| HOME    PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli     Documento d’interesse   Inserito il 28-8-2007 | |||
| 
 | |||
| Il
  Corriere della Sera del 28-8-2007 L'italiano, manuale contro i misfatti verbali Esce il nuovo
  libro di Beppe Severgnini. Un ironico viaggio
  all’interno del nostro modo di parlare e scrivere  Per riabilitare una
  lingua bistrattata Il congiuntivo è
  morto, dicono. Omicidio, suicidio o
  evento accidentale? Nessuna di queste cose. Credo si tratti della conseguenza
  logica di un fenomeno illogico. Sempre meno italiani, quando parlano,
  esprimono un dubbio; quasi tutti hanno opinioni categoriche su ogni argomento
  (vino e viaggi, case e calcio, sesso e sentimenti). Pochi dicono: «Credo che
  col pesce si possa bere anche il vino rosso». I più affermano: «Credo
  che col pesce si può bere anche il vino rosso» (poi ordinano Tavernello bianco frizzante).  La crisi del congiuntivo non
  deriva dalla pigrizia, ma dall’eccesso
  di certezze. L’affermazione Speravo che portavi il
  gelato non è solo brutta: è arrogante («Come si permette, questo
  qui, di venire a cena senza portare il gelato?»). La frase «Speravo (che)
  portassi il gelato» è invece il risultato di una piccola illusione,
  cui segue una delusione contenuta e filosofica. Accade, nella vita, che la
  gente dimentichi di portare il gelato.  Il momento difficile del
  congiuntivo ha anche una concausa: la
  fretta con cui scriviamo. Solo così si spiega questo lancio dell’Ansa
  del 14 giugno 2007, dove si attribuisce ad Al Gore
  un periodo ipotetico quanto meno avventuroso. «Stiamo di fronte a un’emergenza
  planetaria — ha spiegato. — La calotta polare potrebbe sparire in 35 anni e
  se consentissimo che avvenissimo, ci sarebbero conseguenze così
  incredibili da distruggere le nostre categorie di giudizio».  Ma la crisi del congiuntivo —
  ripeto — ha un’origine chiara: pochi oggi pensano, credono e ritengono; tutti sanno e
  affermano. L’assenza di dubbio è una caratteristica della nuova
  società italiana.Afuria di sentirci dire
  (dalla pubblicità, dalla televisione, dalla politica) che siamo belli,
  giusti e simpatici, abbiamo finito per crederci.  Chi esprime cautela (e usa il
  congiuntivo) rischia di passare per
  insicuro. Non da oggi, a dire il vero. Ricordo l’esame per diventare
  giornalista professionista, a Roma. Vivevo a Londra, in quel periodo; e durante
  la prova orale iniziavo ogni risposta con «Credo che
  sia...», «Misembra si tratti...»
  L’esaminatore s’è irritato: «Smetta di dire "credo..." e "mi sembra..."
  Le cose le sa o non le sa!». Gli ho risposto: «Vivo
  in un Paese dove dicono I believe... (io credo)
  anche prima di comunicare l’ora esatta: l’orologio potrebbe essere fermo».  Mi rendo conto d’aver
  sbagliato. Gli orologi degli scongiuntivati vanno sempre. È la testa, ogni
  tanto, che si ferma. Qualcuno penserà: allora l’affermazione
  «Penso che Luca è un somaro» è scorretta! No, è
  corretta. In questo caso, «io penso» equivale a «io
  so» (cui segue, ovviamente, l’indicativo). «Penso che Luca sia un somaro»
  lascia aperta la possibilità che Luca non lo sia. «Penso che Luca
  è un somaro » smette di essere un’ipotesi, e diventa una
  constatazione: Luca ha dato prova di tutta la sua somaraggine, e non è
  più lecito dubitarne.  Chi altri è
  autorizzato a ignorare il congiuntivo?
  Vediamo: Dante e Cipputi, per esempio.  La scelta dantesca mi
  è stata spiegata da Francesco Sabatini dopo una visita alla Crusca: «Le mando uno
  spiedino di indicativi per congiuntivi nei nostri santi padri: non
  "sviste", ovviamente, ma cedimenti all’uso parlato, tendente alla
  semplificazione morfosintattica (che avrebbe fatto
  altri passi già prima di ora, se l’italiano si fosse diffuso
  ampiamente per tempo)».  L’abitudine di Cipputi è illustrata invece da Edmondo Berselli
  nell’introduzione dedicata all’eroe di Altan: «...
  abbiamo tutti alle spalle questa lingua italiana di fabbriche e di classi
  popolari, che ricorda le case di ringhiera e i casermoni delle periferie, che
  distorce e sbaglia i congiuntivi canonici, ma segnala una cultura che ha
  capito i processi di omologazione della modernità e si rifiuta di
  accettarli nonostante le lezioni televisive ».  Convincenti entrambi, direi. E, in modi diversi, premonitori. Giorgio De Rienzo,
  autore di Scioglilingua. Guida alla grammatica italiana (2006), ammette:
  «L’uso la vince sempre nella lingua: congiuntivi e condizionali avranno vita
  breve». A questa profezia aggiunge però una preghiera: «Sarebbe bello
  tentare di resistere per restituire al nostro tempo, tutto proiettato
  (apparentemente) su ciò che è oggettivo e reale, il molto che
  è invece soggettivo e possibile». Come dire: il congiuntivo è
  malato, ma per il funerale c’è tempo.  Ho assistito alla Giornata
  dell’Orientamento all’Istituto Luca Pacioli di Crema, la mia città (...). Ero in
  un’aula, seduto dietro al solito banco acquamarina, che è il colore
  dei ricordi per milioni di noi. Stavano parlando tre ex alunne, ora ventenni:
  Laura, che lavora in un’assicurazione; Simona e
  Alessandra, impiegate come programmatrici in azienda.Aun
  certo punto, sono rimasto di stucco. Laura ha detto: «Non pensavo mi
  assumessero...». Simona ha spiegato: «Se non avessi studiato qui...».
  Alessandra ha concluso: «Spero che quello che ho appena detto vi abbia
  interessato». Sbalorditivo: tre italiane su tre che usavano i congiuntivi.  Ora, io non vorrei sembrare
  snob, né pedante come i vecchi
  professori di liceo (che nostalgia; non se ne può più di tutta
  questa gente interessante). Ma vi assicuro che se quello fosse
  stato un colloquio di lavoro, le avrei assunte tutt’e tre. Beppe Severgnini 28 agosto 2007 |