| HOME    PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli     Documento d’interesse   Inserito il 10-7-2007 | |||
| 
 | |||
| Il Corriere della Sera 10-7-2007 Gli Usa preparano il
  ritorno in Somalia A 13 anni dalla
  fuga istruttori americani addestreranno le truppe Il 23 giugno scorso
  otto agenti Cia hanno ispezionato la base di Balidogle
  in vista del ritorno, a settembre, di militari americani Di Massimo A. Alberizzi NAIROBI – Nonostante
  la stagione delle piogge, faceva molto caldo il 23 giugno a Balidogle, a un centinaio di chilometri da Mogadiscio,
  quando gli otto agenti della CIA, rigorosamente in borghese, sono scesi dal
  loro piccolo aereo appena arrivato da Nairobi. Forse per questo, quando hanno
  visitato a fianco della pista la zona delle casematte semidiroccate,
  da ristrutturare e risistemare per ospitare istruttori dell’esercito
  americano, hanno pensato bene che una delle dotazioni indispensabili,
  sarà l’impianto di aria condizionata. Una
  necessità non solo per il personale, ma anche per i sofisticati
  macchinari, computer e centri d’ascolto, che la base dovrà ospitare.
  Dopo 13 anni (a parte qualche sporadica incursione ad
  hoc) gli americani hanno deciso di ritornare in Somalia e di piazzare una
  base. Ufficialmente per rafforzare “la guerra al terrorismo”.  Balidogle è un vecchio campo militare costruito dai
  sovietici ai tempi di Mohammed Siad Barre, passato
  poi sotto la supervisione americana quando il
  dittatore cambiò alleanze, nella seconda metà degli anni ’70.
  Era ben strutturato e organizzato. Da lì partivano gli aerei da
  guerra, pilotati da mercenari sudafricani, che a cavallo degli anni ’70 e ’80
  bombardavano le postazioni dei guerriglieri del Somali
  National Movement che
  combattevano nell’ex Somaliland. Gli otto agenti
  della CIA, arrivati via Nairobi dalla grossa base
  americana di Gibuti, hanno controllato lo stato
  (penoso) delle residenze dei militari e quello (buono) della pista, ma
  soprattutto hanno avuto un lungo colloquio con Mohammed
  Aden Bidar (Bidar sta per
  “pelato”, in Somalia i nomignoli sono molto più importanti dei nomi
  anagrafici), il capo delle unità antiterrorismo del Governo Federale
  di Transizione (TFG), guidato dal presidente Abdullahi
  Yusuf e del premier Mohammed
  Ali Gedi.  La base, ora presidiata dalle truppe etiopiche entrate in Somalia a Natale per combattere i fondamentalisti islamici allora al governo, sarà
  ristrutturata antro settembre e utilizzata dagli istruttori americani come
  campo d’addestramento per unità speciali somale nella lotta al
  terrorismo. Attentati di matrice islamica, anche suicidi, sconvolgono ogni
  giorno la vita di Mogadiscio che, in scala minore, si può ormai
  paragonare a Baghdad. Il Pentagono continua a sostenere che la Somalia rischia di diventare un nuovo Afghanistan dei talebani e che al Qaeda ne
  vorrebbe fare un santuario d’addestramento di terroristi.  Secondo informazioni fatte circolare, ma mai confermate, nel Paese si sarebbero stabiliti, tra gli altri, gli
  autori nel 1998 degli attentati contro le ambasciate americane di Nairobi e
  Dar es Salaam (231
  morti). In particolare i “terribili” Fazul Harun (o Fazul Abdallah, dipende dall’alias utilizzato) e Saleh Ali Saleh Nabhan. Ma i tentativi di ammazzarli con bombardamenti
  mirati, ai confini con il Kenya e sulle colline alle spalle di Bar Gaal nel nord della Somalia,
  sono falliti. I due – e altri ricercati – sono scomparsi. La crescente
  minaccia del terrorismo preoccupa gli americani non solo
  nel Cormo d’Africa ma anche nel Sahara (dove ci sarebbero basi mobili del gruppa AQIM, Al Qaeda In Isalamic Magreb), in Nigeria
  dove sono spuntati i Black Taliban, i talebani neri, e in Malawi,
  dove colonie di integralisti sbraitano sempre più forte contro gli
  occidentali.  Per rafforzare gli strumenti necessari a combattere la
  “guerra contro il terrorismo”, gli
  americani hanno avanzato l’ipotesi di costruire in Africa una grande base, un
  centro di comando che coordini tutte le operazioni nel continente (raccolta
  di informazioni, addestramento di unità locali, pronto intervento e interventi umanitari), l’Africom.
  Una delegazione americana, guidata dal vice sottosegratario
  alla Difesa, Ryan Henry,
  ha visitato diversi paesi del nord Africa alla disperata ricerca di qualcuno
  che potesse offrire accoglienza. Nonostante le
  promesse di grandi investimenti e di decine di posti di
  lavoro, l’ospitalità è stata negata da Marocco (il migliore
  alleato degli USA nell’area), Mali, Algeria, Libia (riammessa ora nel salotto
  buono di Bush) ed Egitto. I rischi che gli integralisti intensifichino le
  loro azioni di lotta contro chi accetti truppe dello
  zio Sam sul suo territorio sono enormi. Nell’Africa
  nera l’accoglienza è stata migliore. Un po’ perché il sogno americano
  (oggi rappresentato dalla candidatura alle primarie per la Casa Bianca di Barak Obama, figlio di un
  musulmano keniota) è ancora vivo, un po’ perché una base porta
  un’enorme quantità di denaro. La lotta al terrorismo, inoltre, non
  è solo militare. L’ammiraglio William Mc Raven, capo dei piccoli drappelli di istruttori che ora
  addestrano le truppe di Ciad, Niger, Mali e Mauritania nel Sahara (Trans Sahara Counter Terrorism Partnership), è stato chiaro: “Dobbiamo
  rafforzare i governi e assistere le popolazioni, per togliere ai terroristi
  l’acqua in cui nuotano”. In parole più chiare aiuti per milioni di
  dollari a chi collabora con il Pentagono.  Massimo A. Alberizzi 10 luglio 2007 |