
  
 Note1) Ci riferiamo qui ampiamente all’ottima inchiesta dal
  titolo «Cattivi Consigli», Di Giovanna Boursier,
  andata in onda in 22 ottobre 2006 su Rai3.
 2) Per strapagare i privilegiati parassitari, gli enti locali (anche
  di cosiddetta sinistra) ricorrono sempre di più a «risparmi» sui
  lavoratori meno privilegiati: il lavoro «flessibile» a termine e
  precario in Comuni e Regioni supera il 13,5 % della
  forza lavoro, ben più che nelle imprese con meno di venti addetti o
  nell’artigianato (7,7) sempre accusati di sfruttare lavoro nero; e più
  che nell’economia privata in generale (11,2 %). Dunque anche tra i dipendenti
  pubblici si allarga una frattura sociale atrocemente iniqua: quelli con
  salari modesti non hanno più la sicurezza del posto pubblico fisso,
  mentre i privilegiati hanno paghe da 170-300 mila euro l’anno. E quelli
  assunti da vecchia data, oltre al posto fisso che viene
  negato ai giovani precari, godono di aumenti delle retribuzioni che superano
  di 10 punti l’inflazione. Mentre i salari privati, come noto, ristagnano. In
  cima alla classifica delle super-paghe per i suoi addetti a posto fisso
  è la Campania di Bassolino, così ben
  amministrata.
 3) Fu lui che, da funzionario del Tesoro, salì
  sul regale yacht Britannia una sera fatale, per
  raccomandare la privatizzazione, ossia la svendita dei patrimoni pubblici, ad
  agenti stranieri.
 4) Martin Wolf, «Fiscal
  tightening and reform can rescue Italy’s economy», Financial
  Times, 25 ottobre 2006. L’autore, membro del gruppo Bilderberg,
  nota che «il costo del lavoro unitario in Italia è salito del 33 % dal 2000»: ma la sua spiegazione è che «la
  produttività del lavoratore è ristagnata». Dunque propone di
  abbassare i salari e mettere alla frusta i lavoratori privati italiani,
  perché lavorino di più, come in Germania. Nulla dice sui parassiti
  fannulloni pubblici, il nostro vero problema.
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